sabato 7 settembre 2024

DETERMINATI Robert Sapolsky

 


DETERMINATI

Robert Sapolsky

Capitoli 1-6

Recensione

Gianfranco Giudice

Ci sono libri che ti costringono a pensare o ripensare meglio cose già pensate. Per me durante l'estate questo affascinante volume lo è stato sicuramente. Prima della scienza già grandi filosofie come lo stoicismo, Spinoza, Nietzsche hanno negato la libertà intesa come libero arbitrio. Sulla base di un preciso, complesso ma chiaro percorso Sapolsky spiega nei termini delle neuroscienze che l'idea di libertà intesa come pieno controllo, capacità di decidere arbitrariamente anche solo in piccola parte delle nostre azioni, è illusoria, magica. Seppure tutto ciò che facciamo non possa essere previsto, essendo le variabili, genetiche e ambientali, tantissimie e gli intrecci assai complessi, questo non vuol dire che quel che facciamo ora non sia sempre determinato da cause precedenti. Non esistono vuoti nella catena di cause-effetti in cui si possa inserire una creazione dal nulla. Le tesi fondate scientificamente del libro sono una sfida per la filosofia, rifiutate da molti pensatori contemporanei con cui Sapolsky stesso discute criticamente. Lo stesso autore deve tuttavia ammettere che, seppure infondata scientificamente, la convinzione di essere liberi, dunque responsabili, colpevoli o meritevoli per quel che facciamo, è saldissima, difficilmente scalfibile, come se quell'idea fosse stata selezionata nell'evoluzione della nostra specie per i vantaggi che ci dà in termini di sopravvivenza. L'autore ne discute gli effetti spesso negativi e disumani nel giudicare gli uomini, facendo anche esempi storici illuminanti come quello dell'epilessia. Dopo secoli si è capito che si trattava di una malattia neurologica smettendo così di trattare l'epilettico come uno posseduto dal demonio. Pensiamo anche a vari tipi di patologie psichiatriche nel passato considerate diaboliche e poi riconosciute come disfunzioni del cervello. Il punto è che pure nelle persone "normali" il cervello funziona come una sofisticatissima macchina. Per parte mia posso dire di avere trovato nel libro di Sapolsky fondati argomenti a conferma della tesi del grande filosofo Immanuel Kant che due secoli e mezzo fa sosteneva che noi uomini non possiamo rinunciare, per essere uomini, all'idea di libertà, al pensarci liberi, nonostante quell'idea sia totalmente indimostrabile scientificamente. Insomma la libertà intesa come libero arbitrio, piena responsabilità, è per noi solo qualcosa a cui non possiamo/riusciamo rinunciare a credere, nonostante le evidenze.

DETERMINATI

1. Tartarughe all'infinito

2. Gli ultimi tre minuti di un film

3. Da dove trae origine l'intenzione?

4. Volere la forza di volontà Il mito della tenacia

5. Una guida introduttiva al caos

6. Il libero arbitrio è caotico?

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1.

TARTARUGHE ALL’INFINITO

Ai tempi del college, nel gruppo di amici di cui facevo parte, circolava un aneddoto. Il nostro racconto era talmente ritualistico che, oggi, a quarantacinque anni di distanza, sono indotto a pensare che si approssimi alla versione letterale. Quella storia si dispiegava proprio così:

Un giorno, William James stava tenendo una conferenza sull’origine della vita e sulla natura dell’universo. Al termine del discorso, una donna anziana si avvicinò e gli disse: “Professor James, quel che ha descritto è tutto sbagliato.”

A quel punto, James, mostrando un certo stupore, le chiese: “In che senso, signora?”

“Le cose non stanno affatto come ha appena detto”, rispose lei. “Il mondo giace sul dorso di una gigantesca tartaruga.”

“Mmm”, commentò lui, divertito. “Può darsi, ma su cosa si regge quella tartaruga?”

“Sul dorso di un’altra tartaruga”, rispose lei.

“Ma, signora,” replicò James con indulgenza “su cosa poggia le zampe quella seconda tartaruga?”

In quel momento, l’anziana donna rispose trionfante: “Eviti di insistere, professor James. Ci sono tartarughe all’infinito!”[*]

Oh, come amavamo quella storia, che raccontavamo sempre con lo stesso tono. Pensavamo che ci facesse apparire arguti, incisivi e interessanti.

Impiegavamo quell’aneddoto come una forma di derisione; una sorta di critica peggiorativa nei riguardi di qualcuno che si “aggrappava”, in modo incrollabile, all’illogicità. Ci saremmo ritrovati nel refettorio, qualcuno avrebbe detto qualcosa di insensato e, poi, la sua replica alla confutazione avrebbe complicato le cose. Inevitabilmente, uno di noi avrebbe infine proferito, con sufficienza: “Eviti di insistere, professor James!” A quel punto, la persona, che aveva sentito raccontare, infinite volte, il nostro stupido aneddoto, avrebbe invariabilmente risposto: “Fanculo, ascolta e basta. Questo ha perfettamente senso.”

Ecco qual è la questione fondamentale che considero in questo libro: per quanto possa sembrare ridicolo e insensato dar conto di qualcosa, ricorrendo a un’infinità di tartarughe che poggiano l’una sull’altra, in realtà è molto più ridicolo e insensato credere che, da qualche parte, là in fondo, ce ne sia una che fluttua nell’aria. La scienza che studia i comportamenti degli esseri umani mostra che le tartarughe non possono fluttuare nell’aria: c’è davvero una sequenza di tartarughe che si dispiega all’infinito.

Ebbene, qualcuno si comporta in un certo modo. Forse, quella manifestazione comportamentale ci pare meravigliosa, ispiratrice, magari ci sembra solo ripugnante – può darsi che questo dipenda dall’“occhio di chi guarda” –, oppure è semplicemente banale. Nondimeno, ci poniamo, alquanto frequentemente, la stessa fondamentale domanda: perché si è manifestato quel comportamento?


Se credete che le tartarughe possano fluttuare nell’aria, l’unica risposta possibile è che, evidentemente, è accaduto, che non c’era altra causa al di là del fatto che quella persona abbia semplicemente deciso di manifestare quel comportamento. Tuttavia, la scienza ci ha recentemente offerto una risposta molto più accurata. È bene precisare che, quando dico “recentemente”, mi sto riferendo agli ultimi secoli. Tale risposta è che quel comportamento si è manifestato perché qualcosa, che lo ha preceduto, l’ha determinato. E perché si è verificata quella circostanza antecedente? Perché qualcosa che la precedeva, a sua volta, l’ha causata. Lungo questa sequenza, c’è una serie infinita di fattori causali, giammai una tartaruga fluttuante, né un particolare fatto che non consegua da altro. Oppure, come canta Maria nella versione originale di Tutti insieme appassionatamente, “Nothing comes from nothing, nothing ever could (Niente viene dal niente, niente potrebbe mai).”[*]


Tanto per ribadire, vi comportate in un certo modo, ovvero il vostro cervello vi induce a porre in essere quella manifestazione comportamentale, in ragione della causa, intesa in senso deterministico, che si è concretizzata appena prima, la quale è stata prodotta da quella occorsa nell’immediata precedenza, e così via, lungo tutta la serie che si dispiega all’infinito. L’intento che mi ha indotto a scrivere questo volume è mostrare come funziona quel determinismo, considerare in che modo la biologia, su cui non avevate alcun controllo, interagendo con l’ambiente, un altro fattore che non padroneggiavate, vi abbia reso quel che siete. Quando le persone affermano, facendo riferimento al “libero arbitrio”, che ci sono cause, in relazione al vostro comportamento, che non sono conseguenza di altre, (a) non sono state in grado di riconoscere, oppure non sanno, che il determinismo si nasconde sotto la superficie e/o (b) hanno concluso, erroneamente, che gli eventi sublimi dell’universo, i quali funzionano in modo indeterministico, possono dar conto della vostra personalità, della vostra dimensione morale e del vostro comportamento.


