lunedì 10 dicembre 2018


[...] «'Tutta l'infelicità degli uomini deriva dal non sapersene stare tranquilli in una stanza.'» «Woody Allen?» «No, Blaise Pascal.»[...] 

ASPETTANDO DOMANI
Guillaume Musso

1

Tra i fantasmi


Non siamo chi vediamo allo specchio,
siamo chi brilla nello sguardo altrui.
TARUN J. TEIPAL


Università di Harvard, Cambridge.
19 dicembre 2011.
L'AULA era affollata, ma silenziosa.
Le lancette del quadrante di bronzo del vecchio orologio a muro segnavano le tre meno cinque. La lezione di filosofia del professor Matthew Shapiro stava per finire.
Seduta in prima fila, Erika Stewart lo guardava intensamente. Cercando invano di attirarne l'attenzione, la ragazza da un'ora beveva ogni sua parola e assentiva a ogni sua osservazione. Nonostante l'indifferenza del professore davanti al suo atteggiamento, continuava a sentirsi ogni giorno più affascinata da lui.
Il viso giovanile, i capelli corti e il velo di barba sul mento conferivano a Shapiro un innegabile charme, che incantava le studentesse. Con i jeans stinti, gli stivali di pelle invecchiata e il dolcevita, Matthew somigliava più a uno studente che a certi suoi colleghi dall'aria severa che si incontravano nel campus. Ma più del bel viso era l'eloquenza a renderlo così seducente.
Era uno dei professori più amati del campus. Da cinque anni insegnava a Cambridge e ogni anno conquistava nuovi allievi. Grazie al passaparola, se ne erano iscritti oltre ottocento quel
trimestre e il suo corso al momento si teneva nell'aula più grande di Sever Hall.
LA FILOSOFIA È INUTILE SE NON ELIMINA LA SOFFERENZA DELLO SPIRITO
Scritta a mano sulla lavagna, quella frase di Epicuro rappresentava il fulcro dell'insegnamento di Matthew.
Egli si proponeva, con le sue lezioni, di essere alla portata di tutti e per questo non infarciva i ragionamenti di concetti astrusi, ma li collegava sempre direttamente alla realtà. Iniziava ogni suo intervento partendo dalla vita quotidiana degli allievi e dai problemi concreti con cui si confrontavano, come la paura di essere bocciati a un esame, la rottura di una relazione amorosa, la paura del giudizio degli altri, il senso da dare ai propri studi. Una volta posto il problema, evocava Platone, Seneca, Nietzsche o Schopenhauer e, grazie alla vivacità della sua esposizione, i grandi filosofi parevano per una volta abbandonare i manuali universitari per diventare amici intimi e accessibili, capaci di fornire consigli utili e confortanti.
Con humour e intelligenza, nel suo corso Matthew dava ampio spazio anche alla cultura popolare, citando film, canzoni, fumetti: tutto poteva rappresentare un pretesto per filosofare. Perfino le serie televisive trovavano posto nelle sue lezioni. Il dottor House illustrava il ragionamento empirico; i naufraghi di Lost offrivano spunto per una riflessione sul contratto sociale; i pubblicitari maschilisti di MadMen davano l'occasione per studiare l'evoluzione dei rapporti tra uomini e donne.
Se quella filosofia pragmatica aveva contribuito a fare di lui una star del campus, aveva suscitato anche molte gelosie e parecchia irritazione nei colleghi, che consideravano superficiale il contenuto delle sue lezioni. Per fortuna, il successo dei suoi allievi agli esami e ai concorsi aveva giocato fino a quel momento a suo favore.


Un gruppo di studenti aveva addirittura filmato le lezioni e le aveva messe online su YouTube. L'iniziativa aveva stuzzicato la curiosità di un giornalista del Boston Globe, che vi aveva dedicato un articolo. Dopo che il pezzo era stato ripreso dal New York Times, Shapiro era stato invitato a scrivere una sorta di «antimanuale» di filosofia. Benché il libro avesse venduto bene, il giovane docente non si era montato la testa per la notorietà conquistata e aveva continuato a mostrarsi disponibile con gli allievi e a seguire da vicino i loro progressi. Ma la bella storia era stata interrotta da un avvenimento tragico. L'inverno precedente, Matthew aveva perso la moglie in un incidente d'auto: una scomparsa improvvisa e brutale che lo aveva annientato. Certo, continuava a tenere i suoi corsi, ma l'insegnante appassionato e appassionante aveva smarrito l'entusiasmo che lo caratterizzava.
Erika socchiuse gli occhi per studiarlo meglio. Dopo la disgrazia, qualcosa in lui si era spezzato. I lineamenti si erano induriti, lo sguardo aveva perso intensità; e tuttavia il lutto e il dolore gli avevano conferito un'aura tenebrosa e malinconica che lo rendeva ancor più irresistibile.
La studentessa si lasciò trasportare dalla voce profonda e pacata che risuonava nell'aula, una voce che, pur privata di parte del suo carisma, restava suadente. Passando attraverso i vetri, i raggi del sole ravvivavano la grande aula e ne illuminavano la parte centrale. Cullata da quel bel timbro di voce, Erika si sentiva bene.
Ma i momenti di grazia non durarono. Ebbe un sussulto quando suonò la campanella di fine lezione. Raccolse le sue cose senza fretta, poi attese che la sala si fosse svuotata per avvicinarsi timidamente a Shapiro.
«Che cosa fa, qui, Erika?» si stupì lui vedendola. «Ha già frequentato questo corso l'anno passato.» «Ha presente l'aforisma di Helen Rowland che lei cita spesso?» Matthew aggrottò la fronte, senza capire.
«'Le follie che si rimpiangono di più sono quelle non fatte quando se ne aveva l'occasione'», spiegò Erika.


Poi prese il coraggio a due mani e aggiunse: «Vorrei commettere appunto una follia, per non avere rimpianti. Vede, sabato prossimo è il mio compleanno e vorrei... vorrei invitarla a cena».
Sgranando gli occhi, Matthew cercò subito di farla ragionare.
«Erika, lei è una ragazza intelligente, e sa benissimo che ci sono almeno duecentocinquanta motivi perché io rifiuti la sua proposta.» «Ma l'accetterebbe volentieri, no?» «Non insista, per favore», la interruppe lui.
Erika arrossì per la vergogna. Balbettò qualche parola di scusa, poi lasciò l'aula.
Con un sospiro, Matthew si infilò il cappotto, si annodò la sciarpa e uscì a sua volta.
Con i suoi grandi prati verdi, gli imponenti palazzi di mattoni scuri e i motti latini scolpiti sui frontoni, Harvard aveva l'aria chic e fuori del tempo dei college britannici.
Appena fu all'esterno, Matthew si arrotolò una sigaretta, l'accese e lasciò in fretta Sever Hall. Con lo zaino in spalla attraversò lo , la grande corte tenuta a prato da cui si dipartiva un dedalo di sentieri serpeggianti per parecchi chilometri, che conducevano ad aule, biblioteche, musei e dormitori.
Il parco era immerso in una bella luce autunnale. Da dieci giorni, una temperatura più mite e un sole sfavillante regalavano agli abitanti del New England una tardiva, piacevole estate di San Martino.
«Prof, occhio!» Matthew si girò verso la voce e vide arrivare nella sua direzione un pallone da football. Lo afferrò per un pelo e lo rimandò subito al quarterback che l'aveva avvertito.
Con il portatile in grembo, gli studenti avevano occupato tutte le panchine dello Yard. Sul prato si udivano risate e animate conversazioni. Lì più che altrove, le nazionalità si mischiavano armoniosamente e il melting pot culturale era percepito come una ricchezza. Il grigio e il bordeaux, i due colori della celebre università, facevano bella mostra di sé su giubbotti, felpe e zaini: l'orgoglio di appartenere a Harvard superava ogni possibile diversità.
Mentre passava davanti a Massachusetts Hall, il monumentale palazzo in stile georgiano che ospitava sia gli uffici amministrativi sia i dormitori degli studenti del primo anno, Matthew tirò una boccata dalla sua sigaretta. In piedi sulla scala d'accesso, la signorina Moore, l'assistente del rettore, gli lanciò uno sguardo furioso seguito da un richiamo all'ordine («Professor Shapiro, quante volte devo ripeterle che è proibito fumare nel campus?») e da una ramanzina sui danni del tabacco.
Con il viso impassibile e lo sguardo fisso, Matthew la ignorò. Per un attimo fu tentato di risponderle che morire era davvero l'ultima delle sue preoccupazioni, ma si trattenne e uscì dal complesso universitario attraverso il massiccio portone che dava su Harvard Square.
Ronzante come un alveare, lo Square era una grande piazza circondata da negozi, librerie, piccoli ristoranti e caffè, ai cui tavolini si sedevano allievi e docenti per proseguire le lezioni o per discutere su come rifare il mondo. Matthew si frugò in tasca per tirar fuori l'abbonamento della metropolitana. Aveva appena iniziato ad attraversare il passaggio pedonale per raggiungere la stazione della T, la linea che portava al centro di Boston in meno di un quarto d'ora, quando una vecchia Chevrolet Camaro dal motore rombante comparve all'angolo tra Massachusetts Avenue e Peabody Street. Trasalendo, Matthew fece un salto indietro per non essere investito dalla coupé rosso vivo, che inchiodò davanti a lui con grande stridore di freni.
Il finestrino si abbassò e ne emerse la testa dai capelli rossi di April Ferguson, sua coinquilina da dopo la disgrazia.
«Ehi, bel tipo, vuoi un passaggio?»

Il rombo del motore V8 stonava in quel contesto ecologico dove regnavano biciclette e veicoli ibridi.
«Preferisco rientrare con i mezzi pubblici», disse lui. «Tu guidi come se fossi in un videogame.» «Dai, non fare il vigliacco. Guido benissimo e lo sai.» «Non insistere. Mia figlia ha già perso sua madre: vorrei evitarle di ritrovarsi orfana anche di padre a quattro anni e mezzo.» «Oh, dai, non esagerare. Avanti, sbrigati, che sto bloccando il traffico.» Incalzato dai colpi di clacson, Matthew sospirò e si rassegnò a salire sulla Chevrolet.
Si era appena allacciato la cintura che, in barba a tutte le norme di sicurezza, la Camaro effettuò una pericolosa inversione per poi partire a razzo verso nord.
«Boston è dall'altra parte!» gridò Matthew aggrappandosi alla portiera.
«Faccio solo una piccola deviazione a , che è a soli dieci minuti da qui. E non preoccuparti per Emily. Ho chiesto alla baby-sitter di restare un'ora in più.» «Senza nemmeno dirmelo? Ti avverto che...» La ragazza ingranò la seconda e la terza, per poi dare un'accelerata così brusca da togliergli la parola. Una volta che furono a velocità di crociera, si girò verso di lui e gli porse una cartella per disegni.
«Pensa che forse ho un cliente per la stampa di Utamaro», disse.
April possedeva nel South End una galleria d'arte, uno spazio espositivo dedicato all'arte erotica. Aveva la rara capacità di scovare opere semisconosciute e di rivenderle guadagnandoci parecchio.
Matthew tolse l'elastico dalla cartella e si trovò davanti la fodera di velina che proteggeva l'incisione erotica giapponese della fine del Settecento, una shunga raffigurante una cortigiana e un cliente impegnati in un rapporto tanto erotico quanto acrobatico. La crudezza della scena era attenuata dalla grazia del tratto e dalla ricchezza di motivi delle stoffe. Il viso della geisha era di una finezza e un'eleganza supreme. Non c'era da stupirsi che quel tipo di incisione avesse in seguito influenzato sia Klimt sia Picasso.
«Sei sicura di volertene separare?» «Ho ricevuto un'offerta che non si può rifiutare», rispose April imitando la voce di Marlon Brando nel Padrino.
«Da parte di chi?» «Un grande collezionista asiatico che è a Boston di passaggio per far visita a sua figlia. Pare che sia pronto a concludere l'affare, ma si trattiene in città solo un giorno. Un'occasione del genere non si ripresenterà tanto presto...» La Chevrolet aveva lasciato il quartiere universitario e imboccato l'autostrada che costeggiava per parecchi chilometri il Fresh Pond, il più grande lago di Cambridge, prima di arrivare a Belmont, cittadina residenziale a ovest di Boston. April digitò un indirizzo sul dispositivo GPS e si lasciò guidare fino a un quartiere residenziale chic: una scuola circondata da alberi sorgeva vicino a un'area giochi, un parco e dei campi sportivi. Vi si trovava anche un gelataio ambulante che pareva uscito direttamente dagli anni Cinquanta. Sebbene fosse proibito, April sorpassò con la Camaro un pulmino scolastico e parcheggiò in una strada tranquilla fiancheggiata da case.
«Vieni con me?» chiese a Matthew, prendendo la cartella dei disegni.
Lui scosse la testa.
«Preferisco aspettare in macchina.» «Faccio prima che posso», promise lei ravviandosi i capelli davanti allo specchietto retrovisore e lasciando che una ciocca ondulata le coprisse l'occhio destro, alla maniera di Veronica Lake.
Prese dalla borsa il rossetto e se lo passò in fretta sulle labbra, prima di dare il tocco finale al suo personaggio di femme fatale, aggiustandosi il giubbino di cuoio rosso che aderiva come una seconda pelle alla T-shirt scollata.
«Non temi di strafare?» la provocò lui.
«Non sono cattiva, è che mi disegnano così», rispose smorfiosa, facendo il verso a Jessica Rabbit. Quindi allungò le lunghissime gambe messe in risalto dai leggings e scese dall'auto.
Matthew la guardò allontanarsi e suonare alla porta della casa più grande di tutta la strada. Quanto a sensualità, April era una bomba: misure perfette, vitino di vespa, seno da sballo. Ma quell'incarnazione dei sogni maschili amava solo le donne e sbandierava con orgoglio la propria omosessualità.
Del resto, sapere che tra loro non ci sarebbe mai stato nessun coinvolgimento amoroso era uno dei motivi per cui Matthew l'aveva accettata come coinquilina. E poi April era intelligente, spiritosa e vivace. Certo, aveva un brutto carattere, usava un linguaggio colorito ed era capace di scoppi d'ira da poema omerico, ma sapeva più di chiunque altro restituire il sorriso a sua figlia e, per Matthew, quella era una virtù inestimabile.
Rimasto solo, lanciò un'occhiata all'altro lato della strada. Una madre e i suoi due bambini stavano sistemando in giardino le decorazioni per le feste. Si rese conto che mancava meno di una settimana a Natale e a quel pensiero si sentì assalire da un misto di dolore e di panico. Vedeva con terrore profilarsi il primo anniversario della morte di Kate, quel funesto 24 dicembre 2010 che aveva gettato la sua vita nella sofferenza e nello sconforto.
Nei primi tre mesi successivi all'incidente, il dolore non gli aveva dato tregua, dilaniandolo ogni giorno di più: era come una ferita aperta, il morso di un vampiro destinato a succhiargli tutta la vita. Per porre fine a quel calvario, era stato tentato più volte di ricorrere a una soluzione radicale: buttarsi dalla finestra, legarsi una corda al collo, mandar giù un bel cocktail di pillole, ficcarsi una pallottola in testa. Ma, ogni volta, l'idea del male che avrebbe fatto a Emily gli aveva impedito di compiere un gesto estremo. Non aveva il diritto di togliere il padre a sua figlia e rovinarle l'esistenza.
Lo sconvolgimento delle prime settimane aveva lasciato il posto a un lungo tunnel di tristezza. La vita si era fermata, paralizzata dalla stanchezza, congelata da una disperazione senza fine.


Matthew non era più in guerra, ma era semplicemente abbattuto, travolto dal lutto, insensibile alla vita. Non riusciva ad accettare la perdita. Il domani, per lui, non esisteva più.
Su consiglio di April, però, aveva fatto lo sforzo di iscriversi a un gruppo di sostegno. Aveva partecipato a una seduta, cercando di esprimere a parole la sua sofferenza e di condividerla con gli altri, ma non era mai più tornato. Rifuggendo dalla falsa compassione, dalle formulette di rito e dalle lezioni di vita, si era isolato, errando nell'esistenza come un fantasma e lasciandosi andare alla deriva per mesi, troppo abbattuto per fare progetti.
Tuttavia, da qualche settimana, pur non potendo dire di avere ricominciato a vivere, gli sembrava di sentire che il dolore si stesse gradatamente attenuando. Il risveglio alla mattina era ancora difficile, ma, una volta arrivato a Harvard, Matthew si illudeva, facendo lezione e partecipando alle riunioni d'orientamento con i colleghi, di essere tornato alla normalità; certo, con meno entusiasmo di prima, ma aveva ritrovato la forza di andare avanti.
Non che si fosse ricostruito un'esistenza; piuttosto, aveva accettato a poco a poco la sua condizione, aiutandosi con alcuni concetti propri della sua materia d'insegnamento. Tra il fatalismo stoico e L'«impermanenza» buddista, adesso prendeva la vita per quello che era: qualcosa di assolutamente precario e instabile, un processo in perpetua evoluzione. Niente era immutabile, men che meno la felicità. Fragile come il vetro, non doveva essere data per scontata, visto che spesso durava un solo istante.
Attraverso cose insignificanti, aveva dunque ripreso gusto per la vita: una passeggiata sotto il sole con Emily, una partita di football con i suoi studenti, una battuta particolarmente brillante di April. Segnali confortanti che lo avevano incoraggiato ad allontanare la sofferenza e a erigere una diga per contenere il dolore.
Ma quella remissione era fragile. La sofferenza stava in agguato, pronta ad afferrarlo alla gola. Bastava un niente perché lo cogliesse alla sprovvista, si scatenasse di nuovo e gli risvegliasse ricordi crudeli: una donna per strada che aveva lo stesso profumo o lo stesso impermeabile di Kate, una canzone alla radio che gli ricordava i giorni felici, una foto ritrovata in un libro...
Gli ultimi giorni erano stati penosi e avevano preannunciato una ricaduta. L'avvicinarsi del fatidico anniversario, le decorazioni e l'eccitazione per le feste di fine anno, tutto gli ricordava sua moglie.
Da una settimana si svegliava tutte le notti di soprassalto, sudato e con il cuore in gola, perseguitato sempre dallo stesso ricordo: l'immagine da incubo degli ultimi istanti di vita di Kate. Matthew era presente quando era stata trasportata all'ospedale, dove i suoi colleghi medici non erano riusciti a rianimarla, e aveva visto con i propri occhi la morte strappargli brutalmente la donna amata. Avevano avuto diritto solo a quattro anni di perfetta felicità. Quattro anni di intesa profonda, appena il tempo per porre le basi di una storia che non avrebbero vissuto. Incontri come il loro capitavano una sola volta nella vita, ne era certo; e quell'idea gli riusciva insopportabile.
Con le lacrime agli occhi, si accorse che stava tormentandosi l'anulare dove portava ancora la fede. Sudava e il cuore gli batteva forte in petto. Abbassò il finestrino della Camaro, cercò un ansiolitico nella tasca dei jeans e se lo mise sotto la lingua. Il farmaco si sciolse piano, recandogli un conforto chimico che dopo qualche minuto attenuò il suo stato febbrile. Chiuse gli occhi, si sfregò le palpebre e respirò a fondo. Per calmarsi del tutto aveva bisogno di fumare. Scese dall'auto, chiuse la portiera e fece qualche passo sul marciapiede, prima di accendersi una sigaretta e tirare una lunga boccata.
Mentre il gusto acre della nicotina gli riempiva la gola, ritrovò il normale ritmo cardiaco e si sentì subito meglio. Con gli occhi chiusi e il viso esposto al vento autunnale, assaporò la sigaretta. Era bel tempo. Il sole filtrava tra i rami degli alberi e l'aria era di una dolcezza insolita. Rimase per qualche istante immobile, poi riaprì le palpebre. In fondo alla strada, davanti a una casa, si era formato un capannello. Incuriosito, Matthew si avvicinò all'abitazione, che era caratteristica del New England: grande, con un rivestimento sovraccarico di decorazioni in legno e con il tetto spiovente e diversi abbaini. Era stata organizzata una sorta di svendita di cortile, uno «sgombero totale» tipico di un Paese come l'America, dove gli abitanti cambiavano casa in media più di quindici volte nella vita.
Si unì ai molti curiosi che andavano in cerca di cianfrusaglie sui cento metri quadrati di prato. Gestiva la svendita un uomo della sua età, con la testa pelata e gli occhialini quadrati, lo sguardo sfuggente sul viso imbronciato. Vestito tutto di nero, aveva l'austera rigidità di un quacchero. Accanto a lui, uno shar pei color sabbia si stava facendo i denti su un osso di lattice.
Nell'ora della fine delle lezioni, il tempo clemente aveva attirato molte persone in cerca di buoni affari. Le bancarelle erano piene degli oggetti più disparati: remi di legno, una sacca da golf, mazza e guanti da baseball, una vecchia chitarra Gibson. Appoggiata a una siepe, una bicicletta BMX, immancabile dono di Natale dei primi anni Ottanta; poco oltre, dei roller e uno skateboard. Per qualche minuto Matthew curiosò tra i banchi, trovando una sfilza di giocattoli che gli ricordavano l'infanzia: uno yo-yo di legno chiaro, un cubo di Rubik, Mastermind, frisbee, un peluche gigante di E.T. l'extraterrestre, figurine di Guerre stellari... I prezzi erano bassi; era chiaro che il venditore voleva sbarazzarsi in fretta del maggior numero d'oggetti possibile.
Matthew stava per andarsene quando notò un computer portatile, un MacBook Pro con lo schermo da quindici pollici. Non era l'ultima versione uscita, ma la precedente o quella ancora prima, però Matthew si avvicinò e lo esaminò per bene. L'involucro esterno d'alluminio aveva un tocco personale sul coperchio: un adesivo in vinile raffigurante un personaggio alla Tim Burton, un'Eva stilizzata e sexy che teneva tra le mani il logo a forma di mela morsicata della celebre azienda informatica. Sotto la figura si leggeva la firma «Emma L.», e non si capiva se Emma fosse l'artista che aveva disegnato Eva o se fosse invece l'ex proprietaria del computer.


«Perché no?» si disse Matthew guardando l'etichetta. Il suo vecchio Powerbook aveva reso l'anima alla fine dell'estate. Certo, a casa aveva un , ma aveva bisogno di un nuovo portatile personale. Erano tre mesi che ne rimandava sempre l'acquisto.
Il MacBook costava quattrocento dollari, una somma che gli parve ragionevole. L'offerta capitava a fagiolo, perché in quel momento non nuotava nell'oro. A Harvard percepiva un buono stipendio, ma dopo la morte di Kate aveva voluto a ogni costo conservare la casa di Beacon Hill, anche se non se la sarebbe più potuta permettere. Proprio per quel motivo aveva deciso di prendere una coinquilina, ma, anche con l'affitto che gli pagava April, il rimborso del mutuo gli mangiava i tre quarti del reddito, lasciandogli poco margine di manovra. Era stato anche costretto a vendere la sua moto da collezione, una Triumph del 1957 di cui era molto fiero.
Si avvicinò all'uomo in nero e gli indicò il Mac.
«Quel computer funziona, immagino.» «No, serve come soprammobile... È evidente che funziona, altrimenti non lo venderei a quel prezzo. È il vecchio portatile di mia sorella, ma ho formattato io il disco rigido e ho reinstallato il sistema operativo. E come nuovo.» «D'accordo, lo prendo», decise Matthew dopo un attimo d'esitazione.
Frugò nel portafogli e vide che aveva con sé solo trecentodieci dollari. Imbarazzato, cercò di mercanteggiare, ma l'uomo rifiutò seccamente. Matthew, irritato, alzò le spalle. Stava per andarsene, quando udì alle sue spalle la voce allegra di April.
«Lascia che te lo regali io», disse, facendo cenno al venditore di imballarle il computer.
«Neanche per idea.» «Per festeggiare la vendita della mia stampa!» «Hai spuntato il prezzo che volevi?» «Sì, ma non senza qualche difficoltà. Il tizio credeva di aver diritto per quel prezzo anche a una delle posizioni del kamasutra.»
 «'Tutta l'infelicità degli uomini deriva dal non sapersene stare tranquilli in una stanza.'» «Woody Alien?» «No, Blaise Pascal.» Il venditore gli porse il computer, dopo averlo imballato nella scatola originale. Matthew lo ringraziò con un cenno, mentre April pagava la somma pattuita. Poi si affrettarono per tornare alla macchina.
Matthew insistette per guidare. Mentre, imbottigliati negli ingorghi, si dirigevano a Boston, non immaginava che quell'acquisto gli avrebbe cambiato per sempre la vita.


