DUE SICILIE (2)
FONSECA
Alexander Lernet-Holenia
Traduzione di Cesare De Marchi
Adelphi eBook
FONSECA
1
Il funerale ebbe luogo soltanto quattro giorni dopo, alla presenza anche dei compagni di reggimento del morto. Questi erano, oltre Rochonville, il maggiore Lukawsky, il sottotenente Fonseca e il tenente Silverstolpe, nonché il caporale Slatin. Il capitano di cavalleria Marschall von Sera non era venuto: lo tratteneva altrove un impegno irrinunciabile, e se ne scusava.
Doveva essere stato desiderio del defunto, espresso peraltro in forma occasionale e senza alcun sospetto di una prossima dipartita, venir sepolto in uniforme – non già la semplice, ma quella dai molteplici colori. Questo almeno asseriva il vecchio Engelshausen. Rochonville e Silverstolpe, inoltre, avevano visto il morto nella camera ardente. Negli anni dopo la guerra Engelshausen doveva essersi ingrossato. L’uniforme non gli si chiudeva più sul petto, o comunque non c’era stato verso di agganciare i bottoni. Si era dunque finito per fermare la giacca con alcuni spilli. La si sarebbe anche potuta tagliare dietro e abbottonare davanti, ma quest’idea – evidentemente – non era venuta a nessuno.
Sul petto il morto non aveva la minima decorazione. C’era solo l’azzurro della giacca che pareva ancora singolarmente nuovo, come pure il colore dei risvolti e, al confronto, l’oro delle stellette e delle spalline risultava un po’ sbiadito e lasciava trasparire il rosso del fil di rame. Come passa il tempo! Già si cominciava a notarlo. Soltanto ieri quegli oggetti lustravano, così almeno sembrava. Frattanto l’espressione sul volto di Engelshausen era di nuovo mutata. Egli adesso pareva un vecchio dal naso affilatissimo, e neppure la benda bianca che gli fasciava la fronte, e che in altra circostanza gli avrebbe conferito un che di giovanile, poteva cancellare quell’impressione. Il graffio, che gli attraversava la guancia dallo zigomo al naso, si era scurito prendendo un color grafite, quasi fosse un frego di matita sulla faccia.
Silverstolpe, ritenendo che la giacca di Engelshausen potesse venir chiusa meglio di quanto non lo fosse ora, si accostò al morto e con l’aiuto degli spilli sovrappose le falde della giacca.
Così facendo si sovvenne del verso in cui – ora che aveva molto tempo per leggere – doveva essersi imbattuto di recente:
Vous lui remettrez son uniforme blanc.
Engelshausen fu sepolto sotto la pioggia, anzi sotto un vero diluvio. È curioso che, qualunque tempo faccia, esso non sembri mai adatto a tali circostanze. O piove, o fa troppo caldo, o il tempo è spensieratamente ameno, insomma: le esigenze poste da una simile circostanza non sono contemplate dalla natura. La parentela degli Engelshausen era convenuta in larga parte, tutta gente di bell’aspetto, che ora non se la passava bene, ma che sapeva portare con un certo decoro persino gli ingrati vestiti a lutto. C’erano anche molti invitati di quella sera dai Flesse, e in particolare i due padroni di casa. Gabrielle Rochonville non era presente. Il colonnello notò con compiacimento l’assenza di quel «chiacchierone» di Gasparinetti. Dalle molte corone funebri pendevano nastri con scritte quali: «All’unico figlio i genitori affranti», «Al compagno d’armi defunto gli ufficiali e la truppa del reggimento Due Sicilie», dov’era sottinteso il consenso di tutti coloro che non sapevano nulla della cosa.
Non ci furono discorsi funebri. Del resto non ci sarebbe stato da dire molto più di questo: che la buonanima non aveva, tragicamente, conseguito nulla: non la morte, non la vita – benché sia difficilissimo dire quale sia lo scopo reale di una vita o di una morte. Può essere che una vita breve abbia raggiunto il suo scopo, e può essere che una vita lunga sia senza scopo. Del resto l’intero funerale si svolgeva, per così dire, a fianco della realtà. Si percepiva che il mondo vero e proprio non vi aveva parte. Era quella un’epoca in cui non si amava la morte, senza peraltro saper vivere realmente.
Verso la fine della cerimonia smise di piovere. Poi, a gruppi, i convenuti lasciarono il cimitero. Gli ufficiali, tra di loro, commentavano il caso. Al sottufficiale, che si era tenuto rispettosamente in disparte, ognuno porse la mano, sì che quegli si accostò ad ascoltare la conversazione.
«I giornali» diceva Lukawsky «non pubblicano nuovi particolari. Io ritengo nondimeno possibile che l’indagine faccia progressi, anzi è senz’altro verosimile. Qualche altra cosa salta sempre fuori. Dalle mie cugine Cernuschio ho appreso che il commissario designato a indagare sul caso è un loro conoscente. Ho subito chiesto che mi invitino insieme a lui. Non si tratta però dello stesso che era dai Flesse. Alla commissione omicidi spettavano soltanto gli accertamenti. L’indagine vera e propria è poi passata a un’altra commissione – mi hanno spiegato –, e anche il commissario è stato sostituito. Comunque adesso è un altro. È uno dei Gordon. Sua madre era una Lang, dei Lang di Eggendorf. I Gordon erano proprietari minerari in Carinzia. Sono anche imparentati con i Chazal.
«Mi sono trovato innanzi un uomo ancora giovane, con una faccia rubizza e un po’ gonfia, come in seguito a un congelamento. Tutti i Gordon hanno delle facce così. Vestiva un abito di stoffa scozzese veramente pregevole. I Gordon hanno sempre fatto un certo sfoggio delle loro relazioni con l’industria estera. Mia madre sostiene che è facoltoso. Perché sia entrato nella polizia non è dato saperlo. Forse volevano così in famiglia, per ragioni pratiche.
«Quando ha sentito che conoscevo Engelshausen, ha mostrato interesse, o forse ha solo fatto finta. Oppure ha simulato un interesse di pura cortesia, mentre interessato lo era davvero. Parlando con me aveva un sorriso convenzionale, tra l’affaristico e il mondano, come ce l’hanno tutti i Gordon, magari ritengono d’essere considerati uomini d’affari troppo abili perché li si possa poi prendere per semplici uomini di mondo. Sullo stato delle indagini, a quanto sembrava, non voleva lasciarsi scappare nulla, forse perché non sono ancora approdate a nessun risultato, forse perché veramente non gli è consentito dire nulla. Stava lì seduto, come se non avesse mai fatto altro che sedere davanti a una tazza di tè, e si fingeva del tutto incompetente a saper qualcosa, dal momento che – come asseriva – c’erano tanti e tanti altri a occuparsi del caso, caso al quale, come in ogni altra faccenda pubblica, nessuno aveva un interesse personale. I Gordon hanno sempre fatto finta che nulla li riguardasse, finché non saltava fuori che avevano le mani in pasta dappertutto. Comunque cavargli qualcosa di bocca era un’impresa. Parlava sempre e solo riferendo notizie date dai giornali, che citava con cieca fiducia. Ora, tutti quelli che erano dai Flesse affermano che l’autore del delitto può essere entrato soltanto dalla finestra. La polizia, invece, sembra non desistere dall’idea che sia stato uno degli invitati. A corroborare questa tesi sta il fatto che se davvero un estraneo fosse entrato improvvisamente dalla finestra, Engelshausen avrebbe di sicuro gridato; e del resto nulla, come per esempio un certo disordine nella stanza e simili – a parte il graffio sulla guancia della vittima –, lascia credere che vi sia stata una colluttazione, anzi che Engelshausen sia rimasto anche solo stupito della comparsa improvvisa di qualcuno. Deve essere stato dunque uno degli invitati, a meno che Engelshausen non abbia proprio notato l’uomo che gli si appressava da dietro. In ogni caso costui, nel mettere a segno il suo proposito, deve anzitutto aver tappato con una mano la bocca alla sua vittima, per prenderle poi la testa fra le mani e spezzarle così, letteralmente, l’osso del collo.
