martedì 29 gennaio 2019


HOTEL BOSFORO

Esmahan Aykol

Forse se tornassi a Istanbul adesso troverei una città molto cambiata, in era Erdogan. Ma Esmahan Aykol con questo romanzo ha prodotto uno strano effetto su di me: mi ha fatto  tornare in una città che ho conosciuto (seppur poco e per lavoro tanti anni fa) e mi ha fatto apprezzare ogni suo angolo, ogni suo personaggio. Ho apprezzato come ha descritto le dinamiche di questa città cosmopolita e vivissima, mezza Europea e mezza Asiatica, ponte fra due civiltà e, a quel tempo, culla dell'integrazione. P.b.

HOTEL BOSFORO
Esmahan Aykol
Sellerio
Risvolto
Cosa ama tanto di Istanbul Kati Hirschel, tedesca-turca trapiantata in città, se per la maggior parte del tempo si trova immersa nel caos mobile della metropoli, porta tra oriente e occidente? Forse, più del kebab e delle sale da tè all’aperto che non la stancano mai, proprio il caos l’appassiona, frutto inebriante di una stratificazione di esseri umani profondamente diversi, il cui inatteso effetto è la convivenza e la capacità di comunicare. Kati ha vissuto a Istanbul per metà circa della sua vita di quasi quarantenne e ne conosce ogni angolo, gli svariati ambienti, i ritrovi esclusivi o popolari, i tanti quartieri che fanno città nella città. È indipendente, sola, alquanto vanitosa, erotica, e dirige la sua libreria specializzata in gialli. Per lavoro e per passione, incontra ogni tipo di gente, clienti, amici, vicini simpatici curiosi e vociferanti, in giro instancabilmente tra il mar di Marmara e il Bosforo. Inattesa, perché mai erano state intime, Petra, vecchia amica tedesca diventata attrice di una certa fama, la chiama. È scesa all’Hotel Bosforo, giunta nella vecchia capitale per un film di produzione turco tedesca. Subito Petra riversa sull’amica tutto il dolore di un’esistenza senza amore. Al successivo appuntamento, Kati viene a sapere che in albergo è stato consumato un crimine, ed è proprio Petra la principale sospettata. Arma del delitto, decisamente femminile, un asciugacapelli; vittima il regista tedesco, morto fulminato nella vasca da bagno della sua suite, con un bicchiere di whisky in mano. Con lui, Petra, a detta di tutti, aveva una relazione che però lei nega. Kati, per amicizia, si sente coinvolta e decide di assistere da vicino alle indagini. E si trova a condursi con abilità e civetteria tra produttori miliardari dal passato losco, poliziotti spicci, artisti, bohémien, corteggiatori, circuiti internazionali dell’orrore e vendette, e un amore; mentre le sue giornate sono movimentate dalle tante persone che popolano la sua complicata vita quotidiana. Lo scontro delle loro abitudini e dei loro pregiudizi, con i pregiudizi e le abitudini di un’europea occidentale, dà vita al gioco dell’orientalismo e dell’occidentalismo. Ed è un abbraccio a una metropoli carica di storia europea che ritorna in Europa.


Esmahan Aykol, nata nel 1970 a Edirne, Turchia, vive tra Berlino e Istanbul. Durante gli studi universitari in giurisprudenza ha lavorato come giornalista per radio e giornali turchi. Oggi, dopo una parentesi come barista, si dedica completamente alla scrittura. Della serie con protagonista Kati Hirschel questa casa editrice ha pubblicato Appartamento a Istanbul(2011) e Divorzio alla turca (2012).


1






Stavo girando come una pazza in cerca di un posto per la macchina. Nonostante fosse mattina presto, non c’era neanche un buco. Non sopportavo di perdere mezz’ora per parcheggiare. Era una cosa che mi faceva impazzire! E se avessi perso la testa? Il negoziante e il proprietario della sala da tè all’aperto sarebbero corsi in mio aiuto? Mmh, meglio mantenere la calma.
Mentre cercavo di convincermi a non esplodere, un tizio aprì la sua auto. Grazie a Dio! Il Signore misericordioso manda sempre un angelo a soccorrere le sue pecorelle in difficoltà.
Da due settimane Juan Antonio, il mio piccolo Fofo, era perdutamente innamorato. Aveva perso completamente la testa. Lui e il suo amore si erano conosciuti durante il weekend a şile. Sembrava impossibile che non si fossero mai visti prima e che l’incontro fosse avvenuto fuori Istanbul. In un modo o nell’altro, comunque, si erano conosciuti e innamorati. Alfonso insegnava all’istituto di cultura spagnola. Fofo, invece, mi dava una mano in negozio. O almeno avrebbe dovuto. A dire la verità, fino a due settimane prima mi aveva aiutato davvero, ma ormai potevo ritenermi fortunata se riuscivo a vederlo. Naturalmente ci incontravamo nel mio appartamento quando veniva a cambiarsi, ma questo era tutto. Nelle ultime due settimane, in totale, avevamo parlato sì e no per venti minuti.
Da quando Fofo se ne andava in giro con la testa fra le nuvole, la mattina dovevo aprire io il negozio. Ero costretta ad alzarmi presto tutti i giorni e la sera cascavo letteralmente dal sonno. Vita notturna e uscite con gli amici erano solo un ricordo. Non riuscivo nemmeno a combinare un incontro con Lale.
Ma che ci potevo fare? Amo il mio lavoro. Soprattutto quando non sono inchiodata in negozio per dieci ore.
«È normale che una persona a cui piacciono i romanzi gialli voglia anche venderli» aveva detto una volta Fofo. In effetti l’avevo pensato anch’io quando, tre anni prima, avevo aperto il negozio. Era una cosa ovvia.
Grazie alla mia amata libreria conoscevo tutti i lettori di gialli che vivevano in città o che si trovavano a passare per Istanbul e per il quartiere di Kuledibi. Appena aperto il negozio, uno dei miei primi clienti era stato Mick Jagger. Quando avevo capito chi avevo davanti, ero stata presa dall’emozione. Naturalmente non gli avevo chiesto l’autografo, ma avrei tanto voluto farmi fotografare accanto a lui. Solo a fatica ero riuscita a controllarmi e a non dare a vedere che l’avevo riconosciuto. Poi Lale si era divertita a prendermi in giro. «Certe volte ti comporti proprio da tedesca» aveva detto. La nazionalità, però, non aveva nulla a che fare con il mio comportamento. Ero semplicemente troppo stupida. Volete sapere perché ho finto di non aver riconosciuto Mick Jagger? Beh, tenetevi forte: non mi sembrava compatibile con l’immagine di serietà che volevo dare… Appena aperta la libreria mi sentivo come la grande imprenditrice Güler Sabancı. Ma questo stato di grazia non è durato a lungo: quando si sgobba dieci ore al giorno, alla fine, nel migliore dei casi, ci si sente come Havva Hanım,1 la donna delle pulizie.
Comunque, rispetto a prima non me la passavo poi così male: avevo imparato molto dal negozio e anche dal punto di vista economico non avevo più tanti problemi. Dovevo parlare con Fofo. Se non si fosse ripreso in fretta dalla sua stupida infatuazione e non fosse tornato in negozio, sarei stata costretta ad assumere qualcun altro. Il mio piccolo Fofo sente e pensa come una casalinga del ceto medio. Non voglio sparlare di lui, questa cosa gliela direi anche in faccia. Si comporta come quelle donne che appena trovano un uomo cui appoggiarsi non alzano più un dito. Le stesse che poi, dopo aver divorziato, non sanno cosa fare.
Non era la prima volta che succedeva. Quando ci eravamo conosciuti, circa due anni prima, Fofo aveva appena lasciato Granada, la sua città natale, per seguire fino a Istanbul un turco di cui si era innamorato. Senza pensarci due volte aveva mollato tutto, preparato lo zaino e preso il primo aereo. Ali, il suo amore, era un tipo da giacca e cravatta. Un avvocato. Al solo pensiero mi si rizzavano i capelli! Quanto poteva durare tra uno così e Fofo? Me lo chiedevo in continuazione. Tutto sommato, la loro storia era continuata per un bel po’: quasi un anno. Naturalmente l’avvocato aveva tenuto nascosto agli amici che Fofo era il suo amante. Non gliel’aveva nemmeno presentato. Ma per qualche ragione Fofo moriva dalla voglia di conoscere i compagni incravattati del suo bel turco. Ogni tanto gli faceva un’improvvisata al lavoro, non per gelosia, ma proprio perché sperava di incontrare uno dei suoi amici. Lale e io bollivamo di rabbia. L’ultimo periodo della loro storia, in particolare, era stato davvero tragico. Fofo passava le sue giornate in casa, seduto davanti al televisore. Alla fine, però, questo si era rivelato utile: guardando i programmi turchi aveva cominciato a imparare la lingua. Adesso usa frasi assurde come «Bella raga!» e «Ci sto troppo dentro!», ma non è un problema perché tutti quelli che guardano la tv lo capiscono.
Una volta sparito quel bastardo di Ali, le cose erano finalmente tornate alla normalità. Fofo si era trasferito nel mio appartamento e aveva cominciato a lavorare con me in negozio. Il mio piccolo Fofo affronta la vita come un bambino. Mi domandavo come sarebbe andata a finire con la sua nuova fiamma. Erano due settimane che mi preoccupavo per lui.
Non avevo ancora conosciuto il suo ragazzo. Durante i nostri brevissimi incontri avevo cercato di carpirgli qualche informazione, ma non potevo certo fidarmi di quello che mi raccontava. Era innamorato.
Benché tentasse di non darlo a vedere, anche Lale era preoccupata. «Sembri una turca, anzi una mamma turca» mi diceva. Ma lei non era affatto diversa! In realtà eravamo entrambe preoccupate perché conoscevamo bene il nostro Fofo e sapevamo che si buttava a capofitto in certe cose. A dire il vero, io ero più che preoccupata… E quindi avevo i nervi a fior di pelle.
Per questo andavo fuori di testa se non trovavo un buco per parcheggiare.

Avrei potuto prendermela comoda: aprire il negozio, arieggiarlo, bere una o due tazze di caffè… Ma no! Appena infilai la chiave nella toppa, sentii il telefono squillare. Costretta a fare tutto di corsa, cosa che odio, aprii la porta e mi fiondai sull’apparecchio. All’altro capo c’era una donna che parlava tedesco tutta pimpante. Era davvero troppo. Non potevo sopportare una persona così allegra di prima mattina.
«Ho avuto questo numero da tua madre. Il suo l’ho trovato nell’elenco telefonico di Berlino…».
«Okay» risposi. «Ma chi parla?».
Era Petra, la mia vecchia compagna di studi! Non ci vedevamo da un’eternità – almeno quindici o sedici anni –, ma avevo seguito tutta la sua carriera, sia sui giornali che in altro modo. In effetti era la mia amica più famosa. Una vera stella, se non del cinema mondiale, almeno di quello tedesco. D’altra parte, eccetto Marlene Dietrich, finora i tedeschi non hanno mai avuto una star internazionale. La stessa Dietrich era molto americana.
Petra e io avevamo frequentato insieme l’università. Lei studiava recitazione. Dopo la laurea avevo preso lo zaino e mi ero guardata attorno in cerca di una nuova città. Così, come spesso accade, in un attimo ci eravamo perse di vista.
Quando abitavo ancora a Berlino, Petra era già in televisione. Aveva ottenuto una parte nel serial Tatort. In seguito, ogni volta che ero tornata in Germania e avevo avuto l’occasione di vedere un suo film, non me l’ero lasciata sfuggire. Una volta ero perfino andata al festival del cinema di Istanbul solo perché tra le opere in concorso ce n’era una in cui recitava anche lei.
Avevo visto i suoi film e letto tutti gli articoli che la riguardavano, ma nei suoi confronti provavo un senso di inferiorità. È sempre così con gli amici che diventano famosi. Si pensa che per strada non riconoscerebbero più un vecchio compagno, che ogni telefonata per loro sarebbe bloccata dalla segretaria… In realtà non avevo motivo di nutrire certi timori nei confronti di Petra: non ci eravamo mai incontrate per strada e non avevo mai provato a contattarla, quindi non potevo sapere se aveva la puzza sotto il naso. All’improvviso, come in un romanzo, ora mi trovavo al telefono proprio con lei. Il fatto che mi avesse chiamato poteva significare due cose: o il successo non le aveva dato minimamente alla testa oppure l’aveva abbandonata. Forse la mia povera amica era costretta a vivere col sussidio dello stato tedesco e doveva litigare con quelli dell’assistenza sociale per avere quattro soldi. Forse non ne poteva più e stava cercando una via d’uscita. Per questo mi aveva chiamato. Voleva un prestito o un lavoro. Nel primo caso, potevo darle un po’ di denaro; per i miei amici, in certe cose sono meglio dello stato tedesco. Se invece aveva bisogno di un lavoro, avrei parlato con Fofo in giornata. Comunque, la voce che mi giungeva dall’altro capo del filo era più che gradita.
«Non sapevo che fine avessi fatto» spiegò lei. «Ogni volta che trovavo uno dei nostri amici, gli chiedevo di te. Ieri, a una proiezione di gala, ho incontrato Alex. Mi ha detto che fa il cameraman e vive a Berlino. Ti ha visto un paio di anni fa, in estate. Sì, quando abitavi da tua madre. Per questo mi è venuto in mente di chiamarla. Che stupida! Avrei dovuto pensarci prima. Però anche tu… Perché non ti sei mai fatta sentire?».
Balbettai qualcosa senza senso. Non potevo mica rispondere: «Non ti ho chiamato perché sei diventata famosa». E poi non credevo fossimo grandi amiche e non potessimo assolutamente perderci di vista. Ma questa è un’altra storia.
«Quando torni in Germania?».
«Non lo so». In realtà non avevo in programma nessun viaggio, ma per vedere Petra avrei anche potuto cambiare idea. Ero contenta che fosse ancora famosa e non avesse la puzza sotto il naso. Valeva la pena di tornare in Germania per lei.

Dopo aver messo giù il ricevitore, fissai il telefono per dieci minuti buoni. Ero sbalordita. Petra sarebbe venuta a trovarmi! Le avevano assegnato il ruolo principale in una coproduzione turco-tedesca, un film ambientato a Istanbul, e quindi si sarebbe fermata in città più di un mese. Non voleva né soldi né lavoro. Non voleva nemmeno stare da me per tutto il periodo delle riprese. Voleva solo che ci incontrassimo per spettegolare come due vecchie amiche. Voleva consigliarmi una buona crema anti-età per eliminare le zampe di gallina o forse, chissà, insegnarmi un suo trucco per rimuovere le macchie dal lavello senza danneggiare lo smalto. Insomma, voleva fare quello che fanno tutte le donne con le amiche. Come se non fosse famosa.
Mi riscossi e decisi di preparare un po’ di caffè per cominciare la giornata. In negozio c’era una nicchia adibita a cucina. Fofo e io beviamo molto tè, così tanto che, se ce lo facessimo portare dall’edificio commerciale all’angolo, falliremmo in poco tempo. Per questo abbiamo sistemato un fornello nella nicchia. Prima, però, abbiamo fatto in modo che il buon Recai, il proprietario della sala da tè, potesse costruire un grattacielo abusivo che crollerà al prossimo terremoto di grado 5,8.
In realtà le sale da tè all’aperto mi piacciono moltissimo, soprattutto in confronto a quegli orribili distributori automatici di bevande… c’è qualcuno che ti conosce, che sa come ti chiami, quanto zucchero vuoi, quando preferisci il tè e quando il caffè. Quelli come Recai sanno addirittura se hai litigato col tuo amore, se hai fatto pace, se hai passato la notte fuori o sei rimasto in casa a guardare la televisione. In poche parole, sanno più di quello che dovrebbero sapere. Comunque, se non fai parte di un’organizzazione clandestina, questa cosa non dovrebbe disturbarti. A Istanbul i pettegolezzi si diffondono in modo così capillare che i fatti tuoi li sanno praticamente tutti. Una persona in più o in meno non fa alcuna differenza.
Certo, in una città così grande non è facile tenersi aggiornati. Per questo, ovunque si trovino – per strada, al lavoro, a tavola con la fidanzata, al cinema o a teatro –, i turchi parlano sempre al cellulare. Secondo me, Graham Bell era di origine turca. È impossibile che questa gente non abbia nulla a che fare con l’invenzione del telefono.
Arrivai a sera sfinita. Odio certe giornate. I clienti che non danno tregua, il telefono che continua a squillare, la gente che va e viene… Un vero caos! Non mi era rimasta nemmeno la forza per chiudere a chiave la porta del negozio. Purtroppo dovevo ancora pagare per essere venuta al lavoro in macchina. A Istanbul le auto non solo non facilitano la vita, ma causano anche parecchi problemi. Le strade sono molto strette, la città è vecchia. Kuledibi, il quartiere in cui si trova il mio negozio, risale addirittura al tempo dei genovesi.
Gli abitanti di questa città sono sempre in giro. Su dieci milioni di persone, pare che nessuno torni mai a casa. Le strade pullulano di gente e di auto a qualsiasi ora del giorno e della notte. Si fa in fretta a dire «dieci milioni», ma la verità è che sono tantissime persone. Un intero paese!
Quando si cerca un posto per parcheggiare o ci si muove in coda, un centimetro alla volta, per raggiungere la propria destinazione, c’è da perdere la testa. Il problema è che sono pigra. Se a piedi ci metto mezz’ora per andare dal mio appartamento al negozio e in auto impiego lo stesso tempo, preferisco usare la macchina.
Dato che per tutto il giorno ero stata molto impegnata, non avevo avuto il tempo di rallegrarmi per l’imminente visita di Petra. Appena arrivai a casa, mi attaccai al telefono – come ogni abitante di Istanbul – e chiamai Lale. Lei conosceva la mia amica attrice, era venuta con me a vedere il film presentato al festival. Un paio di volte le avevo anche proposto di tradurre per il suo giornale le interviste a Petra apparse sulla stampa tedesca, ma non avevo ottenuto altro che un rifiuto. A volte Lale è davvero insopportabile. Ma va bene così. È la mia migliore amica.
Dopo di lei avrei voluto chiamare Fofo. Purtroppo, però, non avevo il suo numero di telefono. Per un po’ rimasi seduta con le mani in mano. Fumai tre sigarette nel giro di un quarto d’ora, poi chiamai di nuovo Lale. Era occupato. Dopo aver fatto la doccia riprovai. Ancora occupato. Avrei potuto rimettermi al volante e guidare fino a casa sua, ma non ne avevo voglia. Premetti il tasto di richiamata, ma per la terza volta suonò occupato. Per consolarmi decisi di chiamare il mio ex. Lui è sempre molto disponibile, anche perché gli do corda. Beh, sembra incredibile, ma anche il suo telefono era occupato. Senza volerlo, mi appisolai. Ero così arrabbiata che in sogno tentai di spaccare la testa a Graham Bell con un ricevitore. Madame Curie si mise a gridare: «Assassina! Assassina!». A quel punto mi svegliai in un bagno di sudore.

Il mattino seguente era sabato, uno dei miei due giorni preferiti (l’altro è domenica, che viene subito dopo). Molti cittadini, mossi dal desiderio di fare soldi, vanno al lavoro anche di sabato. A me il denaro non interessa, perciò, se Fofo non è in depressione e non fa le pulizie in negozio, il primo dei miei due giorni preferiti la libreria rimane chiusa. Lo dice anche il cartello appeso alla porta.
Il sabato io e il mio caro amico e vicino Yılmaz ci sediamo all’aperto, nel giardino della nostra sala da tè, e tendiamo agguati ai passanti. Yılmaz è basso, grasso e calvo. Ha circa cinquant’anni e lavora nel campo della pubblicità. È un uomo eccezionale! Conosce tutti ed è sempre aggiornatissimo. A me racconta tutto quello che sa degli altri e agli altri racconta tutto quello che sa di me. Come ho già detto, una persona in più o in meno non fa alcuna differenza, per questo Yılmaz è uno dei miei migliori amici.
Il sabato io e lui prendiamo sfogliatine e biscotti dal fornaio, compriamo i giornali nel negozio accanto e ci sistemiamo nel giardino. Questo verso le dieci di mattina. Davanti a noi sfilano gli abitanti di Cihangir. Alcuni cadono nella rete e si siedono al nostro tavolo; altri sono più cauti, ci salutano e proseguono per la loro strada. Quando ci stufiamo di spettegolare, andiamo al cinema, e se non danno neanche un bel film, ce ne torniamo a casa.
Ognuno ha un suo compito: Yılmaz pensa ai giornali, io alle cibarie. Dato che durante la settimana non leggo quasi mai riviste e quotidiani, anche sotto questo aspetto il sabato mattina rappresenta per me un cambiamento. Ma non è detto che cambiare sia sempre piacevole.
Le nostre abitudini sono talmente radicate che ogni volta Yılmaz arriva nella sala da tè prima di me, o meglio, arriva puntuale. E dato che io, oltre a essere ritardataria, sono anche tedesca, non perde occasione per prendermi in giro. Per vendicarmi gli dico che è uguale a tutti gli altri turchi, che considerano i tedeschi un popolo di baccalà puntuali e diligenti. Naturalmente per lui è un’offesa gravissima. Ci tiene a essere diverso.
A questo punto non posso esimermi dal parlare degli strani pregiudizi che si hanno nei confronti dei tedeschi. Tanto per cominciare, i turchi rimangono assolutamente sbalorditi di fronte a un tedesco che ride di gusto. Se però sono io a ridere, non ci trovano nulla di strano perché pensano che ormai mi sono integrata bene nella loro società. Non sono ancora riuscita a convincere nessuno che anche in Germania ridevo, almeno di tanto in tanto, e che questo comportamento non mi faceva sentire particolarmente isolata. Alcuni credono addirittura che mi sia trasferita a Istanbul perché, avendo l’abitudine di ridere, nel mio paese non mi sentivo a mio agio.
I turchi mi considerano una tedesca anomala anche perché mi chiamo Kati. Può sembrare incredibile, ma ho incontrato persone convinte che in Germania esistessero solo due nomi: Hans per gli uomini e Helga per le donne. Vorrei proprio sapere chi ha messo in giro questa assurdità.

Arrivai nel giardino della sala da tè con un quarto d’ora di ritardo, ma, stranamente, Yılmaz non fece battute sulla puntualità dei tedeschi. Era chiaro che aveva altro per la testa. Mi raccontò che, come molte imprese turche, anche la sua agenzia pubblicitaria si trovava in cattive acque. Alcuni erano già stati licenziati. Dato che probabilmente avrei dovuto sostituire Fofo, dissi che in caso di licenziamento avrebbe potuto prendere il suo posto in negozio. Yılmaz mi guardò sogghignando. Voleva forse prendermi in giro perché non potevo dargli un megastipendio?

Petra aveva promesso di richiamarmi non appena fosse stata sicura di venire, cioè non appena i produttori avessero ottenuto tutti i permessi dal Ministero della Cultura turco. Per due settimane non ricevetti alcuna notizia, ma naturalmente non restai con le mani in mano. Bloccai Fofo e gli dissi chiaro e tondo che doveva tornare in negozio, altrimenti avrei assunto qualcun altro. Non avevo nessuna voglia di lavorare tutti i giorni come una dannata e di finire nella fossa prima del tempo. Forse non erano molte le persone disposte a lavorare in una libreria specializzata in gialli, ma senza dubbio avrei trovato qualcuno.
Anziché darmi una risposta, Fofo tergiversò. Non voleva dirmi se sarebbe tornato o meno al lavoro. Irritata, lo interruppi bruscamente:
«Okay, prenderò qualcun altro per tre mesi. Ma vedi di schiarirti le idee! Devi decidere cosa fare. Se non vuoi correre dietro agli uomini per il resto della tua vita, devi imparare a cavartela da solo».
Dopodiché uscii sbattendo la porta. Di sicuro Fofo non si era lasciato impressionare né dalle mie parole né dal modo in cui me n’ero andata. Per lui esisteva solo Alfonso. Ma io avevo il mio orgoglio.
Alcuni giorni più tardi andai dalla mia amica Candan, che ha una grande libreria a Beyoğlu, e la pregai di trovare una persona adatta per il mio negozio. Lei è davvero imbattibile in certe cose; ogni volta che le chiedo aiuto, trova subito una soluzione. Per risolvere il mio problema non dovette far altro che chiamare quattro, cinque numeri con il telefonino. Nel giro di un’ora mi trovai davanti una simpatica ragazza di nome Pelin.
Era una studentessa di lingua e letteratura inglese. Frequentava l’Università di Istanbul, ma veniva da Smirne. Si era trasferita sette anni prima, un po’ per studiare, un po’ per allontanarsi dalla famiglia e avere maggiore libertà. Non si era ancora laureata solo perché doveva anche lavorare.
Era un punto a suo favore.
«Non importa» dissi. «Non mi piacciono le persone troppo precise».
«Davvero?» fece lei. «Credevo fosse tedesca».
Ci dividemmo subito il lavoro, anche se in modo non proprio equo. Pelin avrebbe aperto il negozio tre giorni alla settimana, così io avrei potuto dormire fino a mezzogiorno. Aveva già lavorato in una libreria, quindi non ebbe alcuna difficoltà. Recai, il proprietario della sala da tè, ci rimase un po’ male vedendo che avevo una nuova aiutante; voleva essere il primo a sapere le cose.
Sul lavoro Pelin era molto meglio di Fofo. Apriva puntualmente il negozio, spolverava i libri anche se non era depressa, puliva tutto e metteva sempre dei fiori sul bancone. Non solo preparava tè e caffè, ma si mostrava addirittura comprensiva verso le mie stranezze da tedesca. Aveva un solo difetto: non amava i gialli. Per me non era un problema. Ero sicura che col tempo avrebbe cambiato idea.
Anche se amava i libri ed era contenta di lavorare nel mio negozio, dopo un po’ mi fece capire che avrebbe voluto guadagnare di più. Quando un turco beneducato vuole più soldi, non lo dice in modo esplicito.
«Beh, stiamo a vedere che cosa succede» le risposi una volta, adottando la sua stessa tattica.
Se Fofo non fosse tornato entro tre mesi, forse avrei dovuto vendere la macchina per tenere la mia nuova aiutante. Per fortuna intervenne la mia cara amica Lale, che cominciò subito a parlar male di me davanti a Pelin. Diceva che, nonostante avessi trascorso i miei primi sette anni e gli ultimi tredici – in tutto venti anni, cioè quasi metà della mia vita – a Istanbul, mostravo ancora i danni che il periodo in Germania aveva causato alla mia anima. Ero la classica spilorcia tedesca. A casa non accendevo mai una lampadina se non era proprio necessario e avevo addirittura rinunciato alle lampade alogene perché ero convinta che consumassero troppo; se non fosse stato per la vergogna, avrei passato le mie serate alla luce di due candele come tutti i tedeschi. Una volta partita, Lale non riusciva più a fermarsi, e così continuò a sparlare di me senza alcun ritegno. No, non prendevo neanche il taxi per non spendere inutilmente. Ai miei ospiti offrivo solo tè, e una volta, al ristorante, avevo perfino proposto che ciascuno pagasse il suo conto… A questo punto devo per forza aggiungere che i turchi dicono «alla tedesca» quando ognuno paga per sé. Ogni volta che usano questa espressione, mi lanciano un’occhiata e poi si guardano sogghignando. Come se avessi inventato io il pagamento alla tedesca! Lale mi fece il pelo e il contropelo, e io tenni la bocca chiusa, non dissi una sola parola in difesa dei miei insopportabili connazionali. Tutto questo, naturalmente, tornò a mio vantaggio. Pelin si convinse di avere a che fare con una straniera maltrattata dai turchi e cominciò a provare molta simpatia per me. Probabilmente non si sarebbe licenziata nemmeno se avesse trovato qualcuno disposto a pagarla tre volte tanto…
1 Posposto al nome, Hanım significa «signora».

2






Petra mi richiamò a fine maggio.
La primavera di Istanbul, meravigliosa ma di breve durata, aveva già lasciato il posto all’estate. Era un vero peccato. Avrei voluto che la mia amica conoscesse la primavera turca, che assaporasse un buon tè nel giardino di un sontuoso palazzo ottomano, all’ombra di platani secolari pieni di tenere foglie, che passeggiasse per le viuzze invase dal profumo delle mimose, che sentisse l’umidità delle cisterne bizantine penetrarle nelle ossa, che ammirasse l’Ippodromo e la fontana di Ahmet III rilassandosi su un prato umido di rugiada, sotto un tiepido sole, che gustasse i carciofi all’olio d’oliva di Hacı Halil…
«C’è voluto un po’ per ottenere tutti i permessi» spiegò Petra. La cosa non mi stupì: in quanto a lungaggini e consumo di carta, la burocrazia turca non aveva nulla da invidiare a quella tedesca. Le riprese dovevano cominciare alla fine di aprile, ma erano slittate a giugno.
«Peccato, vi siete persi la primavera» pensai.
Promisi che sarei andata a prenderla in aeroporto. L’hotel in cui doveva alloggiare si trovava nelle vicinanze del mio appartamento, quindi non c’era problema.
All’aeroporto Atatürk, ampliato da poco per tentare di fare concorrenza ad Atene, trascorsi un’interminabile ora seduta in un bar. Il fumo delle sigarette era così denso che non si vedeva a un palmo dal naso. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’agitazione non c’entrava nulla. Le persone che erano venute a prendere o a salutare amici e parenti potevano anche essere agitate, ma non era per questo che fumavano. I turchi non hanno bisogno di simili pretesti per accendere una sigaretta dopo l’altra. Mi bruciavano gli occhi e faticavo a respirare, ma era una cosa assolutamente normale. Non potendo fare altro, mi unii alla schiacciante maggioranza dei fumatori.
L’idea di rivedere Petra mi rendeva nervosa? Avevo sentito la sua mancanza? Provai a immaginare il suo volto, a indovinare com’era cambiata. Cos’aveva combinato negli ultimi quindici anni? E io, cos’avevo combinato? Prima che potessi fare un inutile consuntivo della mia vita, gli altoparlanti annunciarono l’arrivo del suo aereo.
Salutare Petra si rivelò quasi impossibile. L’aeroporto brulicava di giornalisti che volevano fotografare la troupe. Mentre saltavo agitando le braccia, alcuni addetti alla sicurezza aprirono un varco tra la folla. Per fortuna lei riuscì a vedermi e gridò agli uomini di farmi passare. Per un paio di secondi fummo circondate da una muraglia umana, poi qualcuno ci spinse verso l’uscita.
Non credevo che la mia vecchia compagna fosse una vera star. E di sicuro la troupe non immaginava che ad attendere Petra a Istanbul ci fosse un’amica tanto stupida. In ogni caso, fuori era già pronto un macchinone. Non potevo certo dirle: «Scrollati di dosso questi bestioni che vado a prendere la mia auto». La mia povera Peugeot dell’82 avrebbe fatto una pessima figura accanto a una vettura di lusso. Mentre Petra veniva spinta nel macchinone, le gridai che ci saremmo viste in albergo. Lei rispose con un cenno di assenso, poi l’autista diede gas e partì sgommando.
Era venerdì pomeriggio, ma sulla litoranea si viaggiava abbastanza bene, in alcuni tratti addirittura a velocità sostenuta. Mentre percorrevo la strada, da un lato il Mar di Marmara con lo stretto del Bosforo, dall’altro gli orribili palazzoni del ceto medio-basso, forse per la prima volta dal mio arrivo a Istanbul non mi lasciai rapire dal paesaggio, ancora bellissimo nonostante tutti gli sforzi per deturparlo. Ero troppo concentrata su Petra. L’avevo solo intravista, eppure avevo ancora davanti agli occhi la sua espressione… L’espressione di una donna distrutta, forse schiacciata da una vita troppo pesante… Ci sono cose che rimangono impresse sul volto, cose che non si vedono nelle foto, ma che è impossibile cancellare con una crema o un intervento di chirurgia estetica… Una tristezza profonda…

Mentre il sole tramontava sul Corno d’Oro, il traffico smise di scorrere e si creò un ingorgo. Dovevo avvisare Pelin. Dovevo dirle di chiudere il negozio e andare a casa. Le avevo promesso di tornare subito, ma erano già passate alcune ore. Non avevo considerato il traffico del venerdì pomeriggio. Un vero stambuliota non sarebbe mai rimasto imbottigliato. Cercai inutilmente di aprirmi un varco. Se fossi passata dalla libreria, sarei arrivata troppo tardi all’albergo di Petra. Se invece fossi andata direttamente in hotel, Pelin mi avrebbe aspettato per chissà quanto.
Era uno di quei momenti in cui avrei dovuto assolutamente avere il cellulare. Mi sarebbe stato molto utile. L’unica alternativa era parcheggiare e andare in cerca di una cabina telefonica. Ma anche se avessi trovato un posto per la macchina, ci sarebbe voluto troppo tempo. Stavo per perdere la testa quando, all’improvviso, mi venne un’idea geniale. Mi girai verso il buon padre di famiglia al volante dell’auto che avevo accanto.
«Scusi, ha per caso un cellulare?».
Naturalmente il brav’uomo rimase sbalordito. Ormai anche i bambini delle elementari avevano il cellulare!
«Non pensavo ci sarebbe stato tanto traffico. Devo chiamare subito una persona. Potrebbe prestarmi il suo telefonino?».
Dopo aver parlato con Pelin, gli restituii il cellulare aperto – non ero riuscita a chiuderlo – e gli offrii un rimborso per la chiamata.
«Ma per favore!» rispose lui, poi, per mostrare quanto fosse inopportuna la mia offerta, si morse il labbro inferiore e allargò le dita. «Non se ne parla neanche!».

Raggiunsi l’albergo più tardi del previsto, stanca e sudata, con il viso giallognolo per tutte le sigarette che avevo fumato. A forza di schiacciare frizione, freno e acceleratore mi erano anche venuti i crampi alle gambe. Gli altri dovevano essere arrivati già da un pezzo. Di sicuro il macchinone non era rimasto imbottigliato nel traffico.
Mi avvicinai alla reception e chiesi di informare Petra del mio arrivo. Con mia grande sorpresa, sul volto del giovane portiere vidi un misto di rispetto e ammirazione. Non appena gli dissi che ero un’amica, la sua espressione cambiò. All’improvviso capii che mi aveva scambiato per una vip. Nonostante il mio aspetto!
Petra aveva una suite che era quasi più grande del mio appartamento. Dalle finestre si godeva una vista mozzafiato. Il nostro non fu un incontro molto caloroso; ci comportammo come due tedesche che si rivedono dopo tanti anni. Immaginatevi una scena di Schlöndorff. A me, per esempio, venne in mente Il silenzio dopo lo sparo, che avevo visto durante il mio ultimo soggiorno a Berlino. Nel film ci sono due militanti della RAF che combattono per la stessa causa. Insieme vanno in Palestina, sequestrano persone, uccidono poliziotti… Insomma, rischiano la vita. Questo dovrebbe creare un certo legame tra loro, invece no, non succede. Dopo molti anni le due donne si rivedono per caso nella Germania dell’Est. Qui c’è l’incontro, un vero incontro tedesco, come quello tra me e Petra: una stretta di mano, le guance che si sfiorano, tutto secondo copione. Niente di più. Nessun abbraccio, nessuna carezza sulla schiena… Anche se non mi piacciono gli stereotipi, devo ammettere che sotto certi aspetti i tedeschi sono proprio come li si immagina.
Dov’ero rimasta? Ah, sì: Petra si scusò per quello che era successo in aeroporto. Non pensava che il suo arrivo avrebbe richiamato tanta gente, comunque avrebbe dovuto dirmi di stare alla larga.
Eravamo entrambe sfinite, non avevamo nessuna voglia di uscire. Lei propose di ordinare qualcosa e mangiare nella suite, e io, naturalmente, accettai al volo.
Petra sembrava molto più chiusa di un tempo. Non eravamo mai state amiche per la pelle, ma era la prima volta che la sentivo così distante. Non ci vedevamo da tanti anni, di sicuro erano successe molte cose da quando le nostre strade si erano separate, ma non era questo il problema, non si trattava di semplice tensione emotiva. Mancava qualcosa. Non dipendeva né da me né dal nostro rapporto. Era chiaro che Petra aveva subito una perdita. Voleva forse il mio aiuto per ritrovare ciò che aveva smarrito?
Dopo un po’ me ne andai, lasciandola mezza addormentata sul divano. Nella mia mente turbinavano mille pensieri, anzi «ribollivano», come dicono i turchi. In effetti mi sembrava di avere un calderone al posto della testa. Entrai in macchina e uscii dal parcheggio dell’hotel. Di sicuro a Ortaköy era già cominciata l’invasione del venerdì sera. Pazienza! Svoltai per attraversare il ponte e raggiungere la sponda asiatica. Volevo andare da Lale. Non avevo voglia di trascorrere la serata da sola nel mio appartamento.

Il mattino seguente mi svegliai sul divano nello studio di Lale. Chiamai subito Yılmaz per avvertirlo che sarei mancata al nostro appuntamento del sabato, poi telefonai a Petra, che si era alzata da un pezzo e aveva già fatto colazione. Da un momento all’altro le avrebbero portato il programma della giornata. Promise di richiamarmi non appena l’avesse ricevuto.
Mentre io e Lale ci gustavamo il caffè nel giardino di casa a Kuzguncuk, sedute davanti ai piatti vuoti della colazione, squillò il telefono. Era la mia amica attrice. Purtroppo non avremmo potuto vederci prima di cena. Essendo già in ritardo, il regista non voleva perdere altro tempo. Dovevano mettersi subito al lavoro.
La cosa mi irritò, ma cercai di non farglielo capire. Non era colpa di Petra. Non era colpa di nessuno. Però… come avrei passato la giornata?
Anche Lale non sapeva cosa fare. Tra l’altro era il suo unico giorno libero. Ci consultammo per una mezz’ora e alla fine decidemmo di trascorrere il sabato in un salone di bellezza. Dedicare un’intera giornata alla propria bellezza è sempre un buon investimento, soprattutto per una donna di mezza età alla ricerca di un uomo.
Tornai a casa verso sera, pervasa da una piacevole stanchezza e con un aspetto fantastico. Una delle cose che mi piacciono di più di Istanbul è proprio l’aspetto curato dei suoi abitanti: qui è assolutamente normale andare dal parrucchiere o dall’estetista. In Germania, invece, le donne si tagliano e si tingono i capelli da sole; anche mia madre e le mie amiche fanno così. Manicure, pedicure e cura della pelle sono concetti estranei alla maggior parte dei tedeschi, di conseguenza le strade sono piene di gente che non si può guardare in faccia. A Monaco la situazione è ancora accettabile, ma Berlino è letteralmente invasa da un esercito di inguardabili che a volte ti fanno addirittura passare la voglia di andare in giro.
A Berlino le più eleganti sono proprio le turche. Non tutte, solo le ragazze di seconda e terza generazione con la testa velata. Sono talmente eleganti da lasciare senza fiato, ma naturalmente non indossano le ultime creazioni di Jil Sander. Hanno un loro modo di vestire cui rimangono fedeli fino alla fine: calzature con la zeppa, pantaloni di nylon nero dall’aria scadente ma di taglio moderno, soprabiti di finta pelle, eleganti fazzoletti da testa nei colori di moda, lunghe giacche intonate al velo…
Le immigrate di prima generazione che si vedono a Berlino sono completamente diverse. Quand’ero bambina, le chiamavamo «pinguini». Anche loro indossavano abiti confezionati in serie, ma di pessimo gusto. Andavano in giro con ampi mantelli grigi, ondeggiando proprio come pinguini piccoli e grassi. Ancora oggi queste donne vivono in un altro mondo rispetto alle figlie, anche se il velo è un denominatore comune.
Alle otto Petra mi avvisò che non avrebbe potuto cenare con me: doveva per forza trascorrere la serata con la troupe. Scambiammo quattro chiacchiere per telefono. Non sembrava molto contenta; era chiaro che avrebbe preferito stare con una vecchia amica anziché con i colleghi. A me dispiaceva. Avrei voluto dirle che ero preoccupata, che mi sembrava stanca e apatica, ma mi trattenni. Meglio non dire certe cose in faccia. L’altra persona potrebbe rimanerci molto male.
Potete ben immaginare come mi sentissi in quel momento. Erano appena saltati tutti i miei progetti per il sabato sera. Dovevo assolutamente trovare una soluzione: con la pelle e le unghie curate e i capelli fonati non potevo rimanere a casa. Sapevo che Lale non sarebbe uscita per nessun motivo, quindi non provai nemmeno a telefonarle. Chiamai invece Arzu sul cellulare. Lei ha sempre in programma qualcosa. Mi disse che aveva appuntamento con alcuni amici al Caffè Kaktüs. Si sarebbero incontrati là verso le dieci e poi avrebbero deciso come passare il resto della serata. Ovviamente potevo unirmi al gruppo.
Il Caffè Kaktüs è uno dei locali più famosi di Istanbul. Lo conoscono tutti. È frequentato da giornalisti, scrittori, pubblicitari… Alcuni yuppie hanno provato a farne il loro luogo di ritrovo, ma credo siano stati allontanati subito. Ultimamente non li ho più visti.
Un attimo prima che uscissi, mentre mi guardavo nello specchio all’ingresso per controllare un’ultima volta trucco e capelli, squillò il telefono. Era di nuovo Petra. Si era liberata dai colleghi, quindi, se ne avevo ancora voglia, potevamo incontrarci. Non ebbi il coraggio di dirle che avevo già un altro programma per la serata.
«Okay» risposi. «Sarò lì tra mezz’ora».
Spiegare ad Arzu che non sarei andata al Caffè Kaktüs non fu un problema. Lei non bada a certe cose.
Non essendo stupida, lasciai stare la macchina e presi un taxi. Gli autisti sono difficili da sopportare, ma le auto pubbliche sono più economiche dei parcheggi. E poi chi viaggia in taxi non deve nemmeno rinunciare all’alcol. I vigili urbani sono più indulgenti con le donne, ma non si sa mai, i controlli notturni stanno aumentando.
Arrivai in albergo in perfetto orario. Chiamai Petra dal telefono interno vicino alla reception, poi mi sedetti nella hall in attesa che scendesse. Dove potevamo andare per la nostra cena ritardata? In un buon locale tipico o in uno dei tanti ristoranti di pesce affacciati sul Bosforo? Non riuscivo a decidermi.
Un quarto d’ora dopo, quando Petra uscì dall’ascensore, mi fu chiaro che non avremmo messo piede in nessun ristorante di lusso. La mia amica era abbigliata come una turista tedesca di classe media: sandali ortopedici, calzini bianchi, pantaloncini inguardabili e una maglietta che chiunque a Istanbul avrebbe trasformato in uno straccio per spolverare. Se qualcuno avesse chiesto a un bambino di tre anni chi di noi due era la star, quello avrebbe senz’altro indicato me. All’improvviso capii come mai alla reception il nome di Petra Vogel non aveva sortito lo stesso effetto del giorno prima. Mi domandai seriamente cosa avesse fatto Petra nei quindici minuti che avevo trascorso nella hall e nella mezz’ora che avevo impiegato per raggiungere l’hotel. Essendo un po’ più delicata degli altri tedeschi, o almeno degli altri berlinesi, non dissi niente.
Dovevo riflettere velocemente e prendere una decisione. C’era una mia vecchia compagna che portava sandali ortopedici e calzini bianchi. Ci eravamo ritrovate dopo tanti anni e provavamo ancora una simpatia reciproca. Fin qui tutto bene, ma volevo davvero mostrare all’intera città che avevo un’amica così? No! Le corsi incontro e la feci rientrare nell’ascensore.
«Non mi sento molto bene. Fuori è tutto pieno… E poi il sabato sera c’è un traffico…». M’interruppi per prendere fiato. «Perché non facciamo come ieri? Ordiniamo qualcosa e ci mettiamo sul tuo balcone».
«Sicura di non voler uscire?» Petra mi guardò con aria sospettosa, come se non credesse a una sola parola di ciò che avevo detto.
«Sicurissima» risposi.
Una notte nella sua suite doveva costare come sei mesi di affitto del mio appartamento, ma senza dubbio erano soldi spesi bene. Una stanza d’albergo può rendere felice una persona? Evidentemente sì. Non appena chiusi la porta, fui sopraffatta dalla gioia.
Dopo aver chiesto il servizio in camera per vino e formaggio, ci sedemmo sul balcone. Dal rinomato jazz bar dell’hotel provenivano voci nere. Ero soddisfatta della mia vita. Anche Petra era di buonumore. Diventai loquace, cominciai a parlare di me stessa. Le raccontai dei miei amori e delle mie esperienze.
Poi fu il suo turno.

Il sole era spuntato già da un pezzo quando mi accorsi che non ce la facevo più ad ascoltare Petra. Non volevo più sentire una parola. Dopo tutti i drink che avevo ingurgitato per sopportare il dolore della mia amica ero completamente ubriaca. Lasciammo l’hotel e camminammo in silenzio fino a Palazzo Dolmabahçe. La frescura del mattino non bastò a rimettermi in sesto, ma lentamente cominciai a sentirmi meglio. Ci fermammo nel bar vicino al palazzo, insieme ad altri ubriachi, per bere un tè nero. Questo scacciò almeno in parte i foschi incubi del passato e la sensazione di non avere via d’uscita.