2

Miss Lovenstein


I cani non mi hanno mai morsicato.
Solo gli uomini l'hanno fatto.
MARILYN MONROE


Bar del ristorante Imperator
Rockefeller Center,
New York Ore 18.45
DALLA cima del Rockefeller Center, il bar dell' Imperator dominava la città, offrendo una vista panoramica di Manhattan. Il suo arredo era un sapiente miscuglio di tradizione e design. Quando il locale era stato ristrutturato, si erano conservate la boiserie, i tavolini art déco e le poltrone di pelle. Quegli elementi gli conferivano un'atmosfera cosy da vecchio club inglese, cui si sposavano superfici più moderne come il lungo, luminoso bancone bar in vetro satinato che attraversava la sala.
Con la sua figura esile e il passo leggero, Emma Lovenstein si infilava tra i tavoli per servire i vini, invitando alla degustazione e spiegando con atteggiamento didascalico l'origine e la storia di ciascuna bottiglia. La giovane sommelière aveva il dono di comunicare il proprio entusiasmo alla gente. Il garbato gesticolare delle mani, la precisione dei gesti, la franchezza del sorriso, tutto in lei rifletteva la sua passione e il desiderio di farne partecipi gli altri.
Un nugolo di camerieri arrivò con la penultima portata.
«Tartina di piedino di maiale gratinato al parmigiano», annunciò Emma mentre, a mano a mano che scoprivano il loro piatto, i commensali emettevano un mormorio di approvazione.
Servì a ciascuno un bicchiere di vino rosso stando attenta a nasconderne l'etichetta e poi, per qualche minuto, rispose alle domande dei convitati fornendo indizi utili a far capire di quale vino si trattasse.
«È un Morgon, Còte du Py, vitigno Beaujolais», rivelò infine. «Un vino nervoso e vellutato, dagli aromi di fragola e viscida, in bocca compatto e carnoso, e fa da perfetto contraltare al carattere malandrino del piedino di maiale.» Era stata lei ad avere l'idea delle degustazioni enologiche settimanali, un'iniziativa che, grazie al passaparola, stava incontrando un successo sempre maggiore. Il concetto era semplice: Emma proponeva ai clienti di assaggiare quattro vini accompagnandoli a quattro piatti ideati dallo chef del ristorante, Jonathan Lempereur. Ciascun incontro durava un'ora, si ispirava a un tema, un vitigno o un luogo specifici, ed era occasione di un'iniziazione giocosa all'enologia.
Emma passò dietro il bancone e fece segno ai camerieri di portare l'ultimo piatto. Approfittò degli applausi per lanciare di nascosto un'occhiata al cellulare, che stava lampeggiando. Vedendo che era arrivato un sms, ebbe un attimo di panico.
Questa settimana sono di passaggio a New York.
Ceniamo insieme stasera? Mi manchi.
François «Emma!» La voce del suo assistente la distrasse dalla contemplazione del display. Si riprese subito e annunciò alla sala: «Per concludere la degustazione, vi proponiamo dell'ananas ai petali di magnolia, accompagnato da gelato di marshmallow caramellati al fuoco di legna». 
Aprì due nuove bottiglie di vino e servì il suo uditorio. Dopo un gioco di indovinelli con il pubblico, concluse: «È un vino italiano, piemontese, un moscato d'Asti. Vitigno aromatico e aereo, leggermente spumeggiante e dolce. Un vino dall'aroma di rosa e dalle bollicine minuscole, che sostiene elegantemente la freschezza dell'ananas».
La serata terminò con le domande del pubblico, parte delle quali riguardavano il percorso professionale di Emma, che rispose volentieri, senza lasciar minimamente trasparire il proprio turbamento.
Apparteneva a una modesta famiglia della Virginia occidentale. L'estate dei suoi quattordici anni, suo padre, un camionista, aveva portato la famiglia a visitare i vigneti della California. Emma era rimasta letteralmente incantata da quel mondo, che le aveva suscitato interesse e passione per il vino permettendole di scoprire per caso la sua vocazione.
Si era iscritta all'istituto alberghiero di Charleston, che offriva agli studenti una solida formazione in enologia. Una volta ottenuto il diploma, aveva lasciato senza rimpianti il suo sperduto villaggio per New York. Prima era stata cameriera in un modesto locale, poi chef de rang in un ristorante alla moda del West Village. All'epoca lavorava fino a sedici ore al giorno, servendo a tavola, consigliando i vini e occupandosi del bar. Un giorno era incappata in uno strano cliente di cui aveva immediatamente riconosciuto la fisionomia: era il suo idolo, Jonathan Lempereur, colui che i critici gastronomici avevano soprannominato «il Mozart della gastronomia». Lo chef Lempereur dirigeva un rinomatissimo ristorante di Manhattan, il famoso Imperator, considerato da qualcuno «la miglior tavola del mondo». Ed era davvero il top: accoglieva ogni anno migliaia di clienti provenienti da tutto il globo e spesso bisognava prenotare con più di un anno di anticipo per ottenere un posto. Quel giorno, Lempereur pranzava con la moglie. In incognito. All'epoca possedeva già vari ristoranti all'estero. Era incredibilmente giovane, per essere a capo di un simile impero. 
Emma aveva preso il coraggio a due mani e osato abbordare l'«idolo». Jonathan l'aveva ascoltata con interesse e ben presto il pranzo si era trasformato in un colloquio di lavoro. A Lempereur il successo non aveva dato alla testa. Era un uomo esigente ma umile, sempre alla ricerca di nuovi talenti. Al momento di pagare il conto, le aveva allungato il proprio biglietto da visita dicendo: «Comincerà a lavorare domani».
Il giorno dopo, Emma aveva firmato un contratto come assistente capo sommelier presso l'Ymperator. Per tre anni si era intesa benissimo con Jonathan. Lui era straordinariamente creativo e la ricerca di un accordo tra le pietanze e il vino aveva molta importanza nella sua cucina. Professionalmente, Emma aveva realizzato il suo sogno. L'anno prima, dopo aver rotto con la moglie, lo chef francese aveva lasciato il lavoro. Il ristorante era stato rilevato da altri, ma anche se Jonathan non era più ai fornelli, il suo spirito continuava ad aleggiare e i piatti che aveva creato continuavano a comparire nel menù.
«Vi ringrazio della vostra presenza e spero che abbiate passato una buona serata», disse Emma, mettendo fine alla seduta enologica.
Salutò i clienti, fece un rapido debriefing con il suo assistente e, raccolte le sue cose, uscì dal locale per tornare a casa.
Prese l'ascensore e in pochi secondi si ritrovò ai piedi del Rockefeller Center. Era scesa da tempo la sera. Dalla bocca le uscivano nuvolette di vapore. Il vento glaciale che spazzava l'area non aveva scoraggiato i numerosi sfaccendati che premevano contro le barriere, per fotografare l'immenso albero di Natale al centro della pista di pattinaggio. Alto una trentina di metri, l'abete era sovraccarico di ghirlande elettriche e decorazioni. Era uno spettacolo impressionante, ma Emma lo trovò deprimente. Forse era un luogo comune, però le pareva davvero che in occasione delle feste di fine anno il peso della solitudine si accentuasse. Sull'orlo del marciapiede, si calcò il berretto in testa e si strinse la sciarpa intorno al collo scrutando l'insegna luminosa sul tettuccio dei taxi, nella tenue speranza di vedere un UBERO. Purtroppo era l'ora di punta e tutti gli yellow cab che le passavano davanti erano già pieni. Rassegnata, si fece strada tra la calca e raggiunse in fretta l'angolo tra Lexington Avenue e la Cinquantatreesima Strada. Si infilò nella stazione della metropolitana e prese la linea E in direzione downtown. Com'era prevedibile, la carrozza era sovraffollata e le toccò viaggiare in piedi, pigiata tra gli altri passeggeri.
Nonostante gli sballottamenti, riuscì a tirar fuori il cellulare e rilesse il messaggio che ormai aveva imparato a memoria: Questa settimana sono di passaggio a New York.
Ceniamo insieme stasera? Mi manchi.
Francois «Vaffanculo, brutto stronzo, non sono a tua disposizione!» ringhiò fissando il display.
Francois era l'erede di un'importante famiglia di viticoltori del Bordolese che Emma aveva conosciuto due anni prima, quando aveva fatto un viaggio alla scoperta dei vitigni francesi. Non le aveva nascosto di essere sposato e padre di due figli, ma lei aveva ugualmente risposto alle sue avance, prolungando il viaggio in Francia e passando una settimana da sogno tra le vie locali del vino: la celebre «strada del Médoc», sulla pista degli chàteaux e dei grandi vitigni di pregio, la «strada delle colline», con le chiese romaniche, i siti archeologici, le case di campagna, le abbazie dell'Entre-Deux-Mers, il villaggio medievale di Saint-Émilion... In seguito si erano rivisti a New York, in occasione dei trasferimenti professionali di Francois, e avevano trascorso un'altra settimana di vacanza alle Hawaii. Due anni di relazione discontinua, passionale e distruttiva. Due anni di aspettative deluse. Ogni volta che
si rivedevano, Francois le assicurava di essere lì lì per lasciare la moglie. Certo, Emma non gli credeva davvero, però Francois se lo sentiva nella pelle, e allora...
Poi, un giorno in cui dovevano partire per il weekend, lui le aveva inviato un messaggio per dirle che amava ancora la moglie e che voleva troncare la loro relazione. Già parecchie volte nella vita Emma era stata sull'orlo di esperienze estreme, come la bulimia, l'anoressia e le lesioni autoinferte, e l'annuncio di quella rottura l'aveva fatta di nuovo precipitare nel baratro.
Era stata colta da un profondo senso di vuoto. Le sue linee di faglia si erano approfondite, le zone di fragilità avevano contaminato tutto il suo essere. All'improvviso la vita le era parsa soltanto dolore, senza più nulla di buono da offrirle. Per placare la sofferenza, non aveva trovato di meglio che stendersi nella vasca da bagno e tagliarsi le vene dei polsi con due colpi profondi di cutter. Non si era trattato di un grido d'aiuto, di un gesto dimostrativo. Era stata una crisi brutale, scatenata da una delusione amorosa, ma con radici in un male più lontano. Emma aveva voluto porre fine alla propria vita e ci sarebbe riuscita, se proprio allora quell'imbecille di suo fratello non le fosse piombato in casa per rimproverarle di non aver pagato, quel mese, la retta della casa di riposo dove viveva il loro padre.
Ripensando all'episodio, Emma sentì un brivido freddo lungo la schiena. Il convoglio arrivò alla stazione della Quarantaduesima strada, capolinea degli autobus. Lì si svuotò e lei potè finalmente trovare un posto. Si era appena seduta che le arrivò un altro messaggio. Francois insisteva: Ti supplico, amore, rispondimi. Concediamoci un'altra possibilità. Dammi un segno, per favore. Mi manchi moltissimo. Tuo Francois

Emma chiuse gli occhi e respirò lentamente. Il suo ex amante era un manipolatore egoista e incostante. Sapeva usare la seduzione per presentarsi come un eroe dal cuore grande e affermare il proprio ascendente su di lei. Era capace di farle perdere completamente il controllo. Sapeva crudelmente approfittare delle sue debolezze e della sua mancanza di fiducia in se stessa. La colpiva nei punti deboli, le grattava le cicatrici. Soprattutto, conosceva l'arte di falsare la realtà per presentare le cose a proprio vantaggio e farla passare per una mitomane.
Per non essere tentata di rispondere, Emma spense il cellulare. Aveva già speso troppi sforzi per liberarsi dalla sua influenza. Si rifiutava di ricadere in trappola soltanto per il fatto di essere sola nel periodo natalizio.
Perché il suo peggior nemico non era Francois, ma lei stessa. Non riusciva a vivere senza passione. Dietro la sua facciata tranquilla e spiritosa, era consapevole della propria impulsività e di un'instabilità emotiva che, quando prendeva il sopravvento, la precipitava ora in una profonda depressione, ora in un'euforia incontrollabile.
Diffidava del proprio terrore dell'abbandono, che poteva da un momento all'altro farle perdere l'equilibrio e spingerla all'autodistruzione. La sua vita affettiva era disseminata di relazioni che l'avevano fatta soffrire. In amore aveva dato troppo a persone che non lo meritavano. A brutti tipi come Francois. Ma si rendeva conto di avere dentro di sé qualcosa che non comprendeva, qualcosa che non padroneggiava: una forza oscura, una dipendenza che la spingeva nelle braccia di uomini già impegnati con altre. Cercava assurdamente una sorta di fusione, sapendo benissimo che in fondo quelle relazioni non le avrebbero dato né la sicurezza né la stabilità cui anelava tanto. Eppure insisteva e, con disgusto, si faceva complice dell'infedeltà dei partner, sfasciando relazioni consolidate, anche se ciò andava contro i suoi valori e le sue aspirazioni.
Per fortuna, la psicoterapia iniziata da qualche mese l'aveva aiutata a considerare le cose con distacco e a diffidare delle proprie emozioni. Ormai aveva capito che doveva pensare a difendersi e a tenersi alla larga da individui pericolosi.
Arrivò al capolinea, la stazione del World Trade Center. Quel quartiere meridionale della città era stato completamente devastato dagli attentati. Al momento c'erano ancora i lavori in corso, ma presto diverse torri di vetro e acciaio avrebbero dominato lo skyline newyorchese. Un simbolo della capacità di Manhattan di uscire rafforzata da tutte le prove, pensò Emma salendo le scale per uscire in Greenwich Street.
Un esempio che fa riflettere...
Camminò di buon passo fino all'incrocio con Harrison Street e sboccò nella piazza su cui si affacciava un agglomerato di alti palazzi marroni di mattoni, costruiti nei primi anni Settanta, quando TriBeCa era solo una zona industriale piena di magazzini. Digitò il codice d'ingresso e spinse con tutt'e due le mani la pesante porta di ghisa.
Il numero 50 di North Plaza aveva contenuto per lungo tempo, nelle sue tre torri di quaranta piani, centinaia di appartamenti che venivano dati in affitto a canone moderato. Adesso i prezzi nel quartiere erano saliti alle stelle e l'immobile sarebbe stato ristrutturato. Nel frattempo, l'atrio aveva un'aria triste e fatiscente: muri scrostati, luci smorte, pulizia carente. Emma prese la posta dalla cassetta delle lettere ed entrò in un ascensore per salire al penultimo piano, dov'era il suo appartamento.
«Clovis!» Aveva appena superato la soglia che il suo cane cominciò a saltarle intorno, facendole festa.
«Lasciami almeno chiudere la porta», protestò lei, accarezzando le pieghe sode e asciutte dello shar pei.
Depose la borsa e giocò qualche minuto con lui. Le piacevano la sagoma compatta e robusta, il naso grosso, gli occhi sinceri infossati nel muso quasi a formare un triangolo, l'aria garbatamente imbronciata dell'animale.
«Tu, almeno, mi sarai sempre fedele.» 
L'appartamento era piccolo, appena quaranta metri quadri, ma carino: parquet chiaro di legno grezzo, tramezzi di mattoni a vista, grande porta finestra. La zona cucina si sviluppava intorno a un'isola di grès nero e a tre sgabelli di metallo satinato. Quanto al «soggiorno», era invaso da libri-accatastati sugli scaffali. Narrativa americana ed europea, saggi sul cinema, opere sul vino e la gastronomia. La casa aveva un sacco di difetti, come l'impianto idraulico vecchio, frequenti guasti all'acqua corrente, una lavanderia in comune infestata dai topi, ascensori sempre in panne, il condizionamento difettoso, muri così sottili che tremavano durante i temporali e facevano sentire tutto della vita intima dei vicini; ma la vista era affascinante e panoramica, perché il palazzo si affacciava sul fiume e offriva una prospettiva mozzafiato di Lower Manhattan. Si vedevano, in prospettiva, diversi palazzi illuminati, le rive dello Hudson e le imbarcazioni che scivolavano sul fiume.
Emma si tolse sciarpa e cappotto, appese il tailleur a un manichino, infilò un paio di vecchi jeans e una T-shirt troppo grande degli Yankees, poi andò in bagno a struccarsi.
Lo specchio le rimandò l'immagine di una giovane donna di trentatré anni dai capelli bruni leggermente ondulati, gli occhi verde chiaro e il naso a punta spruzzato di lentiggini. Nelle sue giornate migliori, le si poteva trovare una vaga somiglianza con Kate Beckinsale o Evangeline Lilly, ma quello non era un giorno buono. Nell'eroico tentativo di non farsi abbattere dalla tristezza, rivolse allo specchio una smorfia beffarda. Si tolse le lenti a contatto che le irritavano gli occhi, inforcò gli occhiali da miope e andò in cucina a prepararsi un tè.
«Brrr, qui si gela», borbottò tremando e, avvolgendosi in un plaid, alzò il termostato. Siccome l'acqua tardava a bollire, si sedette su uno sgabello e accese il portatile posato sul bancone.
Aveva una fame da lupi. Si collegò con il sito di un ristorante giapponese che consegnava a domicilio e ordinò una zuppa di miso e un assortimento di sushi, maki e sashimi.
Ricevuta l'email di conferma, verificò l'ordine e l'ora di consegna, poi ne approfittò per guardare gli altri messaggi, sempre temendo di vedere un'email del suo ex amante.
Per fortuna, non comparivano messaggi di Francois. Ma c'era un'altra email, enigmatica, inviata da un certo Matthew Shapiro.
Un uomo di cui non aveva mai sentito parlare prima. E che avrebbe sconvolto la sua vita.

  
3

Il messaggio


Quando la sofferenza è ciò che conosciamo meglio,
rinunciarvi è una prova.
MICHELA MARZANO


Boston
Quartiere di Beacon Hill
Ore 20.00
«LA mamma non tornerà più, eh, papà?» disse Emily abbottonandosi il pigiama.
«No, non tornerà mai più», confermò Matthew prendendo sua figlia in braccio.
«Non è giusto», protestò la bambina con voce tremante.
«No, non è giusto. La vita a volte è ingiusta», rispose bruscamente lui, mettendola a letto.
La cameretta mansardata era calda, accogliente e priva di quei toni leziosi che spesso si trovano nelle stanze dei bambini. Quando avevano ristrutturato la casa, Matthew e Kate avevano cercato di restituire a ciascun ambiente l'impronta originaria. Per la camera di Emily avevano buttato giù un muro, decapato e lucidato il vecchio parquet, per ridargli l'antico splendore, e cercato in giro mobili d'epoca: letto di legno grezzo, comò patinato, poltrona rivestita in canapa, cavallo a dondolo, cassapanca per i giocattoli in pelle e ottone.
Matthew accarezzò la guancia alla figlia, rivolgendole uno sguardo che sperò fosse rassicurante.
«Vuoi che ti legga una favola, tesoro?»

Con gli occhi bassi, lei scosse la testa tristemente.
«No, grazie.» Matthew fece una smorfia. Da qualche settimana capiva che Emily era molto angosciata, come se lui le avesse comunicato il proprio stress, e quella constatazione lo faceva sentire in colpa. Davanti a lei si sforzava di mascherare pena e angoscia, ma evidentemente non ci riusciva: i bambini hanno un sesto senso per quel tipo di finzione. Per quanto cercasse di ragionare in modo lucido, era divorato da un'inquietudine: la paura irrazionale di perdere, dopo la moglie, anche la figlia. Era ormai convinto che dappertutto si nascondessero insidie e, spinto da questo timore, tendeva a proteggere troppo la bambina, con il rischio di soffocarla e di farle perdere la fiducia in se stessa.
In verità era un padre sopraffatto dagli eventi. Nelle settimane successive alla morte di Kate, si era sentito destabilizzato dall'atteggiamento quasi indifferente di Emily. La piccola, all'epoca, era parsa impermeabile al dolore, come se non comprendesse davvero che la madre era morta. All'ospedale, la psicologa che la seguiva aveva però spiegato a Matthew che un simile comportamento non era anormale. Per difendersi, alcuni bambini prendono volontariamente le distanze da un avvenimento traumatico, aspettando inconsciamente di sentirsi più forti per potercisi confrontare.
Le domande sulla morte erano venute dopo. Per qualche mese, Matthew aveva affrontato la situazione con l'ausilio della psicologa, di libri illustrati e di metafore. Ma le domande di Emily adesso si stavano facendo più concrete e lo mettevano in imbarazzo o addirittura con le spalle al muro. In che modo una bambina di quattro anni e mezzo si rappresenta la morte? Lui non era certo di che cosa dire, non sapeva bene quali parole la bambina fosse già in grado di comprendere. La psicologa gli aveva consigliato di non preoccuparsi e aveva spiegato che, crescendo, Emily avrebbe preso sempre più coscienza del carattere definitivo della scomparsa della madre. Secondo lei, quelle domande erano sane: le permettevano di uscire dal silenzio, evitare i tabù e, a tempo debito, liberarsi della paura.


Ma Emily era chiaramente lontana dal raggiungere quella fase liberatoria. Anzi, tutte le sere, all'ora di andare a letto, provava le stesse angosce e ripeteva le stesse domande dalle risposte dolorose.
«Su, a letto!» Pensierosa, la bambina si infilò sotto le coperte.
«La nonna dice che la mamma è in cielo...» cominciò.
«La mamma non è in cielo e la nonna racconta delle sciocchezze», replicò Matthew maledicendo sua madre.
Kate non aveva famiglia. Lui si era allontanato presto dai propri genitori, due egoisti che si godevano tranquillamente la pensione a Miami e non avevano compreso l'intensità del suo dolore. A loro non era mai piaciuta molto sua moglie, cui rimproveravano di privilegiare la carriera rispetto alla famiglia. Era il colmo, per dei genitori che non avevano mai pensato ad altro che a se stessi ! Per la verità, nel primo mese successivo alla scomparsa di Kate, erano venuti a Boston per aiutarlo e per occuparsi di Emily, ma quella sollecitudine non era durata a lungo; ormai si limitavano a telefonare una volta alla settimana per avere notizie e per raccontare alla nipotina sciocchezze come quella sul paradiso.
Quei discorsi lo mandavano fuori dei gangheri. Matthew non solo non accettava l'ipocrisia della religione, ma non credeva nemmeno in Dio, non ci aveva mai creduto e la morte di sua moglie non gli aveva certo fatto cambiare idea. Per lui, essere «filosofi» significava praticare anche una forma di ateismo: una visione delle cose che aveva condiviso con Kate. La morte segnava la fine di tutto. Non c'era altro, non c'era un aldilà, ma solo il vuoto, il nulla totale e assoluto. Gli riusciva inconcepibile, anche soltanto per rassicurare la figlia, cullarla in un'illusione che non approvava affatto.
«Se non è in cielo, dov'è, allora?» insistette la bambina.
«Il suo corpo è al cimitero, lo sai. Ma il suo amore non è morto», concesse Matthew. «E sempre nel nostro cuore e nella nostra mente. Possiamo continuare a conservarne la memoria parlando di lei, ricordandoci i momenti belli passati insieme, guardando le foto e andando a raccoglierci sulla sua tomba.»

Emily annuì, ma era tutt'altro che convinta.
«Anche tu morirai, vero?» «Come tutti», disse lui, «ma...» «Ma se muori, chi si occuperà di me?» disse spaventata la piccola.
Matthew la strinse forte tra le braccia.
«Non morirò domani, amore. Non morirò prima di cent'anni, te lo prometto», sospirò. «Te lo prometto», ripetè pur sapendo che era una promessa vana.
Le coccole si prolungarono ancora per qualche minuto, poi Matthew rincalzò le coperte del lettino di Emily e spense tutte le luci, tranne il lumino da notte sospeso sopra la testiera. Prima di socchiudere la porta, abbracciò un'ultima volta la figlia, promettendole che April sarebbe passata a darle la buonanotte.
Matthew scese la scala che portava nel soggiorno. Il pianterreno era immerso in una luce soffusa. Viveva da tre anni in quella casa di mattoni rossi all'angolo tra Mount Vernon e Willow Street. Una bella villetta unifamigliare dalla massiccia porta bianca e dalle imposte di legno scuro, affacciata su Louisburg Square.
Guardò dalla finestra le ghirlande elettriche che lampeggiavano, attaccate alle inferriate del parco. Per tutta la vita Kate aveva sognato di abitare nel centro storico di Boston, una zona intatta, con le sue case vittoriane, i marciapiedi lastricati, i vicoli bordati di alberi e di antichi lampioni a gas. Un posto magico in cui si aveva l'impressione che il tempo si fosse fermato e che le case fossero immutabili nel loro elegante, desueto fascino. Un tipo di vita non certo alla portata di una dottoressa di un ospedale universitario e di un docente di filosofia che aveva appena finito di rimborsare il prestito ottenuto per i suoi studi. Ma ci voleva ben altro per scoraggiare Kate. Per mesi aveva battuto i negozi del quartiere, affiggendo annunci dappertutto. Proprio mentre stava per trasferirsi in una casa di riposo, una vecchia signora aveva notato il suo annuncio. Quella ricca bostoniana detestava gli agenti immobiliari e preferiva vendere «da privato a privato» la casa in cui era sempre vissuta. Evidentemente aveva provato simpatia per Kate, perché - incredibile a dirsi - aveva accolto la richiesta di abbassare il prezzo, sia pure con un ultimatum: avevano ventiquattr'ore per prendere una decisione. Nonostante il notevole ribasso, la somma restava ingente e li avrebbe costretti a impegnarsi a vita; ma, spinti dal loro amore e dalla fiducia nel futuro, Matthew e Kate avevano fatto il grande passo, indebitandosi per trent'anni e passando tutti i weekend con il naso nel gesso e nella vernice. I due, che non avevano mai fatto lavori manuali, si erano trasformati in idraulici, restauratori di parquet ed elettricisti capaci di montare un impianto.
Così avevano maturato un rapporto quasi carnale con la vecchia casa. Quell'abitazione era il loro rifugio più intimo, l'ambiente in cui intendevano allevare i propri figli e in cui immaginavano di invecchiare. «A shelterfrom the storm», un riparo dalla tempesta, come cantava Bob Dylan.
Ma adesso che Kate era morta, che senso aveva tutto ciò? La casa era carica di ricordi ancora vivi. I mobili, l'arredo e perfino certi odori che persistevano nell'aria (candele profumate, ciotole di fiori secchi, bastoncini d'incenso) erano legati alla personalità di Kate. Tutto questo dava continuamente a Matthew l'impressione che sua moglie aleggiasse come un fantasma nella casa. Tuttavia non aveva avuto né la volontà né il coraggio di trasferirsi. In quel periodo di instabilità, la villetta costituiva uno dei suoi ultimi punti fermi.
Solo una parte dell'abitazione, però, era fissata nel ricordo, perché al momento l'ultimo piano era rallegrato dalla presenza di April, che aveva affittato una bella stanza, un bagno, un grande guardaroba e uno studiolo. Al piano di sotto si trovavano la stanza di Matthew, quella di Emily e quella del bambino che lui e Kate avevano previsto di avere molto presto. Quanto al pianterreno, era strutturato come un loft, con una grande sala e una cucina a vista.
Matthew si scosse dal torpore e batté più volte gli occhi per scacciare quei pensieri dolorosi. Andò in cucina, il posto in cui in passato avevano fatto colazione la mattina e si erano ritrovati la sera per raccontarsi la giornata, seduti a fianco a fianco dietro il bancone. Prese dal frigo una confezione di birra chiara, ne stappò una bottiglia e con un sorso d'alcol prese un'altra pillola di ansiolitico. Il cocktail Corona-farmaci: non conosceva miglior rimedio per abbrutirsi e prendere subito sonno.
«Ehi, bel giovane, attento con quei cocktail, possono essere pericolosi», lo apostrofò April scendendo la scala.
Si era cambiata per uscire e, come sempre, era stupenda.
In bilico su tacchi vertiginosi, sfoggiava con sorprendente naturalezza una mise eccentrica ma chic, leggermente fetish: top trasparente bordeaux, shorts di vernice, collant opaco e cardigan scuro con le maniche borchiate. Si era raccolta i capelli in uno chignon e si era messa un fondo tinta madreperlaceo che faceva risaltare il rossetto color sangue.
«Non vuoi accompagnarmi? Vado al Gun Shot, il nuovo pub vicino al lungofiume. Fanno una testina di maiale fritta che è la fine del mondo. Non ti dico poi com'è il loro mojito. In questo momento, è lì che si vedono le più belle ragazze della città.» «E di Emily che cosa faccio, la lascio sola nella sua camera?» April valutò l'obiezione.
«Si può domandare alla figlia dei vicini di badarle. Accetta sempre volentieri di fare la baby-sitter.» Matthew scosse la testa.
«Non voglio che una bambina di quattro anni e mezzo si svegli tra un'ora per un incubo, scoprendo che suo padre l'ha abbandonata per andare a bere un mojito in un bar per lesbiche assatanate.» Seccata, April si aggiustò il lungo bracciale ornato di arabeschi color porpora.
«Il Gun Shot non è un bar per lesbiche», protestò. «E poi dico sul serio, Matt, ti farebbe bene uscire, vedere gente, provare di nuovo a piacere alle donne, fare l'amore.» «Ma come vuoi che mi innamori di nuovo? Mia moglie...» «Non parlo di sentimenti», lo interruppe lei. «Parlo di scopare! Di corpi avvinghiati, di allegria, di piacere dei sensi. Posso presentarti delle amiche, delle ragazze dalla mentalità aperta che cercano solo di divertirsi un po'.» Lui la guardò come se fosse un' aliena.
«Benissimo, non insisto», disse, Vpril abbottonandosi il cardigan.
«Ma non ti sei mai domandato che «cosa penserebbe Kate?» «Non capisco.» «Se potesse vederti da lassù, che cosa penserebbe del tuo comportamento?» «Non c'è nessun 'lassù'. Non mettertici anche tu, adesso.» «Poco importa», replicò lei. «Ti spiego quello che penserebbe: vorrebbe che tu ti dessi da fare, che ti riscuotessi dal torpore, che ti concedessi almeno una possibilità di ritrovare il gusto di vivere.» Matthew sentì la collera montargli dentro.
«Come puoi parlarmi a suo nome? Non la conoscevi nemmeno, non l'hai mai neanche incontrata!» «È vero», ammise April, «ma son io convinta che in qualche modo tu ti crogioli nel dolore e che te lo coltivi, questo dolore, perché lo consideri l'ultimo legame che ti uni sce ancora a Kate e...» «Basta con questa psicologia da rivista femminile», si arrabbiò lui.
Seccata, April non si disturbò a rispondere e uscì sbattendo la porta.
Rimasto solo, Matthew si rifugiò sul divano. Bevve una birra a canna, poi si stese e si stropicciò le palpebre.
Non aveva nessuna voglia di tornare a fare l'amore, nessuna voglia di accarezzare un altro corpo e baciare un'altra bocca. Aveva bisogno di stare da solo. Non cercava nessuno che lo comprendesse, nessuno che lo consolasse. Voleva : solo smaltire il dolore, avendo come unici compagni il fedele flacone di pillole e la sua cara birra Corona.
Appena ebbe chiuso gli occhi, le immagini gli si affollarono nella mente come quelle di un film già visto centinaia di volte. La notte tra il 24 e il 25 dicembre 2010. Quella notte, sua moglie era di guardia fino alle nove al Children's Hospital di Jamaica Plain, la succursale del Massachusetts General Hospital specializzata in pediatria. Kate l'aveva chiamato appena finito il turno.
«La mia auto è ancora in panne nel parcheggio dell'ospedale, amore. Come sempre, avevi ragione tu: bisogna proprio che mi sbarazzi di quel catorcio.» «Te l'ho detto un migliaio di volte.» «Ma ci sono così affezionata alla mia vecchia coupé Mazda. Sai che è la prima auto che mi sono potuta comprare quando studiavo all'università, no?» «Erano gli anni Novanta, amore mio, e all'epoca era già di seconda mano.» «Proverò a prendere la metropolitana.» «Scherzi? In quel quartiere, a quest'ora, è troppo pericoloso. Salgo in moto e ti vengo a prendere io.» «No, fa davvero molto freddo. Viene giù un misto di neve e pioggia, non è prudente, Matt.» Siccome lui aveva insistito, lei aveva finito per cedere.
«Va bene, ma fa' attenzione, mi raccomando.» Erano state le sue ultime parole prima di chiudere la comunicazione.
Appena Matthew aveva inforcato la Triumph lasciandosi alle spalle Beacon Hill, Kate era evidentemente riuscita ad avviare il motore della piccola Mazda, dato che alle nove e sette minuti un camion l'aveva centrata in pieno, mentre usciva dal parcheggio dell'ospedale.
Sbalzata contro il muro di cinta, la macchina aveva cappottato. Purtroppo, anche il camion si era ribaltato sul marciapiede, schiacciandola con tutto il suo peso. Quando Matthew era arrivato all'ospedale, i pompieri stavano facendo del loro meglio per liberare il corpo di Kate, intrappolato nelle lamiere contorte. C'era voluta più di un'ora perché i mezzi di soccorso riuscissero a portarla al Massachusetts General Hospital, dov'era morta durante la notte in seguito alle ferite.