«Non so però capacitarmi che un invitato dei Flesse abbia potuto risolversi a un atto del genere. Quand’anche fossimo disposti a commettere un omicidio, a noialtri non passerebbe mai per la testa di torcere il collo a qualcuno, come a una gallina – a prescindere dal fatto che non ne saremmo materialmente in grado. E poi non si capisce perché l’assassino, se non per un attacco improvviso di indescrivibile furore, abbia agito in casa dei Flesse, in mezzo a tante altre persone che sarebbero potute entrare in ogni momento nella stanza, anziché aspettare un’occasione e un luogo più propizi. Del resto il motivo rimane completamente oscuro. Ho chiesto a Gordon se Engelshausen conduceva una vita sregolata, tale da procurargli nemici. Io in effetti – dissi – lo conoscevo soltanto di sfuggita, sicché non potevo arrogarmi il diritto di giudicare, né lui né il suo stile di vita. Gordon rispose però che, per quanto era venuto a saperne, la vita di Engelshausen era la più mediocre e comune ci si possa immaginare. E come sarebbe potuto essere altrimenti! Avrei ben dovuto aspettarmi una risposta del genere, data la natura del mio interlocutore. Domandai allora se lui, Gordon, nell’impossibilità di ipotizzare un altro plausibile movente del delitto, non pensasse che fosse avvenuto a causa di una donna. Ma Gordon rispose subito che Engelshausen aveva di sicuro avuto solo fuggevoli rapporti con le donne».
Il colonnello, che era avanzato d’un mezzo passo rispetto agli altri, alzò gli occhi. «Che cosa intendi con questo?».
«Signor colonnello?» disse Lukawsky.
«Che cosa intendi parlando di relazioni fuggevoli con le donne? O meglio: che cosa intendeva quell’uomo, il commissario, con queste parole?».
«Con ogni evidenza,» rispose Lukawsky «voleva dire che Engelshausen non prendeva troppo sul serio quel genere di cose e che, per converso, probabilmente neppure le donne a cui si interessava davano particolare importanza a lui».
«Ah sì?» disse il colonnello. «E come fa a saperlo?».
«Immagino da informazioni che avrà raccolte sul passato di Engelshausen».
«Ma in questo caso non può essere una donna il movente del delitto».
«No di certo» disse Lukawsky. «C’è solo da chiedersi se il ragguaglio che mi ha dato il commissario corrisponda alle sue effettive opinioni. Io questo non lo so, posso dire soltanto che con quel suo modo di prendere ogni cosa alla leggera ha finito per ottenere il contrario di quanto forse si prefiggeva – perlomeno con me, visto che l’ho lasciato, in fondo, con la convinzione che ne sappia più di quanto mi ha rivelato. Certo non era tenuto a dirmene qualcosa; al contrario, non ne aveva – con ogni evidenza – neppure il diritto».
Il colonnello, dopo un attimo, disse: «Insomma, tu quindi credi che il movente possa essere stato una donna».
«Non lo credo» disse Lukawsky. «Ritengo solo che non sia escluso».
Il colonnello tacque, e dal momento che con le sue domande aveva in certo senso tratto a sé la conversazione, tacquero anche gli altri. Ma nel frattempo erano arrivati al cancello del cimitero, e il caporale chiese di potersi accomiatare. Il colonnello gli porse la mano guardandolo distrattamente, dopodiché gli diedero la mano anche gli altri.
«Ma lei come sta, Slatin?» domandò Silverstolpe.
Il caporale ringraziò.
«E sua moglie? E il bambino?» continuò Silverstolpe.
«Bene anche loro» rispose il caporale. Quindi salutò.
«Probabilmente» disse Silverstolpe seguendolo con lo sguardo «sta meglio di noi». Slatin era stato uno dei suoi. Non sapevano che vivesse a Vienna, fin quando Silverstolpe l’aveva incontrato per caso. Al reggimento Silverstolpe non aveva avuto l’impressione che Slatin fosse un buon sottufficiale. Adesso era una figura modesta, ma assolutamente ammodo. «La sventura che ti casca addosso,» disse Lukawsky, cui piaceva riflettere «la sventura non serve mica a cavartene fuori. Il suo unico senso è che tu la sopporti decorosamente»; in risposta Silverstolpe manifestò il dubbio che Slatin considerasse una grande sventura i mutamenti sopravvenuti nella sua esistenza.
Il caporale si era sposato subito dopo la guerra e ora mandava avanti il negozio lasciatogli dai suoceri. Aveva una figliola, una bella bambina, che Silverstolpe aveva vista una volta. «Forse ci saremmo dovuti sposare anche noi» disse Silverstolpe. Lukawsky in realtà aveva moglie. Gli altri però erano scapoli impenitenti.
Erano indecisi se prendere una vettura, ma siccome il colonnello puntò senza parlare in direzione del tram, gli altri vi montarono con lui. Fonseca sosteneva sempre che il colonnello viaggiava in tram per principio e con una certa dignità. Durante il tragitto, tutti stretti sui sedili, tirarono a sé gli ombrelli bagnati. Dappertutto, infatti, anche nel corridoio, c’era gente in piedi. Fonseca parlava con Silverstolpe. Il colonnello invece taceva, e così pure Lukawsky.
Arrivati al Ring scesero, e subito dopo il colonnello salutò, quasi volesse assolutamente evitare di tornar sull’argomento rimasto in sospeso al cimitero. Gli uomini fecero un inchino formale. «Spero che ci rivedremo in un’occasione meno triste di questa» disse il colonnello.
Quindi si allontanò in direzione del parco cittadino.
Lukawsky lo seguì con lo sguardo. E infine si rivolse agli altri due dicendo: «Gradirei scambiare ancora due parole con voi, da me».
«A casa tua?» chiese Silverstolpe.
«Sì. Ho ancora diverse cose da discutere, che non intendevo menzionare in presenza del colonnello».
«Prego» disse Silverstolpe dopo un istante.
Andarono a piedi, e cammin facendo parlarono di cose irrilevanti. Lukawsky abitava nella Marokkanergasse, dove aveva preso in affitto alcune camere di modeste pretese. Sua moglie aprì agli ospiti. Mentre questi si sfilavano i cappotti, egli scambiò due parole con la donna, che fece portare il tè. Dopo una mezz’ora, ella si scusò e uscì dalla stanza.
«Mi dispiace» disse Lukawsky quando la moglie li lasciò soli «che Marschall non si sia fatto vedere, avrei voluto parlare anche con lui».
«Mi aveva fatto sapere fin da ieri» disse Silverstolpe «che non sarebbe potuto assolutamente venire».
«Va bene» disse Lukawsky. «Dunque, desidero anzitutto continuare il mio resoconto, ma in modo più dettagliato. L’idea che adesso – dopo che sono state sentite così tante persone e vagliate accuratamente le circostanze – possiamo farci dei fatti di casa Flesse è più o meno questa: mentre si trovavano in quella stanza, Engelshausen e Gabrielle Rochonville sono stati, a quanto sembra, tenuti d’occhio e forse anzi sorpresi in un atteggiamento che ha provocato una reazione immediata e talmente violenta di un terzo individuo – il colpevole – da portare alle tragiche conseguenze che conosciamo. Il fatto non è altrimenti spiegabile. I due devono essere stati osservati o da una delle porte – e dunque da un invitato –, oppure da qualcuno che non poteva far parte degli ospiti, da una delle case vicine, attraverso la finestra che era aperta quando i due entrarono nella stanza. La Rochonville, è vero, ha dichiarato che Engelshausen andò subito a chiuderla. Ma può averla chiusa in un secondo momento. In ogni caso l’hanno trovata soltanto accostata. E per quale motivo ha tirato anche le tende? O forse è stata Gabrielle a farlo? Quando hanno trovato Engelshausen, la porta a due battenti era chiusa. Pertanto la stessa Rochonville, uscendo dalla stanza per andare in cerca di suo padre, deve averla chiusa – o è stato invece il colpevole che poi l’ha riaperta e di nuovo chiusa? C’è però una seconda porta che dà in quella stanza, dalla camera da letto della signora von Flesse. Il colpevole può anche essere entrato di lì per poi uscirne.
«Vediamo insomma tre possibilità. L’assassino è entrato o dalla porta principale o dalla porta della camera da letto o dalla finestra. In questi due ultimi casi è molto probabile che sia entrato di sorpresa. E il delitto può essere avvenuto mentre Gabrielle Rochonville era ancora nella stanza, oppure dopo che ne era uscita. Comunque l’assassino può essere entrato quando Gabrielle si trovava ancora lì. Lei sarebbe quindi o rimasta fino a delitto avvenuto o uscita prima. Il delitto dev’essersi consumato mentre gli invitati stavano andando via, o immediatamente prima. Tra la partenza degli invitati e il ritrovamento di Engelshausen sono trascorsi circa venti minuti o mezz’ora.