Una volta tornata a casa, feci una bella doccia e m’infilai nel letto, ma non riuscii a prendere sonno. Ormai era quasi mezzogiorno. Sola nel mio appartamento, mi sentivo oppressa. Non potevo fare a meno di pensare a Petra. Aveva vissuto momenti davvero terribili. La sua storia mi aveva cambiato. Era come se un pezzetto della mia anima si fosse sporcato, come se un trapano mi avesse perforato il cuore. Fin da piccola avevo imparato che si può soffrire molto nella vita, che anche gli altri possono subire degli scossoni e perdere la fiducia, che le tragedie non riguardano solo quelli colpiti direttamente… Eppure…
Il mio sonno fu disturbato più volte dagli squilli del telefono e da nuovi incubi. Quando decisi di alzarmi, ero più stanca di prima. In testa avevo ancora le parole di Petra. Il suo racconto mi sembrava sempre peggio. Non potevo trascorrere il tardo pomeriggio e l’intera serata a casa da sola. Come sempre quando avevo un nodo in gola, presi la macchina e andai da Lale.
Il giorno seguente, quando aprii gli occhi, lei era uscita già da un pezzo per raggiungere il suo amato ufficio, ma gli altri – persone normali e impiegati pubblici – erano ancora a letto. Chiamai Pelin, che stava ancora dormendo, e la avvisai che sarei andata in negozio dopo pranzo. Volevo prendermi un po’ di tempo. Dopo aver fatto quattro passi o aver visto un film divertente, forse mi sarei sentita meglio. No, non c’era niente che potessi fare per distrarmi. Dovevo vedere Petra. Dovevo sedermi in un angolo del set e guardarla affrontare la vita. Era l’unico modo per uscire dall’incubo, per alleviare il peso che mi opprimeva.
Era come se nel mio petto si fosse aperto un grande buco e tutti i miei sentimenti fossero scivolati fuori. Avrei voluto piangere, ma non riuscivo a versare neanche una lacrima. Avrei voluto parlare con Lale, ma la sera prima non avevo aperto bocca. Non avevo detto neanche una parola e avevo passato tutta la notte davanti alla tv con lo sguardo fisso nel vuoto. Alla fine, grazie al sonnifero che mi aveva dato Lale, ero riuscita a dormire per due o tre ore. Seduta in giardino con in mano una tazza di caffè, cercai di trovare un modo per ingannare il tempo.
Verso le sette decisi di chiamare Petra. Di sicuro era già in piedi. Doveva lavorare, e comunque non era il tipo da dormire fino a mezzogiorno. Per molte persone disciplina e successo vanno insieme. Quelli come me, che non conoscono né l’una né l’altra cosa, combinano ben poco.
Nella suite di Petra c’era un uomo che parlava turco. Rispose lui al telefono. «O Signore» pensai «è proprio vero che le persone possono avere due facce». Due notti prima la mia amica attrice aveva detto che non poteva più avere rapporti con l’altro sesso, che le esperienze precedenti le avevano lasciato ferite troppo profonde. Eppure, a tre giorni dal suo arrivo a Istanbul, nella sua suite c’era già un turco. Probabilmente un tipo poco raccomandabile. Per un attimo pensai di riattaccare senza una parola e di cancellare Petra e tutte le sue disgrazie dalla mia vita. Ma ero troppo vecchia per reagire così.
«Posso parlare con Petra?».
«Chiama da Istanbul?» domandò l’uomo con un aspro accento del Mar Nero.
Avrei voluto rispondere che erano fatti miei, ma mi trattenni. Non posso dimenticare le buone maniere solo perché gli uomini turchi non sanno stare al loro posto.
«Perché vuole sapere da dove chiamo?».
«Sono l’agente Alaattin, del distretto di polizia di Ortaköy. Sono qui per indagare su un omicidio. Se…».
Omicidio… Omicidio…
Era una parola che avevo incontrato solo nei romanzi. All’improvviso, per la prima volta, sentivo che suono aveva nella vita reale.
«Un… un… omicidio? Ma chi… Non mi dica che Petra…».
Alaattin rimase in silenzio. Non poteva dare alcuna informazione, non era autorizzato a farlo. Inoltre…
«La prego, signor commissario, sono un’amica di Petra Vogel. Voglio solo sapere come sta. Non è mica un segreto di stato».
Dare del commissario a un semplice agente di polizia fu un’ottima mossa: Alaattin si lasciò andare immediatamente.
«La signora Petra sta bene».
«Grazie, commissario». Per ricompensarlo usai di nuovo il titolo sbagliato.
Petra stava bene, non era lei la vittima. Però era collegata in qualche modo all’omicidio, altrimenti non avrebbero indagato nella sua suite. Il morto faceva parte della troupe. Era l’unica spiegazione. Decisi di vestirmi e andare subito in hotel. Petra poteva aver bisogno del mio aiuto. Ero una delle poche persone a sapere che con gli agenti bisognava usare «commissario», con i commissari «commissario capo» e con i commissari capo «dirigente» perché così si aprivano molte porte. Era giunto il momento di sfruttare le mie conoscenze. E poi si trattava di un omicidio. Divoravo romanzi gialli da quando ero bambina, da tre anni li vendevo: non ero più una semplice lettrice. Dovevo passare dalla teoria alla pratica. Per il bene comune.
Uscii di casa e presi la macchina. Negli ultimi due mesi ne erano successe troppe. Prima il mio piccolo Fofo aveva trovato un ragazzo e se n’era andato senza tanti complimenti, lasciandomi un grande vuoto. Poi avevo ricevuto una bella notizia: la mia amica più famosa, che non vedevo da anni, sarebbe venuta a Istanbul. Alla fine Petra era arrivata, ma al nostro primo vero incontro mi aveva rattristato con una storia in grado di turbare anche la persona più insensibile del mondo. E ora la sua suite era piena di poliziotti di Ortaköy.
Cercai di ritrovare la calma ripetendo a me stessa che Petra era in una situazione decisamente peggiore della mia. Più aumentavano i problemi, più l’ultima catastrofe mi sembrava solo un bel sogno. Come potete ben immaginare, preferivo non pensare a quello che sarebbe successo nei giorni seguenti.

Mentre nel traffico mattutino cercavo di attraversare il ponte Bosforo per raggiungere la parte europea della città, il mio pensiero andò di nuovo a Petra e a ciò che aveva vissuto nel periodo in cui non ci eravamo viste.

3






All’inizio degli anni Ottanta, dopo aver terminato gli studi, avevo deciso di girare il mondo. Come una moderna figlia dei fiori. Petra, invece, aveva intrapreso a grandi passi la carriera di attrice. Prima che lasciassi Berlino, il suo nome era già conosciuto a livello televisivo e cinematografico. Non era ancora famosa, ma noi tutti sapevamo che avrebbe avuto un grande futuro. Il nostro rapporto si era raffreddato. Non ci vedevamo più, ma grazie ad amici comuni riuscivamo ad avere notizie l’una dell’altra. Così ero venuta a sapere che Petra si era messa con Wolfram von Haagen, un leader studentesco di sinistra. Wolfram era un ragazzo bellissimo, uno studente di medicina brillante e un oratore eccezionale. La metà delle ragazze di mia conoscenza era innamorata di lui. Mi sembrava incredibile che stesse con Petra. Sì, lei era mia amica, ma sinceramente non capivo come avesse fatto a conquistare un tipo simile. Non ero gelosa, solo non riuscivo a capire.
Petra e Wolfram erano completamente diversi. Lei era il tipo di donna che sotto sotto vuole occuparsi solo della casa. Era ambiziosa e s’impegnava per fare carriera, ma per l’uomo giusto avrebbe cambiato subito vita. Nel lavoro non metteva mai il cuore. Ancora oggi ho l’impressione che sia così. Con il suo talento e un po’ più di entusiasmo sarebbe potuta diventare una grande attrice.
Un paio di volte, all’università, avevo visto Wolfram sul podio. A differenza di Petra, lui era pieno di entusiasmo. Quando parlava di rivoluzione o socialismo, era in grado di convincere gli avversari più ottusi e di infiammare gli ascoltatori più indifferenti.
Qualche tempo dopo aver saputo di Petra e Wolfram avevo preso lo zaino e avevo lasciato Berlino per nuovi orizzonti. Il rapporto tra la mia amica e il sovversivo di sinistra era peggiorato di giorno in giorno. Wolfram aveva avuto dei problemi con la sua ricca e nobile famiglia, che aveva deciso di non dargli più un soldo, e così Petra si era trovata a dover mantenere entrambi. Anziché sfruttare la laurea in medicina, lui aveva continuato a partecipare a dimostrazioni e raduni politici.
A un certo punto lei aveva cominciato a desiderare un figlio. A metà degli anni Ottanta in Germania il matrimonio era già fuori moda. Se due persone volevano «ufficializzare» la loro unione, dovevano fare un figlio. In effetti, così si creava spesso un legame duraturo. Wolfram, però, non voleva bambini. Aveva ben altri progetti. Spaventato dalla determinazione di Petra, si era messo a cercare lavoro all’estero.
Quando si era unito a un gruppo di medici che studiavano la malaria in Africa, lei era già incinta di due mesi. Nonostante le sue insistenze, si era rifiutata di abortire. Aveva promesso che si sarebbe occupata del bambino da sola, senza chiedere aiuto. Da quel momento non si erano più parlati. Tre mesi dopo lei aveva saputo che Wolfram era partito per l’Africa.
E così, al quinto mese di gravidanza, Petra si era trovata in una situazione disperata. Non sapeva più cosa fare. Pensava che rimanendo incinta avrebbe salvato il suo rapporto con Wolfram, ma a lui non importava niente del bambino. La storia era arrivata comunque al capolinea. Lei non voleva assolutamente essergli d’intralcio. Aveva perso. Non c’era più motivo di avere un figlio. Per risolvere il problema aveva fatto il giro di tutti i macellai, ma non aveva trovato nessuno disposto a rimuovere un feto di cinque mesi. Alla fine si era rassegnata: avrebbe avuto il bambino anche senza Wolfram.
Con la pancia che cresceva di giorno in giorno, Petra non aveva nessuna speranza di trovare lavoro come attrice. Dopo un po’, sopraffatta dalle difficoltà economiche, aveva preso le sue quattro cose e si era rifugiata dalla madre, che abitava da sola nelle vicinanze di un piccolo paese sul Reno, lontano da tutto e da tutti. Petra era rimasta lì fino al parto, o meglio, finché non si era ripresa, poi aveva lasciato il bambino alla madre e se n’era andata con la promessa di mandare a casa un po’ di soldi ogni mese.
Petra aveva partorito un maschietto, ma quasi nessuno lo sapeva. Lei diceva a tutti di aver abortito. Neanche gli abitanti del paesino sul Reno sapevano che il piccolo era figlio suo. Non dovevano saperlo: se in città una nubile che metteva al mondo un bambino senza padre era considerata una donna emancipata, nella campagna vicino al confine olandese era la quintessenza del vizio. Tutti credevano che Peter fosse figlio della sorella maggiore di Petra, sposata con un coreano e residente in Corea. Neanche il piccolo conosceva la verità. Per lui, Petra era semplicemente una zia.
Peter era un bel bambino. Un po’ triste, come tutti i bei bambini che crescono sotto l’ala di un anziano. Petra gli faceva visita una, due volte all’anno. Una volta era anche andata in vacanza con lui.
Wolfram si era stabilito in Africa e in poco tempo si era fatto conoscere per i suoi studi sulla malaria. Quando aveva incontrato Petra a Berlino, non le aveva chiesto niente del figlio.
Ben presto lei aveva raggiunto una certa notorietà e non aveva più avuto tempo per nessuno, neanche per il piccolo Peter. Ogni tanto telefonava a casa e ascoltava le lamentele della madre. Il bambino si era chiuso in se stesso e a scuola non aveva amici. Alla sua età, diceva la nonna, non avrebbe dovuto condurre una vita da eremita. Petra non aveva dato molta importanza a quelle parole, ma il mese successivo aveva spedito più soldi.
Non si era fatta vedere né per il primo giorno di scuola né per il sesto compleanno di Peter. Era troppo occupata. Un paio di settimane dopo, però, quando sua madre aveva telefonato per informarla che il bambino non era tornato da scuola, si era liberata da tutti gli impegni ed era corsa a casa.

Peter non aveva amici. Era un bambino solitario. Un alunno problematico, il peggiore della classe. Quel giorno, all’uscita da scuola, gli altri bambini l’avevano visto parlare con un uomo. Peter sembrava più felice che mai. Ridacchiando, aveva preso lo sconosciuto per mano e si era girato verso i compagni. L’uomo, alto e biondo, indossava un paio di jeans. I bambini non erano in grado di fornire altri dettagli. Il proprietario dell’osteria ricordava un tizio corrispondente alla descrizione; l’aveva visto qualche volta nei giorni precedenti. Lo sconosciuto non aveva parlato con nessuno, ma si era comportato normalmente.
Il giorno del suo compleanno Peter era tornato a casa con un orsacchiotto. La nonna non sapeva chi glielo avesse dato, comunque da quel momento in poi aveva notato un cambiamento. Il bambino «era diverso, di ritorno da scuola si metteva subito a fare i compiti, riordinava la sua camera e sembrava più felice di prima».
Anche gli insegnanti dicevano che Peter era cambiato, che «negli ultimi tempi si impegnava di più, tanto da far ben sperare».
Peter non aveva neanche un amico, nessuno a cui poter confidare un segreto. I suoi compagni di scuola non sapevano perché e da quanto conoscesse quell’uomo, perché gli avesse parlato, perché gli avesse dato la mano tutto felice. Peter non aveva né un diario né un quaderno dei ricordi; sapeva a malapena scrivere. Uno psicologo infantile che collaborava con la polizia aveva esaminato i suoi disegni, ma purtroppo non aveva trovato niente di utile.
Una foto di Peter era stata distribuita in tutti i paesi e le città della zona, ma sembrava che nessuno avesse visto il bambino. La sua immagine era apparsa anche in tv, durante il telegiornale e in altri programmi. Tutti quelli che sapevano o avevano visto qualcosa erano stati invitati a chiamare la polizia. Erano arrivate più di tremila segnalazioni che però non avevano portato a nulla. Petra aveva assunto un investigatore privato, ma anche lui aveva fatto un buco nell’acqua.
Due mesi dopo il rapimento, in un bosco vicino a Bruxelles, nei pressi di un piccolo centro abitato, era stato rinvenuto il corpo di Peter. Il suo piccolo corpo seviziato. Del colpevole nessuna traccia.

4






Davanti all’hotel sul Bosforo, il più caro e lussuoso di tutti, c’era una folla di poliziotti e giornalisti. Il fatto che un ospite fosse stato ucciso non avrebbe giovato molto all’albergo, ma per il momento il suo proprietario non era da compatire.
Anche l’interno dell’hotel pullulava di uomini. Si capiva subito che erano della polizia. Dato che morivo dalla voglia di sapere chi era la vittima, mi avvicinai alla reception e chiesi di Petra. L’addetta rispose che non voleva parlare con i giornalisti.
Pensai: «Signore, aiutami tu».
«Petra e io ci conosciamo. Per favore, provi almeno a chiamarla e a dirle che nella hall c’è la sua amica Kati».
La receptionist mi voltò le spalle e se ne andò senza ascoltare, quindi mi rivolsi a un suo collega dall’aspetto più umano. Dissi che ero un’amica di Petra Vogel e che volevo parlare con lei, ma non servì a niente. Sembrava che si fossero alzati tutti di malumore. «Petra Hanım non vuole essere disturbata» rispose seccamente l’uomo.
Avrei voluto farle arrivare un messaggio, ma non fu possibile.
Dato che non sono il tipo che getta la spugna facilmente, decisi di studiare una nuova strategia nel bar dell’albergo. Il locale era pieno di giornalisti che aspettavano il momento giusto per passare all’attacco.
Mi diressi verso una finta bionda dall’aria vivace che sedeva a un tavolo da sola. La conoscevo: lavorava per un’emittente privata. Decisa a sfruttare ogni possibilità, le dissi che l’avevo vista al telegiornale e che mi piaceva moltissimo, poi le domandai se poteva farmi un piccolo favore.
«Certo» rispose la giornalista, che non sembrava particolarmente colpita dalla mia estrema gentilezza. «Come posso aiutarla?».
«Sono un’amica di Petra Vogel. Vorrei vederla, ma l’hanno spostata in un’altra camera e quelli della reception si rifiutano di dirmi il numero. Forse lei…».
La giornalista diede un’occhiata al taccuino mormorando fra sé e sé il nome di Petra.
«Qui il suo numero di camera non c’è. Aspetti, provo a chiedere ai colleghi di turno». Così dicendo, si allontanò.
Qualunque cosa intendesse per «colleghi di turno», ero sicura che non sarebbe tornata. Senza dubbio aveva altro da fare. Non poteva certo perdere tempo con una sconosciuta che si era dichiarata sua fan. Ovviamente rimasi di stucco quando, due minuti dopo, la vidi arrivare con una lista.
«Cerca l’attrice che stava nella suite Topkapı, giusto?».
«Sì, proprio lei».
«L’hanno trasferita nella camera 724».
La guardai con occhi pieni di gratitudine.
«Posso chiederle un’altra cosa?».
La giornalista annuì.
«Chi hanno ammazzato?».
«Come, non lo sa?».
Mi fissò stupita. Probabilmente non riusciva a capire perché stesse perdendo tempo con me.
«Hanno ammazzato il regista del film in cui la sua amica fa la parte della protagonista».
Il regista del film in cui recitava Petra!
Come si chiamava? Che tipo era?

Era inutile che mi sforzassi. Non potevo ricordare il suo nome, non lo conoscevo.
Di sicuro l’avevo visto quando ero andata a prendere Petra all’aeroporto. Ma in mezzo a tanta gente come avrei potuto distinguere il regista dal tecnico delle luci? Sui giornali non avevano ancora scritto niente riguardo al film e alle persone che ci lavoravano. E Petra? Mi aveva detto qualcosa del regista? All’improvviso realizzai che non avevamo parlato di certe cose. Non conoscevo né la trama del film né il ruolo della mia amica. Probabilmente la giornalista bionda ne sapeva più di me.
Dal telefono vicino alla reception chiamai la stanza 724. Aspettai per un bel po’, ma non rispose nessuno. Un altro buco nell’acqua. Avrei potuto lasciare l’albergo per andare a casa o in negozio, ma ero troppo curiosa. Tornai al bar e mi sedetti a un tavolo da cui era possibile ascoltare i discorsi dei reporter. Ogni tanto mi alzavo per richiamare l’interno 724. Non sapevo neanch’io il perché. Di sicuro non lo facevo per preoccupazione. Non ero in ansia per Petra.
Quando capii che dai discorsi dei giornalisti seduti al tavolo accanto al mio non avrei ricavato molto, li interruppi gentilmente e chiesi il nome del morto.
«Perché lo vuole sapere?» domandò un uomo grassoccio dall’aria affabile.
«Perché forse era famoso» risposi. «L’hotel è pieno di poliziotti e giornalisti».
«No, non era famoso» replicò lui.
«Si chiamava Kurt Müller. Io non l’avevo mai sentito nominare» aggiunse un altro, che di sicuro non conosceva neanche Steven Spielberg.
«Kurt Müller» ripetei fra me e me. Era un nome molto comune, anche per un morto.
Il grasso sembrava favorevole a uno scambio di informazioni. Avvicinò la sedia al mio tavolo e indicò il pacchetto di sigarette.
«Chi era questo Kurt Müller?» domandai, porgendogli il pacchetto.
«Tre giorni fa una troupe tedesca è arrivata qui a Istanbul per girare un film. Immagino che ne abbia sentito parlare» disse l’uomo, accendendo una sigaretta. «Müller era il regista. L’hanno trovato stamattina verso le cinque, nella sua camera… Non sappiamo com’è morto. La polizia non ha ancora rilasciato dichiarazioni. Comunque c’è il sospetto che si tratti di omicidio».

A pomeriggio inoltrato decisi che non era il caso di rimanere tutto il giorno in hotel. Dovevo andare in negozio per dare il cambio a Pelin. Sarebbe stata la mia prima azione sensata. Dal telefono interno vicino alla reception chiamai ancora una volta la stanza di Petra. Che alzassero o meno la cornetta, ormai era uguale. Comunque non rispose nessuno.
Se pensate che a quel punto mi sia arrabbiata, vi sbagliate di grosso. Ero tranquillissima. È facile mantenere la calma quando ci si arrende al proprio destino. La possibilità di diventare investigatrice aveva bussato alla mia porta, ma era svanita prima che riuscissi ad aprire. La mia vita sarebbe tornata alla normalità, il che era senz’altro un bene. Gli scossoni degli ultimi giorni avevano messo a dura prova il mio debole cuore. Tutti i caffè che avevo bevuto mentre aspettavo che l’assassino venisse a mettersi accanto a me con l’arma del delitto e le mani insanguinate erano una punizione sufficiente. Ero pronta a rinunciare a tutte le mie velleità da detective.

Purtroppo la possibilità che aveva bussato alla mia porta per poi allontanarsi non aveva nessuna intenzione di lasciarmi in pace.

Del traffico e delle difficoltà di parcheggio che fanno impazzire gli abitanti di Istanbul sapete già tutto, ma non potete immaginare con quale stoicismo sopportai entrambe le cose. Non solo non mi sporsi dal finestrino per insultare gli automobilisti che avevo davanti, ma evitai anche di attaccar briga con i pedoni che attraversavano la strada col rosso. Avevo accettato il mio destino, niente poteva turbare la mia tranquillità.
Entrando in negozio con un toast al formaggio ebbi la prima sorpresa piacevole della giornata: Petra era lì, sulla mia sedia a dondolo. Non appena mi vide, scattò in piedi e con voce quasi isterica gridò: «Dove diavolo eri?».
Di sicuro mi stava aspettando da un bel po’. Perché non mi era venuto in mente di chiamare il negozio?
«Cos’è successo?» domandai, continuando a mangiare il toast.
La sera precedente, disse Petra, quelli della troupe avevano cenato tutti insieme. Lei era rimasta per poco, si era ritirata quasi subito nella sua camera per dormire. In seguito aveva saputo che neanche gli altri avevano fatto le ore piccole. Si erano separati verso mezzanotte. Dato che quel giorno bisognava girare in esterni, la sveglia era suonata molto presto. Appuntamento alle quattro e trenta nella hall dell’albergo. Erano scesi tutti in orario tranne il regista. Convinti che fosse semplicemente in ritardo, l’avevano aspettato per cinque minuti, poi gli avevano telefonato. Müller non aveva risposto. Le riprese non potevano cominciare senza di lui, quindi bisognava per forza aspettare. Alle cinque e un quarto, dopo una lunga attesa e molte telefonate senza risposta, un membro della troupe aveva proposto di andare dal regista. «Ieri ha fatto il pieno» aveva detto. «Se è in coma, non può certo sentire il telefono». Sapevano tutti che a Müller piaceva alzare il gomito. Il portiere di notte li aveva informati che non si poteva aprire nessuna porta finché l’ospite era in camera, ma alla fine aveva fatto entrare nella stanza un dipendente dell’albergo e il costumista, che tra i membri della troupe era quello più vicino a Müller.
Dopo un attimo l’uomo, bianco come un lenzuolo, era uscito di corsa gridando: «Hanno ammazzato Kurt!».
Petra non sapeva com’era morto, non l’aveva neanche chiesto. Sembrava che non gliene importasse nulla, il che mi irritò parecchio. Pensai a quello che mi aveva appena raccontato. Se il costumista aveva dato un’occhiata al cadavere di Müller ed era uscito dalla stanza gridando che l’avevano «ammazzato», si trattava senza dubbio di un delitto. Sulla base delle mie conoscenze credo di poter affermare che gli omicidi più riconoscibili sono quelli commessi con una pistola. Ma perché un normale costumista aveva pensato subito a un omicidio anziché a un suicidio? Perché non aveva detto che il regista si era ucciso o, più semplicemente, che era morto? Mi vennero in mente diverse risposte:
1. Müller era stato ucciso dal costumista.
2. L’assassino non si era preoccupato di camuffare l’omicidio da suicidio.
3. Il costumista leggeva molti gialli, quindi tendeva a dimenticare che le persone potevano anche suicidarsi o morire per cause naturali.
4. Ammesso che il regista fosse morto per un colpo d’arma da fuoco, forse la posizione della ferita indicava che non si era sparato da solo. Ovviamente, se il costumista l’aveva notato al primo sguardo, non era un semplice lettore di gialli. Doveva essere un medico legale o un commissario in pensione.
5. L’arma del delitto non c’era e il costumista ed ex investigatore della squadra omicidi se n’era accorto immediatamente.
Dopo aver valutato tutte le possibilità, capii che non sarei arrivata a niente stando seduta a riflettere.

Devo dire che nei confronti della polizia ho una certa diffidenza. Forse qualcosa di più, come sostengono alcuni. Non è il caso di approfondire la questione, vi basti sapere che cambio lato della strada appena vedo un poliziotto. Tra le cose che mia madre mi ripeteva quand’ero bambina e che ancora oggi non ho dimenticato c’è la massima «Non ti fidare mai dei poliziotti». L’argomento «polizia» è forse l’unico su cui siamo d’accordo. Per noi i poliziotti non hanno nazionalità. Inglesi, turchi, messicani, tedeschi… sono tutti uguali. Non ci si può fidare di nessuno.
Per l’uomo in uniforme che era appena entrato nella mia libreria, bello come un dio, ero però disposta a cambiare idea e a prendere le distanze da mia madre. Tentai di nascondere l’agitazione e di ignorare Recai, che era apparso al di là della vetrina non appena l’auto della polizia si era fermata davanti al negozio. «C’è qualche problema, signor commissario?» domandai con la ferma intenzione di colpire il suo ego, anche se ero praticamente sicura che non fosse un semplice agente.
«Sono il commissario Batuhan, squadra omicidi. Vorrei farle alcune domande. Se non le dispiace».
Qualunque turco sarebbe rimasto meravigliato dalla sua presentazione. Ora vi spiego perché. Innanzitutto Batuhan non è un nome da commissario, a differenza di Ali, Mehmet o anche Orhan. Batuhan è un nome da cantante pop, e se due genitori decidono di chiamare così il loro bambino, di sicuro non sognano per lui un futuro in polizia.
Probabilmente, dal terribile giorno in cui Batuhan era entrato in accademia, la madre non faceva altro che giocare a konken mentre il padre cercava consolazione nella droga. La sua famiglia era senz’altro distrutta, eppure il commissario mi sorrideva gentilmente, quasi non sapesse di aver causato una tragedia.
Non capitava tutti i giorni di incontrare un commissario così gentile. Anche il poliziotto di Ortaköy con cui avevo parlato per telefono, quello con il nome normale che però non riuscivo a ricordare, mi aveva trattato con cortesia. Questo poteva significare solo una cosa: che l’Europa doveva tenersi forte. La Turchia si era messa in testa di entrare nell’Unione e stava facendo di tutto per raggiungere il suo obiettivo. Ora anche i poliziotti turchi dovevano mostrare un po’ di rispetto per i diritti umani.

«È sicuro di voler parlare con me? Forse sta cercando la mia amica Petra» dissi, indicandola con un cenno del capo.
Petra si stava dondolando allegramente sulla mia sedia, come se tutto il resto non avesse importanza.
Sul viso del commissario Batuhan apparve un’espressione di meraviglia mista a gioia infantile. Era ovvio che non si era accorto della sua presenza.
Tentando di nascondere la sorpresa, tirò fuori un taccuino e diede uno sguardo agli appunti. «La sua amica Petra… Petra Vogel. Sì, sto cercando proprio lei».
Gliela indicai col pollice. Recai era ancora davanti alla vetrina, intento a osservare ciò che stava succedendo nel negozio. Per farlo sparire, socchiusi la porta e gli ordinai tre tè.
Ero certa che il commissario Batuhan conoscesse l’inglese. Se avessi sentito un altro poliziotto pronunciare anche solo una parola in un idioma diverso dal turco, mi sarebbe venuto un colpo, ma la conoscenza di una lingua straniera mi sembrava assolutamente normale per un tipo come Batuhan.
L’inglese di Petra non era migliorato neanche un po’ negli anni. La mia vecchia compagna non aveva nessuna predisposizione per le lingue, perfino il suo tedesco lasciava a desiderare. Dato che lei e Batuhan non riuscivano a trovare una lingua comune, dovetti andare ben oltre il ruolo di semplice ascoltatrice.
Usando quasi le stesse parole, Petra raccontò al commissario quello che dieci minuti prima aveva raccontato a me. Né una frase in più, né una frase in meno. Batuhan rimase in silenzio per tutto il tempo; si limitò ad ascoltare e a prendere appunti.
«Potrebbe chiederle se ieri sera, dopo essere tornata nella sua camera, ha sentito qualche strano rumore?» disse infine, parlando con me, ma guardando lei.
La mia curiosità prese ancora una volta il sopravvento. Non riuscii a controllarmi.
«Che tipo di rumore? Uno sparo?» domandai senza volerlo.
Il commissario posò lo sguardo su di me. «Uno sparo? Come le viene in mente?».
«Non lo so… Voglio dire… Com’è stato ucciso Müller?».
«Ah, ho capito. Pensa che gli abbiano sparato. No, non è stato ucciso con un’arma da fuoco». Sorridendo in modo beffardo, scoprì una fila di denti bianchissimi. Dovetti fare uno sforzo notevole per concentrarmi su ciò che diceva anziché sulla sua persona.
«Müller è morto nella vasca da bagno. Qualcuno ha buttato in acqua un asciugacapelli acceso…». Il commissario ebbe un attimo di esitazione, poi sorrise di nuovo, ma senza mostrare i denti. «È stato un omicidio con molta schiuma. Una cosa ingegnosa».
«Un omicidio con molta schiuma» ripetei sottovoce. Cosa c’era di inggnoso? La schiuma?
Batuhan mi guardò negli occhi. «Per favore, le chieda se ieri sera ha sentito qualche strano rumore. Se ha visto qualcosa. Qualunque dettaglio, anche il più insignificante, potrebbe aiutarci a trovare l’assassino».
Tradussi per Petra.
«No» rispose lei con decisione. «Non ho visto né sentito niente. Sono andata a letto e mi sono addormentata subito. Ero stanchissima».
Lui annotò tutto.
«Dovrà ripetere questa dichiarazione in presenza di un interprete giurato» disse. Poi, temendo di avermi offeso, si affrettò ad aggiungere: «Abbiamo bisogno di una traduzione ufficiale da mettere agli atti». Guardò Petra. «Se la signora potesse venire da me in centrale… Magari domani pomeriggio alle cinque…».
Mentre traducevo le sue parole, cercai di immaginare come avrei reagito se un poliziotto mi avesse chiesto di andare in «centrale». Petra continuò a dondolarsi tranquillamente e con grande calma rispose che alle cinque del giorno dopo sarebbe stata nel suo ufficio.
«Potrebbe chiedere a Petra Hanım se ha intenzione di lasciare Istanbul? I suoi colleghi vogliono rimanere qui e terminare il film, ma forse lei ha altri progetti».
Ancora una volta ripetei tutto in tedesco.
«No, rimarrò anch’io. Finiremo di girare questo film, con o senza Müller».
Il commissario si scrisse la risposta, poi si alzò e strinse la mano a Petra. A me chiese se poteva tornare il giorno dopo.
«Perché?» domandai, quasi strillando. «Non ho niente a che fare con questo omicidio. Sono solo un’amica di Petra».
«Non ho mica detto che voglio tornare per interrogarla. Vorrei parlare di libri. Sa, sono un avido lettore di gialli».
La sua spiegazione mi tranquillizzò. Abbozzai addirittura un sorriso.
«Anch’io ho una domanda» dissi. «Come siete arrivati a me?».
«È il nostro lavoro. Partiamo dal presupposto che chiunque abbia a che fare anche solo lontanamente con l’omicidio può esserci d’aiuto».
«Okay, ma non ha ancora risposto alla mia domanda».
Batuhan mi scrutò per un attimo con espressione seria.
«Parlando con quelli della troupe abbiamo saputo che Petra Hanım aveva un’amica che gestiva una libreria qui a Istanbul. Trovare il suo negozio non è stato poi così difficile». Lo disse come se la mia libreria fosse l’unica della città. Decisi di non replicare: dovevo conservare le energie per quando sarebbe tornato.
Dopo aver salutato il commissario, invitai Petra a rimanere ancora un po’, ma lei rispose che doveva andare. Naturalmente non insistetti. Era libera di fare ciò che voleva.
Prese un taxi e tornò in hotel.

5






Il giorno successivo, con mia grande sorpresa, mi svegliai alle nove. Evidentemente l’agitazione mi faceva bene. Quando raggiunsi il caffè all’angolo erano quasi le dieci e c’erano già trenta gradi.
Tutti i giornali turchi riportavano la notizia dell’omicidio in prima pagina. Lessi dalla prima all’ultima riga. Non c’era niente di nuovo, niente che non avessi già saputo da Petra e Batuhan. In un articolo trovai alcune informazioni sul regista. Classe 1952, Kurt Müller non poteva vantare neanche un film di successo. Tra le sue opere: La notte dopo la pioggia e Alla ricerca dell’amore eterno. Due titoli che non avevo mai sentito.
Tutti i giornalisti erano concordi nel dire che si sarebbe parlato molto del film Le mille e una notte nell’harem. La sceneggiatura era basata sull’omonimo romanzo di Giacomo Donetti, che aveva battuto tutti i record di vendita. Yusuf Selam, direttore generale della Mumcular Film, la società che doveva produrre il film insieme ai tedeschi, aveva rilasciato una dichiarazione scritta in cui prometteva di «spezzare le dita ai bastardi che ce l’hanno con l’arte e con gli attori». Parole decisamente forti. Selam aveva anche dichiarato che, nonostante la tragica morte del regista, le riprese sarebbero ricominciate al più presto. Lui e i suoi soci avrebbero fatto di tutto per trasformare l’opera in un successo.
Nella mia mente prese forma una domanda: se il film era l’adattamento di un best seller di Donetti, perché avevano scelto un regista di serie B come Müller?
La temperatura aumentò rapidamente fino a quaranta gradi. Percorrere le ripide stradine di Çukurcuma con il sole che mi bruciava la testa fu una vera tortura. Una volta raggiunto il mio negozio climatizzato, mi sedetti davanti alla più grande invenzione dell’uomo dopo la ruota: Internet.
Per dare la notizia della morte di Müller quasi tutti i giornali tedeschi avevano scelto lo stesso titolo: Omicidio sul Bosforo. In Germania, quando qualcosa ha a che fare con Istanbul, che si tratti di un documentario o di un romanzo, si usa quasi sempre la parola «Bosforo».
La «Westdeutsche Zeitung» e il «Tagesblatt des Ostens» fornivano maggiori dettagli rispetto agli altri, però non trovai informazioni utili su Kurt Müller.
Chi diavolo era? Inserii il nome nel mio motore di ricerca preferito e ottenni 1.634 risultati. La cosa mi demoralizzò, ma non mi sorprese: un tedesco su quattro si chiamava Kurt o Müller.
Controllai un centinaio di risultati, poi mi stufai. I pochissimi siti web in cui veniva menzionato il Kurt Müller che stavo cercando erano di giornali che parlavano del film e dell’omicidio.
Stavo per dare un pugno al computer quando, all’improvviso, mi ricordai della mia amica Sandra, dottoressa in pensione che viveva a Bielefeld. Anche se non sapeva chi era Müller, di sicuro avrebbe trovato qualcuno che lo conosceva. Mi attaccai subito al telefono.

Quando vidi il commissario Batuhan sbirciare nel negozio attraverso la vetrina avevo appena finito di mangiare una focaccia di Trabzon e stavo bevendo una tazza di tè verde dopo l’altra per aiutare la digestione. Pelin aveva già staccato ed era andata al cinema.
Batuhan indossava abiti civili. Non era elegante: i pantaloni grigi e la camicia bianca facevano pensare con nostalgia all’uniforme da poliziotto. Ma era comunque un bell’uomo. Per me, avrebbe potuto indossare anche un sacco.
Con un cenno della mano lo invitai a raggiungermi. Non se lo fece ripetere due volte. «Gradisce un po’ di tè verde?» domandai non appena fu entrato. «L’ho appena fatto».
«No, non si disturbi» rispose lui, che chiaramente voleva dire: «Sì, grazie».
Mi avvicinai al vano cucina per prendere un’altra tazza.
«Come procedono le indagini?».
«A rilento. Non siamo ancora riusciti a parlare con tutti i membri della troupe. Ci vuole tempo per interrogare qualcuno con l’interprete. Comunque credo che da loro non sapremo nient’altro. Dicono tutti più o meno le stesse cose».
«E la vittima?».
«La vittima? Sa…». Batuhan s’interruppe di colpo. Io ero in piedi, con la tazza in mano, davanti alla tenda a righe che separava la cucina dal negozio.
«Chi può aver ucciso quel pover’uomo e perché? Da quel che ho capito, era uno come tanti».
«Non lo so. Per quanto riguarda la regia, ha ragione lei, non aveva niente di particolare. Anzi, era addirittura sotto la media. Ma forse non era il suo vero lavoro». Si zittì di nuovo. Il cuore mi batteva furiosamente nel petto. A quanto pareva, ero sulla pista giusta. Avevo fatto bene a concentrarmi sulla vita di Müller.
«Naturalmente… certe cose dovrebbero rimanere riservate» aggiunse lui. Solo più avanti avrei capito che cosa intendeva.
«Sembra un caso complicato» dissi, cercando un modo per strappargli altre informazioni.
«Sì, è abbastanza complicato».
«C’è di mezzo la droga?». Non riuscii a trattenere la domanda. Eppure sono il tipo che sa frenare la lingua.
Batuhan trasecolò. «Ma come le viene in mente?».
«Così».

Dopo avermi guardato con una certa ammirazione, il commissario cambiò abilmente discorso e si mise a parlare di libri. Era un vero appassionato di gialli, ma a me non interessava minimamente sapere quanto gli era piaciuto Raymond Chandler. Ascoltai le sue chiacchiere per mezz’ora, poi mi offrii di preparare dell’altro tè. Se non altro, in cucina avrei avuto un attimo di pace.
«È un po’ tardi per il tè» disse lui, fissando l’orologio. Poi, guardando altrove, sussurrò: «Mi piacerebbe invitarla a cena. Così potremmo continuare la nostra chiacchierata».
«Corre un po’ troppo per essere della polizia» risposi in tedesco.
«Mi dispiace, non conosco la sua lingua» fece Batuhan, sempre molto cortese.
«Come corre!» tradussi in modo forse un po’ brutale.
La focaccia che avevo nello stomaco pesava come un macigno, ma non volevo rifiutare l’invito del commissario. Andare a cena con lui era nel mio interesse. Da quasi due giorni stavo cercando di scoprire qualcosa sull’omicidio di Müller, ma non ero ancora arrivata a niente. Dovevo sciogliere la lingua a Batuhan. Con un buon pasto, qualche bicchiere di vino… All’improvviso ricordai che l’uomo che stava sbirciando la mia scollatura con un sorriso timido e insieme sfacciato era un poliziotto. Per farlo cantare come un usignolo ci volevano kebab e rakı.
Accettai l’invito con scarso entusiasmo, come se gli stessi facendo un grande favore. «Però» aggiunsi subito «decido io dove andare, okay?».
A voi lo posso anche confessare: temevo che Batuhan mi avrebbe portato in uno dei locali di Beyoğlu frequentati dai miei amici oppure in un bar pieno di poliziotti. Di solito mi comporto come le altre donne: lascio che sia l’uomo a scegliere il posto. E se sbaglia, glielo faccio capire con gesti ed espressioni.
Dopo aver valutato mentalmente diversi locali, scelsi una kebaberia di Yeşilköy.
Yeşilköy si trova nella parte europea di Istanbul, ma è abbastanza lontano dalle zone che frequento, cioè Beyoğlu, Cihangir e Kuledibi. In realtà è lontano da quasi tutto. Per aiutare chi non conosce la città a farsi un’idea più precisa, posso aggiungere che l’aeroporto Atatürk, quello dove alcuni giorni prima ero andata a prendere la mia amica Petra, si trova proprio lì.
Stiamo comunque parlando di uno degli ultimi quartieri verdi di Istanbul. Prima in tutta la zona si pagavano affitti stratosferici. Poi c’è stato il terremoto del Mar di Marmara e si è scoperto che il terreno di Yeşilköy è particolarmente instabile, di conseguenza tutti quelli che se lo potevano permettere si sono trasferiti altrove. Oggi nel quartiere vivono soprattutto vedove e pensionati che non hanno i mezzi per spostarsi, ma ci sono anche tanti negozi di kebab che ricordano i bei tempi andati.

Uscimmo dalla libreria e Batuhan corse alla macchina per aprirmi la portiera. Aveva una Renault rossa. Un’auto un po’ troppo vistosa per un commissario della squadra omicidi.
Durante il tragitto da Kuledibi a Yeşilköy ci scambiammo poche parole. Era bello non dover guidare. Tornai con la mente a quattro giorni prima. Sì, erano passati solo quattro giorni da quando avevo percorso la stessa strada con la mia macchina. Allora, però, avevo ben altri pensieri per la testa.
Non mettevo piede a Yeşilköy da anni. Non ricordavo neanche più perché c’ero stata l’ultima volta. Per fortuna la kebaberia dove volevo andare era ancora al suo posto ed era aperta.
Il negozio era stretto e lungo. Sotto i tubi al neon appesi al soffitto i clienti dalle guance rosse sembravano pallidi come scandinavi. Non so perché, ma i turchi amano il neon. A me non interessavano né le lampade dalla luce bianca né i paffuti individui di ceto medio che costituivano la clientela del locale. Il climatizzatore andava a pieno ritmo per dare refrigerio a tutti quelli che anche d’estate mangiavano kebab ed era proprio questo che mi piaceva.
Puntai subito verso un tavolo appartato.
Ordinammo due antipasti, kebab con melanzane e rakı. A dire il vero, a me non piace né il kebab né il rakı. Il primo è troppo grasso, il secondo, con il suo odore di anice e uva fermentata, mi dà la nausea. Per tutta la sera, quindi, mi limitai ad avvicinare il bicchiere alle labbra e a bere qualche goccia dell’orrendo liquido.
Dopo aver parlato di rakı, di romanzi gialli, del difficile lavoro del poliziotto e addirittura delle magagne della polizia turca, alzai di nuovo il bicchiere e un po’ schifata domandai: «Chi può aver ucciso Müller?». Così, di punto in bianco.
«Non posso farle nessun nome. Per puntare il dito contro qualcuno, dobbiamo prima raccogliere un numero sufficiente di indizi» rispose Batuhan, per nulla sorpreso dal mio improvviso cambio di discorso.
«Prima, in negozio, ha detto che forse Müller aveva un altro lavoro…». Lasciai la frase in sospeso. Non sapevo come continuare. Non volevo spaventare il commissario, ma avevo difficoltà a esprimermi in modo non troppo esplicito. Forse il mio turco non era poi così buono. O magari era semplicemente questione di carattere. Sono sempre stata una persona molto schietta. Non potevo certo cambiare all’improvviso solo per ottenere qualche informazione. Girare continuamente intorno alle cose era troppo faticoso.
Mi spostai sul bordo della sedia, girai il corpo verso sinistra, appoggiai il gomito destro sul tavolo e misi la mano sotto il mento. Dopo aver assunto questa efficacissima posa da giornalista, lo guardai dritto negli occhi. «Batuhan Bey,2anche lei è appassionato di gialli, quindi può sicuramente capirmi. Sa, in fondo tutti quelli che leggono certi libri vorrebbero diventare detective…».
«O feroci assassini».
«Veramente, credo che nessun lettore si sia mai trasformato in un assassino». Abbozzai un sorriso. «Non mi dica che sono nella sua lista dei sospetti… Solo perché leggo romanzi gialli…».
«No, anche perché li vende» rispose lui, ridendo.
«Wow! Quindi l’assassina è una libraia che vende romanzi gialli. Movente?».
«Il morto voleva scaricare la sua migliore amica».
«Cosa?». Finalmente la conversazione stava entrando nel vivo.
«Pare che la sua amica Petra avesse una relazione con Müller. Nella troupe lo sapevano quasi tutti. Una volta arrivati a Istanbul, hanno litigato e così lui ha deciso di assegnare la parte della protagonista all’attrice turca Ayla Özdal. Voleva dare il benservito a Petra».
Non ce la facevo più a tenere la posa da fredda giornalista. All’improvviso avevo capito perché Batuhan non si aspettava niente dagli ultimi membri della troupe: quelli già interrogati avevano fornito una quantità di informazioni interessanti.
Presi una sigaretta dal pacchetto sul tavolo e l’avvicinai all’accendino che il commissario mi stava offrendo, poi, con il capo leggermente piegato verso destra, emisi una nuvola di fumo e lo guardai con aria sprezzante.
«Crede che questo possa spingere una persona normale a commettere un omicidio?» domandai con voce gelida. «Una persona come noi. O meglio, un’attrice famosa che ha moltissimo da perdere». Forse Petra non era poi così famosa, ma non importava.
«Secondo me è un buon movente. Perdere contemporaneamente amore e lavoro sarebbe un duro colpo per chiunque». Batuhan si sciacquò la bocca con un bel sorso di rakı e ghiaccio. Una scena tutt’altro che piacevole.
«Comunque non sto dicendo che è stata Petra Hanım a commettere l’omicidio. Non abbiamo prove. Sa com’è, no? Tutti innocenti fino a prova contraria». Soddisfatto per la bella frase, buttò giù un altro sorso di rakı. Continuando così si sarebbe ubriacato in fretta.
«Non sappiamo se Kurt Müller aveva davvero intenzione di dare il benservito alla sua amica. Per il momento è solo un’ipotesi. Stiamo ancora indagando». Si accese una sigaretta. «Ammettiamo che volesse davvero liberarsi di lei. Il suo assassinio dopo lo scioglimento del contratto avrebbe portato notevoli vantaggi economici a Petra Hanım». Per sottolineare il concetto, sfregò le dita come se stesse contando del denaro.
Dopo la crisi economica di febbraio i turchi prendevano ancora più seriamente le questioni di soldi.
«In caso di scioglimento del contratto, Petra Hanım ha diritto a un bel risarcimento». Il commissario fece una pausa, poi, sorridendo, aggiunse: «In qualunque modo la si voglia guardare, per la sua amica non si mette bene».
«È come tutti gli altri poliziotti» pensai. «Può anche essere un bell’uomo e aver frequentato l’accademia, ma non ha niente di speciale».
«Nella vostra lista dei sospetti c’è solo Petra?».
«Assolutamente no» rispose lui in modo poco convincente.
«Vuol dire che c’è qualcun altro?».
Batuhan alzò le spalle e borbottò qualcosa.
«Quindi si tratta di un omicidio passionale?».
«Non importa se l’assassino ha agito per amore, per soldi o per vendetta, a noi interessa soprattutto scoprire chi è stato. Non è compito nostro stabilire il movente del delitto e le eventuali circostanze attenuanti o aggravanti. Queste cose le lasciamo agli avvocati». Mi guardò come se volesse capire che effetto avevano avuto le sue parole. Con gli occhi iniettati di sangue non mi sembrava più così attraente. All’improvviso mi resi conto della gravità della situazione: ero in un quartiere fuori mano e stavo cenando con kebab e rakı in compagnia di un poliziotto che considerava la mia amica Petra un’assassina!