Il camionista era uscito indenne dall'incidente. Le analisi tossicologiche cui l'avevano sottoposto in seguito erano risultate positive alla marijuana, ma durante l'interrogatorio della polizia l'uomo aveva affermato che, al momento della collisione, Kate stava usando il cellulare e non aveva rispettato la precedenza.
La sua versione era stata confermata dalla telecamera di sorveglianza installata all'ingresso del parcheggio.
Matt aprì gli occhi e si tirò su. Non doveva lasciarsi andare. Doveva farsi forza per amore di Emily. Si alzò e cercò qualcosa da fare. Correggere gli elaborati degli studenti? Guardare una partita di pallacanestro alla tv? Posò gli occhi sulla grande borsa che conteneva il computer di seconda mano acquistato poche ore prima.
Si sedette sul bancone di legno della cucina, tolse il computer dalla sua scatola di cartone e lo posò lì sopra, osservando ancora una volta lo strano coperchio di alluminio con l'adesivo di «Eva e la mela».
Sollevò il coperchio e vide un post-it incollato sullo schermo. L'uomo dello «sgombero totale» si era disturbato a lasciargli il codice di accesso dell'account «amministratore».
Accese il computer e digitò la password per accedere alla prima schermata. A prima vista era tutto normale: desktop, sfondo, solite icone del Mac. Fornì le proprie coordinate per collegarsi a internet e per qualche minuto curiosò nei programmi per verificare se riusciva ad aprire tutte le applicazioni: word processing, browser, posta elettronica, gestione immagini. Lanciando quest'ultimo programma, ebbe la sorpresa di incappare in una serie di fotografie.
Strano, pensò. Il venditore non gli aveva assicurato di aver formattato il disco rigido?
Premette un tasto per vedere la decina di immagini in sequenza. Erano foto fatte in vacanza con panorami da cartolina: un mare turchese, tavole da surf conficcate verticalmente nella sabbia bianca, un uomo e una donna abbracciati che si immortalavano con la macchina fotografica nella luce magica del tramonto.
Hawaii? Bahamas? Maldive? si domandò immaginando il rumore delle onde e la sensazione del vento tra i capelli.
Al mare succedette la vegetazione quando apparvero paesaggi collinari, punteggiati di castelli e vigneti, e la piazza di un piccolo villaggio.
Francia o Toscana, scommise lui.
Affascinato dalla scoperta, fermò lo slideshow e cliccò su ciascuna foto per avere più informazioni. Oltre alle caratteristiche tecniche, ogni immagine recava la scritta «scattata da emma.lovenstein@ imperatornyc.com». Emma Lovenstein...
Collegò subito il nome alla firma visibile sotto la figura di Eva che ornava il coperchio del computer: «Emma L.». Era chiaro che si trattava dell'ex proprietaria del Mac. Con il touchpad selezionò tutte le foto e le trascinò nel cestino per eliminarle. Al momento di convalidare definitivamente l'operazione, ebbe un piccolo dubbio e, per scrupolo di coscienza, scrisse una breve lettera: Da: Matthew Shapiro A: Emma Lovenstein Oggetto: Foto Buongiorno, signorina Lovenstein, sono il nuovo proprietario del suo MacBook e volevo dirle che sono rimaste delle foto nel disco rigido del suo ex computer. Vuole che gliele invii oppure posso eliminarle? Mi dica lei.
Cordiali saluti, Matthew Shapiro

  
4

«Strangers in the night»


Non credo che siamo esseri separati, soli.
VIRGINIA WOOLF


Da: Emma Lovenstein A: Matthew Shapiro Oggetto : Re : Foto Caro signore, credo che lei abbia sbagliato indirizzo. Certo che ho un MacBook, ma non l'ho mai venduto. Quindi le foto in suo possesso non sono mie;-)
Cordialmente, Emma Emma Lovenstein Assistente capo sommelier Imperator 30 Rockefeller Plaza New York, NY 10020
Due minuti dopo Prendo atto. Scusi l'errore. Buona serata.
Matthew P.S. Lavora ali'Imperatori Allora forse ci siamo già incontrati. Mia moglie e io abbiamo festeggiato da voi il primo anniversario del nostro incontro.
Quarantacinque secondi dopo Davvero? Quando?
Un minuto dopo Poco più di quattro anni fa. Il 29 ottobre.
Trenta secondi dopo Poche settimane prima che fossi assunta, quindi. Spero che conserviate un buon ricordo del ristorante.
Un minuto dopo Sì, eccellente. Rammento ancora alcuni piatti: cosce di rana caramellate, animella di vitello ai tartufi e un macaron farcito di riso al latte!
Trenta secondi dopo E i vini? E i formaggi?
Un minuto dopo La deluderò sicuramente, Emma, ma a dire la verità non bevo vino e non mangio mai il formaggio.


Un minuto dopo Che tristezza! Non sa che cosa si perde. Se tornerà al ristorante, le farò scoprire qualche buona bottiglia.
Vive a New York, Matthew?
Trenta secondi dopo No, a Boston. A Beacon Hill. Venti secondi dopo Ma è a due passi! L'autunno prossimo, allora, inviti sua moglie a festeggiare anche il quinto anniversario del vostro incontro all'Imperator.
Tre minuti dopo Sarà difficile: mia moglie è morta.
Un minuto dopo Mi dispiace moltissimo. Le mie più sentite scuse.
Un minuto dopo Non poteva saperlo, Emma. Buona serata.
Matthew si alzò di scatto dalla sedia e si allontanò dal computer. Ecco a che cosa si esponeva conversando con delle sconosciute su internet! Perché mai gli era venuto in mente di avviare quel dialogo surreale? Eliminò senza rimpianto le foto e stappò una nuova bottiglia di Corona.
La conversazione lo aveva contrariato, ma gli aveva anche stuzzicato l'appetito. Nella zona cucina aprì il frigo e constatò che era vuoto.
«Logico, non si riempie da solo», gli bisbigliò una vocina nella testa.
Frugando nel congelatore, Matthew scovò tuttavia una pizza e la mise a cuocere nel forno a microonde. Regolò il timer e tornò davanti allo schermo. C'era un nuovo messaggio di Emma Lovenstein...
Accidenti, che gaffe, si rimproverò Emma. D'altra parte, come avrei potuto immaginare che sua moglie fosse morta?
Quello scambio di email l'aveva incuriosita. Così, giusto per saperne di più, digitò «Matthew Shapiro + Boston» su Google e i primi risultati che ottenne la rimandarono al sito ufficiale dell'università di Harvard. Sempre più interessata, cliccò sulla prima voce e capitò su una breve biografia dei docenti del dipartimento di filosofia. A quanto pareva, il suo misterioso corrispondente teneva dei corsi in quell'autorevole facoltà. Il suo curriculum era accompagnato da una foto. Se si doveva credere all'immagine, Shapiro era un bell'uomo bruno che dimostrava a stento quarantanni e aveva il fascino distinto di un John Cassavetes. Emma esitò qualche istante, poi fece scorrere le dita sulla tastiera: Da: Emma Lovenstein A: Matthew Shapiro Ha già cenato, Matthew?
Matthew aggrottò la fronte. Non gli piacevano quelle intrusioni nella sua vita privata, tuttavia rispose a tono:

Da: Matthew Shapiro A: Emma Lovenstein Se vuole proprio saperlo, le dirò che sto scongelando una pizza nel microonde.
Trenta secondi dopo Beh, lasci perdere la pizza surgelata. Ecco cosa le propongo al suo posto. Conosce Zellig Food, la grande gastronomia di Charles Street? Hanno dei favolosi banchi di formaggi e affettati.
Se vuole passare una serata da buongustaio, ci faccia una scappata.
Mentre fa la spesa, non manchi di dare un'occhiata ai loro saporiti formaggi di capra. Scelga per esempio una delle loro specialità ai fichi o al wasabi. Sì, lo so, l'accostamento dei sapori potrà sorprenderla, ma se lo accompagnerà con un sauvignon bianco della Loira, per esempio un sancerre o un pouilly-fumé, l'accordo sarà perfetto.
Le consiglio anche di assaggiare il loro pàté en croute al foie gras e pistacchio, che si sposa benissimo con i tannini vellutati di un borgogna della Cote de Nuits. Se trova un Gevrey- Chambertin del 2006, non se lo faccia scappare! Ecco i miei suggerimenti. Vedrà, sarà meglio della pizza surgelata!
Emma P.S. Ho appena verificato su internet: da Beacon Hill può andare da Zellig Food anche a piedi, ma si sbrighi, perché il negozio chiude alle dieci.


Matthew scosse la testa davanti allo schermo. Era da tanto tempo che nessuno si preoccupava più della sua salute... Subito però si riprese e si ribellò. Con quale diritto Emma Lovenstein si permetteva di dirgli come doveva passare la serata?
Irritato, uscì dalla posta elettronica per usare il browser. Cedendo alla curiosità, digitò «Emma Lovenstein + sommelière» e lanciò la ricerca. Cliccò sulla prima voce, un articolo online della rivista Wine Spectator, risalente all'anno prima. Intitolato «Dieci giovani talenti da tenere d'occhio», il pezzo parlava a grandi linee della nuova generazione di sommelier. Curiosamente, la maggior parte dei «giovani talenti» erano donne. Il penultimo ritratto era quello di Emma, ed era corredato da una foto a figura intera presa nella cantina high-tech del ristorante Imperator. Matthew zoomò per ingrandire. Non c'era nessun dubbio: la giovane sommelière dell'articolo era proprio la persona che gli era comparsa sullo schermo poco prima, nelle immagini delle vacanze rimaste nel disco rigido. Una bella bruna dagli occhi vivaci e dal sorriso malizioso.
Strano. Perché aveva mentito affermando che il computer non le apparteneva? Disagio? Pudore? Probabile; ma, se così fosse stato, perché avrebbe proseguito la conversazione?
Il trillo del timer annunciò che la pizza era cotta.
Invece di toglierla, Matthew prese in mano la cornetta e chiamò i vicini per chiedere se la loro figlia Elizabeth fosse disposta a badare a Emily per una mezz'oretta. Voleva correre da Zellig Food e doveva farlo subito, perché il negozio chiudeva alle dieci...
Boston Quartiere di Back Bay Ore 1.00 del mattino Il pub vibrava al ritmo dei bassi di un pezzo electro dance. April si fece strada tra la folla del Gun Shot per uscire a fumare una sigaretta.
Ehilà, sono un po' brilla, pensò inciampando nel bordo del marciapiede. L'aria fresa della notte le fece bene. Aveva bevuto troppo, ballato troppo, rimorchiato troppo. Si aggiustò le bretel- line del reggiseno e guaio l'orologio. Era già tardi. Mentre con il cellulare chiamava un radiotaxì, si portò la sigaretta alle labbra cercando l'accendino nella borsa.
Dove si è ficcato il fottuto accendino?
«È questo che cerchi?» disse una voce alle sue spalle.
April si girò e si trovò davanti una giovane bionda dal sorriso luminoso. Era Julia, la ragazza che aveva divorato con gli occhi per tutta la serata e che non aveva risposto a nessuna delle sue avance. Capelli corti ali: californiana, sguardo sfavillante, figura elegante da silfide in bilico su trampoli stratosferici: proprio il tipo che le piaceva.
«L'hai dimenticato sul bancone del bar», spiegò la bionda facendole fuoco con l'accendino di madreperla e lacca rosa.
April si avvicinò per accendere la sigaretta. Ipnotizzata dalla pelle diafana, la bocca sensuale e i tratti delicati della ragazza, sentì nascere dentro di sé un desiderio febbrile.
«Non si riesce a seriore niente, quando si parla dentro questi locali», disse Julia.
«E vero. Quella musica non è più adatta alla mia età», scherzò April.
Un lampeggiare di fri attirò l'attenzione delle due ragazze.
«E il mio taxi», spiegò April indicando l'auto che si stava fermando davanti al put«Se vuoi approfittarne...» Per qualche secondo, Julia fece finta di esitare. Era lei a condurre il gioco e lo sapevi.
«Grazie, è gentile da parte tua. Non ti toccherà fare una grande deviazione, perché abito qui a due passi, in Pembroke Street.» Salirono sui sedili posteriori. Mentre il taxi si allontanava dalle sponde del Charles River, Julia posò piano la testa sulla spalla di April, che sentì una terribile voglia di baciarla. Si trattenne, però, perché lo sguardo insistente del taxista la metteva in imbarazzo.


«Se pensi di poterti rifare gli occhi così...» pensò irritata, fissando lo specchietto retrovisore.
Il tragitto fu breve e meno di cinque minuti dopo il taxi si fermò in una stradina fiancheggiata da alberi.
«Se vuoi salire a bere qualcosa...» propose con aria indifferente Julia. «Una delle mie ex compagne di facoltà mi ha mandato una bibita alla polpa d'aloe, una roba incredibile che prepara lei stessa. Ti piacerà molto, vedrai.» April abbozzò un sorriso, ben contenta dell'invito, però all'ultimo momento fu trattenuta da un'inquietudine sorda che la rodeva, contrapponendosi al desiderio. Era molto affascinata da Julia, ma era anche preoccupata per Matthew. All'inizio della serata, quando lo aveva lasciato, le era parso particolarmente depresso, forse addirittura sul punto di commettere un gesto insano. Era senza dubbio un'idea assurda, ma non riusciva a togliersela dalla testa. Temeva, tornando a casa, di trovarlo appeso a una trave o in coma per una overdose di farmaci.
«Senti, avrei accettato con piacere l'invito in altre circostanze, ma adesso non posso proprio», balbettò.
«Va bene, ho capito», fece irritata Julia.
«No, aspetta, dammi il tuo numero. Potremmo...» Troppo tardi. La bella bionda aveva già chiuso la portiera.
Merda.
April sospirò, poi disse al taxista di portarla all'angolo tra Mount Vernon e Willow Street. Per tutto il tragitto stette in pensiero. Conosceva Matthew solo da un anno, ma si era molto affezionata a lui e alla piccola Emily. Se da un lato era dispiaciuta di vederlo angosciato, dall'altro, purtroppo, non sapeva come aiutarlo: Matthew era talmente devoto alla moglie morta che April non pensava un'altra donna potesse già trovare posto nella sua vita. Kate era stata una persona bella, giovane, brillante, altruista. Quale ragazza avrebbe potuto competere con un cardiochirurgo dal fisico di modella?
Il taxi arrivò davanti alla villetta. April pagò e aprì la porta di casa cercando di non fare troppo rumore. Credeva di trovare Matthew steso sul divano, in preda al sonno profondo causato da un cocktail di birra e ansiolitici, invece lo vide tranquillamente seduto davanti allo schermo del suo nuovo computer. Muoveva la testa al ritmo di un pezzo jazz e un sorriso allegro gli illuminava il volto.
«Già di ritorno?» si stupì.
«Ah, come sai nascondere bene la gioia di rivedermi», fece lei sollevata.
Sul bancone della cucina notò bottiglie di vino cominciate accanto ad avanzi di formaggi pregiati e di pàté en croùte.
«Non ci neghiamo niente, a quanto vedo», commentò. «Sei uscito a far la spesa? Credevo che invece non volessi lasciare la tua tana.» «Ne avevo abbastanza di mangiare surgelati», si giustificò goffamente lui.
Guardandolo poco convinta, April gli si avvicinò.
«Ti stai divertendo molto con il tuo nuovo giocattolo, vero?» lo stuzzicò, chinandosi sulla sua spalla.
Matthew chiuse il coperchio del Mac con un colpo secco. Imbarazzato, cercò di nascondere le foto che aveva recuperato dal cestino del computer e stampato, ma April fu più veloce di lui e le afferrò.
«Che carina», osservò guardando le immagini di Emma. «Chi è?» «La sommelière di un grande ristorante newyorchese.» «E questa musica cos'è? Credevo che non ti piacesse il jazz.» «È Keith Jarrett, il Kòln Concert. Sapevi che la musica può influire sulla degustazione del vino? Alcuni ricercatori hanno dimostrato che certi brani jazz stimolano le aree cerebrali che permettono di comprendere meglio le qualità dei grandi vitigni. Curioso, no?» «Molto interessante. È la tua nuova compagna che te l'ha detto?» «Non è la mia 'compagna'. Non essere ridicola, April.» La giovane donna gli puntò contro un indice accusatore.
«E pensare che mi hai fatto perdere l'occasione del secolo perché ero preoccupata per te!»

«Ti ringrazio della tua sollecitudine, ma non ti ho chiesto niente.» April continuò, alzando la voce: «Ti immaginavo depresso al punto di volerti suicidare, mentre in realtà facevi baldoria con grandi vini e una ragazza incontrata su internet».
«Ehi, aspetta un po', che cos'è questa, una scenata di gelosia?» La bella gallerista si versò un bicchiere di vino e impiegò parecchi minuti a ritrovare la calma.
«Va bene, si può sapere chi è questa donna?» Dopo essersi fatto pregare un po', Matthew si decise a raccontarle la sua serata, dalla scoperta delle foto nel disco rigido a quello strano dialogo che si era instaurato tra lui ed Emma. Per quasi tre ore, digitando sulla tastiera decine di email, avevano sviscerato un'ampia gamma di argomenti. Avevano scoperto di avere in comune una passione per Cary Grant, Marilyn Monroe, Billy Wilder, Gustav Klimt, la Venere di Milo, Colazione da Tiffany e Scrivimi fermo posta. Si erano interrogati sulle contrapposizioni del secolo: Beatles contro Rolling Stones, Audrey Hepburn contro Katharine Hepburn, Red Sox contro Yankees, Frank Sinatra contro Dean Martin. Si erano scontrati su Lost in Translation, film «infinitamente sopravvalutato» per Matthew e «sommo capolavoro» per Emma. Si erano chiesti quale fosse il racconto più riuscito di Stefan Zweig, quale dei quadri di Edward Hopper li avesse toccati di più, quale fosse la miglior canzone dell'album MTV Unplugged in New York dei Nirvana. Ciascuno dei due aveva esposto i motivi per cui preferiva Jane Eyre a Orgoglio e pregiudizio o viceversa, e spiegato se a proprio avviso leggere un romanzo sull'iPad fosse piacevole quanto girare le pagine di un libro cartaceo, se Off the Wall fosse superiore a Thriller, se MadMen fosse il migliore serial del momento, se la versione acustica di Layla valesse la versione originale, se Get Yer Ya-Ya's Out! fosse il miglior album live di tutti i tempi, se...
«OK, ho capito», lo interruppe April. «E a parte questo, vi siete accordati per una piccola seduta di cybersesso?»

«No, figurati!» esclamò indignato lui. «Abbiamo discusso, tutto qui.» «Ma certo...» Matthew scosse la testa. Non gli piaceva la piega che aveva preso il discorso.
«E chi ti dice che ci sia davvero quella bella ragazza dietro lo schermo del computer?» osservò April. «La simulazione di identità è frequente su internet. Senza saperlo, magari hai parlato per tre ore con un nonnino panciuto di ottant'anni.» «Hai proprio deciso di rovinarmi la serata.» «Tutt'altro: sono felice di vederti così entusiasta, ma non vorrei che ti lasciassi ingannare e che ti appassionassi a questo dialogo, per poi scoprire di avere davanti una persona diversa da quella che credi.» «Che cosa suggerisci?» «Di non aspettare troppo a incontrarla. Perché non la inviti al ristorante?» Matthew scosse la testa.
«Sei matta? È troppo presto. Crederebbe che...» «Non crederebbe un bel niente. Bisogna battere il ferro finché è caldo. E così che funziona, oggi. Si vede bene che è da troppo tempo che non cerchi di portarti a letto una donna.» Matthew rifletté un momento, perplesso. Sentiva che gli stava sfuggendo il controllo della situazione. Non voleva precipitare le cose, ma nemmeno lasciarsi troppo prendere dall'entusiasmo. Dopotutto, non conosceva davvero Emma Lovenstein, ma era costretto ad ammettere che c'era stata tra loro una simpatia, un piacere comune nel confrontarsi, e che le ore passate a dialogare avevano rappresentato una tregua dalla tristezza quotidiana. Gli piaceva anche il lato romantico del loro incontro, il ruolo che vi aveva giocato il caso o forse addirittura... il destino.
«Invitala quanto prima», gli consigliò di nuovo April. «Se hai bisogno di me, mi occupo io di Emily.» Soffocò uno sbadiglio e guardò l'orologio.