«Ora io non credo che la Rochonville sia stata testimone del delitto. Altrimenti non avrebbe insistito a dire che Engelshausen intendeva accompagnarla a casa. Certo è anche possibile che abbia insistito solo perché sapeva che non sarebbe ormai stato possibile. Tuttavia, come detto, è in effetti pensabile che lei sia uscita dalla stanza quando l’assassino vi si era già introdotto, anzi che ne sia uscita proprio perché quegli era entrato, e che abbia lasciato che i due, lui e Engelshausen, discutessero fra loro, benché certo non potesse prevedere le conseguenze tragiche di tale discussione. Non è da escludere, inoltre, che lei, se anche non ha visto il responsabile, sappia o quantomeno sospetti chi sia. Ed è infine possibile che non abbia visto il colpevole né sappia chi è.
«Può avere diverse ragioni per non rivelare chi è il responsabile. O non vuole farlo perché ama quella persona e con la sua deposizione non intende perderla. Oppure non osa farlo perché ha paura di cadere vittima della sua vendetta, prima che la polizia lo abbia catturato. Oppure non sa con certezza chi sia. Oppure crede di potersi cavare d’impaccio rifiutando di dare indicazioni. Oppure ancora non può dare indicazioni perché non conosce il colpevole. È pur sempre possibile, infatti, che l’omicidio sia stato commesso per altre ragioni, e non per causa sua. Come potete constatare, per quanto ripugnante mi risulterebbe vedere la figlia di Rochonville coinvolta in questa vicenda, passo in rassegna tutte le eventualità nel modo più obiettivo e spassionato possibile.
«Eppure viene spontaneo pensare che lei abbia un rapporto reale con il fatto, e un rapporto se non diretto, quantomeno indiretto. Certo non si può escludere che non vi abbia invece alcun rapporto, ma è improbabile. Per il momento l’opinione pubblica s’interessa poco di questi rapporti, essendo impaziente di sapere piuttosto chi è l’autore del delitto. Quanto meno gli uomini sono capaci di pensare, tanto più sciaguratamente sono propensi a voler risolvere i casi criminali più enigmatici. E così facendo ignorano ogni autentico delitto. Alla gente sembra di somma rilevanza sapere chi ha commesso un omicidio. Una volta che l’hanno scoperto, però, non sanno più che farsene, e all’agitazione universale subentra una gran noia. Un nome, in fondo, non dice niente; e di un atto che sia in qualche misura inconsueto l’universale normalità non se ne fa nulla. Reputo dunque che, per quanto interessanti siano le premesse di quell’atto, non dobbiamo tanto chiederci di quale natura esse siano o chi abbia commesso il delitto, dato che il povero Engelshausen ormai è morto, e la giustizia procederà col responsabile come riterrà adeguato; a riguardarci, invece, è soprattutto il fatto che questo responsabile, chiunque egli sia, farà, dovrà fare delle dichiarazioni, nel caso – s’intende – che la polizia riesca a catturarlo. Allora però non salterà fuori solo il movente del delitto, ma verranno anche menzionate tutte le circostanze accessorie del caso. Le relazioni di quel soggetto con altre persone verranno tutte quante sciorinate, si rovescerà l’intero cesto dei suoi panni sporchi, e suppongo che anche voi ci abbiate già riflettuto a sufficienza per prevedere quale disgustoso polverone ne verrà sollevato».
Silverstolpe guardava nel vuoto, e Fonseca fissava Lukawsky.
«Non è forse così?» domandò Lukawsky.
Fonseca alzò le spalle e le lasciò ricadere.
«No» disse infine. «Non necessariamente. È vero che oggi ci sono più scandali che mai, ma quanti più ce ne sono, tanto meno scalpore fanno. Ce ne sono troppi, ecco, perché valga la pena ogni volta mettere il mondo a rumore. Un tempo il mondo si annoiava per mancanza di scandali, oggi si annoia per la loro sovrabbondanza. Gli uomini non trovano mai il giusto mezzo. Qualunque cosa sia successa qui, succede ogni giorno...».
«Certamente» disse Lukawsky. «Ma in tutti gli altri casi non è un delitto il motivo per cui l’intera opinione pubblica si interessa veramente. In questo caso, invece, l’opinione pubblica mostrerà sommo interesse verso tutto ciò che l’assassino dovrà confessare».
«Non credo» disse Silverstolpe. «O perlomeno non credo che farà grandi ammissioni».
«Perché non lo credi?».
«Non lo ritengo comunque sicuro, perché non vorrà compromettere una donna che gli sta talmente a cuore da avere commesso il delitto solo per lei».
«Nella sua situazione non potrà certo usare riguardi per il cosiddetto buon nome di lei».
«Ma farà di tutto per non coinvolgerla almeno nel delitto. Non la menzionerà neppure, se appena gli sarà possibile; e di conseguenza lei non verrà toccata dalle sue dichiarazioni».
«Forse» disse Lukawsky. «Ma quand’anche sottacesse il peggio, ci si potrebbe comunque risalire. Di più: non si smetterebbe mai di risalirvi. Del resto ritengo impossibile che costui riesca a indicare un movente senza dover insieme ammetterne i presupposti. E questi presupposti sono già di per sé il movente».
«È vero» disse Silverstolpe. «Resta però in sospeso l’attendibilità delle tue congetture».
«Non erano forse anche le tue?».
«Non tanto per convinzione, quanto perché non volevo essere di parere diverso...».
«Che vuol dire? Ma perché continui a toccarti la mano?».
«Ho qualcosa» disse Silverstolpe. «Ma non è niente d’importante. Dicevi?».
«Fa’ vedere!» ingiunse Lukawsky.
«Non è niente. Un puntolino, qui, nell’interno del dito medio».
Gli altri due si curvarono a guardargli la mano. Sembrava una pustolina.
«Da quando ce l’hai?» domandò Lukawsky.
«Da oggi. O comunque me ne sono accorto solo stamattina. Qual era allora la tua opinione?».
«Sono partito dal principio» disse Lukawsky «che tutto è possibile. In generale: qualunque idea, per inverosimili che siano i risultati cui porta, va tenuta salda, purché sia coerente sul piano logico. La maggior parte degli uomini non approda a nulla e non scopre mai la verità, o perché giudica troppo faticoso perseguirla, o perché i risultati dei suoi ragionamenti le sembrano impossibili. Ma quel che oggi è impossibile, domani è un’ovvietà. Sì, è perfino pensabile che gran parte di quanto accade sia possibile solo perché la gente non è in grado di ragionarci sopra».
«Va bene» disse Fonseca dopo aver fatto una pausa. «E che cosa ti ha detto in realtà quel Gordon?».
«Quello che vi ho già raccontato».
«Nient’altro?».
«No».
«Pensavo che non volessi dirlo davanti al colonnello».
«Al contrario: volevo persino sapere che cosa ne avrebbe detto il colonnello».
«E hai l’impressione che ci siano già elementi a carico di qualcuno?».
«Di certo non si è ancora proceduto a nessun arresto. D’altra parte, sarebbe ormai troppo tardi».
«Troppo tardi per che cosa?».
«Per prendere una qualche iniziativa».
«E cosa pensi che si potrebbe fare?».
«Bisognerebbe assolutamente cercare di impedire che diventino di pubblico dominio questioni di cui non desideriamo che si parli».
«Con ogni probabilità ci sarebbe una trattazione segreta del caso».
«E allora, che qualche voce ne arrivi all’opinione pubblica».
«E come vorresti, semmai, prevenirlo?».
«Non lo so ancora» disse Lukawsky. «Dipenderà dalla situazione. Per ora non è così importante come venir a sapere di chi si tratta».
«Insomma, per prima cosa occorre scoprire l’identità dell’assassino?».
«Per noi sì».
Fonseca si accese una sigaretta.
«E nemmeno la polizia, tu credi, sa chi sia?».
«Anche se lo sapesse, Gordon non me lo direbbe».
«Be’,» replicò Fonseca «se da lui non riesci a cavar nulla, caverai forse qualcosa da qualcun altro».
«Non saprei da chi».
«Magari da Gabrielle Rochonville?».
Lukawsky non rispose, e vi fu una pausa di silenzio. Finalmente parlò Silverstolpe:
«Ma, posto pure che abbiate ragione e che sappiate che cosa fare, chi vi autorizza a immischiarvi nelle faccende dei Rochonville? Chi vi dice che il colonnello, o che la stessa Gabrielle non abbiano forse già...».
«Il colonnello,» disse Lukawsky «benché non riesca a sottrarsi all’universale congettura che Gabrielle sia implicata nel caso – glielo si legge in faccia –, passa probabilmente il tempo sperando che la figlia non abbia in fin dei conti niente a che fare con l’intera vicenda. Che Gabrielle compia poi i giusti passi per cavarsi d’impiccio, lo credo ancor meno, ma meno di tutto lo credo se lei aveva davvero una relazione con l’assassino. Vedi dunque che gli stessi Rochonville o, diciamo, il colonnello potrebbero presumere che proprio noi ci adoperiamo a occultare il peggio».