Il giorno seguente mi svegliai di buonora. L’aria era ancora fresca. Dalla finestra feci le mie ordinazioni al negozio sotto casa. Hamdi, l’aiutante del bottegaio, aveva notato che da due giorni compravo tutti i giornali. Mentre riempiva il cesto che avevo calato per lui, mi guardò sorridendo e chiese: «Cos’è successo, Kati Abla?3Com’è che ultimamente vuoi essere superinformata?».
Un altro eccesso di confidenza di prima mattina! Ormai ero abituata a questa particolarità turca, quindi risposi con una risata.
Erano passati solo due giorni dall’omicidio, ma i giornalisti sembravano già interessati ad altro: evidentemente la foto di un’attricetta come Ayla Özdal che mostrava il sedere giocando a tennis era meglio del volto butterato di Müller.
Tutti i giornali che avevo comprato davano ampio spazio alle dichiarazioni che Özdal aveva rilasciato il giorno prima durante una conferenza stampa. La ragazza aveva detto che voleva rappresentare il cinema turco nel mondo, che possedeva tutte le qualità per farlo e che non vedeva l’ora di mostrare il suo talento anche all’estero, poi se l’era presa con il maledetto assassino che aveva rovinato tutto all’ultimo momento. Il suo manager si era invece espresso in modo più cauto: in effetti, dopo la morte del regista, non si sapeva che ne sarebbe stato del film, ma Ayla era una giovane promessa del cinema e senza dubbio avrebbe ricevuto altre offerte. In un modo o nell’altro avrebbe fatto onore al suo paese.
I giornali dedicavano solo un paio di righe all’omicidio di Müller. Dicevano semplicemente che il colpevole era ancora in libertà, ma che presto sarebbe finito in manette. La polizia di Istanbul ne era sicura.
Telefonai subito a Petra, che probabilmente stava ancora dormendo.
«Secondo i giornali turchi volevano sostituirti» gridai, senza salutare. Ero davvero arrabbiata: avrei voluto sapere certe cose direttamente da lei, non da fonti così inattendibili.
«Cosa? Chi l’ha detto che volevano sostituirmi?». La mia amica non sembrava molto sveglia.
«È scritto su tutti i giornali!». Per un attimo restammo in silenzio, ognuna in attesa che l’altra dicesse qualcosa. Non pensai neanche lontanamente di rivelarle che non avevo appreso la notizia dai giornali. Non era il caso.
«Volevano togliermi la parte?» domandò lei, incredula e mezza addormentata.
«Sì, volevano toglierti la parte» confermai. Forse era meglio aspettare che si svegliasse del tutto prima di continuare la conversazione.
«Se vuoi, ci vediamo tra un’ora nella hall del tuo albergo. Andiamo a fare colazione da qualche parte, così ti spiego cosa dicono i giornali».
Subito dopo chiamai Lale.
Lei è la mia migliore amica, ma è anche caporedattrice del «Günebakan», il quotidiano più importante della Turchia. Può accedere facilmente a qualsiasi informazione. Mi promise che in giornata avrei incontrato i reporter che si erano occupati del caso. Entro dieci minuti la sua segretaria mi avrebbe fatto sapere luogo e ora dell’appuntamento.
In attesa della telefonata, aprii l’armadio e cercai di decidere cosa indossare. In realtà non c’era bisogno di riflettere tanto: qualunque cosa avessi scelto, mi sarei trovata in un bagno di sudore. Misi una maglietta bianca dall’ampia scollatura e un paio di calzoni di lino viola, poi mi sedetti alla toilette. Mentre applicavo l’ombretto azzurro sulla palpebra destra, squillò il telefono. Era la segretaria della mia amica: i due reporter mi avrebbero incontrato alle quattro in un caffè di Kuledibi. Grande Lale! Con tutte le cose che aveva da fare, si era anche preoccupata di scegliere il posto migliore per me. Beh, per diventare caporedattori del «Günebakan» bisogna senz’altro essere in gamba.
Dopo aver truccato anche l’occhio sinistro, uscii di casa. Naturalmente non presi la mia macchina; con un cenno feci fermare il primo taxi che mi venne a tiro.
Da quando i clienti avevano cominciato a diminuire a causa della crisi economica, i tassisti si erano sicuramente dati una regolata. Per la seconda volta in quattro giorni arrivai a destinazione e uscii dall’auto senza aver litigato con il conducente. Una cosa tutt’altro che normale.
Dato che ero in anticipo, decisi di fare quattro passi intorno all’hotel. Nel jazz bar gli addetti alle pulizie stavano raccogliendo i mozziconi di sigaretta e le bottiglie vuote della notte precedente. Mi sedetti per terra e con il viso tra le mani osservai il panorama del Bosforo. Dopo tanti anni la sua bellezza riusciva ancora a stupirmi. Ripensai al mio ultimo incontro con Batuhan. Che mi piacesse o meno, lui sospettava di Petra. Ma perché aveva detto che forse la regia non era l’attività principale di Müller? Che c’entrava?

Quando entrai, Petra era già in attesa nella hall.
Ci incamminammo lungo il trafficato viale che conduceva ai numerosi locali sulla sponda di Ortaköy. Nessuna di noi due disse una parola su Müller e sul suo film; parlammo invece della situazione del cinema tedesco. Dopo aver comprato un paio di simit4 da un venditore ambulante e del formaggio kaşar in una bottega vicino alla piazza, ci sedemmo nel giardino di una sala da tè non lontano dal mare. Ortaköy è un quartiere interessante: ci sono grandi differenze di classe, come in tutta Istanbul, ma si notano molto meno che in altre zone. Il giardino in cui eravamo sedute apparteneva alla città ed era frequentato da chi non voleva spendere tanto. Non lontano sorgeva il palazzo della sultana Esma, dove si celebravano i matrimoni dei più abbienti; davanti all’edificio si vedevano spesso lunghe file di limousine con autista. Come in molti altri quartieri, a Ortaköy popolani e membri dell’alta società vivevano e si divertivano gli uni accanto agli altri.
Non appena il cameriere si fu allontanato, Petra cominciò a raccontarmi cos’aveva fatto il giorno precedente. Voleva conoscere la città, quindi, come tutti i turisti, aveva visitato Sultanahmet. Ne era rimasta letteralmente affascinata. Credeva che la vista sul Bosforo della sua camera d’albergo racchiudesse tutta la bellezza di Istanbul, ma naturalmente si sbagliava. Mi parlò con grande entusiasmo di ciò che aveva visto nello storico quartiere peninsulare: il Topkapı, la basilica di Santa Sofia, la Cisterna Basilica, la Moschea Blu… A rischio di sembrare scortese, la interruppi. Avevo trascorso a Istanbul i primi sette anni della mia vita e gli ultimi tredici. Avendo ospitato molti turisti, mi ero dovuta sorbire più volte le stesse storie. Non avevo voglia di fingere interesse. Inoltre mi sembrava che fosse arrivato il momento di parlare di Ayla Özdal e Kurt Müller.
«Stavi per perdere il ruolo di protagonista. Lo sapevi?».
«No, l’ho scoperto stamattina quando mi hai chiamato. Non capisco. Che significa?». Petra frugò nella borsetta ed estrasse un pacchetto di sigarette. «Cosa dicono i giornali?».
Dopo aver parlato di stupidi film tedeschi per tutto il tragitto dall’hotel al giardino, meritavo che la mia curiosità fosse soddisfatta per prima.
«Conosci Ayla Özdal?» domandai, mostrandole un giornale con una foto dell’attrice turca.
Lei portò l’immagine all’altezza del volto e la guardò attentamente. «Questa donna? No, non la conosco».
Infilando di nuovo la mano nella borsetta, prese un accendino.
«Sei sicura?».
«Sicurissima. Ma vorrei sapere cosa dicono i giornali». Si accese una sigaretta e cominciò a tossire.
«I giornali dicono che il vostro defunto regista voleva dare la tua parte a questa donna. È stata lei a rivelarlo. Ieri, durante una conferenza stampa, ha dichiarato che, se Müller non fosse morto, le avrebbe sicuramente affidato il ruolo della protagonista».
«Interessante. Immagino che ora tu voglia sapere come mai se n’è uscita con una cosa del genere».
«Già, vorrei proprio saperlo».
Credevo di aver finalmente risvegliato il suo interesse per la faccenda. Non mi aspettavo che se ne uscisse con una frase come: «Prestami il cellulare».
Gli amici vedevano in me un perfetto esempio di integrazione, ma la capacità di adattamento di Petra era decisamente superiore alla mia. Dopo neanche una settimana sembrava già una turca.
Strabuzzai gli occhi. «Devi telefonare proprio adesso?».
«Non vuoi sapere se avevano davvero intenzione di sostituirmi? Chiamo il produttore turco e glielo chiedo. Ora che la notizia è su tutti i giornali, può dirmi la verità».
Per un istante pensai che il cellulare poteva anche essere utile. Purtroppo non ne possedevo uno. Dimenticammo tè e simit e tornammo subito in albergo. Non volevamo telefonare da uno degli apparecchi pubblici che si trovavano nella piazza di Ortaköy.

Non le dissi che sapevo della sua relazione con Müller. Non volevo giocare tutte le mie carte.

Non fu facile raggiungere il produttore turco. Petra chiamò il suo ufficio e parlò con qualcuno che evidentemente conosceva il tedesco. Il produttore era in vacanza e non voleva essere disturbato; la persona all’altro capo della linea non poteva dare il suo numero di cellulare a nessuno. Petra si arrabbiò molto. Chiamò la casa di produzione tedesca e discusse per almeno cinque minuti con la segretaria. Alla fine, però, riuscì ad avere il numero del produttore. Io avevo ormai dimenticato Ayla Özdal e tutto il resto; pensavo solo alla bolletta. Con tutti gli aumenti tariffari dovuti alla crisi economica, non volevo neanche immaginare quanto sarebbero costate quelle telefonate. Naturalmente Petra se ne fregava sia della bolletta che della crisi. L’hotel e tutte le altre spese erano senza dubbio a carico delle persone che stava cercando di contattare.
Compose il numero che aveva appena avuto dalla segretaria. All’altro capo rispose il produttore tedesco.
Petra non gli diede il tempo di parlare. Senza neanche prendere fiato, gli raccontò cosa dicevano i giornali.
Anche se non ci vedevamo da tanti anni e non eravamo mai state amiche per la pelle, capii immediatamente che voleva farlo sentire un verme. Per rendersene conto non era certo necessario conoscere lei o il genere umano in modo approfondito.
Per mettermi al riparo dalla sua voce andai in bagno, dove ebbi la riprova che non ci trovavamo più nella suite, ma in una camera d’albergo di quindici, venti metri quadrati arredata con gusto. Una normale camera di lusso.

Quando Petra bussò alla porta del bagno, avevo già letto le modalità d’uso di tutti i cosmetici a disposizione e stavo per fare la stessa cosa con gli ingredienti.
Secondo il signor Franz, il produttore tedesco, la notizia riportata dai giornali era del tutto priva di fondamento: nessuno voleva sciogliere il contratto della mia amica. L’uomo aveva comunque promesso di indagare e di chiamarla non appena avesse scoperto chi e perché aveva messo in giro una simile sciocchezza.
Sinceramente non riuscivo a capire perché all’improvviso Petra si fosse arrabbiata tanto. Mi sembrava che non avesse preso molto sul serio la faccenda della sostituzione.
«Cos’è successo? Perché ti scaldi tanto? Nel giardino della sala da tè non sembravi preoccupata per questa storia».
Lei prese una busta da uno strano mobile – un tavolino o forse uno sgabello – e me la sventolò sotto il naso.
«Me l’hanno data alla reception insieme alla chiave. Non te ne sei accorta?».
Certo che me n’ero accorta. Avevo anche notato come si mordeva le labbra mentre in ascensore leggeva la lettera contenuta nella busta. Ma dato che sono una vera ficcanaso e che a volte mi odio per questo, avevo deciso di tenere a freno la mia curiosità.
«Sì, me ne sono accorta» dissi senza dilungarmi in spiegazioni. «Che cos’è?».
«Una lettera della società di produzione. Il signor Franz non ne sa niente. Se solo avessi immaginato di che cosa sono capaci i produttori turchi… Non possono più permettersi questa camera. È troppo cara. Subito dopo l’omicidio hanno detto la stessa cosa della suite. Vogliono che mi trasferisca in un albergo più economico. Il nostro soggiorno a Istanbul durerà più del previsto e i costi aumenteranno, quindi non possono più permettersi un hotel di questa categoria».
«Pazzesco!». Forse Petra si sarebbe trovata a dover pagare le telefonate di tasca sua.
Avrei potuto invitarla a casa mia, ma non ero sicura che fosse una buona idea. Temevo che non sarei riuscita a dividere l’appartamento con una persona diversa da Fofo. La cosa migliore che potessi fare era consigliarle un hotel con vista nel nostro quartiere.
Anche se sapevamo che la casa cinematografica non si sarebbe più accollata spese extra, in attesa di ricevere la telefonata del produttore tedesco chiamammo il servizio in camera e ordinammo un tè. Era giunto il momento di chiedere a Petra del suo rapporto con Müller. Probabilmente non avrei avuto un’occasione migliore.

Quando ormai stavo per andarmene – non volevo arrivare tardi all’appuntamento con i due reporter –, squillò il telefono.
Era il produttore turco. Si era preso il disturbo di chiamare nonostante fosse in vacanza. Evidentemente le telefonate di Petra erano servite a qualcosa.
«One moment» disse lei e mi porse il ricevitore. «Non ci capiamo. Lui non conosce il tedesco e il mio inglese… beh, sai com’è. Parlaci tu».
Mi presentai.
«Farai da interprete?» chiese il produttore, dandomi subito del tu come un qualunque cameriere di Berlino.
«Sì. Petra vorrebbe sapere se quello che dicono i giornali di oggi è vero».
«L’ho già spiegato al mio collega tedesco. Ayla voleva solo attirare l’attenzione. Ogni tanto succede, gli artisti amano stare sotto i riflettori. Petra Hanım lo saprà meglio di me… Ayla ha approfittato della mia assenza da Istanbul. Non c’è niente di vero in quello che dicono i giornali…».
Lo interruppi. «Mi scusi, ma non sono sicura di aver capito bene. Ayla Özdal ha qualcosa a che fare con la sua società?».
«Kati Abla, io e lei stiamo insieme. Petra Hanım non deve preoccuparsi, chiarirò tutto».
«Quindi Ayla Özdal ha messo in giro questa notizia perché nella faccenda è coinvolta anche la sua società?». Per capire meglio la situazione ripetei quello che aveva appena detto.
«Sì, esatto. Non c’è niente di vero. Petra Hanım non ha motivo di allarmarsi».
Mordendomi il labbro inferiore, guardai la mia amica. Era un esempio di mimica turca, ma lei non capì.
«Proprio oggi Petra ha ricevuto una lettera della sua società in cui si dice che deve cambiare hotel. Sembra che questo sia troppo caro per voi».
«Ma no, Petra Hanım non deve andare da nessuna parte! Sistemo tutto io appena torno a Istanbul. Mi raccomando, scriviti il mio numero di cellulare. Se ci sono altri problemi, chiamatemi».
Chiusa la telefonata, scoppiai a ridere. Ayla Özdal era riuscita ad abbindolare tutti, perfino un commissario della squadra omicidi. Fra tante ipotesi di complotto, il dubbio che si fosse inventata tutto non aveva sfiorato nessuno.
Spiegai la situazione a Petra. Non appena le dissi che non doveva cambiare hotel, si tranquillizzò e sorrise. «Sapevo che c’era dietro qualcosa del genere».
«Davvero?».
«Certo! Questi giochetti si fanno dappertutto e io sono nel giro da vent’anni. Quella ragazza è troppo giovane per il ruolo della protagonista. Neanche la migliore truccatrice del mondo riuscirebbe a invecchiarla di trent’anni».
«In effetti è molto giovane» mormorai, maledicendomi in silenzio per non aver pensato al problema dell’età.
«Anche Kurt ha fatto il suo giochetto: ha illuso la ragazza, le ha fatto credere che avrebbe avuto la mia parte». Petra buttò indietro la testa e lasciò che i capelli le ricadessero lungo la schiena. «In fondo» aggiunse con un sorriso beffardo «come poteva fare a meno di me?».
Avrei voluto saperne di più sui giochetti che si usavano tra registi e aspiranti attrici, ma non c’era tempo. Erano già le tre e mezzo.

Entrai nel caffè di Kuledibi di fronte al mio negozio con quindici minuti di ritardo. I reporter erano già arrivati; stavano fumando e bevendo tè, seduti a un tavolo con sopra due macchine fotografiche. Dopo aver parlato con il produttore e compagno di Ayla Özdal, non avevo più molta voglia di recarmi all’appuntamento. Avevo già saputo abbastanza. Ma non volevo far arrabbiare Lale. Dopotutto mi aveva messo a disposizione due reporter per alcune ore.
Uno dei due uomini si presentò come cronista di nera. Era un tipo sulla cinquantina, tutto pelle e ossa, calvo e con i denti rovinati dal fumo. Accendeva una sigaretta dietro l’altra. Il suo collega lavorava per il magazine ed era talmente giovane che avrebbero potuto scambiarlo per uno studente che marinava la scuola. Insieme formavano una strana coppia.
Dopo i soliti convenevoli mi rivolsi al più giovane. «Allora, chi è questa Ayla Özdal?».
«Davvero non la conosce?» domandò lui con tono di rimprovero, come se stessimo parlando di Claudia Cardinale. «Dopo essere stata Miss Turkey 2000, ha cominciato a lavorare come indossatrice. Tre mesi fa è uscito un suo album, ma non sta vendendo molto bene. Dovrebbe recitare in una serie televisiva che andrà in onda il prossimo autunno. L’omicidio di Müller non ci voleva proprio. Questo film avrebbe potuto cambiare il futuro di Ayla. È un peccato, un vero peccato». Evidentemente il ragazzo era un fan della Özdal.
«Ho saputo che sta con Mesut Mumcu. È vero?». Mumcu era il produttore turco che mi aveva dato subito del tu.
«In effetti circola questa voce» confermò il reporter. «Sono stati fotografati insieme un paio di volte, ma Ayla sostiene che sono solo amici. Per come la vedo io, finché non ci sono prove, dobbiamo credere alla sua versione. In certi ambienti non si fa altro che spettegolare. Si sentono tante dicerie. Ma perché questa domanda?».
«Mesut Bey ha detto che lui e Ayla stanno insieme. Pensavo fossero fidanzati».
Il giovane mi guardò sorridendo. Era chiaro che trovava la cosa molto divertente. «Quello del cinema è un mondo a parte… Voi stranieri non potete capire».
Di sicuro pensava che i tedeschi vivessero su un altro pianeta. Decisi di non obiettare.
«Mesut Bey voleva dire semplicemente che vanno a letto insieme». Sorrise di nuovo. «Spero che adesso sia tutto chiaro».
«Quindi non sono fidanzati e lui si è espresso in quel modo solo per gentilezza?». Forse stavo davvero su un altro pianeta.
«Per quanto ne so io, possono anche essersi sposati davanti all’imam. In ogni caso non c’è niente di serio. Come ho già detto, potrebbero essere solo amici».
«Dovrei leggere più spesso le pagine di gossip» osservai sorridendo.
«Ogni settore ha le sue particolarità» rispose il saputello. «Ma il nostro non è gossip. Non facciamo pettegolezzi, diamo informazioni sulla vita di persone che interessano a tutti».
L’altro reporter annuì, come se la cosa riguardasse anche il suo lavoro.
«I giornali di oggi non dicono niente dell’omicidio. Non c’è nessuna novità?». Naturalmente la mia domanda era rivolta al cronista di nera.
«La polizia non lascia trapelare niente. Forse sospettano che ci sia qualcos’altro dietro l’uccisione del regista. Mesut Mumcu è uscito di prigione grazie alla recente amnistia…».
Il reporter più giovane intervenne per aggiungere un paio di informazioni che rientravano nella sua sfera di competenza. «Mesut era fidanzato con Sedef Armen. Dovevano sposarsi. Lei si era già fatta cucire l’abito, ma all’ultimo momento ha annullato tutto. Poi si è sfogata con il nostro Fatih. Ha detto che quell’uomo voleva impedirle di lavorare. Ovviamente, dopo aver sgobbato tanto per farsi un nome, non poteva proprio accettarlo. Il nostro Fatih non ha scritto niente perché credeva che non fosse giusto rendere pubblica una conversazione privata, ma poi Kemal Güngör ne ha parlato nella sua rubrica».
«Un attimo. Chi sono Fatih e Kemal Güngör?».
Probabilmente il ragazzo era sempre più convinto che fossi un’extraterrestre. In effetti stavo per crederci anch’io.
«Kemal Güngör è il caporedattore del “Kadının Resmi”. Fatih è il nostro capo. Lui conosce benissimo l’ambiente».
«L’ambiente?».
«Sì, le persone del giro».
Era chiaro che gli stavo dando ai nervi. Purtroppo, nonostante una mente acuta e una buona conoscenza del turco, avevo qualche difficoltà a capire il suo gergo.
«Intende cantanti di musica leggera, reginette di bellezza e gente simile?».
Il ragazzo annuì in modo esagerato.
«Bene. Ma perché Mesut Mumcu era in prigione?».
Il cronista di nera, che, avendo una certa età, era un po’ più maturo del collega, si schiarì la voce in maniera non proprio educata, bevve un sorso di tè e rispose alla domanda.
«Era dentro per diversi reati: sequestro di persona, istigazione alla rapina, istigazione all’omicidio… Senza l’amnistia se la sarebbe vista brutta. È stato scarcerato sette mesi fa. La sua banda stava per sciogliersi, ma lui l’ha rimessa insieme ed è riuscito addirittura ad ampliare i suoi affari. Non è molto che si occupa di cinema. Questa coproduzione è la sua prima opera».
«È coinvolto anche nel traffico di stupefacenti?».
Non era poi così assurdo pensare che dietro l’omicidio di Müller ci fosse la droga. Un delinquente come Mesut Mumcu non avrebbe speso una fortuna per finanziare una produzione internazionale, ingaggiare gli attori e offrire a tutti vitto e alloggio in uno dei migliori hotel di Istanbul se non ci fosse stato in ballo un grosso affare. E poi non si capiva perché avessero affidato la trasposizione cinematografica di un romanzo di Giacomo Donetti a un regista di serie B come Kurt Müller. Era evidente che qualcosa non andava.
«Mesut non si occupa di stupefacenti. È suo fratello minore Aksut a gestire quel ramo dell’organizzazione. Appartengono a una delle più grandi famiglie del sud-est. In tutto sono sette figli. Poi, naturalmente, ci sono i fratelli del padre. È stato proprio il vecchio a rendere grande la famiglia. Maksut, il fratello maggiore di Mesut e Aksut, siede in parlamento. È già stato eletto due volte. Yakut, la sorella, è una donna d’affari. Avrà sentito parlare della Mumcular-Turizm. Possiede hotel e villaggi turistici. Suo marito è tedesco, ma si è fatto circoncidere ed è diventato musulmano. È successo cinque anni fa. Oggi è uno dei generi più in vista del paese. A quanto si dice, è venuto qui in vacanza, ha incontrato Yakut e se n’è innamorato all’istante. Lei gli ha fatto letteralmente perdere la testa. In effetti è una bellissima donna: occhi neri come il carbone, figura armoniosa, pelle candida…». S’interruppe e ci guardò. «Sono assolutamente obiettivo. Comunque la signora ha studiato all’estero».
Il cronista sembrava molto informato sui vip. «E gli altri tre figli?» domandai. «In famiglia non c’è nessuno che abbia un lavoro normale? Una casalinga, un insegnante?».
«Uno dei fratelli era tra gli eredi designati del defunto presidente Özal. Adesso non mi viene il nome. Accidenti, come si chiamava?». Guardò il suo giovane collega, ma quello fece una smorfia per indicare che non lo sapeva e continuò a girare rumorosamente il cucchiaino nel tè.
Come poteva chiamarsi il fratello di Mesut, Aksut, Maksut e Yakut? Che nome potevano aver scelto i suoi genitori? In realtà non era poi così importante. All’improvviso nella mia testa si accese una lampadina: anche se non ero molto interessata ai personaggi famosi e alle vicende dell’alta società, ricordavo chiaramente un titolone che annunciava la fuga all’estero di Turgut Mumcu.
«Potrebbe essere Turgut?».
Lui si batté una mano sulla fronte. «Ma certo! Si chiamava proprio Turgut, come il presidente Özal. Truccava le esportazioni e falsificava le fatture… Dovevano arrestarlo per evasione fiscale e per una sfilza di altri reati, ma è scappato in America. Scommetto che adesso si gode la vita a Miami».
«Certa gente cade sempre in piedi» commentò l’altro.
«Mancano ancora due figli. Conosce anche loro?». Purtroppo avevo l’abitudine di leggere i giornali solo il sabato.
L’uomo annuì. «È una storia molto triste. La conosci anche tu, no, Cumali?».
«Ovvio» rispose il giovane, che evidentemente si chiamava così. Secondo me, però, stava mentendo.
«Tra Dursun e Yeter, gli ultimi due figli, c’erano al massimo due anni di differenza. Quando i più grandi si trasferirono a Istanbul, Dursun rimase a casa e assunse il comando. Era solo un ragazzo, ma somigliava molto al padre. Voleva entrare in politica, proprio come i suoi fratelli. Poteva anche contare su una vasta rete di protettori di villaggio». Dopo un attimo di esitazione decise di spiegare l’ultimo termine. «I protettori di villaggio sono civili armati per combattere i terroristi…».
«Sì, lo so. Sono milizie create da alcuni ağa con il sostegno dello stato». Anche se non leggevo molti giornali, sapevo di cosa stavamo parlando.
«Yeter, la sorella minore di Dursun, frequentava l’università a Diyarbakır. Non finì neanche il primo anno, si unì subito ai terroristi della valle della Biqā‘. Naturalmente fu un duro colpo per tutta la famiglia. All’inizio dissero che era stata rapita, ma tutti sapevano che se n’era andata di sua spontanea volontà».
«Come mai conosce così bene la famiglia Mumcu?».
«Siamo compaesani. Vengo anch’io da quella zona. Sono un figlio del sud-est. Il mio villaggio non è molto distante dal loro». Così dicendo, si accese un’altra sigaretta.
«Yeter è morta?». Era la fine più triste che riuscissi a immaginare.
Il cronista annuì lentamente. «È stata catturata durante uno scontro nei dintorni di Diyarbakır. Era gravemente ferita, è morta dopo un paio di giorni. I suoi familiari non hanno voluto il corpo. La madre era già abbastanza provata dal fatto che Yeter fosse diventata una terrorista. Dopo aver saputo della sua morte non ha resistito molto. Nel giro di un mese è andata anche lei all’altro mondo».
«E Dursun? Che ne è stato di lui?».
«Beh, dopo tutto quello che era successo, era fuori di sé per la rabbia. Ha preso i suoi uomini ed è andato sui monti a combattere contro i terroristi. Aveva letteralmente perso la ragione. È durato poco, si è beccato quasi subito una pallottola».
Per un attimo restammo tutti e tre in silenzio.
«Ma a lei interessava l’omicidio del regista, no? Come siamo finiti a parlare di questa storia?» domandò il reporter venuto dal sud-est.
«Volevo sapere se Mesut Mumcu ha rapporti col mondo della droga» gli ricordai.
«Ah, sì! Come ho già detto, è Aksut che si occupa di stupefacenti».
«È una cosa che sanno tutti?».
«Che sanno tutti? Come sarebbe a dire?». Sembravano entrambi molto suscettibili riguardo al loro lavoro.
«Non se la prenda. L’ho chiesto solo perché ne stiamo parlando qui, in mezzo a tanta gente».
«Beh, non è certo un segreto. Sul giornale non scriviamo niente, ma sappiamo bene quali sono le attività di ciascuno».
«Ha detto che la polizia sta indagando su questo omicidio senza lasciar trapelare nulla. Secondo lei, perché? C’è un motivo particolare?».
L’uomo non rispose. Abbassò lo sguardo e rigirò l’accendino di plastica tra pollice e indice, poi, rivolgendosi al cameriere che era venuto a prendere i bicchieri vuoti, ordinò altri tre tè.
«Quando il nostro capo ha detto che un’amica di Lale Hanım voleva parlare con il reporter che si era occupato dell’omicidio del regista, mi sono subito chiesto perché. Con tutti gli omicidi che vengono commessi, questo non mi sembra così… come dire…».
«Eclatante?».
Lui staccò gli occhi dall’accendino che stava ancora rigirando tra le dita e li posò su di me. «Dove hai imparato il turco?».
«Sono nata a Istanbul. Ho trascorso qui i miei primi sette anni di vita. E anche gli ultimi tredici».
«Visto che ha un nome straniero, pensavo che…».
Evidentemente non aveva ancora deciso se darmi del tu o del lei. Volevo tornare all’argomento principale della nostra conversazione, quindi lo interruppi. «Mi stava chiedendo come mai questo omicidio è diverso dagli altri…».
«Sì. Vorrei sapere perché ti interessa tanto. Anche quelli della squadra omicidi si comportano in modo molto strano. Di solito ci danno informazioni, ma questa volta non hanno neanche spiegato com’è avvenuta la morte. Pare che qualcuno abbia fatto cadere in acqua un asciugacapelli mentre Müller era nella vasca da bagno. Tutto qui».
«Ma di sicuro conosce qualche poliziotto che le può dire di più».
«È proprio questo il problema. Appena ho saputo che alle quattro dovevo essere qui, ho chiamato un poliziotto che viene dalla mia zona per avere qualche altra informazione. Gli ho addirittura promesso che non avrei scritto niente, ma non è servito. Sono quelli più in alto a indagare. Gli altri poliziotti ne sanno quanto noi. È molto strano. Perché tanta segretezza? Secondo il mio compaesano, sono sotto pressione. I tedeschi vogliono mandare qui i loro investigatori per partecipare alle indagini. Inoltre i sospettati sono tutti stranieri. Müller può essere stato ucciso da un membro della troupe, ma se decidessero di tornare in Germania, la nostra polizia non potrebbe trattenere nessuno. La faccenda dev’essere risolta al più presto».
«Mmh…». Se era davvero una cosa seria, Batuhan non avrebbe dovuto flirtare con me in un negozio di kebab. Potevo considerarlo un onore.
Dopo aver insistito per pagare il conto, mi alzai per uscire dal locale. Il cronista mi salutò con una stretta di mano e promise di chiamarmi per qualunque novità. Si scrisse il mio nome e il numero di telefono del negozio sul pacchetto di sigarette. Avevo fatto colpo.
Il caffè si trovava a due minuti dalla mia libreria. Quando arrivai, Pelin era seduta al computer, intenta a lavorare.
«Ciao».
«Ciao» rispose lei allegramente.
«Come va?».
«Uff, tenere la contabilità è un gran casino. Merce in arrivo, merce venduta, pagamenti con assegno, pagamenti in contanti… E non c’è neanche un registro. Diciamo che per un certo periodo posso anche resistere».
Sottolineò in modo particolare «per un certo periodo», ma feci finta di non capire.
«Mi ha cercato qualcuno?».
«Sì, sono arrivate diverse telefonate. Da ogni parte del mondo». Pelin si alzò e mise la borsa a tracolla. «Vado. Domani apro ancora io. Se hai un po’ di tempo, controlla che sia tutto a posto. Sul bancone c’è la lista delle persone che ti hanno cercato».
Uscì di corsa. Non ebbi neanche il tempo di augurarle una buona serata. Il climatizzatore era acceso, ma nel negozio c’era un’aria pesante. A costo di far entrare il calore esterno, spalancai la porta.
Tra le persone che avevano telefonato c’era addirittura Cindy, la mia amica australiana. Ma non fu il suo nome a catturare la mia attenzione mentre scorrevo la lista, bensì quello di Sandra, medico in pensione di Bielefeld. La stessa città di Kurt Müller.
La chiamai immediatamente. Dopo diversi squilli, quando ormai ero pronta a lasciare un messaggio sulla segreteria telefonica, rimasi un po’ spiazzata sentendo la sua vera voce. Non riuscii a dire altro che: «Sandra?».
«Kati! Non pensavo che mi avresti chiamato così presto». Sembrava si fosse appena svegliata.
«Hai scoperto qualcosa?» domandai, cercando di non pensare a quanto mi sarebbe costato parlare con la Germania.
«Certo! E mi sono anche divertita. Per qualunque altra ricerca, sono a tua disposizione. Mi sembra di essere Jessica Fletcher».
Era un piacere movimentare un po’ la vita delle mie amiche in pensione.
«Allora, cos’hai scoperto?».
«Beh, dato che Müller è un cognome molto diffuso, temevo che l’elenco telefonico non mi sarebbe stato di grande aiuto e così ho chiamato Reinhard, l’amico di mio figlio che lavora per la “Bielefelder Post”. Se non l’avessero ucciso, Kurt Müller sarebbe ancora un perfetto sconosciuto. Non stiamo certo parlando di Wim Wenders. Kati? Ci sei?».
«Sì, sono qui».
«Ah, bene, pensavo fosse caduta la linea. Il collegamento non è dei migliori, sento l’eco della mia voce. Da quando il servizio è stato privatizzato la qualità è davvero pessima. Comunque, Reinhard aveva già contattato la famiglia di Müller per scrivere un articolo su di lui. Mi ha dato l’indirizzo della casa di riposo dove vive la madre. È una signora molto anziana e ha qualche difficoltà a parlare. Il nostro regista ha anche un fratello minore che sta a Düsseldorf. Si è rifiutato di incontrare Reinhard, ma io ho avuto una specie di presentimento e ho voluto sapere che lavoro fa. Beh, è venuto fuori che fa il chirurgo nell’ospedale dove mio fratello è primario. Che combinazione, eh? Pensavo che queste cose succedessero solo nei film». Fece un bel respiro e si mise a ridere. Di sicuro gli ultimi due giorni erano stati i più divertenti della sua vita da pensionata.
«Ho chiamato subito mio fratello Detlev. È rimasto un po’ sorpreso. Sai, non ci sentiamo molto spesso, soprattutto da quando nostra madre è morta. Dovresti conoscere sua moglie. È la terza, ha venticinque anni meno di lui. È incredibile…».
«Sandra!».
«Sì, scusa. Dov’ero rimasta? Ah, ecco: ho telefonato a Detlev e gli ho chiesto di farmi avere un appuntamento con Müller. Per una normale visita medica. Naturalmente non gli ho raccontato dell’omicidio. Dato che non sapevo di cosa si occupa il nostro chirurgo, mi sono inventata una malattia. A quel punto Detlev ha cominciato a parlarmi di un altro collega, un chirurgo più bravo di Müller, per di più specializzato in angiologia. Voleva fissarmi un appuntamento con lui. Tra l’altro, questo suo collega è turco. A te piacciono i turchi, no? Detlev mi ha detto anche il nome, ma non me lo ricordo. Beh, se vuoi, me lo faccio ridire, così…».
La solitudine rende le persone anziane molto loquaci, almeno in Germania. «Sandra!» esclamai di nuovo con tono di rimprovero.
«Okay, okay. Detlev mi ha fissato un appuntamento per stamattina alle dieci. Sono andata in macchina. Düsseldorf non è poi così lontana. Il dottor Müller è molto giovane, avrà al massimo trentacinque anni. Mi ha accolto sulla porta, ma solo perché conosce mio fratello. Per prima cosa gli ho detto che siamo colleghi. Sai, per creare una certa complicità. Poi gli ho parlato di te. Poverino, non capiva niente. Quando ho nominato Istanbul, ha fatto una faccia… A quel punto ho smesso di girarci intorno e gli ho raccontato tutto. Gli ho spiegato che non sono affatto malata, che avevo preso un appuntamento solo per avere qualche informazione su suo fratello, perché tu mi avevi chiamato e mi avevi chiesto di indagare. Beh, lui è diventato nervoso. Ho capito subito che il problema era mio fratello Detlev, quindi gli ho detto: “Non si preoccupi, pensano tutti che sia qui per una normale visita medica. La verità la sappiamo solo noi due. Gli altri, compreso il suo capo, non sospettano niente”. Così si è un po’ tranquillizzato».
«Si può sapere cos’hai scoperto?».
«Ma insomma, non mi dai neanche il tempo di finire!». Fece una pausa. L’aveva presa così alla lontana che si era persa.
«Vuoi sapere cos’ho scoperto? Okay. Il dottor Müller mi ha detto che non vedeva suo fratello maggiore da molto tempo. Non erano molto legati. Il nostro uomo era un vagabondo, non si preoccupava nemmeno di pagare la casa di riposo in cui è ricoverata la madre. Ho chiesto al dottore che cosa faceva nella vita e lui mi ha risposto che girava stupidi film. Si sono visti per l’ultima volta dodici anni fa. Kurt voleva farsi ospitare per un po’ e il fratello, ovviamente, ha pensato che si trovasse nei guai fino al collo. Altrimenti perché avrebbe voluto vivere in una stanza da studente? Aveva sempre tanti soldi in tasca. Il dottore non gli ha dato ospitalità e da allora non ha più saputo niente di lui. Finché sul giornale non ha trovato la notizia del suo omicidio. Tra l’altro, Kurt non ha mai fatto visita alla madre. Il dottor Müller mi ha detto chiaro e tondo che non vuol essere messo sullo stesso piano del fratello».
«È tutto?» domandai, un po’ delusa.
«Sì, è tutto».
«Non c’è un amico intimo o qualcun altro che ci possa dare maggiori informazioni? Gliel’hai chiesto?».
«Gli ho chiesto tutto quello che gli dovevo chiedere. Anche questo. Ma al dottor Müller non è venuto in mente nessuno. Gli ho domandato con chi andava a scuola Kurt ed è venuto fuori che a quei tempi il suo migliore amico era Günter Basile».
«Lo conosci? Vive ancora a Bielefeld?».
«Mi chiedi se lo conosco? Lo conosce tutta la Germania. Continui a non leggere i giornali, eh?».
Feci finta di non aver sentito. «Chi è questo Basile?».
«È il secondo uomo del partito liberaldemocratico…».
«Ora ricordo. È stato anche ministro della Difesa».
«Sì, due governi fa. Non credo che un politico così importante accetterà di incontrare me o te solo per parlare di un vecchio compagno di scuola che sicuramente ha dimenticato da tempo».
«Mmh».
Le indagini di Sandra non avevano portato a niente.

Una volta tornata a casa a piedi, indossai qualcosa che corrispondeva perfettamente alla mia personalità: un paio di calzoncini rosa e la T-shirt con Paperino che avevo comprato al mercato rionale del martedì e che probabilmente non era stata venduta all’estero a causa delle quote di importazione. Preparai una frittata agli champignon. Sapevo benissimo che con il caldo non l’avrei digerita, ma non ero nella disposizione adatta per pensare anche a un’alimentazione sana. Inoltre volevo punirmi per aver gonfiato la bolletta del telefono, aver trascurato la contabilità e non aver fatto progressi nelle indagini.
Dopo aver messo la frittata in un piatto insieme a qualche triste foglia di insalata, mi sedetti sul divano e cominciai a mangiare. Quasi nello stesso istante suonò il campanello. Guardai l’ora: erano le otto e venticinque.
Mi sporsi dalla finestra per vedere chi aveva suonato. Davanti all’ingresso non c’era nessuno, quindi pensai a uno scherzo. Forse erano stati i bambini del quartiere.
La seconda scampanellata arrivò quando stavo per risedermi. Lasciai perdere la finestra e andai direttamente alla porta. «Chi è?» gridai, come si conviene a una donna che vive sola.
«Batuhan» fu la risposta, e non vi nascondo che la sua voce mi colpì più di quella del Trovatore nell’omonima opera.
Forse a voi, cari lettori, non interessa minimamente sapere com’era vestito il commissario quella sera, ma non posso fare a meno di raccontarvi come mi apparve quando aprii la porta. Batuhan aveva un paio di jeans aderenti ma innocui e una polo bordeaux con un coccodrillino verde sul lato sinistro del petto. Ai piedi espadrilles dello stesso colore della maglietta. Dipendesse da me, le espadrilles – tutte, non solo quelle bordeaux – sarebbero vietate per legge. È incredibile che ci siano persone innamorate di certe calzature anche tra coloro che hanno fatto carriera servendo il popolo e la nazione.
Batuhan aveva con sé una cartella portadocumenti. Quella almeno non era bordeaux.
«Volevo chiamarti, ma non avevo il tuo numero. Per fortuna mi sono ricordato la strada. Si vede che ieri sera, quando ti ho portato a casa, non ero poi così ubriaco. Sei sola?».
«Sì, quelli della Filarmonica di Berlino se ne sono appena andati». Era una pessima battuta, ma il commissario rise. O era abituato a spiritosaggini ben peggiori o voleva assolutamente fare buona impressione. C’era anche una terza possibilità – che non sapesse cos’era la Filarmonica di Berlino –, ma non volevo nemmeno prenderla in considerazione.
«Prego» dissi, invitandolo a entrare. Era ancora fermo davanti alla porta.
Mi precipitai in soggiorno per far sparire la frittata, che aveva un aspetto addirittura peggiore di quando l’avevo messa nel piatto. La sera prima, quando la cena e la bottiglia di rakı erano ormai agli sgoccioli, Batuhan aveva preso l’iniziativa per la seconda volta e aveva detto che potevamo darci del tu. In ogni caso non doveva per forza sapere che cosa mangiavo quando non avevo voglia di kebab.
Il commissario si era fermato in anticamera. Spingendo il piatto sotto il divano con un piede, mi girai verso di lui. «Accomodati».
Batuhan si bloccò di nuovo sulla porta del soggiorno, aprì la cartella ed estrasse due bottiglie di vino. Per poco non mi lasciai sfuggire un’altra pessima battuta. Volevo dire: «Speriamo che non sia bordeaux». Ma mi trattenni.
«Ho portato del vino. Lo beviamo?».
«Certo!».
Andai in cucina a prendere un cavatappi e lui mi seguì.
«Avete fatto progressi nelle indagini?».
Invece di rispondere alla mia domanda, Batuhan si sedette sulla sedia vicino al tavolo e mi guardò armeggiare con il turacciolo.
«La devo aprire io?» chiese.
Gli diedi bottiglia e cavatappi, poi tirai fuori due bicchieri da vino e li posai sul mobile.
«È dura» disse lui, contrariato. Era chiaro che non si riferiva alla bottiglia da stappare. «Stanno facendo pressione dall’alto. Le indagini procedono troppo lentamente».
Sembrava stesse parlando con un vecchio amico. Lo osservai pensosa, sfregandomi il mento. Il commissario era troppo concentrato su quello che stava facendo per accorgersene.
«Perché fanno pressione? Si tratta di un omicidio e tu sei commissario della squadra omicidi. Sai come condurre certe indagini, lo fai tutti i giorni».
Batuhan alzò le spalle. «Hai ragione, è solo un omicidio, ma sia il morto che i sospetti sono cittadini stranieri. La polizia tedesca vorrebbe partecipare alle indagini, quindi le alte sfere fanno pressione su di noi perché il caso venga risolto in fretta. Non vogliono che i tedeschi si intromettano. Finora gli hanno negato l’autorizzazione, ma chissà cosa succederà domani. Le mie ipotesi sull’omicidio…». Lasciando la frase a metà, si alzò dalla sedia e si mise la cartella sotto il braccio. «Torniamo in soggiorno?».
Con il bicchiere nella mano sinistra e una sigaretta nella destra, mi sedetti sul divano. «Possiamo parlare dell’omicidio?» domandai. Il gioco del gatto col topo cominciava a darmi sui nervi.
«Certo» rispose lui. «Ci sono due o tre cose che vorrei sapere».
«E perché vieni a chiederle proprio a me? Non ho niente a che fare con questo delitto».
«Lo so. Vorrei solo che mi aiutassi a chiarire un punto a cui penso e ripenso in continuazione».
All’improvviso, con gli occhi della mente, vidi il mio nuovo biglietto da visita:

