martedì 11 dicembre 2018


LA GATTA
Colette
© Editions Bernard Grasset, 1933
Titolo originale: La Chatte
Traduzione di Enrico Piceni
© Sellerio editore, 1993
Eran le dieci e i giocatori del poker familiare cominciavano a dar segni di stanchezza. Camilla lottava contro la fatica di rimaner desta come si lotta a diciannove anni: vale a dire che, a tratti, ritornava chiara e fresca, poi sbadigliava dietro le mani congiunte e ricompariva pallida, col mento bianco, conle guance un po’ nere sotto la cipria color d’ocra e una lagrimuccia all’angolo degli occhi.
«Camilla, dovresti andare a letto.»
«Alle dieci, mamma, alle dieci! Come si può andare a letto
alle dieci?»
E con lo sguardo chiamava a testimone il fidanzato, già vinto in fondo ad una poltrona.
«Li lasci fare, – disse un’altra voce materna. – Devono ancora aspettarsi per sette giorni. In questo momento han l’aria un poco intontita, e si capisce.»
«Appunto: ora più, ora meno… Camilla, dovresti proprio andare a letto… E anche noi.»
«Sette giorni! – esclamò Camilla. – Sicuro, oggi è lunedì: ed io che non ci pensavo! Alain, vieni, Alain!»
Scagliò la sigaretta in giardino, ne accese un’altra, mescolò e tagliò il mazzo del poker abbandonato e dispose le carte in modo cabalistico.
«Vediamo un poco se la bella piccola macchina, il roadster nuovo per noi ragazzi, arriverà prima della cerimonia… Guarda, Alain, non c’è trucco: eccolo che arriva, col viaggio e la notizia importante…»
«Chi?»
«Ma il roadster, andiamo!»
Senza alzar la nuca, Alain girò il capo verso la portafinestra spalancata dalla quale entrava un dolce profumo di spinaci e di fieno fresco, perché avevan rasato i prati, quel giorno. Anche il caprifoglio, che ammantava un grande albero morto, offriva il miele dei suoi primi fiori. Un tinnir di cristalli annunciò che, sulle braccia tremanti del vecchio Emilio, facevano il loro ingresso gli sciroppi delle dieci, e l’acqua fresca: Camilla si levò per riempire i bicchieri. Servì per ultimo il fidanzato e gli offri il bicchiere appannato con un sorriso di complicità. Lo contemplò mentre beveva, e di colpo fu turbata dalla bocca di lui che premeva sull’orlo del bicchiere. Ma Alain si sentiva stanco e rifiutò di partecipare a quel turbamento: si limitò a stringere un poco le dita bianche, le unghie rosse protese a riprendere il bicchiere vuoto.
«Vieni a colazione, domani?» gli chiese Camilla sottovoce.
«Domandalo alle carte.»
Camilla fece un passo indietro ed abbozzò una mimica clownesca:
«Mai canzonare Ventiquattr’ore! Poter canzonare coltelli in croce, canzonare soldi bucati, canzonare cinema sonoro, canzonare Padreterno…».
«Camilla!».
«Oh, scusa, mamma… Ma non scherzare con Ventiquattr’ore. Lui buon piccolo diavolo, nero rapido gentil messaggero, fante di picche sempre smanioso…»
«Smanioso di che?»
«Ma di parlare, si capisce! Pensa un po’: porta le notizie delle prossime ventiquattr’ore e anche di quarantotto! Se lo accompagni con due carte in più a destra e a manca predice tutta la settimana…»
Parlava in fretta grattando con l’unghia acuta, agli angoli delle labbra, due piccole sbavature di belletto rosso. Alain la stava a sentire senza noia e senza indulgenza: la conosceva da molti anni e le dava il suo esatto valore di giovinetta moderna. Sapeva come guidasse l’automobile, un po’ troppo in fretta, un po’ troppo bene, con un grosso improperio sempre pronto, sulla bocca fiorita, per i conducenti di tassi. Sapeva che mentiva senza arrossire come i bimbi e gli adolescenti, ch’era capace di ingannare i genitori per raggiungere Alain dopo pranzo nei locali notturni, dove ballavano insieme: ma bevevano solo aranciate perché ad Alain l’alcool non piaceva.
Prima del loro fidanzamento ufficiale gli aveva concesso, al sole e all’ombra, le sue labbra (dopo averle prudentemente pulite), i suoi seni impersonali sempre prigionieri di una doppia tasca di tulle e di pizzo, e le sue bellissime gambe inguainate da calze impeccabili comperate di nascosto, calze «come quelle di Mistinguett, sai? Attento alle mie calze, Alain!». Le sue calze, le sue gambe: ecco quel che aveva di meglio.
