domenica 30 dicembre 2018



DUE SICILIE (1)
ENGELSHAUSEN
Alexander Lernet-Holenia
Traduzione di Cesare De Marchi
Adelphi eBook
RISVOLTO
«“Il Re delle Due Sicilie”, abbreviato nell'uso in “Le Due Sicilie”, era il nome di un reggimento di ulani dell'esercito austro-ungarico» scrive Sciascia in un'appassionata recensione a questo romanzo «e coloro che vi appartenevano erano “Sizilien-Ulanen”, ulani siciliani». Al crollo dell'impero, quel reggimento non esiste più, e il colonnello Rochonville, cinque ufficiali e un sottufficiale sono i soli sopravvissuti. Ma durante un ricevimento nella Vienna decaduta del 1925 uno di loro, Engelshausen, viene trovato prono, la faccia rivolta al soffitto e il collo torto «come notoriamente fa il diavolo quando viene a prendersi qualcuno»: un enigma per i suoi compagni e per la polizia. Altre morti non meno misteriose e all'apparenza irrelate scuoteranno Vienna, e sempre a essere colpiti nei modi più sofisticati e bizzarri saranno gli ultimi dragoni del reggimento «Due Sicilie». Scambi di persona, avventurose vicende parallele, visioni apocalittiche: è il materiale principe per Lernet-Holenia, e lo si trova qui in una versione che spinge questi tratti all'estremo. Thriller di audace architettura e sapienti depistaggi, ora onirico e poetico ora intriso di nostalgia per un mondo inabissato, Due Sicilie ha per Sciascia «un che di labirintico, affascinante e insieme vertiginoso» – una sua «diabolica essenza». E sa calarsi «dentro una conoscenza del cuore umano, dentro introspezioni e descrizioni, di eccezionale acutezza e delicatezza», attingendo uno dei punti più alti dell'epos di Lernet-Holenia.

ENGELSHAUSEN
 1

    Il colonnello del reggimento «Due Sicilie», affacciato alla finestra, osservava i colombi che volavano avanti e indietro. A tratti, dallo spiazzo dove becchettavano e sui cui egli posava lo sguardo, i colombi si levavano a stormo riempiendo l’aria di frulli d’ali.

    Erano colombi d’ogni sorta, marroni, verdi-iridescenti e bianchi con le zampette porporine.

    Il colonnello abitava nei pressi della vecchia università, dov’erano ancora in gran numero chiese e palazzi barocchi, magnifici edifici che non sfiguravano a confronto dei sogni, sorti dalle acque, di un Palladio o di un Sansovino, e sui davanzali e capitelli dei quali i colombi s’erano fatti i nidi.

    Lungo i loro margini, cimase e davanzali erano circondati da chiodi o punte di ferro come da piccole ringhiere: col fine evidente di impedire che gli escrementi dei colombi cascassero di sotto. I quali invece cascavano, lordando le facciate.

    Del resto – considerava il colonnello – i colombi sono animali sudici. Si dice che siano zeppi di pidocchi, e che per giunta siano portatori di brutte malattie contagiose.

    Nondimeno sono simbolo di pace.

    Ormai da sette anni c’era la pace. Correva l’anno 1925. Una pace profonda, anche se al colonnello pareva che non fosse pace. Pur sembrando impossibile che essa di nuovo si mutasse in guerra, era in definitiva meno pace che mai. Tutti i cuori erano rimasti inquieti, e chi parlava di pace non si riferiva mai al presente in cui stava vivendo, bensì all’anteguerra. E se mai fosse tornata la guerra, non si sarebbe trattato di una nuova guerra, ma ancora di quella d’un tempo.

    Il colonnello si chiamava Rochonville. Il reggimento «Due Sicilie» non esisteva più da un pezzo, era stato sciolto, i suoi appartenenti si erano sparsi nei diversi paesi in cui si era frammentato l’Impero, e nessuno più sapeva dove fossero. Quanto a lui, Rochonville, aveva ancora un qualche rapporto con alcuni dei suoi, ma più per caso che per volontà, e in fin dei conti soltanto perché vivevano nella sua stessa città: con cinque ufficiali e un caporale. Era tutto, di altri non si avevano notizie. Fra questi sette e i rimanenti si era già insinuato l’oblio. E anche fra i sette si stava già insinuando l’oblio.

    Nondimeno, quando ormai il reggimento non c’era più da un pezzo, sarebbero avvenuti alcuni fatti destinati a indurre il colonnello, i suoi cinque ufficiali e il sottufficiale a operare come se il reggimento ancora esistesse, e in conseguenza di tali fatti essi non avrebbero esitato a sacrificarsi l’uno per l’altro, e finanche a morire, come se avessero ancora dietro di sé le schiere di innumerevoli armati che un tempo ubbidivano ai loro ordini.

     

     

    Scendeva la sera, e i colombi tornavano ai loro davanzali per dormire. La campana di una chiesa prese a suonare, sommovendo l’aria attraverso ondate quasi bronzee. Il colonnello restò ancora un poco a guardare la piazza che si andava riempiendo di ombre diafane, quindi chiuse la finestra, rientrò in camera e aprì un armadio per prendervi un vestito da sera e cambiarsi.

    Certo era ancora troppo presto, non erano forse nemmeno le sei; ma il colonnello si era ormai abituato a dedicare alle sue faccende molto più del necessario. In ciò, tuttavia, poteva avere anche ragione. Giacché il nostro modo di valutare quanto occorra destinare a una determinata cosa è forse assai superficiale. Forse occuparsi davvero delle cose richiede incomparabilmente più di quanto noi crediamo.

    Rochonville si vestì con cura, non già perché tenesse in particolare al proprio aspetto; bensì perché, divagando i suoi pensieri, si rallentavano i suoi atti. Il frac che indossò era fuori moda. È pur vero che i risvolti della giacca e il panciotto erano d’un materiale pregiato che da un pezzo non veniva più prodotto. Ma i pantaloni, per esempio, erano troppo stretti. Sarebbe stato quindi preferibile ordinare un nuovo frac. Per una spesa di quella entità, al colonnello mancavano però i mezzi.

    Il panciotto era giallino. Il colonnello lo chiuse con quattro bottoni di granato tempestati di brillanti; poi calzò un paio di scarpe di vitello, che lui stesso aveva lucidato sino a renderle lustre come se fossero state di vernice.

    Nell’esercito il coppale era rigorosamente al bando.

    Una volta infilato il cappotto e messo il cappello, il colonnello aprì una scatola che conteneva innumerevoli guanti di camoscio bianco. Giacché nell’esercito neanche la pelle glacé era permessa.

    Il colonnello scelse un paio di guanti, quindi ripose la scatola nel comò da cui l’aveva tolta e richiuse il cassetto. Rimase ancora alcuni minuti nella stanza. Finalmente si accostò all’interruttore, spense la luce e uscì.

    Erano le sette e mezzo quando bussò alla porta della figlia.

    Non ottenne risposta, ma entrò ugualmente, non senza essersi cavato il cappello. Era il modo di fare di sua figlia, non dare risposte che considerava ovvie. Solo se avesse voluto ch’egli non entrasse, avrebbe detto qualcosa.

    Gabrielle Rochonville era già vestita pure lei. Aveva i capelli rossi e le attrattive ma altresì i difetti delle rosse, per esempio mani troppo ruvide, e i denti, benché regolari, parevano senza smalto. Nella luce incerta che rischiarava la stanza il suo viso baluginava perlaceo come attraverso un’ombra.

    Aveva già spento le luci del tavolino da toilette. Le sue cose erano sparse per la camera.

    Pur essendo di bel personale, vestiva con una certa indifferenza, se non trascuraggine. Il colore dei suoi capelli era spento, d’un rosso un po’ troppo opaco perché ci si accorgesse subito di lei, e i pregi della sua figura non s’indovinavano facilmente sotto gli abiti. In generale doveva passare qualche tempo perché ella risaltasse nella sua bellezza, bellezza che aveva un alito di animalità, ma suscitava poi una sorta di sgomento in chi la osservava, un po’ come i giudici della rossa Frine si erano spauriti allorché il suo avvocato era ricorso al magnifico argomento di scoprirle il seno in tribunale per provare la sua innocenza – tanto che era stata assolta; e come la pelle singolarmente screpolata di quella greca, che le aveva procurato il soprannome di Frine (che vuol dire «rospo»), contrastava con la magnificenza della sua persona, così pure nella figlia del colonnello il contrasto fra l’indifferenza con cui vestiva e i pregi della sua persona ne costituiva il fascino quanto mai particolare.