Una volta che assumete l’idea che ogni aspetto del comportamento dipenda da cause deterministiche precedenti, ne osservate le manifestazioni e potete produrre argomenti in merito alle ragioni per le quali si sono concretizzate. Come abbiamo appena indicato, ciò dipende dall’attività dei neuroni, negli istanti precedenti, in questa o in quell’altra parte del vostro cervello.[*] Ebbene, nel lasso temporale che va dai secondi ai minuti precedenti, quei neuroni sono stati attivati da un pensiero, da un ricordo, da un’emozione, o da alcuni stimoli sensoriali. Nel periodo che va dalle ore ai giorni antecedenti alla manifestazione di quel comportamento, gli ormoni, veicolati dalla vostra circolazione ematica, hanno dato forma a quei pensieri, a quei ricordi, a quelle emozioni, e hanno anche determinato quanto il vostro cervello si sarebbe rivelato sensibile a particolari stimoli ambientali. Nel lasso di tempo che va dai mesi agli anni ancora precedenti, l’esperienza e l’ambiente hanno cambiato il funzionamento di quei neuroni, inducendone alcuni a sviluppare nuove connessioni, a diventare più eccitabili e, al contempo, determinando l’opposto in altri.


Poi, possiamo tornare indietro di decenni, al fine di identificare cause ancora più anteriori. Per la verità, dar conto delle ragioni per le quali si è verificato quel comportamento implica il riconoscimento del fatto che, nel corso dell’adolescenza, una regione cerebrale davvero fondamentale è ancora in via di sviluppo, essendo modellata dalla socializzazione e dall’acculturazione. Andando ancora più indietro, è necessario considerare le esperienze occorse durante l’infanzia, che hanno plasmato lo sviluppo del vostro cervello, e riconoscere anche che questo stesso argomento vale in relazione all’ambiente fetale al quale siete stati esposti. Considerando un passato ancora più lontano, dobbiamo definire il ruolo svolto dai geni che abbiamo ereditato e, ovviamente, gli effetti che inducono sul comportamento.


Tuttavia, non abbiamo ancora finito; perché ogni evento, nel corso della vostra infanzia, a partire da come siete stati accuditi nei minuti successivi alla nascita, è stato influenzato dalla cultura. Ciò significa dover considerare anche dei fattori ecologici, i quali, nel corso dei secoli, hanno influito sull’ambiente culturale prodotto dai vostri antenati, così come le pressioni evolutive che hanno plasmato la specie a cui appartenete. Perché si è verificato quel comportamento? A causa delle interazioni biologiche e ambientali, che si dispiegano lungo quel percorso che tende all’infinito.[*]


Un argomento fondamentale che informa questo volume è che disponevate di scarso o, addirittura, di nessun controllo su tutte queste variabili. Non potete controllare tutti gli stimoli sensoriali presenti nel vostro ambiente, né le vostre concentrazioni ormonali di questa mattina. Non siete responsabili dell’eventualità che si sia verificato un accadimento traumatico nel vostro passato, e nemmeno dello status socioeconomico dei vostri genitori, dell’ambiente fetale a cui siete stati esposti, dei vostri geni, del fatto che i vostri antenati fossero agricoltori, oppure pastori. Consentitemi di esprimere tale argomento nel modo più ampio possibile, anche se, probabilmente, a questo punto della mia dissertazione, potrebbe apparire eccessivo alla maggior parte dei lettori: non siamo nient’altro che l’esito cumulativo prodotto dalla fortuna biologica e ambientale, sulla quale non esercitavamo alcun controllo, che ci ha determinati in ogni momento. Sarete in grado di ripetere questa frase, nel corso dei vostri sonni agitati, entro il lasso temporale che impiegherete per leggere queste pagine.


D’altra parte, ci sono molti aspetti, relativi al comportamento, che, sebbene siano riconosciuti, non sono rilevanti per gli argomenti che intendo illustrare. Per esempio, il fatto che alcuni comportamenti criminali possano essere conseguenti a problemi psichiatrici o neurologici. Che alcuni bambini manifestino “differenze di apprendimento” a causa del modo in cui funziona il loro cervello. Che certe persone abbiano problemi in relazione all’autocontrollo, perché sono cresciute senza alcun modello di riferimento decente, oppure per il fatto che sono ancora degli adolescenti e, dunque, dispongono, banalmente, del cervello che caratterizza gli individui di quell’età. Si dà anche il caso che qualcuno dica qualcosa di offensivo semplicemente perché è stanco e stressato, oppure in ragione dell’assunzione di un farmaco.


Tutte queste sono circostanze in cui riconosciamo che, a volte, la biologia può incidere sul nostro comportamento. Quelli che ho appena indicato sono ragionevoli esempi di casi, che riguardano gli esseri umani, i quali corroborano certe idee generali, già circolanti nella società, in merito al concetto di agency e di responsabilità personale, ma che vi invitano a considerare anche delle eccezioni in relazione ad alcune condizioni al limite. In altri termini, quando comminano la pena, i giudici dovrebbero tenere conto dei fattori attenuanti relativi al percorso di crescita dei criminali; la pena capitale non dovrebbe riguardare gli assassini minorenni; l’insegnante che elargisce stelle d’oro ai bambini particolarmente bravi nell’apprendimento della lettura dovrebbe fare “qualcosa di speciale” anche per il suo alunno con la dislessia; i responsabili delle ammissioni alle università dovrebbero considerare qualcosa in più del mero punteggio SAT per i candidati che abbiano superato dei problemi e delle difficoltà non comuni.


Queste sono idee sensate, che dovrebbero essere messe in pratica, se ci si accorda in merito al fatto che alcune persone dispongano di molto meno autocontrollo, e anche di una minor capacità di scegliere liberamente le azioni che attuano, rispetto alla media. Lo stesso argomento vale se si riconosce che, a volte, tutti noi abbiamo a disposizione molte meno risorse di quanto immaginiamo.


Possiamo tutti essere d’accordo su tali questioni; tuttavia, noi ci stiamo addentrando in un territorio molto differente, stiamo dicendo qualcosa che, presumo, la maggior parte dei lettori non accetterà: si tratta di riconoscere che non disponiamo affatto del libero arbitrio. Ecco alcune delle implicazioni razionali di questa assunzione: non può esistere qualcosa come la colpa; la punizione, intesa qui come castigo, o come vendetta, è indifendibile – certo, è pensabile tenere lontane le persone pericolose, affinché non possano ledere gli altri, ma si tratterebbe di farlo nel modo più neutrale e non giudicante, come si impedirebbe a una macchina con i freni guasti di circolare per strada. Può essere opportuno lodare qualcuno, o esprimere gratitudine nei riguardi di certe persone; ma si tratterebbe di compiere una sorta di intervento con fini “strumentali”, per rendere più probabile l’eventualità che quegli individui ripetano un certo comportamento in futuro, oppure per offrire ispirazione ad altri, giammai perché si pensi che esista il merito. Ovviamente, ciò vale anche per voi, quando vi siete dimostrati intelligenti, disciplinati, o gentili. Già che ci siamo, aggiungo qualcosa di più: si tratta di riconoscere non solo che l’esperienza dell’amore è fatta degli stessi “mattoni” impiegati per realizzare uno gnu, oppure gli asteroidi, ma anche che nessuno si è guadagnato, oppure ha diritto, di essere trattato meglio, o peggio, di chiunque altro. Perciò, ha tanto senso odiare qualcuno quanto detestare un tornado, perché state supponendo che abbia deciso di radere al suolo la vostra casa. D’altra parte, è altrettanto insensato amare un lillà, perché state presumendo che abbia deciso di propagare nell’aria un meraviglioso profumo.