«Ma chi vi dà il diritto di prendere un’iniziativa in seguito alla quale il colpevole si sottrarrebbe alla polizia?».
«E perché mai?».
«Perché, nel momento stesso in cui verrà a sapere che la sua identità è conosciuta, si renderà irreperibile».
«Bisognerebbe che non venisse a saperlo».
«E come vuoi mettere in atto il tuo proposito? Potresti certo – posto che tu sappia a chi hai da rivolgerti – andare semplicemente da costui e dirgli: Veda di sparire, mio caro, perché non desideriamo che si parli pubblicamente del suo caso! O conosci forse un’altra via?».
«Sì» disse Lukawsky.
«E sarebbe?».
Lukawsky, dopo un istante, si sporse verso gli altri. Era sul punto di dire qualcosa e aveva già aperta la bocca, quando rientrò la moglie. Ella si avvide subito d’essere tornata troppo presto e fece l’atto di allontanarsi di nuovo. Lukawsky però, dopo un’occhiata a Silverstolpe, si rivolse a lei dicendole stranamente: «No, rimani! Devo solo scambiare ancora due parole con Fonseca. Tu intanto potresti intrattenere Silverstolpe, o, meglio ancora, occuparti della sua mano. Ha una specie di ferita. Potresti fargli una fasciatura».
«Ma non ne vale la pena» disse Silverstolpe. Il maggiore però aveva già preso per un braccio Fonseca, e lo stava portando fuori dalla stanza.
Quando dieci minuti più tardi i due rientrarono, Silverstolpe aveva un cerottino al dito e stava intrattenendo la sua infermiera su un suo cuoco di campo che aveva in precedenza governato la cucina di un Grand Hotel.
2
Fonseca era già stato in visita dai Rochonville, ma molto tempo prima, e da allora si erano visti solo in casa d’altri. Se ora il giovane fosse andato dal colonnello, la cosa avrebbe già di per sé dato nell’occhio, ma soprattutto Fonseca non sarebbe stato in grado di motivare quella seconda visita.
Decise comunque di passare almeno sotto casa del colonnello. Questo fu il giorno dopo ch’era stato da Lukawsky, la mattina. Attraversando la piazza vide il colonnello alla finestra. Quest’ultimo, com’era sua abitudine, stava guardando lo spiazzo su cui i colombi andavano avanti e indietro. Parve non accorgersi di Fonseca o, quantomeno, non riconoscerlo. Forse non vedeva neppure lo spiazzo e i colombi, forse non vedeva minimamente ciò che vedeva, guardava soltanto – stando alla finestra – nel vuoto.
Fonseca camminò tra i colombi che becchettavano come sempre, senza che fra le lastre di pietra si scorgessero granelli di mangime; e ogni volta che sembrava sul punto di calpestarne qualcuno, gli uccelli con rapidi passettini si facevano da parte.
Dietro il primo angolo si fermò sbirciando di nuovo verso il palazzo. Il colonnello era ancora là che continuava a guardare la piazza.
Alla vecchia università stavano lavando le finestre. La donna intenta a quel lavoro aveva aperto un battente e cantava: «Ripensi a quell’ore...».
Dal campanile della chiesa suonarono le undici e mezzo. Qualcuno camminava per la stradina, i passi echeggiavano. Davanti a una casa vendevano verdura fresca. Sparse sul lastricato c’erano foglie d’insalata. La facciata di una casa era stata rimessa a nuovo. Era un palazzo barocco, il muro si levava come una parete di roccia in cui si aprissero grotte luminose.
Fonseca, sperando di incontrare Gabrielle Rochonville in centro, attraversò la Kärntnerstrasse e il Graben, ma non la scorse da nessuna parte. Si disse tuttavia che, dopo gli ultimi eventi, non si sarebbe fatta vedere in centro a quell’ora. Più tardi ebbe l’idea che lei non si mostrasse in nessun caso tra quel genere di persone che lì stavano passeggiando.
Restò fuori fin oltre l’una, andando su e giù, ogni tanto fermandosi a chiacchierare con qualche conoscente. Verso le tre era di nuovo nei paraggi del colonnello. Ma aveva ancora da aspettare un pezzo, fino alle cinque circa. I muri dei campanili prendevano già la tinta della sera, alcuni strati di nuvole d’un grigio tenue e orlate di color lampone, come le avrebbe dipinte Watteau, salivano impercettibilmente nel cielo. La piazza era già in ombra, ma il nimbo tra i campanili della chiesa dei gesuiti fiammava ancora come un’esplosione d’oro. Di tanto in tanto qualcuno attraversava la piazza. Faceva freddo, le giornate di tarda primavera emergevano appena – come lo scintillio di una polena dalla prua sommersa di una nave – dal fiotto d’ebano della lunga tenebra invernale. I colombi tubavano sui loro cornicioni.
Fonseca, camminando qua e là, aveva già fumato diverse sigarette quando vide il colonnello uscire di casa. Costui non si accorse di Fonseca e si allontanò in direzione del Ring. Guardava dritto e un poco fisso innanzi a sé. Anche il movimento non inelegante con cui posava il piede aveva qualcosa di rigido.
Gabrielle comparve dieci minuti dopo. Era diretta verso il centro.
Fonseca salì subito rapidamente per la Untere Bäckerstrasse fino al Lugeck e poi ridiscese per la Obere Bäckerstrasse, dove non aveva fatto che pochi passi quando si imbatté in Gabrielle. «Ma guarda!» disse arrestandosi. «Ecco dove ci si incontra».
Ella sorrise un istante. Poi aggrottò le sopracciglia, o perché era il suo modo di fare, o perché non le risultava forse gradito aver incontrato qualcuno. Fonseca, comunque, interpretò il gesto come diretto a lui. Non accennò tuttavia a proseguire, anzi le chiese come stesse. Lei parve ritenere superflua la risposta, e in ogni caso non la diede. Tenne gli occhi su di lui, occhi marroni che, all’ombra della falda del cappello, sembravano però quasi neri. La sua carnagione, senza che vi fosse nulla da eccepire, aveva qualcosa di non del tutto genuino. Il colore dei capelli, nel crepuscolo incipiente, pareva quasi innaturale.
Aveva parlato, riprese Fonseca, col padre di lei al funerale del povero Engelshausen – e di nuovo, non ottenendo risposta, le domandò senza ambagi dove stesse andando.
Intendeva fare delle commissioni, disse lei.
Gli consentiva di accompagnarla?
«Non ha proprio altro da fare?» gli chiese lei.
«No» rispose lui. «Niente di niente».
Ella non replicò, e lui le camminò accanto. Nella Rotenturmstrasse Gabrielle entrò in un negozio di calze e vi rimase per quasi mezz’ora. Quindi entrò nella merceria accanto e si intrattenne con le commesse fino alla chiusura. Lui, nel frattempo, rimase lì in attesa chiedendosi dove lei avesse avuto in realtà intenzione di recarsi.
Quando furono di nuovo in strada, i lampioni erano già accesi. Lei fece l’atto di andare verso casa. Ma Fonseca era convinto che volesse andarvi per poi uscirne subito dopo, da sola.
«Voglia concedermi il piacere» le disse «di accompagnarmi da Demel! Commissioni ormai non può più farne, e io non vorrei lasciarla dopo averla appena incontrata».
«La sto trattenendo già da un’ora» disse lei.
«Ma in tutta quest’ora ha parlato soltanto con le commesse e non con me».
«Non desidero andare da Demel» disse lei.
«Perché no?».
«Per via di quella storia» disse lei.
«Allora voglia tenermi compagnia da qualche altra parte».
Gabrielle esitò, ma finì per acconsentire. Fonseca suppose che lei dubitasse di potersi liberare di lui; o che fosse convinta di essere poi seguita, se lo avesse piantato lì.
Le propose il caffè al Lugeck.
«Non credo» le disse «che vi incontreremo dei conoscenti. La hanno già subissata di domande per via di Engelshausen?».
«Non ho parlato con nessuno».
«E suo padre, che cosa dice di tutto questo?».
«Pensavo che lei l’avesse incontrato al funerale».
«Ieri Lukawsky» disse lui «raccontava d’essersi intrattenuto con il commissario che investiga sul caso. È un certo Gordon. Lo conosce?».
«È lo stesso che era dai Flesse?».
«No. Quindi suo padre non le ha raccontato niente?».