Kati Hirschel
Libraia – Detective
Consulente della squadra omicidi

«Okay, se mi spieghi per filo e per segno com’è avvenuto il delitto, risponderò alle tue domande». Sapevo che era una specie di ricatto, ma non mi importava. Per raggiungere il proprio fine si possono usare anche mezzi poco puliti, no?
Con una franchezza che mi stupì, Batuhan cominciò subito a raccontare.
«Il corpo era in acqua, quindi non è possibile determinare con precisione l’ora della morte. Sappiamo che quella sera i membri della troupe hanno cenato tutti insieme e che gli ultimi cinque, tra cui il regista, hanno preso l’ascensore verso le ventitré e quaranta. Müller si è fermato al quarto piano con la signora Bauer, assistente alla regia, e il signor Gust, assistente alla produzione. Dato che il regista era completamente ubriaco, Gust si è offerto di accompagnarlo nella sua camera, o meglio, nella sua suite. A quel piano ci sono due appartamenti che si affacciano sul mare e camere standard che danno invece sulla strada. Müller ha rifiutato l’offerta, quindi Bauer e Gust si sono diretti verso le loro stanze, che si trovano dalla parte opposta rispetto alla suite del regista. In pratica, si sono separati davanti all’ascensore. Le ultime due persone ad aver visto Müller vivo hanno poi trascorso la notte insieme nella camera di lei, o almeno così hanno dichiarato».
S’interruppe per bere un sorso di vino.
«Bauer e Gust avevano già una relazione?».
«No, hanno detto che non era mai successo niente. Lui è sposato. Quella sera erano entrambi sotto l’effetto dell’alcol e così c’è stato un avvicinamento».
«Mi sembra molto strano che tra due vicini di camera scoppi improvvisamente la passione. Chi ha deciso quali stanze assegnare ai membri della troupe? In base a quale criterio?».
«Ovviamente è stato prenotato tutto in anticipo, prima che la troupe arrivasse a Istanbul. Undici singole e due suite. L’assegnazione è avvenuta alla reception. Non hanno seguito nessun criterio, hanno semplicemente dato una camera a ciascuno. Per quanto riguarda le suite, l’albergo ne ha riservate due vicine. Una per Müller e una per la tua amica Petra. Il fatto che il signor Gust e la signora Bauer si siano trovati l’uno accanto all’altra è…» il commissario si grattò la testa «… è solo un caso».
«Un caso davvero strano» osservai. Pensavo che questo avrebbe ferito il suo orgoglio maschile, invece non fu così. Batuhan prese un taccuino a quadretti dalla cartella e si fece un appunto per il giorno seguente.
«Quindi Müller è stato visto per l’ultima volta alle ventitré e quaranta quando è uscito dall’ascensore per andare in camera».
«Sì. La mattina dopo, alle cinque e venti, hanno trovato il suo cadavere».
«È stato ucciso nella vasca da bagno, vero?».
«Cos’è, non ti fidi? Guarda che i poliziotti turchi non scherzano su certe cose».
Se vi può interessare, non avevo nessuna voglia di ridere.
«Tra le ventitré e quaranta e le cinque e venti ci sono meno di sei ore. Se non l’avessero ucciso, avrebbe cominciato la giornata con cinque ore di sonno. Al suo posto non avrei certo fatto il bagno. Sarei andata subito a dormire. Che era ubriaco l’hanno detto solo… come si chiamano quei due?».
«Bauer e Gust. Sul fatto che Müller fosse ubriaco non ci sono dubbi. L’autopsia l’ha confermato, il livello di alcol nel sangue era molto alto».
«Mmh». Credevo che la scarica elettrica avesse ridotto il regista a un mucchietto di ossa carbonizzate, ma evidentemente mi sbagliavo. Erano riusciti a eseguire una vera autopsia.
«È strano che un ubriaco vada in bagno e non a letto».
«Ed è ancora più strano che ci vada con un bicchiere da whisky in mano».
«Un bicchiere da whisky in mano?». Esitai un attimo. «In che senso? Che significa “in mano”? Vuoi dire che l’avete trovato nella vasca?».
«No, proprio in mano. Lo stringeva tra le dita».
«Com’è possibile?». Non solo il cadavere non era carbonizzato, ma teneva anche in mano un bicchiere da whisky.
«Se la morte avviene improvvisamente o in stato di eccitazione, alcune parti del corpo, in particolare mani e avambracci, non si rilassano. Al contrario, si irrigidiscono. Non hai mai visto foto di persone morte sul campo di battaglia con la bandiera in mano? Continuano a stringerla anche dopo».
Evitai di commentare le ultime frasi e feci una smorfia. «Nella vasca da bagno, con un bicchiere in mano… Che fine ingloriosa!». Poi ebbi un’illuminazione.
«Il bicchiere ci permette di escludere definitivamente l’ipotesi del suicidio» dissi, pensando alla reazione del costumista che aveva visto per primo il cadavere.
«Date le circostanze, di sicuro non si è suicidato» confermò Batuhan.
«Ma ha tentato di salvarsi?».
«È praticamente impossibile sfuggire a una morte del genere. Dipende sempre dai muscoli. Come ho già detto, mani e avambracci si irrigidiscono, e anche il resto della muscolatura si contrae in modo involontario. Questo impedisce di saltare fuori dall’acqua».
«Ho capito. E in che stato era il corpo?».
«Cosa? Che vuoi dire?».
«Pensavo che un corpo attraversato da una scarica elettrica si carbonizzasse, ma a quanto pare non è così».
«No, è proprio così, normalmente il corpo si carbonizza».
«Quindi, se infili un dito nella presa…».
Batuhan non mi lasciò neanche finire. «Se sei a mollo non succede… L’acqua è un buon conduttore… Muori per arresto cardiaco…». Sembrava che non conoscesse molto bene l’argomento.
«Mmh» feci di nuovo. A darmi da pensare non era tanto lo stato del corpo quanto quello dell’asciugacapelli. «Avrei un’altra domanda».
«Okay».
«Riguarda il fon. Di solito quelli degli alberghi si spengono appena togli il dito dal pulsante. È una misura di sicurezza. Non voglio generalizzare, ma almeno quelli dell’hotel in questione funzionano così. L’assassino ha immerso l’asciugacapelli nella vasca mentre teneva premuto il pulsante?».
Batuhan annuì in segno di approvazione. «Hai esaminato i fon dell’albergo?».
«Ho dato un’occhiata a quello di Petra. Penso che funzionino tutti nello stesso modo». Quella mattina, mentre ero chiusa nel bagno della mia amica, non avevo solo letto le modalità d’uso e gli ingredienti delle sue creme anti-età.
«Hai ragione, funzionano tutti nello stesso modo. Anche quello nel bagno di Müller. Bisogna tenere premuto il pulsante. Ma l’assassino non ha usato l’asciugacapelli dell’hotel».
«Ah no?».
«No. Ha usato un modello semplice ed economico che la Philips ha smesso di produrre circa quattro anni fa. Gli apparecchi di questo tipo vengono fabbricati a Taiwan. Il modello che ci interessa è stato prodotto in milioni di pezzi e venduto in tutto il mondo… In Germania e anche in Turchia, purtroppo. Abbiamo cercato di scoprire da dove viene quello usato per l’omicidio, ma inutilmente».
«Un modello con un lungo cavo…» mormorai, e lui mi guardò in modo talmente strano che sentii il bisogno di dargli una spiegazione.
«Come sai, anche Petra stava in una suite. Aveva un bagno grande quasi quanto il mio soggiorno». Lasciai che il commissario si guardasse intorno, forse per valutare la grandezza della stanza, poi continuai. «Non ho visto la presa di corrente, ma se come tutte le prese si trova vicino al lavandino, allora tra la presa e la vasca c’è una bella distanza». In una sola frase ero riuscita a ripetere per ben tre volte la parola «presa». Mica male.
Ripensai a quello che avevo appena detto e aggiunsi: «Naturalmente, se le suite non sono tutte uguali, questo ragionamento non vale».
«Sono tutte uguali». Batuhan annuì di nuovo. «Il tuo ragionamento non fa una grinza. Purtroppo non sei l’unica a usare la testa. L’assassino aveva con sé diverse prolunghe. Tre cavi da due metri. Ne ha usati due».
«E Müller è rimasto nella vasca a sorseggiare un whisky mentre l’assassino collegava i cavi davanti ai suoi occhi? No, non ha senso!».
«Di sicuro i cavi non sono stati collegati in bagno, ma da un’altra parte. Probabilmente in salotto. Sul tavolo abbiamo trovato la terza prolunga».
«Mmh. C’erano impronte digitali sui cavi?».
«No» rispose lui con un sospiro. Era chiaro che ci aveva sperato finché non erano arrivati i risultati di laboratorio.
«Cercare impronte digitali nelle stanze d’albergo non ha senso, di solito non ci proviamo neanche, ma questa volta abbiamo esaminato la bottiglia di whisky, la presa e i cavi. Può darsi che l’assassino avesse i guanti, ma mi sembra un’ipotesi assurda. Se avesse visto qualcuno con i guanti, Müller si sarebbe insospettito. In ogni caso, sui cavi non c’erano impronte».
«Forse la vittima non ha avuto il tempo di insospettirsi».
«È poco probabile che qualcuno sia riuscito ad aprire la porta, a entrare di nascosto e a collegare i cavi in salotto mentre il regista se ne stava tranquillo in bagno. E poi l’assassino non poteva sapere che Müller si trovava nella vasca e che quindi era il momento giusto per penetrare nella suite e commettere l’omicidio con un asciugacapelli. Tra l’altro non ci sono segni di scasso. La porta non è stata forzata».
«Il fatto che l’arma del delitto sia un asciugacapelli complica tutto, vero? Se Müller fosse stato ucciso con una banalissima pistola, non staremmo a riflettere su certe cose». Seguì un breve silenzio. Emisi un paio di anelli di fumo, ben sapendo che così avrei assunto un’espressione comica. Come potete immaginare, avevo superato già da un pezzo l’età in cui ci si preoccupa solo dell’apparenza.
«Anche se non è stata la tua amica, credo che l’assassino sia comunque una donna» disse Batuhan, sbirciando con la coda dell’occhio il mio viso pensieroso.
«Perché le donne sono responsabili di tutti i mali del mondo, giusto?». Naturalmente non mi era sfuggito che rispetto alla sera prima sembrava meno convinto della colpevolezza di Petra.
Lui mi guardò a testa bassa. Non avevo mai incontrato un poliziotto disposto a farsi trattare così male.
«Non riesco a togliermi dalla testa un particolare: Müller è entrato nella vasca completamente nudo. Se con lui ci fosse stato un uomo, non si sarebbe spogliato, no?». Batuhan non stava rispondendo a me, ma a se stesso.
«A questo punto potresti ribattere che magari era omosessuale. Giusta osservazione, ma siamo quasi sicuri che fosse etero. Nella troupe c’è uno dei suoi migliori amici. Stando alle sue dichiarazioni…». Non sembrava molto soddisfatto di quello che stava dicendo, ma non glielo feci notare.
«Credo che nella suite ci fosse una donna con cui Müller aveva una relazione» proseguì lui in tono concitato. «Può darsi che quella notte non abbiano avuto rapporti. Non abbiamo trovato nessun indizio al riguardo; il letto era ancora intatto e non c’erano preservativi usati… Però, come ho già detto, se ci fosse stato un altro uomo, Müller non…».
«Ho sentito che i turchi si mostrano a vicenda il pene e se lo misurano con il righello. Sono solo chiacchiere?» domandai, interrompendolo.
«Qui non stiamo parlando di ragazzini» rispose il commissario, dimenticando che col tempo i giovani crescono e diventano adulti.
Sinceramente, se non avessi trascorso a Istanbul i primi sette e gli ultimi tredici anni della mia vita, non avrei trovato nessuna logica nelle sue parole. Batuhan era figlio di una società in cui uomini e donne frequentavano hammam diversi e nonostante ciò non si toglievano mai il perizoma e le mutandine. Una società in cui non ci si spogliava neanche per lavarsi. Müller, invece, veniva dalla Germania, un paese dove uomini e donne facevano la sauna insieme completamente svestiti, dove c’erano spiagge e piscine per nudisti e dove la «cultura del corpo libero» aveva più sostenitori che in ogni altra parte del mondo, eccezion fatta per due o tre paesi nordici. Non conoscevo Müller, ma ero praticamente sicura che non avesse mostrato il pene agli amici solo da ragazzo.
«Il tuo ragionamento va bene per i turchi, ma devi tener presente che in Germania non esistono certi tabù. Non ci si spoglia solo per fare sesso. E non ci si spoglia solo di fronte a una persona con cui si fa sesso. Se il postino bussa alla porta e si trova davanti qualcuno completamente nudo, non pensa: “Oddio, che vuole da me?”. Anche le piscine pubbliche in centro hanno zone in cui si può prendere il sole nudi. È una cultura diversa».
Batuhan era sbalordito. Ci mise un po’ a recuperare la parola. «Dici davvero? Quindi il nostro regista può essersi spogliato davanti a un altro uomo anche se non era omosessuale?».
«Assolutamente sì!».
Lui mi fissò disperato. Se la tesi che nella suite ci fosse Petra o un’altra donna poteva essere smontata con tanta facilità, le cose si mettevano male.
«Ayla Özdal ha organizzato una conferenza stampa per far sapere a tutti che le volevano dare il ruolo di Petra» osservai per fargli capire che le informazioni che mi aveva dato il giorno prima non erano niente di speciale.
Batuhan contrasse le labbra. «Non sono più così sicuro che Ayla abbia detto la verità. L’abbiamo interrogata ieri e secondo me è una bugiarda. Può darsi che tra lei e Müller ci fosse qualcosa, ma è anche possibile che abbia solo approfittato dell’occasione per farsi un po’ di pubblicità».
Per un attimo restammo di nuovo in silenzio, immersi nei nostri pensieri.
«Se non ti dispiace, avrei ancora una domanda» dissi, usando tutta la gentilezza di cui ero capace.
«Cosa vuoi sapere?».
«Quando l’assassino ha buttato l’asciugacapelli nella vasca, non c’è stato un cortocircuito? In questi casi non saltano i fusibili?».
«Sì, e in effetti sono saltati».
«L’assassino aveva una torcia elettrica? Come ha fatto a orientarsi al buio?».
«Ogni camera ha i suoi fusibili. Quelli della suite di Müller sono andati a farsi benedire, ma non importa. Il corridoio era perfettamente illuminato. Se si fossero bruciati i fusibili di tutto il piano o dell’intero albergo, avrebbero scoperto l’omicidio molto prima».
«Chi ti ha detto che Petra e Müller avevano una relazione?».
«Faresti meglio a chiedermi chi non l’ha detto. Nella troupe lo sapevano praticamente tutti. Ce ne hanno parlato subito durante gli interrogatori. Solo una donna ha dichiarato che non riusciva a crederci, tutti gli altri sembravano convinti».
«Hai chiesto a Petra se c’era qualcosa tra lei e il regista?».
«Ieri, quand’è venuta in centrale. Ha detto che non c’era un bel niente». Nel pomeriggio, quando le avevo fatto la stessa domanda, aveva risposto anche a me: «Non dire sciocchezze, tra noi due non c’era un bel niente!».
«Gli altri ci hanno parlato di una storia intensa ma burrascosa. In effetti è strano che la tua amica neghi in modo così categorico». Batuhan si passò una mano tra i capelli. «Non abbiamo neanche una prova, ma, se ci pensi bene, Müller può aver rinunciato a qualche ora di sonno solo per…».
«… un’amante» conclusi, levandogli le parole di bocca.
Seguì un’altra pausa. Mentre riflettevo su ciò che mi aveva raccontato, ebbi la seconda illuminazione della serata.
«Ci sono!» esclamai, schioccando le dita. «Hai indagato sulle prolunghe usate dall’assassino? Da dove vengono?».
«Complimenti! Non ti sfugge proprio niente» replicò il commissario tra l’ironico e il sincero.
«Allora?» chiesi impaziente.
«I cavi sono migliori di quelli prodotti in Turchia. Di sicuro non sono nostri. Però si possono trovare in molti paesi».
«Quindi non ci aiutano in nessun modo».
Batuhan scosse la testa. «Apro l’altra bottiglia. Questa è quasi finita».
«Perché non usciamo? Io ho fame. Ci possiamo prendere un toast al chiosco di Bambi». Diedi un’occhiata all’orologio. «Sono le dieci e dieci. Se mangiamo adesso, avremo il tempo di digerire».
«Okay».
«Bene. Vado a cambiarmi».
Attraversai il mio appartamento da centosessanta metri quadrati e raggiunsi la camera da letto. All’improvviso, mentre aprivo l’armadio, mi accorsi che per la prima volta dopo tanto tempo non ero più oppressa dal caldo. Non che la temperatura si fosse abbassata; sarebbe stato troppo bello. No, la spiegazione era un’altra: ero così concentrata sull’omicidio che tutto il resto aveva semplicemente smesso di esistere. Negli ultimi due giorni non avevo pensato neanche a Fofo. Nell’istante in cui me ne resi conto provai una fitta al cuore. Non era possibile che mi fossi dimenticata così del mio piccolo Fofo.
Interiormente divisa tra rabbia e affetto, sentii il bisogno di fare una buona azione e di ricompensare il mio povero corpo per tutte le uova e i toast che era stato costretto a digerire. Mi sarei messa in ghingheri.
Beh, devo ammettere che non volevo solo gratificare me stessa.
Indossai la gonna verde brillante, aderentissima e con spacchi profondi, e una camicetta beige; per i piedi scelsi un paio di sandali senza tacco decorati con grossi cerchi di metallo. Alla fine, per completare l’opera, misi una goccia di profumo sul collo. L’immagine riflessa dallo specchio mi lasciò pienamente soddisfatta: i capelli mi ornavano la testa come una magnifica corona realizzata da mani sapienti.
Batuhan mi guardò compiaciuto.
Sapevo bene di non essere vestita nel modo più adatto per andare al chiosco a prendere un toast, ma non me ne fregava niente.
Dopo aver mangiato, ci spostammo in un locale con vista sul Bosforo dove gli appartenenti al popolo si divertivano fino all’alba ascoltando musica turca e ballando la danza del ventre. Il rumore era assordante, tanto che a un certo punto mi venne un terribile mal di testa. I miei occhi non erano più in grado di vedere il bellissimo panorama, volevo solo tornare a casa. Batuhan insistette per accompagnarmi. Aveva lasciato l’auto vicino al mio appartamento.
Arrivati a destinazione, gli chiesi – per pura cortesia – se voleva entrare a bere un caffè.
«Devo entrare per forza, ho lasciato dentro la cartella» disse lui con una buona dose di sfacciataggine. Non mi ero accorta che non aveva più con sé l’orrenda cartella portadocumenti. Sulle prime rimasi stupita, poi mi arrabbiai: era chiaro che l’aveva lasciata nel mio appartamento per poter entrare anche senza invito. Un’astuzia tipicamente orientale. Per un attimo fui tentata di rispondere: «Non c’è bisogno che entri, ti mando giù la cartella nel cesto della spesa».
Ma Batuhan non meritava di essere trattato in modo così sgarbato. Quello che aveva fatto non era poi così grave.
Entrammo insieme.

Una delle sue ginocchia tentò di infilarsi tra le mie gambe. La gonna che indossavo era troppo stretta. Appiccicai il mio corpo al suo, e quando cominciò ad accarezzarmi i fianchi, emisi un gemito di piacere. Non era assolutamente ciò che volevo.
«Oddio! Sesso con un poliziotto!» pensai. Mi sentivo come una bambina che disobbedisce alla mamma.
Dopo un paio di minuti, o meglio, dopo un paio di secondi avevo già dimenticato tutto. La bambina e la mamma non esistevano più. Qualcosa di duro premeva nel punto in cui la mia gamba sinistra incontrava il fianco, qualcosa che non vedevo l’ora di avere dentro di me. Una mano grande e scura mi alzò la gonna, un’altra mi accarezzò il seno attraverso la camicetta.
«Andiamo in camera?» sussurrai.
«Perché?» domandò lui.
«Dai, vieni». Le sue fantasie da poliziotto non mi interessavano.
Anziché obbedire, mi tenne ferma.
All’improvviso sentii qualcosa cadere a terra: i bottoni della mia camicia che finivano sul pavimento di pietra del corridoio. Ero ansiosa di vedere come si sarebbe comportato con il reggiseno. Me l’avrebbe tolto con mano esperta o con l’agitazione del principiante?
In realtà non si preoccupò neanche di sganciarlo.
Lo spostò con foga e tirò fuori i seni, poi, abbassando le spalline e le maniche della camicetta, mi bloccò le braccia. Non ero più in grado di muoverle liberamente, anzi non potevo più muoverle e basta. Tutte le mie energie erano svanite. Irrigidita dal desiderio, con il clitoride in fiamme, pregavo perché mi infilasse una mano tra le cosce e mi toccasse nel punto in cui stavo andando a fuoco. Ma la gonna, la mia lunga gonna aderente gli impediva di spingere le dita fin là.
Con la schiena appoggiata alla parete bianca e fredda, le spalline del reggiseno abbassate e le maniche della camicia intorno ai gomiti, non potevo fare niente. Non potevo muovermi, non potevo guidarlo, non potevo aprirgli i pantaloni né aiutare la sua mano a raggiungere il punto giusto. Dovevo liberarmi al più presto e, soprattutto, dovevo riprendere il controllo. «Andiamo a letto» proposi di nuovo.
«Sst» fece lui.
Sentendo il rumore di una cerniera, posai la testa sulla sua spalla e guardai in basso. I pantaloni erano calati fino al ginocchio. Con una mano tirò giù le mutande bianche a costine e nella luce che dagli altri appartamenti arrivava fino in corridoio attraverso la portafinestra aperta vidi un pene scuro e teso. Dopo aver alzato ancora un po’ la gonna, mi prese per i fianchi e mi sollevò senza sforzo, come fossi una bambola. Con le gambe intorno al suo corpo e le braccia immobilizzate, chiusa tra la parete e la sua erezione, fui presa da un’improvvisa quanto insensata voglia di resistere. Non potevo permettere che mi dominasse solo perché era più forte di me e così, nonostante fossi tutta eccitata, mormorai: «No, non voglio!».
«Cosa?». Con un gesto amorevole mi tolse i capelli dalla fronte.
«Non voglio. Mettimi giù!».
Lui non disse una parola. Fece quello che gli avevo ordinato e in silenzio si tirò su le mutande e i pantaloni.
Non domandò: «Cosa c’è? Perché no?».
Mi sistemai a fatica la gonna, poi tastai inutilmente la camicetta; volevo chiuderla, ma i bottoni non c’erano più. In un attimo il ricordo di ciò che avevo appena vissuto mi salì dal clitoride al cervello. Con il cuore che martellava nel petto, mi voltai e andai dritta in camera. La luce della lampadina appesa al soffitto mi accecò. Presi la prima T-shirt che trovai nel cassetto e la indossai.
«Vuoi un caffè?» chiesi, passando in cucina senza rivolgergli uno sguardo. Era ancora fermo in corridoio, nello stesso punto in cui poco prima si era tirato giù la cerniera.
«È l’una» mormorò lui, guardando l’orologio.
«E allora?».
«Preferirei una birra».
Mi piegai per cercare bene nel mobile. «Cosa succede se un poliziotto viene beccato mentre guida ubriaco?».
«Beh, se il poliziotto in questione è un commissario, i colleghi gli dicono: “Ci scusi, non l’avevamo riconosciuta”».
«Non ci credo!».
«Però è vero. Conosci forse qualche commissario che ha perso la patente per aver guidato in stato di ebbrezza?».
«No, ma io non faccio testo. L’unico commissario che conosco sei tu». Mi raddrizzai. «Niente birra, mi dispiace. Vuoi un po’ di vino?».
«Non è possibile! Una tedesca senza birra è come una squadra di calcio senza allenatore».
Capii immediatamente che si trattava di una battuta da poliziotto. Per fortuna quello che era successo non aveva intaccato il nostro rapporto. Sembrava che lui non avesse nessuna intenzione di chiedermi perché l’avevo respinto.
2 Posposto al nome, Bey significa «signore».
3 «Sorella maggiore», appellativo confidenziale ma rispettoso.
4 Ciambelle salate ricoperte con semi di sesamo.

6






Mi destai con una terribile emicrania; tutta la parte destra del mio cervello era in preda al dolore. Era prestissimo, la sveglia doveva ancora suonare. Mentre facevo la doccia mi massaggiai la nuca con l’acqua calda, poi mi sedetti sul balcone con una grande tazza di caffè turco. Ero convinta che la caffeina fosse un buon rimedio contro il mal di testa, ma dopo un po’ la mia certezza cominciò a vacillare. Speravo che le otto arrivassero in fretta e che il negozio sotto casa aprisse. Non avevo niente da mangiare e non volevo prendere l’analgesico a stomaco vuoto.
Vidi arrivare due furgoni: dal primo furono scaricate delle cassette di pane chiaro, dal secondo alcune pile di giornali. Ripartiti i furgoni, apparve Hamdi, l’aiutante del bottegaio. Usando un secchio di plastica versò per terra diversi litri d’acqua, poi, con una grossa ramazza, si mise a spazzare la polvere che si era trasformata in fango. Nonostante l’emicrania, per un po’ lo osservai in silenzio. Non riuscivo a decidere se fosse più rozza la scopa o la maniera in cui la maneggiava.
«Hamdi! Hamdi!» chiamai a mezza voce.
Lui alzò lo sguardo.
«Oh, Kati Abla! Ti sei alzata presto stamattina. Ti do tutti i giornali come ieri?». Senza aspettare la mia risposta, andò a prendere il coltello per tagliare le fascette di nylon che tenevano insieme i quotidiani.
«Hamdi!» chiamai di nuovo quando uscì dal negozio. «Ho bisogno del pane e di altre due o tre cose. La lista è nel cesto».
«Va bene, provvedo subito». Anche se non c’era nessuna fretta, il suo corpo magrissimo – gli mancavano almeno venti chili – scattò verso il cesto che avevo appena calato dalla finestra.
Con i gomiti appoggiati sul davanzale, aspettai che tornasse fuori. Non ci volle molto: dopo due minuti era nuovamente sulla porta della bottega.
«Kati Abla, la confettura di more Sultan Bacı è finita. Abbiamo solo lamponi e mele cotogne. Quale preferisci?». Gridava come un matto. Di sicuro nel quartiere c’era gente che stava ancora dormendo. Gli feci cenno di abbassare la voce, poi tirai su il cesto e infilai le ciabatte per scendere in negozio.

Dopo aver fatto una bella colazione – la migliore da quando Fofo se n’era andato –, presi l’analgesico e tornai in camera. Nonostante il caldo già percepibile e la tazza di caffè che avevo bevuto, speravo di dormire per un’altra mezz’ora. Chiusi le tende e mi rimisi a letto.
Quando mi svegliai, il sole era già alto e l’emicrania era sparita.
In attesa che l’acqua per il tè si scaldasse, mi sedetti in cucina e diedi un’occhiata ai giornali. Gli effetti della crisi economica scoppiata a febbraio erano di nuovo in prima pagina. C’erano state diverse manifestazioni contro l’aumento dei prezzi. Nella provincia di Yozgat i dimostranti avevano aggredito e malmenato due parlamentari che volevano placare gli animi. Uno l’avevano addirittura mandato all’ospedale.
«Magari, dopo tutti gli scandali e i casi di corruzione che ci sono stati, questa è la volta buona che cade il governo» borbottai fra me e me.
Quando il tè fu pronto, mi spostai sul balcone. Sfogliando il «Günebakan», il giornale della mia amica Lale, rimasi letteralmente a bocca aperta: a pagina tre spiccava una foto dell’ex ragazzo di Fofo, l’avvocato che amava tanto le cravatte! Accanto a lui c’era un uomo molto attraente, almeno secondo i miei parametri, e tutt’intorno un numero non indifferente di poliziotti. «Produttore-capobanda arrestato a Fethiye mentre si diverte in dolce compagnia» diceva il titolo. Per un attimo sperai che Mumcu fosse stato beccato mentre se la spassava proprio con l’ex del mio piccolo Fofo.

Nuova pista per l’omicidio di Müller, il regista tedesco trovato morto lunedì mattina in una suite dell’Hotel Bosforo.
Il famigerato boss Mesut Mumcu è stato arrestato ieri sera nella sua magnifica villa nei pressi di Kavakdibi (Fethiye), dove si era ritirato in compagnia di A.K. (16). La polizia, che lo cercava da qualche giorno, lo vorrebbe interrogare riguardo all’omicidio di Kurt Müller.
Mesut Mumcu è il produttore di Mille e una notte nell’harem, il film per cui Müller era venuto in Turchia. Il regista tedesco, che alloggiava nella suite Dolmabahçe dell’Hotel Bosforo, già scelta in passato per ospitare la famiglia dell’ex presidente americano ed estimatore di Istanbul Bill Clinton, è stato ucciso da una scarica elettrica mentre faceva il bagno. Pare che qualcuno abbia buttato nella vasca un asciugacapelli acceso.
Mumcu era già finito sotto accusa per aver creato un’organizzazione criminale, ma era stato prosciolto per mancanza di prove. Successivamente incarcerato per sequestro di persona, istigazione all’omicidio e tentato omicidio, è uscito di prigione grazie alla recente amnistia e ha fondato la Mumcular Film.
Dopo l’arresto di ieri è stato portato a Istanbul insieme al suo avvocato.

A quanto pareva, Ali Vardar, l’ex di Fofo, non era l’amante di Mumcu, ma il suo avvocato. Meglio così. Per la prima volta nella sua miserabile vita avrebbe avuto la possibilità di fare qualcosa di buono: raccontarmi tutto quello che sapeva di Mesut Mumcu.
Controllando a stento l’emozione, composi il numero indicato nella mia vecchia rubrica. Non avevo un piano.
All’altro capo della linea rispose una donna. Dalla voce sembrava volesse vincere il concorso per la turca più sexy dell’anno. Le chiesi subito di Ali Bey.
«Mi dispiace, questo è il suo numero di casa. Prova a chiamarlo in ufficio». Senza aggiungere altro, mise giù il ricevitore.
Riprovai.
«Buongiorno signora, sono la segretaria di İsmail Yurdakul. Mi servirebbe il numero dell’ufficio di Ali Bey». Non importava chi fosse Yurdakul, certe donne si scioglievano come il burro sentendo la parola «signora», per di più pronunciata da una segretaria. Era il modo più rapido per ottenere il numero che mi serviva.
«İsmail Yurdakul?».
Per un istante pensai che mi avrebbe domandato: «E chi è?». O: «Non gli volevi parlare tu un attimo fa?». Ma non c’era da preoccuparsi, la sgualdrinella non aveva abbastanza sale in zucca.
«Il numero dell’ufficio è 2937347» disse e riattaccò.
Dato che conosceva il numero a memoria, immaginai che Ali avesse cambiato gusti e si fosse trovato una donna degna del suo rango.
Chiamai l’ufficio, ma una voce quasi inespressiva mi informò che dovevo riprovare più tardi: l’avvocato Vardar non sarebbe tornato prima delle sei.

Mi incamminai verso la libreria; grazie alla mia pluriennale esperienza potevo percorrere le stradine di Çukurcuma senza rischiare seriamente la pelle. In testa non avevo né l’omicidio di Müller né il commissario Batuhan. Pensavo a Bellini, il compositore della Sonnambula, morto a soli trentaquattro anni. Non sapevo nemmeno che faccia avesse, ma mi domandavo perché se ne fosse andato così giovane. La politica turca era piena di uomini cui si sarebbe potuto rinunciare facilmente. Non poteva morire uno di loro? Perché proprio Bellini?
La lettura dei giornali influiva in modo negativo sul mio umore. Tutte quelle notizie su casi di corruzione, politicanti dalla faccia di bronzo e presunti uomini d’affari facevano emergere il mio lato peggiore. Anche nella frescura del mio negozio climatizzato, mentre aspettavo i clienti bevendo una tazza di tè dopo l’altra, Bellini e i politici turchi continuarono a tormentarmi. Un’idea fissa al momento sbagliato.

Nel pomeriggio, poco dopo le tre, arrivò Batuhan, e stranamente non fu Recai ad accorgersene per primo. Purtroppo il commissario era di nuovo in abiti civili. Diede un’occhiata ai libri in vetrina, poi entrò e venne verso di me.
«Ciao» disse, tendendomi la mano, un po’ soprappensiero. Sembrava che tra noi non ci fosse mai stato niente. Cominciavo a pensare che gli mancasse qualche rotella. La sera prima si era dimostrato molto comprensivo, aveva tenuto un comportamento da persona matura.
«Ciao» risposi, tendendo a mia volta la mano. All’improvviso notai che era ora di tornare dalla manicure. Ah, corpo ingrato!
Sforzandomi di non pensare troppo alle unghie e ai politici turchi, tentai di concentrare la mia attenzione su Batuhan.
«Anche oggi in abiti civili» osservai per non rimanere in silenzio.
«Sono sempre in abiti civili».
«Sempre? La prima volta che ti ho visto avevi l’uniforme».
«C’era una riunione importante, ho dovuto indossarla. Ma di solito porto abiti civili».
«Mmh». L’argomento non prometteva bene, quindi cambiai discorso.
«Ho letto che avete arrestato Mesut Mumcu».
«Sì, l’hanno arrestato».
«Tu non c’entri? Non partecipi alle indagini?».
«Mi occupo dell’omicidio, tutto il resto è di competenza della squadra contro la criminalità organizzata. Finora ci siamo solo scontrati. E naturalmente io ho avuto la peggio».
Prese una sedia e si mise comodo. Era di nuovo il commissario che conoscevo. Mentre aprivo la bocca per parlare, gli suonò il telefonino.
Batuhan uscì in strada per rispondere alla chiamata, poi rientrò.
«Hanno rilasciato Mesut Mumcu. Tanto rumore, tanti giornalisti… E non è venuto fuori niente».
«Cosa si aspettavano?».
«Che ammettesse subito di aver fatto uccidere Müller. Come si dice, la speranza è il pane dei poveri. Mumcu è una vecchia volpe, non si lascia certo intimorire. Senza prove non possono trattenerlo nemmeno per due notti. Ma anche se avesse confessato di essere il mandante dell’omicidio, sarebbe servito a poco. Nessun procuratore si sarebbe buttato dalla finestra per un’imputazione simile».
«Buttarsi dalla finestra per qualcosa» era un’espressione che non avevo mai sentito. La aggiunsi immediatamente al mio vocabolario.
«Secondo te, però, Müller è stato ucciso da un’amante delusa».
«Beh, può darsi che non sia stata una donna…». Quello che avevo detto la sera prima gli aveva tolto qualche certezza. A poco a poco il suo viso diventò paonazzo. Quand’era arrabbiato smetteva di soppesare le parole e di sceglierle come se fosse «in presenza di una signora».
«A chi mai verrebbe in mente di uccidere qualcuno con un asciugacapelli? Il nostro assassino si è dovuto portare il fon, le prolunghe… Perché fare tanta fatica? È una cosa da idioti! Bastava tirare fuori la pistola, mirare alla pancia del bastardo e vuotargli addosso il caricatore. Gli assassini normali fanno così. Poi tornano a casa e si gettano tra le braccia della loro donna».
Mi accesi la prima sigaretta della giornata. Forse Batuhan non si era espresso nel migliore dei modi, ma il suo ragionamento non faceva una piega.
«Gli altri non mi danno retta. Solo perché da giovane Müller è finito dentro per un paio di bustine, sono tutti convinti che abbia continuato sulla stessa strada e si sia messo in affari con i fratelli Mumcu. Figli di puttana! Cosa vogliono fare? Prendere quelli della troupe e riempire le loro tasche di polvere bianca?».
Il commissario era tutto rosso in viso e mi guardava con gli occhi fuori dalle orbite. A me non piacciono le persone arrabbiate: sputano nel parlare ed emanano, come si dice, vibrazioni negative.
«Lascia perdere. Beviamo qualcosa?».
«Ma sì, beviamo! Hai del rakı?».
«Intendevo una coca o qualcosa del genere».
«Va bene, dammi una coca».

All’improvviso, mentre prendevo la bottiglia dal frigo, sentii la sua presenza dietro di me. Scostando i capelli per baciarmi sulla nuca, aprì i miei calzoncini e si infilò nelle mutandine. La mano scomparve fino al polso. Un attimo dopo la tirò fuori e mi fece voltare, mi guardò con occhi socchiusi, si tirò giù la cerniera dei pantaloni e appoggiò sul mio ventre il pene scuro, scurissimo, percorso da vene gonfie e bluastre. Lo puntò come un’arma, come se volesse sparare e farmi uscire gli intestini dal corpo.
Avevo ancora in mano la bottiglia di plastica, un oggetto banale che mi impediva di perdere il contatto con la realtà: con i lettori di gialli che potevano attraversare la porta da un momento all’altro, con i turisti che potevano smarrire la strada ed entrare in negozio per chiedere indicazioni, con gli amici che dopo il lavoro potevano venire in libreria per ripararsi dalla calura.
Continuai a stringerla fra le dita anche quando lui cercò di prenderla. Immobile dietro la tenda a righe arancioni, verdi e blu che separava la cucina dal negozio, con i pantaloncini e gli slip abbassati, colpevole come un bambino che se la fa addosso e poi tiene stretta la sua macchinina per sopportare meglio i rimproveri, mi aggrappai alla bottiglia di coca.
Il suo pene aveva un colore cangiante. Da viola era già diventato bordeaux.
«Tu non mi vuoi» osservò Batuhan, scuotendo il capo.
Una frase così si pronuncia solo dopo anni e anni di matrimonio. Immaginatevi la scena. Una moglie dice questa cosa al marito, poi prende il bicchiere appoggiato sul ripiano accanto a lei e beve un sorso di whisky. Gli chiede: «Hai un’altra?». E quando lui risponde di no, ribatte: «Sì che hai un’altra, lo so. È una bionda molto più giovane di me. Vi ho visti insieme». Lì, in camera da letto, mentre la moglie continua a bere, lui si convince che finalmente è arrivata l’occasione tanto attesa. Fa un respiro profondo e confessa: «Sì, c’è un’altra. Io la amo». Con i capelli tutti arruffati, lei si versa ancora un po’ di whisky. Il sipario si chiude e le donne tra il pubblico guardano con diffidenza i rispettivi mariti, che tornano a casa e si infilano tra le solite lenzuola sgualcite sognando un’amante giovane e bionda.
«Tu non mi vuoi» ripeté il commissario, prendendo le distanze, non da me, ma da se stesso, come se cercasse di guardarsi con i miei occhi e di scoprire perché non lo volevo. Forse pensava che identificando la causa del mio no avrebbe potuto trovare subito una soluzione.
Staccai la bottiglia dal mio petto e la posai sul tavolino pieghevole.
«Dire che non ti voglio non sarebbe del tutto corretto». Sembravano le parole di un saggio, eppure uscivano dalla mia bocca.
Mentre pronunciavo questa strana frase, mi accorsi che il suo pene era diventato più chiaro, addirittura rosa.
«Non sarebbe del tutto corretto? Che significa?» domandò lui, rimettendo il sesso nei pantaloni.
Di colpo guardammo entrambi il pavimento, dove giacevano i miei calzoncini e le mutandine. Gli occhi di Batuhan si posarono sulle mie gambe, poi sulle ginocchia, come se la risposta alla sua domanda fosse proprio lì.
La cucina era talmente piccola che ci trovavamo a un passo, anzi a mezzo passo l’uno dall’altra. Delicatamente, come solo un uomo innamorato della sua donna sa fare, mi rivestì.
Se fosse stato un altro, se non fosse stato un poliziotto, se non avessi avuto qualcosa contro tutti i poliziotti, forse non avrei provato tanto fastidio.
Batuhan uscì dal negozio e si incamminò lungo la ripida strada che scendeva a Karaköy. Dovevo assolutamente parlare con Ali Vardar, altrimenti la giornata sarebbe finita malissimo. Non ero sicura di voler andare da lui, cambiavo idea ogni dieci minuti, ma alla fine lasciai la libreria per arrivare nel suo studio prima delle sei.
La porta dell’edificio in via Asmalımescit davanti alla quale mi ero incontrata un paio di volte con Fofo era chiusa. Sul citofono non c’era il nome di Ali Vardar, quindi pensai di aver sbagliato e controllai anche le porte vicine. Niente. Tornata al punto di partenza, suonai il campanello di un certo «Avvocato». L’uomo che rispose mi spiegò che Vardar si era trasferito due mesi prima. Se in portineria non avevano il suo numero di telefono, potevo rivolgermi all’amministratore del condominio.
Alle sei e trentacinque ero nel nuovo studio di Ali Vardar a Gümüşsuyu, seduta sulla poltrona davanti alla scrivania della segretaria. Sapevo che avrei avuto una vista simile. Lei mi aveva detto subito che Ali Bey riceveva solo su appuntamento, poi, visto che non mollavo, si era alzata ed era sparita per «chiedere all’avvocato».
Ali arrivò con le braccia aperte come quelle di un musulmano in preghiera e la cravatta fantasia che svolazzava sul davanti. «Kati, che sorpresa!» esclamò con affettata gentilezza.
«Sarà anche una sorpresa, ma per te è senz’altro brutta» replicai.
Lui finse di non aver sentito. Gli uomini sono fatti così: se qualcosa può turbare la loro quiete, la ignorano. L’ex di Fofo aveva il pieno controllo della situazione. Mi posò una mano sulla schiena e spingendo delicatamente mi fece entrare nel suo ufficio. «Cosa bevi?».
Per la prima volta ebbi un moto di simpatia nei suoi confronti.
«Qualcosa di forte. Hai del whisky?».
«Certo! Lo vuoi con ghiaccio?».
«Con ghiaccio e soda, se è possibile». Non volevo mica morire. Faceva troppo caldo.
Prima che Ali uscisse dalla stanza per andare a prendere il whisky, gli chiesi il permesso di usare il telefono. Avevo già chiamato Lale dal negozio, ma la sua segretaria mi aveva informato che non poteva disturbarla perché era in riunione. Speravo che nel frattempo si fosse liberata.
Rispose lei, il che mi fece tirare un sospiro di sollievo. Le dissi che sarei passata a trovarla verso le nove; avevo assoluto bisogno di un suo consiglio riguardo a una certa cosa. Dopo aver riagganciato mi sentii molto meglio, come al termine di una seduta dall’estetista.
Ali tornò con due bicchieri. Uno era pieno quasi fino all’orlo di whisky, soda e ghiaccio, l’altro conteneva un liquido arancione.
Essendo una gran curiosa, non riuscii a trattenermi. Gli domandai cos’era.
«Campari Orange. L’ho scoperto l’estate scorsa in Italia. Vuoi assaggiarlo?». Mi avvicinò il bicchiere.
«No, grazie, l’ho già bevuto».
È incredibile: certe persone ti sbattono in faccia ogni loro scoperta come se fosse una grande novità.
«Però devo ammettere che si adatta benissimo alla tua nuova immagine».
«Immagino che tu non sia venuta per parlare di un drink».
«Sono venuta perché stamattina ho visto la tua foto sul giornale».
«La mia foto? Quale foto?». Non stava recitando.
«Tu con Mesut Mumcu, nei dintorni di Fethiye».
«Davvero hanno pubblicato una mia foto? Non lo sapevo, non ho avuto neanche il tempo di dare un’occhiata ai giornali. Me li faccio portare subito». Alzò il ricevitore e chiamò la segretaria.
«Comunque non riesco a capire che c’entra questo con la tua visita» aggiunse riagganciando.
«Mi interessa l’omicidio in cui è coinvolto il tuo cliente».
«Perché ti interessa?».
«Petra Vogel, la protagonista di questa coproduzione turco-tedesca, è una mia amica».
«Sospettano di lei?».
Aggirai la domanda con una spiegazione non molto convincente. «Sono solo curiosa. Visto che in un certo senso sono coinvolta anch’io nella faccenda, vorrei avere maggiori informazioni su questo omicidio».
«Allora dovresti parlare con qualcun altro».
«Andiamo, Ali! Voglio solo che mi racconti quello che sai».
«Mesut Mumcu non ha niente a che fare con questa storia».
«Non ho mica detto il contrario. Un boss mafioso non ordinerebbe mai ai suoi uomini di far fuori qualcuno buttandogli nella vasca un asciugacapelli acceso. E un killer non può avere tanta fantasia. No, non sospetto di Mumcu. Però mi sembra strano che abbia affidato un progetto così importante e costoso a uno come Müller, uno…» – cercai un’espressione adatta per descrivere il morto – «… uno con poco talento. Il libro è opera di un grande scrittore del nostro secolo, ma la regia del film è di Kurt Müller. Ti sembra normale?».
«Chi ha scritto il libro?».
«Giacomo Donetti».
«Ah!». Anche se era stato in vacanza in Italia, non aveva la più pallida idea di chi fosse Donetti. Ma non era poi così importante: non stavamo partecipando a un quiz.
«Secondo me, questa di Don Eti è solo una combinazione» disse Ali, pronunciando il nome in modo così strano che dovetti mordermi un labbro per non scoppiare a ridere. «Non credo che Mesut sia in grado di scovare autori famosi». Ci pensò un attimo, poi continuò. «Ha fondato la casa di produzione per suo cognato Yusuf. Magari l’ha trovato lui. O forse sono stati i suoi soci tedeschi. In ogni caso ti posso assicurare che Mesut non c’entra».
«Però il tuo cliente ha investito parecchio denaro in questa operazione. Perché ha deciso di sprecare i suoi soldi con Müller? Si sarà informato, no? Avrà chiesto notizie su tutti: sul regista, su Donetti, su Petra Vogel… In fondo è un uomo d’affari e vuole guadagnare».
«Un uomo d’affari» ripeté lui, pensieroso. Sembrava che nessuno avesse mai chiamato così un boss della mafia. Usando una simile definizione, però, non volevo maltrattare la lingua turca né mettere in crisi un avvocato.
«Sì, in effetti lo possiamo anche considerare un uomo d’affari» fu la conclusione di Ali.
Ancora una volta non riuscii a trattenermi. «Se pensi che Mesut Mumcu non meriti nemmeno questa definizione, perché diavolo hai assunto la sua difesa?».
«Tutti hanno diritto a un avvocato» rispose senza esitazione.
Okay, una frase da manuale.
«Uomo d’affari o no, vuole guadagnare. Come chiunque altro».
«Capisco cosa vuoi dire. Se Mesut Mumcu vuole fare soldi con questo film, perché ha accettato di lavorare con Müller? Sei proprio sicura che i suoi film non rendano?».
Avevo commesso un errore e Ali non poteva non farmelo notare. Avevo dimenticato che non esisteva alcun rapporto tra valore effettivo e successo commerciale, soprattutto in campo cinematografico.
«Hai ragione. Ma come hanno fatto ad acquistare i diritti del libro di Donetti? Non ha senso».
«Di sicuro c’è una spiegazione anche per questo. Come ti ho già detto, dovresti parlarne con qualcun altro».
«Hai ragione» ripetei conciliante. Ero già pronta per la seconda serie di domande.
«Perché la polizia ha fermato il tuo cliente? Perché l’ha rilasciato? Di questo possiamo parlare, vero?».
«Come sai che è stato rilasciato?».
Mandai giù a fatica il sorso di whisky e soda che avevo in bocca. Già, come potevo sapere che Mumcu era stato rilasciato?
«Intuito» spiegai senza battere ciglio. «È stato rilasciato, no?».
«Sì, questo pomeriggio. Un paio d’ore fa». Ali non sembrava minimamente insospettito. Non poteva immaginare che passassi il mio tempo con poliziotti muniti di telefonino. Se avesse avuto tanta fantasia, probabilmente non sarebbe diventato avvocato.
«Perché l’hanno lasciato andare?».
«Perché non potevano più trattenerlo». Era chiaro che pensava di aver fatto un ottimo lavoro. Ma questo non significava che ritenesse Mesut Mumcu innocente.
«Allora perché l’hanno arrestato?».
«Per intimidirlo. Volevano mettergli paura per farlo andare in confusione e spingerlo a confessare. Non riescono a capire che Mesut non farebbe uccidere nessuno con un asciugacapelli. Eppure tu ci sei arrivata. Roba da matti!».
«Come mai eri là quando l’hanno arrestato?».
«Me l’ha chiesto lui. Erano già stati nella sua casa di Istanbul e nel suo ufficio. Sapeva che l’avrebbero trovato. E allora? Credi che questo lo renda colpevole?».
«No, ti ho solo fatto una domanda. Perché ti inalberi?».
«Io non mi inalbero».
Nonostante il whisky con ghiaccio e lo splendido panorama – dal mio posto riuscivo a vedere il Topkapı, la stazione Haydarpaşa e addirittura parte delle isole dei Principi – non avevo voglia di protrarre inutilmente la conversazione.
Mentre ascoltavo La Flaca, l’album di Jarabe de Palo che mi aveva regalato Fofo, e attraversavo il ponte Bosforo, che per me e per i tassisti di Istanbul è il «primo ponte», decisi che per almeno un paio d’ore non avrei pensato né all’omicidio né a Batuhan. Avrei messo nello stomaco qualcosa di buono, qualcosa che volevo mangiare da tempo, magari fagioli freschi all’olio d’oliva, e avrei chiacchierato con Lale.
Nell’appartamento fui avvolta da uno strano odore. Capii subito che il mio primo desiderio, quello di un pasto decente, non si sarebbe avverato: la mia amica si era rimboccata le maniche per preparare la pasta con yogurt e aglio, un’invenzione turca che avrebbe fatto rabbrividire qualunque italiano.
«Come sapevi che sarei arrivata in anticipo?».
«Non lo sapevo. Te ne avrei lasciato un po’. Sto morendo di fame».
«Credevo che avremmo mangiato fuori» piagnucolai. Ovviamente non c’era speranza: la pasta gialla, rossa e verde che danzava molle e sconsolata nell’acqua non sarebbe mai finita tra i rifiuti. Di sicuro Lale l’aveva comprata per l’occasione.
«Non dire sciocchezze! Con tutta la fatica che ho fatto! Ho anche preso la pasta colorata» replicò, sbattendo lo yogurt con la frusta.
Quando fu tutto pronto, ci mettemmo a tavola sotto il noce che cresceva nel piccolo giardino della casa e cominciammo a mangiare. Ognuna di noi era immersa nei propri pensieri, ma sapevo che Lale non sarebbe rimasta in silenzio per molto tempo.
«Com’è?» chiese, riferendosi alla pasta.
Non potevo rispondere che era disgustosa, quindi mentii. «Un po’ troppo salata».
«Nell’altro mondo dovrò raccogliere con le ciglia tutto il sale sprecato» disse lei con finta serietà.
«Cosa?».
«È una novità anche per me. L’ho saputo da Havva Hanım, la donna delle pulizie. Il sale è sacro».
«Beh, per raccogliere con le ciglia tutto quello che hai messo in questa pasta ti ci vorranno almeno cinque anni. Avremmo fatto meglio a uscire».
«Dai, non è poi così salata» protestò Lale, ridendo.
«Perché il sale dovrebbe essere sacro?».
«Non ne ho idea. Non lo sa neanche Havva Hanım».
Di nuovo silenzio.
«Forse dipende dalla moglie di Lot» farfugliai con la bocca piena. Avevo comunque intenzione di riempirmi lo stomaco.
«Che c’entra la moglie di Lot?».
«Quando Dio decise di distruggere Sodoma e Gomorra, Lot fuggì con tutta la famiglia. Sua moglie disobbedì all’ordine di non voltarsi e fu tramutata in una statua di sale. Lui e le due figlie, invece, obbedirono. E così si salvarono in tre».
«Ma la moglie di Lot non diventò di pietra?».
«No, fu trasformata in una statua di sale. Ne sono sicura». Conosco bene il Vecchio Testamento. Lale lo sapeva, eppure decise di continuare la discussione. Non me l’aspettavo.
«Non importa se è diventata di sale o di pietra. Si è girata solo per guardare la sua casa che stava bruciando con Sodoma e Gomorra. Non sopportava di perdere quello che era suo, per questo si è voltata. Mi sembra…».
«Ma come ti viene in mente? Non si è voltata per la sua casa».
«Invece sì. Voleva darle un’ultima occhiata prima che fosse distrutta dal fuoco. Altrimenti perché l’avrebbe fatto?».
«Non è possibile! Ancora questa idea… questa…». Non riuscivo a trovare il termine adatto; quand’ero agitata, certe parole non mi venivano proprio. Lasciai la frase a metà e proseguii il discorso.
«Le donne cercano solo le cose materiali, pensano solo ai soldi. Se un incendio gli distrugge la casa, naturalmente si disperano. Sono loro che si voltano a guardare, sono loro che diventano statue di sale. Lot, invece, non pensa minimamente ai suoi averi. È un uomo, non conosce oro e denaro, non conosce l’avidità. Non si gira, va dritto per la sua strada. E quella stessa notte le sue figlie lo fanno ubriacare per rimanere incinte. Lot è talmente ubriaco che dorme con loro senza accorgersene, però non lo è abbastanza per fare cilecca». Ormai stavo gridando. L’episodio delle due figlie che fanno bere il padre per dormire con lui e dargli dei discendenti costituiva la seconda parte della tragica storia di Sodoma e Gomorra.
«Stai calma» disse Lale. «Dov’è il problema? Perché le donne non dovrebbero pensare al denaro? Perché la moglie di Lot non avrebbe dovuto voltarsi a guardare la sua casa in fiamme?».
«Perché non la città che tanto amava? Per te non c’è differenza, vero? Non c’è nessuna differenza tra una donna avida e una che ama la sua casa, il suo giardino, l’albero davanti alla porta, le piazze e le ripide strade della città in cui vive?».
«Certo che c’è differenza, ma che ci importa del motivo per cui la moglie di Lot si è girata? Dobbiamo litigare per questo?».
«La moglie di Lot non c’entra! Sono stufa di certe affermazioni. Sembra che l’avidità sia una prerogativa femminile, un po’ come le mestruazioni e la capacità di fare figli. Le donne pensano solo alle cose materiali. È praticamente una verità scientifica».
«Ma il sale…».
«Dimentica il sale! Stiamo parlando di cliché, di pregiudizi nei nostri confronti. Lo sai meglio di me. Dici che ti chiedono sempre se non ti stanchi a fare la caporedattrice per un grande giornale. Te lo chiederebbero se fossi un uomo? Ovviamente no. Allora perché vogliono sapere se è stancante? Forse perché credono che dovresti stare a casa ad allevare i tuoi figli. Così ti stancheresti molto meno. Le donne devono fare lavori da donna, no?». Ero davvero arrabbiata. Mi stavo allontanando dall’argomento della nostra discussione, ma evidentemente non ero più in grado di esporre le mie idee in modo logico.
«Hai i nervi a pezzi» osservò lei con assoluta tranquillità. Incredibile! Era riuscita a mantenere il controllo e a non farsi trascinare in un diverbio. Questo la distingueva da me e da tutte le altre donne normali.
Lale prese i piatti e rientrò. Io rimasi ancora un po’ in giardino, poi mi alzai e la raggiunsi in cucina.
«Com’è andata oggi?» chiese, mettendo le cose sporche nella lavastoviglie.
«Se provi a contare le stelle in cielo e non sai nemmeno quanti denti hai in bocca, cosa può venir fuori?».
«Bella frase. È tradotta dal tedesco?». La mia amica non sopportava che parlassi così bene il turco, cercava sempre di trovare qualche errore e di farmelo notare.
«Non lo so, mio padre la ripeteva spesso. Significa che dobbiamo riconoscere i nostri limiti».
«Che c’entrano i limiti? Per te è solo un hobby, non devi preoccuparti. Non sei obbligata a risolvere questo omicidio».
«Un hobby? Guarda che non vado a lezione di batik due pomeriggi alla settimana. È morto un uomo e l’assassino è ancora libero. Credi che per me possa essere solo un hobby?».
«Forse ho scelto la parola sbagliata. Volevo dire che non è compito tuo trovare l’assassino. Non sei una poliziotta. Sei una donna che gestisce una piccola libreria».
«È meglio cambiare discorso. So che vuoi solo tranquillizzarmi, ma ti assicuro che così non ci riuscirai mai. Tra l’altro il mio scoppio d’ira non ha niente a che vedere con questo “hobby”».
«Allora qual è il problema? Sei circondata da maschilisti?».
«Sai benissimo che ho detto solo cose vere. Noi donne veniamo sempre svantaggiate». Presi una delle sigarette posate sul mobile della cucina e la accesi. «Beh, quasi sempre!».
«Potresti curare una rubrica per il nostro giornale. Il tuo turco fa abbastanza schifo, quindi ti troveresti bene con i colleghi».
«Perché fa schifo?» domandai furibonda.
«Non si dice “veniamo svantaggiate”, ma “siamo svantaggiate”» spiegò Lale con tono da secchiona.
«Pensi di poter parlare tedesco come io… No, lasciamo stare il tedesco, è troppo difficile. Se parli una qualsiasi lingua straniera come io parlo il turco, hai tutta la mia ammirazione!».
«Sei venuta per litigare con me, Kati? Ti avverto che hai scelto il momento sbagliato. Sono troppo stanca. E poi la mia conoscenza dell’inglese è più che sufficiente».
Cosa diavolo mi stava succedendo? Perché volevo fare a gara con la mia migliore amica? «Hai ragione» ammisi e per dimostrare le mie buone intenzioni le proposi un caffè.
«Sono troppo vecchia per berlo dopo cena. Preferisco un tè leggero. Non c’è bisogno di usare quello sfuso, ho le bustine».
Se Lale non beveva caffè perché altrimenti non riusciva a dormire, come potevo farlo io che ero più vecchia di cinque anni? Mi arresi e preparai un infuso di menta.
Ci spostammo in soggiorno, al piano ammezzato. Lì, tra un sorso e l’altro, le raccontai cos’era successo con Batuhan.
«Se vuoi fare sesso con lui, fallo e basta. In Germania non c’è un principio morale che vieta di andare a letto con un poliziotto, no?». Lale sapeva davvero come irritarmi.
«Che c’entra la Germania? Sono allergica ai poliziotti. Non pensavo di essere un caso disperato, ma a quanto pare è così».
«Ah! Meno male che sei contro pregiudizi e cliché!».
Mi ripeté tutto il discorso che avevo fatto a tavola. Avrebbe continuato a rimproverarmi finché non fossi crollata, finché non avessi chiesto scusa per tutto, anche per quello che non avevo detto.
«Possiamo fare una pausa?».
«Sto cercando di capire perché ti sei arrabbiata».
«Non c’è niente da capire. Sono solo nervosa. L’hai detto anche tu che ho i nervi a pezzi».
«Per Batuhan?».
«Perché non so cosa fare. In circostanze normali andrei volentieri con un uomo così, ma lui è un poliziotto…».
«Non capisco perché ti fai tanti problemi. Le circostanze non c’entrano. Vuoi o non vuoi andare con lui?».
«Perché non dovrei volere un uomo gentile e attraente che legge romanzi gialli? Non se ne trovano tanti in giro».
«Vuoi convincerti che è meglio approfittare di tutti quelli che incontri sulla tua strada?». Lale socchiuse gli occhi e scosse la testa, poi ebbe un’illuminazione. «Ho capito. Vuoi che ti dia il permesso di andare a letto con quell’uomo. Se ti dicessi che è un tipo fantastico, ti sentiresti più tranquilla, vero?».
«Certo che mi sentirei più tranquilla. Anche se finora non mi è mai servita la tua approvazione: sono andata con uomini che non ti sarebbero mai piaciuti».
«Ma stavolta è diverso. Non sono solo i tuoi pregiudizi a frenarti. Sei preoccupata per le persone che ti stanno intorno. Cosa dirà Fofo? Cosa dirà Pelin? Cosa dirà Recai nella sua sala da tè? Sei diventata una vera turca!». Era chiaro che trovava quest’idea molto divertente. Ridendo, proseguì il monologo.
«Cosa penseranno i vicini? Se qualcuno lo vedesse entrare e uscire dal tuo appartamento con l’uniforme… Cosa penserà la gente? Beh, te lo dico io: penserà che Kati si è messa con un poliziotto. Ma stai tranquilla, nessuno troncherà i rapporti con te per questo. In fondo non è mica un vigile urbano. È un agente della squadra omicidi!».
«Commissario» la corressi. «E non porta l’uniforme». In realtà avrei preferito che la portasse, senza era molto meno elegante. «Però non vedo che problema ci sarebbe se fosse un vigile».
«Perché ti rifiuti di leggere il giornale e quindi non sai niente dei sondaggi d’opinione che stanno scuotendo il paese. Per la maggior parte dei turchi, la categoria più corrotta è proprio quella dei vigili urbani».
«Uno ogni cinque li paga per ottenere qualche favore. Sì, lo so». Anche se normalmente leggevo il giornale solo il sabato, ero informata su tutto e non perdevo occasione per dimostrarlo. Lale scoppiò di nuovo a ridere. «Comunque» continuai imperterrita «non mi risulta che questo sondaggio abbia scosso in qualche modo il paese».
«Sei proprio un bel tipo!» esclamò lei, sghignazzando, proprio come faceva sua nonna ogni volta che ci incontravamo.
«Che c’è? Se me lo spieghi, magari posso ridere anch’io».
«Che significa “uno ogni cinque”? L’hai tradotto dal tedesco, vero? Ma come ti vengono certe cose? Uno ogni cinque… Di’ la verità, l’hai tradotto?».
Stavo per chiederle cosa avrei dovuto dire, ma all’improvviso mi venne in mente: in turco era «uno su cinque», non «uno ogni cinque».
«Sì, l’ho tradotto. E allora? I turchi usano continuamente l’inglese. Cool di qui, cool di là… Perché io non dovrei tradurre dal tedesco? Smettila di fare la maestrina, la psicologa, la sapientona e la paladina della lingua turca! Sono stufa!». Poteva prendermi in giro per qualunque cosa, ma quando si parlava del mio turco diventavo molto suscettibile.
Scesi al piano inferiore e mi misi a cercare le chiavi dell’auto. Lale mi seguì come un gatto che ha rovesciato il latte.
I rimorsi tardivi non servono a niente, non basta una parola gentile per aggiustare un cuore spezzato.