«Ho bevuto troppo, vado a dormire», gli disse salutandolo con la mano.
Matthew ricambiò il saluto e la guardò salire le scale. Appena fu di nuovo solo, accese il computer e si affrettò a cliccare l'icona della posta elettronica. Non c'erano nuove email di Emma. Forse si era stancata. Forse April aveva ragione: non bisognava aspettare troppo. Decise di mettere le carte in tavola.
Da: Matthew Shapiro A: Emma Lovenstein Oggetto: Invito È ancora davanti al computer, Emma? Un minuto dopo Sono a letto, Matthew, ma ho il portatile qui accanto.
Ho scaricato il suo Antimanuale di filosofia sul mio lettore di ebook e lo sto divorando. Non sapevo che Cicerone significasse «cece» in latino;-)
Come sotto l'influenza di una forza invisibile, Matthew osò l'impensabile.
Quarantacinque secondi dopo Ho una proposta da farle, Emma. Conosco un ristorantino italiano nell'East Village, Il Numero 5, a sud del Tompkins Square Park. È gestito da Vittorio Bartoletti e sua moglie, che sono entrambi miei amici d'infanzia. Ceno lì ogni volta che vado a New York, in genere per partecipare al ciclo di conferenze della Morgan Library.
Non so quanto sia buona la loro carta dei vini, ma se le piacciono gli arancini alla bolognese, le lasagne al forno, le tagliatelle al ragù e i cannoli siciliani, il ristorante dovrebbe essere di suo gradimento. Le andrebbe di cenarci con me?
Trenta secondi dopo Mi andrebbe eccome, Matthew. Quando è la prossima volta che viene a New York?
Trenta secondi dopo La prossima conferenza è prevista per il 16 gennaio, ma forse potremmo vederci prima. Perché non domani sera alle otto?
Domani...
Domani!
DOMANI!
Emma avrebbe voluto mettersi a saltare sul letto. Era troppo bello per essere vero.
«Hai sentito, Clovis? Un tipo carino e intelligente mi ha appena invitato a cena! Un docente di filosofia sexy si è preso una cotta per me!» disse con enfasi al cane che sonnecchiava ai piedi del letto.
Ci voleva ben altro per intenerire lo shar pei, però Clovis fece un grugnito di pura cortesia.
Emma era esultante. Aveva passato una serata tanto bella quanto inattesa. Con qualche email, Matthew Shapiro aveva restituito luce e fiducia alla sua vita. E la sera dopo lo avrebbe incontrato in carne e ossa. Peccato però che la sera dopo... lei doveva lavorare. D'un tratto inquieta, si rialzò sul letto e per poco non rovesciò la tazza di verbena. Era il grande inconveniente del suo mestiere: non aveva mai serate libere. Le restavano ancora delle ferie, ma non poteva chiederle da un giorno all'altro. La procedura era complessa e, nel settore ristorazione, il mese di dicembre era critico.
Rifletté un attimo e decise di non guastarsi il sangue. Avrebbe chiesto a un collega di rimpiazzarla nel turno serale. Era una questione complicata, ma fattibile. In ogni caso, non poteva pensare di mancare al suo «appuntamento galante», come l'avrebbe chiamato sua nonna.
Fu quindi con un gran sorriso che scrisse l'ultima email della giornata: Da: Emma Lovenstein A: Matthew Shapiro Oggetto: Re: invito D'accordo, Matthew, farò in modo di liberarmi.
Grazie di questa bella serata.
A domani sera, allora!
Dorma bene.
P.S. Adoro le lasagne e gli arancini... E anche il tiramisù!

  
5

Tra loro due


Da quando l'uomo si è drizzato sugli arti posteriori tutto è posa.
STANISLAW JERZY LEC


Il giorno dopo, Boston
Ore 12.15
MATTHEW si chiuse la porta alle spalle e scese la rampa di scale che dalla casa portava sulla strada.
La notte prima era piovuto, ma adesso il sole illuminava le viuzze di Beacon Hill. Un odore di sottobosco era sospeso su Louisburg Square e i raggi dorati facevano risaltare i colori autunnali del parco. Con una borsa a tracolla, infilò un casco, inforcò la bicicletta e cominciò a pedalare fischiettando verso Pinckney Street. Da quanto tempo non si sentiva il cuore così leggero? Per un anno aveva vissuto come uno spettro, mentre quella mattina si era svegliato con la mente limpida. Aveva fatto tre ore di corso di sostegno all'università e scherzato con gli allievi, ritrovando il piacere di insegnare con allegria.
La mano di ferro che gli stringeva l'anima aveva allentato un po' la presa. Sentiva la vita turbinargli intorno e aveva di nuovo l'impressione di prendere parte a quel vortice. Inebriato dall'euforia ritrovata, accelerò e seguì alla perfezione la curva che portava in Brimmer Street. Con il vento in faccia, pedalò ancora più forte finché, in vista del Public Garden, diventò tutt'uno con la bicicletta, fendendo l'aria con un delizioso senso di libertà. Assaporando ogni istante, costeggiò il parco a ruota libera per poi girare a destra e raggiungere Newbury Street.
Animata da caffè chic, gallerie d'arte e boutique d'alta moda, la via era tra quelle più in voga a Back Bay. Quando il tempo era buono, all'ora di pranzo i suoi tavolini venivano presi d'assalto. Matthew legò la bicicletta davanti a un'elegante casa di arenaria scura il cui pianterreno era stato trasformato in ristorante. Il Bistro 66 era la sua mensa, quando pranzava con April. Era rimasto libero un unico posto, all'esterno, e si affrettò a occuparlo dopo aver fatto un cenno al cameriere. Una volta seduto, tirò fuori della borsa il portatile e si collegò con il wi-fi del locale. Con pochi clic prenotò un biglietto aereo per New York sul sito della Delta Airlines. Il volo delle cinque e un quarto gli avrebbe permesso di atterrare al JFK alle sette, giusto in tempo per presentarsi in perfetto orario alla cena con Emma. Subito dopo chiamò Il Numero 5 e gli rispose la sua amica Connie. Non si vedevano da un pezzo. Connie fu felicissima di sentire la sua voce e avrebbe avuto mille cose da raccontargli, ma era il momento convulso del pranzo e uno dei camerieri era malato. Si segnò la prenotazione e si rallegrò di potergli parlare con più calma la sera stessa.
«Questo posto è occupato, giovanotto?» Matthew chiuse la comunicazione e strizzò l'occhio a April.
«E libero e attende solo lei.» La gallerista si sedette sotto il pannello radiante che scaldava l'area esterna del locale e alzò la mano per ordinare un bicchiere di pinot grigio e un piatto di crocchette di granchio.
«Tu cosa prendi?» «Una porzione piccola di Caesar salad e un'acqua naturale.» «Ti sei messo a dieta?» «Mi tengo leggero per stasera. Ceno al ristorante.» «Sul serio? Hai invitato la tua bella sommelière? Complimenti, Matt, sono fiera di te.»

Arrivarono le bevande. April alzò il bicchiere e bevvero allegramente.
«A proposito, come pensi di vestirti per la cena?» domandò con tono inquieto.
Matthew alzò le spalle.
«Beh, niente di speciale; pensavo di andarci così.» L'amica aggrottò la fronte e lo squadrò dalla testa ai piedi.
«Vorresti presentarti con dei pantaloni baggy troppo larghi, una vecchia felpa col cappuccio, delle Converse da adolescente e un parka militare? Scherzerai, spero. Per non parlare dei capelli e di quella barba da uomo di Neanderthal.» «Non esagerare, per favore.» «Ma non esagero, Matti Rifletti un attimo: quella ragazza lavora in uno dei ristoranti più esclusivi di Manhattan. I suoi clienti sono uomini d'affari, personalità del mondo dell'arte e della moda, persone eleganti e raffinate, abituate a girare tutte in ghingheri. Ti prenderà per un buzzurro o per uno studente fuori corso.» «Ma non voglio far finta di essere quello che non sono.» Lei si oppose.
«Il primo incontro va preparato, tutto qui. L'apparenza conta: l'impressione iniziale resta inevitabilmente scolpita nella mente delle persone.» Matthew si irritò.
«'Amare qualcuno per la sua apparenza è come amare un libro per la sua rilegatura'.» «Sì, sì, riempiti pure la bocca delle tue citazioni, ma vedrai che stasera ti darai meno arie.» Matthew tirò un sospiro e si incupì. Si arrotolò una sigaretta, resistette alla voglia di accenderla e, dopo qualche secondo di riflessione, finì per cedere.
«E va bene, se mi vuoi dare un paio consigli...»

New York Ore 13.00
«Lovenstein, ha perso la testa?» urlò Peter Benedict, aprendo la porta trasparente della cantina dell'Imperator.
Il capo sommelier avanzò con passo rapido verso la sua subordinata, che stava sistemando delle bottiglie in una rastrelliera di metallo.
«Come mai ha preso l'iniziativa di comprare questi vini?» gridò agitando un documento color crema.
Emma diede un'occhiata al foglio. Era una fattura con l'intestazione di un sito di vendita online specializzato in vitigni di grande pregio. La fattura faceva riferimento all'ordinazione di tre bottiglie: 1 Domaine de la Romanée Conti, 1991
1 Ermitage Cuvée Cathelin, J.L. Chave, 1991
1 Graacher Himmelreich, Auslese, tenuta J.J. Priim, 1982
Un borgogna mitico e sontuoso, un eccellente, generoso syrah, un riesling complesso, dal sapore soave. Tre grandi vitigni di annate perfette. I tre vini migliori che Emma avesse mai gustato. Tuttavia, non era stata lei a ordinarli.
«Le assicuro che io non c'entro niente con questa storia, Peter.» «Non mi prenda per i fondelli, Lovenstein: la bolla di ordinazione reca la sua firma e la fattura è stata pagata con le coordinate bancarie dell' Imperator.» «E impossibile.» Livido di collera, Benedict continuò con i rimproveri.
«Ho appena chiamato il mittente, che ha confermato di avere consegnato le bottiglie al ristorante. Vorrei quindi sapere dove sono, e subito.» «Senta, si tratta chiaramente di un errore. Non è grave, bisogna solo...»

«Non è grave? Sono tre bottiglie che valgono più di diecimila dollari!» «In effetti è una bella somma, ma...» «Se la sbrogli come crede, Lovenstein, ma esigo che questo ordine sia cancellato prima di sera», abbaiò lui, puntandole l'indice contro. «Altrimenti, quella è la porta», la minacciò.
Senza attendere risposta, girò sui tacchi e uscì dalla cantina.
Emma rimase qualche secondo immobile, stordita dalla violenza della discussione. Benedict era un sommelier della vecchia scuola, convinto che non ci fosse posto per le donne in una cantina. Aveva senz'altro motivo di sentirsi minacciato dalla sua assistente: prima della propria precipitosa partenza, Jonathan Lempereur aveva assegnato l'incarico di capo sommelier a lei. La giovane avrebbe dovuto sostituire Benedict all'inizio dell'anno, ma lui era riuscito a manovrare con i nuovi gestori per far annullare la promozione. Da allora, aveva avuto in testa solo un'idea: spingere la collega a commettere un errore per potersi sbarazzare definitivamente di lei.
Grattandosi la testa, Emma guardò la fattura. Peter Benedict era astioso e vendicativo, ma non così matto da architettare un simile imbroglio.
Allora chi è stato?
I tre vini non erano stati ordinati a caso. Erano quelli che lei aveva menzionato la settimana prima, in occasione di un incontro con il giornalista della rivista Wine Spectator incaricato di scrivere un articolo sulla nuova generazione di sommelier. Frugò nella memoria: l'incontro si era svolto nell'ufficio stampa e comunicazione del ristorante, sotto gli occhi di...
Romuald Leblanc!
Molto rinfrancata, uscì dalla cantina e prese l'ascensore per l'ufficio stampa, dove entrò senza farsi annunciare e chiese di parlare con il giovane stagista francese che l'Imperator aveva assunto perché si occupasse della manutenzione dei servizi informatici. Piombò nella stanza indicatale e si chiuse la porta alle spalle.
«A noi due, quattrocchi!»

Stupito dall'intrusione, Romuald Leblanc trasalì dietro lo schermo del computer. Era un adolescente grassoccio, con i capelli unti tagliati a scodella e un viso pallido su cui spiccavano spessi occhiali quadrati dalla montatura massiccia. Portava infradito ai piedi nudi, un paio di jeans bucati e una felpa col cappuccio poco pulita e aperta su una T-shirt Marvel.
«Buongiorno, signorina, ehm... Lovenstein», disse con accento francese.
«È già un buon inizio che tu mi riconosca», fece lei avvicinandosi con aria minacciosa.
Lanciò un'occhiata allo schermo del computer.
«È per sbavare davanti a foto di donne nude che sei pagato?» «Ehm, no, signora, ma vede, sono... sono in pausa.» Imbarazzato, il francese si fece piccolo sulla sedia e, per cercare di darsi un contegno, mangiò un pezzo di una tavoletta di cioccolata già sbocconcellata che stava sulla scrivania.
«Smetti di mangiare, testa di scarafaggio», ordinò lei.
Tirò fuori di tasca la fattura e gliela sventolò davanti al naso.
«Sei stato tu a fare quest'ordinazione?» Il ragazzo curvò le spalle e abbassò gli occhi.
«Mi hai sentito parlare con i giornalisti, vero?» insistette lei.
Siccome Romuald restava zitto, Emma alzò il tono.
«Ascoltami bene, pezzo di idiota, non ho intenzione di perdere il mio lavoro. Sei quindi padronissimo di non rispondermi, ma se continui a tacere dirò alla direzione di avvertire la polizia e tu ti spiegherai con gli agenti.» La minaccia ebbe su di lui l'effetto di una scossa elettrica.
«No, la prego! E... è vero, mi ha affascinato il suo modo di parlare di quei vini e ho voluto assaggiarli.» «Hai voluto assaggiare delle bottiglie da oltre tremila dollari l'una, testa di cavolo? Ma cosa sei, fuori di melone o che? E come hai fatto a ordinarle?» Romuald indicò con un cenno il monitor.
«Niente di più facile: il suo computer e i suoi programmi non sono protetti. Mi ci sono voluti venti secondi per entrare nella contabilità del ristorante.» Emma sentì il cuore batterle più forte in petto.
«E le bottiglie, le hai aperte?» «No, sono lì», disse il ragazzo, alzandosi dalla sedia.
Si trascinò fino a un armadietto metallico, da cui estrasse una cassetta di legno chiaro contenente i tre preziosi vini d'annata.
Dio sia lodato!
Emma esaminò le bottiglie attentamente, a una a una: erano intatte.
Senza indugiare un attimo, chiamò il fornitore per spiegargli che un hacker era entrato nel conto clienti dell' Imperato r e per proporre di rimandare indietro a sue spese le tre bottiglie in cambio dell'annullamento della fattura. Provò un immenso sollievo quando le dissero che la sua offerta era stata accettata.
Per qualche secondo restò immobile, felice di aver evitato il licenziamento. Si concesse poi di pensare alla cena che l'aspettava quella sera e si sentì prendere dall'angoscia. Per tranquillizzarsi, cercò con gli occhi la propria immagine sulla superficie riflettente del vetro, ma ciò che vide produsse l'effetto contrario: era spaventosa. I capelli facevano schifo, con un colore spento e un taglio informe. Con una testa del genere, non sarebbe certo riuscita a piacere a Matthew Shapiro. Sospirò e d'un tratto si rese conto della presenza dello stagista.
«Senti, sarò costretta a segnalare la tua scorrettezza al capo del personale», disse. «È molto grave quello che hai fatto.» «No, la prego!» esclamò il ragazzo, spaventato, scoppiando in lacrime.
«Piangi, piangi, così farai meno pipì», sospirò lei.
Gli porse però un fazzoletto e pazientò finché quello non ebbe smesso di singhiozzare.
«Quanti anni hai, Romuald?» «Sedici e mezzo.» «Di dove sei?»

«Di Beaune, a sud di Digione, è...» «So dov'è Beaune. Alcuni dei migliori vini francesi vengono dalla tua regione. Da quanto tempo lavori ali 'Imperatori» «Quindici giorni», rispose lui togliendosi gli occhiali per stropicciarsi le palpebre.
«E ti interessa questo lavoro?» Il ragazzo scosse la testa e indicò con il mento il monitor.
«La sola cosa che mi interessa veramente sono i computer.» «I computer? Allora cosa ci fai in un ristorante?» Romuald le confidò di aver seguito la sua amichetta, che, dopo la maturità, era andata a lavorare a New York come ragazza alla pari.
«E lei ti ha piantato in asso?» indovinò Emma.
Romuald rispose con un imbarazzato silenzio di conferma.
«I tuoi genitori sanno almeno che sei negli Stati Uniti?» «Sì, ma in questo momento hanno altre gatte da pelare», rispose lui evasivo.
«Ma come sei riuscito a farti assumere qui, a New York? Non hai nemmeno i documenti per lavorare e non sei maggiorenne.» «Mi sono fabbricato un permesso di lavoro temporaneo dove risulto un po' più vecchio.» Fabbricato un permesso ? Non c'era da stupirsi che temesse la polizia e non volesse attirare su di sé l'attenzione della direzione del personale.
Emma guardò il ragazzo con un misto di interesse e compassione.
«Dove hai imparato a fare questo genere di cose, Romuald?» Lui alzò le spalle.
«Si possono fare tante cose con un computer.» Siccome Emma insisteva, le raccontò diversi aneddoti. A tredici anni e mezzo era stato fermato per qualche ora dalla polizia per avere diffuso su internet una traduzione pirata dell'ultimo volume della saga di Harry Potter. Poco tempo dopo, era penetrato nel sito del suo liceo, dove si era divertito a cambiarsi i voti e a mandare messaggi bizzarri agli indirizzi email dei genitori degli allievi. Nel giugno di quell'anno, cliccando in giro, aveva trovato gli argomenti delle prove di maturità scientifica, permettendo così alla sua amichetta di prendere un buon voto. Infine, all'inizio di luglio, si era per breve tempo introdotto indebitamente nell'account Facebook dell'allora presidente francese Nicolas Sarkozy, una goliardata che non era piaciuta all'Eliseo. Le autorità erano riuscite a risalire a lui. Considerato il caso, lo avevano rilasciato con la condizionale e gli avevano dato il consiglio molto fermo di tenersi alla larga dai computer.
Ascoltandolo parlare, Emma ebbe un'idea folgorante.
«Siediti davanti al monitor», gli disse.
Lui ubbidì e premendo un tasto attivò l'apparecchio.
Emma prese una sedia e gli si sedette al fianco.
«Guardami bene negli occhi, Romuald.» Nervoso, il ragazzo inforcò gli occhiali, ma riuscì a reggere il suo sguardo solo per pochi istanti.
«Lei... lei è molto carina», balbettò.
«No, affatto, sono orribile, ma tu mi aiuterai a rimediare a questo stato di cose», disse Emina indicando il monitor.
Digitò l'indirizzo web di un salone di parrucchiere. Sullo schermo danzarono lettere scintillanti su uno sfondo chiaro ed essenziale.
Akahiko Imamura Airstyle «Akahiko Imamura è un giapponese che ha rivoluzionato l'universo dell'acconciatura», spiegò. «A Manhattan è il coiffeur per eccellenza, il maestro delle forbici e del colore. Angelina Jolie, Anne Hathaway, Cate Blanchett, le più grandi star del cinema si fanno pettinare da lui. E durante la fashion week, tutti cercano di reclutarlo per i loro défilé. Dicono che sia un vero mago e io ne ho bisogno per rendermi presentabile stasera. Il problema è che si aspettano in media due mesi per avere un appuntamento.» Romuald aveva capito quello che Emma voleva da lui e si era già dato da fare per penetrare nel sistema di prenotazione.


«Imamura ha tre saloni a New York», continuò lei mentre il geek digitava sulla tastiera a velocità incredibile. «Uno a Soho, uno a Midtown e uno nell'Upper East Side.» «È lì che lavora questo pomeriggio», annunciò Romuald, mostrando la lista degli appuntamenti del coiffeur.
Colpita, Emma si chinò sul monitor.
«È lo stesso principio di quando si prenota online un tavolo al ristorante», spiegò il francese.
«Puoi modificare i nomi?» «Certamente, se no cosa ci sto a fare qui? A che ora vuole andarci?» «Alle cinque sarebbe possibile?» «È un gioco da ragazzi.» Scrisse il nome di Emma al posto di quello della cliente prevista, senza dimenticare d'inviare un messaggio a quest'ultima per rimandare l'appuntamento.
La giovane sommelière non credeva ai suoi occhi.
«Ottimo lavoro!» si entusiasmò dandogli un bacio sulla guancia. «Anche tu sei un mago.» Il faccione rotondo del ragazzo s'imporporò.
«E stato facile», disse con modestia.
«Così a vederti non si direbbe, ma sei molto astuto», dichiarò lei aprendo la porta per andare al suo posto di lavoro. «Oh, naturalmente te lo tieni per te, capito?» Boston Brooks Brothers Ore 15.30
«Sei davvero molto elegante», gli assicurò April. «Il taglio classico è quello che ti sta meglio: con le spalle ben modellate, la vita stretta, ma non attillato sul busto. È chic e non passa mai di moda.»

Matthew si guardò allo specchio a figura intera della boutique di lusso. Rasato di fresco, con i capelli corti e una giacca che gli cadeva a pennello, era irriconoscibile.
Da quanto tempo non portavo più un completo?
La risposta gli risuonò in testa, sgradevole e inquietante.
Dall'epoca del mio matrimonio.
«Quasi quasi divento etero!» esclamò April allacciandogli un bottone.
Lui si impose di sorridere per ringraziarla dei suoi sforzi.
«Ora completiamo la mise con un cappotto di lana diritto e filiamo all'aeroporto», disse lei guardando l'orologio. «Ci sono sempre degli ingorghi a quest'ora e non puoi assolutamente perdere l'aereo.» Dopo aver pagato gli acquisti, raggiunsero la Camaro e April fece rotta verso l'aeroporto Logan. Matthew rimase in silenzio per tutto il tragitto. A mano a mano che la giornata avanzava, sentiva di stare perdendo brio ed entusiasmo. Ora l'incontro con Emma Lovenstein non gli sembrava più un'idea così buona come gli era parsa la sera prima. A ben riflettere, quell'appuntamento non aveva senso: era frutto di una decisione impulsiva, maturata in un momento in cui aveva ingerito alcol e farmaci. Non conosceva quella donna: si erano lasciati entrambi trascinare da un breve scambio epistolare e un incontro reale avrebbe potuto portare solo a una delusione reciproca.
La Chevrolet imboccò il raccordo che portava al parcheggio Kiss & Fly. April fermò bruscamente davanti al terminal per lasciare all'amico il tempo di scendere dall'auto. Mentre si abbracciavano, la gallerista cercò parole di incoraggiamento.
«So benissimo cosa pensi, Matt. So benissimo che hai paura e in questo momento rimpiangi di avere preso l'impegno, ma ti supplico, va' all'appuntamento.» Lui annuì, si sbatté la portiera alle spalle e prese la borsa dal bagagliaio. Dopo un ultimo saluto all'amica, entrò nel terminal.
Attraversò in fretta l'atrio. Poiché si era registrato online, superò i controlli di sicurezza e aspettò nella sala d'imbarco. Al momento di alzarsi per salire sull'aereo, fu colto dal dubbio, poi dalla paura. Sudava e una ridda di pensieri contraddittori gli turbinavano in testa. Per un attimo gli apparve con stupefacente chiarezza il viso di Kate, ma, rifiutandosi di sentirsi in colpa, batté le palpebre per scacciare l'immagine e presentò il biglietto alla hostess.
Grande magazzino Bergdorf Goodman Quinta Avenue Ore 16.15
Un po' smarrita, Emma girava tra i banchi del grande magazzino newyorchese. Lì tutto intimidiva, dal grande palazzo di marmo bianco all'aspetto sofisticato delle commesse, belle come modelle, che ti facevano sentire una poveraccia. Emma pensava che un negozio così, nel quale non si chiedeva mai il prezzo e bisognava essere avvenenti, ricchi e sicuri di sé anche solo per provare un vestito, non era fatto per lei; ma quel giorno si sentiva in grado di superare i propri timori. Era un fatto irrazionale, ma credeva molto in quell'appuntamento. Durante la notte non aveva quasi chiuso occhio; la mattina, impaziente, si era alzata presto ed era rimasta più di un'ora a esaminare il proprio guardaroba per trovare un abito che le donasse. Dopo un sacco di prove e di dubbi, aveva deciso finalmente per una tenuta che le stava piuttosto bene: una camicetta marrone scuro con ricami color rame e una gonna diritta di seta nera, dalla vita alta. Per completare la mise aveva bisogno di un cappotto decente e il suo pareva una vecchia, orribile, informe moquette. Come aveva messo piede nel grande magazzino, era stata attratta da un magnifico tre quarti di broccato. Ne palpò la stoffa di seta con i disegni d'oro e argento in rilievo: era così bello che non osava nemmeno infilarselo.
«Posso esserle d'aiuto, signora?» domandò una commessa che aveva notato i suoi movimenti.


Emma chiese di provarlo. Le stava a pennello, ma costava duemilasettecento dollari. Era una follia che non poteva assolutamente permettersi. A prima vista percepiva uno stipendio buono, ma viveva a Manhattan dove tutto era carissimo. Inoltre, buona parte dei suoi guadagni finiva nelle sedute settimanali di terapia. Una spesa vitale, per lei. Margaret Wood, la sua psicoterapeuta, l'aveva salvata quando era stata molto male, insegnandole a difendersi, ad alzare delle barriere per non farsi annientare dalla paura o dalla follia.
Ed ecco che adesso si metteva in pericolo.
Ragionando fra sé, uscì dalla cabina di prova.
«Non lo prendo», disse.
Soddisfatta di non aver ceduto all'impulso, si diresse all'uscita. Dando un'occhiata al reparto calzature, contemplò ammirata un paio di scarpette da sera di pelle color rosa cipria di Brian Atwood. Il paio esposto era proprio il suo numero, così le infilò e si trasformò in Cenerentola. In pitone invecchiato, le scarpe avevano riflessi viola e vertiginosi tacchi laccati. Era il tipo di calzatura che rendeva sublime qualsiasi mise. Dimenticando i buoni propositi, tirò fuori la carta di credito per pagare il loro prezzo folle: millecinquecento dollari. Prima di passare alla cassa, tornò impulsivamente sui suoi passi per acquistare anche il cappotto di broccato. Bilancio dell'estemporaneo shopping: un mese e mezzo di stipendio andato in fumo in pochi minuti.
Uscendo sulla Quinta Avenue, fu afferrata dalla morsa del freddo. Tutta intirizzita, si annodò la sciarpa e abbassò la testa per proteggersi dal vento, ma la forza del gelo era troppo grande. Un soffio glaciale la congelò lì dov'era, anestetizzandole il viso e intorpidendole il corpo. Le piangevano gli occhi, le bruciavano le guance. Non ebbe il coraggio di continuare a piedi. Si spinse sull'orlo del marciapiede per chiamare un taxi e diede all'autista l'indirizzo del coiffeur, ma prima gli chiese di passare dal Rockefeller Center, dove lasciò al portiere dell' Imperator la borsa contenente il vecchio cappotto e le vecchie scarpe.


