domenica 30 dicembre 2018


DUE SICILIE (3)
LUKAWSKY
Alexander Lernet-Holenia
Traduzione di Cesare De Marchi
Adelphi eBook


LUKAWSKY
1
Il fratello di Fonseca si era presentato dal colonnello e gli aveva domandato se lui, il colonnello, sapesse dov’era Fonseca.
«No» disse stupito il colonnello. «Lo ignoro. Ma perché lo chiedi a me? Come faccio a saperlo?».
Il fratello di Fonseca rispose che aveva già chiesto a tanti e tanti altri.
«Non è qui?» domandò il colonnello.
«No» disse Fonseca.
«Ma dove altro è di solito?».
«Dovunque sia, non è qui. Ma non ha comunicato a nessuno l’intenzione di fare un viaggio o simili. Del resto, non ha preso niente con sé. Le sue cose sono tutte in camera sua».
«Com’è possibile!» esclamò Rochonville.
Fonseca diede una scrollata di spalle.
«Non lo so» disse. «Naturalmente ho informato la polizia. Ma finora nessuno lo ha rivisto».
«Il signorino» disse il colonnello «non sarà mica scomparso come un gatto in amore. È già successo che si sia assentato senza che si sapesse dov’era diretto?».
«No» disse Fonseca. E poi aggiunse: «Prima Engelshausen, ora lui».
«Come?» domandò il colonnello. «Che cosa intendi dire?».
«Prima è stato assassinato Engelshausen, e adesso è sparito mio fratello. Non abbiamo rivisto l’uno, non rivedremo l’altro».
«Perché non dovremmo rivederlo?» proruppe il colonnello. «Che connessioni vai inventando? Cosa vai dicendo?».
«È che ho la sensazione, appunto,» disse Fonseca «che tra queste cose ci sia un nesso».
«Non saprei proprio quale!».
«Tutti e due» disse Fonseca scrollando le spalle «avevano prestato servizio nello stesso reggimento».
«Ti prego di non addossarmi la colpa» esclamò il colonnello «se prima è capitata una disgrazia a Engelshausen e se poi tuo fratello preferisce non farsi vedere per diversi giorni! Cosa ho mai a che farci io?».
«Niente» disse Fonseca. «E io non l’ho mica affermato. Ho detto soltanto che erano nel tuo reggimento».
«Non esiste più quel reggimento!» gridò il colonnello. «Sono anni che non c’è più! Sei già la seconda persona a cui mi tocca spiegarlo».
«E qual era la prima?».
«Un capitano di cavalleria Taldeitali: Gasparinetti, se lo vuoi sapere».
«E perché gliel’hai dovuto spiegare?».
«Perché asseriva il contrario».
«Appunto».
«Appunto che cosa?».
Fonseca non rispose.
«Appunto che cosa?» urlò Rochonville.
«Signor colonnello,» disse Fonseca «ti chiedo, in coscienza, se non sai che cosa possa essere successo a mio fratello».
«Come arrivi a tanto?» esclamò Rochonville. «Io come posso saperlo? Cosa ha a che vedere la mia coscienza con la scomparsa di tuo fratello? Che io non vedo quasi mai. L’ho visto, è vero, in occasione del funerale di Engelshausen, ma da allora è passata quasi una settimana. E altrimenti non lo vedo per mesi e mesi».
«L’ultima che, a quanto pare, lo ha visto» disse Fonseca «è una certa signorina Leeb».
«E chi è?».
«Un’amica di mia sorella».
«E quando è stato?».
«L’altroieri. Dopo pranzo si era incontrato con lei e con mia sorella. Volevano comprare una sella. O meglio, era la Leeb che voleva comprarla».
«Una sella?».
«Sì».
«Ma chi è che al giorno d’oggi vuole ancora comprare una sella?».
«Questo – afferma mia sorella – lo ha detto anche lui. Ciononostante si sono trovati, e poi lui e la Leeb hanno comprato la sella. Per le cinque era invitato da una certa signora von Malowetz. Ma, in primo luogo, ha tenuto compagnia alla Leeb fino alle cinque e mezzo e, in secondo luogo, non si è presentato dalla Malowetz, nemmeno in ritardo. La Malowetz peraltro si è da poco trasferita, e può essere che lui sia andato al vecchio indirizzo senza trovarci nessuno, e che poi...».
«Qual è il vecchio indirizzo?».
«Hietzing, Wattmanngasse. Adesso però abita a due passi di lì. Qualcuno di casa avrebbe dovuto dirglielo. E c’è di più: la Malowetz sostiene di averglielo comunicato di persona. Anzi il senso dell’intera faccenda è che lei voleva invitare un po’ di gente nella casa nuova. Di continuo dà ricevimenti in case nuove, non fa che traslocare. È una pazzia, questa dei suoi traslochi; nostra madre diceva sempre che cambiare due volte la casa equivale a perderla una volta in un incendio».
Il colonnello scosse la testa.
«E in che modo» domandò «lo ha comunicato a tuo fratello?».
«Per lettera».
«Quando?».
«Tre giorni fa: dunque il giorno prima dell’invito. Ci siamo messi a cercare la lettera, perché pensiamo che lei, a mio fratello, il nuovo indirizzo non lo abbia scritto affatto; che, distratta come è sempre, se ne sia dimenticata. Ma la lettera non si trova. Probabilmente lui l’aveva con sé».
«Ma perché gli ha scritto, poi? Non poteva avvisarlo per telefono...».
«Perché non ha il telefono. Nella casa nuova non gliel’hanno ancora allacciato».
«E non aveva nulla di meglio da fare che invitare subito gente...».
«Te l’ho detto che è pazza. Ha la fissazione delle case, così come altri sono fissati sui loro vestiti o i loro beni. Io d’altronde credo che gli esseri umani siano quasi tutti pazzi. Vedrai che si arriverà a una vera catastrofe».
Il colonnello lo guardò. Infine disse: «Quindi nessun altro lo ha più visto?».
«No, più nessuno, in seguito. Ma il giorno prima lo aveva incontrato anche tua figlia».
«Mia...».
«Sì».
«Chi te l’ha detto?».
«Lukawsky».
«Come mai Lukawsky?».
«Glielo ha detto per telefono».
«Tuo fratello?».
«Sì».
«Perché? E a che scopo?».
«L’ho chiesto anch’io a Lukawsky, e lui ha asserito che ovviamente mio fratello non lo aveva chiamato per quello, ma per un’altra ragione – parlando, però, aveva menzionato la cosa».
«E quale altra ragione?».
«Credo che fosse per la messa in suffragio di Engelshausen. Tua figlia non ti ha detto niente?».
«Di cosa avrebbe dovuto...».
«Di avere incontrato mio fratello».
«Sai che grande evento! Allora lui non era mica tanto interessante, non si sapeva ancora che sarebbe scom...».
«E perché dunque ha ritenuto di doverlo dire a Lukawsky?».
Il colonnello non rispose. Finalmente domandò: «Dove lo ha incontrato mia figlia, di preciso?».
«Non lo so» disse Fonseca.
«Avevano appuntamento?».
Fonseca fece spallucce.
«E che cosa gli ha detto?».
«È quello che volevo chiedere a te» disse Fonseca. «Cioè: avrei piuttosto voluto sapere se lui ha detto a lei qualcosa da cui arguire dove si trova adesso. Saresti dunque così gentile da chiederle...».
«Se sa qualcosa?».
«Sissignore».
Trascorso un istante, il colonnello andò alla porta e pigiò il bottone di un campanello. Quindi rimase ad aspettare rivolto alla porta. Dopo qualche momento comparve una domestica.
«Chiami mia figlia, per favore».
La donna si ritirò. Il colonnello si volse di nuovo verso Fonseca. Lo guardò senza dir nulla, quindi con le mani dietro la schiena si diresse alla finestra e si fermò a guardar fuori.
Solo quando udì entrare Gabrielle, tornò a voltarsi.
Gabrielle era rimasta sulla soglia e andava con lo sguardo dall’uno all’altro. «Come sta, conte Fonseca?» si sentì infine in obbligo di domandare.
«Fonseca asserisce» disse il colonnello «che suo fratello è scomparso improvvisamente. Ma che prima tu gli hai parlato».
«Chi è scomparso?» fece lei.
«Suo fratello».
«Ma come...».
«Non lo sappiamo. Ebbene, che cosa ti ha detto esattamente, allora, quando lo hai visto?».