Trovai posto per la macchina proprio davanti a casa. Non mi sentivo minimamente stanca, forse perché avevo dormito fino a mezzogiorno, ma ero stordita dall’odore di aglio che emanavo e dall’eco del litigio con Lale. Desideravo solo rientrare nel mio appartamento, bere un bel po’ d’acqua, lavarmi i denti e fare una doccia tiepida.
Mi accorsi subito che c’era qualcosa di strano: la porta si aprì non appena infilai la chiave nella toppa. Di solito la giravo due volte, in modo automatico.
«Avrò dimenticato di chiuderla per colpa dell’emicrania» pensai.
Mi tolsi i sandali in anticamera, poi, camminando sul pavimento di pietra gelata, andai in cucina e riempii un grosso bicchiere di acqua potabile. Dato che l’acqua delle condutture cittadine è piena di microbi e batteri e ucciderebbe anche un bue, gli abitanti di Istanbul devono comprare quella in bottiglia. Io non devo fare nessuna fatica, me la porta l’aiutante del bottegaio, però sarebbe bello aprire il rubinetto e bere direttamente dalla mano.
Evitando il soggiorno, che dava sul davanti, mi spostai nella parte della casa con le due camere da letto, il mio studio e il bagno, mi svestii di fronte allo specchio e mi misi sotto la doccia.
Purtroppo avevo buttato i miei adorati calzoncini rosa e la T-shirt di Paperino nella roba da lavare. Indossai un abito a fiori e posai un asciugamano sulle spalle per i capelli bagnati.
Per fortuna decisi di guardare la televisione ed entrai in soggiorno. Se fossi andata subito a letto, avessi chiuso gli occhi e mi fossi addormentata contando le pecore, probabilmente lui sarebbe sparito e non ci saremmo mai incontrati.

La luce proveniente dall’anticamera non bastava a illuminare la stanza, quindi non mi accorsi dell’uomo seduto in poltrona. Di solito si vede solo ciò che ci si aspetta di vedere. Comunque, una volta accesa la lampada sul tavolino tra il divano e la poltrona, le mie aspettative non ebbero più alcuna importanza. Non potevo ignorarlo: era proprio davanti a me.
«Se chiudo gli occhi, magari scompare». Quest’idea assurda mi frullò davvero nella testa, ma solo per lo shock. Era incredibile: Mesut Mumcu mi stava aspettando in soggiorno, seduto sulla mia poltrona!
Era molto più bello che nella foto sul giornale. Era bello ed elegante. Portava un completo di lino di colore «blu parlamentare», una camicia lilla e un paio di mocassini neri. I capelli erano corti e nerissimi, le labbra grandi e carnose. Aveva l’aria di chi è abituato ad apparire forte e potente e a incutere timore. Devo ammettere che una volta gli uomini di questo tipo, capaci di riempire una stanza con il loro ego e la loro semplice presenza, esercitavano su di me un’attrazione irresistibile. Può darsi che con le rughe intorno agli occhi sia aumentato anche il mio buonsenso, in ogni caso negli ultimi dieci anni ho iniziato a cercare altre qualità nei maschi. Volete sapere quali? Tranquilli, a tempo debito lo scoprirete.
Probabilmente, se avessi cominciato a urlare terrorizzata, Mumcu non si sarebbe alzato per indicare il divano. «Accomodati» disse. Non ero abituata a ricevere ospitalità nella mia stessa casa, quindi rimasi un po’ disorientata. «Stasera il primo che arriva si prende la poltrona» balbettai. Mi tolsi l’asciugamano dalle spalle e lo sistemai sullo schienale del divano; nonostante i capelli bagnati volevo darmi un contegno. Dimostrando una certa maleducazione, per non dire di peggio, lui mi squadrò da capo a piedi, facendo scivolare lo sguardo sulle spalle e indugiando a lungo sul petto – ero senza reggiseno – per poi scendere fino alle unghie laccate di rosso scuro. Alla fine piegò la testa di lato, soddisfatto. Avevo la sua piena approvazione.
Di recente, in un articolo, ho letto che nel mondo islamico la casa è un luogo sacro e inviolabile. In Iran, per esempio, i guardiani della rivoluzione possono entrare con la forza in un’abitazione solo se hanno la certezza che dentro qualcuno sta per essere strangolato. In teoria, fra le pareti domestiche una persona può anche bere e commettere adulterio. Evidentemente Mumcu non sapeva che nell’islam la casa è sacra. Con molta probabilità non sapeva nemmeno che nell’altro mondo avrebbe dovuto raccogliere con le ciglia tutto il sale sprecato.
«Come ha fatto ad aprire la porta?» domandai.
«Ci hanno pensato i ragazzi» rispose lui. In effetti non era il tipo d’uomo che si occupa personalmente di certe cose.
Avrei tanto voluto sapere se dovevo ringraziare i suoi ragazzi anche per il posto macchina davanti a casa.
«Non siamo riusciti a trovare un portacenere».
Era chiaro che mi avevano fatto un grande favore. Avrebbero potuto fumare senza portacenere e spegnere i mozziconi sul mio bel tappeto Hereke. Quello che più mi preoccupava, però, era l’uso del noi, quindi la presenza di almeno un’altra persona. Di sicuro qualcuno aveva preso posizione nella parte più buia del soggiorno. Ero comunque intenzionata a mantenere la calma.
«Un portacenere? In cucina, accanto al lavandino». Lo dissi a voce alta, in modo che si sentisse in tutta la stanza.
Non si mosse nessuno.
La situazione era già abbastanza snervante, non volevo che peggiorasse.
«Whisky?» chiesi, sempre a voce alta.
«Con ghiaccio, grazie» rispose Mumcu. L’altro rimase in silenzio.
Quando tornai dalla cucina con il portacenere, due whisky on the rocks e un whisky e soda, lui era di nuovo seduto comodamente in poltrona con le gambe accavallate. L’altro o l’altra, chiunque fosse, doveva ancora uscire dall’oscurità.
«Ieri, al telefono, eri tu, vero?».
«Sì». Ovviamente si riferiva alla conversazione in cui avevo sostituito Petra.
«E oggi sei andata da Ali». L’ex di Fofo.
«Sì».
«Ieri, invece, ti sei incontrata con un uomo della nostra zona».
«Cosa? Di chi sta parlando?». Non mi veniva in mente nessun uomo.
«È uno della nostra zona. Come si chiama? Lavora per un giornale». Il cronista che avevo conosciuto il giorno precedente.
«Ah, ho capito. Sì, ci siamo incontrati». Il tuo compaesano si è scritto il mio nome e il mio numero di telefono su un pacchetto di sigarette, e guarda un po’ che cosa ha fatto…
Prima di assaggiare il whisky, Mumcu alzò il bicchiere e disse: «Che tutti i nostri giorni peggiori siano come questo!».
«Per carità!» esclamai. Non volevo avere un’altra giornata così; eccetto il parcheggio davanti a casa, era tutto da dimenticare. Per un attimo pensai di offrire il secondo whisky con ghiaccio alla persona che si nascondeva nell’ombra, ma cambiai subito idea. Poteva farsi avanti da sola.
Avendo un animo delicato, Mesut Mumcu era in imbarazzo.
«Non dovevamo entrare nel tuo appartamento. Sei ospite del nostro paese, non dovevamo comportarci così. Mi vergogno per quello che abbiamo fatto. Purtroppo non possiamo suonare alla tua porta di giorno. Non possiamo nemmeno venire nel tuo negozio a comprare dei libri. Riderebbero tutti. E sarebbe un problema anche per te. Credimi, è molto meglio così».
Forse aveva ragione. Meglio evitare che si spargesse la voce che ero amica di poliziotti e boss mafiosi. Mumcu e il suo accompagnatore, però, erano stati davvero gentili. Non solo non avevano letto i miei diari per ingannare l’attesa, ma non avevano neanche acceso la luce. Mi avevano aspettato in silenzio e al buio.
«Okay, forse non c’era modo migliore per parlare con me, ma di cosa dovremmo parlare?» domandai, cercando di non sembrare intimidita.
«Perché t’immischi in questa faccenda?».
«Quale faccenda?».
«L’omicidio del regista».
«Mi immischio per trovare l’assassino».
«Trovare l’assassino è compito della polizia. Lascia perdere. Potrebbero succederti cose molto spiacevoli. Potresti addirittura incontrare una pallottola vagante. Non mi fraintendere, non ti sto minacciando. Noi non tocchiamo le donne. Ci mancherebbe altro! Purtroppo, però, in certi ambienti non si è mai al sicuro».
«È da certi ambienti che viene l’assassino di Müller? Si tratta di un regolamento di conti?». Parlare mi dava coraggio, quindi sparai una domanda dopo l’altra.
«Non sappiamo chi è stato né perché l’ha fatto. Può darsi che il colpevole sia un nostro nemico, qualcuno che vuole metterci i bastoni tra le ruote. In certi ambienti c’è tanta ostilità. Molti non sopportano che ci abbiano rilasciato, vorrebbero rimandarci in prigione. L’assassino può essere chiunque. Finché non l’avremo trovato, per me non ci sarà pace». Mumcu si era arrabbiato. Infilò la mano destra nella tasca ed estrasse un rosario d’ambra.
«Finché la polizia non l’avrà trovato» lo corressi, facendo riferimento alle sue stesse parole. Lui non capì o finse di non aver capito. Con dita agili fece scorrere il rosario.
«Anche noi stiamo cercando l’assassino. Chiunque sia, non ha ucciso quell’uomo per farci un favore. Pensaci un attimo. Di chi sospetta la polizia? Di noi! Nessuno si chiede perché avremmo dovuto eliminare il regista di un film in cui abbiamo investito i nostri soldi. Lo facciamo venire qui e poi lo ammazziamo? Che senso ha? Siamo così stupidi? Il nostro braccio è così corto? Non avremmo potuto farlo uccidere in Germania?».
In effetti…
«Perché ha investito in campo cinematografico?» chiesi, per nulla turbata dall’uso di verbi come uccidere, eliminare e ammazzare. O meglio, fingendo di non essere turbata.
«Il marito di mia sorella Yakut ci teneva tanto. Ci siamo detti che così avrebbe potuto costruire qualcosa». Era arrivato il momento di approfondire la storia del cognato Yusuf, di cui avevo già sentito parlare negli ultimi due giorni. Prima, però, volevo sapere una cosa.
«A chi si riferisce quando usa “noi”?». Pensavo che l’altro avrebbe smesso di giocare a nascondino e sarebbe sbucato da un angolo della stanza.
«Noi?».
«Sì, ha usato il plurale: “Ci siamo detti che così avrebbe potuto costruire qualcosa”. A chi si riferisce?». I miei occhi stavano fissando l’oscurità.
«A noi» rispose Mumcu, portandosi una mano al petto. «A chi sennò?».
«Ah!». Usava il tu per me e il noi per se stesso! Un buon modo per creare la debita distanza tra feudatario e servo della gleba.
Versai metà del whisky che avevo preparato per l’altro Mesut nel mio bicchiere, rovesciando il resto sul tavolino, poi mi riempii la bocca e cercai di ricordare dove eravamo rimasti.
«Quindi hai fatto questo investimento per il marito di Yakut». Non volevo confondergli ulteriormente le idee con il lei. Decisi di usare a mia volta il tu.
«Il marito di Yakut?». Mumcu corrugò la fronte e rifletté un istante. «Ah, sì! Yusuf! Ha preso questo nome quando si è fatto musulmano. In realtà è tedesco».
All’improvviso si ricordò che anch’io venivo dalla Germania e mi percorse di nuovo con lo sguardo.
«Sì, anche tu sei tedesca, ma parli molto bene il turco». Cominciava a essermi simpatico.
«Yusuf non l’ha mai imparato. Lui e Yakut parlano tedesco in casa. Le abbiamo detto più di una volta: “Smettila, sorella, il tuo uomo deve imparare la nostra lingua”. Ma non è servito a niente. Lei parla bene sia il tedesco che il francese. Il merito è di mio fratello maggiore Maksut, che l’ha fatta studiare. È stata una saggia decisione».
«L’istruzione è più importante per le ragazze che per i ragazzi». L’apprendista sedicenne del mio parrucchiere me lo ripeteva ogni volta che mi asciugava i capelli. Era giustamente orgoglioso del suo lavoro: con quello che guadagnava poteva mandare a scuola la sorellina.
«È vero, è molto importante» confermò Mumcu. «Un uomo può anche spaccare pietre. In un modo o nell’altro riesce a campare. Ma cosa può fare una ragazza? Battere il marciapiede?».
D’un tratto capii perché l’apprendista del parrucchiere mi diceva sempre: «L’istruzione è più importante per le ragazze che per i ragazzi, Kati Abla!». Turchi e curdi avevano un modo di pensare davvero strano!
«Noi siamo ricchi e non vogliamo che nostra sorella dipenda da altri, ma i disegni di Dio sono imperscrutabili. Non bisogna pensare a ciò che è, ma a ciò che sarà».
Ne avevo abbastanza di questa filosofia da caffè. Volevo tornare al punto da cui ci eravamo allontanati. «Yusuf…».
«Yusuf?» ripeté lui, sorpreso, come se non ci fosse nulla da aggiungere sul cognato. Possibile che non si riuscisse a parlare dello stesso argomento per almeno dieci minuti? Dopo un attimo riprese il discorso da dove l’aveva interrotto.
«In Germania aveva un lavoro normale, ma poi è venuto qui… Cosa vuoi che faccia? Non conosce neanche la lingua. Non volevamo che lavorasse per Yakut. Un uomo non può prendere ordini dalla moglie. È fuori discussione. Quindi ci siamo detti: “Okay, mettiamoci in affari con i tedeschi. Di sicuro verrà fuori qualcosa”. Yusuf si interessa di arte. Suona anche il pianoforte… Quando ci ha proposto di investire in campo cinematografico, non abbiamo avuto dubbi. Non potevamo sapere che ci saremmo trovati in questa situazione». Scosse la testa, contrariato. «La sfortuna colpisce quando meno te lo aspetti».
«Scusa se te lo faccio notare, ma in questa storia c’è qualcosa che non torna. L’autore del libro da cui è tratto il film è molto famoso. È uno scrittore di best seller. Il romanzo in questione ha suscitato un enorme interesse, è stato tradotto in più di trenta lingue e ha avuto moltissimi lettori. Ma il vostro regista… il vostro ex regista, Kurt Müller, è un pesce piccolo, uno che non ha mai diretto film importanti, ma solo opere di scarso valore. Perché è stato scelto proprio lui? È da un po’ che me lo chiedo».
«Sì, ho sentito che l’autore del libro è molto famoso. Me l’ha detto Ali, il nostro avvocato. Lo conosci, no? Stasera abbiamo fatto quattro chiacchiere con lui e poi abbiamo chiesto spiegazioni a Yusuf. Non ci siamo occupati noi dei contratti e di tutto il resto; ci ha pensato Yusuf, andando regolarmente in Germania. Il lavoro è tanto, non possiamo fare tutto da soli. Abbiamo messo questa cosa nelle sue mani. Non ci siamo immischiati».
«E qual è stata la sua risposta? Perché Müller per questa sceneggiatura?».
«A quanto pare, abbiamo fatto questo investimento solo per lo scrittore italiano. I tedeschi avevano acquistato il film e stavano cercando un partner in Turchia».
«Avevano acquistato i diritti cinematografici?».
«Sì, qualcosa del genere. Yusuf pensava che sarebbe stato un buon inizio per la nostra società. Il regista non c’era ancora. Se vuoi avere tutti i dettagli, devi parlare direttamente con lui». Mumcu piegò il capo verso la spalla sinistra, poi verso quella destra. Non riusciva a credere alle proprie orecchie. «Ma cosa sto dicendo?».
Avevo già notato che le persone – soprattutto gli uomini – diventavano molto loquaci con me. Andavano in confusione e dicevano cose che non avrebbero dovuto dire. Negli ultimi giorni era successo regolarmente. Chiunque mettesse piede nel mio soggiorno, si trasformava in usignolo e cominciava a cantare.
«Dimentica Yusuf, l’assassino e tutta questa storia. Non ti immischiare, pensa alle tue faccende. Ci dispiacerebbe molto se ti accadesse qualcosa».
Si alzò e mi tese la mano.
«Grazie per il whisky e scusaci per il disturbo. Se hai bisogno di aiuto, chiamaci pure in qualunque momento». Prese un biglietto dalla tasca e lo mise nella mia mano. Sinceramente non pensavo che i boss mafiosi usassero i biglietti da visita.
«Aggiungi il nostro numero di cellulare. È riservato, lo conoscono solo due o tre amici». Dalla tasca interna della giacca estrasse una Montblanc, una di quelle nere e panciute, e me la diede.
Mentre si dirigeva verso la porta, aprii di nuovo bocca. «Vorrei parlare con Yusuf».
Lui mi guardò con le sopracciglia inarcate.
«Per noi non c’è problema. Ma non so come la prenderà Yakut». Eravamo fermi nell’ingresso, l’uno di fronte all’altra; il suo viso era ben illuminato. Mi percorse con sguardo voluttuoso e fece un sorrisetto.
«Non sto scherzando» dissi, mettendo una mano davanti alla bocca e indietreggiando di un passo. Non volevo che sentisse l’odore di aglio.
«Neanche noi stiamo scherzando» rispose Mumcu, alzando le spalle. «Puoi venire domani mattina nella nostra villa sul mare. Così tu vedrai Yusuf e noi vedremo te».
«A che ora?» sussurrai quando era già sulle scale. «Dov’è la villa? Come ci arrivo?».
«Manderò qualcuno a prenderti. Non preoccuparti, tesoro. Non preoccuparti». E con queste parole scomparve.

Dopo la visita di Mesut Mumcu sarebbe stato inutile andare subito a letto; non avrei chiuso occhio. Guardai il ghiaccio che si scioglieva nel bicchiere e buttai giù un altro whisky. Che scoprissi o meno l’assassino, con tutti i poliziotti e i mafiosi che erano diventati miei ammiratori nell’ultima settimana non si poteva certo dire che avevo sprecato il mio tempo. A differenza delle altre single di Cihangir, che a casa trovavano solo gatti pronti a strusciarsi contro le gambe, io potevo anche trovare un boss della mafia seduto in soggiorno. Da questo punto di vista ero più fortunata di tante altre. Potendo scegliere, quale donna preferirebbe un gatto a un uomo? Naturalmente parlo di un uomo vero, non di un fanatico ambientalista tedesco biondo e senza peli.
Nonostante la pastiglia rosa che presi per dormire, scivolai nel sonno solo all’alba.

Fui svegliata dal suono del campanello.
Aprii leggermente un occhio e guardai l’orologio vicino al cuscino. Erano le dieci e cinquanta. Chiunque fosse, aveva il dito incollato al campanello. Con uno sforzo di volontà mi misi in piedi, mi trascinai fino in soggiorno e mi sporsi dalla finestra. Davanti alla porta c’era uno sconosciuto.
«Chi cerca?» domandai.
«Kati Hanım» rispose lui.
«Sono io».
«Sono venuto a prenderla. Mesut Bey la sta aspettando».
«Fantastico!» pensai. Volevo alzarmi presto per fare tutto con calma, ma dopo aver spento la sveglia mi ero riaddormentata.
«Un momento! Vengo subito!» gli gridai e corsi in camera. Si risparmia molto tempo andando da una stanza all’altra a passo di corsa, soprattutto se la casa è come la mia, grande come quattro appartamenti tedeschi.
Impiegai dieci minuti per decidere cosa indossare. Per il trucco ce ne vollero altri dieci. Quando finalmente fui pronta, scesi. Credevo che l’autista se ne fosse andato da un pezzo, ma mi sbagliavo. Probabilmente era abituato ad aspettare; magari andava a prendere le donne di Mesut Mumcu dal parrucchiere. Non sembrava affatto seccato per l’attesa di venti minuti cui l’avevo costretto. Mostrando una gentilezza in netto contrasto con il suo fisico possente e con la lunga cicatrice che dal centro della guancia destra arrivava fin sotto l’occhio, aprì la portiera posteriore di una Jaguar nuova fiammante e mi fece sedere.
Nell’abitacolo risuonava una canzone popolare. A giudicare dal volume della musica, l’apparecchio da cui usciva doveva essere molto costoso.

Pensaci, pensaci,
deve andare avanti così?
Di’ di sì,
di’ di sì,
bevi il caffè, poi vedrò
se l’amore ti attende o il dolor,
tutto questo io leggerò.

«Ti dà fastidio, Abla?» gridò lui prima di avviare il motore.
«Non sarebbe male se si potesse abbassare un po’» urlai di rimando.

Non ci scambiammo altre parole.
Dopo aver oltrepassato un imponente cancello sorvegliato da guardie, ci fermammo nel giardino della villa di Yeniköy. Schizzai fuori dalla macchina prima che l’autista potesse aprirmi la portiera. Sui gradini d’ingresso c’era una donna vestita da domestica, con una minigonna bianca e una camicetta dello stesso colore. Vedendomi uscire dalla Jaguar, mi volò incontro e con un accento quasi incomprensibile disse: «Mesut Bey la sta aspettando».
Il suo aspetto e il modo di parlare facevano supporre che fosse arrivata a Istanbul da qualche zona della Russia o dei Balcani. Il suo accento, però, non era proprio slavo… Non riuscivo a capire chi mi ricordava.
«Dov’è Mesut Bey?».
Lei indicò una porta in cima ai gradini. «Prego».
Mentre la seguivo su per la scala, mi guardai intorno con attenzione: oltre che nel gabbiotto vicino al cancello, le guardie erano in ogni angolo del giardino. Mi domandai se l’ex primo ministro Tansu Çiller, che abitava in un’altra villa del quartiere, era protetta in modo così massiccio.
Appena varcata la soglia, la domestica alzò la mano destra. «Prego, di qui».
Sembrava che avesse imparato a memoria quel poco di turco che serviva per mostrare la via agli ospiti. Se fosse stata in grado di costruire intere frasi, di sicuro non avrebbe avuto un accento straniero così forte. Forse riusciva a comunicare con Mesut Mumcu, ma come faceva con i suoi uomini?
Il salone era talmente grande che avrebbe potuto contenere più di una volta il mio appartamento, delle cui dimensioni andavo così fiera. Entrando mi lasciai sfuggire un’esclamazione di stupore.
«Straordinario, eh?».
A quanto pareva, tra le dieci, dodici parole che la donna aveva imparato c’era anche «straordinario». Una cosa piuttosto interessante.
«Sì, davvero straordinario. Sta in un vero paradiso. È fortunata: più guarda il Bosforo, più si allunga la vita; più si allunga la vita, più tempo può trascorrere qui». Lo dissi più veloce che potevo, per vedere se mi capiva.
«Sono già due anni» rispose lei. Evidentemente mi aveva capito.
«Due anni che lavora qui, ma prima era già in Turchia, no?». In un paio d’anni non si poteva imparare il turco così bene.
«No. Sono venuta dalla Bulgaria e ho cominciato subito a lavorare qui».
«E dove ha imparato la lingua?» chiesi, piena di invidia e ammirazione.
«Il personale parla solo turco, col tempo si impara» spiegò la domestica, come se apprendere una lingua straniera attraverso l’ascolto fosse la cosa più normale del mondo. «Il turco è davvero difficile» si permise di aggiungere dopo un attimo.
All’improvviso ebbi la certezza che il suo accento non era slavo, ma curdo. Secondo il mio amico Mithat, originario di Hakkâri, l’accento più forte era quello di chi viveva in città come Diyarbakır, dove abitavano anche molti turchi. Lì i bambini imparavano la lingua per strada. A Hakkâri, dove gli unici turchi erano i dipendenti statali e la lingua si apprendeva a scuola, i curdi parlavano turco senza accento. Molto probabilmente i curdi della villa venivano quasi tutti da Diyarbakır.
«Si accomodi. Vado a informare Mesut Bey». Le domandai se potevo aspettare in veranda, poi la guardai uscire dalla stanza con uno slancio sorprendente.
«Che onore!» esclamò Mumcu, arrivando dopo un po’ in accappatoio. Con una sigaretta accesa tra le dita, stavo ammirando il panorama costiero. Ci salutammo con una stretta di mano.
«Ci infiliamo qualcosa e veniamo subito da te. Estate o inverno, appena alzati ci tuffiamo sempre in piscina. Tranne quando siamo in prigione, ovviamente». Scoppiò a ridere e a me parve di sentire una voce che diceva: «In certi ambienti non si sa mai».
«Hai già fatto colazione?».
Scossi la testa.
«Allora possiamo farla insieme. Ma dobbiamo andare sul lato, qui sta per arrivare il sole».
Diede alcuni ordini ai due uomini che aveva alle spalle e scomparve. Sembrava proprio che Mesut Mumcu avesse i miei stessi ritmi: anche lui si svegliava verso mezzogiorno.
Un pensiero mi attraversò la mente e mi fece scattare in piedi. Il negozio! Chi si stava occupando del negozio? Avevo dimenticato di chiamare Pelin. Spostai la pesante sedia di ferro e corsi verso il salone, ma un gigante biondo mi sbarrò la strada.
«Desidera?».
«Ecco, io… dovrei telefonare…». Ero confusa. Non sapevo di essere sorvegliata.
«Si sieda, le porto subito un telefono».
Mi voltai e mi rimisi seduta. Un bestione del genere non poteva stare in una villa arredata con gusto squisito, tra domestiche e pezzi d’antiquariato. Era davvero troppo, anche per un uomo dai forti contrasti come Mesut Mumcu. Probabilmente il gigante aveva ricevuto l’ordine di controllarmi. Mi sembrava difficile che in certi ambienti si potesse fare qualcosa di propria iniziativa. Se Mumcu non c’entrava, doveva essere stato qualcun altro a ordinare di tenermi d’occhio. Ma perché? Avevano paura che fregassi le posate d’argento?
Il biondo tornò dopo qualche istante con un cordless.
«Grazie, può andare».
«Telefoni».
Dato che non aveva intenzione di togliersi di mezzo, mi decisi a chiamare Pelin. Naturalmente, per dispetto avrei anche potuto telefonare in Australia e fare quattro chiacchiere con la mia amica Cindy. Perché diavolo se ne stava impalato proprio davanti a me?
Quando Mesut Mumcu ricomparve con indosso un paio di pantaloni di lino grezzo e una camicia fantasia fucsia e beige, mi sentii sollevata. Finalmente il gigante si sarebbe levato di torno. Se solo ventiquattro ore prima qualcuno mi avesse detto che avrei provato sollievo alla vista di un boss mafioso, di sicuro avrei risposto: «Tu sei matto!». La vita è davvero piena di sorprese.
«Vieni, andiamo a sederci là». Mumcu mi fece alzare, mi posò una mano sul fianco e mi guidò verso il posto indicato.
«Abbiamo mandato a chiamare Yusuf, arriverà tra un attimo. Gli potrai chiedere quello che vuoi». Era chiaro che aveva l’abitudine di soddisfare ogni desiderio femminile, non importava che si trattasse di una pelliccia o di qualcos’altro. Fece scivolare la mano verso il basso.
«Promettici che starai lontano dai guai».
«Lo prometto» dissi, tutta soddisfatta. «Starò lontano dai guai». Neanche mia madre si preoccupava tanto per me.
Yusuf arrivò che avevamo già fatto colazione, naturalmente in compagnia di quattro guardie che ci davano la schiena e fissavano un punto all’orizzonte. Ci pulimmo la bocca con i tovaglioli bianchi e inamidati. Yusuf si inchinò alla maniera orientale e in inglese domandò al cognato come stava. Mumcu, sprezzante, rispose con un movimento della mano, poi indicò me.
«Questa è la nostra carissima amica Kati» disse, parlando a sua volta inglese. Tenete presente che l’aggettivo «carissimo» viene usato con una certa facilità da turchi e curdi, o meglio, da tutti quelli che vivono in Turchia.
«Ti vuole fare qualche domanda sul film». Mumcu si alzò e dopo avermi accarezzato nuca e spalle scomparve con le sue quattro guardie del corpo.
Seduti al tavolo della colazione, davanti a piatti vuoti e semivuoti, Yusuf e io ci studiammo in silenzio per alcuni istanti.
«Viene anche lei dalla Germania, vero? Ci sono molti tedeschi che vivono qui in Turchia. Pensionati che vogliono passare la vecchiaia ad Alanya, ma non solo. In tutto siamo più di cinquantamila. Meno di quelli che hanno scelto Maiorca, ma comunque un bel numero». Yusuf s’infilò in bocca un pezzo di formaggio bianco.
«Perché le interessa il nostro film?» chiese, masticando. Possibile che la madre non gli avesse insegnato che non si parla con la bocca piena? Che spettacolo disgustoso!
«Non mi interessa il film, ma l’omicidio» spiegai.
«E posso sapere perché le interessa?».
Me lo domandavano tutti, ma non avevo ancora trovato una risposta soddisfacente. Ripetei più o meno quello che avevo detto agli altri.
«Nell’omicidio è coinvolta anche la mia amica Petra Vogel. Beh, no, non è proprio coinvolta. Però la cosa la riguarda da vicino. Di sicuro vogliamo tutti che il colpevole venga scoperto al più presto».
«Assolutamente. Guardi cos’è successo al fratello di mia moglie. L’hanno arrestato così, all’improvviso. Per causa mia». A quanto pareva, il fatto che non avesse ancora imparato il turco non era il suo unico problema.
«Perché si è dato al cinema?».
«Perché l’idea mi piaceva. E poi dovevo fare qualcosa. Sono ancora troppo giovane per andare in pensione».
«Sì, ma perché proprio questo film?».
«La Phoenix, il nostro partner tedesco, aveva già i diritti del libro di Donetti. Li aveva acquistati prima della crisi. Io sono entrato in contatto con la società tramite un amico quando la situazione finanziaria era ormai compromessa. Per loro questo progetto rappresentava la salvezza, per noi era un inizio sicuro. Loro avevano l’esperienza necessaria per produrre un buon film, noi avevamo il denaro che serviva. Una combinazione perfetta, no?».
«C’è una cosa che proprio non riesco a capire. Se questo progetto era così importante… se per voi era l’inizio di una nuova attività e per il vostro partner rappresentava la salvezza… perché Kurt Müller?».
«Il suo nome è venuto fuori dopo. All’inizio, quando ho accettato, c’erano solo il libro, l’autore e la sceneggiatura. Il signor Franz, il nostro partner, ha insistito perché il ruolo della protagonista fosse affidato a Petra Vogel. Io avrei scelto un’attrice più adatta, ma…». Lasciò la frase a metà.
«E chi avrebbe preso? Türkân şoray?» chiesi in tono beffardo.
«Perché no? Ha letto il libro, vero?». Fece un cenno con la mano e, come per magia, accanto a noi riapparve il gigante biondo.
«Caffè» ordinò Yusuf.
L’altro scomparve.
«No, non l’ho letto, però conosco la storia. La protagonista è una schiava di Venezia che finisce a palazzo e diventa la favorita del sultano. Se non sbaglio, nel libro è già avanti con gli anni».
«Sì, è così. E Türkân şoray è la prima persona che viene in mente se si pensa a una favorita di mezza età».
«Secondo me sarebbe più adatta al ruolo di vecchia principessa». Non avevo niente contro la star del cinema turco soprannominata la Sultana, con gli occhi umidi e le labbra tremanti, ma, essendo tedesca, non potevo non dire l’amara verità.
«Se Türkân şoray non andava bene, mi sarei accontentato di Gülşen Babikoğlu». Yusuf pronunciò malissimo il nome della povera donna, anche se era evidente che conosceva le stelle dei film turchi.
«Ma Petra Vogel in questo ruolo…». Fece una smorfia. «Se non ha letto il libro, non può capire. Handan, la protagonista, è la favorita di Mehmet III e la madre di Ahmet I. Secondo molti storici non esistono prove certe riguardo alla sua nazionalità, ma Donetti afferma che la sultana Handan era veneziana, proprio come la sultana Safiye, madre di Mehmet III. Il libro parla soprattutto dei conflitti tra Handan e Safiye e degli intrighi di palazzo. Quando il principe Ahmet, a soli quattordici anni, sale al trono con il titolo di padiscià, sua madre prende il controllo della situazione e manda la sultana Safiye e quasi tutti quelli dell’harem nel Palazzo Vecchio. Ma non vive abbastanza a lungo per raccogliere i frutti della sua lunga battaglia. Muore due anni dopo la salita al trono del figlio. La sua storia è davvero terribile. Il marito, Mehmet III, è un freddo assassino che prende il potere e fa strangolare diciannove principi, ma è anche un uomo colto, come tutti i suoi predecessori. Handan lotta per la sua vita, da una parte contro la sultana Safiye, dall’altra contro il padiscià, e quando lo spettatore è ormai convinto che ce l’abbia fatta, muore». Sentendo la parola «spettatore», pensai che Yusuf si era davvero calato nei panni del produttore cinematografico. Conosceva bene l’argomento di cui stava parlando. Tutto eccitato, continuò a raccontare.
«Sì, la sultana Handan non era una donna orientale, ma negli intrighi di palazzo… Conosce l’espressione “intrighi bizantini”, vero? Secondo gli storici, la corte ottomana ha preso l’abitudine di ordire intrighi proprio dai bizantini. Non è facile integrarsi in un mondo simile… Ma Handan era bizantina, romana, mediterranea… La definisca come vuole. Quel che è certo è che non era tedesca. I tedeschi sono troppo diversi, non possono capire questo mondo». Sembrava fosse giunto a questa conclusione per esperienza personale. «Ecco perché Petra Vogel non mi sembrava adatta. Ma il signor Franz ha insistito».
«Un attimo, chi era Franz?».
«Il nostro partner. Il capo della Phoenix».
«Ah, già. Mi scusi, faccio fatica a ricordare tutti questi nomi».
«Ci voleva un’attrice orientale, una turca qualsiasi… In realtà credo che i turchi siano più mediterranei che orientali. Una turca sarebbe stata perfetta per questo ruolo. La nostra Handan non può comportarsi come un’orientale perché è veneziana. Mi segue?».
«Sì, in effetti quello che dice è vero. Se la protagonista del film deve comportarsi in modo naturale… Non ho letto il libro, ma è tutto chiaro». Mi sembrava difficile che Petra potesse immedesimarsi nella favorita del sultano. Facevo meno fatica a credere che un giorno mi sarei svegliata senza rughe intorno agli occhi.
Una cameriera in divisa si avvicinò con due tazze di caffè turco e due bicchieri d’acqua. «Nessuno mi ha chiesto come lo bevo» le feci notare mentre posava il caffè sul tavolo. Che sfacciata!
«Ci hanno detto che lo prende con poco zucchero. Se vuole, gliene faccio preparare subito un altro».
«Bene. Lo preferisco senza zucchero». Usai un tono imperioso, da sultana. La cameriera se ne andò leggermente imbronciata.
«Da quanto tempo vive in Turchia?» domandò lui.
«Un bel po’. Circa tredici anni».
«A quanto pare, non ha problemi con la lingua».
«Si impara col tempo» risposi, come se la cosa non mi importasse. A giudicare dal suo sguardo pieno di invidia, anche Yusuf diventava ipersensibile quando si parlava di conoscenza della lingua turca. Tornò subito all’argomento principale della conversazione.
«Il signor Franz ha insistito per avere Petra Vogel. Diceva che era l’unica attrice in grado di sostenere la parte. Cosa potevo fare? Non sono un esperto, questo è il mio primo film». Chiuse una mano e ci appoggiò il mento.
«Il primo, ma non l’ultimo. Sono sicura che presto troverete un altro regista e potrete continuare le riprese. O dovrei dire cominciare?». Mi faceva ancora più pena di quando avevo saputo che alla sua età si era circonciso per diventare musulmano.
«Abbiamo già speso molto più del previsto. Le cose sono andate per le lunghe. Dato che gireremo in posti come l’harem del Topkapı, abbiamo dovuto chiedere delle autorizzazioni speciali. Per ottenerle c’è voluto più tempo di quanto pensassimo… Poi l’arredamento di scena, i costumi… È tutto carissimo. Non parliamo dell’hotel! Parte della troupe è arrivata dalla Germania. Si figuri che neanche il tecnico delle luci è di qui! Volevamo partecipare ai festival internazionali, ma a causa dell’omicidio finiremo in ritardo…». Pronunciò l’ultima frase come se all’attrice protagonista fosse spuntato un brufolo sul naso.
Avevo già abbastanza problemi. Spazientita, lo interruppi con un cenno della mano.
«Torniamo alla mia domanda. Il signor Franz ha insistito perché la parte della protagonista fosse assegnata a Petra, ma che c’entra questo con Kurt Müller?».
La domestica bulgara, quella che aveva imparato il turco di Diyarbakır attraverso l’ascolto, arrivò con il mio caffè. La ringraziai con un sorriso.
«Stando a quello che mi ha raccontato il signor Franz, è stata Petra Vogel a fare il nome di Müller. Voleva lavorare con lui. Forse ha addirittura messo questa condizione. Il signor Franz non ha sollevato obiezioni perché l’assistente alla regia, la signora Bauer, è una donna in gamba. Secondo me, avrebbe dovuto dirigere lei il film. Ma sa com’è, hanno pensato che non fosse il caso di affidare una produzione di questo calibro a una giovane senza esperienza». Yusuf pensava ai soldi, ma evidentemente era Franz a comandare.
«Che tipo di film aveva diretto Müller?».
«Mah, le solite cose: fantasy, storie d’amore… Roba senza infamia e senza lode, ma niente di inguardabile. Ho l’elenco delle sue opere e anche le cassette. Le posso dare tutto, se vuole. Comunque Müller non ha chiesto molti soldi, il che ha giocato a suo favore. Invece di scegliere un regista bravissimo, famoso e caro, abbiamo messo insieme un’ottima squadra. Come consulente abbiamo il professor Serdar Parlar, esperto di storia ottomana dell’Università del Bosforo. E poi c’è la signora Bauer, che ha un grande talento… In un certo senso, per Müller era impossibile fallire».
«Sbaglio o di solito un film viene ricordato con il nome del regista?».
«Certo, da questo punto di vista era la sua grande occasione. Ma non doveva fare poi molto. La sceneggiatura c’era, la squadra anche. Nemmeno un regista come Eisenstein avrebbe avuto molto spazio di manovra. Müller aveva l’esperienza necessaria per portare a termine questa cosa. Nel suo lavoro non è poi… non era poi così male».
«Quindi Müller ha avuto la migliore occasione della sua vita grazie a Petra».
«Sì».
«Ma non dovrebbe essere il contrario? Di solito non è il regista a scegliere l’attrice con cui vuole lavorare? Fassbinder, per esempio, usava sempre Hanna Schygulla».
«Se l’attrice è abbastanza famosa, può essere lei a scegliere il regista. Non c’è una regola fissa. Secondo il signor Franz, Petra Vogel voleva qualcuno che non la mettesse in ombra. In questo settore i rapporti fra le persone sono molto complicati. Troppi intrighi…».
«Perché ha deciso di dedicarsi al cinema?».
«Gliel’ho già detto, dovevo fare qualcosa. E la produzione cinematografica sembrava una cosa adatta a me. In ogni caso, la famiglia mi avrebbe dato il capitale iniziale». Yusuf inarcò le sopracciglia. «Perché? Pensa che sia strano fare il produttore?».
«No, non volevo dire questo. Ma perché questo film? Avrebbe potuto cominciare con qualcos’altro».
«Dal punto di vista commerciale, questo progetto era molto promettente. Lo è ancora». Nonostante tutto continuava a sperare.
«In Turchia abbiamo ottime possibilità di successo. Sa, le principesse ottomane tirano. Tra i libri più venduti c’è sempre qualche romanzo storico. Il libro di Donetti è stato un best seller internazionale. Ho pensato che tutti quelli che l’hanno letto sarebbero andati anche al cinema. E poi in questo periodo Istanbul va di moda. È più popolare che mai. Non a caso gli artisti famosi, con una scusa o con l’altra, vengono tutti qui».
«Però, ci sa fare!».
«In Germania lavoravo come consulente finanziario. Non esercito più, ma me ne intendo di finanziamenti e di progetti che possono rendere bene. Ho fiuto». Considerato che in Germania quello del consulente finanziario è un lavoro prestigioso, Yusuf meritava davvero di essere compatito per la sua nuova condizione di aiuto produttore e cognato di un boss mafioso. Comunque non potevo perdere tutto il giorno ascoltando le sue storie con le lacrime agli occhi.
«Mi scusi, ma dovrei andare in bagno». Appena pronunciai queste parole, riapparve il gigante biondo. Naturalmente la cosa non mi stupì.
«Al suo servizio, signora» disse, tutto rispettoso. Senza dubbio aveva ricevuto una bella strigliata dalla cameriera perché non mi aveva preso sul serio e non mi aveva chiesto come volevo il caffè.
«Bagno» risposi, chiara e concisa.
Il gigante si piegò in avanti e allungò il braccio destro. «Prego, di qui». Parole che avevo già sentito.
Mi accompagnò fino alla porta del bagno e rimase in attesa. Uscendo, lo trovai che puliva uno specchio con la manica della giacca.
Quando tornammo fuori, Yusuf si stava rosicchiando le unghie con lo sguardo fisso sul Bosforo.
«Questa cosa non ci voleva proprio» mormorò, quasi parlando con se stesso. «È tutto da rifare. Abbiamo buttato via un sacco di soldi. Non ho ancora calcolato la perdita, ma… Abbiamo sprecato il nostro denaro. Lo stiamo ancora sprecando».
«Finirete di girare questo film» dissi. Avevo l’impressione di ripetermi come un disco rotto.
«Abbiamo versato gli anticipi e pagato l’hotel… La Phoenix non può sostenere certe spese. La sua situazione non è mai stata fantastica. E adesso ci sospettano addirittura di omicidio. O meglio, sospettano di mio cognato».
«Non credo che la famiglia Mumcu finirà sul lastrico per i pochi soldi persi in questa operazione». Mi piegai per raccogliere la borsetta arancione che avevo appoggiato vicino alla sedia, poi mi alzai e in un attimo ebbi accanto il gigante. Sapevo benissimo che avrei dovuto tacere, ma non riuscii a frenare la lingua. «Perché mi sta sempre tra i piedi?».
«Per esaudire ogni suo desiderio. È una forma di ospitalità» spiegò Yusuf con un’alzata di spalle. «È strano che mi faccia una domanda del genere, visto che abita in Turchia da tredici anni». Sembrava contento di potermi dare una lezione su usi e costumi del paese.
«Si vede che frequentiamo ambienti diversi».
Lui non capì che lo stavo prendendo in giro. «Qui ci sono notevoli differenze tra le classi sociali. In Germania non è così, vero? Ogni tanto mi stupisco ancora».
«Ha perfettamente ragione». Annuii per mostrare che condividevo la sua idea. Poi mi rivolsi al gigante e in turco chiesi: «Può informare Mesut Bey che devo andare?».
«Un attimo». Il biondo corse subito in casa.
Presi l’accendino e le sigarette dal tavolo, li infilai nella borsa e tesi la mano. Yusuf scattò in piedi. Evidentemente non aveva capito la mia ultima frase.
«Se ne va? Non può, deve aspettare mio cognato!».
«Non si preoccupi, rimarrò qui finché non arriva». All’improvviso sentii il fiato di Mesut Mumcu sul collo.
«Eh no, non puoi andare via così, dobbiamo mangiare insieme» mi sussurrò all’orecchio.
Mi voltai. Eravamo talmente vicini che quasi ci toccavamo.
«Abbiamo appena fatto colazione, Mesut Bey. Sarà per un’altra volta. Anch’io ho le mie faccende da sbrigare». Sembravo una vera donna d’affari.
«Allora verremo a prenderti stasera. Alle otto a casa tua». Disse qualcosa in curdo ai suoi uomini e si avviò a passo spedito verso la scala che conduceva al piano superiore. Non mi diede la possibilità di replicare.
«Ci mancava solo questa!» pensai.