“E’ graziosa – commentava Alain fra sé – perché nessuno dei suoi lineamenti è brutto, perché è regolarmente bruna e il brillar dei suoi occhi si accorda coi capelli puliti, lavati sovente, ingommati e color pianoforte nuovo.”Sapeva anche che poteva diventare, a tratti, brusca e ineguale come un fiume di montagna.
Camilla parlava ancora del roadster.
«Ma no, papà, figurati se permetterò che Alain guidi durante la nostra traversata della Svizzera! E’ troppo distratto, e poi, in fondo non gli piace veramente stare al volante. Lo conosco bene, io!».
“Mi conosce lei, – ripetè Alain fra sé. – Forse lo crede davvero. Anch’io le ho ripetuto venti volte: Ti conosco, ragazza mia! E anche Saha la conosce. A proposito, dov’è questa Saha?”.
Volse in giro lo sguardo in cerca della gatta e si sradicò dalla sua poltrona, prima una spalla, poi l’altra, poi le reni, e il sedere per ultimo; discese piano piano i cinque gradini della scalinata d’ingresso. Il giardino, vasto, circondato da altri giardini, esalava nella notte l’odor grasso della terra da fiori nutrita, provocata senza posa alla fertilità. Da quando era nato Alain la casa aveva subito pochi mutamenti. “Una casa da figlio unico” pensava Camilla, che non dissimulava il proprio disprezzo per il tetto a pan di zucchero, per le finestre dei piani superiori incastrate nell’ardesia, e per certi modestissimi fregi ornamentali ai lati delle portefinestre del pianterreno. Anche il giardino, come Camilla, pareva disprezzasse la casa. Altissimi alberi, dai quali pioveva la nera peluria calcinata che gli olmi perdono quando sono molto vecchi, la nascondevano agli occhi dei vicini e dei passanti. Un poco più lontano, in un «terreno da vendere», nel cortile di un liceo si potevano ritrovare gli stessi vecchi olmi, sperduti a coppie, relitti di una quadrupla e principesca allea, vestigia di un parco devastato dalla nuova Neuilly.
«Alain, dove sei?»
Camilla lo chiamava dall’alto della scalinata, ma per capriccio egli si astenne dal rispondere e raggiunse le tenebre più sicure, tentando col piede gli orli del praticello rasato. A sommo del cielo stava una luna velata, resa più grande dalla bruma delle prime giornate tiepide. Un solo albero – un pioppo dalle giovani foglie verniciate raccoglieva il chiaror lunare, e gocciolava la luce come una cascata. Un riflesso argenteo si slanciò fuor da un macchione, guizzò come un pesce contro le gambe di Alain.
«Ah, eccoti, Saha! Ti cercavo. Perché non sei venuta a tavola, questa sera?»
«Meruenn, – rispose la gatta, – meruenn.»
«Come, meruenn? E perché meruenn? Che maniera di parlare è mai questa?»
«Meruenn, – insistè la gatta, – meruenn.»
Alain accarezzò teneramente, a tentoni, la lunga schiena più morbida che un pelame di lepre, si trovò sotto le dita le piccole narici fresche, dilatate da un attivo ronron.
“E’ la mia gatta, la gatta mia, mia…”
«Meruenn, – diceva bassissimo la gatta, – ruenn.»
Un nuovo richiamo di Camilla giunse dalla casa, e Saha scomparve sotto una siepe di fusari tagliati, verdeneri come la
notte.
«Alain! Ce ne andiamo!»
Egli corse verso la scalinata, accolto dal riso di Camilla.
«Vedo i tuoi capelli che corrono, – gridava la fanciulla. – Ma come si fa ad esser così biondi?»
Alain affrettò la corsa, superò d’un balzo i cinque scalini e trovò Camilla sola in salotto.
«E gli altri?» le chiese sottovoce.
«Guardaroba, – diss’ella sullo stesso tono. – Guardaroba e visita ai “lavori”. Desolazione generale. “Sempre allo stesso punto! Non si finirà mai!”. E noi, come ce ne infischiamo! Se fossimo furbi lo terremmo per noi lo “studio” di Patrick. Patrick se ne cercherà un altro. Vuoi che me ne incarichi io?»
«Ma Patrick lascerà il suo studio solo per farti piacere!»