Ella non rispose. Avevano ormai percorso il breve tratto di via fino al caffè, e Fonseca, dopo un istante, le aprì la porta. Entrarono. Il locale era pieno a metà. Si sedettero a un tavolo. La luce era bianco-azzurrastra come di illuminazione a gas, nell’aria ristagnava parecchio fumo di sigarette, e in quella luce il volto di Gabrielle scintillava come neve.
Senza sfilarsi i guanti beige, aveva posato le mani sulla borsetta che teneva in grembo.
«Mi perdoni,» disse lui «questo posto è orribile, ma ci hanno rinfacciato così spesso di vivere in un mondo irreale, che non ci si può mai convincere a sufficienza della scarsa utilità di vivere in quello reale».
«Ma dica,» domandò lei «che genere d’uomo è?».
«Chi?».
«Il commissario».
Un cameriere frattanto era venuto al tavolo. Ordinarono.
«Il commissario non lo conosco. Ma a sentire Lukawsky sembra che abbia cervello. E ha ancora un’altra qualità in comune con lei».
«Ah sì? Quale?».
«Non dice niente, o molto poco. E a proposito, lei conosceva bene Engelshausen? Io non avevo rapporti veri e propri con lui. Al reggimento non c’era mai, e io l’ho conosciuto solo qui a Vienna, dopodiché l’ho visto soltanto di rado. Lei, a proposito, lo ha trovato divertente?».
Gabrielle gli rivolse uno sguardo come a volergli chiedere che cosa intendesse con divertente.
«No» disse poi. «Non era divertente».
Parve considerare ridicola la parola. Infatti aggiunse: «Trovo noiose le persone cosiddette divertenti».
«Ma lo ha visto spesso? Che cosa le risulta allora divertente? Con che genere di persone riesce di preferenza a divertirsi?».
«Dio mio,» mormorò lei «che razza di domande!».
Lui rise.
«Mi sarei immaginata che lei volesse cavarmi di bocca se avevo dell’interesse per Engelshausen. Non è così? E perché vuole anche sapere che cosa trovo divertente?».
«Non posso mica chiederle a bruciapelo chi è stato».
«Chi è stato cosa?».
«Chi è stato a farlo».
In quel momento il cameriere tornò portando l’ordinazione. Nel passare più volte la salvietta sul piano di marmo del tavolino osservò Gabrielle. L’aveva guardata già mentre prendeva la comanda. Gli piaceva, con ogni evidenza. Gabrielle diede a Fonseca un’occhiata quasi volesse rinfacciargli qualcosa.
Finalmente il cameriere si allontanò.
«Come le viene in mente una cosa simile?» disse lei investendo Fonseca.
«Che lei lo sappia? Be’, a quanto sembra lei è stata l’ultima ad aver parlato con Engelshausen. Non dico che lei debba per forza saperlo. Ma chi, se non lei, potrebbe davvero saperlo?».
E le offerse una sigaretta. Dato che lei non vi prestò attenzione, ne accese una per sé.
«E quali erano realmente i suoi rapporti con Engelshausen?» continuò. «Non potrebbero, questi rapporti – se già parliamo in modo schietto –, aver dato adito al gesto compiuto dopo che lei fu uscita dalla stanza in cui poi lo hanno ritrovato? E di che cosa ha parlato con lui, che cosa ha fatto in quella stanza? Chi può averla osservata? O non è addirittura entrato qualcuno senza che lei se ne avvedesse? Lei ha detto di avere, con Engelshausen, “chiacchierato, fumato sigarette, bevuto Chartreuse”...».
«Che altro avrei fatto?».
«Lui non l’ha almeno baciata?».
Ella non rispose.
«Per farla breve,» disse Fonseca «chi oltre a lui aveva – o ha tuttora – interesse nei suoi confronti?».
Lei lo sfiorò con un’occhiata.
«Creda pure quel che vuole» mormorò.
«Non è che io» disse lui «voglia sapere che cosa è successo allora. Non c’è niente di più noioso delle faccende amorose altrui, e io non ho del resto la minima intenzione di addentrarmi nei suoi segreti. Per me, sia successo quel che vuole. Mi perdoni se parlo così senza fronzoli, ma consideri che se la polizia riuscisse veramente a catturare il colpevole, si verrebbe a parlare di tutta quanta la storia in una forma per lei molto sgradevole...».
«Bene, e la polizia ha già catturato il colpevole?».
«No. Finora no. Ma non c’è, per me almeno, il minimo dubbio che ci riuscirà».
«Ah sì? E come mai?».
«Perché quell’uomo, se realmente ha commesso il fatto solo per lei, deve poter essere arrestato. Perché costui, se lei è stata la causa per cui si è fatto trascinare a un simile delitto, non demorderà. Perché cercherà comunque di rivedere la donna che ama – e meno che mai saprà risolversi a mettersi al sicuro, magari all’estero. Insomma: perché la polizia non ha da far altro se non aspettare che quello finisca nella rete. Gli uomini amano più di tutto commettere sciocchezze, e quelli che le commettono per ragioni di cuore sono in fondo i più scusabili».
Ella non rispose subito. Finalmente disse: «Lei quindi è del parere che, se io conoscessi il colpevole, continuerei a vedermi con lui; che lo aiuterei a nascondersi; e che potrei addirittura indurlo a fuggire. Lei non se lo augura forse? Perché altrimenti raccontarmi tutte queste cose; il che è tanto più inopportuno in quanto io non ho idea di chi sia stato, in quanto io non conosco – o almeno non in modo consapevole – un uomo che possa aver commesso un delitto del genere, in quanto io probabilmente non l’ho mai visto...».
«Non avrei mai creduto» disse lui «che lei non avrebbe trovato nulla di meglio da dire che: “Non so niente, non conosco quell’uomo, non ho idea di chi sia!”. Mi ero formata una diversa opinione di lei. Perché non fa almeno un tentativo di trarsi d’impaccio in maniera più persuasiva...».
«Perché non intendo parlare con lei all’infinito di queste cose...».
«Ma forse» disse lui «è stato davvero qualcuno che la ama senza che lei lo conosca».
«Ma è ridicolo!» esclamò Gabrielle. «Nessuno fa qualcosa a causa di un altro – e men che meno se non lo conosce neppure».
«Non dica così. Non conoscere una persona è forse l’unica giustificazione per far qualcosa per amor suo. Magari è stato davvero un uomo che lei non conosce e che non la conosce, a commettere il delitto. E in verità chi mai conosce tutte le infinite possibilità del cuore umano! se perfino il cuore non conosce se stesso. E soprattutto, chi può sapere quali traviamenti il cuore sa occultare! Forse, anzi, l’intera passione che quest’uomo ha concepito nei suoi confronti finirebbe nell’istante stesso in cui lei ne venisse a conoscenza. Anzi, forse l’ha concepita solamente perché deve occultarla. Dicono che abbia una forza incredibile nelle braccia. Ma forse tutta questa forza, indispensabile per compiere il delitto con tanta efferatezza, altro non è che la conseguenza di quella violenta passione occultata. La massima violenza non viene dal cervello o dalle braccia, la massima violenza viene dal cuore».
Ella lo guardò. «Trovo assurde le sue supposizioni» disse finalmente.
«Le donne» replicò lui «credono sempre di dover ritenere assurdo ciò che garba loro. Lei non si è mai accorta di un qualche uomo dalla forza fisica chiaramente eccezionale che le abbia fatto la posta per parecchio tempo – no, non fatto la posta: che semplicemente la segua e la tenga d’occhio? Non ha notato nessuno che di quando in quando stia sotto la sua finestra e guardi in su...?».
«No» disse lei. «Nessuno salvo lei».
«Io?».
«Sì, lei».
«Lei dunque si sarebbe accorta che io oggi...».
«Eccome».
«Be’,» rise lui «non fa niente. Non sapevo come parlarle e non volevo farmi avanti con prepotenza... Quindi non ha visto già da tempo persone ferme, più o meno come me, sotto la sua finestra...?».
«No».
«È curioso,» disse lui «altre donne vedono più pericoli di quanti ne esistano in realtà, mentre lei ricusa perfino di prendere atto di quelli che dovrebbe davvero temere. Lei sembra amare molto qualcuno...».
«Perché?».
«Perché è così impavida. Non c’è per esempio qui, tra i presenti, qualcuno che la osservi? Non uno che la guardi soltanto, ma che la osservi? Non dico il cameriere, che la fissa di continuo – per quanto lei faccia forse più colpo su persone del genere che...».
«Che genere di persone?».
«Persone» disse lui «estranee al suo ambiente. Magari lei stessa ha una propensione per gente di quel tipo – una propensione che tuttavia il suo rango e la sua educazione le vietano di assecondare».