7






Alle sette, con le unghie fresche di manicure e i capelli ben pettinati, mi sedetti sul letto e guardai i vestiti nell’armadio. Al pensiero di dover andare a cena con Mesut Mumcu mi si rivoltava lo stomaco. Avevo fatto colazione nella sua villa per un buon motivo: dovevo parlare con Yusuf. Ma ora si trattava solo di cenare con un mafioso! Come se non avessi niente di meglio da fare! Avrei preferito incontrare Petra per chiederle dove aveva conosciuto Müller e perché l’aveva voluto come regista del film.
Nel pomeriggio, dopo essere tornata in negozio, avevo cercato in Internet il numero della Phoenix Film. Al telefono mi ero presentata come Leyla Batuhan, commissaria della squadra omicidi di Istanbul. Probabilmente non si sarebbero presi il disturbo di controllare, comunque sarebbe stato difficile, se non impossibile, risalire a me. Essendo una divoratrice di romanzi gialli, avevo avuto la bella idea di chiamare dall’ufficio postale di Galatasaray. Era filato tutto liscio. Il signor Franz si era insospettito solo per un istante, perché parlavo tedesco «come una tedesca».
Aveva confermato la storia di Yusuf: era stata Petra a fare il nome di Müller. Non sapeva se i due avessero già lavorato insieme, gli sembrava di no, ma non era poi così strano che si conoscessero. Il mondo era piccolo e l’ambiente del cinema lo era ancora di più.
Ero quasi sicura che il signor Franz non c’entrasse niente con l’omicidio: insieme a Mesut e Yusuf avrebbe subito i danni maggiori. Inoltre avevo praticamente scartato la mia prima ipotesi, cioè che Mumcu e la sua banda volessero usare il film per spacciare eroina all’estero e che il regista fosse stato ucciso per divergenza di opinioni. Questa spiegazione non era più così convincente.
Sapevo di dover cambiare tattica. Dovevo concentrarmi sulle persone che avrebbero tratto vantaggio dalla morte di Müller. Chi poteva desiderare la sua dipartita? Un pensiero mi fece alzare di scatto. L’assistente alla regia Bauer! Il signor Franz non mi aveva forse lasciato intendere che avrebbe sostituito lei il regista?
«Abbiamo dei collaboratori in gamba, credo che non ci sarà bisogno di ingaggiare qualcun altro per terminare le riprese del film» aveva detto.
«A quali collaboratori si riferisce?» avevo chiesto io.
«Beh, la signora Bauer è un’ottima assistente alla regia. Potrebbe assumere lei l’incarico».
Naturalmente questo non significava che fosse l’unica persona a trarre vantaggio dall’omicidio. Però aveva ottenuto una promozione proprio per la morte di Müller. Non potevo lasciare la ricerca del colpevole alla polizia e tornare alla solita vita prima di aver depennato la signora Bauer dalla mia lista dei sospetti.
C’era però una cosa che mi dava il mal di pancia: era stata Petra a far avere il lavoro a Müller. Ogni volta che ci pensavo, la rivedevo mentre diceva: «Tra noi due non c’era un bel niente!». Era troppo convincente, non poteva essere una bugia. Ma forse la mia amica aveva davvero una relazione con Müller. Forse lui l’aveva tradita, forse avevano litigato e… Un delitto passionale! Non riuscivo a credere che Petra avesse commesso un omicidio solo perché tradita. E l’ipotesi che avesse ucciso il regista dopo un litigio non stava in piedi: l’assassino non aveva agito d’impulso, si trattava di un delitto premeditato. Nessuno va dall’amante portandosi dietro un vecchio asciugacapelli e tre prolunghe da usare in caso di lite.
Un attimo prima di cominciare a rosicchiarmi le unghie, mi riscossi dai miei pensieri. Nel pomeriggio ero andata dalla manicure. Dovevo ancora decidere cosa mettere per la serata, quindi mi concentrai di nuovo sul contenuto dell’armadio.
Dopo essermi vestita e guardata allo specchio, mi accorsi che erano già le otto e dieci. Alla mia porta non aveva ancora suonato nessuno. Era chiaro come il sole che Mesut Mumcu aveva dimenticato il nostro appuntamento. Non avevo nessuna voglia di andare a cena con lui, ma l’idea che mi avesse tirato un bidone mi infastidiva molto.
Aspettai fumando fino alle otto e venti, tentando di convincermi che era rimasto imbottigliato nel traffico. Alle otto e ventidue ero talmente agitata che niente riusciva più a consolarmi. Alle otto e ventitré misi i sandali e afferrai la borsetta. Alle otto e ventiquattro chiusi la porta e uscii in strada.
Dato che ero troppo elegante per i locali in cui potevo entrare da sola, andai al Caffè Kaktüs, mi sedetti al bancone e bevvi uno, due, tre, quattro Margarita.
Per buttare giù quattro cocktail non ci vuole poi molto. Alle dieci e cinquanta ero di nuovo a casa. Mi avvicinai subito al telefono e vedendo lampeggiare la spia rossa della segreteria pensai: «Un messaggio!». Forse il mio orgoglio femminile era salvo. Schiacciai play. Dall’apparecchio, che mia madre aveva portato dalla Germania in occasione di una sua visita, uscì una voce metallica di donna. «Hai quattro nuovi messaggi».
Il primo era di Petra. Voleva sapere perché non l’avevo più chiamata. Non ci vedevamo da due giorni.
Il secondo messaggio, arrivato alle otto e quarantadue, era del padrone di casa, che abitava al piano superiore. Voleva ricordarmi che non avevo ancora versato l’affitto del mese in corso. Non c’era nessuna fretta, ma era un po’ preoccupato perché di solito pagavo puntualmente. Era forse successo qualcosa?
Alle nove e trentacinque qualcuno aveva riagganciato senza dire una parola.
Alle dieci e un minuto aveva telefonato mio fratello maggiore, che viveva a Gottinga. Nostra madre si era sentita male per strada. Colpa della pressione troppo alta. L’avevano portata in ospedale, ma secondo i dottori non c’era motivo di preoccuparsi.
Mi lasciai cadere sulla sedia. Era il colmo! Mentre mi arrabbiavo perché un mafioso mi aveva dato buca, mia madre si trovava in ospedale.
Senza farmi troppe illusioni composi il numero di mio fratello. Lui era senz’altro partito per Berlino, ma forse mia cognata era rimasta a casa e poteva darmi informazioni più precise. Dopo cinque squilli, quando stavo per riagganciare, qualcuno rispose al telefono.
«Hirschel». Era mio fratello.
«Sei a casa?».
«Kati!» esclamò lui, tutto contento. «Ero in giardino. Ci ho messo un po’ a sentire che squillava».
«Non sei andato a Berlino? Per caso la mamma è lì da voi?».
«No, è all’ospedale Am Urban. Perché dovevo andare a Berlino?». Era chiaramente ubriaco.
«Forse perché tua madre si trova in ospedale!».
«Ma no, non è niente di serio. Ha messo male il piede destro e si è rotta la caviglia. Le persone anziane si fratturano anche per una piccola caduta. E poi c’è la pressione. Lo sai, sono anni che la mamma ce l’ha troppo alta. Ute e io stiamo facendo una bella grigliata in giardino». Ute era mia cognata.
«Domani prendo l’aereo per Berlino».
«Perché?». Ma che domanda!
«Per fare visita alla mamma».
«Sei impazzita?» chiese lui, sconcertato. «Io non vengo».
«Andrò da sola». Fu l’istante in cui presi la mia decisione definitiva.
«Vivi lì da troppo tempo… Non puoi correre da un posto all’altro per qualunque sciocchezza. Dopo tutti questi anni lì sei diventata anche tu isterica».
«Domani prendo l’aereo. Se cambi idea, ci vediamo a Berlino».
Si arrabbiava sempre quando mi mostravo così determinata.
«Fa’ come vuoi» disse. Riagganciammo senza salutarci.
Buttai i miei vestiti ultra chic sul pavimento e rinunciando a struccarmi andai subito a letto.
Il mattino seguente mi svegliai con un peso sullo stomaco. Dopo un attimo mi tornarono in mente mia madre e il caso Müller, che continuava ad assillarmi. Scacciando il pensiero dell’omicidio, mi alzai di scatto dal letto. Dovevo procurarmi al più presto un biglietto aereo.
Un leggero dolore partì dal lato sinistro della mia testa e si diffuse lentamente. Tentai di farmi forza dicendo ad alta voce che sarebbe passato subito, poi raggiunsi il telefono e chiamai l’agenzia di viaggi.
«Mi dispiace, Kati Hanım, al momento non ci sono posti per Berlino» rispose l’uomo dell’agenzia appena finii di parlare.
«Ma io devo assolutamente partire. Se non oggi, domani».
«Lo sa anche lei, in questo periodo, oltre ai nostri connazionali che lavorano all’estero, arrivano frotte di turisti. E se arrivano, poi devono anche ripartire. Non credo che riuscirà a trovare un posto libero. Ma se vuole faccio un check e la dettaglio». Invece di criticare il mio modo di parlare, Lale avrebbe dovuto prendersela con certi turchi.
«D’accordo, faccia un check e mi dettagli. Sono a casa».
«Le dico subito che per i voli charter non c’è speranza. Controllerò quelli di linea».
«Va bene. Sono disposta anche a fare scalo. Devo assolutamente raggiungere Berlino».
Misi giù il ricevitore, andai in bagno e guardai il mio viso nello specchio sopra il lavandino. Il trucco mi era colato lungo le guance: sembravo una venezuelana subito dopo l’elezione a Miss Mondo. Avevo bisogno di una doccia.
Quando chiusi l’acqua, sentii che il telefono stava squillando. Doveva essere l’agenzia di viaggi. Mi avvolsi in un asciugamano e concentrando tutta la mia attenzione sui piedi per non scivolare corsi a rispondere. Era Yılmaz.
«Non ti sarai mica dimenticata che oggi è sabato» disse prima che potessi salutarlo.
«Accidenti! È che sono successe tante cose. Dove sei? Vieni qui, così facciamo colazione e…».
Lui mi interruppe. «Lo sai benissimo dove sono. Nel giardino della sala da tè vicino alla moschea. Arrivo tra cinque minuti».

Quando appoggiammo i piedi alla ringhiera del balcone per «gustare il piacere di un buon tè», come diceva sempre Yılmaz, gli avevo già raccontato quello che mi era successo negli ultimi dieci giorni. Naturalmente non tutto, solo lo stretto necessario. Suonò di nuovo il telefono. D’un tratto provai il forte desiderio di liberarmi in fretta da ogni preoccupazione per poi cercare rifugio in uno sperduto paesino di montagna. Sempre che esistessero ancora luoghi non raggiungibili telefonicamente.
Era l’uomo dell’agenzia. C’era un posto libero sull’aereo della Turkish Airlines che partiva alle tredici e quarantacinque del giorno seguente. Lo volevo?
«Sì, assolutamente» risposi.
«Quando torna?».
«Tra una settimana. O forse tra dieci giorni. Non lo so».
«Allora le faccio un biglietto per due settimane. Anche se quello per una sola settimana le costerebbe meno… I voli della Turkish Airlines sono più cari di quelli della Lufthansa. Andata e ritorno, quattordici giorni… Sono quattrocentocinquanta dollari. Decida lei. Con questi prezzi, ovviamente, non trovano clienti. Non a caso dicono tutti che la compagnia dev’essere privatizzata. Siamo noi a pagare le loro perdite. Hanno tolto anche i biglietti speciali per lavoratori. Ma non importa, a lei non avrei potuto fare un biglietto di quel tipo».
«Non m’interessa il prezzo. Mia madre è malata, devo andare da lei».
«Oddio, mi dispiace. Spero che guarisca presto. Che cos’ha?».
I turchi sono fatti così. Vogliono partecipare al dolore degli altri anche quando non è il caso.
«Non lo so neanch’io. È stata ricoverata in ospedale e non sono riuscita a raggiungerla per telefono. Scoprirò cos’è successo solo quando sarò là» dissi per chiudere il discorso. «Fino a che ora siete aperti? Quando posso venire a ritirare il biglietto?».
«Non si preoccupi, lo può ritirare domani all’aeroporto. Ha già tanti pensieri, non è necessario che venga in agenzia. Troverà il suo biglietto allo sportello della Turkish Airlines».
«E il pagamento?».
«Lasci stare, ci penseremo al suo ritorno».
«Posso fare un bonifico. Deve solo dirmi a quante lire turche equivalgono quattrocentocinquanta dollari».
«Di sabato le banche sono chiuse, Kati Hanım».
«Posso farlo tramite Internet». Questa affermazione fece aumentare sensibilmente il rispetto che già aveva per me. Mi raccontò che sua figlia, che frequentava il terzo anno di medicina, era bravissima a usare Internet, poi mi diede il numero del conto corrente.
Il giorno seguente sarei partita.
Quando tornai sul balcone, Yılmaz era immerso nella lettura dei giornali.
«Hanno arrestato di nuovo il tuo Mesut» mi informò. «Ma non per l’omicidio».
«Quando?». In realtà avrei dovuto chiedere: «Perché?».
«Ieri verso sera. Hanno ricevuto una soffiata e perquisito l’impresa di trasporti dei Mumcu. Lì hanno trovato due armi da fuoco non denunciate. Mesut ha passato la notte dietro le sbarre. Questa volta si è fatto fregare. Era in libertà vigilata».
«Non lo so, può essere» risposi, come se non me ne importasse niente. «Ti va un caffè?». Volevo solo una scusa per correre in cucina.
Yılmaz guardò l’orologio.
«Mi dispiace, devo essere in agenzia per l’una. Oggi abbiamo una riunione. Lavoriamo come matti».
«C’è già stato qualche licenziamento?». Durante il nostro ultimo incontro Yılmaz aveva detto che qualcuno avrebbe perso il posto.
Lui si alzò e imprecando si diresse verso la porta. Lo seguii.
«No, per ora nessun licenziamento. Ma siamo tutti appesi a un filo. Lavorare non è più così divertente. Se non avessi perso i miei risparmi in borsa, mi sarei ritirato già da tempo in un paesino sulla costa egea. Sono troppo vecchio per questo stress».
Dopo avermi augurato buon viaggio e avermi baciato sulle guance, scese rumorosamente la scala.
Mi preparai una tazza di caffè e mi sedetti alla scrivania per accedere a Internet. Pagai subito l’affitto al padrone di casa e il biglietto aereo all’agenzia di viaggi, poi, essendo già connessa, decisi di dare un’occhiata ai giornali per vedere cosa dicevano di Mesut Mumcu. La lentezza con cui venivano visualizzate le pagine mi fece però cambiare idea. Era meglio andare all’edicola.
Mi scollegai da Internet e chiamai Petra. Non era nella sua stanza, quindi le lasciai un messaggio. Mentre mi domandavo se dovevo chiamare qualcun altro, il telefono si mise a squillare.
«Sei ancora arrabbiata con me?». Era Lale.
«No» risposi, e in breve le raccontai di mia madre.
«Quindi parti domani? A che ora?».
«Alle tredici e quarantacinque».
«Se vuoi ti accompagno all’aeroporto. Da lì poi vado al giornale».
«Hai intenzione di andare al lavoro alle due del pomeriggio?». Anche di domenica non arrivava mai in ufficio dopo le otto. E l’unico giorno in cui si concedeva un po’ di riposo era il sabato.
«Sì» confermò Lale.
«Cos’è successo?» chiesi, preoccupata. Di sicuro non aveva deciso di andare al lavoro più tardi del solito solo perché la madre della sua migliore amica era malata. Il motivo doveva essere un altro.
«Non è successo niente. O forse sì. Forse è la maledizione di tutti quelli che ho licenziato negli ultimi quattro mesi a causa della crisi economica. Sono stufa, Kati. Sto malissimo. Non sarei mai dovuta tornare da New York».
«Dai, vieni qui. Usciamo insieme». Non l’avevo mai sentita parlare così. Stava davvero male.
«Non posso, devo sistemare lo studio. Qui regna il caos. Ho bisogno di un po’ d’ordine. Nella mia testa c’è una gran confusione, voglio che almeno intorno a me sia tutto a posto. Perché non vieni tu?». Era chiaro che voleva stare sola. Come tutti i figli unici, aveva le sue stranezze. Per me non era certo una novità.
«Mi dispiace, ma devo prepararmi per il viaggio. E poi vorrei incontrare Petra».
«Allora domani vedrò di arrivare in anticipo. Parleremo un po’ prima di andare all’aeroporto».
Appena riagganciai, il telefono ricominciò a squillare. Non ebbi neanche il tempo di staccare la mano dal ricevitore. Era Petra.
«Sono in piscina» disse. «So che mi hai chiamato. Che tempo splendido! Caldo e soleggiato. Era da un pezzo che non facevo una vacanza così». Sembrava quasi contenta per la morte di Müller.
«Cosa fai oggi?».
«Niente di speciale. Stasera vado a cena con quelli della troupe».
Raccontai anche a lei che mia madre si trovava in ospedale e che dovevo partire per Berlino. Poi, con la mia solita sfacciataggine, aggiunsi: «Stasera vengo a mangiare con voi, okay? Adesso non ho tempo, devo preparare i bagagli».
«Non lo so… Non sarebbe un po’ strano se venissi anche tu?».
«Siete invitati a casa di qualcuno?».
«No, andiamo in un ristorante tipico».
«Allora perché dovrebbe essere strano? I ristoranti sono locali pubblici, può entrare chiunque».
L’appuntamento era fissato per le sette all’Hotel Noel Baba di Tarlabaşı, dove alloggiavano tutti quelli della troupe tranne Petra. «Vieni da me, così andiamo là insieme. Il quartiere di Tarlabaşı è vicinissimo a casa mia». Le chiesi di prendere carta e penna.
Dopo aver sudato sette camicie per starmi dietro mentre facevo lo spelling, esclamò irritata: «Non puoi avere un indirizzo così lungo!».
«Infatti non ti ho dettato solo il mio indirizzo, ma anche le indicazioni per arrivare fin qui. Devi dare il biglietto al tassista».
«Perché anche le indicazioni? Non bastava l’indirizzo?» domandò con ingenuità tutta tedesca.
«Tu non conosci i tassisti di Istanbul. Oltre al nome della strada devi dire anche come si chiama la moschea, il posto di polizia o l’ospedale più vicino, altrimenti non arrivi da nessuna parte. I tassisti non sanno neanche il nome del quartiere in cui abitano».
«Ma dai!».
«Non ci credi? Stasera di’ al tassista solo il nome della via: Tavukuçmaz Sokak. Vediamo dove ti porta. Mi raccomando, non fargli attraversare il ponte Bosforo. Se andate sulla sponda asiatica, ci vorrà un sacco di tempo per tornare indietro».
«Non sei cambiata neanche un po’. Sei sempre la solita esagerata».
«Prova e vediamo se sono davvero così esagerata». Ero sicura di vincere la sfida.
«Va bene, proverò» rispose lei con decisione.

Andando a cena con Petra, prima di partire per Berlino non solo avrei conosciuto la persona su cui avevo dei sospetti, ma avrei anche incontrato il resto della troupe. Questo pensiero mi fece sentire subito più giovane di dieci, quindici anni.
Chiamai Pelin. In mia assenza avrebbe dovuto occuparsi del negozio da sola.
«Non preoccuparti, ce la farò» disse. «L’importante è che tua madre guarisca».
Le domandai cosa le potevo portare da Berlino. È un’usanza turca: prima di andare da qualche parte, bisogna chiedere a tutti gli amici che cosa vogliono. E anche se la persona cui viene fatta la domanda gradirebbe ricevere un profumo duty-free, la risposta è sempre la stessa: «Fa’ buon viaggio e torna sano e salvo, non desidero altro».
Pelin rispose proprio così.
Sparecchiai la tavola, misi in lavastoviglie tutto quello che avevo usato per la colazione e andai in camera a preparare la valigia. Presi canottiere e calzoncini, poi ci ripensai. Molto probabilmente a Berlino non faceva caldo come a Istanbul. Tornai nello studio per riconnettermi a Internet e guardare le previsioni per i giorni seguenti.
Come immaginavo, a Berlino c’era un tempo orribile. E non erano previsti grandi miglioramenti. Il sole si sarebbe fatto vedere per un paio di giorni verso la fine del mese, ma io sarei tornata a Istanbul prima, almeno se fosse andato tutto liscio.
Misi a posto la roba leggera e tirai fuori la giacca di pelle rossa, le felpe e i pantaloni di velluto che giacevano in fondo all’armadio. A Berlino non ci si poteva vestire in modo troppo elegante, altrimenti in metropolitana si subivano stupidi abbordaggi.
Terminai i preparativi ficcando in valigia il mio enorme nécessaire da trucco. Mancavano almeno due ore all’arrivo di Petra. Sempre che decidesse di dare al tassista il biglietto con le mie indicazioni. In caso contrario sarebbero passate come minimo quattro ore.
Uscii per comprare i giornali.

Alla pagina tre, dove solitamente si mischiano articoli su catastrofi naturali e notizie riguardanti l’alta società, spiccavano fotografie di Mesut Mumcu in compagnia di diverse cantanti pop. Il testo sotto le immagini, però, diceva né più né meno quello che mi aveva riferito Yılmaz. Per un istante pensai di telefonare al cronista che lavorava per il giornale di Lale. Cambiai idea quando mi venne in mente che alla prima occasione avrebbe potuto raccontare tutto a Mumcu. Dato che morivo dalla voglia di chiamare qualcuno, proprio come una vera stambuliota, composi il numero del cellulare di Batuhan.
Il commissario non sembrava molto contento di sentire la mia voce.
«Ciao» disse in tono gelido.
«Come va?».
«Sto lavorando, ho un sacco di cose da fare».
«Allora non ti disturbo».
«Sì, è meglio».
Riagganciai.
La sua reazione non mi lasciò affatto sorpresa. Ero abbastanza vecchia per avere una conoscenza sia diretta che teorica del modo in cui si comportano gli uomini respinti. La differenza principale tra un uomo rifiutato e una donna rifiutata sta nel fatto che lui non perde tempo e mostra subito il suo vero volto. Lei, invece, reagisce in modo più cauto: magari l’uomo non voleva rifiutarla, magari c’è stato un equivoco… Di conseguenza, le donne passano alla fase della vendetta solo dopo il quarto rifiuto, mentre gli uomini cominciano a fare ritorsioni alle prime difficoltà.
L’esperienza mi aveva anche insegnato che non puoi vendicarti di una persona che se ne infischia di te. Puoi però vendicarti facilmente di qualcuno che ti ama, per esempio suicidandoti.
Di sicuro Batuhan non aveva intenzione di togliersi la vita, quindi cosa poteva fare per vendicarsi di me?
1. Poteva telefonarmi alle ore più improbabili della notte e riagganciare non appena mi fossi svegliata.
2. Poteva lasciare un topo morto e un biglietto con la scritta «Lurida infedele, vattene dal nostro paese» proprio davanti al mio negozio. In fase più avanzata avrebbe avvolto il biglietto attorno a un sasso e l’avrebbe tirato contro la vetrina.
3. Poteva accusarmi dell’omicidio di Müller e farmi arrestare.
4. Poteva nascondere una bustina di eroina nella mia auto, nel mio appartamento o nel mio negozio e denunciarmi alla polizia.
Delle quattro ipotesi, la prima sembrava la più probabile, anzi era l’unica probabile, e dato che avevo già ricevuto almeno sei diversi tipi di telefonate mute, la mia vita non sarebbe certo cambiata per il settimo tipo.
I turchi – tutti, senza distinzione di età, sesso e origine – adorano vendicarsi con le telefonate mute. Ognuno le fa a suo modo: alcuni riagganciano subito, prima che si possa dire «Pronto», altri aspettano finché la vittima non diventa roca a furia di chiedere «Chi è?». Poi ci sono le categorie intermedie: quelli che suonano una musica, quelli che fischiettano una canzone, quelli che emettono versi, come se stessero raggiungendo l’orgasmo… Chiunque voglia vivere in Turchia, deve abituarsi alle stranezze dei turchi. Io l’ho fatto: se non sono ubriaca fradicia o troppo impegnata a risolvere un omicidio, prima di coricarmi stacco la spina del telefono.
Mentre ero in cucina ad aspettare che l’acqua per il tè si scaldasse, udii uno squillo. Corsi subito nello studio. Lì, infatti, si trova l’unico apparecchio telefonico di casa mia.
«C’è Kati Hanım?» domandò una voce sconosciuta. Secondo la teoria del mio amico Mithat sugli accenti curdi, l’uomo all’altro capo del filo doveva essere originario di Diyarbakır.
«Sono io» risposi.
«Scusa il disturbo, Kati Abla. Chiamo da parte di Mesut Bey».
«Sì?».
«Lui ti aveva promesso qualcosa… Purtroppo si è dovuto assentare per una faccenda urgente e non ha potuto mantenere la promessa. Mi ha chiesto di informarti. Appena possibile, ti telefonerà di persona».
«Va bene, grazie».
Mesut Mumcu pensava forse che la notizia del suo arresto mi sarebbe sfuggita? «Si è dovuto assentare per una faccenda urgente» mi ripetei tornando in cucina.
Se un uomo come Mumcu, che parlava con tranquillità dell’uccisione di altri esseri umani, fosse rimasto in libertà, nessuno ci avrebbe guadagnato. Se invece fosse finito in carcere, forse ci sarebbero stati due o tre morti in meno. Comunque ero contenta che l’avessero arrestato prima che andassimo a cena insieme.
Qualcuno suonò alla porta. Tolsi l’acqua bollente dal fornello e nella fretta mi bruciai il mignolo della destra. Odio fare le cose di corsa.
Leccandomi il dito, andai alla finestra del soggiorno, guardai giù e vidi Petra. Era in anticipo. Non avevo neanche avuto il tempo di bere un tè in santa pace.
Imprecando, schiacciai il pulsante per aprire la porta.
Mentre continuavo a leccare il mignolo ustionato, Petra salì affannosamente i gradini.
«Dato che stasera mangeremo qui vicino, ho pensato di visitare questa zona. Ho fatto un giro a Taksim e negli altri quartieri e adesso sono letteralmente sfinita. Ci sono troppe cose da vedere! Sono arrivata fino al tuo negozio. Per oggi basta così».
«Vieni». Dopo averla invitata a entrare, tornai in cucina. L’acqua, che poco prima era caldissima, aveva raggiunto la temperatura ideale per il tè verde. Misi liquido e foglie in una teiera di vetro, poi tirai fuori un’altra tazza e la posai sul vassoio. Uscendo sul balcone, sentii Petra esclamare: «Hai un appartamento enorme! E abiti in una strada bellissima!».
«Dai, vieni qui. Così non ci sarà bisogno di urlare». E poi il balcone era la parte più fresca della casa.
Petra si accomodò al posto di Yılmaz. Io mi sedetti di fronte.
«Istanbul è una città stancante. C’è troppa gente. Vorrei proprio sapere come si fa a vivere in un posto del genere…». S’interruppe, forse perché temeva di aver fatto una gaffe. «Beh, immagino che abitando qui ci si abitui ad avere intorno tutte queste persone».
«E se non ti ci abitui, non ha importanza. Ci sono problemi ben più gravi».
«Cioè?».
«I politici turchi, la crisi economica, la corruzione, le banche disoneste…» elencai rabbiosamente. Lei mi guardò stupita.
Dato che non riuscivo a usare un tono normale, proseguii sussurrando. «Sono impegnata da mattina a sera a far cambiare idea ai miei amici che se ne vogliono andare da qui. I problemi politici ed economici hanno stufato tutti». Non sapevo nemmeno io perché ero così arrabbiata.
Di solito mi preoccupavo meno dei turchi per i problemi del paese. «Vivo a Istanbul, non in Turchia» mi ripetevo a ogni nuova crisi. La differenza tra me e i miei amici – Lale, Yılmaz, Pelin e tutti gli altri – non stava nell’intensità di ciò che provavamo per Istanbul, ma nel motivo per cui amavamo la città. Una volta avevo detto a Lale: «Voi amate Istanbul perché fa parte della Turchia, io la amo per quello che è. Comunque vi capisco. Cihangir mi piace proprio perché fa parte di Istanbul. Se fosse un quartiere di Bonn, non mi piacerebbe». Il mio amore per la città non aveva niente a che fare con la Turchia. Amavo la cucina di Istanbul, le canzoni di Istanbul, il turco di Istanbul e il quartiere di Cihangir perché si trovava a Istanbul.
Petra non si accorse che avevo la testa altrove e continuò a parlare.
«Ieri ho comprato un giornale turco in lingua tedesca. La situazione del paese sembra proprio disperata».
«Sai che novità! Vivo qui da tredici anni e ti garantisco che la situazione è sempre stata così».
Versai il tè nei bicchieri.
«Non avevi una relazione con Kurt Müller, vero?» domandai, offrendole da bere.
«Perché me lo chiedi di nuovo? Ti ho già spiegato che tra noi due non c’era niente».
«Però sei stata tu a raccomandare Müller per la regia di questo film…».
«Chi lo dice?». Voleva sapere chi mi aveva dato l’informazione o era sorpresa che qualcuno avesse inventato una simile bugia?
«Una persona della casa di produzione Mumcular» risposi. Non potevo rivelarle che avevo chiamato il signor Franz in Germania.
Petra si avvolse intorno a un dito la catenina con la croce che portava al collo e mi guardò con aria assente.
«L’uomo con cui hai parlato per telefono mentre eri nella mia stanza?».
«No, un altro che lavora per lui. Un tedesco. Si chiama Yusuf».
«Josef?».
«Yusuf. È un tedesco musulmano».
«Ah, ho capito di chi stai parlando. Lo conosco. Credo che adesso si chiami Josoff o qualcosa del genere. Beh, cosa ti ha detto?».
«Che sei stata tu a fare il nome di Müller».
«È vero, sono stata io. È forse un problema?».
«No, ma significa che vi conoscevate già».
«E allora? Io conosco un sacco di gente. E non intreccio una relazione con tutti quelli che incontro. Il produttore mi ha mandato la sceneggiatura circa un anno fa. Era da tanto tempo che il mio nome non veniva messo su uno script. Sai, non sono più così giovane». Si sbottonò la camicetta, schiacciò tra le dita il grasso sulla pancia e me lo fece vedere.
«Invecchiando non solo si diventa insensibili, ma si comincia anche a cadere a pezzi fisicamente. Se fossi giovanile come te, non avrei problemi. Purtroppo, però, dimostro tutti i miei anni. Anzi ne dimostro di più! È proprio vero che le bionde invecchiano prima. Come puoi ben immaginare, a una donna della mia età non offrono tutte le settimane un ruolo da protagonista. Ho fatto quello che potevo perché questo film fosse realizzato. I produttori avevano bisogno di un regista esperto che non volesse troppi soldi. Io ne conoscevo uno. Li ho solo messi insieme».
Era una spiegazione perfettamente logica. In un mondo in cui la giovinezza aveva tanta importanza, soprattutto per le donne, un paio di gambe senza cellulite e una pelle senza rughe non erano forse il nostro bene più prezioso? Per una star del cinema lo erano senz’altro.
«Quindi non hai raccomandato Müller perché avevi una relazione con lui?».
«Quante volte te lo devo ripetere? Tra noi due non c’era niente. Forse gli piacevo, forse è andato in giro a raccontare che stavamo insieme, ma» – si piegò in avanti e mi guardò negli occhi – «non avevo una storia con lui. Non era il mio tipo».
Nella mia testa suonò un campanello. Era una frase fatta. Una di quelle cose che si dicono a quindici anni.
«Che significa “Non era il mio tipo”?».
«Era mediocre, senza talento…». Di sicuro avrebbe aggiunto qualcosa se non l’avessi interrotta.
«Allora perché l’hai raccomandato? Se era un regista così mediocre, perché hai fatto in modo che gli affidassero il film in cui dovevi recitare la parte della protagonista?».
«Per un motivo semplicissimo: non volevo che mi mettesse in ombra. Il film doveva essere associato al mio nome, non al suo. Per quanto riguarda i produttori…». Sorrise come una star davanti alla cinepresa. «Cercavano un regista esperto ma non troppo caro. Uno come Kurt».
Yusuf aveva detto più o meno le stesse cose. A quanto pareva, il mondo del cinema era troppo strano perché potessi capirlo.
Finché non uscimmo di casa per raggiungere gli altri e andare a cena, non parlammo più né del film né di Kurt Müller.

Quando entrai insieme a Petra nella hall dell’albergo Noel Baba di Tarlabaşı, avevo i capelli raccolti in una coda di cavallo e il viso non truccato. Sembravo una ragazza. Ma non ero uscita senza trucco per apparire più giovane. Semplicemente non avevo voglia di tirare fuori il nécessaire dalla valigia.
Vedendoci, quelli della troupe, che stavano chiacchierando rumorosamente in tedesco, si zittirono di colpo.
«Questa è la mia amica Kati Hirschel» disse Petra.
Un uomo dall’aspetto insignificante – l’unico elemento degno di nota erano i capelli biondo cenere – si alzò e mi diede la mano. «Piacere, io sono Gust».
Gli altri si presentarono senza stretta di mano, poi persero ogni interesse per me e ricominciarono a chiacchierare ad alta voce. Il gruppo era formato da nove persone, tra cui un paio di donne. Nessuna delle due, però, aveva detto di chiamarsi Bauer.
«Dove andiamo?» chiesi al signor Gust, sedendomi sul bordo del divano su cui si era stravaccato.
«Stasera abbiamo una guida. Un mio amico giornalista che lavora qui». Era visibilmente orgoglioso del suo contatto.
«Otto vive a Istanbul da due anni. Ha scelto lui il ristorante per la cena. Adesso sta cercando una farmacia insieme ad Annette». Guardò l’orologio. «Dovrebbero tornare a momenti».
«Chi è Annette?» domandai, incrociando le dita.
«Annette Bauer, l’assistente alla regia. Beh, da oggi è la regista».
Bingo!
«Per chi lavora il suo amico? Magari lo conosco, anch’io vivo a Istanbul».
«Otto scrive per la “Westdeutsche Zeitung”. Sembrava stesse parlando del presidente degli Stati Uniti, non di un semplice giornalista. All’improvviso il suo sguardo si fece più attento, come se avesse appena afferrato le mie ultime parole. «Anche lei vive a Istanbul?».
«Sì».
«Fa la giornalista?».
«Ho una libreria. Vendo romanzi gialli».
«E si è trasferita in Turchia per vendere libri?».
«Ovviamente no, abitavo già qui. Ho fatto diversi lavori e poi mi sono decisa ad aprire una libreria».
«Interessante. Molto interessante».
«Cosa? La libreria?».
«No, il fatto che abiti qui per sua libera scelta. Non capisco come si fa a vivere in un paese dove i diritti umani non vengono rispettati. Non ha paura che le possa succedere qualcosa? Tra l’altro, con questa crisi sono aumentati notevolmente scassi e borseggi. Otto ci ha raccomandato di fare molta attenzione ai nostri soldi. Pare che a Istanbul tutti siano stati borseggiati almeno una volta».
«In Germania vengono aggrediti quattro, cinque stranieri al giorno. Gli skinhead ammazzano la gente per strada, eppure nel nostro paese vivono ancora tantissimi forestieri» replicai furiosamente.
Senza aggiungere una parola, il signor Gust voltò la testa dall’altra parte. Dopo aver osservato per un attimo il suo profilo, decisi di giustificare la mia reazione. Non volevo che mi tenesse il broncio, non ci avrei guadagnato niente.
«Amo Istanbul» spiegai.
Lui rimase in silenzio, ma girò di nuovo il capo verso di me.
«Quando cominceranno le riprese?» chiesi per cambiare discorso.
«La morte di Müller è stata un duro colpo per tutti». Sul suo viso non c’era traccia di sofferenza. Nessuno di quelli che stavano chiacchierando tranquillamente nella hall sembrava affranto dal dolore.
«Ma certo, è comprensibile». Ero davvero in forma; avrei potuto tener testa a un politico.
«Comunque questa pausa ci ha fatto bene. Ci siamo ambientati, abbiamo familiarizzato… E adesso siamo pronti a continuare sotto la regia di Annette». All’improvviso notò che la donna non era ancora tornata e si rivolse agli altri. «Dove diavolo si sono cacciati quei due?» domandò, battendo l’indice sull’orologio.
«Che abbia fatto una brutta fine anche la nuova regista?» disse un uomo dal volto roseo, sorridendo.
Alla sua battuta scoppiarono tutti a ridere. Dalla poltrona su cui era seduta, Petra mi lanciò uno sguardo che mi convinse a cambiare subito espressione. Cancellai quella schifata e ne assunsi una più adatta, poi mi unii al coro di risate.
«Se sapesse come si chiama il locale, potremmo lasciare un messaggio ai due che mancano e avviarci» osservai, rivolta a Gust. Volevo andarmene dall’orrenda hall dell’albergo.
«Ma io so come si chiama» rispose lui. Si alzò e si mise a frugare nelle tasche dei pantaloni, poi estrasse un foglietto spiegazzato e lesse ad alta voce: «Ristorante Hassir».
Petra ritenne necessario aggiungere una spiegazione per gli altri. «Kati vive qui. Conosce ogni angolo di Istanbul».
«Beata lei!» esclamò una delle due donne, facendomi un sorriso. «Non ho mai visto una città più bella di questa».
«Forse perché non hai mai visto altre città oltre a Francoforte» scherzò uno del gruppo.
Ancora una volta scoppiarono tutti a ridere.
«Andiamo» dissi. «Il locale è qui a due passi».
L’amico giornalista di Gust aveva scelto l’Hasır di Tarlabaşı, un locale dove chiunque conoscesse un po’ la città portava i suoi visitatori. Insomma, un posto «tipicamente» turco.
«Un attimo, dobbiamo pagare» gridò un altro uomo dal colorito roseo. Alzando ulteriormente la voce, tentò di richiamare l’attenzione del cameriere.
Tutti i presenti si girarono verso di lui. Continuava a urlare «Ehi! Ehi!», come in preda a un attacco isterico. Il cameriere arrivò di corsa, pensando che fosse successo qualcosa di grave. Vedendolo, io e gli altri ospiti tirammo un sospiro di sollievo.
«Vorremmo pagare» disse l’uomo in tedesco. «Conti separati».
«You want the bill, sir?» fece il cameriere.
«Non parli tedesco?».
Evidentemente l’altro conosceva la lingua abbastanza per capire la domanda. «Nein».
Decisi di intervenire.
«Vorrebbero pagare» spiegai in turco. «Ognuno per sé».
Contento di aver trovato qualcuno con cui poter comunicare, il cameriere si voltò verso di me.
«Possiamo aggiungere tutto al conto dell’hotel».
Tradussi per quelli della troupe.
«Non se ne parla neanche!» rispose Gust. «Vogliono fregarci, ma il mio amico ci ha messo in guardia. Paghiamo adesso».
«Vogliono pagare subito» dissi. Non c’era bisogno di ripetere tutto.
«Va bene». Il cameriere cominciò proprio da Gust. «Lei ha preso due birre. Sono cinque milioni di lire».
«Due birre, cinque milioni» ripetei in tedesco.
Lui si rimise in piedi, si frugò di nuovo nelle tasche e tirò fuori una banconota da dieci marchi tutta stropicciata. La porse al cameriere. Quello la guardò e disse: «Mi dispiace, signore, ma non accettiamo marchi».
«Non accettano marchi. Non ha delle lire turche?» chiesi.
«No». Gust continuò a tendere il braccio. «Alla reception cambiano i marchi».
«Può darsi, ma qui dovete pagare in lire turche».
«È assurdo! Che prenda questa banconota e se la faccia cambiare alla reception».
«Giusto» disse un altro. «Che se la faccia cambiare alla reception».
Gust agitò i dieci marchi come un osso davanti a un cane. Il cameriere rimase immobile, sul volto un’espressione preoccupata.
All’improvviso accanto a noi apparve un uomo con due basette che arrivavano fino al mento. Si era avvicinato senza che me ne accorgessi.
«Volete pagare in marchi?» domandò in tedesco.
Felice di poter chiarire la faccenda senza interprete, Gust rispose per primo.
«Sì».
«Siete in Turchia» fece notare il basettone. «Qui i conti si pagano in lire turche».
«Ma alla reception cambiano i marchi». Gust non poteva aggrapparsi ad altro. A giudicare dalla voce, stava per cedere.
«Io non pretendo di pagare in lire turche quando sono in Germania!» ribatté l’uomo con le basette. Ormai era una lotta tra tedeschi.
Gli altri componenti del gruppo si lanciarono sguardi furtivi.
«Ma…» provò ad aggiungere Gust.
«Basta! Qui si paga in lire turche». Lo sconosciuto si allontanò di qualche passo, poi tornò indietro.
«E smettetela di urlare! Disturbate tutti». Detto questo, andò a sedersi quasi di fronte a noi e si concentrò nuovamente sul giornale.
La donna che poco prima aveva dichiarato di amare Istanbul porse una banconota da cinque milioni al cameriere. «One coffee».
Il turco non aveva capito neanche una parola della discussione appena terminata, quindi mi domandò confuso: «Cos’è successo, signora?».
«Niente» risposi. «Adesso pagheranno in lire».