    Padre e figlia, pur avendo un buon rapporto, si erano abituati a intendersi senza parole superflue. Il colonnello, che era rimasto un attimo lì in piedi, la aiutò a infilare il cappotto. Quindi lei prese la borsetta, e i due uscirono insieme dall’appartamento, chiusero a chiave e scesero le scale.

    La notte primaverile, in alto sopra la piazza, era di una bellezza tale che il fioco lume dei lampioni non poteva turbarla. La luna crescente riversava cascate d’argento, poi si nascose dietro una nube nelle cui anse vellutate palpitava un luccichio di stelle.

    I due, Gabrielle e il colonnello, si arrestarono un istante prima di mettersi in cammino.

    Giunti al Ring presero il tram.

    I passeggeri, intenti a chiacchierare prima che i due salissero, ammutolirono osservando la coppia vestita da sera: l’uomo anziano che tra i risvolti del cappotto ave-

 va al collo, ben visibile, una onorificenza, e la rossa che guardava nel vuoto.

     

     

    I due erano invitati a casa di un loro parente, tale Flesse von Seilbig, già governatore di Trieste. I Flesse passavano ancora per gente facoltosa e davano spesso ricevimenti.

    Abitavano in una delle viuzze tra la Wiedener Hauptstrasse e la Favoritenstrasse, sul lato interno di un palazzo piuttosto vecchio. Le finestre davano su un giardino. Nell’appartamento ampio, dalle stanze spaziose, i soffitti erano bassi, e poiché quella sera la signora von Flesse aveva ritenuto opportuno illuminare solo con le candele, vi faceva un caldo esagerato. Ovunque, per di più, mandavano un gran fumo i camini con i quali – in modo piuttosto inopportuno – la signora von Flesse aveva sostituito le stufe nell’intera casa. I domestici non erano in grado di governare quei focolari con cui avevano scarsa dimestichezza.

    Nel complesso, tuttavia, la serata trascorse passabilmente. A tavola sedevano dieci persone, in seguito se ne presentarono due volte tante, tra cui uno degli ex ufficiali di Rochonville, Kaminek von Engelshausen, un giovanotto che faceva la corte a Gabrielle.

    Fu ormai a tarda sera che Rochonville si vide trascinato in una lunga conversazione da un signore che non conosceva e di cui gli era sfuggito il nome. Lo sconosciuto poteva avere un’età fra i trentacinque e i quarant’anni. Era alto e snello, quasi magro. In un primo momento non aveva badato a Rochonville. Era in un gruppo di uomini, ai quali il colonnello si avvicinò, e stava discorrendo della Russia. Parlava con un leggero accento, non immediatamente definibile, come le persone che hanno molto viaggiato.

    A quanto pareva, era stato in un campo di prigionia, ma era riuscito a fuggirne. Stava appunto descrivendo il lungo tempo trascorso sul Volga presso un colono che evidentemente lo aveva tenuto nascosto.

    «Quell’uomo» raccontò «aveva un figlio suppergiù della mia età, che in origine non era stato ritenuto abile al servizio militare, ma che ora sarebbe stato arruolato. Io mi offrii subito di prendere il suo posto sotto le armi. Non dubitavo infatti che, una volta spedito al fronte, avrei trovato occasione di disertare e far così ritorno dai nostri.

    «Ma a motivo della mia statura non mi assegnarono a un qualche reggimento governativo, finii invece fra le reclute della Guardia. Sono sempre stato dell’opinione che oltrepassare il giusto mezzo comporti solo svantaggi. Un uomo alto dà sempre nell’occhio, non sta su nessun cavallo, non entra in nessuna carrozza, in nessun letto; se si fa uno strappo nei pantaloni non trova da comprarne un paio confezionato; e se poi ha anche un briciolo di cervello più dei suoi simili, non riesce più a capirsi con loro.

    «Così anche nel mio caso potevo solo attendermi svantaggi dall’essere assegnato alle reclute della Guardia. Se mi avessero messo in un reggimento di fanteria di linea, dopo un addestramento di non più di sei od otto settimane mi avrebbero probabilmente mandato a combattere, e io avrei potuto realizzare la mia fuga. Viceversa nella Guardia l’addestramento era assai più lungo, e nella cavalleria della Guardia – soprattutto a motivo degli inutili esercizi con la lancia – e nell’artiglieria era certo di durata imprevedibile.

    «Per di più, noi reclute della Guardia ci lasciarono inoperose per parecchie settimane al fine di serbarci a un evento che si ripeteva ogni anno suscitando una particolare sensazione. Il granduca Nikolaj, infatti, amava assegnare di persona le reclute ai singoli reggimenti della Guardia; gli ufficiali vi presenziavano con le loro signore, e il tutto porgeva occasione a una sorta di festa militare. Anche quell’anno, nonostante la guerra, il granduca era venuto nella capitale ed eseguì in prima persona l’assegnazione delle reclute.

    «L’evento aveva luogo nel cosiddetto maneggio Michajlovskij, una scuola di equitazione talmente grande che, si diceva, due batterie avrebbero potuto farvi simultaneamente le esercitazioni. Il bel mondo riempiva i palchi, venivano serviti rinfreschi e champagne, due bande militari suonavano a turno, e pertanto senza interruzione, mentre al centro del maneggio il granduca assegnava le reclute ai reggimenti.

    «Queste ultime provenivano da ogni parte dell’immenso impero: erano pastori degli Urali e cacciatori della tundra siberiana, contadini bielorussi e nomadi delle coste del Mar Giallo. Dovevano essere alti di statura e avere un bell’aspetto. Altro non era richiesto. Ma trattandosi di gente semplice, frastornata dal rumore, dalla musica e dallo sfolgorio delle uniformi e delle medaglie, erano state impartite disposizioni onde evitare che costoro turbassero con qualche balordaggine lo svolgimento dell’intera faccenda. Così dal centro del maneggio, dove si trovava Nikolaj Nikolaevič, fino ai muri si allargavano trentuno file, corrispondenti ai trentun reggimenti della Guardia (senza contare la divisione dei cosacchi della Guardia), di sottufficiali dei singoli reggimenti. Il tutto somigliava ai raggi di una stella. Quando una recluta stava dinanzi al granduca, questi la squadrava e la destinava a uno dei reggimenti. L’aiutante di campo scriveva col gesso sul dorso della recluta il nome o il numero del reggimento e poi la spingeva verso la fila corrispondente dei sottufficiali. Il primo sottufficiale la prendeva in consegna e la spingeva fra le braccia del secondo, questi in quelle del terzo, finché l’uomo arrivava al muro dove stavano i suoi camerati. Nel frattempo era già il turno delle reclute successive.

    L’assegnazione ai singoli reggimenti avveniva secondo princìpi ben precisi. C’era ad esempio il reggimento Pavlovskij, i cui appartenenti dovevano tutti essere biondi, butterati e col naso rincagnato: questo a ricordo della fisionomia dello zar Paolo I, caduto per mano assassina nel 1801. In un altro reggimento dovevano tutti avere gli occhi azzurri e la barba nera. E ogni volta che il granduca assegnava una recluta, gli ufficiali e le signore del reggimento relativo applaudivano.

    Giacché le reclute da destinare erano centinaia, anzi migliaia, si procedeva con relativa speditezza. Nikolaj Nikolaevič, nella sua uniforme di ussaro e fumando di continuo sigarette con il bocchino lungo, che non si toglieva dalle labbra nemmeno per parlare, esaminava gli uomini e procedeva con grande sicurezza in rapida successione: “Corazzieri gialli, Izmajlovskij! Ussari, corazzieri azzurri! Preobraženskij, Cavalleggeri, ulani di Sua Maestà!”. Col che intendeva il reggimento di ulani della guardia del corpo dello zar. C’erano però anche ulani della guardia del corpo della zarina, detti “ulani di Sua Maestà la zarina”. L’aiutante di campo seguitava a scrivere col gesso, e le reclute si dileguavano ai quattro venti.