Questo è ciò che significa giungere alla conclusione che non esiste il libero arbitrio. Questo è anche l’esito della mia riflessione a cui, peraltro, sono giunto, da molto, molto tempo. D’alta parte, anch’io a volte penso che prendere sul serio questa affermazione appaia del tutto folle.


In effetti, le persone, quantomeno la maggior parte, concordano sul fatto che una posizione del genere vada considerata in questo modo. Le loro credenze e i loro valori, il loro comportamento, le loro risposte ai questionari, le loro azioni, in quanto soggetti di studio nell’erigendo ambito di ricerca della “filosofia sperimentale” mostrano che quelle persone credono nel libero arbitrio quando la questione si fa seria. Questa posizione è sostenuta dai filosofi (circa il 90 per cento), dagli avvocati, dai giudici, dai giurati, dagli educatori, dai genitori e, persino, dai fabbricanti di candele. Per la verità, ciò vale anche per gli scienziati, i biologi, e addirittura per molti neurobiologi, quando si arriva al dunque. I lavori condotti da due psicologi, Alison Gopnik, della University of California, Berkeley, e Tamar Kushnir, che lavora alla Cornell University, hanno mostrato che i bambini in età prescolare dispongono già di una solida convinzione in merito a una ben identificabile versione del libero arbitrio. Inoltre, tale credenza è diffusa (sebbene non sia universale) in un’ampia varietà di culture. Insomma, per la maggior parte delle persone, non siamo delle macchine. Una dimostrazione chiara di ciò è rappresentata dal fatto che quando un autista o un’“auto autonoma”[*] commettono lo stesso errore, il primo viene maggiormente biasimato.[1] Peraltro, non siamo i soli a coltivare la fede nel libero arbitrio; come osserveremo in un prossimo capitolo, alcune ricerche indicano che anche altri primati credono all’esistenza di tale facoltà.[2]


In questo volume, intendo perseguire due obiettivi. Il primo è convincervi che il libero arbitrio non esiste,[*] oppure, in subordine, che se ne disponga di molto meno di quanto generalmente si assuma, quando la questione si fa seria. Per ottenere ciò, prenderò in considerazione il modo in cui alcuni intelligenti e raffinati pensatori argomentano a favore del libero arbitrio. Analizzerò le prospettive più diffuse nell’ambito della filosofia, del pensiero giuridico, della psicologia e delle neuroscienze. Cercherò di presentare le opinioni di tali pensatori al meglio delle mie capacità, per poi illustrare per quale ragione ritengo che siano tutti in errore. Alcuni di questi stessi errori nascono dalla “miopia” (impiego qui questo termine in senso descrittivo, non giudicante) conseguente al fatto di concentrarsi esclusivamente su uno specifico ambito della biologia del comportamento. A volte, ciò è dovuto a un impianto logicamente scorretto, come, per esempio, quando si conclude che se non è mai possibile individuare cosa ha determinato X, può darsi che nulla l’abbia causato. Altre volte, gli errori riflettono invece una mancanza di consapevolezza, oppure una errata interpretazione della scienza che si occupa di dar conto del comportamento. Per quanto mi riguarda, mi pare più interessante considerare il fatto che, a volte, gli errori vengono commessi per ragioni emotive, un’evidenza che riflette quanto sia “dannatamente inquietante” pensare che non esista il libero arbitrio. Si tratta di una questione che mi riservo di approfondire tale questione verso la fine del volume. Quindi, il primo dei miei due obiettivi è illustrare perché ritengo che tutti questi pensatori abbiano torto, e anche considerare come la vita si rivelerebbe migliore se le persone smettessero di ragionare come loro.[3]


A questo punto, qualcuno potrebbe chiedermi: “Da dove trae origine questa tua posizione?” Come osserveremo, i dibattiti in merito al libero arbitrio spesso ruotano attorno a questioni piuttosto parcellari: “Un particolare ormone causa effettivamente un comportamento, o lo rende solo più probabile?”, oppure “C’è una differenza tra voler fare qualcosa e aver voglia di voler fare qualcosa?”. Solitamente queste questioni sono fatte oggetto di dibattito tra specialisti estremamente autorevoli. Il mio percorso intellettuale è quello di un “generalista”. Sono un “neurobiologo” che ha lavorato a lungo in un laboratorio, dove si fanno certe cose, come, per esempio, manipolare i geni nel cervello di un ratto per cambiarne le manifestazioni comportamentali. Tuttavia, allo stesso tempo, ho trascorso una parte di ogni anno, per più di tre decenni, studiando il comportamento sociale e la fisiologia dei babbuini selvatici in un parco nazionale, che si trova in Kenya. Alcune delle mie ricerche si sono rivelate pertinenti per comprendere in che modo i cervelli degli adulti siano influenzati dallo stress conseguente alla povertà, a cui si è stati esposti nel corso dell’infanzia. In ragione di tutto ciò, ho finito per trascorrere del tempo con i sociologi. Un altro aspetto del mio lavoro è stato considerato rilevante in relazione ai disturbi dell’umore, un fatto che mi ha portato a frequentare degli psichiatri. Infine, nel corso dell’ultimo decennio, ho coltivato una sorta di “hobby”: si è trattato di offrire la mia collaborazione ai difensori d’ufficio in merito a processi per omicidio, offrendo informazioni, anche alle giurie, sul funzionamento del cervello. Di conseguenza, sono stato una sorta di opportunista in diversi ambiti associati al comportamento. Penso che tutto ciò mi abbia reso particolarmente incline a maturare l’idea che il libero arbitrio non esista.


Per quale motivo? Fondamentalmente, se vi concentrate su uno di questi singoli ambiti di ricerca – neuroscienze, endocrinologia, economia comportamentale, genetica, criminologia, ecologia, sviluppo infantile o biologia evolutiva –, vi rimane abbastanza “margine di manovra” per decidere che, dopotutto, la biologia e il libero arbitrio possano anche coesistere. Per dirla con Manuel Vargas, un filosofo che lavora alla University of California, San Diego: “Affermare che qualche risultato scientifico confuti l’esistenza del ‘libero arbitrio’ […] è la conseguenza di una pessima formazione oppure l’esito dell’imbonimento accademico.”[4] Ha ragione, se si intende quel suo argomento nel modo più letterale e diretto. Come vedremo nel prossimo capitolo, nell’ambito della neurobiologia, la maggior parte delle ricerche sperimentali dedicate al libero arbitrio è ampiamente fondata sui risultati prodotti da uno studio che ha esaminato eventi, i quali accadono nel cervello pochi secondi prima della manifestazione di un comportamento. E Vargas concluderebbe, correttamente, che questo “risultato scientifico” (a cui si aggiungono le declinazioni generate nei quarant’anni successivi) non dimostra che non esista il libero arbitrio. Analogamente, non potete confutare il libero arbitrio con un “risultato scientifico” prodotto dalla genetica – dal momento che i geni, in linea di principio, non riguardano l’inevitabilità, quanto, piuttosto, la vulnerabilità e le potenzialità; inoltre, non è mai stato identificato un singolo gene, una variante genica, o una mutazione genetica, che falsifichi l’ipotesi del libero arbitrio.[*] Per la verità, non è nemmeno possibile ottenere qualcosa di simile considerando tutti i nostri geni insieme. D’altro canto, non potete confutare tale ipotesi a partire da una prospettiva sociologica, o che contempli lo sviluppo, ponendo l’enfasi su un risultato scientifico, il quale evidenzi il fatto che un’infanzia costellata dagli abusi, dalla deprivazione, dalla trascuratezza, dai traumi, incrementi, in maniera straordinaria, le probabilità di produrre un adulto profondamente disfunzionale e pericoloso. Tutto ciò non è possibile, banalmente perché si danno eccezioni. Sì, è vero: nessun singolo risultato, o disciplina scientifica, può garantire tutto ciò. Peraltro, mettendo insieme tutti i risultati corroborati da evidenze, prodotti da una moltitudine di discipline scientifiche pertinenti – e questo è il punto straordinariamente importante – non c’è spazio per il libero arbitrio.[*]


Perché le cose stanno così? Sto facendo riferimento a qualcosa di più significativo rispetto all’idea che se esaminate un numero sufficiente di discipline differenti, una “-ologia” dopo l’altra, alla fine individuerete quella che vi offrirà una prova definitiva, falsificando, di per sé, l’ipotesi del libero arbitrio. Si tratta di qualcosa che si rivela più profondo dell’idea che, anche se ogni disciplina manifesta una lacuna che le impedisce di falsificare il libero arbitrio, almeno una delle altre la compenserà.