«Che cosa mi...».
«Sì. Di che cosa avete parlato? E dove vi siete incontrati?».
«Non capisco tutto questo» disse lei. «Sarebbe davvero sparito?».
«Eccome. Dall’altroieri. Era mercoledì. Martedì, però, tu gli avevi parlato. Non è così?».
«Sì... credo che sia stato martedì».
«Dunque?».
«Ci siamo incrociati per la strada» disse lei. «Stavo andando a fare delle commissioni, e lui ha detto che desiderava accompagnarmi. Non so più esattamente di che cosa abbiamo parlato. Ma niente di importante. Comunque non ha affatto accennato a una sua intenzione di mettersi in viaggio o cose del genere. Ma come è possibile che sia sparito?».
«Sì,» disse Fonseca guardandola «come è possibile? E d’altra parte come è stato possibile che Engelshausen sia morto!».
«Se non vi siete detti niente d’importante,» esclamò il colonnello con gran veemenza, quasi volesse dar sulla voce a Fonseca e coprire ciò che questi aveva detto «perché lo avrebbe riferito a Lukawsky?».
«A Lukawsky lo ha...?».
«Sì. Gli ha telefonato».
«Per dirglielo? E gli ha detto che cosa?».
Rochonville fece un gesto impetuoso all’indirizzo di Fonseca, e Fonseca proseguì: «Gli ha riferito di aver parlato con lei».
«E che altro ancora gli ha detto?».
«Non lo so» rispose Fonseca. «Lukawsky, comunque, non ha aggiunto nulla. Non credo però che gli avrebbe raccontato dell’incontro con lei, se vi foste detti solo cose senza importanza».
«Lei evidentemente,» disse Gabrielle «ha un grande concetto delle mie conversazioni con suo fratello».
«Non è privo d’intelligenza».
«Crede che non me ne sia accorta?».
Il colonnello, dopo un istante, tornò alla porta e pigiò il campanello. Quando comparve la ragazza, le disse: «Vada a un telefono e chiami il maggiore Lukawsky». Cercò il numero in una rubrica sulla sua scrivania e glielo diede. «Dica al maggiore di venire subito da me per una questione urgente. Io non possiedo un telefono» aggiunse rivolto a Fonseca. «Non ho mai voluto averne uno. Non ne ho bisogno. Quando però ne hai bisogno è di sicuro per una questione atroce come questa. Anche la telefonata di Lukawsky con tuo fratello non sarà stata molto meglio».
Lukawsky si presentò circa venticinque minuti dopo. Vedendo più persone riunite, inarcò le sopracciglia. «Prego?» disse, dopo aver salutato con un inchino.
«Tu hai detto al conte Fonseca» esordì il colonnello «che suo fratello, prima di scomparire, ti ha riferito in una telefonata di aver parlato con mia figlia. Quando esattamente ti ha telefonato?».
«L’altroieri» rispose Lukawsky. «Qualche minuto passata l’una. Ricordo con precisione l’ora, perché stavamo – mia moglie e io – mettendoci a tavola».
«E dici che ti ha riferito solo di quell’incontro? Di nient’altro, quindi? Nemmeno dell’argomento su cui si era intrattenuto con mia figlia?».
Lukawsky guardò Gabrielle.
«No» disse. «Di nient’altro. Nel caso tu abbia dubbi in proposito, o meglio: se ritieni che i due si siano detti qualcosa che possa riguardare te o il conte Fonseca, allora è meglio che tu chieda informazioni non a me, ma esclusivamente a tua...». E accennò a Gabrielle.
«Ma che ragione aveva mio fratello di telefonare proprio a lei, maggiore Lukawsky,» disse Fonseca «se non aveva altro da comunicarle, all’infuori dell’incontro con la contessa?».
«Ho già avuto occasione di spiegarle» disse Lukawsky «che mi aveva chiamato per via della messa in suffragio di Engelshausen. L’incontro con la contessa, lo ha menzionato solo di sfuggita».
«Io però non posso credere che lo abbia fatto senza una ragione precisa: se anche non aveva altro da riferire su questo incontro, di certo lo ha menzionato solo perché era sicuro che la cosa la interessava. Che interesse vi aveva o vi ha tuttora, lei, maggiore Lukawsky?».
«Avrei creduto» disse Lukawsky «che a lei premesse conoscere dove si trova suo fratello, e non i miei eventuali interessi. Ora, dal momento che suo fratello è scomparso dall’altroieri sera, mi sono sentito in dovere di farle sapere che gli ho parlato al telefono ancora l’altroieri mattina. Le ho persino riferito ciò che mi ha detto per telefono. Tuttavia non mi sento in dovere di farle sapere che interesse abbia io in merito al suo incontro con...» e di nuovo fece un gesto della mano «la contessa».
«È appunto questo interesse a indurmi a supporre che la scomparsa di mio fratello sia in relazione con il colloquio da lui avuto con lei».
«Come le viene in mente quest’idea incredibile?».
«Perché altrimenti lei, mio caro maggiore, in una situazione del genere rivelerebbe senz’altro quanto sa di quel colloquio. Può darsi che il colloquio non abbia avuto l’esito sperato – difatti tanto lei che la contessa lo minimizzate –, ma io sono convinto che mio fratello abbia, e d’accordo con lei, cercato intenzionalmente, e dunque con uno scopo ben preciso, quel colloquio. Non è certo un puro caso che abbia incontrato la contessa. E allora che cosa c’è dietro? A quali passi lei, maggiore Lukawsky, ha indotto mio fratello, e che relazione ha la sua scomparsa con la morte di Engelshausen?».
Lukawsky lo guardò un attimo senza parlare, quindi si rivolse a Gabrielle. «Dica lei stessa al conte Fonseca» la invitò «se suo fratello voleva sapere qualcosa da lei, e che risposta gli ha dato».
«La contessa» disse Fonseca «non mi sembra la persona adatta a fornire informazioni in proposito».
«Ah no? E perché?».
«Perché probabilmente ha ancor più motivo di tacere queste cose, di quanto ne abbia lei, maggiore Lukawsky».
«Bene!» disse il colonnello. «Finalmente si ammette anche in mia presenza quello che da una settimana sospettano tutti».
Così dicendo tornò alla finestra e, con le mani dietro la schiena, si mise a guardar fuori. Gabrielle restò lì ancora un momento. Quindi, dopo aver volto gli occhi dall’uno all’altro, uscì senza parlare dalla stanza.
Nel silenzio che seguì divenne percepibile il canto di una voce femminile. Era la donna che lavava le finestre della vecchia università. Stava lavorando al primo piano. Era in piedi su un davanzale, e i passanti da sotto le guardavano le gambe. Cantava: «L’amore, ah, l’amore...».
Il colonnello chiuse fragorosamente la finestra.
«Credo che ormai qui siamo superflui» disse Lukawsky a Fonseca. «Si è in altre faccende affaccendati».
Fonseca si alzò. Ma, mentre insieme a Lukawsky stava per uscire dalla stanza, Rochonville richiamò il maggiore.
«Scusami,» disse il colonnello a Fonseca accompagnandolo per qualche passo fino all’anticamera «ma al momento non posso restare a tua disposizione. Ho da parlare con Lukawsky».
Fonseca aveva già preso il cappello. «Tanto ormai è inutile» disse. «Lo do per perso».
Quindi, dopo un attimo, andò via. Il colonnello rientrò nella stanza. Guardò Lukawsky, poi finalmente disse:
«Non volevo crederci, e per la verità non riesco ancora a crederci. E soprattutto, essendo suo padre,» e indicò la porta da cui Gabrielle era uscita «non posso agire come dovrei. Ignoro che cosa sia veramente accaduto, e tu pure, penso, ne sai poco più di me. Non so cosa sia tutto questo – è come un sogno non propriamente lieto. E nemmeno voglio chiederti di... È un pezzo che non ho più il diritto di darti degli ordini. Ma se mai l’ho avuto, questo diritto, ti ordino adesso di continuare ad agire come fin qui hai agito, di fare ciò che questi – e forse tutti – i morti esigono da noi, e di assecondare la voce cui non avremmo mai dovuto smettere di ubbidire!».