    «Considerando questa scena mi ero subito detto, naturalmente, che la procedura della mia assegnazione a un reggimento sarebbe durata appena un istante. Una volta spinto davanti al generalissimo, questi mi avrebbe sfiorato con un’occhiata destinandomi, per la mia relativa gracilità, ai dragoni, agli ussari o all’artiglieria, e non ai corazzieri – ciò che comunque non avrebbe fatto differenza, quanto alla durata dell’addestramento –, ma in nessun caso alla fanteria, composta di tipi ben inquartati.

    «Ma doveva andare assai diversamente da come mi ero immaginato. Quando il destino si mette davvero a governare, tutto va sempre in maniera assai diversa da come si credeva. Mi ero stillato il cervello cercando il modo di cavarmi da quell’impiccio, ma non mi era venuto in mente proprio nulla. Ero lì in fila con le altre reclute ed ero trascinato passo dopo passo verso il granduca, come da un moto ineluttabile che spegneva finanche il mio pensiero. A sconcertarmi era poi il fatto che Nikolaj Nikolaevič mi ricordava mio padre; e più mi avvicinavo a lui, più questa somiglianza mi soggiogava. Portava la barba come mio padre e aveva pure le stesse borse sotto gli occhi. Perfino le sue mani, non calzate nei guanti, mi parevano perfettamente simili alle mani di mio padre. Pur se grandi e forti, erano di bella forma, un poco rossicce, con le dita affusolate e le unghie leggermente curve.

    «Gli ero stato spinto ormai così vicino che potei osservare tutto ciò con precisione. Nikolaj Nikolaevič sfiorò anche me con il suo sguardo; e adesso, pensai, nominerà un qualche reggimento di cavalleria o di artiglieria dal lunghissimo addestramento. E invece i suoi occhi, che strizzava lievemente – proprio come mio padre –, si dilatarono, dopodiché si tolse addirittura – in certo senso con la mano di mio padre – la sigaretta di bocca, e proruppe infine in una sonora risata.

    «“Ma guarda un po’, Konstantin Il’ič!» esclamò. “Pensavi davvero che non t’avrei riconosciuto?”.

    «A quel tempo avevo vissuto già abbastanza in Russia da capirne a sufficienza la lingua, per quanto la parlassi appena. Nondimeno non riuscii a comprendere che cosa intendesse.

    «“Ti sei fatto perfino crescere la barba” continuò. “Un’idea di barba, quantomeno. Un’autentica idea di barba!”. Dicendo questo mi si era avvicinato e – sempre con le mani di mio padre – stava tirando adesso la barbetta che mi era cresciuta. Ebbi la stessa sensazione che provavo quando mio padre mi tirava per un orecchio. “Ma il portamento, Konstantinuška, figlio mio!” rise. “Il portamento! Non ti dicevo forse che anche se recitassi la parte del contadino, del cocchiere o dell’impiegato delle poste, il portamento ti tradirebbe? Dal proprio portamento non si esce, figliolo, così come non si esce dalla propria pelle. Non si può. Uno resta quello che è”.

    «Considerai il più rapidamente possibile quali conseguenze avrebbe comportato questo palese scambio di persona. Era chiaro che dovevo rispondere qualcosa. Quel Konstantin Il’ič, che io ignoravo chi fosse, ma con il quale mi aveva confuso, ora doveva pur dire qualcosa, se non voleva che Nikolaj Nikolaevič prendesse in mala parte il travestimento di Konstantin Il’ič.

    «Non potevo certo rispondere nel mio miserabile russo. Rispondere in tedesco mi pareva inutile e rischioso. Scelsi dunque il francese, benché anche questo mi sembrasse piuttosto azzardato.

    “Eccellenza Imperiale,” dissi “non sono Konstantin Il’ič. Sono il figlio di un colono del governatorato di Saratov e chiedo che mi si inquadri nel reggimento di fanteria”.

    «“Ah sì?” rise lui aggiungendo, con mio stupore, in buon tedesco: “Saresti un colono, un volgarissimo contadino, e parli il francese come chissà chi?”.

    «“Ho fatto la scuola ad Astrakhan” replicai, a mia volta in tedesco.

    «Ora fu lui a stupirsi.

    «“Che tu parlassi anche il tedesco, non lo sapevo proprio” disse. “Me l’avevi tenuto nascosto, piccolo mio”. E qui si rivolse al suo aiutante di campo: “Lei che ne dice: Konstantin Il’ič parla tutte le lingue e pretende di essere un contadino!”.

    «Anche l’aiutante si sentì in dovere di ridere. Non sembrò tuttavia nutrire dubbi sul fatto che io fossi Konstantin Il’ič. L’incidente cominciava a destare attenzione. I sottufficiali e le reclute lì attorno non sapevano bene che cosa pensare, ma nei palchi la gente si era accorta che non si procedeva secondo le regole, e le teste si sporgevano a guardare.

    «“E perché proprio in fanteria, figliolo?” domandò il granduca. “Sempre a piedi, sempre con il bagaglio in spalla! Cosa ti frulla per la testa? Non ti pare più bello andare a cavallo? A Dio piacendo, sai cavalcare come si deve. O sei troppo pigro per accudire il tuo cavallo? Non dovrai mica farlo di persona, si troverà ben qualcuno che lo faccia per te”.

    «Io non ero minimamente preparato a tutte quelle domande. E poi mi rendevo conto del pericolo in cui incorre chi vuole impersonare qualcun altro. Sembrava più che possibile passare anche per una terza o una quarta persona. A un tratto, uno non sapeva più chi fosse in realtà. Mi prese come una vertigine.

    «“Eccellenza Imperiale,” dissi “se venissi assegnato alla cavalleria dovrei temere di non arrivare in tempo sul campo”.

    «“Ma tu sei sul campo” rise lui. “Arrivi giusto dal campo. Sei venuto apposta dal campo per recitare questa burletta. E per giunta fai tanto il patriota, quando non sei che uno scettico e un cavilloso! Non è forse così? Io lo so, non simulare, lo so benissimo. Dunque, per davvero, a che cosa mai non arriveresti più in tempo?”.

    «“Alla guerra”.

    «“Quella durerà quanto basta. O credi forse che la vinceremo tanto alla svelta?”.

    «“No”.

    «“E allora? Che altro?”.

    «“Perderla forse?”.

    «Dio solo sa chi mi aveva ispirato quella risposta. Probabilmente pensai di dover parlare così perché Konstantin Il’ič era “uno scettico e un cavilloso”; e si sa che i grandi, finché sono di buon umore, amano le battute degli scettici. Gli scettici fanno le parti dei giullari di corte, diciamo. Invece fu subito chiaro che la mia risposta era stata la più malaccorta che potessi dare. Io stesso devo essere rimasto sconcertato che mi fosse uscita di bocca, e anche l’espressione del granduca si alterò istantaneamente.

    «“È questo che pensi?” gridò.

    «Non ero più in condizione di rispondere. Mi provai a balbettare che io, colono tedesco, avevo in verità voluto dire che gli imperi centrali avrebbero perso la guerra. Ma non riuscii a proferir parola. La mia frase, però, pareva aver fatto anche su di lui una profonda impressione. Forse già lui stesso nutriva dubbi sull’esito felice della causa russa. Forse non si era trovato ancora nessuno che osasse riferirgli quell’opinione, ormai di dominio universale. Comunque appressò la sua alla mia faccia e mi investì:

    «“Lo credi veramente? Lo credete forse già tutti nel vostro maledetto reggimento? Be’, e quanto dite che durerà ancora?”.

    «“Un anno forse” risposi.

    «Non mi restava altro che dire qualcosa di simile, perché ormai non potevo più tirarmi indietro.

    «Lui si drizzò sulla persona. Quell’apparente confidenza gli parve aver passato la misura.

    «“E allora” gridò in russo “non hai proprio tempo da perdere, figliolo! E non te lo lascerai scappare! Via! Torna al tuo reggimento! E per prima cosa avrai due settimane di consegna!”.

    «Così dicendo mi colpì sul petto. L’aiutante di campo poteva non aver capito il tedesco, ma sembrò sentirsi in obbligo di capire il russo. Avvertii che, continuando a ridere, mi scriveva col gesso qualcosa sulla schiena. Evidentemente ritenne le parole di Nikolaj Nikolaevič il coronamento dello scherzo intercorso tra noi e mi scrisse sulla schiena il numero del reggimento del vero Konstantin Il’ič.