Il salone di Akahiko Imamura era uno spazio vasto e luminoso al centro dell'Upper East Side: pareti beige, scaffali di legno chiaro, grandi divani di pelle, consolle trasparenti ornate di orchidee.
Emma diede nome e indirizzo alla segretaria, che verificò l'appuntamento sul tablet. Era tutto in ordine: la manipolazione informatica di Romuald aveva funzionato. In attesa che arrivasse il maestro, un assistente le lavò i capelli, massaggiandole senza fretta e con delicatezza il cuoio capelluto. Accarezzata dalle sue dita agili, Emma si rilassò, dimenticando la spesa folle, le preoccupazioni e lo stato febbrile in cui si trovava, per abbandonarsi voluttuosamente al rilassante, raffinato confort di quel posto. Poi comparve Imamura, che la salutò con la schiena diritta e lo sguardo a terra. Emma estrasse dalla borsa una foto di Kate Beckinsale che aveva ritagliato da una rivista.
«Mi può fare una pettinatura così?» Imamura non degnò la foto di un'occhiata. Osservò a lungo nello specchio il viso della cliente e mormorò alcune parole in giapponese al suo assistente, lo specialista del colore. Quindi si armò di un paio di forbici e cominciò a tagliare alcune ciocche. Lavorò per una ventina di minuti prima di cedere il posto al colorista, il quale applicò dalle radici alle punte un audace colore ramato. Una volta terminata la tintura, Imamura risciacquò di persona e riprese a tagliare. Avvolse le ciocche a una a una intorno a grossi bigodini, poi asciugò i capelli, tolse i bigodini e lavorò la chioma con le dita.
Il risultato fu stupefacente. I capelli erano adesso raccolti in un elegante chignon a torciglione. Il taglio delicato e sofisticato rendeva il viso luminoso e faceva risaltare gli occhi chiari e la femminilità della cliente. Emma si avvicinò allo specchio, affascinata dal suo nuovo look. Alcune ciocche ribelli e ondulate sfuggirono dallo chignon, rendendo la pettinatura più naturale. Quanto al colore, era semplicemente perfetto. Era meglio di Kate Beckinsale! Non era mai stata così bella.
Fu quindi con l'animo sollevato che prese un taxi per recarsi nell'East Village. In auto tirò fuori la trousse del trucco e completò l'opera dandosi un'ombra di fard rosato, un velo dorato sulle palpebre e un tocco di rossetto color corallo alle labbra.
Erano le otto e un minuto quando aprì la porta del Numero 5, il piccolo ristorante italiano a sud del Tompkin Square Park.
Il volo Delta 1816 atterrò all'aeroporto Kennedy con qualche minuto di ritardo. Nel suo posto di coda, Matthew guardò nervosamente l'orologio: le sette e diciotto. Appena sbarcato, si precipitò ai taxi e aspettò pazientemente in fila una decina di minuti che venisse il suo turno. Diede al taxista l'indirizzo del ristorante e, come in un film, gli promise una bella mancia se fosse arrivato in tempo. Anche a New York il clima era incredibilmente mite per dicembre. C'era traffico, ma non tanto quanto aveva immaginato. Ben presto lo yellow cab riuscì a tirarsi fuori dal Queens, a raggiungere il Williamsburg Bridge e a infilarsi nelle stradine dell'East Village. Erano le otto e tre minuti quando si fermò davanti al Numero 5.
Matthew inspirò profondamente. Era arrivato in tempo, forse addirittura per primo. Pagò la corsa e scese dalla macchina. Si sentiva nel contempo nervoso ed eccitato. Respirò di nuovo a fondo per ritrovare la calma e aprì la porta del ristorante italiano.

  
6

La casualità degli incontri


Il tempo è il re di tutti gli uomini;
è a un tempo il loro genitore e la loro tomba,
dà loro ciò che gli pare e non ciò che essi domandano.
PERICLE


Ristorante Il Numero 5
New York
Ore 20.01
CON il cuore che batteva forte, Emma si presentò al bancone del ristorante e fu accolta da una bella ragazza dal sorriso accattivante.
«Buonasera, ho un appuntamento con Matthew Shapiro, che ha prenotato un tavolo per due.» «Davvero, Matthew è a New York?» disse la donna. «Che bella notizia.» Guardò la lista delle prenotazioni. Evidentemente, il nome di Matthew non vi figurava.
«A quanto pare ha chiamato direttamente mio marito Vittorio sul cellulare e quello sciocco si è dimenticato di dirmelo. Nessun problema. Vado a cercarvi un bel posto al mezzanino», promise, lasciando il bancone.
Emma notò che era incinta, e anche a uno stadio avanzato di gravidanza.
«Vuole darmi il cappotto?» chiese la donna.
«No, grazie, preferisco tenerlo.» «È stupendo.»

«Con quello che mi è costato, sono contenta di vedere che fa il suo effetto.» Le due donne si scambiarono un sorriso.
«Mi chiamo Connie.» «Piacere, Emma.» «Mi segua, prego.» Salirono una scala di legno che portava a un mezzanino dal soffitto a volta.
Connie indicò alla cliente un tavolo d'angolo, affacciato sulla sottostante sala principale.
«Vuole un aperitivo? Con questo freddo le andrebbe un bicchiere di vino caldo?» «Aspetterò Matthew.» «Benissimo», disse Connie, allungandole il menù prima di dileguarsi.
Emma si guardò intorno. Il locale era grazioso, intimo e accogliente, ed emanava onde positive. Sul menù, un trafiletto spiegava che si chiamava Il Numero 5 in onore di Joe DiMaggio, perché all'epoca in cui giocava con gli Yankees il mitico battitore aveva portato la maglia numero 5. Appesa al muro di mattoni, la foto del campione e di Marilyn Monroe lasciava pensare che in passato la coppia avesse cenato in quel ristorante. Si faceva fatica a crederci, però l'idea era bella.
Emma guardò l'orologio: le otto e quattro minuti.
Ristorante Il Numero 5 New York Ore 20.04
«Matthew, ma che bella sorpresa!» esclamò Vittorio vedendo l'amico varcare la soglia del suo locale.
«Vittorio, che piacere vederti!» I due si abbracciarono.


«Perché non mi hai detto che passavi di qua?» «Ho chiamato Connie stamattina. Non c'è?» «No, è rimasta a casa. In questo periodo, Paul si ammala continuamente di otite.» «Quanto tempo ha, adesso?» «Compie un anno il mese prossimo.» «Hai una foto?» «Sì, guarda com'è diventato grande.» Vittorio prese di tasca il portafogli e ne estrasse la foto di un bel bambino paffuto.
«È già un giovanotto», sorrise Matthew.
«Sì, grazie alla pizza che gli metto nel biberon», scherzò il ristoratore dando un'occhiata alla lista delle prenotazioni.
«Ah, vedo che hai chiesto a Connie di riservarti il nostro 'tavolo degli innamorati'. Allora, spero che sia bella, la tua invitata...» «Non ti entusiasmare troppo», replicò lui, imbarazzato. «Non è ancora arrivata?» «No, il tavolo è vuoto. Vieni, ti ci accompagno io. Vuoi un aperitivo?» «No, grazie, aspetto Emma.» Ristorante Il Numero 5 New York Ore 20.16
Caro Matthew Shapiro, a quanto pare i suoi genitori non le hanno insegnato che la puntualità è la cortesia dei re, pensò Emma guardando l'orologio.
Dal mezzanino poteva vedere la porta del ristorante. Ogni volta che si apriva, lei si aspettava di veder entrare Matthew e ogni volta era delusa. Girò la testa verso la finestra. Aveva cominciato a nevicare e soffici fiocchi argentei turbinavano alla luce dei lampioni.


Trasse un piccolo sospiro, poi tirò fuori il telefono dalla borsa per vedere se c'erano messaggi. Niente.
Dopo qualche esitazione, si decise a mandare un'email con lo smartphone, poche frasi leggere che mascheravano la sua impazienza: Caro Matthew, sono arrivata al Numero 5.
L'aspetto dentro il ristorante.
La pizza ai carciofi, parmigiano e rucola ha l'aria squisita!
Faccia presto, muoio di fame!
Emma Ristorante Il Numero S New York Ore 20.29
«Ehi, si fa attendere, la tua principessa», osservò Vittorio raggiungendo l'amico al mezzanino. «Già», ammise Matthew. «Non vuoi chiamarla?» «Non ci siamo scambiati il numero di telefono.» «Dai, non preoccuparti, siamo a Manhattan e sai bene che noi newyorchesi abbiamo un'idea un po' elastica della puntualità.» Matthew abbozzò un sorriso nervoso. Non potendo telefonarle, scrisse a Emma un'email per farle sapere che era arrivato: Cara Emma, il mio amico Vittorio tiene molto a farle assaggiare un vino toscano, un Sangiovese prodotto in una piccola tenuta vicino a Siena. Nessuno lo frena quando si mette a parlare dei vini italiani, che ritiene i migliori del mondo. Venga subito a chiudergli il becco!
Matt Ristorante Il Numero S New York Ore 20.46
Emma si sentiva mortificata. Quel Matthew era proprio un cafone. Tre quarti d'ora di ritardo e neanche un'email o una telefonata di scuse al ristorante.
«Vuole che provi a chiamarlo al cellulare?» chiese Connie. La donna aveva intuito il suo disagio. Imbarazzata, Emma balbettò: «Io... sì, grazie».
Connie compose il numero di Matthew, ma trovò la segreteria telefonica.
«Non se la prenda, arriverà. E senza dubbio a causa della neve.» Un leggero «bip» segnalò l'arrivo di un'email. Emma abbassò gli occhi sul display. Era un messaggio d'errore del tipo «utente sconosciuto», che le segnalava che l'email inviata a Matthew non era giunta a destinazione. Strano.
Verificò l'indirizzo e provò un secondo invio che ebbe la stessa sorte del primo.
Ristorante Il Numero 5 New York Ore 21.13
«Penso che non verrà più», si lasciò sfuggire Matthew, accettando la bottiglia di birra che gli porgeva Vittorio.


«Non so che cosa dirti», fece dispiaciuto l'amico. «'La donna è mobile qual piuma al vento'...» «Già, è proprio così», sospirò Matthew.
Aveva mandato altre due email a Emma senza ricevere risposta. Guardò l'orologio e si alzò.
«Mi chiami un taxi per l'aeroporto?» «Sei sicuro di non voler dormire qui?» «No, ti ringrazio. Mi dispiace di averti tenuto occupato un tavolo per niente. Da' un bacio a Connie da parte mia.» Matthew lasciò il ristorante alle nove e mezzo e arrivò all'aeroporto alle dieci e dieci. Approfittò del tragitto per confermare il volo di ritorno, il penultimo della giornata.
L'aereo a media percorrenza lasciò New York all'ora prevista e atterrò a Boston a mezzanotte e ventitré. A quell'ora, il Logan funzionava al rallentatore. Appena sceso, Matthew prese al volo un taxi e fu di ritorno a casa prima dell'una.
Aprendo la porta della sua casa di Beacon Hill, vide che April si era già coricata. Fece capolino nella stanza di sua figlia per assicurarsi che la bambina dormisse della grossa, poi andò in cucina. Si versò un gran bicchiere d'acqua e accese meccanicamente il portatile, che era appoggiato sul bancone. Consultando la posta, vide che c'era un messaggio di Emma Lovenstein. Un'email che, stranamente, compariva solo nel computer e non era mai arrivata sullo smartphone.
Ristorante Il Numero S New York Ore 21.29
Emma si chiuse la porta del ristorante alle spalle e salì sul taxi che le aveva chiamato Connie. Il vento si era calmato, ma la neve che cadeva a ritmo regolare cominciava ad attecchire. In macchina provò a scacciare i pensieri negativi che la tormentavano, ma la collera era troppo forte. Si sentiva umiliata e tradita. Le dispiaceva essersi fatta fregare ancora una volta da un uomo, aver creduto a delle belle parole, essere stata così ingenua. Arrivando nell'atrio del numero 50 di North Plaza, prese la scala per scendere nel seminterrato. La lavanderia in comune era triste, deserta, squallida. Percorse i corridoi grigiastri dai muri scoloriti e raggiunse il locale della spazzatura, nella parte più buia e sordida dell'edificio. Per la rabbia, spezzò i tacchi delle scarpette e le gettò in uno dei bidoni di metallo. Dopo avere strappato a mani nude il cappotto dal prezzo iperbolico, lo condannò alla stessa sorte.
In lacrime, prese l'ascensore fino all'appartamento. Aprì la porta e, ignorando i guaiti del cane, si spogliò e si precipitò sotto la doccia ghiacciata. Sentì di nuovo montarle in petto la voglia irrefrenabile di farsi del male, di rivolgere contro di sé la violenza da cui si sentiva assalita. Soffriva molto del fatto di non essere padrona delle proprie emozioni: era sfiancante e terrificante. Come poteva, in pochi minuti, passare dall'esaltazione alla depressione, alternare in così poco tempo lo stato di gioia più intensa e le idee più nere?
Stringendo i denti, uscì dalla cabina di vetro, si avvolse nell'accappatoio, estrasse un sonnifero dall'armadietto dei medicinali e si rifugiò a letto. Nonostante la pastiglia, non riuscì a prendere sonno. Si voltò da ogni parte, cercando la posizione giusta per dormire, poi, rassegnata, si mise a fissare disperatamente il soffitto. Era chiaro che era troppo nervosa per addormentarsi. Verso l'una, non potendone più, accese il portatile per inviare un'ultima email all'uomo che le aveva rovinato la serata. Furiosa, alzò il coperchio con l'adesivo raffigurante un'Eva stilizzata.
* * *


Abbattuto, Matthew lesse l'email inviatagli da Emma.
Da: Emma Lovenstein A: Matthew Shapiro Oggetto: Brutto tipo Contrariamente a quello che mi aveva fatto credere, lei non ha nessuna cortesia, nessuna educazione. Non mi scriva più, non mi mandi più messaggi.
Da: Matthew Shapiro A: Emma Lovenstein Oggetto: Re: Brutto tipo Ma di cosa parla, Emma? L'ho aspettata tutta la sera al ristorante e le ho inviato due email a cui non ha risposto!
Ah sì, mi prende anche in giro! A che gioco sta giocando? Si disturbi almeno a inventare una scusa buona: il freddo, la neve, scelga lei.
La neve? Non capisco che cosa mi rimproveri, Emma, visto che è stata lei a bidonarmi!
Io all'appuntamento ci sono venuta, Matthew, l'ho aspettata tutta la sera e non ho ricevuto nessuna email da lei!
Allora avrà sbagliato ristorante.
No. C'è un solo ristorante che si chiama Il Numero 5, nell'East Village. Ho anche parlato con la sua amica Connie, la moglie di Vittorio.
Lei mente. Connie non era al ristorante, stasera.
Sì che c'era. È una bella donna bruna, con i capelli corti, ed è incinta di almeno otto mesi.
Ma che storie va raccontando? È quasi un anno che Connie ha partorito!
Prima di premere il touchpad per inviare il messaggio, Matthew alzò la testa dallo schermo. Il loro pareva proprio un dialogo tra sordi. Emma sembrava essere in buona fede, ma adduceva argomenti insensati. Non c'era niente di razionale nelle sue giustificazioni.
Matthew prese un sorso d'acqua e si stropicciò gli occhi.
Questo riferimento alla neve e alla gravidanza di Connie...
Aggrottò la fronte ed esaminò con cura tutte le email che Emma gli aveva inviato a partire dal giorno prima. All'improvviso, qualcosa lo lasciò di stucco, un piccolo particolare che non era affatto piccolo, e un'idea folle gli balenò in mente. Domandò: Quanti ne abbiamo, oggi, Emma?
Lo sa benissimo: è il 20 dicembre. Di quale anno?
Continua a prendermi per i fond...
Mi dica di quale anno, per favore!
«Quest'uomo è pazzo!», pensò lei contraendo le dita sulla tastiera. Per scrupolo di coscienza, verificò tuttavia le email di Matthew. Erano tutte di dicembre, ma del dicembre... 2011. Un anno dopo, precisamente, rispetto a quel giorno...
Spaventata, spense il computer.
Impiegò parecchi minuti prima di avere il coraggio di riassumere mentalmente la situazione.
Lei viveva nel 2010.
Matthew viveva nel 2011.
E, per un motivo che le sfuggiva, il computer portatile pareva essere il loro unico mezzo di comunicazione.

  
7

Linee parallele


Non si dà speranza senza timore e timore senza speranza.
BARUCH SPINOZA


Il giorno dopo, 21 dicembre
ALZANDOSI, il giorno dopo, Emma e Matthew ebbero lo stesso riflesso istintivo: consultarono febbrilmente la posta elettronica e furono sollevati di non trovarvi nessun messaggio.
«Papà, andiamo a vedere i miei regali di Natale, stamattina?» chiese Emily piombando in cucina come una palla di cannone e gettandosi tra le braccia del padre.
Matthew la mise sullo sgabello al suo fianco. «Prima di tutto si dice buongiorno», la rimproverò. «Buongiorno, papà», borbottò lei sfregandosi gli occhi. Lui si chinò per baciarla.
«Allora ci andiamo?» insistette la bambina. «Me l'avevi promesso.» «D'accordo, tesoro. Guardiamo i tuoi regali nei negozi, in maniera che poi tu possa scrivere la lettera a Babbo Natale.» Il rito di Babbo Natale... Era giusto lasciare che Emily continuasse a illudersi e a credere in una favola? Matthew non aveva le idee chiare in proposito. In genere non gli andava di mentire alla figlia e, da quel punto di vista, non credere più a Babbo Natale avrebbe costituito un passo verso l'età adulta e la formazione di un pensiero razionale. Ma dall'altro lato la bambina era forse ancora troppo piccola per essere privata della magia di un'illusione fiabesca. In seguito al trauma della morte di Kate, aveva vissuto un anno molto difficile. Continuare , parlarle di Babbo Natale avrebbe potuto avere un effetto benefico sul suo morale. In quel periodo di festa, Matthew aveva quindi deciso di prolungare in lei l'incanto e di rimandare all'anno successivo la rivelazione del «gran segreto».
«Chi vuole dello yogurt ai cereali?» chiese allegramente April scendendo le scale.
«Io, io!» esclamò Emily saltando giù dallo sgabello e correndo ad abbracciare la giovane donna.
April l'afferrò al volo e la coccolò.
«Vieni con noi al negozio di giocattoli?» chiese la bambina.
«April lavora, oggi», replicò Matthew.
«Ma è domenica», protestò Emily.
«È l'ultimo weekend prima di Natale», spiegò April. «Siamo aperti tutti i giorni perché gli adulti possano anche loro fare dei regali, ma vado in galleria solo a mezzogiorno, per cui stamattina posso accompagnarvi.» «Che bello! E mi puoi preparare una grande tazza di cioccolata calda con i minimarshmallow?» «Se il papà è d'accordo...» Matthew non si oppose all'idea dei dolci. April gli strizzò l'occhio e accese la radio, mettendosi a preparare la colazione.
«Allora, com'è andata la serata?» domandò.
«Un fiasco», mormorò lui infilando una capsula di caffè nella macchina per l'espresso.
Lanciò un'occhiata a Emily, che, aspettando la sua cioccolata, giocava con il tablet, facendo fuori maiali verdi con i suoi Angry Bìrds. A voce bassa, raccontò alla sua coinquilina l'inverosimile avventura della sera prima.
«Questa storia puzza», ammise April. «Che cosa conti di fare?»

«Assolutamente nulla: dimenticare la delusione, sperando di non ricevere più messaggi da quella donna.» «Ti avevo avvisato: trastullarsi in internet è troppo pericoloso.» «Che faccia tosta. Ma se sei stata tu a incoraggiarmi a invitarla al ristorante.» «Per non vivere nell'illusione, appunto. Dovrai riconoscere che era troppo bella per essere vera, una donna che aveva il tuo stesso senso dell'umorismo, condivideva i tuoi gusti e in poco tempo era riuscita a farti abbassare talmente la guardia da indurti ad abbandonare ogni prudenza.» «Avrei dovuto diffidare di più», ammise Matthew.
Come per rigirare il coltello nella piaga e aumentare la sua inquietudine, April gli raccontò una serie di squallidi fatti di cronaca legati a truffe commesse in rete. Sordide storie di persone ingenue che avevano creduto di incontrare online l'anima gemella e poco dopo si erano rese conto di essere cadute in una trappola messa in atto da estorsori.
«Che sia folle o abbia cattive intenzioni, quella ragazza è chiaramente informata su di te, se è riuscita a tenderti con tanta facilità un inganno del genere», disse. «Oppure è una che ti conosce bene e opera sotto falso nome.» «Una delle mie allieve?» si domandò Matthew.
Si ricordò all'improvviso un episodio drammatico avvenuto l'anno prima all'Emmanuel College, un'università cattolica di Boston. Credendo di chattare online con il suo ragazzo, una studentessa aveva accettato di spogliarsi e accarezzarsi davanti alla propria webcam. Sfortunatamente, non c'era il fidanzato dall'altra parte, bensì qualcuno che si era appropriato del suo profilo. Il farabutto aveva filmato la scena per ricattare la ragazza: le aveva chiesto una forte somma, minacciando di diffondere il video e, per rendere le sue parole più credibili, durante la notte aveva mandato degli spezzoni di video ad alcuni conoscenti di lei. Oppressa dalla vergogna e terrorizzata dalle conseguenze di quanto aveva ingenuamente fatto, la ragazza aveva compiuto un gesto estremo: la mattina del giorno successivo l'avevano trovata impiccata nella sua camera.
Matthew provò un brivido di spavento al ricordo di quella tragedia e il sudore gli si gelò sulla schiena.
«Sono stato troppo fiducioso», si rimproverò di nuovo. A ben riflettere, avrebbe preferito che quella donna fosse solo una truffatrice, ma propendeva piuttosto per l'ipotesi della malata di mente. «Una che crede di vivere nel 2010 dev'essere per forza una squilibrata.» E dunque era potenzialmente pericolosa.
Riepilogò tutte le cose che le aveva confidato: il nome, l'indirizzo, l'università in cui insegnava. Emma Lovenstein sapeva anche che Matthew aveva una bambina di quattro anni e mezzo, che faceva jogging al parco il martedì e il giovedì mattina, che sua figlia frequentava la scuola Montessori, in quali circostanze aveva perso sua moglie...
Sapeva tutto. In ogni caso, abbastanza da nuocergli, aggredirlo o fare del male a Emily. All'improvviso, Matthew ebbe l'impressione di aver messo a repentaglio, confidandosi a quel modo, una parte della sua esistenza.
No, sei paranoico, rifletté. Con tutta probabilità, non avrebbe più sentito parlare di Emma Lovenstein e, in futuro, la disavventura gli sarebbe servita di lezione. Depose su un vassoio la tazza che gli porgeva April e decise di dimenticare per sempre quella storia.
«Vieni a sederti, cara, la tua cioccolata è pronta.» «Sorridete!» Un'ora dopo, April stava scattando delle foto a Emily e Matthew davanti all'ingresso del Toys Bazaar, una delle istituzioni della città.
Il negozio, all'angolo tra Copley Square e Clarendon Street, era il tempio del giocattolo di Boston. A pochi giorni dal Natale, l'atmosfera era al culmine: animazioni, musica, distribuzione di caramelle... Emily diede una mano a suo padre e l'altra ad April.

Ai due lati della porta a battenti, uscieri vestiti da personaggi di Nel paese dei mostri selvaggi li accolsero, offrendo loro dei lecca lecca. Girarono per i primi reparti stupendosi di tutto. Mentre gli scaffali erano gremiti di apparecchi high-tech (consolle, pupazzi con il sistema di riconoscimento vocale, giochi elettronici), la sala era dedicata soprattutto ai giocattoli tradizionali: peluche, costruzioni di legno, Lego, bambole.
Emily sgranò gli occhi davanti agli animali di peluche a grandezza naturale.
«Com'è morbida», disse meravigliata, accarezzando una giraffa alta sei metri.
Era innegabile: il posto era magico e spettacolare, riportava i clienti all'infanzia. April contemplò a lungo, estasiata, l'impressionante collezione di Barbie, mentre Matthew rimaneva a bocca aperta vedendo un trenino elettrico gigante i cui binari procedevano serpeggiando per parecchie decine di metri.
Lasciò Emily correre ancora per qualche minuto tra i reparti, poi si accovacciò per mettersi al suo livello e disse: «Bene, conosci le regole: puoi scegliere due regali, ma non devono essere così grandi da non poter entrare nella tua stanza».
«Quindi niente giraffa», indovinò Emily stringendo le labbra.
«Hai afferrato bene il concetto, tesoro.» Accompagnata da April, la bambina impiegò molto tempo a scegliere un orsacchiotto tra le centinaia di modelli esposti. Con aria distratta, Matthew esplorò il reparto in cui c'erano delle costruzioni metalliche tipo Meccano, poi scambiò due parole con un mago che faceva giochi di prestigio davanti alla scala mobile. Continuava anche da lontano a tenere d'occhio sua figlia, ed era felice di vederla così entusiasta. Ma quei momenti di felicità riaccendevano il dolore per la perdita di Kate. Viveva come un'enorme ingiustizia il fatto di non poter dividere quegli istanti con lei. Stava per raggiungere April, quando gli squillò il cellulare e comparve sul display il numero di Vittorio Bartoletti. Rispose a voce alta, per cercare di coprire il brusio del negozio.