2

Si era agli inizi di giugno. Gordon, quando in quei giorni era dato parlargli, esibiva il più affaristico dei sorrisi mondani, lasciando intendere – come d’abitudine – che riteneva pressoché impossibile che la polizia riuscisse mai a scoprire l’assassino di Engelshausen o il luogo dov’era Fonseca – due termini che ben presto l’opinione pubblica aveva messo concretamente in relazione. Ci si era di fatto dimenticati che i due giovani avevano prestato servizio in un reggimento chiamato «Due Sicilie». Ora la gente cominciava a rammentarsene, e su questa idea si costruivano le combinazioni più arrischiate. Gordon però le respingeva in modo categorico. Asseriva che erano irrilevanti – e che comunque non sarebbero state d’aiuto alla polizia.
Ad ogni modo non dispose nessun arresto nel caso Engelshausen – e Fonseca restò uccel di bosco: semplicemente scomparso. Né si poté trovare un qualche indizio che questi intendesse mai rifarsi vivo. Su Gabrielle Rochonville, intanto, si diffondevano le voci più fantasiose. Parendo ormai alla pubblica opinione troppo insipida la congettura iniziale, che cioè la figlia del colonnello fosse in relazione con tutti gli ufficiali del padre, si inventò che ella, negandosi loro, li spingesse alla disperazione, oppure che gli altri suoi amanti (e gliene attribuivano finanche negli ambienti più loschi) ammazzassero gli ufficiali. Ci si aspettava a ogni istante di veder scomparire un altro ufficiale del reggimento «Due Sicilie», e chi più ne ha più ne metta. Dopo avere dapprincipio respinta Gabrielle, ora avevano tutti ricominciato a ronzarle intorno. Perfettamente superficiali com’erano, volevano vedere di nuovo a casa propria quella persona circonfusa di scandalo, e da cui irradiava il brivido del pericolo, tanto da poter dire come de Quincey a proposito di Thomas Wainewright: «Oggi siamo stati a tavola con un assassino». Si dava infatti per scontato che, in incognito come dai Flesse, anche il misterioso colpevole sarebbe stato della partita. Insomma piovevano gli inviti. Ma ovviamente Gabrielle li declinava. Anzi, non si faceva più vedere.
Ma neppure il colonnello andava più in società. Non lo aveva mai fatto volentieri, ormai viveva solo nelle sue stanze, accanto a una figlia di cui ignorava che cosa pensasse e che cosa mai facesse. Sotto le finestre era la piazza con i colombi; Rochonville li guardava senza vederli, e a volte aveva l’impressione di essere da tutt’altra parte, per esempio in campagna – forse perché era arrivata l’estate, e l’estate, solitamente, la passavano in campagna. E guardando di lì la piazza, gli pareva perfino di trovarsi su un monte, o comunque in un luogo naturale elevato. Può darsi che in ciò avessero una parte alcuni ricordi – non sapeva però bene quali – che gli venivano forse dall’infanzia. Credeva di essere stato una volta, probabilmente solo in visita, e forse per la semplice durata di un meriggio e delle ore successive, in una certa casa che sorgeva su un’alta contrada collinare e intorno alla quale si profilavano lunghe alture, qua e là sassose: e ora, come per incanto, gli pareva di esservi tornato. La casa stessa sorgeva su un poggio, doveva essere quindi una di quelle ville padronali che si possono definire anche palazzi – ma forse non si trattava neppure del ricordo di un unico edificio, erano piuttosto ricordi di ville diverse, uguali o simili a quella, colti in qualche visita occasionale o durante viaggi o campagne militari, ricordi che erano poi confluiti in uno solo. A ogni modo, il colonnello non sapeva più come raffigurarsi quella villa. Ricordava e insieme non ricordava. Altre cose, però, aveva ben presenti. Sapeva, per esempio, che il tempo del giorno da lui rammentato era il dopopranzo. Le persone di casa, e forse anche quelle con cui era giunto, verosimilmente i genitori, dovevano essere andate a dormire – del bambino, comunque, nessuno si occupava.
Credeva di trovarsi all’aperto. Il cielo pareva scuro, non di nubi ma di caligine – una caligine da cui trapelava a momenti un po’ di sole. L’aria era tiepida, calda quasi, e a tratti gli spirava in volto l’alito d’un vento quasi torrido. La petrosità delle colline conferiva alla contrada, che in realtà non era di particolare altezza, un aspetto quasi montano, cui ben si addiceva quello scampanio – campanacci di pecore, si sarebbe detto – che di tanto in tanto risonava. («Ah, i nostri sono terreni cattivi,» poteva aver detto a tavola qualcuno «alleviamo quasi solo pecore»). Regnava un grande silenzio, si udiva soltanto lo scampanio sospinto di quando in quando da un alito di vento. Benché un po’ torbida, la luce era decisamente estiva. A giudicare dall’erba, si era di giugno o d’agosto.
Saranno state le tre del pomeriggio. L’ora era satura di malinconia, ma anche della singolare presenza di eventi invisibili. Era indubbio che nel raggio di parecchie miglia non stesse avvenendo nulla di notabile; e nondimeno si avvertiva la sensazione che potesse succedere da un momento all’altro qualcosa che accadeva solo una volta ogni tanti anni – o forse erano eventi che, pur lontani nello spazio, si erano fatti vicinissimi: forse alcune persone sarebbero venute a comprare la tenuta, provocando un mutamento inevitabile dell’esistenza, o un esercito di ritorno dalla guerra sarebbe passato di là, o qualcosa di simile era nell’aria. E poi non si sapeva bene dove ci si trovasse, non solo perché il nome di quel luogo restava ignoto, ma anche perché era come se tanti altri luoghi del mondo confluissero in quell’uno. E come era presente la lontananza, così pure il passato era presente. Qui poteva ancora accadere ciò che altrove era finito da tempo. Accanto alla villa doveva esservi stata una qualche chiesa o una cappella piuttosto grande, perché il colonnello ebbe a un tratto l’impressione di avervi veduto figure dorate di re con la corona in testa e rappresentazioni del martirio di certi santi. Pareva che quei re potessero avviarsi in ogni momento per i viottoli della campagna, e di ora in ora poteva aver luogo il martirio dei santi – tra i contadini, magari. Anche se – o proprio perché – tutto era senza vita, pareva che la vita avesse deciso di mostrarsi per ciò che era. Come un animale dilaniato dal morso delle volpi, cui siano fuoriuscite le viscere, così giaceva lì, inerte, la vita. Il cuore della vita palpitava ancora, e il suo fianco squarciato sanguinava nell’erba polverosa.
Un tempo vi erano stati pittori che avevano dipinto paesaggi cosiddetti ideali, paesaggi in cui si prefiggevano di ritrarre la vita intera e che erano saturi di cose: monti, fiumi, città, battaglie e mari tutti tempesta e bonaccia, tutti navi e mostri degli abissi. Anzi, perfino il giorno e la notte, in quei quadri, dovevano essere sincronici, e la luna e il sole affiancarsi in cielo. La vita reale, però, non si manifesta nella varietà. La varietà non è che rumore. La vita reale si manifesta solo nel vuoto. È nell’assenza di eventi che – come in uno spazio vuoto, come la tentazione nella solitudine dell’eremita – irrompe la vita intera, e il suo frastuono è di tale intensità che le orecchie credono di percepire solo il silenzio, tanto immane e soverchiante come il fragore del sole che sorge è il fremito dell’essere.
Alla fine del mese il maggiore Lukawsky si presentò in quella casa della Jordangasse 4 in cui, settimane prima, Fonseca aveva visto entrare Gabrielle.
Fu verso sera. Le vie erano immerse in una luce di madreperla, strie sparse di nubi orlate di un rosa fenicottero galleggiavano sopra la città.
Il maggiore salì al secondo piano dello stabile e suonò alla porta sulla destra del pianerottolo.
Una donna di aspetto modesto gli aprì.
«Posso parlare col signor von Pufendorf?» chiese il maggiore, il quale, come poteva evincersi dal tono della voce, si aspettava una risposta affermativa. E quando la donna effettivamente disse di sì, il maggiore si tolse cappello e guanti e venne introdotto in una stanza dove, al suo ingresso, un uomo alto, sui trentacinque anni, si alzò per osservare il visitatore.
«Il signor von Pufendorf?» domandò Lukawsky.
«In che cosa posso servirla?».
«Mi chiamo Lukawsky» disse il maggiore «ed ero uno degli ufficiali del colonnello Rochonville nel reggimento delle Due Sicilie».