    «“E lei non rida così come uno scemo!” udii Nikolaj Nikolaevič gridare all’aiutante. Ma anche la condotta dei sottufficiali tra i quali fui spinto, non mi lasciò alcun dubbio che pure loro credessero di riconoscere in me un ufficiale del reggimento. Con prudente rispetto mi fecero procedere verso il muro.

    «Mi rivolsi a una delle reclute che avevo accanto. “Che cosa mi hanno scritto sulla schiena?” bisbigliai. Quel balordo non sapeva leggere. “In che reggimento siamo, accidenti?” sibilai, e lui mi rispose: “Ussari di Grodno”.

    «Era uno dei reggimenti più ragguardevoli. Con ogni evidenza dovevo essere un aristocratico con cui il granduca era in amicizia, ero perlomeno un “dvorianin”, un nobile. Soltanto ufficiali nobili, infatti, servivano nella Guardia. Quando ci fecero uscire dalla scuola di equitazione respirai. Quella sera stessa montammo – un centinaio dei miei nuovi camerati e io – in un vagone militare. Anche il sergente maggiore, che comandava il trasporto, mi prese palesemente per un ufficiale. Mi chiamò “illustrissimo” e sembrò giudicare una pazzia il fatto che volessi passare per una semplice recluta.

    «Avevamo viaggiato una notte e un giorno quando, durante una sosta del treno in una stazione, udii il sergente maggiore chiamare con voce stentorea il mio nome, o meglio quello del figlio del colono tedesco che avevo rimpiazzato. “Gagemann!” urlò. “Wilgelm Karlovič Gagemann!”. I russi infatti non sanno pronunciare bene la h tedesca. Guardai fuori. Il sergente maggiore stava sul marciapiede circondato dal personale della stazione, e si passavano l’un l’altro un foglio, evidentemente un dispaccio.

    «L’imbroglio – se così lo si poteva chiamare – era stato scoperto. Saltai subito giù dal treno, sul lato opposto, e mi misi a correre per salvare la vita. Per non perdere tempo non mi voltai neppure una volta. Mi accorsi tuttavia che mi venivano dietro. Udii pure detonare fragorosamente alcuni colpi di revolver, e i proiettili mi sibilarono sopra la testa. Fucili, per buona sorte, non dovevano averne a portata di mano.

    «Dopo una mezz’ora mi ero liberato dei più immediati inseguitori. Mi lasciai cadere in un canale asciutto, boccheggiando. Appena mi fu possibile, ripresi la fuga.

    «Non è mio proposito trattenere oltre l’attenzione di lorsignori sui particolari della fuga, che dopo notevoli fatiche e pericoli mi portò finalmente di là dal Caucaso. Migliaia di fughe più o meno simili alla mia sono riuscite, molte di più sono fallite. Benché taluni asseriscano che la vita reale offre le storie più interessanti, questa affermazione non è meno banale di quelle che sono sulla bocca di tutti. Quanto a me, ho riscontrato invece che ciò che si chiama realtà, pur essendo sgradevole, è destituito di qualsiasi interesse. La vita incomincia invece a farsi interessante nei momenti in cui diventa irreale; e i racconti di maggior perfezione sono quelli che, per grande che sia la loro pretesa verosimiglianza, toccano il grado più alto di inverosimiglianza.

    «Fu qualche tempo dopo la fine delle ostilità che ebbi occasione di recarmi al Ministero della guerra a studiarvi gli elenchi dell’esercito russo. Mi indirizzarono all’archivio, nella caserma centrale. L’episodio del maneggio Michajlovskij si era verificato nel 1916. Mi feci portare quell’annata. Fu, sia detto per inciso, l’ultima a essere redatta. Negli ussari di Grodno a quel tempo c’era un solo ufficiale che si chiamava Konstantin Il’ič. Era un tale Konstantin von Pufendorf.

    «Tenni a lungo lo sguardo su quel nome. Io sarei dunque stato quell’uomo. Non lo conoscevo, non sapevo nemmeno che esistesse. E tuttavia io ero lui, e lui era stato me. Del resto, se uno è qualcun altro, io credo, non viene mai a saperlo.

    «Nikolaj Nikolaevič avrà magari discusso a volte con Pufendorf se sia possibile travestirsi perfettamente da qualcun altro, ovvero se lui, il granduca, avrebbe saputo riconoscere Konstantin Il’ič anche sotto mentite spoglie. A un colloquio del genere può aver dato occasione il disorientamento ormai crescente nell’intera Russia. Ma non è escluso che una certa mania di persecuzione vi abbia avuto la sua parte. Ora, i membri delle famiglie sovrane credono sempre di avere un occhio infallibile. Ritengono di saper leggere nelle facce delle masse come in un libro aperto. Insomma, quando comparvi innanzi al granduca, questi, poiché evidentemente assomigliavo a Konstantin Il’ič, mi prese per lui.

    «Ma se non gli avesse parlato di simili questioni, probabilmente non mi avrebbe mai scambiato per lui.

    «Continuai soprappensiero a sfogliare gli elenchi. Dopo un po’ un altro punto mi risultava oscuro. Non capivo, cioè, perché avessero scoperto tanto in fretta lo scambio di persona. Ma ebbi subito un sospetto.

    «Mi feci portare gli elenchi dei caduti dell’esercito russo. E difatti trovai dopo poche pagine quel che cercavo. Konstantin Il’ič era tra i caduti.

    «La morte lo aveva colto pochi giorni prima dei fatti occorsi al maneggio Michajlovskij. La cosa risultava chiaramente dai dati registrati in quell’elenco. Nell’intervallo fra il colloquio con Nikolaj Nikolaevič e il momento in cui avevano telegrafato al mio convoglio, la notizia doveva aver raggiunto il granduca, o perché questi aveva comunicato qualcosa al reggimento per inasprire la punizione di Konstantin Il’ič, e ne aveva ricevuto la risposta che Konstantin Il’ič era morto; o perché la notizia gli era pervenuta a prescindere da ciò. Poteva anche darsi che il granduca si fosse rivolto al vecchio Elias von Pufendorf per lamentare l’insolenza di suo figlio, e che quegli – il quale assomigliava forse a mio padre e quindi al granduca quanto io al figlio – gli avesse risposto che il preteso insolente non era più in vita.

    «Così soltanto, o in modo molto simile, poteva essersi svolta la faccenda. Non poteva essere andata altrimenti. E tuttavia mi pareva che soltanto così tutto avesse ricevuto un senso; e a lungo non abbandonò i miei pensieri il capriccio di provare a immaginarmi che cosa fosse passato per la mente del granduca dopo esser venuto a sapere che ero sparito dal treno. Mi sembra certo che si rivolsero subito al padre del colono che avevo rimpiazzato. Invece trovarono un’altra volta “me”, o meglio: credettero di aver trovato veramente “me” – ma ecco che a un tratto io non mi assomigliavo più, “io” ero tutt’altra persona da quella del maneggio. A voler veramente documentare l’identità di una persona, si scende in un abisso senza fondo: quando noi stessi non sappiamo chi siamo in realtà! Povero Wilhelm Hagemann! Povero sergente maggiore degli ussari di Grodno, che non era riuscito ad acciuffarmi!

    «E Nikolaj Nikolaevič? Poteva davvero essersi convinto di aver parlato con lo spirito di Konstantin Il’ič che, caduto in guerra pochi giorni prima, ma “scettico e cavilloso” anche dopo la morte, gli aveva predetto la sconfitta della Russia. I segni che ci invia il destino hanno tanto o tanto poco significato quanto riusciamo a indovinarne noi...

    «In ogni caso il granduca deve essere stato sicuro che la catastrofe sarebbe arrivata. Perché della parola di un soldato forse si può ancora dubitare; della parola di un soldato morto, no».

    2

    Qui lo sconosciuto pose fine al suo racconto. Vi fu un silenzio, in cui non si udì che il vocio degli altri ospiti seduti più lontano; quindi parlò Flesse:

    «Se non avessi detto tu stesso che soltanto le storie irreali meritano di essere raccontate, penserei che la tua storia sia vera».

    L’altro scrollò le spalle e sorrise.