È fondamentale osservare che tutte queste discipline, considerate collettivamente, negano l’esistenza del libero arbitrio perché sono interconnesse, finendo per costituire lo stesso sostanziale corpus di conoscenza. Se parlate degli effetti indotti dai neurotrasmettitori sul comportamento, state implicitamente considerando i geni che specificano la sintesi di quei messaggeri biochimici, e anche l’evoluzione di quelle stesse informazioni genetiche – in altri termini, gli ambiti della “neurochimica”, della “genetica” e della “biologia evolutiva” non possono essere separati. Se considerate in che modo gli eventi che occorrono nel corso della vita fetale influenzano il comportamento adulto, state automaticamente contemplando anche altri accadimenti, come, per esempio, le variazioni, durante tutta la vostra esistenza, dei pattern di secrezione ormonale o della regolazione genica. Se prendete in considerazione gli effetti, sul comportamento che manifesta un adulto, prodotti dallo stile di accudimento materno, a cui quell’individuo è stato esposto quando era un bambino, per definizione state implicitamente discutendo anche della natura della cultura che la madre comunica e trasmette attraverso le azioni che compie. Ebbene, non c’è nemmeno uno spiraglio in cui inserire il libero arbitrio.


Di conseguenza, l’idea che peraltro informa la prima metà di questo volume è che occorre affidamento su questo quadro biologico per confutare l’ipotesi del libero arbitrio. Ciò ci consentirà di considerare in un’adeguata prospettiva gli argomenti che compongono la seconda metà del libro. Come ho già indicato, sin dall’adolescenza, non credo al libero arbitrio; in ragione di tale posizione, per me è diventato un imperativo morale considerare gli esseri umani senza esprimere giudizi. Rifuggo ormai dall’idea che qualcuno meriti qualcosa di speciale, ho scelto di vivere senza manifestare odio, né mi sento titolare di diritti particolari. Il punto è che, semplicemente, non riesco a farlo. Certo, a volte, posso quasi riuscirci, ma è raro che la mia reazione immediata agli eventi si allinei con quello che penso sia l’unico modo accettabile per comprendere il comportamento umano. In ragione di ciò, spesso, sul piano personale fallisco miseramente.


Come ho indicato, anch’io penso sia folle prendere sul serio tutte le implicazioni derivanti dall’idea che il libero arbitrio non esista. Ciò nonostante, l’obiettivo della seconda metà del libro è analizzare tali conseguenze, sia a livello individuale sia sul piano sociale. Alcuni capitoli illustrano degli insight scientifici, che ci possono illuminare in merito a come potremmo fare a meno della convinzione che il libero arbitrio esista. Altri considerano il fatto che alcune delle implicazioni del rifiuto del libero arbitrio non siano così disastrose, nonostante inizialmente sembrino tali. Altri ancora illustrano certe circostanze storiche, le quali mostrano qualcosa di fondamentale in merito ai cambiamenti radicali che dovremmo apportare nel nostro modo di pensare e sentire: in un certo qual modo, l’abbiamo già fatto prima.


Il titolo del libro, intenzionalmente ambiguo, riflette queste due parti: le argomentazioni riguardano sia la dimensione scientifica, che dà conto dell’inesistenza del libero arbitrio, sia le implicazioni, che la stessa scienza ci offre, in merito a come potremmo vivere meglio una volta che accettiamo questo scenario.


Stili prospettici: con chi sarò in disaccordo

Sto per discutere alcune delle più comuni posizioni espresse dalle persone che si occupano di libero arbitrio. Tali punti di vista si dividono in quattro categorie principali:[*]


Il mondo è deterministico e non c’è libero arbitrio. In questa visione, se si dà il primo caso, allora si pone, necessariamente, anche il secondo; in altre parole, determinismo e libero arbitrio non sono compatibili. Questa prospettiva, denominata “incompatibilismo duro”,[*] è quella da cui provengo.


Il mondo è deterministico e c’è il libero arbitrio. Queste persone argomentano con forza che il mondo è costituito da certe entità, come gli atomi, e che la vita, secondo le eleganti parole dello psicologo Roy Baumeister (che attualmente lavora alla University of Queensland in Australia), “si basa sull’immutabilità e sull’inesorabilità delle leggi della natura”.[5] Non c'è nessun trucco né polverina magica, non si dà alcun dualismo che riguardi la res cogitans e la res extensa (la prospettiva secondo la quale la mente e il cervello sarebbero entità distinte).[*] Tuttavia, tale mondo deterministico è considerato compatibile con il libero arbitrio. Si tratta della posizione sostenuta da circa il 90 per cento dei filosofi e degli studiosi di diritto. In effetti, le argomentazioni proposte nel volume prenderanno polemicamente in considerazione, molto spesso, quelle sostenute da questi “compatibilisti”.


Il mondo non è deterministico e non c’è il libero arbitrio. Questa è una prospettiva insolita, in base alla quale si sostiene che tutto ciò che è importante nel mondo funzioni in ragione del caso, il quale generalmente è invece considerato il fondamento del libero arbitrio. Tratteremo questa posizione nei capitoli 9 e 10.


Il mondo non è deterministico e c’è il libero arbitrio. Queste sono persone che credono, come me, che un mondo deterministico non sia compatibile con il libero arbitrio. Tuttavia, non c’è alcun problema, perché, secondo loro, il mondo non è deterministico e, quindi, ciò apre un pertugio per credere che il libero arbitrio esista. Questi “incompatibilisti libertari” sono pochi, e mi occuperò solo occasionalmente della posizione che sostengono.


Occorre ora considerare quattro ulteriori prospettive che riguardano la relazione tra il libero arbitrio e la responsabilità morale. Ovviamente, le ultime due parole della frase precedente appaiono dense di significato, e quello impiegato da coloro che dibattono sul libero arbitrio rinvia tipicamente al concetto di merito fondamentale. Qualcuno merita di essere trattato in un certo modo, qualora si assuma che il mondo si riveli moralmente adeguato in relazione al riconoscimento del fatto che una persona possa meritare una particolare ricompensa, e un’altra la giusta punizione. Ecco queste quattro prospettive:


Non c’è libero arbitrio, e quindi è sbagliato ritenere le persone moralmente responsabili delle loro azioni. Questa è la prospettiva in cui mi colloco. (Come illustrerò nel capitolo 14, tale posizione è completamente distinta dalle questioni relative al valore deterrente della punizione.)


Non c’è libero arbitrio, ma è giusto ritenere le persone moralmente responsabili delle loro azioni. Questa è un’altra versione del compatibilismo – l’assenza di libero arbitrio e la responsabilità morale coesistono, senza far riferimento al soprannaturale.


C’è libero arbitrio, e le persone dovrebbero essere ritenute moralmente responsabili. Questa è probabilmente la posizione più comune.


C’è libero arbitrio, ma la responsabilità morale non è giustificata. Questa è una prospettiva sostenuta da una minoranza; tipicamente, si afferma che, quando lo si guarda “da vicino”, il presunto libero arbitrio esiste in senso molto ristretto e, certamente, non giustifica il ricorso alla pena di morte.