«Naturalmente! E’ proprio di questo si approfitta!»
Ella era raggiante di una immoralità esclusivamente femminile, alla quale Alain non riusciva ad abituarsi. Ma egli la rimproverò soltanto per quel «si approfitta» in luogo del «noi». Camilla credette ad un rimprovero dettato dalla tenerezza.
«La prenderò presto, l’abitudine di dire noi…»
Per dargli la tentazione di baciarla, ella spense, come per gioco, la luce centrale; l’unica lampada rimasta accesa sopra un tavolino proiettò dietro la giovinetta un’ombra nitida e lunga, Camilla, colle braccia rialzate e annodate dietro la nuca, invitava Alain collo sguardo; ma quello non aveva occhi che per l’ombra.
“Com’è bella sul muro! Di una giusta snellezza, proprio come piacerebbe a me. ”
Sedette per confrontare la persona con l’ombra. Lusingata, Camilla arcuò la vita, sporse i seni e fece «la baiadera»: ma l’ombra conosceva quel gioco meglio di lei. Snodando le mani la giovinetta avanzò, preceduta dall’ombra esemplare. Giunta alla portafinestra spalancata, l’ombra balzò da un lato, fuggi nel giardino sulla ghiaia rosea di un viale, strinse, nel passare, tra le sue lunghe braccia, il pioppo rorido di luna…
«Peccato!» sospirò Alain. E rimproverò mollemente a se stesso la propria inclinazione ad amare, in Camilla, una forma migliorata o immobile di Camilla, quell’ombra, per esempio, o un ritratto, o il ricordo vivace ch’ella gli lasciava di certi abiti, di certe ore…
«Che cos’hai, questa sera? Vieni almeno ad aiutarmi a indossar la mia cappa.»
Alain fu urtato dal sottinteso di quell’«almeno”, anche dal fatto che Camilla, varcando prima di lui la porta che conduceva in guardaroba e in cucina, avesse alzato impercettibilmente le spalle.
“Non ha proprio bisogno di alzarle, le spalle: ci pensano la natura e l’abitudine. Quando si abbandona, l’attaccatura del collo la fa apparire insaccata. Leggermente, leggermente insaccata. ”
In guardaroba trovarono la mamma di Alain e i genitori di Camilla che battevano i piedi – come se avessero freddo – sul tappeto di corda, lasciandovi tracce color di neve sporca. La gatta seduta sul davanzale esterno della finestra li guardava con uno sguardo poco ospitale, ma senza malanimo. Alain prese a modello la pazienza di Saha e sopportò le rituali manifestazioni di pessimismo.
«Fare e disfare…»
«In otto giorni non s’è mosso un passo avanti…»
«Se devo dire proprio quel che penso, ci vorrà un mese, ma che dico? due mesi ci vorranno, mia cara, prima che il loro nido…»
Alla parola «nido» Camilla si precipitò nella pacifica mischia in modo così brusco che Alain e Saha chiusero gli occhi.
«Ma dal momento che abbiamo rimediato a tutto! Anzi, sarà un divertimento accamparci in casa di Patrick: e per lui sarà una bazza perché è in bolletta… scusa mamma, è senza un soldo… Si fanno le nostre valigie e – hoplà – in pieno cielo, al
nono piano… Vero, Alain?»
Egli riapri gli occhi, sorrise vagamente, e le posò la cappa chiara sulle spalle. Lo specchio, in faccia a loro, gli rimandò lo sguardo di Camilla, scuro di rimprovero: non ne fu intenerito.
“Non l’ho baciata sulla bocca mentre eravamo soli. Ebbene, no, non l’ho baciata sulla bocca. Oggi non ha avuto il suo saldo di ‘baci-sulla-bocca’. Ha avuto il bacio di mezzogiorno meno un quarto in un viale del Bois, quello delle due, dopo il caffè, quello delle sei e mezzo in giardino: le manca quello della sera. Bene: lo noti a mio debito, se non è contenta… Ma che ho? Sono ubriaco di sonno. Che vita idiota!.Ci vediamo troppo e male. Lunedì me ne andrò tranquillamente in fabbrica e…
Sentì coll’immaginazione salirgli alle narici l’acidità chimica delle pezze di seta nuova. Ma il sorriso impenetrabile del signor Veuillet gli apparve come in sogno, e come in sogno udì parole che, a ventiquattr’anni, non aveva ancora disimparato a temere: “No, no, mio giovane amico: la spesa di una nuova macchina contabile che costa diciassettemila franchi può essere ammortizzata nel corso dell’anno? Ecco il problema. Permetta al più vecchio collaboratore del suo povero babbo…”.