Dopo aver lasciato un messaggio per Annette e Otto alla reception, ci avviammo verso il locale, che si trovava a dieci minuti dall’hotel.
«Sono sempre gli altri che si devono adeguare alle nostre esigenze, vero?» osservò la donna innamorata di Istanbul. Si era staccata dal resto della troupe per camminare al mio fianco.
«Come pagare il conto in marchi?» chiesi sorridendo.
«Sì, ma non solo. Anche bere birra, mangiare würstel… Mi spaventa vedere che i pregiudizi contro i tedeschi non sono poi così infondati. È mai stata a Maiorca? Lì hanno creato una specie di piccola Germania. Non sembra neanche più di stare in un altro paese. Certo, fa più caldo e c’è sempre il sole, ma a parte questo…».
«Ha vissuto all’estero?».
Lei girò di scatto la testa verso di me e fece una risata. «Si capisce subito, eh? Ero sposata con un egiziano che lavorava per il ministero degli Esteri. Abbiamo viaggiato molto. Dopo il divorzio sono tornata alla mia professione. Questo film è il mio primo lavoro importante». Scosse il capo. «A quanto pare, non ho avuto molta fortuna».
Non avrei potuto desiderare di meglio: senza che dicessi una parola, la conversazione era arrivata esattamente dove volevo.
«Si riferisce all’omicidio?». In realtà non era una domanda. «Non sembrate molto dispiaciuti per la morte di Müller».
«Nessuno di noi lo conosceva bene. Tranne…». S’interruppe. Non sapeva se terminare o meno la frase, quindi si concentrò sullo stretto marciapiede che stavamo percorrendo. La città di Istanbul entrerà senz’altro nella storia dell’urbanistica per le sue fantastiche strutture pedonali. La donna teneva gli occhi fissi a terra per non cadere.
«Tranne Petra?» domandai.
Lei alzò lo sguardo. «Quindi lo sa?».
«Che è stata la mia amica a procurare il lavoro a Müller? Sì, l’ho sentito. Ma se pensa che avesse una relazione con…». Un tizio mi passò accanto e mi diede una spallata. Dovetti fare uno sforzo per non insultarlo.
«Petra dice di non aver mai avuto una relazione con lui». Evidentemente non avevo difficoltà a parlare di una vecchia amica con una persona che conoscevo da cinque minuti. Non era una cosa di cui andare fiera.
La donna era di nuovo concentrata sui suoi piedi. «Secondo me dice la verità, non credo che avesse una relazione col regista».
Interessante.
«Perché no?». Mi piegai in avanti per guardarla in faccia.
Lei chiese il permesso di attaccarsi al mio braccio, poi mi sussurrò all’orecchio: «Ho visto come si comportava con Müller. All’aeroporto di Berlino lui le ha messo un braccio intorno alla vita. Petra l’ha spostato con aria schifata e si è allontanata subito. Qui a Istanbul li ho visti vicini un paio di volte a colazione. Io… non voglio assolutamente darmi delle arie, ma certe cose le capisco. Una donna non si comporterebbe mai così con il suo amante. Sono sicura che tra loro due non c’era niente». Storse la bocca. «E credo che non ci sarebbe mai stato niente».
«Però non c’è neanche una prova del fatto che Petra non aveva una relazione con il morto».
«Neanche una prova?». Lei alzò gli occhi e mi fissò. Era come se volesse dire: «Non basta quello che ti ho appena raccontato?».
Il signor Gust, che naturalmente guidava la comitiva, ci gridò qualcosa. Risposi che non eravamo ancora arrivati, poi mi rivolsi nuovamente alla donna.
«Ma chi potrebbe essere l’assassino?». Ero certa che avesse un’opinione al riguardo.
«Secondo me, nessuno della troupe. Qualcuno venuto da fuori. Forse Müller si era fatto mandare una prostituta». Sospirò. «Era proprio il tipo che va con le prostitute. Magari si è rifiutato di pagare, lei si è arrabbiata e… bum!». Alzò il braccio destro e aprì la mano, come per far cadere qualcosa.
«Perché non può essere stato uno della troupe?».
«Perché non può essere stato uno della troupe? Perché su queste persone si può dire di tutto, ma non credo che tra di loro ci sia un assassino».
«Certe cose le capisce, vero?».
«Sì, certe cose…». Fece una pausa. «Mi sta prendendo in giro?».
Scoppiai a ridere. «Allora Petra non aveva una relazione con Müller? È solo una diceria?». Non riuscivo a togliermi dalla testa che forse erano amanti.
«Sì, secondo me è solo una diceria».
«E chi l’ha messa in giro?».
«Non lo so. Chiunque sia stato, ormai nella troupe ci credono tutti». Si aggrappò di nuovo al mio braccio. «Ci crede perfino lei». Fece una risatina. Era una bella donna, aveva al massimo quattro o cinque anni più di me, ma si vestiva e si muoveva quasi come una vecchia.
Rotto l’incantesimo della chiacchierata, mi accorsi che avevamo superato il locale.
Il bar-ristorante, che per gli habitué di Istanbul era «l’Hasır vicino al posto di polizia», si trovava in una cantina di Tarlabaşı. Per entrare bisognava percorrere una scala, facendo però attenzione a non battere la testa. Se qualcuno avesse chiesto ai clienti perché preferivano una cantina seminascosta ai bar e ai ristoranti di pesce affacciati sul Bosforo e rinfrescati dalla brezza serale, avrebbero dato tutti la stessa risposta: «Qui si mangiano degli antipasti buonissimi!».
Scorgendo il nostro gruppo sulla porta, il capocameriere agitò una mano per ordinare ai suoi aiutanti, di statura eccezionalmente bassa, di avvicinare alcuni tavoli.
Quando tutti si furono sistemati, mi trovai schiacciata tra i due uomini dal volto colorito. Davanti a me c’era una sedia libera. Nella speranza che la occupasse la signora Bauer, decisi di non spostarmi.
Annette e Otto, il corrispondente della «Westdeutsche Zeitung», giornale di cui non potevo dirmi lettrice, arrivarono che eravamo a metà degli antipasti. I miei due vicini di sedia erano già più che alticci. Lei non si sedette dove speravo; preferì andare all’altro capo del tavolo, vicino a Gust. Per quello che riuscii a capire da lontano, cominciò subito a raccontargli perché aveva fatto così tardi. Anche un osservatore non particolarmente acuto si sarebbe accorto che i due se la intendevano.
Non potendo fare altro, attaccai discorso con Otto, che si era seduto proprio davanti a me.
«Il signor Gust mi ha detto che vive a Istanbul».
«Sarebbe più corretto dire che ci lavoro» rispose lui. Come se a Istanbul non si potesse vivere.
«Non si trova bene qui?».
«Assolutamente no. Come potrei?».
«Io mi trovo bene».
Otto fece una risata sprezzante. «Solo perché non ci vive. Istanbul è una città bellissima per i turisti, su questo non c’è dubbio. La cucina, per esempio, è ottima».
«Non sono una turista, vivo qui da tredici anni».
Lui inarcò le sopracciglia e mi fissò.
«Da tredici anni?».
Annuii. «E credo che ci rimarrò per altri tredici».
Il giornalista non sembrava molto interessato a parlare con me. Si concentrò sui fagioli giganti all’olio d’oliva che aveva nel piatto e alzò gli occhi solo quando il cameriere gli domandò cosa voleva bere.
Sentendolo ordinare del vino bianco in inglese, pensai che era arrivato il mio momento.
«Dev’essere difficile capire e descrivere un paese di cui non si conosce la lingua». Far arrabbiare Otto era senz’altro più divertente che conversare con i due uomini dalle guance rosee.
«Non possiamo imparare la lingua di tutti i posti in cui ci mandano. Ogni due o tre anni veniamo trasferiti. Dovremmo conoscere tutte le lingue del mondo!».
«Ma se non capisce la lingua del posto, non può neanche leggere i giornali o sedersi in un bar a parlare con la gente».
«Esistono gli interpreti» replicò lui, sperando forse di tapparmi la bocca.
«Se conoscesse il turco, amerebbe questa città» aggiunsi in tono appassionato. «Secondo un poeta di qui: “Chi non ama Istanbul, non sa cos’è l’amore”».
Poi diventai improvvisamente seria.
«Ha scritto lei l’articolo sull’omicidio?».
Confuso, il giornalista cercò di trovare un nesso tra le due cose.
«Non ci siamo ancora presentati, vero?». Gli tesi la mano sopra un piatto di sardine. «Ho saputo dal signor Gust che si chiama Otto. Io sono Kati Hirschel».
«Otto Fritsch». Mi strinse con forza la mano. «Possiamo anche darci del tu».
«Va bene».
D’un tratto mi accorsi che tutti gli occhi erano puntati su di me: il cameriere, armato di foglietto e matita, stava aspettando le nostre ordinazioni. Feci un cenno a Otto e mi girai verso gli altri.
«Possiamo mangiare del pesce?» domandò la donna che amava Istanbul, allungando il collo per guardarmi.
«Adesso chiedo cosa c’è».
Mi lasciai consigliare dal cameriere e ordinai çipura per tutti. Il gruppo continuò a fissarmi in silenzio.
«È un pesce» spiegai. «Non ricordo come si chiama in tedesco».
«Quando ce l’avremo davanti, capiremo cos’è» disse la donna, appoggiandosi di nuovo allo schienale.
Otto infilò una mano nel taschino della camicia. «Possiamo scoprirlo subito, ho qui un dizionario». Tirò fuori un piccolo Langenscheidt con la copertina di plastica gialla e lo mostrò agli altri.
«Lascia perdere, lì non c’è».
Lui, cocciuto, non mi diede ascolto. «Dimmi solo com’è scritto».
Gli feci lo spelling.
«In effetti non c’è» ammise dopo aver sfogliato il dizionario, pieno di speranza. I due uomini dal volto colorito, che per un po’ non avevano aperto bocca, ricominciarono a farfugliare.
«Potremmo scambiarci di posto?» chiesi a quello seduto alla mia destra.
Significava allontanarsi di un’altra sedia dal resto della troupe, ma almeno non avrei più dovuto sopportare l’alito puzzolente dei due che mi stavano accanto.
«Hai scritto tu l’articolo sull’omicidio?» domandai ancora a Otto.
«Sì. Perché lo vuoi sapere?».
«Perché l’ho letto».
«Non era niente di speciale. Vista la situazione, credo che non scriverò altro sull’argomento».
«Come mai?». Ero forse l’unica a sperare che venisse fuori qualcosa di nuovo?
«Non ci sono prove, è impossibile trovare l’assassino. Ho intervistato proprio oggi il commissario che si occupa delle indagini, il pezzo uscirà domani. Pare che il caso sarà archiviato molto presto. Forse tra due o tre giorni».
«Come si chiama l’uomo con cui hai parlato?».
«Perché? Lo conosci?» chiese lui, tentando di mangiare una forchettata di sardine.
«Conosco uno della squadra omicidi».
Dalla tasca della camicia in cui teneva anche il dizionario estrasse un taccuino, che aprì e sfogliò.
«Batuhan Önal. È lui?».
«No» risposi tranquillamente. «Ma ti ha detto chiaro e tondo che non troveranno l’assassino?».
«Certo che no. L’ho dedotto io dalle sue parole. La cosa strana è che continuano a rifiutare alla polizia tedesca il permesso di partecipare alle indagini. Se sono convinti di non poter risolvere il caso, perché non accettano il nostro aiuto? Non li capisco proprio».
«Non ci sono prove, giusto?».
«Giusto».
«Allora non vedo cosa potrebbe fare la polizia tedesca».
«Potrebbe trovare qualche prova! È proprio questo il problema».
Dovetti controllarmi per non scoppiare a ridere e non picchiare i pugni sul tavolo.
«Mi fa piacere che tu abbia tanta fiducia nei poliziotti tedeschi. Per quanto ne so, li conoscono tutti per la precisione con cui fanno fuori gli ostaggi prima di arrestare i cattivi».
Scuotendo furiosamente la testa, Otto s’infilò il taccuino in tasca. Era chiaro che non condivideva la mia opinione sulla polizia tedesca.
«Secondo te, chi è l’assassino?» domandai.
«Non mi piace fare ipotesi di questo tipo» fu la secca risposta.
«Dai, tira a indovinare. Non giochi mai al lotto?».
Lui rimase in silenzio. Sembrava che le mie ultime parole l’avessero profondamente turbato. Nemmeno il piatto di çipura con rucola che buttò giù senza tanti complimenti riuscì a calmarlo.

Mentre mangiavo il pesce in assoluto silenzio, cosa che non credevo di poter fare, mi divenne chiaro che non avrei scambiato neanche una parola con la signora Bauer finché tra noi ci fosse stata una distanza di tre tavoli. Aspettai che tutti finissero quello che avevano nel piatto, poi proposi di andare in un altro locale della zona per bere qualcosa. La maggior parte dei presenti rifiutò per stanchezza e preferì tornare in albergo. Nel gruppo c’era anche Petra, che non aveva voglia di prolungare la serata.
La donna innamorata di Istanbul, che di cognome faceva Wolff, il signor Gust, la signora Bauer e Otto s’incamminarono con me verso il Caffè Kaktüs. Mentre percorrevamo le viuzze di Beyoğlu, mi trasformai in guida turistica: spiegai che forse non avremmo trovato posto al Kaktüs, anche se valeva la pena di tentare, e aggiunsi che comunque non era un problema perché potevamo entrare in uno dei tanti bar del quartiere. Stando ai dati ufficiali, a Beyoğlu si trovavano circa seimila locali. Se però si contavano anche quelli clandestini, il numero saliva a oltre diecimila.
La fortuna ci sorrise: quando arrivammo, si era appena liberato un tavolo. Vahit Bey, il barman, mi fece un cenno di saluto che non sfuggì alla signora Wolff.
«A quanto pare, qui la conoscono» disse non appena ci fummo seduti.
Mi limitai a sorridere.
La signora Bauer scosse la testa per buttare indietro i lunghi capelli rossi e farli cadere sulla schiena. «Lei è l’amica di Petra, vero? La libraia. L’ho vista all’aeroporto il giorno in cui siamo arrivati».
«Ha un’ottima memoria» osservai. Era davvero incredibile che mi avesse notato in mezzo a tanta gente e che si ricordasse ancora di me.
La signora Wolff mi toccò il braccio. «Potremmo anche darci del tu. Io sono Hanna».
«Kati» risposi. Poi fu la volta di Gust e Bauer.
«Rainer».
«Annette».
Hanna portò il discorso sull’omicidio e Otto ne approfittò subito per raccontare a tutti quello che aveva già detto a me. Sul volto di Annette non comparve il minimo sollievo. O aveva un enorme autocontrollo o i miei sospetti erano caduti di nuovo sulla persona sbagliata. Il suo viso era impassibile. Decisi di cambiare tattica. La guardai e senza tanti giri di parole dissi: «L’unica persona che ha tratto vantaggio da questo omicidio sei tu».
Mi fissarono tutti e quattro scandalizzati. Dovevo ridistendere l’atmosfera.
«Non lo penso davvero. Stavo solo riflettendo ad alta voce».
Hanna scoppiò a ridere. «Non si può proprio dire che Annette ci abbia guadagnato. Si è dovuta assumere un’enorme responsabilità».
«Ma ha comunque ottenuto una promozione» replicai come se lei non fosse presente.
«Non stai semplificando un po’ troppo le cose?» domandò Otto.
«Assolutamente» intervenne Rainer.
«Ma le cose sono semplici. L’omicidio è semplice. Si tratta di orgoglio, soldi, amore, vendetta o sesso. Non c’è niente di complicato».
«L’assassino può aver agito per un altro motivo» fece notare Otto. Era convinto di potermi mettere in difficoltà.
«Per esempio?».
Mentre lui ci rifletteva, ricordai che si poteva commettere un omicidio anche per motivi politici. Ovviamente tenni la bocca chiusa. «Adesso non mi viene niente» proseguì Otto. «Ma qualunque sia il movente di questo omicidio, l’assassino non ha lasciato tracce».
Agitai in aria l’indice della mano destra. «Questo lo dice la polizia turca. Non è così?».
Hanna si lasciò andare a un’altra risata.
«Credi che miss Marple riuscirebbe a risolvere il caso?».
Otto fece una smorfia. Aveva capito cosa avevo in mente.
«A pensarci bene, sono davvero l’unica che ci ha guadagnato qualcosa» riconobbe Annette.
«Non dire sciocchezze!». Gust la interruppe, poi mi guardò negli occhi e dichiarò: «La notte dell’omicidio eravamo insieme. Annette è rimasta tutto il tempo nella mia stanza».
Per me non era una novità, anche se ci avevo messo un bel po’ a ottenere l’informazione dai diretti interessati. In effetti avevo sacrificato un’intera serata.
Gust ritenne necessario aggiungere una spiegazione per gli altri. «Ho deciso di divorziare. Annette e io ci amiamo». Hanna sorrise comprensiva.
Tenendo per mano la sua innamorata, Rainer mi lanciò uno sguardo con la coda dell’occhio. «La notte in cui Kurt è stato ucciso siamo rimasti svegli e…». Anziché terminare la frase, scostò i capelli rossi di Annette e le diede un piccolo bacio sul lobo dell’orecchio. «Siamo stati insieme tutta la notte, lei non si è alzata nemmeno per bere un po’ d’acqua».
«Mi dispiace, miss Marple» disse Annette, mettendomi il bicchiere sotto il naso per brindare.

8






A svegliarmi fu una chiamata di Lale, che non era riuscita a stare lontana dalla redazione e quindi non poteva accompagnarmi all’aeroporto. Avrei dovuto sopportare un tassista, ma non importava. Ero contenta che la mia amica si fosse alzata presto e fosse andata al lavoro come sempre.
Mi preparai senza perdere tempo, controllai più volte che le finestre fossero ben chiuse, poi telefonai al padrone di casa per informarlo che sarei stata via una decina di giorni. Quando uscii, erano quasi le undici. In realtà non sono una di quelle persone che credono di dover arrivare in aeroporto due ore prima della partenza. Mi avviai in anticipo solo perché non ero sicura che il mio biglietto fosse stato depositato allo sportello.
Sentendo che volevo andare all’aeroporto, il tassista non mi chiese: «Come mai, Abla?». E lungo il tragitto non ascoltò nessuna hit sparata a tutto volume. Non provò nemmeno a derubarmi con la scusa che non aveva il resto.
Anche allo sportello della Turkish Airlines filò tutto liscio come l’olio. Dissi il mio nome e tre minuti dopo avevo già il biglietto in mano.
Era il mio giorno fortunato.
Non comprai niente al duty-free. Ingannai il tempo facendo un giro, poi raggiunsi il gate 11 per imbarcarmi. Avevano già annunciato la partenza.
L’apparecchio era pieno. Si respirava a fatica. Per vedere in una volta sola tante persone malvestite bisognava per forza prendere un aereo per Berlino. Lo shock culturale fu immediato, non dovetti neanche aspettare di essere in Germania.
Arrivare al mio posto non fu facile, ovunque c’erano migranti che si spingevano per sistemare borse e valigie. Mi sedetti accanto a un’anziana corpulenta con la testa coperta; dal modo in cui roteava gli occhi per guardarsi intorno, tutta agitata, si capiva che stava cercando una vittima da coinvolgere in una stupida conversazione. Estrassi subito un libro dalla borsa e mi concentrai nella lettura. Se la donna mi avesse comunque rivolto la parola, avrei finto di essere una turista e di non conoscere il turco. Dopo neanche un minuto – ero ancora alla prima frase del romanzo – la signora cercò di attaccare bottone.
«Abiti a Berlino, cara?» mi domandò, ripiegando verso l’interno il bordo del foulard che le era scivolato sulla guancia.
«Ich spreche leider kein Türkisch»5risposi sorridendo.
«Ah!». La signora si girò verso la turista tedesca in pantaloncini che le sedeva accanto dall’altra parte, come se sperasse di ricevere aiuto.
Senza il minimo senso di colpa, mi concentrai di nuovo sul libro. Avevo appena terminato la prima frase quando mi si parò davanti una hostess supertruccata.
«Scusi, le dispiacerebbe cambiare posto?» chiese in tedesco.
«Perché? Ho sbagliato?». Infilai una mano nel taschino per prendere il biglietto.
«No, no, è seduta al posto giusto».
«Allora?».
«Davanti ci sono due passeggere sedute vicino a un uomo. Dicono che non possono stare lì. Purtroppo l’aereo è al completo. Potrebbe scambiarsi di posto con il signore?».
Indicai la donna che avevo accanto. «Perché non lo domanda a lei? Saremmo tutti più contenti».
Irritata, la hostess si rivolse all’anziana col foulard e le spiegò la situazione. La signora non si fece pregare. Felicissima di dire addio alle sue due vicine che non parlavano turco, si alzò e si diresse faticosamente verso le prime file. Mi raddrizzai per vedere il tizio che avrebbe occupato il sedile di fianco al mio.
Ormai si erano seduti tutti. L’unico in piedi era un uomo alto e grigio di capelli che si guardava attorno con calma in cerca del suo nuovo posto. Mentre parlava con le hostess e con l’anziana dalla testa coperta, allungai il collo e lo osservai attentamente.
A volte madre natura sa essere davvero generosa. «Non può essere lui» pensai. «Qualunque donna sarebbe più che contenta di avere accanto e magari di tenere sottobraccio uno così!».
Il superbo esemplare, inviato da Dio al genere femminile come dimostrazione di immensa bontà, ringraziò le hostess e venne verso di me.
«Non ti fare illusioni» mi dissi. «Sicuramente sta andando alla toilette».
L’uomo si fermò vicino al mio sedile. «Posso?» chiese in tedesco.
Mi alzai per farlo passare. Dopo essermi riaccomodata, con la coda dell’occhio lo guardai allacciare la cintura, tirare fuori alcuni giornali e un grosso libro dalla borsa e infilare tutto nella tasca del sedile davanti. Non sapevo come attaccare discorso. Dovevo trovare una frase da cui si capisse subito quanto ero simpatica e intelligente. Alla fine indicai i giornali e domandai: «Posso dare un’occhiata al “Günebakan”?».
Lui era soprappensiero. Trasalendo, girò la testa dalla mia parte. «Mi dispiace, non l’ho comprato. Ma tra un attimo passeranno le hostess con i quotidiani».
Il passeggero vicino al finestrino si piegò in avanti e mi gettò uno sguardo incuriosito. Forse aveva sentito quello che avevo detto poco prima, cioè che non parlavo turco. Non mi importava.
«Abita a Berlino?» chiesi, prendendo ispirazione dall’anziana col foulard.
«No, a Istanbul» rispose l’uomo. Sembrava un tipo di poche parole, ma io non avevo alcuna intenzione di desistere. Quando mi metto in testa una cosa, vado fino in fondo, costi quel che costi.
«Anch’io abito a Istanbul» continuai. Lui annuì. «C’è stato qualche problema là davanti?».
«Ha visto cos’è successo».
«Sì, la hostess ha chiesto anche a me di prendere il suo posto».
«Non mi era mai capitato niente di simile». Era ancora sconvolto. «Di solito viaggio in business class ma questa volta mi sono deciso troppo tardi, quando non c’erano più posti. Non ho avuto scelta. E così, oltre alla calca, ho trovato quelle due…». Scosse la testa, incredulo. «Hanno chiamato la hostess e le hanno detto che non potevano stare sedute vicino a me. Come se avessi fatto qualcosa di male…».
«Ma no, non è poi così strano. Sugli autobus capita spesso, quindi perché non dovrebbe succedere in aereo?».
Lui rise. «È chiaro che vive in Turchia da molto tempo».
«Sì, ci vivo da un po’».
«Non sono contrario al fatto che le donne si siedano vicine, ma…».
Lo interruppi. «Non è il caso di prendersela tanto. Lasci perdere». Dovetti mordermi la lingua per non aggiungere: «Sono sicura che moltissime donne sarebbero felici di stare al suo fianco».
Quando l’aereo cominciò a scendere su Berlino, avevamo ormai approfondito la nostra conoscenza. Lui faceva l’avvocato, si occupava di cause commerciali a livello internazionale e, per quanto avevo potuto capire dalle risposte alle mie domande indirette, non aveva né una moglie né una fidanzata. Che facesse l’avvocato non era poi così strano, ma che fosse ancora scapolo mi sembrava impossibile. L’inconfutabile tesi di Lale – tutti gli uomini attraenti di Istanbul sono sposati o gay – era stata confutata. Immagino che a questo punto vogliate sapere cosa mi dava la certezza che Selim, cioè l’uomo che mi sedeva accanto da tre ore, non fosse né sposato né gay. Beh, credetemi se vi dico che il suo sguardo si era soffermato su ogni centimetro del mio corpo e permettetemi di aggiungere, come farebbe Hanna Wolff, che «certe cose le capisco». Ora alcuni di voi penseranno che il mio intuito non è proprio infallibile quando si tratta di risolvere un omicidio, altri daranno addirittura voce a questo pensiero, ma vorrei ricordarvi una cosa: ognuno ha la sua specialità e la mia non è ancora la cattura degli assassini.
Selim voleva pernottare all’Hilton di Gendarmenmarkt, in un quartiere che dopo la caduta del Muro, grazie a fiumi di denaro, si era trasformato in un parco di divertimenti per yuppie.
Mentre ci dirigevamo verso la fila di taxi davanti all’aeroporto di Berlino-Tegel, che si estendeva alla periferia della città, simile a un orrendo vassoio, mi disse: «Prima di andare in hotel, ti accompagno dove vuoi».
«Credo che andrò direttamente all’ospedale».
«E il bagaglio?».
Essendo totalmente incapace di portare con me poche cose, ero abituata a spostarmi con l’enorme valigia al seguito.
Nel frattempo eravamo arrivati all’inizio della fila. Il conducente del primo taxi ci vide e si precipitò ad aprire il bagagliaio.
«Dove dormirai?» chiese Selim.
«Nell’appartamento di mia madre, ma devo farmi dare la chiave. E poi voglio parlare al più presto con il medico che l’ha in cura. Insomma, devo proprio andare all’ospedale».
Il tassista aveva caricato in fretta i bagagli e si era messo al volante.
«All’ospedale Am Urban, per favore».
«Porto la tua valigia in hotel. Passerai a prenderla quando avrai finito».
Cominciai a tossire, come se mi fosse andato di traverso un boccone.
«C’è molto dall’ospedale all’hotel?».
«No». Col tempo, qualunque single della mia età impara a interpretare il comportamento maschile. Le due proposte che Selim aveva fatto nell’ultimo quarto d’ora potevano significare solo una cosa: che provava per me un interesse pari o addirittura superiore a quello che io provavo per lui. A differenza delle donne, gli uomini non fanno mai niente per niente, c’è sempre sotto qualcosa. Visto che si era offerto di portare in giro me e la mia valigia, i casi erano due: o mi aveva messo gli occhi addosso o non voleva rimanere da solo in una città che non conosceva bene.
Decisi di eliminare la seconda possibilità e di non preoccuparmi troppo: dovevo pensare alla mia povera madre ricoverata in ospedale, non avevo tempo per riflettere sulle sfumature del corteggiamento.

«Le fratture guariscono più lentamente nelle persone anziane» disse mia madre, con le mani venate di viola che spiccavano sul copriletto bianco. Ogni volta che le vedevo mi sembravano più piccole.
«Ti servirebbe una manicure» osservai, toccandole la sinistra. Da quasi un’ora stavamo parlando solo di malattie e ospedali.
«Ma va’!».
Da quando aveva smesso di andare dal parrucchiere perché non si sentiva bene, ossia da circa quattro anni, una signora si presentava a casa sua ogni quindici giorni per la manicure e una volta al mese le faceva anche i capelli.
«In questo momento ho ben altro a cui pensare» continuò lei, tenendo però lo sguardo fisso sulle mani. Decisi che il giorno dopo avrei portato con me un’estetista.
«Guai a te se ci provi!» tuonò, come se mi avesse letto nel pensiero.
«Se vuoi proprio fare qualcosa, domani portami un caffè decente. Quello dell’ospedale è acqua sporca. Perché ho pagato tanti soldi per l’assicurazione privata se adesso che sono qui non posso neanche avere un caffè? Tutto quello che mi hanno dato è una camera singola. Va be’, è già qualcosa. Se dovessi dividere la camera con una turca, probabilmente non ne uscirei viva. Non si rendono conto che questo è un ospedale, pensano di essere in villeggiatura. Quando una di loro viene ricoverata, arrivano subito decine e decine di parenti. E poi…». Si raddrizzò leggermente e mi fece cenno di sistemarle il cuscino.
«Non conoscono il tedesco. Ho detto all’infermiere turco che i turchi in Turchia parlano tedesco meglio di quelli che stanno qui e lui non ha battuto ciglio. Puah! Poi parlano di integrazione. Adesso vogliono usare i nostri soldi per organizzare corsi speciali per i turchi. E la signora Hirschel deve continuare a pagare le tasse!». Si mise la mano sul cuore.
Indicando il ripiano alla testa del letto, disse: «Dammi il giornale». Lo sfogliò rumorosamente e poi me lo agitò sotto il naso. «To’, leggi!».
«Lo prendo dopo, mamma. Adesso voglio andare a parlare con il tuo medico. Cerca di stare tranquilla, altrimenti ti sale di nuovo la pressione».
«Sì, altrimenti mi sale la pressione. Devo stare tranquilla» ripeté. La baciai sulle fossette, appena visibili sotto una miriade di macchie scure.
«Vado».
«Prima chiama l’infermiere turco».
«Ti serve qualcosa? Dillo a me».
«No, chiama l’infermiere».
Quando l’uomo arrivò, uscii dalla camera.

Non presi uno dei taxi che aspettavano davanti all’ospedale. Volevo fare un pezzo a piedi, per stare sola. Il medico di turno mi aveva spiegato che la mamma poteva tornare a casa in qualunque momento. Il problema era che ci voleva qualcuno che la accudisse.
«Potrei consigliarle delle ottime case di riposo» aveva detto il medico. Ma per una cosa del genere serviva il consenso di mia madre, e senz’altro lei si sarebbe opposta.
Continuai a camminare a passo spedito, parlando tra me e me e cercando di trovare le parole giuste per convincerla. «Si prenderanno cura di te, mamma, e inoltre ti farai un sacco di amici». «Per le persone anziane non è facile vivere in una grande città». «Puoi scegliere dove andare. Sicuramente c’è qualcosa per tedeschi anche a Maiorca. Anche con personale tedesco. O nella Foresta Nera…».

Raggiunsi l’hotel che non era ancora buio. Attraversai la porta girevole e mi avvicinai sorridendo alla giovane receptionist dall’aria gentile. Aprendo la bocca, però, mi resi conto che non conoscevo il cognome di Selim.
«Sì?» fece la ragazza, fissandomi.
«Devo vedere un uomo che alloggia in questo hotel, ma non conosco il suo cognome. È un turco. È arrivato oggi nel tardo pomeriggio. Si chiama Selim». La tensione mi aveva fatto venire un gran caldo.
«Veramente sarebbe proibito dare il numero di camera degli ospiti ad altre persone, ma…». Si guardò intorno. «Credo di poter fare un’eccezione» disse ridendo. «Come si scrive il nome?». Mentre le facevo lo spelling, posò gli occhi sullo schermo che aveva davanti e rimase in silenzio. Per un attimo si udì solo il rumore delle dita che si muovevano rapide sulla tastiera.
«Ecco qua: Öztürk. È un cognome turco, vero?».
Sorrisi e annuii.
«Camera 532. Può chiamarlo da qui». Compose il numero e mi diede il ricevitore.
«Scendo subito, così andiamo a mangiare» disse Selim sentendo la mia voce.
In realtà non avevo molta fame, avrei preferito fare la doccia, mettermi davanti al televisore e guardare qualche stupido film, ma il pensiero di dover trascinare la valigia fino all’appartamento di mia madre non mi entusiasmava. Mi sedetti nella hall dell’albergo, su una poltrona da cui si vedeva l’ascensore, e aspettai.
L’attesa fu breve: Selim apparve dopo due minuti. Era talmente bello che rimasi senza fiato. Mentre veniva verso di me, osservai il suo corpo, poi, quando si fermò, mi concentrai sul viso. Ero ancora seduta in poltrona. Lui si piegò, mi prese la mano e mi fece alzare. Era poco più alto di me. Lo guardai negli occhi… quegli occhi in cui tutte le sfumature del verde si fondevano con un riflesso marrone. Tenendomi con due mani, mi tirò a sé e avvicinò una guancia alla mia. Era liscio, ma non sapeva di dopobarba. Aspirai il suo odore mascolino, virile… Avrei voluto sussurrargli all’orecchio: «Dimentica la cena. Vieni, andiamo di sopra». Ma mi trattenni.
«Dove vuoi mangiare?» domandai.
«Qui vicino dovrebbe esserci una buona kebaberia» rispose lui, serissimo.
Detestavo i turchi che mangiavano solo kebab, così come detestavo i tedeschi che bevevano solo birra.
«O vuoi prendere la valigia e andare subito a casa di tua madre?». Selim mi guardò con un sorriso malizioso.
«Pensavo che gli avvocati non scherzassero mai».
«Non dovresti avere pregiudizi».
Scoppiai a ridere. La ragazza alla reception alzò gli occhi e mi osservò da lontano.
Eravamo ancora nella hall, mano nella mano. Mi staccai da lui e presi la borsa dalla poltrona. Mentre mi precedeva per fermare la porta girevole, esaminai il suo posteriore. Non era affatto male, soprattutto per la sua età.
Per un po’ camminammo l’uno accanto all’altra in silenzio. Raggiunto il Deutscher Dom, il Duomo dei Tedeschi, gli chiesi di nuovo dove voleva mangiare.
«Lì» disse, indicando un edificio proprio davanti a noi. «Al ristorante Borchardt si mangia abbastanza bene, ma la cosa più interessante, almeno per me, è che ci si trova fianco a fianco con i ministri tedeschi. L’ultima volta c’era una ministra seduta proprio vicino al nostro tavolo. Non aveva neanche una guardia del corpo».
Sentii l’impulso di accarezzargli i capelli. Le persone perbene come Selim non meritavano forse qualcosa di meglio dei politici turchi?
Come immaginavo, la domenica sera al Borchardt non c’era molta vita. Ma siccome i clienti abituali potevano arrivare da un momento all’altro, ci diedero un tavolo vicino alla porta.
Lui allargò subito il tovagliolo. «Volevo bere qualcosa prima di cenare, ma sono troppo affamato. Tu prendi pure un aperitivo, se vuoi».
«No, preferisco il vino».
Il cameriere buttò i menu sul tavolo e si allontanò.
Selim lo seguì con lo sguardo. «Incredibile! Solo in Germania si possono trovare camerieri così maleducati».
«Questi probabilmente sono professionisti, ma nei bar lavorano solo studenti. Ecco perché il servizio lascia a desiderare».
«Okay, ma al cliente non interessa. Studenti o muratori, io voglio solo che mi servano bene».
«Hai ragione».
Ordinammo due cotolette. E vino rosso.
Selim fece l’ordinazione in tedesco. Lo parlava molto bene.
«Dove hai imparato il tedesco?» chiesi non appena il cameriere se ne fu andato.
«Ho studiato in Svizzera».
«E cosa hai studiato?».
«Giurisprudenza, ovviamente».
«Ah, già».
«Non hai molta simpatia per gli avvocati».
«Non è vero. Dopotutto anche mio padre era un giurista».
«Per questo avete vissuto in Turchia quando eri piccola? Per il lavoro di tuo padre?».
«Direi di no. I miei genitori sono scappati prima della guerra, o meglio, prima del nazismo. Mio padre era ebreo. Insegnava diritto all’università. Abbiamo vissuto a Istanbul fino al 1965, poi siamo rientrati in Germania. In realtà lui sarebbe rimasto volentieri in Turchia, ma mia madre ha insistito. Comunque io e mio fratello maggiore siamo nati là».
«Quando sei tornata a Istanbul?».
«Nel 1988. È una lunga storia. Dovevo rimanere solo una settimana per fare visita a un’amica, ma alla fine i sette giorni sono diventati tredici anni».
«E non hai avuto problemi con il permesso di soggiorno, il permesso di lavoro e tutti gli altri documenti?».
«Sei proprio un avvocato! Vi preoccupate per cose davvero strane!».
Selim fece spallucce.
«Mio padre è diventato cittadino turco negli anni Cinquanta. Ha ottenuto la cittadinanza come rifugiato politico e l’ha conservata fino alla morte. Come sai, basta un solo genitore turco perché i figli acquistino automaticamente la cittadinanza».
Lui annuì con aria pensierosa. Sembrava confuso.
«Che c’è?».
«Niente. Stavo pensando che i ricordi della guerra non sono poi così lontani».
«Beh, sono passati solo cinquant’anni… Molti sopravvissuti ai lager sono ancora vivi. A volte faccio fatica a credere che nel nostro passato recente ci sia tanto dolore».
«Già, è davvero…». Selim non riuscì a trovare un aggettivo adatto.
Il cameriere mi mise davanti una cotoletta talmente grande che quasi non si vedeva il piatto. Al primo boccone capii che, nonostante le dimensioni, l’avrei mangiata tutta senza sforzo.
«Tu come ti senti?».
«In che senso?».
«A quale mondo appartieni?».
«A Istanbul» risposi. «È l’unico posto in cui mi sento a casa. Forse vivo lì proprio perché è l’unico luogo in cui mi sento completamente a mio agio. A un certo punto diventa difficile dire cosa facciamo per scelta e cosa perché siamo costretti. Ho un grosso passaporto turco, ma in Turchia sono comunque una tedesca. Una tedesca che parla bene il turco. E in Germania, nonostante il passaporto tedesco e una madre cattolica, sono un’ebrea».

Quando rientrammo in hotel, la ragazza di prima era ancora seduta alla reception. Ci scambiammo un sorriso.
«Vieni a prendere la valigia o preferisci che te la porti giù?» domandò Selim.
«Portala giù, ti aspetto qui. Sono stanca morta».
«Vado e torno» disse lui e si diresse a passo svelto verso l’ascensore. Ne approfittai per guardare le vetrine dei negozi nella hall. Vendevano cose davvero strane.
«Pronta?». Sentendo la sua voce, trasalii per lo spavento. Era proprio dietro di me, con la valigia in mano.
Allungai un braccio per prenderla.
«Vengo anch’io».
«Cosa?».
«Ti accompagno». Dopo aver pronunciato queste parole in tono deciso, puntò verso l’uscita. Lo seguii di corsa.
«Non dire sciocchezze! Prendo un taxi e vado a casa da sola».
Lui sorrise. «Sei tedesca. Prenderesti la metro perché costa meno. Per essere sicuro che tu vada a casa in taxi, devo vederlo con i miei occhi». Ridendo, tenne la porta per farmi passare.
Durante il tragitto dall’albergo all’appartamento di mia madre restammo in silenzio. Aprimmo bocca solo per dare l’indirizzo all’autista.
«Va bene se ti chiamo domani sera in hotel?» chiesi prima di scendere dal taxi.
«Ho un sacco di impegni, non so a che ora tornerò in albergo».
Girando la testa dall’altra parte per nascondere la mia delusione, aprii la portiera e uscii. Selim fece altrettanto. Sapevo di essere tutta rossa, quindi abbassai lo sguardo.
Lui mi prese la mano, o meglio, la punta delle dita e con il tono che si usa per spiegare ai bambini il susseguirsi delle stagioni disse: «Non c’è bisogno che mi telefoni, possiamo già darci appuntamento per le otto. Conosco un ottimo ristorante thailandese nella zona est, in Prenzlauer Allee. Possiamo cenare lì». Continuando a tenermi con la destra, si tastò la giacca con l’altra mano in cerca di carta e penna.
«Aspetta». Estrassi l’agendina dalla borsa. Lui la appoggiò sul taxi e scrisse l’indirizzo del locale.
«Lo sai a memoria?».
«Certo, è il mio ristorante preferito».
Misi via l’agendina e gli porsi la guancia.
«Un attimo, ti porto su la valigia».
«Eh no, adesso stai esagerando!».
Per tutta risposta, Selim infilò la testa nell’auto e chiese al tassista, seduto immobile, di aprire il bagagliaio.
5 «Mi dispiace, non parlo turco».

9






Il mattino dopo, aprendo gli occhi, mi accorsi con stupore che non ero la donna più felice del mondo. Purtroppo con gli anni aumenta anche il senso di responsabilità. Per me era impossibile dimenticare il dovere e pensare solo all’amore.
Mentre mi facevo la doccia, non avevo in testa Selim, ma mia madre. Una cosa davvero triste per una quarantatreenne. Con l’acqua che mi colava lungo le gambe, telefonai a mio fratello Schalom.
Rispose Ute, mia cognata. «Sei a Berlino?» chiese.
«Sì. Dobbiamo trovare un posto per la mamma, non può rimanere in ospedale».
«Un attimo, chiamo Schalom».
Dopo aver parlato con lui, mi vestii e lasciai l’appartamento per andare a fare colazione. Costeggiai il canale, fermandomi davanti a ogni bar per leggere il menu. La casa di mia madre si trovava nella zona turca di Kreuzberg, chiamata anche «Piccola Istanbul» dalle persone che non ci abitavano e non conoscevano turchi. In realtà, per chiunque avesse visto almeno una cartolina di Istanbul sarebbe stato difficile fare un simile paragone. Ma questa è un’altra storia.
Quando ancora confinava col Muro, il quartiere non era molto richiesto e gli affitti erano decisamente convenienti. Proprio per questo, a partire dal 1965 nella zona si erano stabiliti i Gastarbeiter turchi. E dopo di loro, nel periodo in cui io frequentavo l’università, erano arrivati i tedeschi di sinistra… Poi i lavoratori stranieri avevano cominciato a tornare nei loro paesi, dove la situazione economica stava migliorando, e a Kreuzberg erano rimasti solo i turchi, che avevano continuato a sposarsi e a fare tanti figli.
Potevo capire gli immigrati, ma perché i miei genitori avevano scelto un quartiere del genere? Probabilmente era stato mio padre a decidere di passare da Istanbul a Kreuzberg. Dopo la sua morte mia madre avrebbe potuto cambiare zona, ma non l’aveva fatto. Eppure si lamentava in continuazione dei turchi. Le piaceva stupire la gente con la sua conoscenza della lingua, però era una cosa davvero stupida vivere per tanti anni nello stesso quartiere solo per andare al supermercato due volte alla settimana e sentirsi dire da una giovane cassiera con il fazzoletto in testa: «Complimenti per il tuo turco, zia. Dove l’hai imparato?». Per giunta mia madre odiava essere chiamata «zia» e ogni volta doveva fare uno sforzo per non rovesciare le olive appena comprate addosso alla ragazza di turno.
Forse la decisione di non lasciare Kreuzberg era legata al suo amore per l’acqua. Diversamente da mio padre, originario di Treviri, mia madre, nata a Monaco ma cresciuta ad Amburgo, aveva sempre avuto un rapporto molto stretto con l’elemento liquido. Era anche per questo che dopo la guerra, pur non amando Istanbul e giudicandola troppo islamica, aveva continuato a viverci per molti anni. Escludendo i laghi nei dintorni, a Berlino non c’era molta acqua; bisognava accontentarsi della Sprea e dei canali che attraversavano la città. Mia madre amava il suo appartamento sul canale, anche se il quartiere non le piaceva.
Durante la mia ultima visita aveva detto che certe mattine, uscendo di casa e sentendo l’odore del canale, pensava di essere ancora sul Bosforo.
«Evidentemente hai nostalgia di Istanbul» avevo risposto, e lei si era arrabbiata.

Quando decisi di andare nel bar vicino alla sopraelevata, avevo già letto tutti i menu di Paul-Lincke-Ufer e aspettato inutilmente che qualche cameriere, vedendomi esitare davanti alla porta, corresse fuori e dicesse: «Entri, entri, abbiamo ciambelle al sesamo appena fatte, miele e panna, olive buonissime…».
Mi girai verso Manteuffelstraße, dando così le spalle al canale. Il Caffè Morgenland, che mi piaceva non solo per il menu, ma anche per la vista della metropolitana, si trovava proprio all’angolo, nel punto in cui la strada si allargava per fare spazio alla stazione Görlitzer, che i turchi pronunciavano Gülizar.
Avrei voluto ordinare degli insaccati, ma ci rinunciai per paura della mucca pazza. Optai per una colazione a base di formaggio.
Dopo aver preso il taccuino dalla borsa, feci l’elenco dei motivi per cui mia madre avrebbe dovuto trasferirsi in una casa di riposo. A destra aggiunsi tutte le sue possibili obiezioni.

Nel pomeriggio, quando entrai nella sua camera d’ospedale con un thermos pieno di caffè, mi sentivo preparata come una brava alunna.