Pufendorf, dopo un istante, invitò con un gesto della mano il maggiore ad accomodarsi.
Era, per la sua statura, straordinariamente snello, soprattutto nei fianchi, e la sua sagoma, disegnandosi contro la luce vespertina delle finestre, aveva una certa somiglianza con quella del generale russo Vrangel’.
«Mi consenta» esordì Lukawsky «di rifarmi un po’ indietro in ciò che ho da dirle...».
«Certo» rispose Pufendorf. «Ma se è così, a maggior ragione la prego di accomodarsi».
Parlava, a quanto pareva, un tedesco assai corretto. Solo la sua voce aveva un’inflessione leggermente insolita.
Lukawsky si mise a sedere e per un momento si guardò intorno nella stanza. Questa era arredata con grande semplicità, anzi con poco gusto, come mille altre stanze.
«Lei è quello stesso Konstantin Il’ič von Pufendorf, che fu tenente degli ussari di Grodno?» disse Lukawsky.
«Giustissimo» replicò Pufendorf. «Vede dunque che, pur essendo russo, non mi spaccio né per un capitano di cavalleria né per un principe...».
«Ma sua madre» disse Lukawsky «era una principessa».
«Certamente» consentì Pufendorf, e parve un poco sorpreso che Lukawsky lo sapesse. «Una Vjazemskaja. Ma questo cosa ha a che fare con la questione?».
«E lei si è anche fatto passare per un capitano di cavalleria, pur se in via temporanea».
Pufendorf inarcò le sopracciglia.
«E precisamente in occasione della sua fuga dalla Russia» sentì di dover aggiungere Lukawsky. «Lei, se non erro, realizzò l’espatrio servendosi dei documenti del capitano Gasparinetti, uno dei nostri ufficiali, morto in prigionia».
«Sicché pure quest’avventura – per sé priva d’interesse – è giunta alle sue orecchie?» disse Pufendorf. «Ebbene, io allora non avevo molte altre scelte, né credo che ciò abbia nuociuto alla memoria del suo compagno d’armi, non essendomi macchiato di alcuna azione disonorevole in suo nome, e avendo ripreso la mia vera identità non appena mi fu possibile».
«Così è» disse Lukawsky. «E nel mio ricordo è rimasto questo particolare della sua vita...».
«... sulla quale lei mostra di essere informatissimo...».
«... invero soltanto perché adesso anche qui figura un capitano di cavalleria Gasparinetti – con ogni evidenza un parente del defunto».
«Ne ho sentito parlare» disse Pufendorf dopo un momento.
«E poiché lei» continuò Lukawsky «in fondo non si spaccia né per un vero capitano di cavalleria né per un principe, non ha neppure ritenuto indispensabile dedicarsi a una delle due professioni esercitate perlopiù, all’estero, dai russi che detengono quei titoli: vale a dire quella di autista o di cameriere; si è invece guadagnato da vivere dapprima come tornitore meccanico, in quello stesso ramo in cui lei ora è avanzato a venditore, ossia nell’industria automobilistica».
Pufendorf, chiaramente divertito dalla puntualità delle informazioni di Lukawsky, annuì.
«E facendo il tornitore» disse Lukawsky «ha altresì acquisito una forza straordinaria nelle mani, o comunque maggiore rispetto a quella che la sua corporatura snella...».
«Lei tuttavia non deve credere, maggiore Lukawsky,» lo interruppe Pufendorf sorridendo «che un tornitore prenda tra le mani il metallo e lo giri come un interruttore della luce o una maniglia d’automobile...».
«... o il collo di un uomo...».
«Si capisce,» concesse Pufendorf, evidentemente stupito di questa aggiunta «... o come lei, in quanto militare, voglia figurarsi la cosa. Il modo di operare del tornitore è del tutto diverso. E la forza nelle mani non l’ho acquisita al tornio, ma molto prima grazie a certi esercizi cui mi ero dedicato per divertire i miei commilitoni – e, di quando in quando, anche il granduca Nikolaj, che conoscevo di persona – con qualche gioco di destrezza, come per esempio piegare una moneta da un rublo fra le dita o strappare in due un mazzo di carte. Sì, posso dire che perfino gli attendenti più robusti si sforzavano inutilmente, dopo che ero uscito dalla mensa ufficiali, di raddrizzare il rublo deformato...».
Lukawsky fece un gesto di rifiuto con la mano: la sinistra, perché la destra continuava a tenerla in tasca.
«La supplico, caro signor von Pufendorf,» disse «non incominci anche lei con queste storie di monete piegate e mazzi di carte strappati! Dovunque uno vada, oggi, discorrendo di grandi forze fisiche non si sente altro che mazzi di carte strappati e monete piegate in due».
«Può darsi» disse Pufendorf sorridendo «che qui questi giochi di destrezza risultino tediosi. In Russia, però, noi eravamo più ingenui, sicché riuscivo sovente a divertire i miei compagni con cose del genere. Lei fuma forse?». E aprì un astuccio per offrire una sigaretta al maggiore. «Vede,» disse «non sono nemmeno russe, quelle che le offro».
«Che pure erano eccellenti» disse Lukawsky servendosi con la sinistra. «Per parte mia, sono stato qualche mese in Ucraina, e le fumavo con gran piacere. Ma quello che volevo domandarle, signor von Pufendorf: lei conosce, vero, la contessa Gabrielle Rochonville?».
Pufendorf lo guardò senza rispondere. Infine gli accese la sigaretta.
«Può ammetterlo tranquillamente» disse Lukawsky. «Sono comunque costretto, per ragioni che subito le dirò, a dedicare grande discrezione a questo nostro colloquio».
«Ebbene,» concesse Pufendorf dopo un momento «conosco la contessa».
«Signor von Pufendorf,» disse Lukawsky «intendo battermi con lei».
Pufendorf non rispose subito.
«Il colonnello Rochonville non desidera che io sposi sua figlia?» domandò infine.
«Il colonnello» disse Lukawsky «probabilmente ignora del tutto che lei la conosce. Dubito perfino che sappia qualcosa della sua esistenza».
«O forse lei stesso, maggiore Lukawsky, ama la contessa Gabrielle?».
«Io sono sposato, signor von Pufendorf».
Un sorriso fuggevole passò sulla bocca di Pufendorf. A un’osservazione superficiale, si sarebbe detto che sorrideva perché la sua domanda non era se Lukawsky fosse sposato o meno. Ma forse sorrideva soltanto per la serietà della risposta di quell’ufficiale, che apparteneva a un mondo incomparabilmente più modesto rispetto a quello cui era appartenuto lui.
«Noto comunque» disse «che lei è un uomo tutto d’un pezzo, signor Lukawsky. Perché allora vuole battersi con me? Lei accenna al fatto che il colonnello, verosimilmente, non sa nulla di me, e mi confessa di non amare Gabrielle. Io invece la amo più d’ogni altra cosa».
«Lo so» disse Lukawsky.
«Qual è allora il vero motivo della sua sfida?».
«A proposito» soggiunse Lukawsky. «Il mio procedere è di certo inconsueto, il mio modo di introdurmi in casa sua è stato forse singolare – ma ho ritenuto superfluo muovere offesa a un uomo come lei, o creare una situazione in cui lei avrebbe infine dovuto offendere me. Credo che basti se le dico che voglio battermi con lei».
«Io però non ne vedo la ragione».
«Mio caro signor von Pufendorf,» disse Lukawsky «mi sorprende che questo genere di cose paia esserle estraneo. A quel che so, nella sua patria ci sono state nel secolo passato autentiche epidemie di duelli, e finanche due dei vostri poeti più famosi, Lermontov e Puškin, sono morti in duello; dei nostri poeti, invece, finora nessuno – ciò che forse depone a sfavore dei vostri poeti, o forse dei nostri. Puškin ha perfino scritto di duelli in diverse occasioni».
«Sì,» disse Pufendorf «in realtà tutti i poeti scrivono sempre e solo di ciò che finisce per essere il loro destino».
«Se lei dunque non vuole supporre che solo per distrazione abbia messo mano alla pistola, anziché alla penna...».
«Puškin è morto battendosi per una donna» disse Pufendorf. «La sua: sua moglie. Era molto bella, e lo zar la amava. Fu lui a far uccidere Puškin da un avventuriero».
«Vede!» disse Lukawsky. «O pensa forse che non siano più i tempi, per questo genere di cose? Fra uomini d’onore non vi sono casi a proposito dei quali lei possa dire che i tempi sono ormai superati».