Lei arrossì un istante. Per un qualche motivo Fonseca ne fu sorpreso. Forse aveva creduto che Gabrielle non fosse capace di arrossire. «Non so perché lei insista a parlare del mio rango» disse lei. «Che valore ha poi, oggigiorno? Probabilmente lei ignora che mia madre era – per così dire – di condizione inferiore a mio padre, tanto che lui ebbe difficoltà a ottenere il permesso di sposarla».
«No,» disse lui «non lo sapevo».
«Quanto a me, non sarebbe mai il rango a impedirmi di fare qualcosa, ma sempre e solo il mio sentimento».
Egli la guardò.
«Allora lasciamo stare» disse. «Ma dunque lei come si immagina che si siano svolti i fatti? E, soprattutto, cosa pensa delle conseguenze che avrebbe l’arresto del colpevole?».
«Che cosa dovrei pensarne?» chiese Gabrielle.
Lui, dopo una pausa, scrollò le spalle.
«Lei è comunque avvisata delle eventualità cui si trova esposta» disse. Ma poi, come spesso accade nelle conversazioni, tornarono di nuovo a parlare dell’intera vicenda. Fonseca cercò di tracciare i contorni di una figura indistinta, una figura non solo macchiata del sangue di quell’omicidio, ma che si aggirava nella vita di lei: Gabrielle disse però che non se n’era mai accorta, e aggiunse che quelle idee erano pure fantasie.
Verso le sette e mezzo lui la accompagnò a casa. Camminando per la via male illuminata si voltò alcune volte all’improvviso, come a scoprire qualcuno che li seguiva.
Ma non vide nessuno.
Sotto casa di Gabrielle parlò ancora, andando su e giù, una mezz’ora con lei. Poi prese congedo.
3
Il giorno dopo lo colse, fin dal risveglio, la sensazione di aver fortuna. Abitava da suo fratello, e il servitore di quest’ultimo gli portò a letto, con la posta del mattino, diverse lettere, due delle quali contenevano notizie decisamente positive. Anche il tempo era bello, di quella bellezza perfetta che spesso ci spinge a credere per ore, a volte per un giorno intero, di vivere nella felicità dei paesi meridionali.
Con le braccia incrociate sotto la nuca, Fonseca rimase ancora qualche minuto nel letto, sul quale erano sparse le lettere, e respirò l’aria che entrava dalla finestra aperta. Un alito di vento muoveva il fogliame del giardino, un uccello cantava tra le fronde. Il giovane si alzò, si mise una vestaglia sulle spalle e andò in bagno. Il sole accendeva le finestre dai vetri opalini, e la stanza, tipica creazione di inizio secolo, era tutta immersa in una luce iridescente. Le piastrelle parevano opale, l’acqua un crisoprasio nel crepuscolo come lo stagno d’un bosco. Una goccia cadeva a intervalli schioccando sulla sua superficie.
Fonseca, fumando una sigaretta, si pettinò e si vestì. Gli procurava piacere portare il vestito che aveva scelto. Prima di uscire di casa si fermò ancora qualche istante nell’ingresso a giocare con i segugi del fratello. L’ingresso, decorato con corna di cervo, era buio, ma le porte delle stanze adiacenti, che il servitore stava rimettendo in ordine, e le finestre che in quelle stanze davano sulla strada, erano aperte. Il riflesso del sole penetrava illuminando i cani, che saltavano alle mani di Fonseca con le grandi bocche rosee spalancate e correvano via con i suoi guanti.
Stava camminando da un po’ per la via, quando notò avanti a sé una personcina giovane, che sembrava graziosa oltre la norma. O quantomeno, parecchi passanti si voltavano a guardarla. Era alta, aveva gambe splendide e biondi capelli serici.
Dopo uno o due minuti ella si arrestò difronte ai cristalli di una vetrina. Anche Fonseca si mise lì davanti, e osservò la bella ora di lato ora nell’immagine riflessa. Era in effetti una donna di somma avvenenza, con grandi occhi grigi sotto due sopracciglia nere, ed era di carnagione delicatissima.
Se lei pure si interessasse a Fonseca, anzi se solo ne percepisse la presenza, era difficile a dirsi, in ogni caso non lo dava certo a vedere. Dopo poco, tuttavia, si voltò andando con tale sicurezza verso un taxi fermo sul bordo della strada, da potersi indovinare che l’aveva già visto riflesso nei cristalli e aveva deciso di prenderlo.
Quando la vettura partì, Fonseca la guardò allontanarsi con rammarico, ma pure con un sorriso. Al fievole innamoramento che, come una leggera brezza in alto mare, aveva provocato un sussulto dentro di lui, si accordava forse il fatto che egli avesse visto la bella solo per qualche istante.
Nel corso della mattinata fece, con soddisfazione, diverse commissioni che si era prefisso di sbrigare. Quell’anno la primavera, dopo che l’inverno si era a lungo protratto, era arrivata relativamente tardi, ma tanto più doviziosa, e quando Fonseca raggiunse l’Äusserer Burghof, vide il lillà e gli ippocastani ancora in piena fioritura. Sopra incredibili onde di fiori, come sopra un mare primaverile color lilla, i vincitori di Belgrado e di Aspern impennavano i loro bronzei destrieri, Eugenio di Savoia il suo greve napolitano in una levata ben tenuta a freno, la testa del cavallo volta a destra; Carlo d’Austria il suo alto mezzosangue rampante, e nella destra la bandiera d’un reggimento di fanteria, adorna di nastri svolazzanti.
Il ricordo del profumo di lillà accompagnò il giovane diretto in centro, empiendolo di una nostalgia dolce e indefinita. Mentre usciva da una casa – intorno al mezzodì –, in cui l’aveva trattenuto un’incombenza, una mendicante che era nell’androne gli rivolse la parola. Egli mise la mano in tasca per darle una moneta, e stava già per passare oltre quando le gettò un’occhiata ed ella gli ricordò, a un tratto, una sua bambinaia d’un tempo. A rammentargli quella persona non erano le fattezze, ma qualcosa nei movimenti e nei modi della vecchia. Tanto più che, nel ringraziarlo, lei lo chiamò «signor conte». Così almeno gli parve di sentire. «Lei mi conosce?» le domandò. Dalla risposta farfugliata e senza dubbio confusa della donna egli capì che sosteneva d’aver conosciuto la servitù della famiglia di lui, e di colpo Fonseca ebbe la sensazione di averla vista realmente in quel regno sospeso fra conscio e inconscio che si chiama infanzia. O quantomeno credette, guardandola, di rammentare qualcosa di quel tempo, che però non sapeva più cosa fosse; e del resto l’infanzia non è soltanto un continuo assorbir nuove cose, ma altresì un progressivo dimenticarne altre, che in seguito crediamo di riuscire a ricordare e, per converso, di non ricordare. O, perlomeno, ripensandoci sembra così. A un tratto però si accorse che erano gli occhi della vecchia a richiamargli qualcosa alla mente. Erano occhi un po’ arrossati, lacrimanti, non già di donna quanto di uomo: occhi di un vecchio. La governante a cui ripensava aveva gli stessi occhi. Erano gli occhi che lui aveva visti per primi, nei quali più aveva guardato. In essi era lo sguardo di generazioni intere.
Quant’è invecchiata! pensò. Ma era proprio come se intendesse l’altra. La mendicante, mentre egli si perdeva in questi pensieri, aveva seguitato a parlare, ma Fonseca non badava a quel che la donna diceva, era solo un farfuglìo indistinto, e intanto lei ripeteva sempre uno stesso movimento, come per indurlo a sfilarsi il guanto. E poiché continuava a stringere fra le dita la moneta che le aveva dato, lui credette che volesse predirgli il futuro. «Sei una zingara?» le chiese. Lei intanto gli aveva già tolto il guanto dalla mano, senonché, invece di iniziare le cerimonie d’uso in quel genere di vaticini, si limitò a tenergli la mano tra le sue e cominciò a carezzarla.
Una strana sensazione s’impadronì di lui. Non avrebbe saputo dire che cosa fosse, vi si mescolavano il ribrezzo per la sporcizia della vecchia e al tempo stesso un ricordo lontano, di qualcuno che gli aveva tenute le mani e aveva fatto con lui giochi infantili, giochi nei quali lui e quell’altra persona sovrapponevano le mani, e poi le toglievano da sotto e le mettevano di nuovo sopra e così via. E quel ricordo trapassava nel movimento con cui egli, anche ora, tirava indietro le mani.
In quell’attimo vide una figura nota passare dinanzi al palazzo. Gli occorse un altro istante per rendersi conto che si trattava di Gabrielle Rochonville. Non sembrava però che lei si fosse accorta di lui. Probabilmente non aveva guardato nell’androne.