Ovviamente, imporre queste classificazioni al determinismo, al libero arbitrio e alla responsabilità morale è un’estrema semplificazione. In questo contesto, è fin troppo banale “fingere” che la maggior parte delle persone produca risposte nette, “sì” o “no”, sull’esistenza di tali condizioni. Peraltro, l’assenza di chiare dicotomie favorisce la proliferazione di “evanescenti” concetti filosofici, come, per esempio, il libero arbitrio parziale, il libero arbitrio situazionale, il libero arbitrio di cui dispone solo una sottopopolazione di noi, il libero arbitrio solo quando è rilevante, oppure solo quando non lo è. Tutto ciò solleva la questione associata alla possibilità che l’edificio delle credenze sull’esistenza del libero arbitrio sia demolito da una flagrante, e altamente consequenziale, eccezione. Oppure, si dà il caso che lo scetticismo nei riguardi del libero arbitrio crolli, qualora si verifichi l’ipotesi contraria. Concentrarsi sulle sfumature dello spettro che va dal “sì” al “no” è importante, poiché gli eventi interessanti per la biologia del comportamento si dispiegano spesso lungo un continuum. In ragione di ciò, la mia posizione su questi temi, piuttosto assolutistica, mi pone decisamente fuori dal coro. Tuttavia, ancora una volta, ribadisco che il mio obiettivo non è convincervi che non esiste il libero arbitrio; per quanto mi riguarda, sarò soddisfatto se considererete, più semplicemente, che ne disponete di molto meno di quanto pensavate e, quindi, che sia il caso di cambiare il vostro modo di valutare alcune questioni davvero importanti.


Nonostante, in un primo momento, abbia separato determinismo/libero arbitrio e libero arbitrio/responsabilità morale, mi adeguo alla frequente convenzione che prevede di considerarli in maniera unitaria. Quindi, la mia posizione è la seguente: siccome il mondo è deterministico, non può esserci libero arbitrio, perciò ritenere le persone moralmente responsabili delle loro azioni è ingiusto (una conclusione descritta come “deplorevole” da un influente filosofo, di cui, a grandi linee, analizzeremo il pensiero). Questo incompatibilismo sarà più frequentemente contrapposto alla prospettiva compatibilistica, secondo la quale, sebbene il mondo sia deterministico, c’è ancora spazio per affermare l’esistenza del libero arbitrio, e, quindi, è corretto ritenere le persone moralmente responsabili delle loro azioni.


Questa versione del compatibilismo ha favorito la pubblicazione di numerosi paper, scritti da filosofi e giuristi, in relazione alla rilevanza delle neuroscienze per quanto riguarda la questione del libero arbitrio. Dopo averne letti molti, ho concluso che, di solito, il loro contenuto è riassumibile con tre frasi:


a. Wow, abbiamo compiuto dei fantastici progressi nell’ambito delle neuroscienze, tutti i risultati corroborano l’ipotesi che “il nostro mondo è deterministico”.


b. Alcune di queste evidenze, prodotte dalle neuroscienze, mettono in discussione le nostre nozioni di agency, di responsabilità morale, di merito, in maniera talmente profonda che si deve giungere alla conclusione che il libero arbitrio non esiste.


c. No, no, esiste ancora.


Ovviamente, verrà dedicato molto tempo a esaminare la parte “No, no”. Quando verrà il momento di occuparsene, considererò solo un sottogruppo di tali compatibilisti. Ecco un esperimento mentale, che si rivela utile per identificarli: nel 1848, in un cantiere che si trovava nel Vermont, l’esplosione accidentale di una certa quantità di dinamite scagliò, ad alta velocità, una barra di metallo contro la testa di un operaio, Phineas Gage. Quella barra, dopo avergli leso il cervello, uscì dal lato opposto del suo cranio. Tale incidente esitò nella grave lesione della gran parte della sua corteccia frontale, un’area straordinariamente importante per gestire le funzioni esecutive, la pianificazione a lungo termine e il controllo degli impulsi. In seguito a quell’incidente, “Gage non era più Gage”, come ebbe a dichiarare un amico. In precedenza, si era sempre dimostrato un uomo serio, affidabile, tra l’altro, era anche il caposquadra di un gruppo di operai; tuttavia, dopo quel drammatico evento, apparve “instabile, irriverente, a volte persino incline a proferire le più grossolane blasfemie (comportamento che, in precedenza, non era solito manifestare)… ostinato, eppure, al contempo, capriccioso ed esitante”, come lo descrisse il suo medico. Quello di Phineas Gage è un “caso da manuale”: dimostra che siamo il prodotto finale del nostro cervello materiale, inteso qui in termini assolutamente materialistici. Ora, a distanza di 170 anni, sappiamo che le straordinarie funzioni garantite dalla vostra corteccia frontale sono il risultato dei vostri geni, dell’ambiente prenatale, dell’infanzia e così via (aspettate di giungere al capitolo 4).


Ora, dedichiamoci al preannunciato esperimento mentale: immaginate di allevare un filosofo compatibilista, dalla nascita, in una stanza sigillata, dove non apprende assolutamente nulla sul cervello. Poi, raccontategli la vicenda di Phineas Gage e riassumete le nostre conoscenze attuali sulla corteccia frontale. Se la sua risposta immediata è “Comunque, esiste ancora il libero arbitrio”, non mi interessano le sue opinioni. Invece, il compatibilista che ho in mente è colui che, a quel punto, si chiede: “Oddio, se mi fossi completamente sbagliato sul libero arbitrio?” Poi, questo individuo riflette intensamente per ore, o per decenni, concludendo che c’è ancora il libero arbitrio e che questa è la ragione per la quale è giusto che la società consideri le persone moralmente responsabili delle loro azioni. Se un compatibilista non ha accettato la sfida e non si è impegnato per acquisire le conoscenze biologiche in merito a chi siamo, non vale la pena cercare di contraddire le sue convinzioni.


Regole di base e definizioni

Cos’è il libero arbitrio? Sospirate pure, ma dobbiamo partire da qui; quindi, ecco una descrizione totalmente prevedibile: “Qualcosa che è differente a seconda dei diversi tipi di pensatori considerati, al punto che diventa un concetto confuso.” Una definizione davvero poco allettante. Tuttavia, dobbiamo iniziare da qui e, poi, chiederci: “Cos’è il determinismo?” Farò del mio meglio per essere il meno noioso possibile.


Cosa intendo per “libero arbitrio”?

Le persone definiscono il libero arbitrio in modo diverso. Molti iniziano a considerare l’idea di agency; ovvero, si concentrano sull’eventualità che un individuo sia in grado di controllare le proprie azioni, di agire in ragione di un intento. Altre definizioni rinviano alla possibilità che, quando manifesta un comportamento, una persona sappia che ci sono delle alternative disponibili. Altre sono meno preoccupate di quel che fate, ma si concentrano sul fatto che abbiate la possibilità di evitare di agire come non volete. Ecco il mio punto di vista.


Supponiamo che un uomo prema il grilletto di una pistola. Dal punto di vista meccanico, i muscoli del suo dito indice si sono contratti, perché sono stati stimolati da un neurone che ha manifestato un potenziale d’azione (ovvero, si è trovato in un particolare stato di eccitazione). Quel neurone, a sua volta, ha prodotto il suo potenziale d’azione, perché è stato stimolato da quello localizzato “a monte”. Anche questo secondo neurone ha prodotto il proprio potenziale d’azione a causa dello stimolo inviato da quello che lo precede. E così via.