«Questo sarebbe vero,» disse Pufendorf «o meglio: potrebbe confarsi a noi due, se lei mi ritenesse un uomo d’onore. Ma lei non mi ritiene tale».
«Come arriva a questa conclusione?».
«Perché lei non mi ritiene tale. Lei vuole battersi con me – battersi comunque, maggiore Lukawsky – solamente perché lei non vede altro modo per prevenire quel signor Gordon e lo scandalo che, come lei crede, nascerebbe dal mio arresto. Io però sono convinto che Gordon non ha la minima intenzione di farmi arrestare. Non vorrei pungerla sul vivo, ma lo reputo più avveduto di lei. Innanzitutto è di sicuro venuto a sapere molto prima di lei della mia esistenza e dei miei rapporti con Gabrielle Rochonville – benché questa non fosse certo una grande impresa, avendo lui a disposizione tutti gli strumenti della polizia. Inoltre lo considero avveduto perché deve aver capito subito che io ho ben poco a che fare, nonostante ogni apparenza contraria, con quanto ha in mente lei. Insomma, non mi farà di sicuro arrestare. Lei vede bene che, per quanto le circostanze lo suggerissero, fino ad ora non lo ha fatto. Ma le sciagure non arrivano mai dalla direzione da cui uno se le aspetta. Vengono sempre da una direzione diversa. A qualcosa come la sua visita avrei dunque dovuto essere preparato. E debbo confessare che sono piuttosto a corto di argomenti, perché qualsiasi rassicurazione io possa darle sul fatto di non aver nulla a che vedere con quel che tanto la preoccupa, lei non mi crederà...».
«Lei avrà notato» disse Lukawsky «che non le ho nemmeno chiesto dove possa trovarsi Fonseca».
Pufendorf, dopo un momento di irritazione, continuò: «E così, dato che non ho voglia di passare inutilmente due anni in una fortezza ungherese, non mi resta altro che metterla in guardia. Io, se lei davvero insiste a volersi battere con me, io la ucciderò in duello, maggiore Lukawsky...».
«Ah, la prego, niente profezie!» disse il maggiore. «Le profezie non sono fatte per realizzarsi».
«E perché no?» chiese Pufendorf stupito.
«Perché non predicono il reale, ma il vero. Lei quindi nuoce soltanto a se stesso se vuol raccontarmi, per esempio, che è un ottimo tiratore. Con le pistole da duello non si tira decisamente bene. E quand’anche dovesse riuscirle di ferirmi o uccidermi, lei non avrebbe risolto nulla: perché dovrebbe ancora vedersela con i signori Silverstolpe e Marschall, e con il colonnello stesso. Si disponga pertanto a morire, Konstantin Il’ič von Pufendorf! Ora accetta la mia sfida o no?».
Pufendorf, senza rispondere, scrollò le spalle. In quel momento suonò il campanello.
«La contessa Rochonville, naturalmente, non sa che io sono qui» disse Lukawsky.
Pufendorf lo osservò ancora un istante, quindi uscì dalla stanza. In anticamera parlò brevemente a bassa voce, poi si udì aprirsi e chiudersi un’altra porta, e Pufendorf rientrò.
«Maggiore Lukawsky,» disse «più ci penso più trovo talmente vergognosa la sua condotta che ho deciso di accettare la sfida. Così lei potrà davvero vantarsi di aver raggiunto lo scopo. Dio la perdoni. Avrà soddisfazione».
«Bene» disse Lukawsky. «Ma perché di colpo tanta irruenza? Finora lei è stato molto cortese, così come mi attendevo da un conoscente di una signora che è pur sempre la figlia del mio colonnello».
«Lei non sa proprio quello che fa, maggiore Lukawsky!» disse Pufendorf. «Non sa nemmeno quello che dice!».
«Non creda che io mi sia deciso con leggerezza a questo passo. Le ho detto che ho famiglia».
«Macché!» esclamò Pufendorf irritato. «Non sto parlando del pericolo per l’ulteriore educazione dei suoi figli!».
Lukawsky, dando una scrollata di spalle, si alzò. «E lei non prende troppo sul serio le sue questioni?».
«Sì,» disse Pufendorf «le questioni, ad esempio, per cui in questo paese non si ha abbastanza cuore da viverle sino in fondo. E le si lascia cadere». Quindi, con altro tono, aggiunse: «Attendo – diciamo per domani a mezzogiorno – i suoi padrini».
«Benissimo» disse Lukawsky. «Glieli manderò per tempo».
E con questo si congedò.
Attraversò, senza guardarsi intorno, l’anticamera. Dopo che la porta dell’appartamento si fu chiusa dietro di lui, restò ancora un istante sovrappensiero. Poi scese le scale.

3

Ecco la lettera che, verso la fine di giugno di quell’anno, Silverstolpe indirizzò al capitano di cavalleria Marschall von Sera.
Era vergata su molti piccoli fogli in una grafia minuta, quasi infiorata, e con un certo senso della forma e della distribuzione della scrittura sulla superficie della pagina. Le iniziali dell’esordio e di ogni capoverso erano ornate di svolazzi. La data era posta in fondo ed era seguita da due post scripta, quasi non potesse, una vera lettera, esserne priva.
Se non si è avvezzi a scrivere lettere, può accadere che si affidi una vita intera – e forse persino in forma più compiuta di come la si vive – a una lettera. Lo scritto era un tutto conchiuso, una lettera a sé, destinata a rimanere lettera e non a essere riprodotta secondo misure e criteri differenti. Le sviste e il modo in cui è piegata rientrano nell’unicità di una lettera, così come i caratteri sbavati magari da una mosca che abbia vagato per la scrittura ancor umida. Riproducendo la missiva, pertanto, agiamo nella convinzione che essa non sortirà più tutto l’effetto che operò invece sul capitano di cavalleria.
«Mio caro Marschall» così scriveva Silverstolpe «sarai sorpreso di ricevere questa lettera, anzi semplicemente una lettera, da me: noi non usavamo certo scriverci molto; non era necessario per assicurarci della nostra reciproca amicizia, né mai abbiamo avuto bisogno di definire un nuovo incontro che potevamo invece lasciare al caso. Sicché prenderai queste righe per segno di un fatto inconsueto – a meno che tu non faccia come quel tale che potei ancora conoscere, e che per decenni occupò nel suo albergo due stanze: una per abitarci, l’altra al solo scopo di riversarci tutte le lettere ricevute e mai aperte; talché alla sua morte trovarono quell’altra stanza quasi interamente colma di lettere non lette. Che gesto eloquente a significare che gli uomini, in definitiva, non sono in grado né di dirsi né di scriversi alcunché!
«Se nondimeno leggerai questa mia lettera, non avrai motivo di trarne maggiore sgomento rispetto a tutti gli altri casi in cui abbiamo dovuto semplicemente accettare il sopraggiungere – in altre persone – di quello stesso evento che qui ti annuncio.
«Mi è dispiaciuto non vederti al funerale di Engelshausen. Anche Lukawsky avrebbe voluto parlarti. E forse la tua presenza avrebbe dato un’altra piega alle cose di cui abbiamo discusso. Fummo infatti invitati, Fonseca e io, dopo il funerale di Engelshausen a casa di Lukawsky, e sua moglie ebbe la cortesia di bendarmi una piccola ferita che mi ero fatta – allora ignoravo ancora come – alla mano e che avevo creduta trascurabile.
«Ma già la notte successiva mi svegliai in preda a dolori violentissimi e alla febbre. La mattina vidi che non solo la mano, ma anche il braccio era gonfio. Strie di colore sgradevole risalivano dal dito medio ferito alla spalla, e mi accorsi che anche le ghiandole ascellari erano ingrossate.
«Il medico disse che si trattava di un’intossicazione. Da principio pensai che la benda con cui la Lukawsky mi aveva fasciato avesse infettato la piccola ferita. Ma tosto il medico insisté a dire che era un’intossicazione cadaverica.
«Io, naturalmente, non avevo idea di dove mai potessi averla contratta. Ma riflettendoci sopra, dovetti concludere che la sola possibilità da considerare era la seguente: il colonnello e io avevamo reso visita alla salma di Engelshausen. Era in uniforme. Poiché la giacca non gli si chiudeva più sul petto, le falde erano state unite con alcuni spilli. A me pareva che ciò fosse stato fatto in modo maldestro, e fissai meglio gli spilli.