Con mossa rapida riprese il guanto e, piantando lì la vecchia, uscì subito dall’androne. Nel contempo svanì, come di colpo, lo strano stato d’animo o quella sorta d’incantesimo che la mendicante aveva gettato su di lui.
Arrivato in strada, si voltò nella direzione in cui si era avviata Gabrielle, e la vide una quindicina di passi avanti a sé. Esitò ancora qualche poco, di modo che la distanza crescesse. Quindi la seguì.
Aveva subito deciso di tenerle dietro. Aspettarla un’altra volta sotto casa per vedere dove sarebbe andata, non l’avrebbe più fatto; ma siccome gli era passata innanzi, la seguì.
Si aspettava che lei di quando in quando si sarebbe voltata, e in effetti non si era ingannato: ella si guardò alcune volte indietro. Ma essendovi preparato, riuscì a nascondersi nella folla dei passanti senza che lei lo scorgesse. Ebbe peraltro modo di seguirla solo per un breve tratto. Nella Renngasse gli era passata innanzi. E ora continuò fino alla Wipplingerstrasse salendo poi verso il Municipio vecchio. Qui svoltò a destra, nella Jordangasse, che sbocca in Judenplatz. Quando lui fu sull’angolo, vide che Gabrielle stava entrando in una delle case sulla sinistra della piazza.
Si ritrasse dietro l’angolo, sicuro com’era che lei entrando nella casa si sarebbe di nuovo voltata a guardare se l’avessero seguita. Solo dopo qualche minuto svoltò l’angolo, portandosi però subito anch’egli sul lato sinistro della via per non venire scoperto, nel caso che qualcuno si fosse affacciato a una finestra. Gli venne in mente che lei lo aveva già notato sotto casa sua, e al pensiero che a poco a poco stava facendo la mano a sorvegliarla, sorrise.
Alzando lo sguardo osservò la casa. Un edificio vecchio, benché non fatiscente, i muri erano scuri, quasi neri. Al pian terreno si trovavano alcuni magazzini. Era al civico numero quattro.
Entrò nel portone. L’andito era angusto; in fondo, nel buio, saliva la scala a chiocciola di pietra. Regnava il silenzio. Ai piedi della scala, accanto all’uscio del portinaio, c’era la bottoniera con i campanelli dei singoli alloggi. I nomi degli inquilini stavano sotto i bottoni.
Fonseca accese un fiammifero e lesse i nomi. Non uno che gli fosse noto.
Uscì dunque dalla casa e si appostò dietro un angolo di Judenplatz. Aspettò circa tre quarti d’ora. Ma Gabrielle non ricompariva.
All’una egli aveva un appuntamento con alcune persone invitate a pranzo a casa del fratello. Si era convenuto di incontrarsi da Gerstner e poi mangiare insieme. Pur non dubitando che Gabrielle dovesse uscire da un momento all’altro per rincasare a sua volta, Fonseca poco prima dell’una lasciò la propria postazione. Del resto non avrebbe avuto ulteriore importanza vederla uscire di lì. Gli bastava che vi avesse passato quasi un’ora. A Vienna, dove tutti si conoscono, una giovane signora non faceva certo visite innocenti a emeriti sconosciuti. E se si fosse recata da una sartina, da una insegnante di lingue o da una ex istitutrice, non si sarebbe voltata di continuo per la strada.
Entrando da Gerstner, Fonseca vi trovò già riuniti coloro che doveva incontrare. Li salutò, dopodiché si chiuse nella cabina del telefono e chiamò Lukawsky. Lo raggiunse subito, poiché Lukawsky era appena rientrato a casa. Fonseca parlò con lui per qualche minuto. Quindi uscì dalla cabina, andò al buffet e ordinò uno sherry. Allungando la mano al bicchiere, mentre chiacchierava con gli altri, urtò col braccio una signora. Levò gli occhi e vide la sconosciuta di quella mattina.
Si scusò, e lei, guardandolo, sorrise, ma solo un attimo, quindi si rivolse nuovamente a un’altra signora, più anziana, che le stava accanto e con la quale era intenta a conversare. La fortuna la riporta sul mio cammino, pensò Fonseca. Quante ne vediamo, di creature incantevoli, che dopo un attimo perdiamo di vista e non incontriamo mai più. Questa, invece, la incontro già per la seconda volta nella stessa mattinata.
Rimase finché rimase anche la sconosciuta, benché la compagnia gli dicesse che ormai era ora di andare. Voleva vedere se la bella si accorgeva finalmente di lui. Se così era, lei comunque non lo dava a intendere. Fonseca non avrebbe nemmeno saputo dire se lo avesse riconosciuto. Lei, tuttavia, rimase piuttosto a lungo. Parlò con la signora in sua compagnia, e solo dieci minuti dopo se ne andò. Allora anche Fonseca se ne andò, con la sua compagnia.
Dopo pranzo il discorso cadde sui diversi casi del gioco e sulla fortuna al gioco in generale, gli amici si fecero portare le carte, esaminarono questa e quella combinazione e la giocarono, finché la prova diventò gioco vero, il gioco si fece serio, e nel giro di pochi minuti Fonseca ebbe guadagnato una somma per lui tanto più ragguardevole in quanto dal fratello – detentore del fedecommesso familiare, ma al momento in difficoltà – riceveva in contanti solo una rendita esigua. Probabilmente Fonseca avrebbe perso la sua vincita con la stessa rapidità con cui l’aveva ottenuta, se in quel momento non l’avessero chiamato al telefono. Pensò che fosse Lukawsky, era invece la sorella di lui – Fonseca –, Marie Türkheim, che aveva preso marito in Moravia ma si trovava adesso per qualche settimana a Vienna. Chiese al fratello di incontrarsi con lei e una conoscente che intendeva comprare una sella e di aiutarle con un consiglio, avendo lui qualche cognizione in quel genere di cose, mentre loro – le signore – non ne capivano nulla.
«E c’è ancora gente» disse Fonseca «che si compra una sella! La tua amica non è per caso alta, bionda, e ha occhi grigi e bellissime gambe?».
«Sì» rispose la sorella, stupita. «Non è certo brutta. Ma tu come lo sai?».
«È tutto il giorno che ho fortuna» disse lui. «Perché non dovrei avere anche la fortuna che sia la stessa persona che intendo io!».
E in effetti lo era. Si erano accordati di vedersi davanti al Bristol, e non appena scorse la signora venirgli incontro con la sorella, ebbe conferma che si trattava della sua sconosciuta. Risultò essere una certa signorina Leeb, o von Leeb, come insisté la sorella di Fonseca sussurrandogli all’orecchio che la madre era una Martinitz e che aveva sposato l’amministratore del suo patrimonio. Quel modo di fare da vecchie dame – sussurrare cose confidenziali di maniera che tutti le sentissero – la Türkheim lo aveva fin dagli anni della giovinezza.
Fonseca però era interessato più al futuro che al passato della sua bella. La quale era più affascinante che mai. Com’è possibile, pensò, che una personcina tanto graziosa vada a giro così e non sia sposata!
«Sono più che felice di conoscerla» le disse. «Il caso, che mi permette di incontrarla ripetutamente, oltrepassa ogni limite! In realtà il caso non esiste! Il caso non è altro che la necessità in cui non vogliamo credere».
«Come?» disse la Türkheim. «Dunque vi conoscete davvero?».
«Sì e no» sorrise la bella. «Ma tuo fratello ha un modo di conoscere a tutti i costi le persone senza mai diventare banale. Lui aspetta finché sono gli altri a presentarglisi».
Se era così, disse la Türkheim, non voleva turbare oltre la loro felicità. Comprassero o no la sella, come preferivano, lei intanto non ne capiva niente, e se la sarebbero cavata benissimo anche in sua assenza.
E dopo averli accompagnati ancora per qualche passo, si accomiatò.
«Dovrei io veramente credere» disse Fonseca seguendo con lo sguardo la sorella «che questo caso non sia tale? Sarebbe possibile che lei, benché a me sconosciuta, sapesse chi sono io, e che...».
«Non si fanno domande del genere a una signora» rispose lei. «Quale vantaggio ne avrebbe a saperlo? Niente più che la delusione di sapere che io volevo davvero conoscerla...».
«Delusione, la chiama?».
«Oggi forse» disse lei «non lo sarebbe ancora... ma tra qualche giorno sicuramente».
«Tra qualche giorno?» esclamò lui felice.
«Mi consenta, piuttosto, di meravigliarmi che le sia riuscito di fare tanto in fretta la mia conoscenza».
«E la sella, vuole comprarla per davvero?».
«Naturalmente!».
«Una sella da caccia?».