Ecco la sfida per chi crede nell’esistenza del libero arbitrio: trovatemi il neurone, localizzato nel cervello di un uomo, che ha dato avvio a questo processo, quello che ha prodotto un potenziale d’azione “senza motivo”. In altri termini, indicatemi il caso in cui quel neurone abbia prodotto un potenziale d’azione, senza che un altro gli abbia “parlato” appena prima. Poi, dimostratemi che le azioni di questo neurone non sono state influenzate dal fatto che quell’uomo fosse stanco, affamato, stressato, oppure provasse dolore in quel momento. Inoltre, provate che nulla, dal punto di vista funzionale, in questo neurone, sia stato alterato da immagini, suoni, odori ecc., sperimentati da quell’individuo nei minuti precedenti, nemmeno dalle concentrazioni di ormoni che hanno “marinato” il suo cervello nelle ore o nei giorni pregressi, né dall’eventualità che abbia vissuto un evento che ha cambiato la sua vita, nei mesi antecedenti, o negli ultimi anni. Dimostratemi che il funzionamento del neurone che si presume abbia a che fare col libero arbitrio non sia stato influenzato dai geni di quell’uomo, o dai cambiamenti, a lungo termine, relativi alla regolazione dell’espressione genica, che è stata indotta da certe esperienze vissute nel corso dell’infanzia. Né dalle concentrazioni di ormoni a cui è stato esposto quando era un feto; ovvero, nel momento in cui il suo cervello veniva “costruito”. Né dai secoli, intesi qui in senso storico ed ecologico, che hanno plasmato la cultura in cui è stato allevato. Mostratemi un neurone che assuma un ruolo di causa, e che non sia rigidamente condizionato da altri fattori determinanti, in questo senso complessivo. L’influente filosofo compatibilista Alfred Mele, che lavora presso la Florida State University, ritiene, con una certa enfasi, che richiedere qualcosa del genere per dar conto del libero arbitrio significhi porre l’asticella “assurdamente in alto”. Invece, questa asticella non è né assurda né viene posta troppo in alto. Mostratemi un neurone (o un cervello) che determini la genesi di un comportamento in maniera indipendente dalla somma degli eventi che riguardano il suo passato biologico e, almeno per le finalità di questo volume, avrete dimostrato l’esistenza del libero arbitrio. Orbene, l’obiettivo della prima metà di questo libro è stabilire che ciò non può essere dimostrato.


Cosa intendo per “determinismo”?

È quasi inevitabile iniziare a occuparsi di questo argomento riferendosi a Pierre-Simone Laplace, un tipico “maschio bianco morto”,[*] e anche un poliedrico pensatore che visse a cavallo del XVIII e del XIX secolo (è obbligatorio definirlo “poliedrico”, poiché ha offerto contributi alla matematica, alla fisica, all’ingegneria, all’astronomia e alla filosofia). Laplace ha coniato l’affermazione che definisce il “canone” per tutto il determinismo: un intelletto che in un certo momento conoscesse tutte le forze che mettono in moto la natura, e tutte le posizioni di tutti gli elementi di cui è composta, sarebbe in grado di prevedere con precisione ogni momento nel futuro. Inoltre, se questo intelletto (detto anche “demone di Laplace” o “superuomo di Laplace”)[*] potesse ricostruire l’esatta posizione di ogni particella in un qualsiasi momento che appartiene al passato, sarebbe in grado di riprodurre un presente identico all’attuale. In altri termini, il passato e il futuro dell’universo sono già determinati.


Fin dal tempo di Laplace, la scienza mostrava che il filosofo non aveva completamente ragione (provando, tra l’altro, che questo poliedrico francese non incarnava il “demone laplaciano”). Nondimeno, lo spirito di quel suo demone vive ancora. Le prospettive contemporanee in merito al determinismo devono tener conto del fatto che certi tipi di predicibilità sono impossibili (questo sarà l’argomento dei capitoli 5 e 6). Inoltre, alcune caratteristiche dell’universo sono effettivamente indeterministiche (illustrerò la questione nei capitoli 9 e 10).


Peraltro, i modelli contemporanei di determinismo devono anche contemplare il ruolo giocato dalla coscienza che si colloca, per così dire, al meta-livello. Cosa intendo dire con ciò? Considerate una classica dimostrazione psicologica del fatto che le persone abbiano meno libertà, di quanto suppongano, per quanto riguarda le scelte che compiono.[7] Chiedete a qualcuno di nominare il proprio detersivo preferito e, se in precedenza lo avete condizionato con la parola “oceano”, senza che ne sia consapevole, apparirà più incline a rispondere “Tide”.[*] Per farvi un’idea in merito a dove entra in gioco la coscienza, o meglio la metacoscienza, supponete che quella persona si renda conto di ciò che il ricercatore sta facendo e, volendo dimostrare che non può essere manipolata, decida che non dirà “Tide”, anche se è il detergente per i piatti che preferisce. Ebbene, la sua libertà è stata altrettanto limitata; riprenderemo questa questione in molti dei prossimi capitoli. Analogamente, comportarsi, da adulti, come i propri genitori, oppure esattamente all’opposto, implica che non siamo liberi – nel secondo caso, l’inclinazione che ci induce a adottare il loro comportamento, la capacità di riconoscere consapevolmente quella tendenza a farlo, il mindset che ci consente di non replicare quell’“orrore”, per poi fare il contrario, sono tutte manifestazioni delle modalità attraverso le quali siete diventati voi stessi, e sono tutte al di fuori del vostro controllo.


Infine, qualsiasi visione contemporanea del determinismo deve contemplare un punto davvero importante, la cui rilevanza apparirà chiaramente nella seconda metà del libro: nonostante il mondo sia deterministico, le cose possono cambiare. I cervelli si modificano, così come i comportamenti. Noi cambiamo. Tuttavia, questo non contraddice il fatto di vivere in un mondo deterministico, senza il libero arbitrio. Di fatto, la scienza che studia i cambiamenti rinforza tale conclusione; quindi, per parte mia, approfondirò queste questioni nel capitolo 12.


Avendo in mente tali posizioni, è ora di considerare la versione del determinismo su cui si fonda questo volume.


Immaginate una cerimonia di laurea che si svolge in una università. Quasi sempre si rivela commovente, nonostante i luoghi comuni, la recita dei testi “riciclati”, il kitsch. Si coglie la felicità, l’orgoglio. Le famiglie, che hanno fatto sacrifici, sembrano ora convinte che ne sia valsa la pena. Ci sono quei giovani laureati, i primi della loro famiglia che hanno terminato il liceo, e i loro genitori, immigrati negli Stati Uniti, che ora siedono lì, raggianti, con i loro sari, i dashiki, i barong,[*] mentre stanno comunicando che il loro orgoglio oggi, nel presente, non va a scapito di quello associato al loro passato. Poi, notate qualcuno. Tra i gruppi dei familiari, dopo la cerimonia, tra i neolaureati che posano per le foto con la nonna sulla sedia a rotelle, tra gli abbracci e le risate, osservate una persona, là in fondo, che fa parte del personale che si occupa della pulizia dell’edificio, la quale raccoglie i rifiuti dai cestini posti lungo il perimetro dell’area dedicata all’evento.


Scegliete, a caso, uno dei neolaureati. Realizzate una “piccola magia”, affinché questo inserviente abbia iniziato la propria vita disponendo dei geni di quel neolaureato. Fate in modo che disponga dell’utero in cui quel giovane ha trascorso i suoi primi nove mesi, e “non dimenticate” le conseguenze epigenetiche associate a quella vita. Consentitegli anche di vivere la medesima infanzia – un periodo di tempo costellato, diciamo, di lezioni di pianoforte e di serate passate a giocare in famiglia; invece che, supponiamo, del rischio di andare a letto affamati, della minaccia di diventare un senzatetto, oppure di subire una deportazione per il fatto di non disporre dei documenti. Spingiamo all’estremo il nostro esempio in modo che, oltre ad aver concesso a quella persona di avere a disposizione tutto il passato del neolaureato, quest’ultimo viva quello dell’inserviente. Sottoponete a tale inversione ogni fattore, su cui quelle due persone non esercitavano alcun controllo, e scambierete colui che indossa la toga con chi sta spingendo i bidoni della spazzatura. Questo è ciò che intendo per determinismo.