«Qui avrà certo avuto la sua parte un qualche ricordo del servizio militare d’un tempo. Non era forse nostra abitudine non poter vedere un soldato senza trovargli addosso qualcosa da sistemare? Insomma, devo essermi ferito con uno di quegli spilli. È probabile che, nel rivestire il morto della sua uniforme, lo abbiano scalfito superficialmente con la punta nel petto – quella stessa punta con cui ho poi graffiato il mio dito.
«Nell’intossicazione cadaverica il nome suona, in genere, più minaccioso di quanto non lo siano le effettive conseguenze. Il male cui ero esposto ebbe, dapprima, il suo regolare decorso. Per alcuni giorni la febbre fu, a tratti, anche alta e le mie ghiandole rimasero gonfie; ma poi – come aveva previsto il medico – l’intossicazione regredì, e qualche tempo dopo avrei detto d’essere guarito.
«Fin qui non vi sarebbe nulla di abnorme da registrare. Certo era una sensazione strana recare in me i veleni di un altro corpo umano. Ma non inspiriamo forse costantemente l’aria espirata da qualcun altro, e la nostra vita non si mescola forse di continuo alla vita, e perfino alla morte altrui? Il pane che mangiamo forse è stato cotto con la farina tratta da una spiga nata e cresciuta su un cadavere, e il pesce che ci viene servito potrebbe essersi cibato dei resti di gente annegata. La nostra inaccessibilità, mediante la quale crediamo di non entrare in contatto col mondo circostante, è assai di superficie, e la nostra presunta intangibilità è di fatto inesistente. Di continuo ci sporchiamo i guanti bianchi, che sempre riteniamo di dover indossare, di continuo la sostanza di ogni creatura e cosa alita su di noi i suoi effluvi – e noi i nostri su tali creature e cose. Tutto si mescola con tutto, senza posa.
«Così, in capo a qualche giorno, sarei dovuto guarire. E invece non sono guarito. I gonfiori, è vero, erano regrediti e la febbre era calata. La mia temperatura scese perfino al di sotto della norma, ma io, anziché riacquistare le forze, sentivo crescere in me una singolare spossatezza, una debolezza logorante. Come a volte noi avvertiamo un peso in proporzione non già alle sue dimensioni, ma alla sua consistenza, così anch’io avvertivo quella debolezza come un’estenuazione logorante e quasi dolorosa. Incominciai allora a sentirmi veramente male.
«Il medico sosteneva che quelle erano sempre le conseguenze dell’intossicazione, che l’intossicazione era passata e che l’indebolimento ne era solo lo strascico; entro breve, concludeva, sarei dovuto guarire. Ma i giorni trascorrevano, e io non mi sentivo meglio, al contrario: mi sentivo peggiorare. Dissi al medico che, o la malattia non era ancora passata, o al suo posto ne era subentrata un’altra. L’intossicazione, rispose il medico, era senz’altro superata: tutti i sintomi erano scomparsi. E una nuova malattia, derivante da quella, non era a suo giudizio possibile – o, quantomeno, lui non sapeva quale potesse essere.
«Lo sapesse o no, era comunque una malattia – ed era, se non nuova, sempre la stessa intossicazione, che aveva solo assunto una diversa forma. Una forma destinata a essere letale.
«Vero è che Dio non fa differenza tra la punta di una spada e la punta di uno spillo. Non era altro che un pregiudizio, l’aver noi creduto di poter morire soltanto sotto le lame di un qualche reggimento francese o russo d’élite. In seguito ci siamo dovuti acconciare all’idea che saremmo egualmente potuti morire in una qualche sudicia trincea, dilaniati da una granata. Ed ora mi devo rassegnare al pensiero di morire per la puntura di uno spillo. Perché è un fatto, che io devo morire. Non vedrò le bufere autunnali, che tanto amo e che portano sino a noi il profumo del mare, anzi forse non vedrò neppure il pieno dell’estate.
«Non ho, mio caro Marschall, l’intenzione di annoiarti descrivendoti gli indizi che mi hanno portato a questa conclusione. Forse a tale convincimento sono arrivato io solo, forse i medici continuano a non crederci, perché come questa malattia – che non conoscono – è venuta, così, pensano, potrebbe anche andarsene. Sono parecchi i medici che, chiamati a consulto, mi hanno studiato per settimane. Ma c’era ben poco da studiarmi, non vi era da scoprire una malattia in senso proprio: era il mio corpo a consumarsi da sé. Non occorrevano più veleni esiziali: erano stati solo la causa occasionale della fine, e in realtà io ho cominciato a considerarmi perduto.
«Certo, un tempo gli uomini morivano spesso di malattie sconosciute, malattie di cui si aveva soltanto il nome, non il concetto: di febbre nervosa per esempio, di crepacuore e simili. Forse è un puro pregiudizio il credere che debba sempre essere una malattia o una ferita ciò di cui si muore. Forse, anzi probabilmente, si può benissimo morire da sé. E se uno non sa risolversi da sé a morire, avrà bisogno del destino – per esempio di scalfirsi con una punta di spillo, alzerà gli occhi, prenderà coscienza e morirà.
«Non pare anche a te che noi non abbiamo mai veramente preso coscienza della morte? Forse, quando siamo ritornati dalla guerra, abbiamo persino creduto di averla gabbata, la morte. Ma lei non si fa gabbare. Non che noi ci fossimo votati a lei. Non ve n’era necessità. Ma a un tratto era diventato inutile vivere. È sbagliato credere di dover sempre essere vivi. Si può benissimo essere morti. Credo che non per questo cambi minimamente il nostro modo d’essere. Chi è morto d’amore è ancora, e così pure tutti i caduti di guerra continuano a essere: sono, anzi, molto più che non se vivessero ancora. Vi sono, è vero, uomini che per vivere devono restare vivi, ma ve ne sono molti altri che per essere devono prima morire.
«Mi domanderai per quale motivo io non abbia speso una parola per informare te – o gli altri – circa il mio stato, mi rinfaccerai anzi di non averlo fatto. Ma, appunto, avevo bisogno di tempo per rendermi cosciente della mia morte. Se adesso ti chiedo addirittura di venirmi a trovare, lo faccio ormai con tutt’altri presupposti. I medici non mi infastidiscono più, e io, pur avvertendo sempre maggior debolezza, mi sento tuttavia meglio. Ora ho smesso di combattere contro la mia fine: la accetto. Forse sono stato, a tratti, un malato insopportabile, ma sono divenuto un moribondo ben sopportabile.
«Quando ho visto che era inutile sperare nell’arte medica, mi sono negato agli studi che si volevano condurre su di me. Mi sono detto che, se anche fossero riusciti a penetrare il mio male, i medici non avrebbero comunque potuto applicarne gli esiti ad altri malati, perché non ci saranno altri malati simili. La mia malattia è la mia personalissima morte. Non muoio di un morbo, ma di me solo.
«Ho due vecchie parenti in Carinzia, cugine della mia povera madre – mio padre, giunto dalla Curlandia ed entrato nel nostro esercito, aveva preso in moglie una Ungnad –, le quali mi avevano invitato già più volte. Amministrano una piccola proprietà chiamata Gegendt e si annoiano, credo, terribilmente come tutte le persone di una volta in questi tempi. Quando ho scritto loro che intendevo proprio venire, ho aggiunto subito che il mio disfacimento non sarebbe stato uno svago per loro. Ma forse nella mia lettera c’era una qualche insistenza che non consentiva di respingere la mia richiesta. Non mi sarebbe piaciuto morire in città. E loro comunque hanno avuto la bontà di invitarmi davvero.
«Ora abito qui – per non dire: vivo qui –, altrimenti dovrei soggiungere che aspetto solo di tirare le cuoia. Ho avuto, come avrai notato, il tempo di riflettere sul mio destino – sul destino di noi tutti. Ma sono settimane ormai che queste considerazioni hanno smesso di angosciarmi. Sapendo che non si vivrà più tanto, si vive meglio che non pensando di dover continuare a vivere. Ormai mi voto soltanto alle cose più immediate: il caldo, il continuo bel tempo; ciò compensa un poco il freddo che va crescendo in me; la vita di campagna, la visione della fecondità incredibile di questa terra – pare colma di spiriti della fecondità come di tutti i fauni di Pomponio Mela – mi sostengono nel mio venir meno e trapassare. È più facile morire se ci si accorge che la morte è parte della vita. E io, cercando di partecipare a questa vita, per quanto ancora mi è possibile, dimentico che non posso più vivere. Dimentico anzi la vita stessa, come il dormiente dimentica il ragno o la blatta che, prendendo sonno, ha visto sul soffitto – e al suo risveglio gli animaletti si sono spostati e sono ormai altrove. Così la vita, come in sonno, mi abbandona.