E ritrovando nello specchio l’immagine vendicativa, i begli occhi neri che lo scrutavano strinse Camilla fra le braccia.
«Ma Alain!»
«Lasciali fare, cara… Poveri ragazzi!» Camilla arrossi, e si liberò dalle braccia di Alain, poi gli offri la guancia con una grazia così fraterna e compagnona che Alain fu lì lì per
rifugiarsi sulla sua spalla: “Andare a letto, dormire… Oh, Dio
mio, andare a letto, dormire…”.
Dal giardino giunse la voce della gatta: «Meruen…Rrrruen».
«Senti la gatta! E’ certo in caccia, – disse serenamente Camilla. – Saha! Saha!» La gatta tacque.
«In caccia? – protestò Alain. – Ma che dici? Anzitutto siamo in maggio, e poi dice meruen.» «E allora?»
«Non direbbe meruen se fosse in caccia. Quello che senti ora, cosa molto strana tra parentesi, è l’avvertimento, il grido, quasi, per chiamare a raccolta i piccoli.»
«Signore Iddio! – gridò Camilla alzando le braccia. Se Alain si mette ad “interpretare” la gatta non la finiamo più!»
Discese a balzi gli scalini, mentre sotto la mano tremolante.del vecchio Emilio, due grossi pianeti azzurrini – alla moda antica – si accendevano in giardino. Alain camminava con Camilla, davanti agli altri. Al cancello, la baciò dietro l’orecchio, respirò, attraverso un.profumo che la invecchiava, un buon odore di pane e di pelame oscuro e strinse, sotto al mantello, i gomiti nudi della giovinetta. Quand’ella sedette al volante davanti ai genitori, si sentì sveglio e allegro.
«Saha! Saha!»
La gatta scaturì dall’ombra, quasi sotto i suoi piedi, si mise.a correre quand’egli si mise a correre, lo precedette a lunghi balzi. Egli la intuiva, senza vederla; Saha fece irruzione prima di lui nell’atrio, e ritornò ad attenderlo a sommo della scalea. Con la gorgiera gonfia, le orecchie abbassate, lo guardava arrivare provocandolo con lo sguardo dei suoi occhi gialli, profondamente incastonati, sospettosi, fieri, padroni di se stessi..
«Saha! Saha!»
Pronunciato in un certo modo, a mezza voce con l’acca fortemente aspirata, il suo nome la rendeva folle: essa frustò l’aria con la coda, balzò sul tavolino da poker e colle sue mani di gatta ben aperte sparpagliò le carte da gioco.
«Quella gatta, quella gatta! – disse la voce materna. – Non ha alcuna nozione dell’ospitalità. Guarda com’è contenta che i nostri amici se ne siano andati!» Alain uscì in una risata infantile, la risata che riserbava alla casa e alla stretta intimità, la risata che non oltrepassava il viale degli olmi e il cancello nero. Poi sbadigliò freneticamente.
«Dio, che aria stanca hai! Come si può aver l’aria tanto stanca quando si è felici? Vuoi ancora un po’ d’aranciata? No? Allora possiamo salire… Lascia, penserà Emilio a spegnere»
“Mamma mi parla come se fossi convalescente, o come se stessi per avere una ‘ricaduta’ di febbre tifoide…”
«Saha, Saha! Che diavolo scatenato! Alain, non potresti ottenere che quella gatta…»
Per un sentiero verticale a lei noto, e segnato sul broccatello consunto della tappezzeria, la gatta s’era arrampicata fin quasi al soffitto. Un attimo imitò la lucertola grigia, appiattita contro il muro, colle zampe ben divaricate, poi finse un attacco di vertigine ed arrischiò un piccolo, manierato grido di richiamo. Docilmente Alain venne a porsi sotto di lei, offri le spalle e Saha discese incollata al muro come una goccia di pioggia lungo un vetro: approdò sulla spalla di Alain, poi insieme raggiunsero la loro camera da letto. Un lungo grappolo di citiso pendulo, nero davanti alla finestra aperta, divenne un lungo grappolo giallo chiaro quando Alain accese la lampada centrale e la piccola lampada vicino al cuscino.
Versò la gatta sul letto inclinando la spalla e si mise a gironzolare fra la camera e il bagno, da uomo stanco, troppo
stanco per decidersi ad andare a letto.