Perché questo è importante?

La risposta è banale: perché tutti sappiamo che, stanti così le cose, il neolaureato e l’addetto alla raccolta dei rifiuti sarebbero perfettamente intercambiabili. E perché, nonostante ciò, riflettiamo raramente su questo genere di fatti; ci congratuliamo con il neolaureato per tutto ciò che ha realizzato e oltrepassiamo l’uomo che raccoglie i rifiuti senza nemmeno degnarlo di uno sguardo.


* La storia delle “tartarughe all’infinito” viene narrata secondo versioni che pongono altri celebri pensatori, nel ruolo della vittima, al posto del padre fondatore della psicologia statunitense. Noi raccontavamo quella versione perché ci piaceva la “barba di James”, e anche perché c’era un edificio, nel campus, che portava il suo nome. Quell’aneddoto è stato proposto in numerosi contesti culturali; è opportuno ricordare qui l’ottimo libro di John Green che porta quel titolo (Dutton Books, 2017; trad. it. Tartarughe all’infinito, Rizzoli, Milano 2017). Tutte le versioni della storia contemplano un maschio, un Filosofo, oppure il Re di un qualche popolo, che viene sfidato da una improbabile vecchia. Ebbene, oggi questi aspetti mi paiono un po’ sessisti e anche discriminatori nei riguardi degli anziani. All’epoca del college, quei particolari non ci avevano per nulla impressionato; dopotutto, eravamo degli adolescenti maschi che vivevano il loro tempo, immersi nel loro ambiente culturale.


* Mia moglie è una regista teatrale che si occupa di musical; io, durante le prove, sono il suo arrugginito pianista, e anche il suo generico tuttofare; per tale ragione, questo volume è costellato di allusioni che rinviano ai musical. Qualora il mio Sé da studente universitario, il quale si riteneva straordinariamente “cool”, proprio quando faceva riferimento a William James, avesse avuto consapevolezza del fatto che il mio futuro avrebbe incluso delle accese discussioni familiari in merito a chi fosse la migliore Elphaba di tutti i tempi,* si sarebbe alquanto stupito – “Musical? MUSICAL di Broadway?! E l’atonalismo allora?” A quel tempo, non era certo ciò che volevo; ma, a volte, la vita semplicemente si insinua, sfruttando la porta sul retro. (*Idina Menzel. Ovviamente.)


* L’appendice che correda il volume è un’introduzione alle neuroscienze, la quale potrebbe rivelarsi utile per i lettori che non dispongono di una formazione in questa disciplina. Inoltre, chiunque abbia letto il libro straordinariamente lungo che ho scritto (Behave: The Biology of Humans at Our Best and Worst, Penguin Press, London 2017) riconoscerà, nei prossimi paragrafi, una sintesi del suo contenuto: Perché si è manifestato quel comportamento? A causa di eventi occorsi un secondo prima, nel minuto precedente… un secolo fa… cento milioni di anni or sono.


* “Interazioni” implica che quelle influenze biologiche sono insignificanti al di fuori del contesto rappresentato dall’ambiente sociale (vale anche la considerazione inversa). Di fatto, sono inseparabili. La mia prospettiva è biologica; perciò, analizzare quell’indissolubilità da questa angolazione appare molto chiaro nella mia mente. Tuttavia, inquadrare tale questione da una prospettiva biologica, piuttosto che da quella che caratterizza le scienze sociali, a volte rende certe argomentazioni scomode e ingombranti. Per quanto mi è possibile, ho cercato di evitare tutto ciò, ma occorre tener conto del fatto che sono un biologo.


* Un’auto autonoma, detta anche auto senza conducente o auto robotica, è un autoveicolo in grado di funzionare senza l’intervento dell’essere umano [N.d.T.].


* Tra i compagni di viaggio più radicali, che condividono la posizione “il libero arbitrio NON esiste”, ci sono alcuni filosofi, come, per esempio, Gregg Caruso, Derk Pereboom, Neil Levy e Galen Strawson; farò spesso riferimento al loro pensiero nelle pagine successive. Il punto fondamentale è che, sebbene tutti rifiutino il libero arbitrio, secondo il senso comune che gli attribuiamo quando giustifichiamo punizioni e ricompense, i loro argomenti non si fondano specificamente sulla biologia. Per quanto riguarda la confutazione dell’esistenza del libero arbitrio, siccome fondo la mia argomentazione, quasi interamente, su evidenze di matrice biologistica, la mia prospettiva appare più vicina a quella di Sam Harris, che, per l’appunto, non è solo un filosofo, ma anche un neuroscienziato.


* Detto ciò, ci sono alcune rare patologie che certamente alterano il comportamento a causa della mutazione in un singolo gene (per esempio, le malattie di Tay-Sachs, di Huntington e di Gaucher). Peraltro, tutto ciò non è nemmeno lontanamente associato alle questioni relative al nostro senso comune, in relazione al libero arbitrio, poiché tali patologie causano straordinari danni al cervello.


* Vorrei aggiungere qualcosa in relazione a ciò che, nella prima metà del libro, dirò ripetutamente (“Sbagliano tutti”), riferendomi a molti studiosi che riflettono su questo argomento. Posso dimostrarmi intensamente emotivo nei riguardi di certe idee; in effetti, evocano in me un particolare senso di meraviglia, quasi religioso. Invece, altre mi paiono talmente scorrette che finiscono per rendermi irascibile, acido, arrogante, quando vengo chiamato a offrire un giudizio, che si rivela ostile, e ingiusto, oppure quando esprimo delle critiche. Tuttavia, nonostante ciò, sono convintamente contrario al conflitto interpersonale. In altre parole, con poche eccezioni che, peraltro, appariranno in modo chiaro, nessuna delle mie critiche va intesa sul piano personale. Tanto per sfruttare un cliché, che si esprime spesso con l’espressione “alcuni dei miei migliori amici”, aggiungo qui che mi piace circondarmi di persone, le quali esprimono un particolare tipo di credenza in merito al libero arbitrio, perché, generalmente, sono più simpatiche di quelle che si schierano dalla “mia parte”. Può darsi che ci sia anche un motivo più profondo: magari spero che mi trasmettano un po’ della loro pace possa venirmi trasmessa. In altri termini, quel che sto cercando di dire è che mi auguro, in certe occasioni, di non apparire antipatico, perché, in tutta onestà, non è ciò che desidero.


* Non considererò alcuna prospettiva, su questi argomenti, che faccia riferimento alla teologia giudaico-cristiana, al di là di quanto sintetizzato di seguito. Per quel che ne so, la maggior parte delle discussioni teologiche si concentra sull’onniscienza – se la conoscenza attribuita a Dio include il futuro, come potremmo mai scegliere, liberamente e volontariamente, tra due opzioni (per non parlare del fatto di essere giudicati in ragione della nostra scelta)? Fra le numerose interpretazioni di questa questione, una posizione considera la possibilità che Dio sia fuori dal tempo. Ciò implicherebbe che passato, presente e futuro siano concetti privi di significato (tale condizione, attribuita a Dio, contempla, tra l’altro, che non potrebbe mai rilassarsi, andando al cinema, per poi rimanere piacevolmente sorpreso da una svolta imprevista nella trama – Lui sa, da sempre, che il maggiordomo non è l’assassino). Un’altra posizione è quella che, in un certo senso, gli impone dei limiti; questo è un argomento che è stato considerato anche da Tommaso d’Aquino: Dio non può peccare, non può creare un masso che non è in grado di sollevare, non può fare un cerchio quadrato (un altro esempio, proposto da un numero sorprendente di teologi maschi, ma non dalle femmine, indica che neanche Dio possa creare un “celibe sposato”). In altre parole, Dio non può fare tutto, può solo fare quel che è possibile; quindi, prevedere se qualcuno sceglierà il bene o il male non è qualcosa di conoscibile, nemmeno per Lui. In relazione a tutto ciò, Sam Harris osserva, in modo caustico, che anche se ognuno di noi avesse un’anima, di certo non avrebbe avuto la possibilità di sceglierla.