«Una delle mie zie è un’anziana signorina Ainether, l’altra per un certo tempo è stata moglie d’un consigliere di corte dal curioso nome di Pobeheim von Holzapfel-Wasen. Ma il matrimonio fu breve, anzi per la verità un semplice interludio nella vita dell’attempata signorina che, in fondo, non ha mai smesso di essere tale, sicché quando tornò dalla sorella fu come se non fosse mai stata via. Pranziamo assieme, di quando in quando abbiamo visite, oppure rendiamo visita noi a gente dei paraggi, ma io trascorro la maggior parte del tempo in una poltrona che mi faccio sistemare al sole, così da non aver freddo, e il tempo passa sopra di me. Io non me ne accorgo. La lancetta dell’orologio cosmico procede, mossa dal gigantesco ingranaggio delle orbite stellari – per me è come se si fosse mossa solo una foglia. Ogni istante che passa mi ruba molta più vita che a chiunque altro – io non vi bado. A volte, in precedenza, volevo arrestare il coro delle ore, questa turba duodena, come la chiama san Tommaso d’Aquino, quasi fosse una schiera di dodici fanciulle in vesti aleggianti, ed ero triste quando una sola di loro mi sfuggiva. Adesso, trascorrano pure sui piedi invisibili e silenziosi dalla loro eternità a questa caducità, e da questa caducità di nuovo alla loro eternità: perché mai dovrei ancora cercare di afferrarle? Se non le ritroverò di là, che cosa me ne faccio qui!
«Ma, in forma attenuata, anche qui c’è qualche svago. Di recente, per esempio, ho partecipato al bagno che, durante i mesi caldi, le vecchie signorine usano prendere nello stagno ogni giorno prima di pranzo. Si bagnano, a un dipresso, nello stesso modo in cui venne scoperto nel 1890 il bagno a Ostenda, solo che lo stagno non è il mare, ma una pozza tutta giunchi, ninfee, bisce d’acqua e coleotteri. Il cerimoniale di questo bagno ha però la mondanità di tempi trapassati... A volte capita che le signorine si distendano nelle amache, ma poi, quando vogliono rialzarsi, non ci riescono perché vi restano impigliate con i loro mille bottoni...
«Questo e altro mi rammenta certe scene domestiche, che un tempo, essendo io bambino, non avvertivo come ridicole – e all’epoca, di certo, ancora non lo erano. E anche qui, a volte, devo quasi sforzarmi di sorriderne. Il fatto è che qui i tempi si compenetrano in maniera non facile a descriversi, il presente non soppianta il passato; tutto, passato e presente e forse anche il futuro, è un sussistere insieme; e tante cose, così come mi richiamano il passato, sanno ricordarmi, in certo senso, anche il futuro. Non so se mi capirai. Ma qui il tempo, o non esiste affatto, o esiste con tale prepotenza che risulta indifferente cos’è già stato e cosa ha da venire: è comunque presente. La natura stessa reca in sé questa presenza costante di tutti i tempi.
«Quando sono arrivato qui, l’estate ricordava ancora un po’ la primavera, i prati in particolare, alti, non falciati, avevano – così mi pareva – un’espressività incredibile. O perlomeno questa era la mia percezione, e non voglio decidere se reali siano le cose stesse o la percezione che noi ne abbiamo. Allora, in quel trascorrere dalla tarda primavera all’estate in senso proprio, spesso nelle prime ore del pomeriggio, quasi ogni giorno, un sottile velo di nuvole – formatosi probabilmente a causa degli instabili strati atmosferici – saliva un tratto nel cielo, e quando compariva si aveva la sensazione che l’aria si facesse appena un po’ più fredda: come quando una folata di vento improvvisa passa sopra gli alberi o i tetti, e per un attimo un’aria affatto diversa ristà nell’aria consueta del giorno, prima di disperdersi – ma quel fenomeno non era legato a un alito di vento o a un reale raffreddarsi dell’aria: era solo come un’infiltrarsi nell’aria d’una sostanza altrettanto diafana ma assai più indefinita – o appena come un brivido. Un gran numero di cose, che non so esprimere, credevo di percepire – o meglio, credevo di prendere coscienza di eventi a tal punto chimerici e obliati, che pareva tornarmi in mente non solo l’intera mia vita, su su fino a giorni così remoti che non potevo averli vissuti, ma anche tanti giorni di tante altre vite. E ogni volta che quel fenomeno si verificava, ogni volta che il brivido sopraggiungeva, erano anche i prati ad avvertirlo. Un fremito molto più delicato di un refolo li attraversava, sebbene i fili d’erba non si muovessero minimamente, o quantomeno non per quella causa; era solo uno scemare, per minimi gradi, della luminosità del verde argenteo e tremulo – un rabbrividire insomma che, nella sua inafferrabilità, toccava ancor più l’anima.
«Così me ne stavo nella mia poltrona aspettando quotidianamente quello strano atterrirsi della natura – sì, era senza dubbio un atterrirsi –, era come se anch’essa ricordasse a un tratto qualcosa e ne avesse terrore. Ma che cosa ricordava? Poteva essere, di nuovo, il ricordo di qualcosa sia del passato, sia del futuro. Le cose tremende che forse intuiva potevano essere già accadute o di là da venire. Ma era come se fosse accaduto appena ieri o avesse da venire già domani, talmente dappresso era ancora – o di nuovo – il terrore. Quale terrore? Non il gran diluvio di un tempo, evidentemente, o la conflagrazione universale anch’essa di un tempo – salvo che l’uno è tanto remoto quanto l’altro ancora si preannuncia. Ma che cosa sono mai per la natura il fuoco e l’acqua! Non sono forse, acqua e fuoco, la natura stessa? No, non aveva certo terrore di se stessa. Il terrore doveva invece essere più profondo: una qualche memoria o il presagio di una catastrofe nelle proprie cellule, o la paura del nascere della coscienza, o dello scindersi in principio maschile e femminile, o dell’insorgere del desiderio, o del mutuo compenetrarsi del vivente, o soprattutto e insieme: dell’amore.
«Ma non della morte. Solamente della morte no, che già di per sé è nulla. Terribile – così come si chiamano terribili e tremendi anche gli dèi –, è solo la vita. E io me ne stavo sdraiato e osservavo la vita atterrirsi di sé. E non avevo più paura.
«Questo, pressappoco, è quanto ho provato; o meglio: dev’essere stato più o meno questo. Sento però che non sono riuscito a trasmetterti un’idea della peculiarità della mia esperienza. Il peculiare – lo constato sempre – è tutto sotto la superficie delle parole, quelle strane entità che non riescono mai a comunicare concetti grazie alla precisione, ma semmai grazie alla loro imprecisione. Quanto più celata è una cosa, infatti, tanto più spettrale è il suo tentativo di emergere. Cosa potrebbe mai essere, altrimenti, il fatto che mentre scrivo, qualcosa sembra aprirsi un varco nella mia scrittura, come da calami intinti nell’ombra i tratti d’una scrittura assai diversa? – o ciò è piuttosto da paragonarsi a pesci che d’inverno affiorano muti e umbratili dal profondo dell’acqua fin sotto l’esile strato del ghiaccio? Che cosa affiora fino a me dal profondo delle pagine, incerto e quasi illeggibile, come alla fiamma sventolante d’una candela? Ma soprattutto, chi ha scritto ciò che qui vuole aprirsi un varco? E per chi mai è stato scritto? Talvolta, è vero, qua e là – simili a righe in una carta assorbente – i tratti si sovrappongono: i miei e quelli altrui, spettrali, si fondono come i lineamenti di un avo nel volto di un pronipote; e, come se due sostanze si unissero in un fuoco che erompesse dalle pagine, erompe radiante un senso che solo per metà è mio, ma per l’altra metà è di qualcuno da me affatto diverso. Pure bisognerebbe ricalcare l’intera, umbratile scrittura, e non lasciare al caso che i tratti vengano di quando in quando a sovrapporsi. È un unico, spettrale accalcarsi di segni, la camera ne è satura, come di fumo, e l’aria di là dalle finestre ne è pregna e vi preme contro...