In fila davanti al ristorante thailandese di Prenzlauer Allee, accesi una sigaretta e la fumai voluttuosamente, senza aspirare.
Appena avevo tirato fuori l’idea della casa di riposo, mia madre aveva detto: «Ci ho pensato spesso anch’io. Ormai non ho più amici qui a Berlino. I pochi che sono ancora vivi stanno in ricovero». Poi, come se volesse autoconvincersi, aveva aggiunto: «Sarebbe la cosa migliore anche per me».
Ero sconcertata. Non credevo che una persona anziana, in particolare una donna come mia madre, potesse entrare in casa di riposo di sua spontanea volontà. Mio fratello aveva ragione. Certe cose – di sicuro non tutte – le vedevo ormai come una turca. Infatti pensavo che il ricovero fosse una tragedia per qualunque anziano. In Germania era una cosa normale, c’erano case di riposo per tutte le tasche.

Lasciato l’ospedale, ero entrata in un bar nelle vicinanze e avevo bevuto due bicchieri di spumante alla salute di mia madre, che per la prima volta in vita sua si era comportata come una donna «normale», poi avevo raggiunto la mia libreria preferita, in Oranienstraße. Prima di prepararmi per la serata, mi ero seduta in casa, con le gambe distese, e avevo letto un po’. Infine mi ero messa in coda davanti al ristorante in cui dovevo cenare con Selim.
«Te lo sogni!» esclamò qualcuno. Era lui. Aveva in mano un’enorme cartella e indossava un completo di lino beige. Il nodo della cravatta era allentato.
«Ciao» dissi, e il trillo della mia voce mi lasciò stupita.
Salutandomi con un cenno del capo, Selim indicò un altro uomo in completo.
«Permettimi di presentarti Jean… Jean, lei è Kati…». Non perse tempo con i cognomi. Io e il suo collega ci stringemmo la mano.
«Conosci il francese?».
«Così così».
«Allora parleremo tedesco» decise, guardando Jean.
Era arrivato il nostro turno. Ci sedemmo a un tavolo per quattro accanto alla cucina.
Mentre leggeva il menu, Selim aggiunse un paio di informazioni importantissime. «Kati non ha molta simpatia per gli avvocati. Suo padre era un giurista, ma…». Di colpo si rivolse a me. «Come si chiamava? Magari lo conosciamo».
«Abraham Hirschel».
Jean ebbe un sobbalzo. «Cosa? Sei la figlia del penalista Abraham Hirschel?» gridò, come se non riuscisse a credere alle proprie orecchie.
«Sì». Non era il primo che reagiva così sentendo il nome di mio padre. Ci ero abituata; avevo addirittura cominciato ad andarne fiera.
«Tuo padre era un genio!».
«Così dicono» risposi, tutta soddisfatta. «Sei un difensore penale, vero?».
Lui annuì.
«E tu?» chiesi a Selim, che mi stava proprio di fronte. «Non conosci mio padre?».
«Certo che lo conosco, ma solo di fama, per i suoi contributi al diritto turco… Non sono un penalista, quindi…».
«Lui organizza riunioni per i membri dei consigli di vigilanza delle S.p.A.» spiegò Jean in tono ironico.
Un cameriere thailandese si fermò vicino al nostro tavolo con in mano un blocchetto.
«Per me birra» disse Selim.
Io e Jean ordinammo la stessa cosa.
«Qui si mangia benissimo, ma lo vedete anche voi…» – si guardò intorno – «il locale è stracolmo». Poi abbassò la voce. «Di solito in questi posti il vino non è molto buono».
«Che piatto mi consigli?» domandai.
«Il numero 79 è squisito. È pesce secco. Cotto con le verdure thailandesi. Ma se non ti piacciono i sapori forti, ordina qualcos’altro».
«Mi piacciono i sapori forti. Prendo il 79».
I miei due compagni ordinarono pesce stufato con sedano.
Prima di mangiare, Jean doveva assolutamente lavarsi le mani. Si alzò per andare in bagno e Selim ne approfittò per piegarsi verso di me. «Avrei preferito una cena a due, ma il mio amico parte domani per Bruxelles. Abbiamo solo questa sera per parlare un po’».
«Non c’è problema». Era una risposta da donna comprensiva ed esperta. Lui mi accarezzò la mano con il pollice, per farmi capire in silenzio quanto apprezzasse il mio comportamento.
Jean tornò con le mani lavate, si tolse la giacca e la mise sullo schienale della sedia. «È strano che una persona che vive a Istanbul conosca meglio di te i ristoranti di Berlino» osservò. A quanto pareva, Selim non gli aveva raccontato molto di me.
«Anch’io vivo a Istanbul».
«Credevo che tuo padre si fosse trasferito qui a Berlino».
«È così. Ma io sono tornata a Istanbul».
Lui inarcò un sopracciglio. «Ti piace tanto?».
«Sì. Per questo ci vivo da tredici anni».
Jean annuì pensieroso. «Ah!» fece improvvisamente, schioccando le dita come se avesse appena avuto un’illuminazione. «Mentre venivamo qui in taxi, l’ho chiesto a Selim, ma lui ha risposto che non ne sa niente. Tu sai qualcosa di questo omicidio? Ho letto sul giornale che…».
Con il cuore in gola, lo interruppi. «Quale omicidio?». Poi mi lasciai sfuggire: «Quello di Müller?».
«Vedi, chi legge i giornali sa cos’è successo».
«Ma Kati ha un interesse particolare per certe cose» obiettò Selim.
«Perché?».
«Perché ha l’unica libreria di Istanbul in cui si trovano solo romanzi gialli. Non vende altro».
«Cosa volevi sapere?» domandai a Jean.
«Se ci sono novità, solo questo volevo sapere. Hanno trovato l’assassino?».
«No, e credo che non lo troveranno. Ieri sulla “Westdeutsche Zeitung” è stata pubblicata un’intervista al commissario che ha diretto le indagini. La polizia non ha nessun indizio. Il caso sarà archiviato senza un colpevole». Mentre lo dicevo, capii che sotto sotto mi dispiaceva molto: il mio primo caso di omicidio sarebbe rimasto irrisolto.
Jean si accese una sigaretta. «Chissà perché gli investigatori tedeschi non hanno voluto partecipare alle indagini».
«Cosa ti fa pensare che non abbiano voluto?».
«Beh, se avessero voluto, avrebbero partecipato».
«Per quanto ne so, le loro richieste sono state respinte».
Lui ripeté il concetto per essere sicuro di aver capito bene. «Hanno chiesto di partecipare alle indagini, ma non hanno ottenuto il permesso? Interessante. Ne sei certa?».
«Perché è così interessante?».
Jean si grattò dietro l’orecchio. «Di solito, quando la polizia dello stato di cui era cittadino il morto chiede di partecipare alle indagini nel paese dove è avvenuto l’omicidio, non c’è nessun problema. Se poi i due paesi hanno stretti rapporti giuridici, come Germania e Turchia… Perché hanno negato il permesso?». Stava parlando più con se stesso che con noi.
Selim scoppiò in una sonora risata. «Non c’è da meravigliarsi, caro mio. Se conoscessi un po’ i turchi, lo sapresti».
«Che vuoi dire?». Jean continuò a grattarsi.
«Mai sentito parlare di sovranità nazionale?». Selim fece una smorfia, poi indicò me. «Tu sai quanto teniamo alla nostra sovranità!». Si rivolse di nuovo all’amico. «La polizia turca non accetterebbe mai l’aiuto di un altro stato per risolvere un caso di omicidio sul suo territorio. Meglio lasciare l’assassino in libertà che prenderlo con l’aiuto di colleghi stranieri. Gli altri non devono immischiarsi nelle faccende dello stato turco. E lo stato turco non deve immischiarsi nelle faccende della polizia!».
Strabuzzai gli occhi. «Okay, secondo la polizia non ci sono indizi. Niente impronte, niente testimoni, niente tracce di sangue, niente capelli. L’assassino non ha lasciato neanche un bottone sul luogo del crimine. Ma la cosa più importante è che nessuno aveva motivo di uccidere quell’uomo. Ditemi voi come si fa a risolvere un caso del genere. Cosa potrebbero fare i tedeschi? Trovare qualcosa che è sfuggito ai turchi?».
Jean alzò le spalle. «Perché no?».
«Perché? Sembra quasi che tu non conosca la polizia tedesca. Hai dimenticato la rapina in cui due giovani dipendenti della banca sono state prese in ostaggio? Alla fine una è stata uccisa proprio dalla polizia, non dai rapinatori».
«Hai ragione, con gli ostaggi sono un po’ maldestri, ma nel risolvere i casi di omicidio sono bravi. E poi, naturalmente, c’è il problema della tecnologia. I tedeschi hanno strumenti migliori, su questo non si discute».
«Ma per favore! Sono solo pregiudizi. Per risolvere un caso di omicidio non serve la tecnologia. Ci vuole la testa». Alzai la voce e montai in cattedra. «La capacità della polizia di arrestare i criminali non è proporzionale al reddito pro capite. Questo vale anche per la sanità. Tutti pensano che la Turchia sia un paese povero e abbia un sistema sanitario scadente, ma la verità è che i medici turchi sono molto meglio di quelli tedeschi nel diagnosticare le malattie».
«Okay, ma stai parlando di una cosa in cui i tedeschi non eccellono. Gli omicidi da chiarire sono un’altra storia. Se…». Jean rifletté un istante, grattandosi di nuovo dietro l’orecchio. «Ora non ricordo le cifre, ma nelle statistiche la polizia tedesca ha una percentuale di casi risolti molto alta».
«Bene». Non mi importava se la polizia tedesca era più brava delle altre. «Come mai ti interessa questo omicidio?».
Lui guardò oltre la mia testa e con aria assente rispose: «Per due anni ho cercato di portare Kurt Müller al banco degli imputati».
Trasalii. Possibile che dovessi scoprire il segreto di Müller in un semplice ristorante thailandese?
«Perché?» domandai, sforzandomi di mantenere la calma. Jean aspettò che il cameriere appoggiasse un’enorme ciotola di riso sul tavolo e se ne andasse. «Ricordi che alla fine degli anni Ottanta l’Europa occidentale fu scossa da una serie di omicidi? In poco tempo vennero trovati dodici cadaveri. Tutti bambini tra i quattro e i nove anni. Rapiti, violentati e poi uccisi…».
«Un attimo!». Con una mano davanti alla bocca, corsi alla toilette. Per la prima volta da quando non ero più una bambina il mio stomaco aveva deciso di svuotarsi da solo, senza l’aiuto dell’intestino.
Il figlio di Petra!
Il formaggio che avevo mangiato a colazione era stato digerito da un pezzo, e a parte il caffè che avevo bevuto con mia madre e i due bicchieri di spumante con cui avevo festeggiato all’uscita dall’ospedale, non avevo mandato giù altro. Buon per me, altrimenti sarei dovuta rimanere per chissà quanto inginocchiata sulle piastrelle del bagno di un ristorante tutt’altro che lussuoso.
Dopo aver fatto quello che dovevo fare, tirai giù il coperchio, mi sedetti sul water e aspettai finché non mi sentii di nuovo pronta ad affrontare il mondo esterno. Passarono forse cinque minuti. Una volta uscita, mi guardai nello specchio sopra il lavandino. Avevo un aspetto orribile, sembrava che avessi pianto. Ma almeno il trucco era intatto. Dato che non potevo sciacquarmi la faccia, inumidii una salvietta di carta e mi tamponai le guance. Quando chiusi dietro di me la porta con l’immagine di una bambina sul vaso da notte, mi trovai di fronte Selim, appoggiato al distributore di sigarette, in attesa. Mi osservò preoccupato.
«Cos’è successo?».
«Devo aver mangiato qualcosa che mi è rimasto sullo stomaco». Lo dissi guardando in basso, non perché era una bugia, ma perché non volevo che vedesse bene il mio viso. Tornai in fretta al nostro tavolo e mi lasciai cadere sulla sedia che lui mi offrì gentilmente. Avevo davanti il piatto numero 79, quello che avevo ordinato con l’acquolina in bocca. Capii subito che non sarei riuscita a sopportare il suo odore esotico e lo spinsi il più lontano possibile.
«Non ce la faccio» spiegai, come se dovessi scusarmi. «Puoi ordinare un tè al gelsomino?».
«Ti senti meglio?» chiese Jean.
Cercai di sorridere. «Ultimamente ho lavorato troppo». In un certo senso era vero. «Posso sapere perché stavi dietro a Müller?».
«Basta con questi brutti discorsi» intervenne Selim. «Parliamo di qualcos’altro. Per esempio di politica turca». Mi strinse la mano per evitare che prendessi il pacchetto di sigarette. «Non dovresti fumare» mi consigliò dolcemente.
Non c’era bisogno che mi guardassi allo specchio per conoscere l’espressione sul mio viso. Lui fece subito marcia indietro.
«Okay, fuma pure. Volevo solo aiutarti».
Era chiaro che Jean non aveva voglia di guardare due che flirtavano. Era ansioso di tornare a Müller, addirittura più ansioso di me. Mentre Selim mi offriva da accendere, iniziò a raccontare. «La polizia non concluse niente. Nel giro di sette mesi sparirono dodici bambini. Tutti furono trovati morti poco tempo dopo il rapimento. C’erano degli indizi, ma non portarono a nulla».
«Di dov’erano i bambini? In quale zona è successo?». Avevo paura della risposta.
«Il primo bambino venne rapito in Germania occidentale e trovato in un bosco tra Bruxelles e Bruges. Il secondo e il terzo erano belgi. Quelli dopo sparirono in Olanda e Francia e furono ritrovati a distanza di tre settimane. Alcuni erano sul ciglio dell’autostrada, altri nel bosco… Non poteva trattarsi di un semplice maniaco, era tutto studiato nei minimi dettagli. Per molto tempo non si è saputo nemmeno come venivano rapiti i bambini e dove venivano portati. Ne spariva uno, si preparava l’identikit del rapitore e alla sparizione successiva i testimoni descrivevano un’altra persona. Non si trattava di un singolo maniaco, ma di una banda».
«Hai detto che c’erano degli indizi?».
«Sì. Grazie a una denuncia trovarono la casa in cui erano stati portati i bambini». Jean si mise in bocca uno strano pezzo di verdura rosa che aveva pescato nel piatto. «Trovarono la casa, ma non servì a niente. In pratica…».
«Sì?».
«Riuscirono solo a stabilire che i piccoli erano stati usati per dei film porno. Nello scantinato c’era un vero e proprio studio».
«Impronte digitali? Tracce di sangue?».
«No, avevano pulito tutto con molta cura. Il che, naturalmente, è strano. Viene da chiedersi come mai non abbiano dato fuoco alla casa. E questo non è l’unico punto oscuro. È la storia più complessa e intricata che abbia conosciuto in vita mia».
«Cos’è successo due anni fa?».
«Due anni fa? Ah, perché ho detto che stavo dietro a Müller da due anni… Dopo aver ricevuto una soffiata, la polizia ha trovato del materiale pedopornografico in una videoteca di Parigi. Soprattutto film girati in Estremo Oriente e in Russia. Uno era particolarmente interessante».
Lo interruppi. «Stanno ancora cercando quelli che hanno ucciso i dodici bambini?».
«Ovvio, non potevano archiviare la faccenda. Comunque la polizia ha trovato uno di quei film particolarmente interessante non per i bambini, ma per le caratteristiche tecniche e la qualità delle riprese».
Feci una smorfia di disgusto. «Hai ragione» disse Jean. Selim, invece, rimase in silenzio.
«È orribile, ma è così. Di solito i film pedopornografici vengono realizzati con mezzi molto semplici. Nella maggior parte dei casi le riprese vengono effettuate da un singolo pervertito con una videocamera amatoriale. Nel film in questione, però, luci, camera e tutto il resto erano di qualità molto superiore al normale. Questo ha attirato l’attenzione della polizia».
«Non potremmo cambiare discorso?» domandò Selim.
«Ti dispiacerebbe tralasciare i dettagli?» chiesi, rivolta a Jean.
«Guarda che non mi diverto a descrivere certe porcherie!» rispose lui.
«Poi cos’è successo? Come siete arrivati a Müller?».
«Ci si è accorti che nel film compariva anche il piccolo Wim, rapito nel 1990 da un istituto educativo-assistenziale di Rotterdam e poi ucciso come tutti gli altri. A quel punto sono scattate le indagini per capire come il proprietario della videoteca fosse entrato in possesso della cassetta. Per farla breve, alla fine hanno scoperto che Müller era uno della banda e che i film erano opera sua. O meglio, durante l’interrogatorio per un’altra causa un pregiudicato ha ammesso di aver partecipato al rapimento dei bambini e ha spiattellato tutto per ottenere una riduzione della pena. Prima di essere ucciso ha tirato in ballo anche Müller».
«Prima di essere ucciso?».
«Prima che potesse deporre in tribunale, lo hanno trovato morto nelle docce della prigione».
«Possibile che la banda sia così potente?». Avevo di nuovo lo stomaco in subbuglio.
«Sì» confermò Jean. «Secondo me, si tratta di una cosa molto grossa».
«Credi che abbiano fatto uccidere Müller?».
«Assolutamente. Dovevano impedirgli di testimoniare».
«Ma il modo in cui è stato ucciso… Non è strano?». Volevo proprio vedere fin dove si sarebbe spinto nel dar voce ai suoi pensieri. Si grattò per l’ennesima volta dietro l’orecchio.
«Ti riferisci al fon?».
Annuii. «Sì, anche. Chi commetterebbe un omicidio simile? A me sembra una cosa da dilettanti. È vero che l’assassino non ha lasciato tracce, ma se fosse un killer professionista ingaggiato dalla banda…».
«Avrebbe usato una pistola» concluse Jean. Poi esitò un attimo, riflettendo sulle mie parole, e con espressione torva aggiunse: «Come ho già detto, è una storia brutta e intricata…».
«Rappresenti i genitori di uno dei bambini morti?».
«Ah, già, questo è un altro punto importante. La banda ha scelto attentamente i piccoli da rapire, non ha lasciato niente al caso. Cinque su dodici erano orfani e vivevano in istituto. Gli altri erano figli di profughi e di persone povere. Le famiglie non avevano né i mezzi materiali né la posizione sociale per andare in fondo alla questione».
«Allora per chi lavori?».
«Sono l’avvocato di una famiglia camerunese che ha chiesto asilo in Belgio. Sapendo che sono un esperto di crimini contro i minori, un mio amico che fornisce assistenza legale ai rifugiati ha consigliato alla famiglia di incontrarmi. Ho esaminato il caso e ho deciso di occuparmene gratuitamente. In dieci anni non abbiamo fatto un solo passo avanti. Speravamo di risolvere la faccenda, ma…». Sospirò desolato. «A questo punto…».
Mi nascosi dietro il bicchiere di birra. «Hai parlato di un bambino tedesco».
«Sì, il primo».
«Viveva anche lui in istituto?».
Jean era talmente preso dalla storia che non volle nemmeno sapere come mai ero interessata a un bambino in particolare.
«No, stava dalla nonna» rispose con la testa fra le mani. «I genitori abitavano a Seul. La madre era tedesca e il padre coreano. Erano gli unici che non avrebbero dovuto rassegnarsi al destino del figlio, invece non si sono preoccupati molto per lui. Si sono rivolti a un investigatore privato, ma naturalmente non è servito a nulla. Il bambino aveva sei o sette anni quando è stato ucciso».
«Ricordi come si chiamava?».
«Certo che sì! Ricordo il nome di tutti quelli che sono scomparsi! Lui si chiamava Peter».
Accesi un’altra sigaretta.
«Per caso abitava in un villaggio sul Reno?».
«Sì, se vogliamo chiamarlo villaggio. Aveva un nome strano. Un attimo…». Con un cenno della mano ci chiese di fare silenzio, in modo da potersi concentrare.
«Pfaffenheck!» esclamò dopo qualche secondo. «Sì, abitava a Pfaffenheck. E sua madre si chiamava Gudrun Kim. Più della metà dei coreani si chiama Kim. L’ho scoperto lavorando al caso».
«Quindi il bambino era mezzo asiatico e mezzo tedesco».
«Esatto. Ma secondo me non aveva niente di asiatico». Fece spallucce e si grattò dietro l’orecchio. «Non importa, certe cose riguardano solo marito e moglie».
«La madre si chiamava Gudrun» ripetei, pensando ad alta voce. «E adesso? Cosa succederà?».
«Niente. Ora che Müller è morto, non c’è più speranza di far luce su questi omicidi. Lui era la punta dell’iceberg. Secondo l’uomo che è stato ucciso in prigione, era proprio Müller a stabilire i contatti. Ciò significa che conosceva anche gli altri membri della banda». Mi guardò mestamente. «Tutti i miei sforzi sono stati inutili».
«Allora è finita?».
«Se il regista avesse parlato, forse avremmo fatto progressi. Forse saremmo arrivati a qualcun altro. Adesso non si può più fare niente. Non leggo neanche più gli articoli sull’omicidio di Müller. È finita». Fece una pausa. «Quasi mi dispiace che sia morto» ammise, poi buttò indietro la mano, come per gettarsi tutto alle spalle.
«Okay» disse, dando una pacca a Selim «ora possiamo cambiare argomento».

Per il resto della serata aprii bocca solo per rispondere alle domande. A differenza del giorno prima, Selim non dovette insistere per accompagnarmi a casa: ero troppo stanca e distratta per certi giochetti.
Quando il taxi arrivò a destinazione, i miei pensieri erano ancora concentrati su Petra e Peter. «Domani devo alzarmi alle sette» disse lui, ma ovviamente non capii.
«Metti la sveglia».
«Veramente ti stavo spiegando perché non posso salire. La nostra prima notte deve essere speciale. Dobbiamo almeno fare colazione insieme il giorno dopo».
Forse fu proprio il suo atteggiamento a richiamarmi alla realtà. «Non importa. Se stanotte andrà bene, avremo molte altre occasioni per fare colazione insieme».
La mattina dopo Selim si alzò davvero alle sette. Io continuai a rigirarmi nel letto. Avevo pensato a diverse frasi, ma nessuna mi era piaciuta. Cosa dovevo dire a Petra?

Non dissi molto. O meglio, dissi tutto, ma in poche parole.
«So chi ha ucciso Müller».
«Allora non chiamare me, chiama la polizia!».
«Non voglio chiamare la polizia».
«Perché no?».
«Perché hai già sofferto abbastanza. Non voglio che tu finisca in prigione. Voglio solo che tu sappia che ti capisco».

Rimisi il telefono al suo posto, alla testa del letto, e tirai fuori dalla valigia il mio vestito più bello. Sentivo il bisogno di andare da mia madre.

10






Tre giorni più tardi presi un aereo per raggiungere Maiorca e ricoverare mia madre in un istituto per anziani. Selim, invece, tornò a Istanbul per sistemare un paio di cose. Quando ci incontrammo di nuovo a Berlino per andare insieme in Marocco, avevo già trascorso una settimana con mia madre e non avevo più voglia di fare vacanza.
Ero innamorata. Non stupitevi, quindi, se vi dico che la mia svogliatezza scomparve come per incanto la prima mattina ad Agadir. Nonostante tutte le creme ad alta protezione, durante la vacanza non trascorsi molto tempo al sole. Non avevo nessuna intenzione di invecchiare precocemente. Alla fine, vedendo il segno del bikini sul mio corpo, capii che mi ero comunque abbronzata.
Quando tornai a Istanbul, dopo tre settimane di assenza, scoprii che Pelin aveva mandato avanti il negozio senza difficoltà. A dimostrazione del fatto che le cose funzionavano anche senza di me, gli affari erano andati a gonfie vele mentre ero via.
Lale non aveva dato le dimissioni, ma era stata allontanata dal «Günebakan» con una bella liquidazione. Voleva andare a Cuba e rimanerci per un po’. Al ritorno non avrebbe più lavorato come giornalista. Solo il cielo sapeva cosa avrebbe fatto.
Nell’agenzia pubblicitaria di Yılmaz c’erano stati dei licenziamenti. Per fortuna il mio amico era considerato «indispensabile» e quindi non aveva perso il lavoro. Venni a sapere che gli avevano ridotto lo stipendio, ma lui continuò a comportarsi come se niente fosse. Diceva che la borsa di Istanbul era in ripresa. Il sabato seguente, alla solita sala da tè all’aperto di Firuzağa, pagò anche per me.
E Fofo? Era ancora innamorato. In mia assenza aveva portato via tutte le sue cose e aveva ridato la chiave dell’appartamento al padrone. Incredibile! Ma potevo anche sopportarlo.
A casa trovai un messaggio di Batuhan. Presi un bello spavento: avrebbe potuto sentirlo anche Selim e non sapevo come avrebbe reagito. Con gli uomini turchi non si sa mai.
Non chiamai più Petra. E lei non chiamò me. Eravamo tornati dal Marocco da un paio di giorni e stavamo facendo colazione quando, leggendo il giornale ad alta voce, Selim mi informò che la troupe si trovava ancora a Istanbul. Il mio nuovo amante era un assiduo lettore di quotidiani.
Quanto a Mesut Mumcu, ero sicura che sarebbe rimasto in prigione. E se anche fosse uscito, non si sarebbe certo ricordato di me. Sì, dopo avermi dato buca mi aveva fatto chiamare per scusarsi, ma solo perché era un gentiluomo. O no?

Tarli e un altro paio di cosette...






Selim si trovava a Adana da tre giorni. Per lavoro. Tra imprese che fallivano e crac bancari, era sempre molto impegnato. La sua segretaria lo vedeva più spesso di me. Lui si giustificava dicendo che in tempi di crisi gli avvocati hanno molto da fare perché aumentano i debitori insolventi, gli scassinatori, i borsaioli, i casi di corruzione e i divorzi.
Le sue assenze non erano un problema: qualche piccola separazione fa bene al rapporto, e inoltre – lo devo ammettere – sapevo come ingannare il tempo quando lui non c’era. Tuttavia, le ciabatte arancioni con il fiocco civettuolo che avevo comprato di recente in saldo mi avevano lasciato un po’ indifferente. Avevo l’impressione che il mio cuore fosse cinto da un muro… Un grosso tarlo mi rodeva il cervello.
Ora vi starete chiedendo cosa c’era che non andava. Sinceramente, non lo sapevo neanch’io. Avevo un negozio ben avviato, un uomo di cui ero entusiasta e diversi amici che dividevano con me gioie e dolori. Cos’altro potrebbe desiderare una donna alla soglia della mezza età? Forse qualche ruga in meno, qualche grammo di cellulite in meno, ma non voglio fare quella che pensa solo a rughe e cellulite.
Qualunque cosa si dica di me, non sono così vanitosa.
Non capite di cosa sto parlando? Lo so, vi devo una spiegazione.
C’è di mezzo Juan Antonio Pérez Domínguez, altrimenti detto Fofo. Una persona che fino a poco tempo fa aveva un ruolo centrale nella mia vita.
Per cominciare dall’inizio devo tornare indietro di qualche giorno.

Il passaggio tra inverno ed estate era avvenuto in modo così rapido che usare il termine «primavera» sarebbe un’esagerazione. Fofo si era innamorato ed era svanito nel nulla. Non si era più fatto sentire.
Giovedì, verso le cinque, in negozio c’era un pandemonio. I turchi se ne fregavano della crisi e continuavano a comprare un sacco di gialli. All’improvviso, sulla porta apparve lui.
Potete immaginare la mia gioia.
Fofo mi spiegò che si era trasferito da Alfonso, a Büyükada. Non tornava quasi mai a Istanbul, per questo non era venuto a trovarmi prima. Per chi non lo sapesse, Büyükada non è un’isola sperduta nel Mediterraneo; si trova nel Mar di Marmara, proprio davanti a casa nostra, a circa mezz’ora di aliscafo dalla città. Per quanto mi riguarda, non prenderei mai uno di quei cosi, mi verrebbe un attacco di claustrofobia. Anche se gli aliscafi sono più veloci, preferisco viaggiare sui battelli a vapore, con il vento tra i capelli, bevendo tranquillamente il mio tè. Ma questa è un’altra storia.
Visto che Fofo era tornato, decisi di non farmelo scappare. Chiamai subito Selim e gli chiesi di prenotare un tavolo per la sera; avremmo cenato tutti insieme. Conoscendo la sua predilezione per le kebaberie dei quartieri più poveri, come per esempio Eminönü, gli dissi chiaro e tondo che volevo un ristorante dignitoso.
Però non è giusto citare Eminönü definendolo semplicemente un quartiere povero, in fondo contiene la piazza più stupefacente di tutta Istanbul. Piazza che purtroppo è caduta vittima dell’amministrazione comunale e del modo turco di intendere l’urbanistica. Oggi rappresenta solo una fermata d’autobus centrale, ma anche questa è un’altra storia.

L’appuntamento con Alfonso e Selim era per le otto al ristorante giapponese di Elmadağ. Volevo lasciare al più presto il negozio per tornare a casa, fare la doccia, cambiarmi d’abito… Un desiderio perfettamente comprensibile, no?
Ma Fofo mi chiese di non andare a casa. Voleva che facessimo quattro chiacchiere nel giardino della sala da tè di fronte. In realtà non si limitò a chiedere; insistette, perse la pazienza e alla fine diventò offensivo. Perché non potevo andare a cena con quello che indossavo al lavoro? Non c’era niente di male. I miei atteggiamenti da borghese l’avevano proprio stufato. Non potevo preoccuparmi solo dell’eleganza, della pancia floscia, della pelle secca… C’erano cose più importanti a cui pensare. Tutto il mondo parlava dell’attacco terroristico alle Torri Gemelle, da un momento all’altro sarebbe scoppiata una grande guerra, ma io avrei continuato a occuparmi delle solite sciocchezze. Ero davvero noiosa. Con me era impossibile fare un discorso sensato. Ne ero consapevole?
Come potete immaginare, ottenne subito una risposta: non saremmo andati a cena e non avrei fatto conoscenza con Alfonso.

No, il mio malumore non aveva niente a che fare con questo litigio, né il tarlo che mi rodeva il cervello. Non posso costringere nessuno a essere mio amico, non posso cambiare alla mia età, non posso frequentare persone sgarbate e offensive che disprezzano tutto.
Non stavo così perché mi dovevano arrivare le mie cose, anche se Selim non perde occasione per affermare il contrario. Lui fa parte di quella schiera internazionale di uomini che usano la «teoria delle mestruazioni» per spiegare tutto ciò che non capiscono delle donne. A dire il vero, gli uomini di questo tipo mi sono particolarmente simpatici…
Comunque, torniamo alla faccenda del tarlo… È un’abitudine che ho fin da bambina: se non voglio affrontare un certo argomento, continuo a girarci intorno. In pratica sono un esempio vivente del fatto che le persone non cambiano.

Okay, riprendiamo il discorso del tarlo…
Devo spiegarvi com’è nato.
(Breve pausa).
Forse c’è un tarlo anche nella vostra testa. Se è così, avrete già capito tutto. In caso contrario… Non voglio annoiarvi continuando a girarci intorno, non voglio rubarvi tempo, voglio solo dire quello che devo dire.
Il fatto che Petra avesse concepito un perfetto piano criminale e che avesse confessato l’omicidio senza tentare minimamente di difendersi mi inquietava. L’inquietudine si era trasformata in un gigantesco tarlo che mi rodeva il cervello.

(Nota per una parte dei miei cari lettori: se la metafora del tarlo non vi piace, potete sottopormi le vostre proposte scrivendo all’indirizzo katihirschel@web.de. I suggerimenti dati di persona in negozio non saranno presi in considerazione. Siete avvisati).

Il giorno dopo la lite con Fofo mi recai in libreria con l’espressione risoluta di chi ha un nuovo scopo nella vita. Come molte altre volte nell’ultimo periodo, non avevo dormito. Ma ero di buonumore. Alzai subito la cornetta e chiamai Muazzez Hanım, la donna che aveva il numero di telefono di Jean. La signora Muazzez era la segretaria di Selim.
Cinque minuti più tardi all’altro capo della linea c’era Jean. «Mi ricordo di te» disse, interrompendo la mia presentazione.
«Io… vorrei chiederti una cosa… Ti sembrerà strano, ma…».
«Vuoi la verità?».
Quale verità?
«Che vuoi dire?».
«Niente mi sembra più strano del fatto che una donna come te si sia messa con Selim».
Mi schiarii la voce tossicchiando.
«La sera che abbiamo cenato insieme a Berlino e abbiamo parlato degli omicidi… Mi sembra di aver capito che hai informazioni su tutti i bambini uccisi e sulle loro famiglie».
«Mmh».
«Potresti mandarmi tutto quello che hai via fax?». Sapevo che era una richiesta un po’ particolare.
«Non ti chiederò perché ti interessa tanto questa storia» rispose lui in tono serio. «Decidi tu se dirmelo o meno».
«Preferirei non dirtelo. Spero che questo non ti impedisca di aiutarmi».
Silenzio. Trattenni il fiato e aspettai.
«Okay, ti darò la pratica. Ma…».
«Ma?».
«Con il fax ci vuole troppo tempo. Noi archiviamo tutto nel computer. Se hai un indirizzo e-mail, ti faccio mandare i documenti di cui hai bisogno».
Gli diedi lo stesso indirizzo che ho appena dato a voi, cari lettori. Dieci minuti dopo nella mia casella di posta elettronica c’era una pratica di centottantatré pagine: verbali di polizia e atti di tribunale, alcuni in francese, altri in tedesco, altri ancora in lingue che non conoscevo; documenti con e senza traduzione… Dovevo spulciare tutto e trovare quello che mi serviva.
Ce la potevo fare.
Lasciai il negozio e i clienti nelle mani di Pelin e tornai a casa.

Lessi i documenti in tedesco, tentai di capire quelli in francese e mi sforzai di dare un senso a quelli in olandese. E intanto presi appunti. Quando finii con l’ottavo bambino rapito e ucciso, era ormai buio; la maggior parte della gente stava dormendo da un pezzo. Avevo il cuore gonfio di dolore per ciò che avevo letto, ero affamata, per tutto il giorno ero rimasta seduta alla scrivania, mi faceva male la schiena, ero a metà del secondo pacchetto di sigarette e non avevo ancora trovato niente che potesse scacciare il mio tarlo.
Quello che stavo cercando era sicuramente in una delle centottantatré pagine che avevo davanti.
Passai al nono bambino.
Il piccolo era stato rapito da un ricovero per richiedenti asilo a Krefeld.
Data di nascita… Al momento della scomparsa non aveva neanche cinque anni. Neanche cinque anni!
Rabbrividii. Era la vittima più giovane. Mi portai una mano alla fronte; era un miracolo che non mi fosse ancora venuto il mal di testa. Accesi un’altra sigaretta e continuai la lettura.
Luogo di nascita: Sofia.
Parenti…
La madre.
Sul documento c’era solo lei, il padre non era indicato.
Nome della madre: Mitka Marinova.
La sua richiesta d’asilo era stata respinta dalle autorità tedesche e una settimana prima del rimpatrio suo figlio era stato rapito.
Indirizzo della madre: ž.k. Liulin, bl. 54 (vh. 7), et. 3, 1342 Sofia, Bulgaria.
Telefono: (++359 2) 292 44 76.

Uscii per mangiare un toast da Bambi.

La mattina dopo mi svegliai distrutta nel corpo e nello spirito. I dettagli che avevo appreso mi avevano impedito di passare una notte tranquilla. Nonostante mi fossi lavata i denti, avevo ancora in bocca un sapore di ruggine. Era sabato, ma non avevo voglia di vedere Yılmaz e di fare quattro chiacchiere in allegria.
Lo chiamai per cancellare il nostro appuntamento.
Prima di rimettermi al computer, andai in cucina per preparare un caffè e riprendere coraggio.
Mentre aspettavo che l’acqua bollisse, ebbi un’illuminazione.
All’improvviso tornai col pensiero a tre mesi prima, a un giorno di giugno talmente caldo da far sudare anche i piccioni. Quel giorno, a Yeniköy, avevo salito i gradini che conducevano a una villa sul mare. Appena varcata la soglia, ero stata accolta da una deliziosa frescura e da un forte odore di cose antiche. Ero entrata nel salone. Volevo sedermi fuori, non in quell’enorme stanza piena di oggetti, ma prima che potessi uscire in veranda…
Non ero sola.
Con me c’era una domestica vestita di bianco. Spiegandomi come aveva imparato il turco, aveva detto: «Sono arrivata dalla Bulgaria e ho cominciato subito a lavorare qui».
«Sono arrivata dalla Bulgaria». Dalla Bulgaria!
Mi spostai nello studio per fare una telefonata. Avevo la sensazione che fosse una cosa stupida. E ora lo penserete anche voi, cari lettori sani di mente.
Composi il numero che avevo copiato dalla pratica.
Si udì un clic. Con il cuore che batteva all’impazzata, rimasi in trepidante attesa. Ma non riuscii a prendere la linea.
Schiacciai il tasto di richiamata.
Per un attimo il mio pensiero andò all’acqua che bolliva allegramente in cucina. Ancora una volta non presi la linea.
Anziché premere di nuovo il tasto, ricomposi il numero personalmente. Avrei dovuto prima bere il caffè?
Aspettai un momento. Proprio come nei film, quando stavo per riagganciare sentii uno squillo tremolante. Stava suonando. E se avessero risposto? Che cosa dovevo dire? In quale lingua?
In effetti qualcuno rispose. «Good morning» dissi. «Do you speak English?». E subito dopo: «Deutsch?».
La donna replicò in bulgaro.
Avrei potuto elencare tutte le lingue che conoscevo, ma decisi di andare dritta al punto. «Mitka Marinova».
Lei continuò a parlare in bulgaro.
«Mitka!» ripetei alzando la voce, come se il problema fosse che non riuscivamo a sentirci.
Dall’altra parte non giunse risposta. Cercai con lo sguardo il pacchetto di sigarette che avevo lasciato sulla scrivania.
«Pronto, chi parla? Cerca Mitka?» domandò una voce maschile. In tedesco!
«Sì, sono una sua amica. Ci siamo conosciute in Germania. A Krefeld».
«Mitka non è a Sofia. Lavora in Turchia».
Feci un respiro profondo.
«C’è un numero di telefono a cui posso contattarla? Eravamo buone amiche. È da tanto che non ho più sue notizie. Magari le ha parlato di me. Mi chiamo Tina. Sono ghanese». Non chiedetemi se in Ghana ci sono donne che si chiamano Tina, non ne ho idea. Di sicuro non lo sapeva neanche l’uomo al telefono.
«Sì» disse. Poi mi diede il numero.

Non chiamai subito. Mi concessi un po’ di tempo per bere due tazze di caffè e fumare qualche sigaretta.

«Adana ti ha fatto bene» osservai.
Lui sorrise e guardò l’orologio.
«Andiamo, altrimenti faremo tardi».
Selim mi lasciò davanti al caffè di Yeniköy e proseguì per l’ufficio.
Attraversai la porta malandata ed entrai nel locale. Le due donne erano sedute a un tavolo nell’angolo. Al posto della divisa bianca la domestica indossava un maglioncino di cotone giallo. I capelli erano raccolti, proprio come il giorno di giugno in cui ci eravamo viste per la prima volta. Si era messa un fard scuro, ben visibile anche da lontano.
Mentre mi avvicinavo, osservai la donna accanto a Mitka. Aveva un naso importante, labbra grandi e occhi enormi. Ad attirare l’attenzione, però, era soprattutto la sua camicetta leopardata. Si sfregò le braccia. Forse aveva capito che la stagione delle camicie di seta senza maniche era passata…
Mi fermai vicino al tavolo. Era chiaro che nessuna delle due aveva intenzione di darmi la mano. «Buongiorno» dissi e mi accomodai sulla sedia di legno.
Mentre tiravo fuori sigarette e accendino, mi accorsi che stavano esaminando ogni mio dettaglio: lo smalto sulle unghie, il modo in cui prendevo la borsa e la appendevo al bracciolo della sedia, la pettinatura, il colore dell’ombretto che avevo applicato sulle palpebre in tutta fretta…
«Avete già fatto colazione?» domandai.
Entrambe rimasero in silenzio.
Mi rivolsi alla donna con la camicetta leopardata. «Noi due non ci conosciamo».
«So bene chi è lei».
«Ma io non so chi è lei».
Per tutta risposta, la sconosciuta alzò una mano e con un cenno chiamò un uomo che stava vicino alla porta. Quello arrivò di corsa.
«Sì, Abla?».
«Portami un golfino, Necmi. Sto gelando!».
«Subito, Abla».
Socchiusi gli occhi e la fissai.
«Yakut».
Ero agitatissima!
«Allora, perché voleva incontrare Mitka?». Il suo tono era così ostile che mi sembrò opportuno replicare.
«Non sono una nemica» dissi, scuotendo il capo. Poi sorrisi alla domestica. «Volevo solo parlare».
Stupida! Avevo fatto marcia indietro. Non era proprio il momento di perdersi in convenevoli.
Ordinai un caffè semplice.
«So che hai parlato con Petra» continuò Yakut. «Lei è fuori dalla tua portata e così hai deciso di provare con Mitka. Credevi che sarebbe stato facile, vero? Beh, ti informo che questa cosa non riguarda solo loro due. Sono coinvolta anch’io!». Picchiò la mano scura e ossuta sul tavolo. La bottiglia d’acqua che aveva davanti si rovesciò e sparse il suo contenuto sulla tovaglia con la pubblicità della limonata Uludağ. Yakut spostò la sedia un po’ più indietro.
«Non ci faremo ricattare!» sibilò.
«Ma io non voglio ricattare nessuno».
«Meglio per te!».
Mi guardai intorno. Il locale era pieno di famiglie con bambini e di giovani che erano venuti per il mercato.
«E se proprio devi confidarti con quel pappamolle di avvocato che frequenti…».
Non so perché mi arrabbiai. Forse perché aveva dato del pappamolle a Selim. O perché credeva che avessi bisogno del suo aiuto.
Veloce come il lampo, mi piegai in avanti, afferrai con la destra il colletto leopardato e tirai verso la tovaglia bagnata. Il mento di Yakut finì sulla mia mano.
«Pappamolle sarai tu!» esclamai, avvicinando la sua faccia alla mia.
«E stai attenta a come parli!». Con la sinistra la presi per i capelli, poi mollai il colletto e le schiacciai il viso sul tavolo. Mitka scattò in piedi e lanciò un urlo. Sentendo qualcuno che si avvicinava di corsa, la lasciai andare. Lei si abbandonò sulla sedia con il volto sfigurato dal dolore. Si teneva il naso, ma era il labbro a sanguinare.
«Yakut Abla!». Accanto al tavolo c’era un uomo in completo nero. Un altro, non Necmi. Mi fissò in attesa che la sua padrona desse un ordine.
«Non è niente» lo tranquillizzò Yakut. «Puoi andare». Subito dopo ci ripensò. «Aspetta! Porta a casa Mitka».
Non appena i due se ne furono andati, si alzò con una mano sulla bocca e si diresse verso la toilette.
Io accesi una sigaretta.

Quando Yakut tornò, stavo sorseggiando il mio caffè.
«Come sto?» chiese sedendosi.
Non risposi.
«Come sto?».
«Meglio di prima».
«A quanto pare non sono riusciti a trovarmi un golfino». Si sfregò le mani sulle braccia con movimenti rapidi, tentando di scaldarsi.
Per poco non le offrii il mio pullover. Ero terribilmente dispiaciuta. Le avevo rotto il labbro.
«Vogliamo andare?». Nel locale l’atmosfera era cambiata. Gli altri clienti avevano interrotto i loro discorsi e avevano fissato gli occhi su di noi. Non c’era da stupirsi. Io avrei fatto la stessa cosa.
«No, ancora un attimo» rispose lei. Evidentemente aveva bisogno di tempo per riprendersi.
«Vuoi un tè?».
«Preferirei un caffè senza zucchero».
Con la mano chiamai il cameriere, che non ci aveva staccato gli occhi di dosso neanche per un istante. Ordinai due caffè senza zucchero.
«Sei strana» disse Yakut. Era forse un complimento?
«Anche tu sei strana. Ma come sei finita in questa storia?».
Lei fissò un punto in lontananza, assorta nei suoi pensieri. «Come sono finita in questa storia?» ripeté sottovoce.
No, non era questo che volevo chiedere. Conoscevo già la risposta, o almeno la potevo immaginare. Yakut era chiaramente una donna di sani principi che aiutava come poteva le persone cui era vicina.
«Per chi l’hai fatto? Per Mitka?». Il suo sguardo assente si posò su di me. Era arrivato il momento di mettere le carte in tavola. «Non dirò niente alla polizia, sono solo curiosa. Se non vuoi raccontarmi com’è andata, non importa».
Yakut alzò le spalle. «So che non dirai niente alla polizia». Fece una pausa. «Mitka lavora in casa di mio fratello».
«Sì, lo so».
«Si vedeva che le era successo qualcosa di terribile».
E Mesut? Era coinvolto anche lui?
«Mesut e Yusuf sono…». Non riuscii a terminare la frase.
«No, era una cosa da donne» spiegò lei, sorridendo. «L’asciugacapelli è un’arma femminile».
«Hai ragione, è un’arma femminile…». Ringraziai il cameriere che aveva portato il caffè. «Chi l’ha buttato nella vasca?».
Yakut indicò le sigarette, come per chiedermi il permesso. Le offrii il pacchetto.
«Vi sarete bagnate».
Guardando le sigarette, scoppiò a ridere.
«Secondo te, chi l’ha buttato nella vasca?».
«Petra» risposi serissima.
Lei inarcò le sopracciglia e annuì. «Brava».
«Hai organizzato tutto».
«Già, ed è stata una bella fatica. Per prima cosa ho dovuto convincere quel fannullone di mio marito a diventare produttore cinematografico. Poi ho fatto in modo che il ruolo fosse affidato a Petra, anche se c’erano altre attrici più adatte».
«E Mitka?».
«Beh, se non fosse stato per lei, non avrei mai saputo di Kurt Müller».
«Come sei arrivata a Petra? Come hai scoperto che tra le vittime c’era anche suo figlio?».
«Ci sono agenzie investigative molto discrete».
«Ma nessuno sapeva che Peter era il figlio di Petra».
«Pensaci un attimo, cara. Ti sembro il tipo di donna che crede alla storia della sorella che vive in Corea?».
Guardai i suoi grandi occhi, il suo grande naso, la sua grande bocca.
«No. Assolutamente». Guardandola di nuovo negli occhi, aggiunsi: «Sto sudando. Vuoi il mio pullover?».

«Sicura di non voler un passaggio per tornare a casa?». Mentre l’autista le teneva la portiera aperta, Yakut era entrata nella sua auto di lusso.
«Non serve, prenderò un taxi».
«Sai, non mi era mai successa una cosa del genere». Si sfiorò il labbro. «E poi dicono che i tedeschi sono vigliacchi!».
«Ho perso il controllo».
«Se non fossi così bella, probabilmente non ti avrei perdonato».
«Per carità, non tocchiamo l’argomento bellezza. Alla mia età dovrei cominciare a mettermi in testa che non è poi così importante».
«Secondo me, puoi aspettare ancora un po’» disse Yakut.