    «Mai privare qualcuno di un’illusione» disse. «Men che meno svelandogli che è una verità».

    «E perché,» fu ora il colonnello a prendere la parola «perché pensi che si debba credere più a un soldato morto che a uno vivo?».

    Lo sconosciuto si volse e fermò gli occhi sul colonnello.

    «Forse» disse «potrei risponderti che i morti non mentono. Ma anzitutto sarebbe troppo banale, e inoltre non è dimostrato. Com’è quel proverbio? Meglio un cane vivo che un leone morto, o qualcosa di simile. Ma un soldato morto a me sembra che valga ben più di uno vivo».

    «Perché?» chiese il colonnello. «Che cosa intendi dire?».

    «I morti» proseguì lo sconosciuto «ormai non parlano più. Ma se un soldato morto potesse parlare, si saprebbe che cos’è realmente un soldato».

    «Per quale motivo?» chiese il colonnello. «Perché dovrebbe essere morto?».

    «Perché chi si fa soldato dev’essere anche pronto a morire; e perché un soldato non ancora caduto in battaglia non ha condotto dunque a compimento ciò cui si era votato».

    «Ma non giura mica di morire a ogni costo» disse il colonnello. «Giura solo di agire a rischio della vita. A chi giova che la perda davvero? Soltanto ai suoi nemici. O credi forse che l’onore di un esercito sia commisurato al numero dei suoi caduti? È commisurato alle sue vittorie».

    «Non ci capiamo del tutto» disse lo sconosciuto. «Io parlo dei guerrieri in generale, tu ragioni del mestiere». Così dicendo accostò come distrattamente le punte delle dita alla medaglia del colonnello, quasi volesse toccarla. «Tu ragioni del lato pratico della cosa, mentre io ragiono dello spirito soldatesco. Una vittoria dipende, oltre che dal valore della truppa, dall’abilità dello stato maggiore e dalla fortuna. Ma la condotta onorevole di un soldato dipende da lui solo. E l’onore più alto nella vita di un soldato è la morte. Anche il popolo, comunque finiscano le guerre che conduce, ha un rispetto assoluto per i suoi morti. E in ogni modo il senso di una guerra non emerge mai nel corso della guerra stessa, ma soltanto dopo, dalla storia. Concedo che questo significhi dare forse troppa dignità agli storici. Ma è davvero di grande importanza sapere come furono le cose e gli eventi? Quel che conta è come sono. Nessun passato esiste più se non nel presente, e nulla è stato davvero se non ciò che ancora è. È indifferente com’era. Esiste ormai solo in quanto si presenta a noi».

    Il colonnello voleva replicare, ma non gli fu possibile poiché lo sconosciuto proseguì:

    «Che significa allora per noi, in sé, lo scontro di Borodino ad esempio, che significa Plevna, o Aladja Dagh! Chi ricorda ancora chi vinse realmente a Höchst, al monte Harsány, a Thionville! Ormai sappiamo solo che ovunque risuonino alle nostre orecchie i nomi delle battaglie, eroi morti o feriti hanno intriso del loro sangue la terra. E forse nelle innumerevoli albe che hanno illuminato i campi di battaglia, chiare o nebbiose, grevi o da brivido dopo le veglie notturne, forse tutti i guerrieri mossi l’un contro l’altro a battaglia non sapevano neppure loro a che cosa miravano i comandanti. Sapevano solo che c’era la guerra. Avevano la convinzione di essere soldati e di doversi sacrificare nel momento in cui avessero rullato i tamburi e squillato le trombe».

    Di nuovo il colonnello avrebbe voluto controbattere, e di nuovo lo sconosciuto gli impedì di prendere la parola. Sembrava in preda a un’irresistibile coazione a parlare e, pur avendo appena terminato una lunga storia, si diffuse in altre considerazioni:

    «Checché si pensi della guerra: soltanto i morti giustificano le guerre. Il loro sacrificio è più glorioso di una vittoria. Le pieghe delle bandiere conservate nelle chiese e negli arsenali non sussurrano che i loro nomi, e le lettere dorate incise nel marmo delle lapidi celebrano solamente loro. Non ci sono commemorazioni senza lutto. Vedi quindi» concluse soddisfatto lo sconosciuto «che in ogni caso l’onore più grande nella vita di un soldato è cadere in battaglia».

    «Certo» concesse comprensivo il colonnello. «Ma non rinfacciare a nessuno di non essere caduto. È sufficiente che un soldato sia pronto a dare la vita. E questo val quanto averla già data. Morire non è gravoso per chi non ci pensa; ma è un atto sublime in chi sa di dover morire. Come la natura favorisce con ogni sorta di attrattive la nascita della vita, così cerca di impedirne la fine con ogni sorta di repulsione. Insomma la morte di un individuo non è minimamente comparabile alla morte di un altro. Quindi interrogare i soldati morti, come tu proponi, è senza scopo. Non saprei che altro direbbero rispetto a ciò che dicono i vivi».

    «Be’,» replicò lo sconosciuto «potrebbero per esempio domandare come mai i loro camerati sono ancora in vita».

    «Sono vivi,» disse il colonnello aggrottando le sopracciglia «sono vivi... o meglio: non sono più riusciti a morire perché un giorno hanno detto loro che non erano più soldati».

    «Un soldato non cessa mai di essere soldato» asserì lo sconosciuto.

    Il colonnello non rispose subito. Si stava evidentemente chiedendo chi fosse quell’uomo che s’era messo a dargli lezioni sulle virtù militari. Si accingeva finalmente a replicare, quando lo sconosciuto disse:

    «Via, stiamo facendo una conversazione del tutto inattuale. Oggi l’onore militare è in ribasso, l’orgoglio è caduto nell’oblio e la fama si è dissolta. La fama! Che cos’è poi la fama? Rumore intorno al silenzio degli eroi. O, nel migliore dei casi, la deferenza sgomenta di contemporanei e posteri. Bene. Ma che uomo sarebbe mai colui che facesse qualcosa solo in vista della deferenza! Anche il soldato agisce onorevolmente solo perché non può agire altrimenti. Se sei un uomo onesto, provati un po’ ad agire disonestamente – non ci riuscirai. Che senso ha allora affannarsi tanto? Un poeta – credo Ossian – afferma bensì che “l’ombre dei morti in guerra intorno stanno Sitibonde di canto”. Ma io non posso crederlo. Celebrare significa: tacere. In un modo o nell’altro si rimane soldato, anche senza deferenza. Si potrà anche, pro tempore, scordarsi d’esserlo, ma in fondo lo si rimarrà sempre. E si continuerà sempre, anche dopo avere smesso da lungo tempo la divisa, ad agire da soldato».

    «Indubbiamente,» disse il colonnello «per quanto io stesso, ad esempio, al momento non saprei di preciso come. Dato che non posso considerare un’attività molto soldatesca il non saper più che cosa fare del mio tempo».

    «Se anche tu fossi andato in pensione nella pace più profonda, non avresti più saputo che cosa farne» disse lo sconosciuto. «Ma non è questo che intendo. Invece basterebbe che un qualche evento ti si parasse innanzi, e torneresti a essere quello che eri».

    «Ma non mi si para innanzi nessun evento» disse il colonnello. «È proprio questo il punto: tutti fanno finta che non sia successo nulla e nulla debba più succedere».

    «Ogni momento» disse lo sconosciuto «succede incomparabilmente più di quanto si possa immaginare, e ogni momento gli uomini fanno finta che non succeda nulla. Certo non si può prevedere niente di determinato. Non esistono vere e proprie predizioni. Solo se sapessimo tutto ciò che è stato potremmo predire ciò che sarà. Ma poiché sono accaduti infiniti eventi, ne consegue che ne accadranno ancora infiniti altri – a prescindere dal fatto che è un po’ gramo dover sempre aspettare eventi esterni per agire. Meglio agire di propria iniziativa. Ma come che sia, puoi trovare in ogni momento una nuova occasione per farti valere, te... e i tuoi».

    «E chi sarebbero... questi miei?».

    «Il tuo reggimento, per esempio».

    «Ma non esiste più».

    «In tal caso: quanto ancora ne sussiste. Magari potete persino recuperare quel che non vi è stato concesso».

    «E che cosa non ci sarebbe stato concesso?».

    «Morire da soldati, per esempio».