«Ciao, Vittorio.» «Buongiorno, Matt. Dove sei, in un asilo nido?» «In pieno shopping di Natale, vecchio mio.» «Preferisci richiamarmi dopo?» «Dammi due minuti.» Da lontano, fece segno a April per avvertirla che andava a fumare una sigaretta, poi uscì dal negozio, attraversò la strada e raggiunse Copley Square.
Ombreggiata dagli alberi, la piazza, che aveva al centro una fontana, era conosciuta per i suoi contrasti architettonici. Tutti i turisti vi scattavano la stessa affascinante foto: gli archi, i portici e le vetrate della Trinity Church che si riflettevano sui vetri a specchio della Hancock Tower, il grattacielo più alto della città. In quella domenica soleggiata, la piazza era animata, ma molto più tranquilla del negozio di giocattoli. Matthew si sedette su una panchina e richiamò l'amico.
«Allora, Vittorio, come sta Paul? È guarito dall'otite?» «Sta meglio, grazie. E tu, ti sei ripreso dalla tua strana serata?» «L'ho già dimenticata.» «In realtà è proprio questo il motivo della mia telefonata. Stamattina ho raccontato a Connie la tua disavventura e l'ho vista turbata.» «Davvero?» «Si è ricordata all'improvviso di episodio. Circa un anno fa, una sera in cui io non ero al ristorante, accolse al Numero 5 una giovane donna che affermava di avere un appuntamento con te. La ragazza ti aspettò per più di un'ora, ma tu non venisti.» Matthew si sentì affluire il sangue alle tempie.
«Ma perché Connie non me ne ha mai parlato?» «Perché successe pochi giorni prima dell'incidente di Kate. Intendeva telefonarti per riferirtelo, ma la morte di tua moglie rese l'episodio insignificante. Connie stessa se n'era dimenticata finché non gliene ho riparlato io stamattina.» «Sai che aspetto avesse la donna?» «Secondo Connie, era una newyorchese di una trentina d'anni, piuttosto bella ed elegante. Connie è da sua madre con Paul, ma le ho detto di chiamarti nel pomeriggio e vedrai che ti racconterà di più.» «Hai modo di sapere la data esatta in cui quella donna cenò al Numero 5?» «Senti, adesso sono in macchina e sto andando al ristorante. Cercherò di ritrovare la prenotazione nel nostro database. Connie si ricorda che era la sera in cui suo cugino, che vive alle Hawaii, era venuto a cena.» «Grazie, Vittorio. Aspetto che mi richiami. È molto importante.» New York Ristorante Imperator Turno di mezzogiorno A Emma la mano tremò leggermente mentre versava il vino bianco nei bicchieri di cristallo.
«Signora, signore, per accompagnare queste cosce di rana caramellate con contorno di favette impanate nel panpepato e saltate all'aglio, vi propongo un vino della valle del Rodano, un condrieu del 2008, vitigno viognier.» La giovane donna deglutì, schiarendosi la voce. Non soltanto aveva la mano che tremava, ma si sentiva vacillare tutta. La sera prima era rimasta letteralmente sconvolta. Non aveva quasi chiuso occhio e sentiva una forte acidità di stomaco risalire per l'esofago.
«Noterete la bella vivacità del condrieu, teso ed equilibrato. E un vino aromatico, esuberante e floreale.» Terminato il servizio al tavolo, fece capire con un cenno al suo assistente che aveva bisogno di una pausa.
Colta da vertigini, uscì dalla sala per chiudersi nel bagno. Si sentiva sudata e febbricitante, mentre un continuo, fastidioso ronzio alle orecchie le martellava il cranio. Lo stomaco le faceva male come se fosse tutto eroso dai succhi gastrici. Perché le doleva tanto? Perché si sentiva così debole e spossata? Aveva bisogno di dormire. Quando era stanca, tutto le„si accelerava nella testa. I pensieri negativi non le davano tregua, spingendola a fuggire dalla realtà per immergersi in un inquietante mondo fantastico.
In preda a uno spasmo, si chinò sul water e vomitò la colazione, rimanendo per più di un minuto in quella posizione per cercare di riprendere fiato. La storia della posta elettronica proveniente dal futuro la spaventava. Quello era il dicembre 2010 e lei non poteva corrispondere con un uomo che viveva nel dicembre 2011. Matthew Shapiro era quindi uno squilibrato o un farabutto. Nell'uno o nell'altro caso, si trattava di un elemento minaccioso; per lei e per la sua salute mentale. Ne aveva abbastanza di sciroccati. Stavolta era veramente troppo. Negli ultimi mesi il suo umore si era stabilizzato, ma adesso Emma rischiava di ripiombare nell'angoscia. Avrebbe avuto bisogno di un farmaco per ritrovare un po' di calma. Avrebbe dovuto parlare con la sua terapeuta, ma anche Margaret Wood l'aveva piantata in asso, andandosene ad Aspen per le vacanze di Natale.
Merda!
Si rialzò e, appoggiando le mani ai due lati del lavandino, si guardò allo specchio. Le colava dalle labbra un filo di bile. Se lo asciugò con la salvietta di carta e si spruzzò acqua sul viso. Doveva cercare di ragionare e di ritrovare la calma. Quell'uomo non poteva farle niente. Se avesse cercato di ricontattarla, lei non avrebbe risposto ai suoi messaggi e, in caso avesse insistito, si sarebbe rivolta alla polizia. Se poi Shapiro avesse tentato di avvicinarla, avrebbe saputo come riceverlo: portava sempre in borsa un taser, una pistola a impulsi elettrici. Con il suo colore rosa caramella, il taser somigliava più a un sex toy che a un'arma di autodifesa, ma era incredibilmente efficace. Abbastanza rasserenata, Emma trasse un respiro profondo, si ravviò i capelli e tornò al lavoro.
Boston «Posso avere un panino all'insalata di astice, un lobster roll, con patate fritte?» chiese Emily.
«Semmai con insalata», disse Matthew.
«Oh, no, perché? Sono meglio le patatine.» «Va bene», concesse lui, «ma allora niente dolce, d'accordo?» «D'accordo», convenne la bambina cercando di fargli l'occhiolino.
Matthew confermò l'ordinazione con il cameriere e gli restituì il menù. Si erano seduti a un tavolino del Bistro 66, in Newbury Street. Dopo il giro nel negozio di giocattoli, April li aveva lasciati per andare alla galleria. Matthew era contento di vedere che Emily aveva ancora gli occhi sfavillanti. Le chiese quali fossero i regali che voleva chiedere nella sua lettera a Babbo Natale, e lei tirò fuori del suo piccolo zaino l'iPad e domandò se non si potesse mandargli piuttosto un'email. Matthew rispose di no. La tendenza a invadere con la tecnologia ogni dimensione della vita quotidiana lo irritava sempre di più. Soprattutto quel particolare giorno.
Era appena stato servito loro il panino all'astice che squillò il cellulare. Era Vittorio. Connie non era ancora tornata, ma lui aveva fatto delle ricerche per conto suo e ritrovato il giorno esatto in cui era venuta la giovane donna che sosteneva di avere un appuntamento con lui.
«Ieri faceva esattamente un anno: il 20 dicembre 2010.» Matthew chiuse gli occhi e sospirò. L'incubo continuava.
«Ma non è tutto», riprese il ristoratore. «Pensa che ho un filmato in cui la si vede.» «Chi?» «La donna.» «Stai scherzando?» «No, ti spiego: nel novembre dell'anno scorso, durante la notte, il nostro ristorante fu svaligiato e saccheggiato in due riprese, a poche ore di distanza.»

«Mi ricordo. Pensavi che fosse stato un colpo dei fratelli Mancini.» «Sì, non hanno mai sopportato che gli facessimo concorrenza ma non sono mai riuscito a dimostrare che fossero loro. In poche parole, a quell'epoca sia la polizia sia la nostra compagnia di assicurazioni ci avevano raccomandato di dotarci di videosorveglianza. Per circa tre mesi, delle telecamere funzionarono ventiquattr'ore su ventiquattro. Tutto era registrato, trasmesso a un server e archiviato su disco rigido.» «E sei riuscito a ripescare le immagini della sera del 20 dicembre?» «Proprio così. E ho anche ritrovato la ragazza. Era la sola arrivata non accompagnata, quella sera.» «Che fortuna insperata, Vittorio. Mi potresti mandare una copia del video?» «Te l'ho già inviata per posta elettronica, amico mio.» Matthew chiuse la comunicazione e tirò fuori il portatile dalla borsa per connetterlo alla rete wi-fi del Bistro 66. Ancora nessuna notizia di Emma Lovenstein, ma l'email di Vittorio gli era arrivata. Il video pesava parecchio e ci mise un'eternità a scaricarsi.
«Per favore, papà, posso avere un soufflé alla cioccolata?» «No, tesoro, abbiamo detto niente dolci. Finisci il panino.» Matthew lanciò il video a tutto schermo. Non c'era da stupirsi che l'immagine avesse la grana spessa e appannata delle telecamere di sorveglianza. La sequenza isolata da Vittorio durava meno di due minuti. La telecamera era montata in alto, in un angolo della sala principale. Un orologio digitale al piede dell'immagine mostrava che alle 20.01 una giovane donna vestita elegantemente era entrata nel ristorante. La si vedeva parlare per breve tempo con Connie, prima di uscire dal quadro. Una schermata annebbiata indicava un taglio, dopodiché la stessa scena ricompariva un'ora e mezzo dopo, alle 21.29 in punto. Vi si vedeva distintamente la donna lasciare in fretta il ristorante. Poi l'immagine si annebbiava e il filmato terminava. Matthew riavviò la sequenza e premette pausa per fissare il momento preciso in cui la giovane metteva piede nel ristorante. Non c'era dubbio: per quanto assurdo potesse sembrare, si trattava proprio di Emma Lovenstein.
«Rimettiti il cappotto, tesoro. Ce ne andiamo.» Tirò fuori di tasca tre biglietti da venti dollari e uscì dal ristorante senza aspettare il resto.
«Ho una commissione urgente da sbrigare, April. Potresti per favore prestarmi la macchina e tenere Emily per un'ora o due?» Matthew era appena entrato con la figlia in braccio nella galleria diretta dalla sua coinquilina. I muri della sala d'esposizione erano tappezzati di stampe giapponesi erotiche e di foto libertine scattate in luoghi di piacere ai primi del ventesimo secolo. Lo spazio era occupato da statue africane di sapore inequivocabile, da un'esposizione di astucci penici e da sculture moderne dalle smisurate forme falliche. Anche se la galleria non aveva niente a che vedere con un sexy-shop, non era un posto adatto né ai bacchettoni né ai bambini.
Matthew attraversò di corsa la sala per mettere Emily «al sicuro» nell'ufficio di April.
«Fa' la brava e aspettami qui, va bene, cara?» «No, voglio tornare a casa.» Matthew tirò fuori della borsa il tablet e glielo porse.
«Vuoi vedere un film? Per esempio Gli aristogatti o Red e Toby nemici-amici?» «No, non mi piacciono, quelli. Io voglio vedere Game of Thrones.» «Assolutamente no, è troppo violento. Non è una serie adatta a una bambina.» Emily chinò la testa e scoppiò in lacrime. Matthew si massaggi le tempie. Aveva l'emicrania e sua figlia era stanca, eccitata Per avere corso di qua e di là nel Toys Bazaar. Aveva bisogno di riposarsi, di dormire tranquilla nel suo letto, non di guardare un serial per adulti nel retro di una reggia del porno. April arrivò in suo aiuto.
«Credo sia meglio che io rientri a casa con Emily.» «Ti ringrazio. Ne avrò al massimo per un'ora e mezzo.» «Cos'è questa commissione che devi fare?» «Ti racconterò. Promesso.» «Trattami bene la macchina, eh?» esclamò lei lanciandogli le chiavi.
Matthew salì sulla Camaro, parcheggiata sotto i grandi alberi di Commonwealth Avenue, e come se andasse al lavoro lasciò Back Bay per il ponte sul fiume di Massachusetts Avenue, proseguendo poi la sua corsa verso Cambridge. Superò l'università, costeggiò il grande lago di Fresh Pond e continuò ancora per parecchi chilometri fino a Belmont. Doveva ritrovare l'uomo che gli aveva venduto il computer. L'indirizzo del cliente di April era rimasto nel GPS, il che gli permetteva di ritrovare facilmente la strada di villette del piccolo quartiere residenziale. Stavolta parcheggiò proprio di fronte al cottage dal rivestimento di legno e dal tetto spiovente. Davanti alla porta fu accolto dai brontolìi dello shar pei marrone chiaro che aveva già notato il giorno della vendita. Infagottato nelle pieghe della sua pelle come in un cappotto troppo grande, il cane montava una guardia attenta e aggressiva.
«Buono, Clovis!» gridò il proprietario comparendo sulla soglia.
Mentre l'uomo attraversava il prato per andare da lui, Matthew trovò sul campanello il nome «Lovenstein».
«Desidera?» Era proprio la persona che gli aveva venduto il Mac d'occasione: stesso fisico austero, stessi occhiali quadrati, stessa tenuta da beccamorto.
«Buongiorno, signor Lovenstein, potrebbe concedermi qualche secondo?»

«A quale proposito?» «Due giorni fa mi ha venduto un computer, quando ha fatto lo 'sgombero totale' che...» «Sì, l'ho riconosciuta, ma la avverto che non faccio servizio di assistenza come per i prodotti in garanzia.» «Non si tratta di questo. Vorrei solo farle alcune domande. Posso entrare?» «No. Che tipo di domande?» «Ha detto che quel computer apparteneva a sua sorella, no?» «Uhm», fece laconico lui.
Senza scoraggiarsi, Matthew tirò fuori della tasca del cappotto le foto che aveva stampato.
«Sua sorella è la giovane donna che appare in queste foto?» «Sì, è Emma. Come se le è procurate?» «Sono rimaste nel disco rigido del computer. Gliele mando per email, se vuole.» Lovenstein annuì in silenzio.
«Mi può dire dove si trova Emma, in questo momento?» continuò Matthew. «Vorrei tanto parlarle.» «Vuole parlarle!» «Sì, è una cosa personale. E importante.» «Ci può sempre provare, ma dubito che Emma le risponda.» «Perché mai?» «Perché è morta.»

  
8

«Anastasis»



La paura ha distrutto più cose in questo mondo
di quante ne abbia create la gioia.
PAUL MORAND


«FIN dall'adolescenza, mia sorella ha... aveva sempre mostrato una tendenza lunatica e malinconica, un carattere che definirei 'ciclotimico'.» Daniel Lovenstein parlava con affettazione. Alla fine, cedendo all'insistenza di Matthew, aveva accettato di farlo entrare e di raccontargli la storia di Emma.
«Era molto umorale», continuò. «Un giorno era la ragazza più felice del mondo, piena di entusiasmo e di progetti, mentre il giorno dopo vedeva tutto nero e non trovava senso in niente. Col tempo, l'alternarsi di stati di euforia e depressione si è intensificato. Negli ultimi anni mi è parso evidente che soffrisse di un disturbo della personalità. Per lunghi mesi si aveva l'impressione che stesse bene, poi però seguiva sempre una ricaduta più grave di quella precedente.» Si interruppe qualche secondo per prendere un sorso di tè. I due uomini erano l'uno di fronte all'altro, sprofondati in poltrone imbottite. Triste e fredda, la stanza era immersa nella penombra, come infestata dal fantasma di Emma.
«Erano soprattutto le relazioni amorose a farle perdere l'equilibrio», confidò Daniel Lovenstein con tono amaro. «Emma si innamorava troppo facilmente di certi uomini e la delusione che ne seguiva era tanto più dolorosa. Con il passare degli anni, non ci ha risparmiato niente: crisi isteriche, tentativi di suicidio, lesioni autoinferte, ricoveri nel reparto psichiatrico. Non le è mai stato diagnosticato ufficialmente il disturbo bipolare, ma per me era indubbio che ne soffrisse.» Più il racconto procedeva, più Matthew si sentiva a disagio, perché il rancore del fratello nei confronti della sorella era palpabile. Ma quanta verità c'era, nella sua esposizione dei fatti? Lovenstein non esitava a formulare ipotesi che, a quanto credeva di capire Matthew, non erano mai state confermate dai medici.
Daniel si chinò ad afferrare le foto sul tavolino.
«Tre mesi fa, durante l'estate, si è rimessa con un ex amante, questo qui», disse indicando l'uomo che era con Emma nelle immagini. «E un francese, Francois Giraud, erede di vignaioli del Bordolese, che l'ha fatta molto soffrire. Tanto per cambiare, lei è stata troppo ingenua. Ha creduto che stavolta fosse pronto a lasciare la moglie. Non era così, naturalmente, e allora ha tentato di nuovo il suicidio, stavolta con esito fatale.» La sua spiegazione fu interrotta dall'improvviso abbaiare dello shar pei.
«Era il cane di Emma, vero?» intuì Matthew.
«Sì, Clovis. Gli era molto affezionata. A suo dire, era la sola 'persona' che non l'avesse mai tradita.» Matthew si ricordò di come Emma, parlando del cane nelle email che si erano scambiati, avesse usato gli stessi termini.
«Non vorrei risvegliare dei ricordi dolorosi, signor Lovenstein, ma in che modo è morta sua sorella?» «Si è buttata sotto un treno a White Plains lo scorso quindici agosto. Aveva senz'altro assunto dei farmaci. Per lo meno, nel suo appartamento erano sparsi dappertutto flaconi di pillole: benzodiazepine, sonniferi e altre porcherie.» Oppresso dalla rievocazione di eventi dolorosi, si alzò di colpo dalla poltrona per far capire all'ospite che il colloquio era finito.
«Perché teneva tanto a parlare con mia sorella?» chiese riaccompagnandolo alla porta.
Rinunciando a spiegargli i suoi veri motivi, Matthew gli ributtò la palla: «Perché ha organizzato la vendita di tutte le sue cose?» La domanda punse Lovenstein nel vivo. «Per fare tabula rasa e staccarmi da lei», rispose con veemenza. «I ricordi mi distruggono, mi uccidono a fuoco lento, mi incatenano alle rovine di un passato che mi ha già abbastanza tormentato.» Matthew annuì.
«Capisco», disse, uscendo dalla casa. Ma in cuor suo pensava proprio il contrario. Sapeva che quella battaglia era illusoria. Non si possono liquidare i ricordi con un semplice colpo di scopa. Essi restano in noi, nascosti nell'ombra, aspettando il momento in cui abbassiamo la guardia per riemergere dieci volte più forti.
Da: Matthew Shapiro A: Emma Lovenstein Oggetto: Parliamoci Data: 21 dicembre 2011 - Ore 13.45.03 Cara Emma, se è davanti al monitor, potrebbe farmelo sapere? Penso sia opportuno che parliamo di ciò che ci sta capitando.
Matt Da: Matthew Shapiro A: Emma Lovenstein Oggetto: Data: 21 dicembre 2011 - Ore 13.48.14 Emma, capisco che questa situazione la turbi e la inquieti. Anche a me fa paura, ma bisogna proprio che ne discutiamo.
Mi risponda, per favore.
Matt Matt cliccò per inviare il suo secondo messaggio. Aspettò febbrilmente un lungo minuto, sperando che la giovane donna gli rispondesse subito.
Dopo la sua visita a Daniel Lovenstein, era risalito sulla Camaro per tornare a Boston, ma dopo qualche chilometro si era fermato a un diner sulle sponde del Charles River. Il Brand New Day era un'antica carrozza ristorante cromata, dove si fermavano a mangiare sia persone di passaggio sia studenti di Harvard dopo l'allenamento di canottaggio. Seduto su una delle panche di finta pelle, Matt aveva tirato fuori il portatile e si era connesso a internet.
Non si era mai sentito in vita sua così turbato, così scosso nelle sue certezze. Le prove si stavano accumulando: la data delle email, il filmato inviato da Vittorio, la testimonianza del fratello di Emma che gli aveva rivelato che la sorella era morta... Tutto concorreva a fargli credere l'incredibile, ossia che grazie a quel computer portatile lui potesse comunicare con una donna che era deceduta nel 2011, ma che riceveva i suoi messaggi all'epoca in cui era ancora viva, nel 2010.
Com'era possibile? Non se lo spiegava, ma poteva già trarre alcune deduzioni. Tirò fuori la biro e il taccuino che teneva sempre in tasca e scarabocchiò degli appunti per cercare di chiarirsi le idee.
1. Emma Lovenstein riceve i miei messaggi con uno sfasamento di un anno esatto.
2. Il computer che ho comprato di seconda mano è il nostro unico mezzo di comunicazione.


Alzò la testa dal bloc notes e si chiese quanto fosse valido il secondo dato. I fatti erano evidenti: Emma non aveva ricevuto le email che le aveva inviato dal suo telefono, così come lui non aveva ricevuto i messaggi che lei gli aveva mandato dal suo smartphone. Perché?
Rifletté un attimo. Se Emma era morta da più di quattro mesi, i messaggi che lui le aveva inviato quel giorno senza passare per il fatidico computer dovevano essere pervenuti a una casella di posta elettronica che nessuno consultava più. Logico.
Ma che cos'era successo alle email che Emma gli aveva spedito nel 2010 dal suo cellulare? La logica avrebbe voluto che fossero state ricevute nel passato, mentre lui non ricordava di aver mai letto, nel dicembre del 2010, dei messaggi firmati Emma Lovenstein.
Certo, riceveva un sacco di posta, ma quelle email avrebbero dovuto colpirlo. Frugò nella memoria e trovò la soluzione: aveva cambiato provider, e quindi indirizzo elettronico, nel dicembre 2010! Il recapito al quale lei aveva scritto dal cellulare non esisteva proprio, all'epoca. Contento di aver trovato un po' di razionalità in quel caos, annotò un nuovo appunto sul taccuino: 3. Oggi, nel dicembre del 2011, non ho nessuna possibilità di entrare fisicamente in contatto con Emma...
Purtroppo è morta.
4.... ma non è vero il contrario!
Pensò a una possibilità: se l'avesse voluto, l'«Emma del 2010» avrebbe potuto in qualsiasi momento prendere un aereo per Boston e incontrare il «Matthew del 2010». L'avrebbe fatto? Considerata la celerità con cui stava rispondendo ai suoi messaggi, era ben poco probabile.
Innervosito, lanciò un'occhiata al monitor. Ancora nessuna notizia della sommelière. Provò a calarsi nella testa di Emma, una donna intelligente, ma emotivamente instabile. La immaginava fragile, spaventata e incredula davanti a quella strana situazione. Lui aveva il video di Vittorio e la conversazione con il fratello di lei per convincersi della realtà di ciò che stava vivendo, mentre la ragazza, priva di quegli elementi, doveva averlo preso per un pazzo e per quel motivo non rispondeva ai suoi appelli. Doveva trovare il modo di convincerla. Ma quale modo?
Guardò dalla finestra. Jogger e ciclisti si dividevano la pista che costeggiava il fiume, mentre sull'acqua i remi fendevano le onde tra le grida delle oche selvatiche.
Il diner si era svuotato dal momento del suo arrivo. Sul tavolo di formica accanto al suo, vide il giornale che aveva lasciato un cliente. Era il New York Times di quel giorno. Lo prese e gli balenò un'idea. Con l'aiuto della webcam del computer, fotografò la prima pagina del giornale mettendo bene in evidenza la data e mandò la foto a Emma, accompagnandola con poche parole: Da: Matthew Shapiro A: Emma Lovenstein Emma, se ha bisogno di una prova del fatto che io vivo nel 2011, eccola.
Mi mandi un cenno.
Matt New York Emma diede una scorsa al messaggio e cliccò per aprire l'allegato. Zoomò per ingrandire la foto e scosse la testa. Non c'era niente di più facile, al giorno d'oggi, che truccare un'immagine con Photoshop.
Questo non prova niente, pazzoide!


Boston Si udì un rombo di tuono. Il cielo si era all'improvviso coperto e un diluvio si abbatté sul diner. In pochi minuti, una folla chiassosa invase il ristorante per trovare riparo dalla pioggia.
Con gli occhi incollati allo schermo, Matthew ignorò il trambusto.
Ancora nessuna risposta.
Era chiaro che Emma non si era convinta vedendo la foto. Bisognava trovare qualcos'altro, e presto.
Si collegò con il sito del New York Times e avviò una ricerca negli archivi del quotidiano. Con pochi clic, trovò l'informazione che cercava.
Stavolta Emma non avrebbe potuto ignorarlo...
Da: Matthew Shapiro A: Emma Lovenstein La disturbo ancora una volta, Emma.
Anche se non mi risponde, sono sicuro che è davanti al monitor.
Ama lo sport? Il basket? Se è così, saprà senza dubbio che oggi (parlo del «suo» oggi) c'è una partita molto attesa, quella tra i Knicks di New York e i Celtics di Boston. Accenda la radio o la televisione sul canale 9 e le darò la prova che aspetta.
Matt Emma sentì il cuore battere più forte. A ogni nuovo messaggio di Matthew, aveva l'impressione che le ganasce di una morsa la stringessero, minacciando di stritolarla. Da un lato era eccitata, ma dall'altro era anche impaurita. Chiuse il portatile, se lo mise sottobraccio e, lasciato l'ufficio, prese l'ascensore per il piano di sotto, dove si trovava la sala di riposo del persnaie dell' Imperator. Aprì la porta ed entrò in un'ampia stanza dalle pareti chiare, arredata con tavoli di legno biondo, divani e poltrone Wassily.
Salutò le persone che conosceva: alcune impiegate, che chiacchieravano leggendo riviste su un soffice divano, e un gruppo di uomini radunati davanti al grande schermo piatto appeso al muro e intenti a guardare una partita di pallacanestro.
Si sedette a un tavolo, collegò la presa del suo laptop, poi si alzò per andare a prendere una bibita al distributore. Aprendo la lattina, si avvicinò al televisore.
«La partita è appena ripresa al Madison Square Garden», disse euforico il cronista, «e all'inizio di questo quarto e ultimo tempo i Knicks di New York conducono per 90 a 83. Fin dall 'inizio del match, le due squadre ci hanno offerto uno spettacolo combattuto e appassionante. I giocatori delle due formazioni rivaleggiano in...» Emma sentì un nodo allo stomaco. Era proprio la partita a cui aveva fatto riferimento Matthew. Tornò a sedersi al tavolo per seguirne un po' in disparte lo svolgimento. Dopo qualche minuto, apparve una nuova email sullo schermo del computer.
Da: Matthew Shapiro A: Emma Lovenstein Ha trovato un televisore o una radio, Emma? Per il momento i Knicks di New York sono in notevole vantaggio, vero? Se sta guardando la partita in un bar o un altro luogo pubblico, sono sicuro che gli uomini intorno a lei siano già convinti che la loro squadra vincerà...
Emma smise di leggere per alzare la testa e guardare il gruppo di impiegati con gli occhi incollati allo schermo. Tutti allegri, si davano il cinque e applaudivano a ogni punto guadagnato dalla loro squadra. Erano chiaramente in visibilio. Il messaggio proseguiva: . . . Tuttavia, saranno i Celtics di Boston a vincere, con un punteggio di 118 a 116. All'ultimo istante. Si ricordi bene il risultato, Emma: New York 116 - Boston 118 Non mi crede?
Allora guardi la televisione.
Emma sentì il cuore batterle forte in petto. Adesso quel tipo le faceva davvero paura. Tutta contratta, con le membra intorpidite, si alzò a fatica dalla sedia e si avvicinò al televisore per seguire la fine della partita, pregando in cuor suo che la previsione di Matthew non si realizzasse.
«A soli cinque minuti dalla fine, i Knicks di New York conducono sempre per 104 a 101.» Emma visse gli ultimi momenti del match con apprensione. Per scacciare l'ansia, provò a respirare profondamente. Mancavano meno di due minuti alla fine e i Knicks erano sempre in vantaggio.
Un minuto e trenta.
Un canestro dei Celtics portò le due squadre al pareggio, 113-113, poi la sorprendente successione di due tiri da tre punti da parte dell'una e dell'altra condusse a un secondo pareggio: 116-116.
Emma si morse il labbro. Mancavano ormai solo dieci secondi alla fine della partita, quando Paul Pierce, uno dei giocatori della squadra di Boston, si aprì abilmente un varco nella difesa avversaria e, liberandosi del marcatore, con un tiro in stepback andò a canestro e segnò due punti.
«Boston conduce per due punti! 118 a 116! I Knicks non si possono proprio dire fortunati!» Mentre Paul Pierce festeggiava la propria azione, lo stadio rimbombò di grida di delusione. Spaventata, Emma guardò il cronometro, che indicava «00,4». Restavano solo quattro decimi di secondo. Ormai la partita, per i newyorchesi, era perduta.
No! Perché, subito dopo la rimessa in gioco, un giocatore dei Knicks tentò l'impossibile: un tiro diretto a otto metri dal canestro. Un tiro che, con una traiettoria veramente miracolosa, fece centro.
«Un tiro strabiliante!» gridò il cronista. «Stoudemire ha indubbiamente realizzato il canestro più importante di tutta la sua carriera! I Knicks vincono il match per 119-a118!» Emma esultò con tutti i suoi colleghi, ma non per il loro stesso motivo. All'improvviso si sentì del tutto sollevata: Matthew si era sbagliato! Non viveva nel futuro! Non aveva potuto prevedere il risultato della partita! Lei non era pazza!
Sullo schermo, l'intero Madison Square Garden stava esplodendo. I giocatori newyorchesi iniziarono un giro dello stadio. Il pubblico si era alzato in piedi e stava scandendo grida di vittoria, quando l'arbitro chiese di rivedere l'azione alla moviola e le immagini mostrarono quello che nessuno aveva voluto notare: la palla era stata lanciata da Stoudemire pochi centesimi di secondo dopo che era stata fischiata la fine del match.
«Che finale, ragazzi! Al termine di una partita di incredibile intensità, con una suspense da film di Hitchcock, i Celtics hanno quindi battuto i Knicks per 118 a 116, interrompendo una serie di otto vittorie consecutive. »