«Una sella da caccia».
Comprarono dunque la sella, dopodiché egli le tenne compagnia per altre due ore e infine le chiese di poterla rivedere. Avrebbe anche rinunciato a un invito che aveva per il tardo pomeriggio, e non si sarebbe voluto separare dalla bella, se non avesse pure lei dichiarato di avere ancora un appuntamento. Frattanto, del resto, erano già le cinque e mezzo.
Era stato invitato per le cinque da una certa signora von Malowetz, che abitava a Hietzing. Quando vi arrivò, erano quasi le sei, e con sua sorpresa trovò aperta la porta di casa, vuoto l’appartamento e nemmeno l’ombra d’un ospite. C’erano invece diversi operai intenti a rimettere a nuovo le camere.
«Non abita più qui la signora von Malowetz?» chiese a uno degli uomini che stava salendo le scale e sembrava sul punto di entrare nell’appartamento.
«No» rispose quegli. «Da due settimane».
«Ma dove si è trasferita?».
L’operaio nominò un indirizzo, in una traversa della Schönbrunner Strasse. Era quindi in tutt’altra parte del parco.
La sola spiegazione possibile era che quella signora, nel suo modo di fare confuso, si fosse scordata di comunicare agli invitati di aver traslocato. Fonseca si chiese se non fosse il caso di tornar subito a casa.
«Non hanno già chiesto di lei altre persone?» domandò ancora.
«No» disse l’uomo. «Nessuno».
Gli altri, quantomeno, doveva averli informati.
Erano le sei e mezzo quando Fonseca arrivò nella Schönbrunner Strasse, strada che, già di per sé non particolarmente prestigiosa, era pur sempre più presentabile della viuzza in cui doveva svoltare. Si meravigliò molto che la Malowetz si fosse trasferita lì. Le case erano squallide, quasi cadenti: desolate case di periferia. Dall’una e dall’altra si erano staccati larghi tratti d’intonaco, zone bianco-giallastre interrompevano il sudicio grigio-nero dei muri. Imbruniva. Dalle finestre sotto cui passò esalavano gli odori delle abitazioni anguste, l’afrore della povertà. La Malowetz, pensò Fonseca, doveva essere o impazzita o andata completamente in rovina per essersi trasferita lì. Perché mai, allora, invitare ancora ospiti?
Ma aveva visto spesso, in quella città dall’edilizia singolarmente eterogenea, gente abitare a ridosso di quartieri miserabili dove si apriva poi una bella zona. Quella viuzza, però, non era così. Restava triste com’era. Dei bambini giocavano sulla carreggiata, ma il gioco degenerò in lite, uno di loro venne inseguito, fra gli strilli, dagli altri. I passanti non se ne curavano. Non osservavano neppure Fonseca; soltanto un cane, un botolo giallognolo, si mise a camminargli a fianco saltando per gioco alla sua mano. Anzi, prendendogli la mano nella bocca rosa pallido, sembrava volerlo guidare. Un vago ricordo di qualcosa, che il giovanotto però non sapeva più identificare, si fece strada in lui, per scomparire subito dopo. Egli pensò soltanto che il botolo, probabilmente, aveva fiutato l’odore dei cani di casa.
L’edificio in cui abitava la Malowetz si presentava un po’ meglio degli altri. Ma Fonseca, entrando, trovò le scale mal illuminate e, salendo i gradini, ebbe l’impressione che – dietro le grate delle finestre affacciate sulla tromba delle scale – degli occhi lo osservassero. Gli sembrò tutto molto strano. Anzi gli sembrò ridicolo andare da quella pazza. E poi i pomeriggi da lei erano sempre stati noiosissimi.
Finalmente suonò alla porta indicata. Una ragazza, pur sempre in nero con il grembiule di pizzo bianco, gli aprì. Agli attaccapanni, nell’ingresso, erano appesi parecchi cappotti e cappelli. Fonseca consegnò cappello e guanti. Quindi fu fatto accomodare in una delle stanze.
Ma nella stanza non c’era nessuno, né vi entrò nessun altro, e poi il mobilio era ben diverso da quello che lui era abituato a vedere dalla Malowetz. Che tutto fosse solo un malinteso? pensò. Forse l’indirizzo che gli aveva dato l’operaio non era quello giusto. O poteva anche darsi che lui, Fonseca, avesse frainteso ciò che gli aveva detto quell’uomo.
C’era un gran silenzio; solo, da qualche parte, in una casa lontana, qualcuno suonava il pianoforte. La musica proveniva come da un altro mondo ed era immensamente triste. Una sensazione di sogno, quasi uno stato irreale, si impadronì di Fonseca. Nell’insieme gli toccò aspettare nella stanza una ventina di minuti, durante i quali si rivelò che quel tempo – e il tempo in generale – si poteva sì suddividere, ma non realmente misurare. Lo si poteva scomporre in parti, ciascuna di uguale grandezza rispetto alle altre – esattamente uguale addirittura: in minuti, ad esempio, o in ore. Ma quanto duri in realtà un minuto o un’ora, non si può determinarlo. Il tempo si misura con il moto di un oggetto – in definitiva con il moto rotatorio della terra –, dividendo in parti lo spazio di tempo considerato – in ore e minuti, appunto. Ma quanto impiega la terra a girare su se stessa?
Sentiamo ventare il lento battito delle ali di condor bianche e nere del giorno e della notte, ma la durata di quel battito riusciamo a misurarla solo sui moti dei corpi celesti. E questi, a loro volta, quanto impiegano a compiere le proprie rivoluzioni?
Il tempo, insomma, in sé non c’è – ma può esserci. Quel che conta è non accorgersi che c’è. Perché accorgersene è sgradevole. Meglio dimenticarsene. Oppure riempirlo con le cose il cui decorso costituisce il tempo. Allora esso ha una durata comprensibile. Altrimenti dura incomprensibilmente a lungo. E altrettanto terribile è che ci sfugga fra le dita o che non cessi di durare.
Giacché il tempo dilegua solo per durare, e dura solo per dileguare...
Anche Fonseca, in definitiva, non avrebbe più saputo dire se avesse già aspettato per un tempo breve o un tempo lungo. Gli sembrava però lungo, più che breve. Ma alla fine smarrì anche il senso di questa lunghezza temporale, da lui percepita. Un tempo che gli si riempiva delle cose da cui era costituito. Ora, a costituirlo erano i suoi pensieri. E la sostanza dei suoi pensieri – così come dei pensieri in generale – era tanto indeterminabile quanto il tempo. Forse erano pensieri reali, quelli che lui pensava. Al pari di un prigioniero in carcere o di un santo nella sua grotta, che non soppesa più la propria felicità o infelicità, ma osserva ormai solo le oscillazioni della grazia – quell’effusione che scende dall’alto e gli consente di tollerare la propria esistenza – o il venir meno della grazia stessa, che torna a togliergli tutto, anche Fonseca sentiva ormai solo che stava pensando, o che i pensieri da lui si ritraevano.
Ma quali pensieri? Non lo sapeva. Ebbe un sussulto di paura, senza riuscire a ricordare che cosa avesse pensato. E ricadde in parte nel suo intontimento, e sopraggiunsero altre riflessioni – più concrete. Ripensò alla sua giornata, quella strana giornata che aveva vissuto, e alla varia fortuna che aveva avuta fin dal mattino. Era una fortunata coincidenza anche l’essere capitato lì, si domandò per un istante, o forse aveva avuto tutta quella fortuna solo perché non gli balzasse all’occhio come vi era capitato... In effetti non comprendeva più in che modo fosse finito in quella casa; e del resto com’era possibile che quell’uomo nel vecchio appartamento della Malowetz fosse in grado di dirgli dove lei si era trasferita, anzi come poteva sapere che proprio la Malowetz aveva abitato in quelle stanze che ora venivano rammodernate per qualcun altro! La cosa non riguardava minimamente l’operaio, e poi come avrebbe potuto saperlo! Cercò di raffigurarsi quell’uomo, era un tipo piuttosto tarchiato e un po’ più basso di lui – Fonseca –, ma non riusciva a rammentare nient’altro, anzi d’un tratto gli risultò quanto mai difficile pensare a qualcosa di preciso, era forse per via del pianoforte che continuava a suonare e lo intorpidiva, che cresceva d’intensità, si ingrossava e lo sopraffaceva con la sua veemenza, come se a un tratto chi suonava stesse lì accanto a lui.
Questo avvenne un mercoledì, in un’ora compresa, come detto, fra le sei e mezzo e le sette di sera. Il venerdì il fratello di Fonseca si recò dal colonnello Rochonville e gli comunicò che Fonseca era scomparso.