    «Stai delirando» disse il colonnello con una scrollata di spalle e fece cadere la cenere del suo sigaro, che fumava col filtro di carta, in una ciotola posta sulla consolle di uno specchio. «Tu vuoi che siano tutti andati, così resti soltanto tu a raccontare le belle storie che pretendi di aver vissute».

    «Ma» disse lo sconosciuto «già una volta ero effettivamente morto quando ho vissuto una di queste storie».

    Poi però, quasi a stornare quella conversazione che pareva non condurre più a nulla, domandò:

    «Sai forse dirmi chi era il giovanotto che prima stava parlando con tua figlia?».

    Questa domanda lo sconosciuto la fece senza voltarsi verso i due cui accennava. Il colonnello guardò nella direzione dove sedevano, o meglio dove erano stati a sedere Gabrielle ed Engelshausen. Infatti le loro poltrone adesso erano vuote. I due erano forse andati in un’altra stanza. Il colonnello, conversando, non se n’era accorto. Tanto più lo meravigliò che l’altro, senza guardare, l’avesse scoperto.

    «... Un signor di Engelshausen» disse infine. «Uno degli ufficiali del mio reggimento» si sentì in obbligo di aggiungere.

    «Vedi!» disse lo sconosciuto. «Dunque esiste ancora qualcuno di quel tuo reggimento!».

    «Nemmeno questo» replicò il colonnello «è del tutto esatto. Potrei affermare altrettanto a ragione che quel giovane non era nel mio reggimento. Il suo è un caso singolare, per quanto non escludo che un fatto del genere possa essersi verificato anche altre volte. Dopo aver concluso l’accademia, era stato comandato al reggimento quando l’esercito si andava ormai sciogliendo. Arrivò al campo allorché noi lasciavamo i nostri presìdi ed eravamo già sulla via del ritorno. Sicché non gli restò altro che mettersi in viaggio pure lui per rientrare, e l’unica occasione che ebbe di presentarsi a me fu nel momento in cui stavo licenziando il reggimento».

    «È doloroso» disse lo sconosciuto, e sembrò, invero per la prima volta, che intendesse effettivamente quanto diceva. «Tuttavia non dubito che, se ne avesse avuto l’occasione, si sarebbe fatto valere».

    E così dicendo accennò un inchino all’indirizzo dei presenti e si allontanò.

    «Chi era?» chiese subito il colonnello.

    Flesse disse che era un tal capitano di cavalleria Gasparinetti.

    «Di che reggimento?» chiese il colonnello.

    Era sicuro di non aver mai sentito quel nome nell’esercito. Nondimeno gli sembrava di averlo conosciuto in qualche altra circostanza.

    Flesse rispose che non sapeva a quale reggimento appartenesse. «Persona singolare, comunque» aggiunse.

    In quel momento Gabrielle rientrò, ma non era più in compagnia di Engelshausen. Gli invitati, a quell’ora, si accingevano ormai ad andare via. Poteva essere l’una. Le persone si salutavano, le stanze si svuotavano. Delle due cameriere l’una, nel vestibolo, aiutava gli ospiti a infilare il cappotto, l’altra era scesa al portone, l’aveva aperto ed era rimasta lì.

    Rochonville, mettendosi il cappotto, stava per rivolgere una domanda alla figlia, ma questa lo precedette dicendo che Engelshausen si era offerto di portare a casa in vettura entrambi, lei e il colonnello.

    Si fermarono pertanto ad aspettare nel vestibolo, mentre gli altri invitati, da cui avevano già preso congedo, si rivestivano e salutavano ancora. Solo Engelshausen non compariva. Immaginando che poteva essersi già avviato alla vettura, scesero al portone.

    Per le scale Gasparinetti si unì a loro. Portava un cappotto piuttosto aderente in vita e una sciarpa di seta bianca. Aveva il cappello un po’ inclinato e calato sugli occhi e teneva le mani in tasca. Attraversarono il cortile, e Gasparinetti prese a conversare, o meglio: parlava con la sola Gabrielle, dal momento che il colonnello non partecipava a quel colloquio; aveva deciso che Gasparinetti era troppo ciarliero.

    Un battente del portone era aperto, e la cameriera aspettava di fianco. Di fronte al palazzo non c’era più che una sola vettura ferma, probabilmente quella di Engelshausen, ma Engelshausen non si vedeva. Mandarono su la cameriera a chiedere se per caso fosse ancora di sopra. Nel frattempo il capitano di cavalleria discorreva con Gabrielle. Dopo qualche tempo la cameriera ritornò a dire che, di sopra, Engelshausen non c’era, ma un cappotto e un cappello – evidentemente i suoi – erano ancora appesi nell’ingresso.

    I tre si guardarono l’un l’altro, quindi il colonnello disse che se Engelshausen non c’era, dovevano andare a casa a piedi. Gabrielle però fece presente che le era scomodo camminare con le sue scarpe da sera; e chiese se non fosse proprio possibile avvertire Engelshausen che lo stavano aspettando.

    Il colonnello pertanto tornò di sopra con Gabrielle, e curiosamente anche Gasparinetti rientrò con loro, benché la cosa in fondo non lo riguardasse. «Sei sicura che Engelshausen voleva portarci a casa?» chiese il colonnello alla figlia.

    «Sì» rispose lei. «Certo. Del resto dev’essere ancora qui, sennò la sua vettura sarebbe già andata via». Nell’ingresso c’erano ancora cappotto e cappello, e i Flesse, aiutati dalla cameriera rimasta di sopra, stavano disponendosi a rimettere un po’ d’ordine.

    Entrando, il colonnello si scusò di essere tornato indietro e aggiunse che stava cercando Engelshausen. I Flesse, stupiti, risposero che neppure loro lo avevano visto. Forse, dissero, se n’era già andato?

    «Non è venuto a salutarti?» chiese Flesse alla moglie.

    Ella rispose che non se ne ricordava. E Gasparinetti fece osservare che quando tante persone se ne vanno nello stesso momento, non sono necessariamente tenute ad accomiatarsi una per una.

    «Quand’è l’ultima volta che hai parlato con Engelshausen?» chiese il colonnello a Gabrielle.

    «Poco fa» rispose lei.

    «E dove?» domandò lui.

    «Qui» disse lei. «In una delle stanze. Però non so più esattamente quale».

    Passarono dunque di camera in camera: qualche finestra era già stata aperta, altre erano ancora chiuse, e lì l’aria era satura del fumo di sigarette e dell’odore acre dei camini. La cera delle candele era colata e le fiammelle vacillavano. La luce inquieta ballava e baluginava sui dipinti in cui le figure ritratte, gran parte delle quali in uniforme bianca, parevano torcersi in pose innaturali, quasi che il fumo le soffocasse. Gasparinetti parlava senza sosta, come in un accesso di logorrea nervosa.

    Finalmente entrarono in una camera dove le candele erano ormai spente. L’odore di cera colata ristagnava nell’aria. Si arrestarono per un attimo nell’oscurità impregnata di fumo e di calore.

    Quindi Flesse accese la luce. La stanza era tappezzata di broccato rosso, le pareti affollate di quadri, ventagli d’avorio incorniciati e miniature. In una vetrina vi erano porcellane dipinte. Le tende alle finestre erano chiuse, e davano un che di ovattato alla camera. Un paravento di palissandro lucido, adorno di alcune calcografie colorate, era spostato verso il centro della stanza.

    Sulla tavola, in mezzo a bicchieri vuoti, una bomboniera, posacenere d’argento e simili, vi era una bottiglia di Chartreuse.

    Ai piedi del divano rivestito di seta, in una postura insaccata che ne rendeva stranamente informe il corpo, giaceva Engelshausen.

    3

    Parve dapprima che fosse supino, perché la faccia era rivolta al soffitto. Ma bastava accostarsi per notare che, in realtà, egli sarebbe stato prono, se non avesse avuto appunto la faccia rivolta al soffitto. Essa guardava, in modo affatto inconsueto e sconcertante, al di là della schiena, a cui per nulla si accordava. Anche le braccia giacevano, sinistramente scontorte, sotto il corpo, e le gambe poi parevano giustapposte, e in certo senso buttate là, con tale negligenza che la forma di quella persona non poteva più dirsi normale. Un pantalone era risalito lungo la gamba scoprendo un tratto di pelle al di sopra della calza. Il corpo giaceva in una quiete perfetta.