In preda alla nausea, Emma si rifugiò alla toilette del piano.
Sto impazzendo.
Era terrorizzata, incapace di lottare contro il demone interno che le stava distruggendo la ragione. Come dare un senso a quel caos? Non poteva essere una montatura, perché la trasmissione era in diretta e non si poteva truccare una partita tanto combattuta. Fortuna? Forse Matthew aveva buttato lì a caso il risultato. Per un istante si aggrappò a quell'idea.
Merda.
Non si può comunicare con un uomo del futuro, non è assolutamente possibile*.
Si guardò allo specchio. Le si era sciolto il mascara e aveva un colorito terreo, cadaverico. Si tolse le macchie di trucco con un po' d'acqua, cercando nel frattempo di riordinare le idee. Le tornò allora in mente un particolare che l'aveva turbata: perché, nel primo messaggio che le aveva mandato, Matthew le aveva scritto: «Sono il nuovo proprietario del suo MacBook?» Che cosa significava, che nel futuro lei avrebbe venduto il suo portatile? Che quel tipo l'aveva acquistato di seconda mano e che, per una sorta di faglia temporale, al momento potevano corrispondere stando ciascuno su una linea cronologica differente? Era un'idea che non stava in piedi.
Con il respiro affannoso, come se avesse appena corso i cento metri, si appoggiò al muro e all'improvviso prese coscienza della sua vulnerabilità e della sua solitudine. Non aveva nessuno a cui chiedere consiglio o presso cui trovare conforto. Non aveva una vera famiglia con cui confidarsi, a parte un fratello rigido e sprezzante. Non aveva un vero amico. Nessun uomo. Perfino la psicologa, che pagava una cifra esorbitante, l'aveva abbandonata.
Le affiorò tuttavia alla memoria un nome improbabile: quello di Romuald Leblanc.
Se c'era una persona che poteva davvero aiutarla con quella storia del computer, era proprio il piccolo genio francese dell'informatica. 
Sentendosi all'improvviso rinfrancata, uscì dalla toilette e salì in ascensore al piano del reparto comunicazioni. C'era qualcuno di turno, ma quel sabato il servizio funzionava al rallentatore e in ogni caso lo stagista non lavorava nei weekend. Insistendo, riuscì a farsi dare il suo numero di cellulare e lo chiamò subito. Dopo due soli squilli, il ragazzo rispose con voce malferma: «Pronto».
«Ho bisogno di te, quattrocchi. Dove sei, sempre davanti ai tuoi schermi a sbirciare ragazze in tanga?»
  
9


I passeggeri del tempo Il futuro,
fantasma dalle mani vuote,
che promette tutto e non ha niente.
VICTOR HUGO


New York, 2010 Meatpacking District Un quarto d'ora dopo.
UN freddo pungente gelava le rive dell'Hudson.
Emma si chiuse la portiera alle spalle e, appena scesa dal taxi, fu investita da un vento ghiacciato. Intirizzita, affondò le mani nelle tasche del cappotto. In quel tardo pomeriggio, l'ex quartiere dei macelli era immerso nella nebbia. Si strinse bene la sciarpa attorno al collo e passò sotto l'arco d'acciaio che conduceva al Pier 54, l'imbarcadero storico dei transatlantici, il luogo in cui Romuald le aveva dato appuntamento.
Sentendo un rumore di motore, alzò la testa e vide una vera e propria squadriglia, una ventina di modellini radiocomandati di elicotteri e aerei che facevano giravolte nel cielo carico di neve. Sparsi per tutta l'area asfaltata, uomini di tutte le età rivaleggiavano in abilità pilotando i loro apparecchi.
Emma cercò con gli occhi Romuald e impiegò parecchi secondi a riconoscerlo. Infagottato in un pesante parka, il ragazzo aveva un berretto da sci che gli copriva le orecchie scendendogli fino alle sopracciglia e stava cercando di far decollare il suo apparecchio, un congegno a quattro eliche che restava disperatamente inchiodato al suolo.
«Ciao, testa di scarafaggio», gli disse avvicinandosi da dietro.
Sussultando, il ragazzo si aggiustò gli occhiali.
«Buongiorno, signorina Lovenstein.» «Dove siamo, qui, a una riunione di geek anonimi appassionati di aeromodellismo?» «Sono dei droni», spiegò lui.
«Che cosa?» «Questi piccoli apparecchi sono dei droni civili.» Affascinata, Emma guardò un elicottero quadrirotore in miniatura salire molto in alto, alla maniera degli aquiloni della sua infanzia, prima di ripiombare, dopo la massima accelerazione, sull'asfalto. Notò che nessuno degli apparecchi radiocomandati era uguale all'altro: aerei, elicotteri a quattro o sei rotori, oggetti a forma di disco volante. Degli UFO artigianali costruiti da una comunità di hobbisti e appassionati. Si immaginò quelle persone nel loro garage: informatici e maniaci della robotica, intenti a saldare componenti elettronici e pezzi a sé stanti per personalizzare il proprio apparecchio prima di uscire a collaudarlo davanti agli amici.
Sono proprio dei bambini.
Passò da un gruppo all'altro e constatò che quasi tutti i piloti avevano collegato il loro drone allo smartphone, per comandare l'apparecchio dal terminale mobile. Alcuni mettevano anche a bordo dei droni delle telecamere ultraleggere che filmavano e inviavano le immagini direttamente allo schermo del telefono.
Tornò da Romuald, che si stava ancora arrabattando con il suo quadrirotore. Nessuno si era sacrificato per aiutarlo, nessuna brava persona, all'interno della «comunità», gli stava dando una mano. Guardandolo, Emma provò pena per lui. Se lo figurò intelligente, solitario, un poco smarrito.
Come me.
«Perché il tuo non vola?»

«Non lo so», rispose lui con aria inquieta. «C'è troppo vento oppure non l'ho regolato bene o...» «Non è grave.» «Sì che lo è», replicò lui abbassando gli occhi.
Emma intuì che non gli capitava spesso di essere messo in difficoltà nel campo delle conoscenze informatiche. Cambiò argomento.
«Sono legali, almeno, questi affari?» chiese, combattuta tra l'ammirazione e l'inquietudine.
«I droni? Più o meno», rispose il ragazzo tirando su col naso. «Ci sono alcune regole da rispettare: non sorvolare esseri umani, mantenere l'apparecchio nel proprio campo visivo, non volare più alto di un centinaio di metri.» Emma annuì, stupita che quel tipo di tecnologia non fosse riservato esclusivamente ai militari o ai laboratori di ricerca. Che cosa impediva alla gente di utilizzare i droni per spiare i vicini o sorvolare terreni privati? Le si risvegliò all'improvviso la tendenza paranoica e immaginò la tappa successiva: droni in miniatura grandi quanto un insetto avrebbero potuto, in tutta riservatezza, filmare le persone nell'intimità e registrare le loro conversazioni. Un mondo di sorveglianza generalizzata. Il tipo di mondo in cui non voleva vivere.
Scacciò quell'idea e guardò verso nord. Più lontano, molto al disopra del lungofiume, si allungava serpeggiando la struttura d'acciaio e cemento della High Line newyorchese, ai piedi della quale si trovava il Caffè Novoski, dove si beveva la miglior cioccolata in tazza della città.
«Bene, metti via la tua roba», ordinò a Romuald. «Ti offro una bella merenda.» Caffè Novoski Dieci minuti dopo Romuald mandò giù un enorme boccone di strudel alle ciliegie, accompagnandolo con una tazzona colma di cioccolata calda.


«Ma di', che cosa sono, tre giorni che non mandi giù niente?» Il ragazzo annuì e divorò l'altra metà del dolce.
«Un giorno imparerò a mangiare in maniera educata davanti a una donna», promise, pulendosi con un tovagliolino di carta le briciole che gli erano rimaste incollate agli angoli della bocca.
Abbassò gli occhi, come spesso faceva, e si tirò giù il pullover come per nascondere la ciccia. Emma si preoccupò per lui.
«Dove abiti, Romuald?» «All'ostello della gioventù di Chelsea.» «Hai dato tue notizie ai tuoi genitori, di recente?» «Non si preoccupi», disse lui, evasivo.
«Sì che mi preoccupo, invece. Hai almeno dei soldi?» «Quelli che bastano», rispose. Si strofinò la testa nervosamente, cercando di indirizzare la conversazione verso altri argomenti. «Perché voleva vedermi?» «Vorrei che esaminassi il mio computer», rispose Emma tirando fuori della borsa il MacBook e mettendoglielo davanti.
Romuald bevve un altro sorso di cioccolata, poi sollevò il coperchio e vide la schermata di posta elettronica.
«Qual è il problema?» «Da qualche tempo ricevo delle email bizzarre. Potresti identificarne l'origine?» «Di solito non è un'operazione molto complicata.» «Va bene, allora mostrami quello che sai fare», lo sfidò lei. «Il problema riguarda tutta la mia corrispondenza con Matthew Shapiro.» Romuald selezionò rapidamente i messaggi mandati da Shapiro e li isolò in una cartella. Procedendo per ordine cronologico, aprì l'intestazione completa della prima email, passando in rivista l'indirizzo elettronico del mittente, il tipo di provider utilizzato e la sequenza dei vari server da cui era passato il messaggio dal momento dell'invio a quello della ricezione.
In teoria, niente era più facile che risalire alla fonte di un'email, solo che in quel caso qualcosa non andava. Un'espressione di contrarietà gli si dipinse in viso.
Si tolse gli occhiali e cominciò a pulirne le lenti sporche con un lembo del pullover. Irritata, Emma glieli strappò di mano, prese dalla borsa una salviettina, li pulì e glieli rimise sul naso.
«Allora?» esclamò con impazienza.
Senza rispondere, Romuald procedette ad aprire il secondo messaggio, che sottopose allo stesso trattamento, poi continuò con il terzo, una delle risposte che Emma aveva inviato a Matthew.
«Insomma, hai trovato qualcosa, testa di scarafaggio?» «Le... le date», mormorò lui. «Si direbbe che questo tizio le invii dei messaggi dal futuro...» «Sì, l'avevo notato, grazie. Come lo spieghi?» Romuald scosse la testa.
«Appunto, non me lo spiego.» «Fa' uno sforzo, per favore.» Il ragazzo selezionò uno dei messaggi di Matthew, poi, cliccando sul touchpad, ne aprì la sezione nascosta.
«Nella rete, gli scambi di dati si fanno tra due indirizzi IR no?» Emma assentì.
«Da un computer all'altro, lo stesso messaggio può transitare per diversi server intermediari che stampano automaticamente data e ora di ogni passaggio», continuò il giovane francese.
Emma si avvicinò. Sullo schermo si poteva seguire il percorso dell'email dal computer di Matthew al suo.
«Nel momento in cui quell'uomo le manda un messaggio», riprese Romuald, «i primi server appaiono tutti con la data del 2011, poi all'improvviso, nel bel mezzo del percorso, un server fa una sorta di 'salto temporale', passando al 2010. E il fenomeno inverso si verifica quando è lei a scrivergli.» «Dovrà pur esserci una spiegazione razionale», osservò Emma. «Nel tuo ambiente non hai mai sentito parlare di un fenomeno del genere? Magari nei forum o nelle discussioni tra hacker?»

Romuald scosse la testa. Lasciò passare qualche secondo, poi soggiunse: «Questa storia della data non è l'unica cosa inquietante». «Come sarebbe?» Il ragazzo indicò lo schermo con il dito. «In entrambi i casi, la fonte e il punto d'arrivo del messaggio sono identici. Come se l'email partisse nel 2011 per arrivare nel 2010... sullo stesso computer.» Misurò l'effetto devastante della sua rivelazione. Emma impallidì e quasi sobbalzò. Assumendo un atteggiamento rassicurante, lui promise di fare altre ricerche e di chiedere aiuto a persone più competenti.
Aveva appena offerto i suoi servigi che un gradevole trillo annunciò l'arrivo di nuova posta elettronica.
Emma girò lo schermo dalla propria parte. Come temeva, era un nuovo messaggio di Matthew.
Da: Matthew Shapiro A: Emma Lovenstein Oggetto: Il prezzo del silenzio Emma, faccio fatica a spiegarmi il suo silenzio. Non posso credere che non abbia voglia di sapere di più su quello che ci sta capitando, di scoprire ciò che ci è permesso o non ci è permesso fare. Posso capire i suoi timori, ma la curiosità dovrebbe essere più forte!
Forse ha bisogno di qualcos'altro ancora per convincersi. Che cosa vuole, una nuova prova? Dei soldi? Ecco l'una e gli altri, se così posso dire.
Mi risponda, la prego. Matt

Con il messaggio c'era un allegato, il PDF di un articolo del New York Times datato lunedì 23 dicembre 2010.
Una turista svedese guadagna cinque milioni di dollari al casinò nel giorno del suo centesimo compleanno Una turista fortunata ha vinto, nella notte tra sabato e domenica, oltre cinque milioni di dollari (per l'esattezza 5.023.466) con la slot machine Little Mermaid del casinò dell'hotel New Blenheim, ad Atlantic City. Una bella sommetta come regalo per il suo centesimo compleanno! Originaria di Stoccolma, la signora Lina Nordqvist faceva parte di un gruppo di pensionati svedesi che partecipavano a un viaggio organizzato nel nordest degli Stati Uniti. La fortunata centenaria ha raccontato di aver messo due dollari nella fessura della slot machine verso le otto e tre quarti di sera. Applaudita da tutta la sala giochi del New Blenheim, la signora Nordqvist ha confidato che userà buona parte del denaro vinto per realizzare il suo sogno: fare con il marito il giro del mondo in mongolfiera.
Nella foto che illustrava l'articolo, si vedeva la stravagante centenaria posare vicino alle slot machine aggrappandosi a un deambulatore. Indossava una felpa con la scritta i LOVE STOCKHOLM e aveva in testa una sorta di cappello di paglia. Emma guardò l'orologio. Le cinque e mezzo del pomeriggio. Le restavano solo tre ore per agire.
Bisognava fare presto. Non poteva più tentennare oltre: doveva sapere, una volta per tutte.
«Sai dove si possa noleggiare un'auto in questo quartiere, Romuald?» «Credo che ci sia un certo FastCar a trecento metri da qui, all'incrocio tra la Gansevoort e la Greenwich.» «Vado a vedere», disse lei lasciando sul tavolo una banconota da venti dollari.
Si alzò, abbottonò il cappotto e affrontò il freddo.


«Grazie dell'aiuto, Romuald. Abbi cura di te.» «La chiamo se trovo qualcosa. E, ehm, faccia attenzione, eh?» Emma uscì dal caffè salutandolo con la mano da dietro il vetro.
Quando arrivò davanti all'autonoleggio, era scesa la sera. Fece venti minuti di fila in una sala mal riscaldata, prima di essere ricevuta da un impiegato così odioso e arrogante che per poco non fu tentata di rinunciare al piano. Alla fine prese la prima macchina che lui le offrì, un Suv General Motors color arancia sanguigna. Pagò con la carta di credito, lasciò Manhattan attraverso lo Holland Tunnel e imboccò la strada diretta a sud.
Detestava guidare di notte, tanto più su una strada che non conosceva, ma il tragitto da New York ad Atlantic City era ben segnalato. In sostanza, bastava seguire la Garden State Parkway, l'autostrada che attraversava il New Jersey lungo la costa. Per tutto il viaggio si sforzò di non rimuginare sulle sue paure. Sintonizzò la radio su una stazione musicale e provò a canticchiare per sgombrare la mente da ogni preoccupazione. Ma troppi pensieri vi mulinavano.
Per la paura di arrivare in ritardo, lanciò frequenti occhiate all'orologio del cruscotto. Quando le parve di essere arrivata e si ritrovò intrappolata in un ingorgo, sentì aumentare ulteriormente l'angoscia. Una carambola in cui erano rimasti coinvolti diversi veicoli impediva di accedere all'expressway che costeggiava il mare.
Aspettò per un pezzo prima che il raccordo autostradale si liberasse, permettendole di entrare nella capitale del gioco della costa est, una città che le aveva sempre ispirato orrore e nella quale non aveva mai messo piede.
Nuova occhiata all'orologio.
Le otto e venticinque.
Sboccò in Atlantic Avenue, attraverso cui si accedeva al famoso boardwalk, l'interminabile lungomare su cui sorgevano quasi tutti i grandi casinò che avevano reso famosa la stazione balneare.
In quell'inizio di serata, la città ferveva di attività: l'arteria principale in cui si concentravano i più noti alberghi, ristoranti, cinema e teatri era invasa da pullman di turisti, limousine appariscenti e ridicoli risciò.
Le otto e ventinove.
Fermandosi a un semaforo tricolore, ne approfittò per cercare di orientarsi in mezzo a quella fantasmagoria di luci e insegne al neon. Al centro del boardwalk riconobbe la singolare sagoma del New Blenheim, il più recente casinò della città, di cui aveva visto delle foto in una rivista. Costruito a metà degli anni Duemila, era un complesso residenziale composto da quattro piramidi ondulate che evocavano grandi onde azzurre, svettanti sessanta metri sopra il mare. La notte, i quattro edifici e le loro duemila camere brillavano di una luce turchese e parevano una flotta di velieri intergalattici pronti a dare l'assalto a un nemico invisibile.
Le otto e trentaquattro.
Superò un taxi e si infilò nell'ingresso del parcheggio del New Blenheim, che occupava sei piani sotterranei. Parcheggiò l'auto a noleggio e corse ai numerosi ascensori che servivano la hall dell'albergo. Lì impiegò un po' di tempo a cercare su una mappa interattiva la sala delle slot machine.
Le otto e trentanove.
Il colossale complesso alberghiero contava una decina di ristoranti, un centro termale, una piscina, due locali notturni, tre bar e un'area dedicata ai giochi che si estendeva per oltre diecimila metri quadrati. Emma localizzò lo spazio riservato alle slot e memorizzò il tragitto per arrivarci. Non poteva permettersi il lusso di sbagliare.
Le otto e quarantuno.
Il mondo infernale del gioco si presentava come un immenso salone dal soffitto basso. Priva di finestre, la sala era deprimente, nonostante gli allegri tintinnii delle macchine. Emma cambiò cinquanta dollari in gettoni e si fece strada in fretta nel turbinio di luci e suoni dell'armata di one-armed bandit, com'erano chiamate le slot machine: Jackpot Candy, Cleopatra, Three Kings, White Orchid, Dangerous Beauty... Centinaia di macchine formavano un sistema tentacolare attivo ventiquattr'ore su ventiquattro. Si confuse tra la folla chiassosa ed eterogenea che si spostava da un'«attrazione» all'altra: giovani che si atteggiavano a grandi giocatori pronti a rischiare tutto, famiglie decise a far saltare il banco, viziosi del gioco dal viso di zombi che dilapidavano sistematicamente la loro fortuna, sciami di trentenni venuti a festeggiare l'addio al celibato di qualche loro amico, vecchi sciupati e sdentati che ritrovavano lì le gioie dei luna park della loro infanzia.
Le otto e quarantatré.
Emma non aveva mai capito come si potesse andare a perdersi in un posto del genere. Aveva la fronte imperlata di sudore e un senso di leggera vertigine. Sebbene fosse così vasta, la sala le pareva angusta e fuori del tempo. Provando una nausea incipiente, la ragazza si appoggiò un attimo alla parete per poi riprendere fiato.
Fu allora che notò un cappello di paglia fra i molti berretti. Si avvicinò al gruppo di pensionati svedesi. Non c'era dubbio, era proprio lei, Lina Nordqvist, la pensionata centenaria con la sua felpa con la scritta i LOVE STOCKHOLM: con la mano destra si stringeva al petto un grande bicchiere di gettoni, mentre con la sinistra si teneva aggrappata alla struttura metallica di un deambulatore a rotelle. Alla velocità di una lumaca, si diresse verso una fila di macchine in fondo alla quale si trovava la Little Mermaid. In barba alle buone maniere e alla buona educazione, Emma si sedette per prima davanti allo schermo.
«Du gick in i mig! Jag àr en gammal dam! Tillbaks till skolan med dig sa att du kan làra dig lite hyfs!» gridò la vecchia.
Le otto e quarantaquattro.
Di' quel che ti pare, chi se ne frega, pensò Emma scusandosi con poca convinzione. Aspettò che la svedese girasse sui tacchi e inserì il primo gettone nella fessura.
Le otto e quarantacinque.


Questa storia non ha senso, si ripetè premendo il pulsante del touchsereen per avviare il ciclo di combinazioni del congegno.
Stavolta lesjeux sontfaits, pensò, mentre i cinque rulli si mettevano a girare a tutta velocità su se stessi.
Boston, 2011 Ore 22.00
«Cazzo, cazzo e triplo cazzo!» gridò April estraendo dal forno uno stampo bollente.
Presa in contropiede dal rovente contenitore di vetro, lo lasciò cadere in terra, dove si fracassò.
Assopito sul divano, Matthew sussultò e si alzò di scatto. Dopo avere messo a letto la figlia, era crollato per la stanchezza davanti a La vita è meravigliosa, il classico di Frank Capra che per l'ennesima volta veniva trasmesso nell'imminenza del Natale.
«Dovresti fare ancora più rumore», suggerì all'amica. «Non sono sicuro che Emily si sia svegliata.» «Oh, piantala, il mio bel panpepato si è tutto bruciato», si lamentò lei. «Per una volta che avevo provato a mettermi ai fornelli!» Matthew si stropicciò gli occhi. Aveva freddo e si sentiva febbricitante e angosciato. Aveva passato il pomeriggio a inviare messaggi a Emma, accumulando prove per convincerla che quello che stavano vivendo era assolutamente reale, ma tutti i messaggi erano rimasti senza risposta. Passò dal soggiorno alla cucina, dove aiutò April a rimediare ai danni, poi controllò le email per la cinquecentesima volta nella giornata.
Questa volta, nella posta elettronica era segnalato l'arrivo di un messaggio. Proprio quando aveva perso le speranze, vide Emma rispondergli con poche, lapidarie righe.
Da: Emma Lovenstein A: Matthew Shapiro Oggetto: Jackpot Matthew, lei che ama tanto i giornali, dia un'occhiata all'articolo del New York Times.
Emma A che cosa alludeva? Perché voleva che consultasse ancora quell'articolo? Poteva darsi che...?
Sentendosi invadere dall'adrenalina, prese uno sgabello e si sedette davanti al computer posato sul piano di lavoro della cucina. Doveva chiarirsi le idee. Mentre si collegava agli archivi del New York Times, infilò una capsula nella macchina per l'espresso e si preparò un caffè ristretto. Trovò subito l'edizione di lunedì 23 dicembre 2010, ne scaricò una versione PDF e con il touchpad percorse le pagine alla ricerca dell'articolo. In un primo tempo non vide niente. Si ricordava però benissimo la foto surreale della centenaria svedese che, appoggiata al deambulatore, posava tutta fiera davanti alle sfavillanti slot machine; ma la foto era scomparsa. Si impose di rileggere e s'imbattè alla fine in un articolo molto più modesto, privo di immagini, che raccontava la storia del jackpot di Atlantic City.
Giovane newyorchese vince cinque milioni di dollari al casinò con un solo gettone Una giovane donna che vuole mantenere l'anonimato ha vinto sabato sera oltre cinque milioni di dollari (per l'esattezza 5.023.466) con la slot machine Little Mermaid del casinò dell'albergo New Blenheim, ad Atlantic City. Una bella sommetta vinta giocando solo due dollari. La fortunata ragazza ha raccontato che aveva appena messo piede nella sala da gioco quando, verso le otto e tre quarti, ha introdotto il gettone nella slot machine. Applaudita da tutti i giocatori del New Blenheim, ha detto che userà una parte del denaro per «comprare una nuova auto, ma non certo un nuovo computer».


Stupefatto, Matthew lesse l'articolo una seconda volta, valutandone tutte le implicazioni. Aveva la gola secca e la fronte madida di sudore. Cercò di bere un sorso di caffè, ma fece fatica a mandarlo giù. Stava per alzarsi dallo..sgabello, quando un nuovo messaggio si materializzò sullo schermo.
Da: Emma Lovenstein A: Matthew Shapiro Allora, Matthew, che cosa facciamo, adesso?
Emma La domanda gli rimbombò nella mente come un'eco. Che fare, adesso? A rigor di termini, non ne aveva la più pallida idea, ma almeno non era più l'unico a chiederselo.
All'improvviso si rese conto di un fatto molto più importante, che lo turbò profondamente: nel momento in cui Emma gli aveva inviato quel messaggio, Kate era ancora viva...