«Quasi tutto ciò che fu scritto dagli uomini è come non ancora scritto. Simile a lettere in cui nessuno ha detto quanto voleva dire è tutto quel che venne scritto – come lettere non scritte. Aprendo i cassetti dei comò le trovi a fasci, quelle lettere legate da nastri, e la ceralacca dei sigilli, che il destinatario ha rotto come se rompesse i sigilli di vere lettere, si sbriciola tristemente sul fondo dei cassetti in frammenti di minuscoli stemmi e pesti cimieri. È come avere infranto uno stemma alle esequie dell’ultimo rappresentante d’una casata nobiliare. Perché quando si slegano i plichi e si aprono i fogli delle lettere, vi si trova soltanto delusione. Pure, vi sarebbe stato tantissimo da dire! Non già sul reale, benché neppure questo sia stato detto. Ma sull’irreale. Le nostre parole però sono imprecise, e quando diciamo l’irreale, forse intendiamo invece il reale.
«Come è stato, per esempio, ieri durante la passeggiata che ho arrischiato fare? Ero finito su uno stretto sentiero che, passando dietro una fattoria, saliva con una ben determinata serpentina (ci sarà forse chi dica che era una qualunque, ma io insisto nel ritenerla ben determinata, quella serpentina), saliva verso un margine del bosco, in direzione nord. Mi parve però, non appena vi ebbi fatto pochi passi, che non salisse ma scendesse. Vedevo, sì, che portava, di poco eppur sensibilmente, in su, e nondimeno sentivo che conduceva in giù, e quel dissidio tra percezione e sensazione deve avermi messo ben presto in uno stato d’animo singolarissimo – io comunque avvertii nettamente, senza poter tornare indietro o resistere altrimenti, l’inconsueto cui andavo incontro. Il sentiero era pietroso, come se vi fosse passata sopra l’acqua di un torrente; quantomeno all’estremità più bassa del sentiero – a quella realmente più bassa, e non a quella da me presunta tale – s’era accumulata una quantità di sassi, come un ghiaieto, e più su vi erano certi solchi scavati da ruote, mentre in altri punti le pietre che spuntavano dalla terra erano arrotondate come se molte persone vi avessero camminato sopra – mentre quello, per certo, non era un sentiero battuto –, e fra le pietre cresceva un po’ d’erba e di piantaggine. Il sentiero era di un’ampiezza diseguale e andava, per dir così, sfumando. Quando cominciai a percorrerlo, udii dalla cascina sbuffare un cavallo. Era uno sbuffare innervosito, come nell’imminenza di un evento inquietante. Per il resto tutto era silenzio. Il sentiero dapprima fiancheggiava un orticello chiuso da un basso steccato e una misera striscia di terra coltivata, poi oltrepassava un filo d’acqua che colava con un lamento impercettibile. Tutt’intorno si stendevano tratti di terreno paludoso coperti da una specie d’erba fatta di singoli steli lanceolati o d’un vello simile a una pelliccia di lontra, e qua e là cosparsi di bianche infiorescenze stellate. Là dove il sentiero faceva un gomito prima di infossarsi, un dieci passi più oltre, fra due sponde dell’altezza d’un uomo, sorgeva una cava di sabbia – o comunque un avvallamento ghiaioso, che io presi per una cava di sabbia o di breccia, e lì era cresciuto un cespo o un arbusto dalle strane infiorescenze, come un ciuffo di crespino o un rovo di more. Sul margine della cava, a monte, vi era un abete privo di rami fino a metà altezza; ai suoi piedi lussureggiava un groviglio di crespini, querce spinose, biancospini e arbusti d’altro genere. Più in là verso il bosco si ergeva una betulla isolata. Sull’altro versante del sentiero vidi un albero d’una specie a me ignota, che era come accovacciato e nel contempo bizzarramente dissolto nell’aria, e i ceppi di alcuni frassini tagliati, mentre più lontano parecchi altri esibivano tronchi curiosamente ricoperti di muschio. Le loro chiome, con ogni evidenza potate e ripotate – a che scopo, però, lo ignoro –, avevano preso la forma di cespugli ovoidali.
«Non comprenderai di primo acchito perché ti descrivo tutto questo. Ecco che cosa mi è successo su quel sentiero: cominciando a percorrerlo osservavo la piantaggine, o meglio solo le foglie e non lo stelo, e le pietre arrotondate. È possibile che, guardando a terra e procedendo senza alzare gli occhi, io non abbia più avuto già dopo pochi istanti piena contezza della direzione e l’abbia cercata solo in modo semiconsapevole; come che sia, questa scissione della mente fra le mie percezioni e l’intento di mantenermi sul sentiero, mi ha affaticato oltre il consueto – mi accorsi così di scivolare in uno stato simile alla vertigine, per effetto del quale credetti a un tratto di essere in tutt’altro luogo rispetto a quello in cui in realtà io mi trovavo. O meglio, credetti all’improvviso di non essere più in alcun luogo, perlomeno non in un punto determinato, e la sensazione di scendere anziché salire s’impadronì interamente di me. La sensazione stessa non saprei descrivertela. Era qualcosa di paragonabile semmai al senso della mia debolezza fisica. Come adesso avverto in me questa logorante debolezza, così allora – nello stesso modo logorante – il sentiero ascendente mi trascinava in basso. Scoprii con terrore e in maniera incomparabilmente più incisiva di quanto fino a quel momento non mi fosse chiaro – d’essere del tutto solo. Non so cosa non avrei dato per avere con me una qualsiasi compagnia. Ci fosse stato qualcuno al mio fianco, fosse anche il cane, che invece se ne sta sempre accucciato in cucina e non mi accompagna mai, allora – pensai – questo non mi sarebbe successo. Ma che cosa, in realtà, mi è successo? Lo ignoro. Era un sentirsi completamente persi sprofondando; e ho avuto l’impressione, anzi la certezza, che né io né nessun altro si sia mai abbandonato a un’avventura del genere o abbia avuto un’esperienza simile e – per ragioni tanto oscure – così inquietante, anzi sconvolgente.
«Quando rialzai gli occhi, o meglio: quando tornai in me, ero al margine del bosco. Avevo solo percorso il sentiero, ma credetti d’essere stato in contrade talmente lontane da non figurare in Tolomeo e neppure nelle fantastiche carte di Mercatore. Cercai di scrollarmi di dosso l’impressione che ne avevo ricavato, ma essa già stava cascando da sé, come una cappa che mi avesse coperto anche la testa e il volto. Di colpo non capii più che cosa mi fosse successo, e neanche dopo fui in grado di capirlo. Insieme con quell’indescrivibile senso di paura ormai allontanatosi da me, era venuta meno anche la capacità di comprendere tale sentimento, o di farne almeno il tentativo.
«Mi accorgo che scrivere questa lettera mi ha stancato, occorre dunque che io affretti la conclusione più di quanto non vorrei. Non sono neppure riuscito a chiederti con la debita urgenza ciò di cui innanzitutto volevo pregarti: una tua visita. Ho già avuto dalle signorine il permesso di invitarti. Me lo hanno concesso di buon grado. Tuttavia ignoro se tu abbia la possibilità di venirmi a trovare qui; ma se dovessi risolverti a farlo, lo farai – lo so – assai più per amor mio che non per il diletto che io potrei procurarti. Vieni però, vieni e rimani quanto vuoi. Qui non si misura il tempo. Credo anzi che le signorine stesse sarebbero felici di avere qui un altro ospite – sempre che io possa essere considerato tale e non sia, piuttosto, persona da annoverare fra i residenti stabili.
«Mi dispiace d’aver esaurito le energie scrivendo di tutte le altre possibili cose, anziché trovare quelle parole affettuose che in realtà intendevo rivolgerti. Scusami quindi, in considerazione del mio stato, e fa’ come se ti avessi detto tutto ciò che non ho saputo mettere per iscritto.
Gegendt, 26 giugno 1925.
Silverstolpe».
Con queste parole, nella fretta di un’evidente estenuazione, terminava la lettera. Seguivano ancora, aggiunti senz’altro prima dell’invio, due poscritti riguardanti le circostanze dell’eventuale viaggio dell’amico.