    La signora von Flesse cascò con un gemito su una sedia, premendosi il fazzoletto da qualche parte sul volto. Gli uomini si avvicinarono al corpo lì disteso. La sua figura sembrava visibilmente rimpicciolita. I morti, in genere, fanno un’impressione simile solo dopo una lunga malattia che li abbia consunti. Ma chi se ne va di morte improvvisa pare spesso assai più piccolo. È come se di colpo gran parte del peso corporeo fosse venuta meno. Già chi è caduto a terra appare molto più piccolo. Come il mondo si compone in massima parte di movimento e solo minimamente di massa, così pure l’uomo è sostanziato più dalla sua postura che dalla sua complessione. Tolta la postura, il resto non è quasi più nulla, si sbriciola, e tosto è come se mai fosse stato.

    La bocca di Engelshausen e i suoi occhi erano aperti. La lingua spuntava da un angolo della bocca. La faccia aveva un colore stranissimo. Si sarebbe detto che fosse tutta scura. Ma quella sua scurezza si manifestava ormai solo in residui o tracce che, sospinti per così dire dal sangue in certi punti del volto, soggiacevano a uno strato di pallore che vi si era depositato sopra, simile a una crema dal candore di neve. Sulla guancia sinistra aveva un ematoma solcato da un graffio, come per una percossa.

    Rochonville toccò il corpo, che gli parve diaccio o quantomeno freddo. Quel poco di calore in cui consiste la vita era ormai volato via, come il calore di un uccello. Poteva essere trascorso un quarto d’ora dacché Engelshausen era morto. E Gasparinetti, dopo essere rimasto per un po’ curvo su di lui a osservarlo, dichiarò che aveva l’espressione di uno portato via dal diavolo.

    Il colonnello, giudicando indecoroso quel modo di esprimersi, rimbeccò Gasparinetti, il quale volle giustificarsi dicendo che a Engelshausen – lo vedeva chiunque – avevano torto il collo, come notoriamente fa il diavolo quando viene a prendersi qualcuno.

    Torto il collo! gridò esacerbato il colonnello. Credeva forse Gasparinetti, proseguì, che fosse tanto semplice torcere il collo a una persona? Semplice o no, ribatté il capitano di cavalleria, era un fatto che gliel’avevano torto. Come si spiegava, altrimenti, che aveva la faccia al posto della nuca? E con tali parole, chiaramente offeso, si rialzò per andare alla finestra. A questo punto dovette sembrargli opportuno cavarsi infine il cappello che per tutto il tempo aveva, anche nelle stanze, tenuto in testa. Dopodiché aprì le tende, dietro le quali la finestra, probabilmente per aerare un poco, era stata solo accostata. Il capitano di cavalleria spalancò i battenti. La signora von Flesse prese a lamentarsi ad alta voce, chiedendosi com’era possibile una simile disdetta, e Flesse rispose in tono brusco che era perché si invitava sempre gente – da ciò si evinse che i continui inviti erano opera della signora von Flesse e che il signor von Flesse non amava quelle compagnie. Ma non era certo il momento di gettar la croce addosso ai padroni di casa. Chi mai, gridò la signora von Flesse, chi mai poteva aver ammazzato Engelshausen, e per quale motivo? Nessuno ne aveva idea. Con ogni evidenza era stato uno degli invitati.

    «Oh, è atroce!» esclamò la signora. «È una cosa atroce!». Il colonnello si accinse a sollevare il morto e ad adagiarlo sul divano, ma Flesse fece presente che non si poteva: doveva rimanere lì dov’era finché la polizia, avvisata, non lo avesse esaminato. Ma in nome di Dio, strillò la von Flesse, quanto ci doveva rimanere, in terra? Lei aveva la camera da letto proprio lì accanto!

    In effetti quel locale confinava con la sua camera da letto. Il colonnello, esasperato dal comportamento di Gasparinetti e dalle urla della signora, porse il braccio a quest’ultima per condurla fuori, mentre Flesse si precipitò nell’ingresso a telefonare. Gabrielle, che per tutto il tempo non aveva detto una parola, gli andò dietro. L’ultimo a uscire fu il capitano di cavalleria.

     

     

    Un tentativo di discutere il caso, messo in atto dagli uomini, fu provvisoriamente sventato con successo dalla signora von Flesse, la quale affermò che solo un corteggiatore di una delle sue cameriere poteva aver commesso il delitto, essendo del tutto ridicolo pensare che i suoi ospiti si ammazzassero fra di loro. Le ragazze, subito convocate, dichiararono però di non avere corteggiatori. La signora tuttavia replicò di aver motivo di dubitarne. Non credeva, ecco, a un’esistenza vuota d’amore. E comunque tollerava il corteggiamento soltanto nella cosiddetta buona società. In altri ceti sociali era un orrore. Vedeva dappertutto nascosti gli amanti delle sue persone di servizio. Ne nacque un battibecco nel corso del quale una delle ragazze si licenziò e uscì di corsa dalla stanza. L’altra, di aspetto sgradevole, si mise a piangere. Anche lei venne invitata a uscire da Flesse, che mal sopportava i sottintesi erotici nelle asserzioni della moglie. Gasparinetti però disse che il sospetto manifestato da sua eccellenza andava forse in una direzione non del tutto infondata, giacché in quella che si suol chiamare l’alta società quasi nessuno disporrebbe della forza necessaria a torcere il collo a un uomo. Che ciò richieda una forza fuori dell’ordinario l’aveva del resto testé accennato anche il colonnello. Ci voleva un fabbro, o un facchino, o un macellaio, per provvedere alla bisogna. E come sarebbe mai finito tra gli invitati un simile uomo di fatica! esclamò la signora von Flesse. Ma il capitano di cavalleria rispose che non doveva trattarsi necessariamente di uno degli invitati. E di chi allora? chiese Flesse, incominciando poi a raccontare d’aver conosciuto un certo conte Wagensperg che era capace non solo di strappare in due, con le nude mani, un mazzo di carte o di spezzare una moneta, ma addirittura di accartocciare un piatto d’argento come un foglio di carta, cosa tanto più bizzarra in quanto costui esercitava la professione puramente intellettuale di procuratore prefettizio.

    Gasparinetti osservò che per strappare un mazzo di carte si ricorre a un semplice trucco, e ben presto ciascuno dei presenti fu impegnato soltanto a far valere il proprio punto di vista, senonché la controversia venne interrotta dal sopraggiungere della commissione di polizia, composta di numerosi agenti in divisa che furono subito introdotti nella stanza in cui giaceva Engelshausen. Vi rimasero qualche tempo, fotografando il cadavere e ispezionando il luogo. Gli altri, fuori, stavano in ascolto. Quindi gli agenti ricomparvero a chiedere un elenco degli invitati presenti quella sera. Mentre Flesse stilava l’elenco, il commissario capo avviò con gli altri una sorta di interrogatorio.

    Ne risultò anzitutto che fra il momento in cui Engelshausen era stato visto per l’ultima volta in compagnia e il momento in cui era stato trovato il cadavere erano trascorsi all’incirca tre quarti d’ora. Gli invitati che in quel frangente critico erano stati visti da tutti in compagnia vennero espunti dall’elenco perché non sospettabili.

    L’ultima ad aver parlato con Engelshausen era stata, a quanto pareva, Gabrielle Rochonville.

    Il quadro che alla fine si riuscì a comporre era all’incirca il seguente:

    Gabrielle ed Engelshausen, dopo aver conversato per qualche tempo insieme al resto della compagnia, si erano alzati a fare due passi per la casa. Ed erano giunti nella camera rossa. In quella camera non c’era nessuno. Si erano seduti sul divano, fumando sigarette e bevendo qualche bicchiere di Chartreuse che era sul tavolo.

    In quel frattempo nessun altro aveva messo piede nella stanza. Mentre seguitavano così a discorrere, Engelshausen aveva fatto la proposta di accompagnare a casa con la sua vettura Gabrielle e il colonnello. Gabrielle si era alzata e, per andare a riferire al padre l’offerta di Engelshausen, era uscita dalla camera, in cui Engelshausen era rimasto solo. Trovando però gli invitati che si accingevano a congedarsi, aveva potuto parlare con il padre soltanto nel vestibolo.