  
10

La mano che culla il bambino


La mano che culla il bambino
è la mano che domina il mondo.
WILLIAM WALLACE


Boston, 22 dicembre 2010.
Ore 11.00 del mattino
INVIDIA.
Risentimento.
Gelosia.
Il miscuglio di sentimenti provati da Emma mentre osservava la felicità della famiglia Shapiro aveva un gusto amaro.
Quella domenica mattina, Matthew, sua moglie e la piccola Emily stavano passeggiando per i viali coperti di neve del Public Garden. Il grande parco bostoniano era ricoperto da un fine strato di neve farinosa caduta all'alba e quella prima nevicata invernale aveva imbiancato il paesaggio, dando alla città un'aria di festa.
«Vieni qui in braccio, tesoro», disse Matthew, sollevando la figlia da terra per mostrarle un grande cigno argenteo che inseguiva un gruppo di anatre sulle acque calme del lago.
A pochi metri da lì, seduta su una panchina, Emma osservava la scena senza cercare di nascondere la sua presenza. Non correva nessun rischio di essere notata, poiché il «Matthew del 2010» non conosceva né il suo viso né la sua esistenza. Una situazione paradossale, che le sembrava improbabile quanto eccitante. Grazie a un buon sonno aveva ritrovato un po' di calma. Aveva dormito tutta la notte sull'autobus Greyhound che da Atlantic City l'aveva portata a Boston. Il giorno prima, dopo la vincita dell'enorme jackpot, l'amministrazione del casinò le aveva fatto compilare alcuni moduli, una formalità necessaria perché la somma potesse esserle accreditata in banca. Dalle finestre del New Bertiheim aveva visto i primi fiocchi nel cielo di Atlantic City. Poiché non aveva nessuna voglia di guidare per ore sotto la neve, aveva dato le chiavi della macchina al portiere dell'albergo del casinò perché la restituisse a uno degli autonoleggi della città, quindi aveva preso un taxi per la stazione degli autobus e comprato un biglietto per Boston. Mezzo vuoto, il pullman era partito da Atlantic City alle undici e un quarto di sera e l'autista aveva proceduto per tutta la notte a un ritmo tranquillo. Emma aveva aperto un occhio in occasione di una sosta a Hartford, ma si era svegliata del tutto solo quando, alle otto del mattino, il Greyhound aveva varcato le porte della capitale del Massachusetts.
Era scesa al FourSeasons, il grande albergo che dava sul parco; con diversi milioni di dollari in banca, poteva ormai permettersi questo lusso. Aveva chiamato l'Imperator per dire che era malata e non sarebbe andata a lavorare per tutta la settimana, poi si era fatta la doccia, aveva comprato dei vestiti caldi alla boutique dell'hotel ed era uscita dirigendosi verso le viuzze tortuose di Beacon Hill. Non aveva piani precisi in testa, ma soltanto interrogativi. Bisognava avvicinare Matthew? Per dirgli che cosa? E come poteva farlo senza passare per matta?
Prima di prendere una decisione, doveva studiare l'uomo. Conosceva il suo indirizzo: una villetta all'angolo tra Louisburg Square e Willow Street. Recandovisi, era rimasta colpita dal singolare fascino di Beacon Hill. Camminando sui suoi marciapiedi dalle lastre deformate, si era immaginata nei panni di un'eroina di Henry James. L'intero quartiere pareva fermo al diciannovesimo secolo. Le facciate dei negozi erano incorniciate da decorazioni di legno dipinto, i lampioni a gas diffondevano una luce d'altri tempi, mentre le strette viuzze procedevano serpeggiando verso giardini segreti di cui si intravedevano gli alberi dietro cancelli di ferro battuto.
Aveva trovato facilmente la casa degli Shapiro, decorata con ghirlande e corone di abete ornate di pigne e nastri. Come fuori del tempo, aveva atteso quasi un'ora, animata dall'incredibile impressione di muoversi dentro uno snow globe riemerso dall'infanzia: una gigantesca palla di vetro che fosse stata scossa durante la notte per far cadere una neve luccicante sui mattoni rossi delle case. Le pareva che una cupola invisibile la proteggesse dalle aggressioni e dalla follia del mondo.
Verso le dieci, la porta si era aperta e aveva visto per la prima volta lui, Matthew, in carne e ossa. Con un berretto di lana in testa, l'uomo aveva sceso prudentemente i gradini scivolosi della casa, tenendo la figlia in braccio. Arrivato in fondo alla scala, aveva deposto Emily nel passeggino, canticchiandole il ritornello di una buffa filastrocca. Le era parso ancor più affascinante di quanto si fosse immaginata. Aveva ritrovato nel suo viso lo stesso carattere sano, franco e solido che era trapelato dalle email. E vederlo premuroso verso sua figlia lo rendeva ancora più attraente.
Poi aveva visto lei, l'altra donna, Kate Shapiro. Una bionda esile e slanciata, che non era solo bella, ma... perfetta. Aveva una bellezza classica, molto aristocratica, venata di dolcezza materna e di mistero: grandi occhi limpidi, zigomi sporgenti, carnagione chiara, labbra piene, uno chignon da eroina hitchcockiana.
Dopo aver accusato il colpo (Kate era il tipo di donna di fronte alla quale lei si sentiva brutta), Emma aveva seguito la famigliola fino ai giardini pubblici di Boston, il parco che fungeva da trait d'union tra Beacon Hill e Back Bay.
«Guarda, tesoro», disse Kate alla figlia indicando uno scoiattolo la cui folta coda spuntava da dietro un albero.
La bambina saltò giù dal passeggino per inseguire l'animale, ma dopo due passi cadde lunga distesa, con il naso nella neve farinosa. Era più irritata che dolorante, ma scoppiò ugualmente in lacrime.


«Su, amore, vieni da papà.» Matthew la rimise nel passeggino e i tre continuarono la passeggiata, attraversando Charles Street per raggiungere il Boston Common, dove nei mesi invernali veniva installata una pista di pattinaggio. Per consolare la bambina, Kate comprò delle caldarroste alla bancarella di un venditore ambulante e i tre le mangiarono guardando i pattinatori eseguire figure audaci o cadere pesantemente sul ghiaccio. Quelli che cadevano facevano ridere molto Emily.
«E più divertente quando cadono gli altri di quando cadiamo noi, eh, piccolina?» la punzecchiò suo padre.
Pian piano si diressero verso il centro del grande prato in cui era radunata la maggior parte delle persone intente a passeggiare. Matthew si issò la figlia in spalla. Con gli occhi che brillavano, la bambina ammirò le ricche decorazioni dell'enorme albero di Natale che, per antica tradizione, la città di Halifax offriva ogni anno agli abitanti di Boston.
A pochi passi da lì, Emma fissava Emily. Anche lei, come la bambina, aveva gli occhi ardenti, ma la fiamma che li animava era venata di amarezza.
Non aveva mai conosciuto quella felicità famigliare, non aveva mai avuto la tranquillità che emanava da quelle tre persone, legate da un amore evidente e reciproco. Perché? Che cos'aveva lei di meno, rispetto agli altri, per non meritarsi di essere felice?
Boston 22 dicembre 2011 Nel cuore della notte Con addosso i pantaloni del pigiama e una T-shirt dei Red Sox, Matthew accese la batteria di faretti che circondava lo specchio del bagno.
Non riusciva a chiudere occhio. Aveva la gola secca, le palpitazioni e un'orrenda emicrania. Cercò due capsule di ibuprofene nell'armadietto dei medicinali e le inghiottì con un sorso d'acqua. Scese la scala per andare in cucina. Per tre ore si era rigirato nel letto e in quelle tre ore non era riuscito a togliersi di testa un'idea che gli era parsa a poco a poco sempre più chiara. Era un'idea folle, troppo bella per essere vera, che gli dava le vertigini: doveva fare di tutto per convincere Emma a impedire l'incidente di Kate. Riflettendo su quell'eventualità, gli tornava continuamente in mente una parola: anastasis, il termine con cui i greci designavano la resurrezione dei morti. Come in un romanzo di fantascienza. C'era davvero la possibilità di tornare indietro per cambiare il corso della propria esistenza? Era una speranza fragile, ma, se l'opportunità esisteva, doveva giocarsela fino in fondo.
Pensò al sogno folle che avevano condiviso tutti gli uomini: risalire nel tempo per correggere i propri errori e le ingiustizie della vita. Pensò al mito di Orfeo e si vide nei panni del suonatore di lira sceso alle porte degli inferi per supplicare gli dei di rendergli Euridice, la moglie defunta. Kate era la sua Euridice, ma per riportarla in vita Matthew aveva disperatamente bisogno dell'aiuto di Emma Lovenstein.
Nella penombra, accese l'applique sotto la credenza di legno laccato della cucina. Sollevò il coperchio del computer portatile, si sedette su uno sgabello e scrisse a Emma un messaggio nel quale mise tutto il suo cuore e tutta la sua fiducia.
Boston 22 dicembre 2010.
La famiglia Shapiro lasciò i prati del Boston Common per dirigersi a est. Emma la seguì prudentemente, restando a una certa distanza e cercando di orientarsi e familiarizzarsi con la città. Boston le era subito piaciuta; le pareva più chic, più civile e meno ruvida e agitata di New York. A ogni crocevia, architettura classica e costruzioni moderne, passato e presente si fondevano in una quieta armonia.
Quando si avvicinò al North End e al quartiere italiano, le giunse subito alle narici il profumo del caffè torrefatto. In Hanover Street, le vetrine delle rosticcerie e delle pasticcerie facevano venire l'acquolina in bocca ai potenziali clienti, con le loro mozzarelle di bufala, i carciofi alla romana, il pan di spagna friabile, gli struffoli al miele, i cannoli zeppi di crema...
Tenendosi per mano, Matthew e sua moglie entrarono in un ristorante tutto vetrate, di cui dovevano essere degli habitué. The Factory era una trattoria alla moda dall'atmosfera metà famigliare e metà trendy, frequentata sia da studenti sempre connessi sia da giovani genitori radical-chic. Presa in contropiede, Emma li seguì e chiese un tavolo.
«E sola, signorina?» le domandò la cameriera in tono di rimprovero.
Emma assentì. Era presto, il ristorante cominciava a riempirsi, ma c'erano visibilmente dei posti liberi.
«Non ha prenotato, vero?» Secondo rimprovero.
Stavolta non rispose, sopportando in silenzio il sussiego con cui la stava trattando quella ragazza dai lineamenti fini, dai lunghi capelli lisci e dai minishorts che ne mettevano in risalto le gambe di ventenne.
«La prego di pazientare un attimo. Vado a vedere se ci resta qualcosa.» Emma la guardò fare dietrofront e attraversare la sala come se sfilasse su una passerella. Per darsi un contegno, si diresse al bar, un blocco di fibrocemento circondato da sgabelli di metallo, e ordinò una caipiroska.
Era spuntato il sole e una bella luce inondava la sala. L'atmosfera del locale, distribuito su vari piani, le ricordava quella di certi ristoranti newyorchesi dove l'arredo in stile industriale accostava le sfumature del grigio a quelle del legno grezzo. Sul bancone, un prosciutto di Parma stagionato era esposto come un'opera d'arte vicino a un'affettatrice manuale, mentre in fondo alla sala si sentiva crepitare il fuoco di un grande forno a legna per la pizza.
«Mi segua, prego, signorina», l'invitò la cameriera tornando da lei.
Con una strizzatina d'occhi, il barman fece capire a Emma che le avrebbe portato il cocktail al tavolo. Per caso, la fecero sedere su una panca a meno di dieci metri da Matthew e sua moglie. Contenta di avere trovato un posto d'osservazione privilegiato, Emma vuotò d'un fiato il bicchiere di caipiroska e ne ordinò un altro, assieme a una tartare di orata e a una pizzetta ai carciofi e rucola.
Strinse gli occhi per vedere meglio gli Shapiro. Erano una famiglia felice. Facevano continuamente battute e il loro buon umore era contagioso. Matthew si comportava da clown per divertire la figlia e Kate rideva di cuore. Erano un uomo e una donna visibilmente legati da una forte complicità: non si poteva fare a meno di commentare che «stavano bene insieme». Passò a guardare la piccola Emily.
E-mi-ly. Quelle tre sillabe le facevano uno strano effetto. Da sempre si era detta che era il nome che avrebbe dato a una figlia se fosse diventata madre. Quella coincidenza riaccendeva un'angoscia e un dolore mai spenti.
Non ne aveva mai parlato con nessuno, nemmeno con la psicoterapeuta, ma, nei due anni della sua tormentata relazione con Francois, aveva segretamente cercato di restare incinta. Aveva mentito al suo amante, facendogli credere di prendere la pillola. Invece aveva calcolato con precisione il periodo mestruale e, ogni volta che aveva potuto, aveva avuto rapporti sessuali al momento dell'ovulazione. All'inizio si era detta che, se avesse dato un figlio a Francois, lui si sarebbe deciso a lasciare la moglie, poi aveva capito che una gravidanza non avrebbe prodotto nessun effetto sulla sua incapacità di prendere una decisione; tuttavia le era rimasto il forte desiderio di restare incinta.
Purtroppo, il bambino sperato non era mai venuto Non se n'era troppo preoccupata; dopotutto, aveva solo trentatré anni. Ma un giorno, sfogliando un numero di Newsweek nella sala d'attesa della sua terapeuta, era capitata su un articolo che parlava del fenomeno della «menopausa precoce». Era stata colpita dalla testimonianza di donne la cui fertilità aveva cominciato a declinare all'inizio della trentina. A priori non aveva motivi particolari per preoccuparsi. Non aveva mai avuto problemi con le mestruazioni e il suo ciclo era regolare; ma dopo la lettura dell'articolo era stata colta da un'inquietudine sorda. Per porre fine alle sue angosce aveva finito per comprare in farmacia il «test dell'orologio biologico». Il metodo era serio: bisognava farsi prelevare il sangue il secondo giorno del ciclo, poi si inviava il campione in un laboratorio dove venivano analizzati i tre tipi di ormoni che permettevano di calcolare il numero di ovociti e di confrontarlo con quello tipico delle donne di quella fascia di età.
Emma aveva ricevuto i risultati per posta una settimana dopo e scoperto che le sue riserve di ovociti erano quelle di una donna di più di quarant'anni. La notizia l'aveva annientata. Avrebbe dovuto rifare il test o consultare un ginecologo, ma aveva preferito scacciare quel pensiero, che adesso le ritornava alla mente con la forza distruttiva di un boomerang.
Sentì paura e collera tambureggiarle nel petto e fu pervasa da un tremito in tutto il corpo. Per allontanare il ricordo, fissò lo sguardo sul tavolo della famiglia Shapiro.
Ma la collera non se ne andava. Aveva di nuovo la sensazione di essere vittima di un'ingiustizia ed era assalita da domande senza risposta. Perché alcune persone facevano gli incontri giusti al momento giusto? Perché alcune persone avevano il diritto all'amore e al conforto di una famiglia? Era una questione legata al merito, alla fortuna, al caso o al destino? Che cos'aveva sbagliato, lei, nella vita, per essere così sola, fragile e priva di fiducia in se stessa?
Chiamò con un cenno un cameriere chiedendogli di sparecchiare il tavolo, poi tirò fuori della borsa il portatile. Boston era una città ultraconnessa e il ristorante dava ai clienti libero accesso al suowi-fi. Emma aprì la posta elettronica per guardare le email e, come si aspettava, trovò un messaggio di Matthew.
Da: Matthew Shapiro A: Emma Lovenstein Oggetto: Sustine et abstine «Sopporta e astieniti.» Conosce questa massima degli stoici, Emma? Esorta ad accettare la fatalità e il destino. Per gli stoici, non serve a niente voler cambiare l'ordine di cose imposto dalla «provvidenza». Perché? Perché noi non abbiamo nessuna influenza sulla malattia, il tempo che passa o la morte della persona amata. Siamo del tutto impotenti davanti a queste calamità. Possiamo soltanto sopportarle nella maniera più umile possibile. È quello che sto cercando di fare da un anno: accettare la morte di mia moglie Kate, l'amore della mia vita. Accettare l'inaccettabile, elaborare il lutto, continuare a vivere per mia figlia Emily.
Ma tutto è cambiato dopo l'acquisto del suo computer. Come lei, non sono in grado di capire questa distorsione temporale. Vi sono senza dubbio fenomeni che resistono a ogni spiegazione logica o scientifica ed è a qualcosa del genere che ci troviamo di fronte noi due. Oggi, con il suo aiuto, ho forse la possibilità di ricevere una grazia che nessun uomo ha mai ottenuto dal cielo: la resurrezione della persona amata.
La supplico di aiutarmi, Emma. Lei ha nelle sue mani la vita di mia moglie. Le ho già raccontato le circostanze della sua morte: poco dopo le nove di sera del 24 dicembre, appena terminato il suo turno in ospedale, mia moglie è stata investita da un camion carico di farina nel momento in cui stava uscendo dal parcheggio. Lei ha il potere di prevenire l'incidente, Emma.
Faccia qualunque cosa per "impedirle di prendere la macchina: buchi i pneumatici della Mazda metta dello zucchero nel serbatoio della benzina, strappi un cavo dell'alimentazione sotto il cofano. Oppure trovi un mezzo per impedirle di lavorare quel giorno. Insomma, faccia tutto il possibile per evitare quel tragico evento! Lei mi può restituire mia moglie, ma soprattutto può restituire sua madre alla mia bambina. Può riunire la nostra famiglia. So che è una persona generosa. Non dubito che mi aiuterà e io le sarò eternamente grato.
Mi può domandare qualsiasi cosa, Emma. Se vuole altri soldi, posso darle i numeri del lotto, della Borsa o i risultati delle prossime partite di pallacanestro. Mi chieda qualunque somma e gliela farò guadagnare.
Un bacio, Matt Quel messaggio la fece uscire dai gangheri. Incapace di controllare l'impulsività, gli rispose con poche righe, nelle quali concentrò tutta la sua rabbia e la sua frustrazione.
Da: Emma Lovenstein A: Matthew Shapiro Oggetto: Re: Sustine et abstine Non sono i soldi che voglio, razza di idiota! Voglio l'amore! Voglio una famiglia! Voglio cose che non si comprano! 
Aveva appena cliccato l'invio quando si accorse che Matthew e la sua famiglia avevano lasciato il ristorante. Spense il computer e chiese il conto. Poiché non aveva più spiccioli, usò la carta di credito, ma dovette attendere che gliela riportassero.
Uscì in fretta su North Square e rivide gli Shapiro che passeggiavano per Hanover Street. Li seguì fino a un lungo spiazzo verde ornato di alberi, fontane, zampilli e lampioni. Dopo quindici anni di lavori colossali, Boston aveva realizzato l'impresa di rendere sotterranea l'immensa autostrada che in passato aveva deturpato la città. Al momento, le otto vie sotterranee correvano, invisibili, nelle viscere della città, e avevano lasciato in superficie uno spazio libero che era stato usato in modo nuovo, per creare una successione di isolotti pedonali verdeggianti.
Continuò a seguire la famigliola fino all' incrocio tra Cambridge e Tempie Street. Arrivati al passaggio pedonale, Matthew e Kate si scambiarono un bacio furtivo, poi si avviarono in direzioni opposte. Presa alla sprovvista, Emma esitò per qualche istante. Capì che Matthew e la figlia tornavano verso la loro casa di Beacon Hill e preferì pedinare Kate. La giovane donna passò davanti alle linee verticali dell'Old West Church, poi giunse in prossimità di un quartiere più moderno, dove i riflessi freddi del vetro e dell'acciaio avevano sostituito il fascino dei mattoni rossi. Emma alzò la testa a guardare un tabellone elettronico: si trovava davanti all'ingresso principale dell'MGH, il Massachusetts General Hospital, uno dei più antichi e grandi ospedali del Paese.
Era un complesso tentacolare, con vari palazzi ammassati gli uni contro gli altri senza armonia né logica apparenti. Si intuiva che, con il passare degli anni, l'ospedale si era sviluppato secondo il modello di una città-fungo. Al palazzo iniziale si era aggiunto un grappolo di nuovi edifici sempre più vasti e alti. Il centro ospedaliero era ancora in via di accrescimento: dal suolo si levava infatti un'enorme massa di cemento circondata di gru, benne, escavatori a cucchiaio e baracche di cantiere.
Kate penetrò disinvoltamente in quell'ambiente ostile per raggiungere un imponente cubo di vetro turchese: l'immobile che ospitava lo Heart Center. Salì con passo agile i gradini che conducevano alle porte automatiche e sparì dentro l'edificio. Emma allora intuì che si accingeva a fare il turno di guardia nel reparto cardiochirurgico dell'MGH.
Esitò. Impossibile seguire la donna all'interno dell'ospedale: l'avrebbero subito notata e cacciata via. Del resto, che cosa ci sarebbe andata a fare, lì dentro? Fu tentata di rinunciare, ma la curiosità era molto forte, addirittura divorante. Soprattutto, si sentiva l'adrenalina nelle vene e questo le procurava un'eccitazione che le toglieva ogni inibizione e la rendeva intrepida.
Si guardò intorno cercando un'idea. Benché fosse domenica, il parcheggio era ingombro di camion in consegna parcheggiati in doppia fila. Con i portelloni aperti, scaricavano le loro merci nell'anarchia più totale: generi alimentari, medicine, casalinghi, biancheria proveniente da un'impresa di lavanderie...
Si avvicinò a quell'ultimo furgone e fece capolino dentro. Il carico era costituito da grandi ceste di lenzuola, camicie dei pazienti e camici dei medici. Cercò con lo sguardo l'autista: senz'altro faceva parte del gruppetto di uomini che si stavano concedendo una pausa accanto ai distributori di bibite. Intenti a chiacchierare, i tizi non le prestavano attenzione. Con il batticuore, Emma tese la mano e afferrò un'uniforme. Era un camice da uomo, il doppio della sua taglia, ma lei se ne accontentò e, rimboccandosi le maniche, si infilò nel centro di cardiologia.
Luminoso e chiaro, l'atrio era in contrasto con il trambusto esterno. Dappertutto elementi naturali, bambù, orchidee, piante tropicali, cascatelle che scendevano lungo muri d'ardesia, si combinavano per creare un'atmosfera rilassante 
Emma vide Kate parlare in mezzo all'atrio con una collega, ma il loro dialogo fu breve e la dottoressa presto salì altre scale, mostrando la targhetta di riconoscimento all'uomo che stava di guardia davanti alle sale riservate al personale ospedaliero.
Priva di un «apriti Sesamo» come il badge, Emma prese un dépliant da un espositore. Come faceva durante le lezioni di teatro della sua adolescenza, cercò di ritagliarsi un personaggio credibile procedendo per mimetismo. Con lo zainetto, il camice e la sua aria determinata, non era molto diversa dai medici e dagli studenti che facevano internato nell'ospedale. Abbassò gli occhi e lesse il dépliant con la stessa concentrazione che avrebbe usato per esaminare una cartella medica prima di un'operazione. La guardia non la degnò di un'occhiata, permettendole così di seguire Kate fino alla caffetteria del personale. La dottoressa si unì a due studenti che facevano internato, una graziosa giovane di razza mista dal viso delicato e un bel ragazzo atletico che era più facile immaginare con addosso una maglietta da football, piuttosto che con uno stetoscopio intorno al collo.
Emma si sedette a un tavolo vicino per origliare la loro conversazione. Senza un sorriso, Kate salutò i due, di cui chiaramente controllava il rendimento e, rifiutato il caffè che le offrivano, con tono brusco iniziò una litania di rimproveri, sottolineando spietatamente le loro manchevolezze. Usò parole molto dure: «incompetenti», «buoni a nulla», «dilettanti», «inadeguati», «fancazzisti», «nullità», «un pericolo per i pazienti». Con il viso stravolto, i due cercarono di esprimere il loro dissenso, ma la loro linea di difesa non resse alla virulenza dell'attacco. Del resto, quasi subito Kate si alzò e pose fine all'incontro, non senza aver prima proferito una vera e propria minaccia: «Se non cambierete radicalmente atteggiamento e non prenderete coscienza di dover cominciare a lavorare sul serio, potrete dire addio ai vostri sogni di specializzazione in chirurgia. In ogni caso, io mi opporrò con forza alla convalida del vostro internato».


Li fissò dritti negli occhi per verificare se il missile avesse raggiunto l'obiettivo, poi girò sui tacchi e si diresse agli ascensori.
Stavolta Emma rinunciò a seguirla e rimase seduta al suo tavolo, tendendo l'orecchio verso i due studenti che stavano dando libero sfogo alla loro acredine.
«Quella stronza è tanto arrapante quanto odiosa.» «Che frase elegante, Tim. Perché non gliel'hai detta intanto che era qui?» «Cazzo, Melissa, lavoriamo ottanta ore alla settimana e quella ci tratta da fancazzisti!» «Certo, è una tipa esigente. Lo è verso gli altri come verso se stessa. Però è l'unica direttrice di reparto che accetta di accollarsi i turai di guardia.» «Non è un buon motivo per trattarci come cani. Ma chi si crede di essere, per la miseria?» «Crede di essere quello che è: sicuramente il miglior chirurgo di quest'ospedale. Sapevi che aveva ottenuto un punteggio di 3.200 al suo Medicai College Admission Test? È il voto più alto che sia mai stato registrato da quando esiste il test e nessuno, nemmeno oggi, l'ha ancora superato.» «La trovi davvero così eccezionale?» «Sì, è indubbiamente brillante», riconobbe a malincuore Melissa. «Mi domando dove trovi il tempo di fare tutto: lavora qui allo Heart Center, dirige un servizio di chirurgia pediatrica che ha fondato a Jamaica Plain, tiene conferenze, scrive articoli per le più prestigiose riviste mediche, è sempre all'avanguardia nelle tecniche chirurgiche.» «Allora l'ammiri?» «Sicuro. Per giunta, è una donna.» «Non vedo che cosa c'entri questo.» «C'entra eccome. Hai mai sentito parlare di 'doppio lavoro'? Deve occuparsi della famiglia, del marito, della figlia, della casa...» Tim si stirò sulla sua sedia e fece un lungo sbadiglio.
«Per me quella donna è Robocop.»

Melissa diede un'occhiata all'orologio e bevve un ultimo sorso di caffè.
«Non siamo al suo livello e non lo saremo probabilmente mai», ammise lucidamente, alzandosi. «Ma è proprio questo che le rimprovero, di non capire che gli altri non hanno le sue capacità.» I due studenti tirarono un lungo sospiro di stanchezza. Trascinando i piedi si diressero agli ascensori, per nulla entusiasti alla prospettiva di riprendere a lavorare.
Rimasta sola, Emma si lanciò un'occhiata preoccupata alle spalle. Aveva saputo abbastanza.
Afferrò lo zaino, ma, all'ultimo momento, cedette alla tentazione di consultare la posta elettronica.
C'era un nuovo messaggio di Matthew.