    Dopo le dieci e mezzo di sera – testimoniarono le cameriere – nessun altro ospite (né altra persona di sorta) aveva messo piede nell’appartamento. A uccidere Engelshausen, pertanto, poteva essere stato solo uno degli invitati, o qualcuno entrato per una delle finestre e poi anche riuscito dall’appartamento per una delle finestre – presumibilmente quella della camera rossa, che Gasparinetti aveva aperta, trovandola solo accostata dietro le tende. Peraltro le cameriere dichiararono in proposito che la finestra, in origine, non era né accostata né nascosta dalle tende, ma spalancata su disposizione del signor von Flesse per meglio aerare i locali surriscaldati. Bisognava quindi che qualcuno l’avesse accostata e avesse tirato le tende, e in effetti Gabrielle confermò che Engelshausen l’aveva chiusa quando erano entrati nella stanza.

    L’appartamento dei Flesse si trovava al primo piano. Il giardino sotto le finestre era in realtà un semplice cortile circondato da case. Sul muro dell’edificio in cui abitavano i Flesse una spalliera di vite selvatica si arrampicava fino all’ammezzato. Tutti i portieri dei palazzi vicini attestarono però che, dopo le dieci di sera, nessuna persona a loro sconosciuta aveva chiesto di accedere agli appartamenti. Sicché se veramente qualcuno era entrato da una finestra che dava sul giardino, costui doveva abitare in uno dei palazzi adiacenti. Ma non si trovarono né orme nel terreno sotto le finestre dei Flesse, né residui di terriccio sul davanzale o sui tappeti della camera.

    Tutte le ispezioni del caso furono seguite con impazienza da Gasparinetti. Stava lì fra una stanza e l’altra, osservando ora questo ora quel poliziotto andare e venire, inarcando le sopracciglia e battendosi col cappello, che reggeva nella destra, a intervalli regolari sulla coscia.

    «Ma tutto questo,» disse infine a Flesse «voglio dire: questo genere di indagini, nel suo complesso, è inutile! Detesto questo investigare con la lente d’ingrandimento, questo strisciare per terra, questo fotografare e misurare. Potrà servire in qualche caso, ma non come principio esclusivo. È indegno di un uomo d’una certa intelligenza sudare sette camicie quando una semplicissima riflessione – purché ci si dia la pena di farla – può portare allo scopo».

    «E quale riflessione?» disse Flesse.

    «Qualsiasi» replicò Gasparinetti. «Qualsiasi e di qualunque genere. Una qualunque. Purché sia una riflessione. Bisognerebbe domandarsi, per esempio, il motivo per cui qualcuno avrebbe attentato alla vita di Engelshausen. E hanno davvero attentato alla sua vita, poi? O non è rimasto vittima, piuttosto, di un malinteso o di un caso o di un’assurdità? A una tragica assurdità ci rifiutiamo di credere, ma non possiamo negare che già di per sé la tragicità è assurda. Oppure, se non si è trattato di un abbaglio, che cosa faceva lui, Engelshausen, tutto il tempo, di che mai si occupava ogni santo giorno? Quali nemici aveva? E soprattutto, che amici aveva? Con che donne era in relazione, quale rapporto intratteneva con Gabrielle Rochonville? Di che cosa ha parlato, che cosa ha fatto con lei in quella camera dove ora giace disteso? E la porta era chiusa? O l’ha forse chiusa Gabrielle uscendo di lì? Magari però lo ha fatto qualcun altro. Perché quando siamo arrivati noi la porta era chiusa. O tu credi per caso che il commissario abbia già raccolto tutte queste informazioni? Il denaro che il morto aveva in tasca, la polizia l’avrà già contato, ma di avvertire i suoi genitori non è venuto in mente a nessuno».

    «Credi?» disse Flesse. «Cioè, volevo dire: ti pare? Faceva la corte alla Rochonville, la cosa è piuttosto risaputa».

    «Sì» disse Gasparinetti. «Ma allora perché, per esempio, l’ha lasciata tornare sola dagli altri invitati e lui è rimasto nella stanza? Mi concederai che è alquanto inconsueto non riportare una signora alla compagnia da cui ci si è allontanati al suo fianco. E perché lei non è andata subito dal padre a dirgli che Engelshausen voleva condurli a casa? Per quale ragione glielo ha detto solo nel vestibolo? Lei sostiene che è perché tutti stavano già andando via. Ma qual è il motivo reale per cui ha voluto lasciare Engelshausen da solo per un certo tempo? E che persona è, come passa le giornate, che amici ha?».

    Flesse lo guardò. «Ne sai qualcosa, tu?» domandò.

    «No» disse Gasparinetti. «Ma il commissario dovrebbe prendere informazioni».

    «Non è il compito di una commissione come questa» disse Flesse. «Dubito perfino che abbia il diritto di fare simili domande, a prescindere dal fatto che forse non otterrebbe per risposta la verità».

    «Tutti dicono la verità» replicò Gasparinetti. «La dicono anche mentendo. Sta a chi pone le domande ricavarla dalla menzogna».

    «Ma questi sono luoghi comuni belli e buoni» obiettò Flesse. «Chi ne sarebbe davvero capace?».

    «La verità,» affermò il capitano di cavalleria «la prendono tutti per un luogo comune. Sotto questo punto di vista si cela la coscienza sporca».

    «Insomma, che ne pensi tu dell’intera faccenda?» volle sapere Flesse.

    «Non è compito mio pensarne qualcosa» replicò il capitano. «Volevo solo dire che ritengo inutile trattenerci qui mentre la polizia ispeziona con la lente d’ingrandimento i davanzali».

    E con questo, riprese a camminare per le diverse stanze.

     

     

    Nel frattempo si era accertato che né in cucina né in altri luoghi della casa le cameriere stesse avevano sentito rumori o grida riconducibili a quanto stava accadendo nella camera rossa. E lì, del resto, non c’era la minima traccia di colluttazione. Engelshausen sembrava essere stato sopraffatto senza alcuna possibilità di disporsi alla difesa, e poi ammazzato. Tutto ciò attestava un’enorme risolutezza e brutalità nell’omicida. Quale fosse la natura precisa della ferita, la commissione non fu in grado di accertare.

    Con questo risultato il commissario e i suoi si ritirarono. Gasparinetti lo guardò mentre se ne andavano, quindi fece un gesto della mano come a dire: tanto non si troverà niente, e accomiatandosi andò via pure lui.

    Rientrati nella camera rossa ci si avvide che Engelshausen era adesso disteso sul divano; e anche per altri rispetti la polizia aveva rimesso un certo ordine nella sua persona. Benché gli occhi fossero ancora aperti, la testa posava sul bracciolo e il mento era puntato sul petto, sicché la bocca adesso era chiusa. Ma anche prescindendo da questo, l’espressione del viso era di nuovo cambiata. Ogni volta che rimaneva per un po’ solo, sembrava, poi, che qualcosa lo avesse mutato. Ogni tumefazione si era dileguata dalle sue fattezze, quasi egli stesso se ne fosse ritratto per ricoverarsi in qualche luogo interno; solo il graffio sulla guancia spiccava ancor più arrossato; e dai lineamenti emergeva un’affilatezza che non era sua, ma forse dei suoi antenati – fors’anche dei discendenti che non avrebbe avuti.

    Una mosca ronzò posandosi vicino a un angolo della bocca.

    «Povero diavolo» disse il colonnello. Gli chiuse gli occhi. E vi riuscì solo con un certo sforzo. Gli uomini si consultarono quindi per decidere chi di loro avrebbe chiamato i genitori di Engelshausen. Perché lasciarne l’incombenza alla polizia non si poteva certo. Flesse non se la sentiva, sicché il colonnello si risolse a farlo.

    La telefonata gli risultò incresciosa. Il padre di Engelshausen disse, in conclusione, che sarebbe venuto. In un primo momento il colonnello approvò, ma poi aggiunse di sentir gente che stava entrando, con ogni evidenza per portare via il morto. Ma dove? chiese il vecchio. A casa? Il colonnello non era in grado di dirglielo. Assicurò che sarebbe subito andato a trovare gli Engelshausen. Quando trasportarono la salma giù per le scale, i Rochonville tennero dietro.