* Considero tale espressione un sinonimo di “determinismo duro”; tuttavia, diversi filosofi propongono distinzioni sottili tra le due.


* I compatibilisti sono chiari a tal proposito. Per esempio, un articolo specialistico è intitolato “Free Will and Substance Dualism: The Real Scientific Threat to Free Will?”. Per l’autore, non esiste in realtà alcuna minaccia al libero arbitrio; tuttavia, c’è il rischio che importuni scienziati pensino di aver guadagnato punti contro i compatibilisti, etichettandoli come sostenitori del dualismo della sostanza. Perché dire, tanto per parafrasare alcuni filosofi compatibilisti, che il libero arbitrio non esiste in ragione del fatto che il dualismo della sostanza è un mito è come affermare che, siccome Cupido è un’entità mitica, l’amore non esiste.


* Traduciamo così l’espressione inglese “dead white male”, impiegata, spesso in modo critico o satirico, per riferirsi alla predominanza di autori, filosofi, storici e altre figure di spicco maschili e bianche nel canone culturale, educativo e letterario occidentale [N.d.T.].


* L’espressione “Laplace’s superman” si deve al filosofo della scienza tedesco Hans Reichenbach (1891-1953), che la impiegò nel suo libro, pubblicato postumo nel 1956, The Direction of Time [N.d.T.].


* “Tide” è il nome di una reale marca di detersivi, che in italiano significa “marea” [N.d.T.].


* Il sari, il dashiki e il barong sono indumenti tradizionali, rispettivamente del subcontinente indiano, dell’Africa occidentale e delle Filippine [N.d.T.].


1 Per una rassegna sulla filosofia sperimentale, si veda: J. Knobe et al., “Experimental Philosophy”, Annual Review of Psychology, 63, 2012, pp. 81-99. Si veda anche: David Bourget e David Chalmers (a cura di), “The 2020 PhilPapers Survey”, 2020, survey2020.philpeople.org/survey/results/all.

Le credenze relative al libero arbitrio nei bambini, nelle diverse culture: studi di Gopnik e Kushnir: T. Kushnir et al., “Developing Intuitions about Free Will between Ages Four and Six”, Cognition, 138, 2015, pp. 79-101; N. Chernyak, C. Kang, e T. Kushnir, “The Cultural Roots of Free Will Beliefs: How Singaporean and U.S. Children Judge and Explain Possibilities for Action in Interpersonal Contexts”, Developmental Psychology, 55, 2019, pp. 866-876; N. Chernyak et al., “A Comparison of American and Nepalese Children’s Concepts of Freedom of Choice and Social Constrain”, Cognitive Science, 37, 2013, pp. 1343-1355; A. Wente et al., “How Universal Are Free Will Beliefs? Cultural Differences in Chinese and U.S. 4- and 6-Year-Olds”, Child Development, 87, 2016, pp. 666-676. Le credenze relative al libero arbitrio sono diffuse, ma non universali: D. Wisniewski, R. Deutschland, e J.-D. Haynes, “Free Will Beliefs Are Better Predicted by Dualism Than Determinism Beliefs across Different Cultures”, PLoS One, 14, 9, 2019; R. Berniunasa et al., “The Weirdness of Belief in Free Will”, Consciousness and Cognition, 87, 2021; H. Sarkissian et al., “Is Belief in Free Will a Cultural Universal?”, Mind and Language, 25, 2021, pp. 346-358.

Studio sulla guida: E. Awad et al., “Drivers Are Blamed More Than Their Automated Cars When Both Make Mistakes”, Nature Human Behaviour, 4, 2020, pp. 134-143.


2 L. Egan, P. Bloom, e L. Santos, “Choice-Induced Preferences in the Absence of Choice: Evidence from a Blind Two Choice Paradigm with Young Children and Capuchin Monkeys”, Journal of Experimental and Social Psychology, 46, 2010, pp. 204-207.


3 Nota a piè pagina (p. 6): Per una panoramica delle loro idee, si veda: G. Strawson, “The Impossibility of Moral Responsibility”, Philosophical Studies, 75, 1994, pp. 5-24; D. Pereboom, Living without Free Will, Cambridge University Press, Cambridge 2001; G. Caruso, Rejecting Retributivism: Free Will, Punishment, and Criminal Justice, Cambridge University Press, Cambridge 2021; N. Levy, Hard Luck: How Luck Undermines Free Will and Moral Responsibility, Oxford University Press, Oxford 2011; e S. Harris, Free Will, Simon & Schuster, New York 2012.

Per un punto di vista un po’ diverso, ma che esprime uno spirito simile, si veda B. Waller, Against Moral Responsibility, mit Press, Cambridge (ma) 2011.

È possibile trovare un analogo ampio rifiuto del libero arbitrio negli scritti di scienziati come il biologo evoluzionista Jerry Coyne della Chicago University, lo psicologo/neuroscienziato Jonathan Cohen della Princeton University, Josh Greene della Harvard University e Paul Glimcher della New York University, e anche la “divinità” della biologia molecolare, il compianto Francis Crick.

Un esiguo numero di studiosi di diritto, come Pete Alces della William & Mary Law School, rigettano le assunzioni di base del loro ambito di studi, rifiutando anche l’esistenza del libero arbitrio.


4 M. Vargas, Reconsidering Scientific Threats to Free Will, in Moral Psychology, vol. 4, Free Will and Moral Responsibility, a cura di W. Sinnott-Armstrong, mit Press, Cambridge (ma) 2014.


5 R. Baumeister, Constructing a Scientific Theory of Free Will, in Moral Psychology, vol. 4, Free Will and Moral Responsibility, a cura di W. Sinnott-Armstrong, mit Press, Cambridge (ma) 2014.


6 A. Mele, Free Will and Substance Dualism: The Real Scientific Threat to Free Will?, in Moral Psychology, vol. 4, Free Will and Moral Responsibility, a cura di W. Sinnott-Armstrong, mit Press, Cambridge (ma) 2014.


7 R. Nisbett e T. Wilson, “Telling More Than We Can Know: Verbal Reports on Mental Processes”, Psychological Review, 84, 1977, pp. 231-259.

2.

GLI ULTIMI TRE MINUTI DI UN FILM

 


 


 


 


Due uomini si trovano, di notte, nei pressi di un hangar, in un piccolo aeroporto. Uno indossa un’uniforme da poliziotto, l’altro è in abiti civili. Parlano in modo fitto e teso, mentre, sullo sfondo, un aereo sta rullando, per avviarsi verso la pista. Improvvisamente, un veicolo si ferma e, poi, scende un uomo con una divisa dell’esercito. Lui e il poliziotto discutono, manifestando tensione; il militare prova a fare una telefonata; il civile gli spara, uccidendolo. Un automezzo per il trasporto delle forze dell’ordine si ferma in maniera brusca, molti agenti scendono rapidamente. Il poliziotto parla con loro, mentre recuperano il cadavere. Il furgone riparte altrettanto bruscamente, con quel corpo esanime, ma senza l’assassino. Il poliziotto e il civile guardano il piccolo aereo decollare e, poi, se ne vanno insieme.


Cosa è accaduto? Ovviamente, è stato compiuto un atto criminale – dal modo con cui il civile ha mirato, risulta chiaro che intendeva sparare al militare. Un atto terribile, ulteriormente aggravato dall’atteggiamento privo di rimorso manifestato da quell’uomo: è stato un omicidio a sangue freddo, eseguito con perversa indifferenza. Inoltre, è singolare che il poliziotto non abbia tentato di arrestarlo. Vengono in mente diverse opzioni interpretative, nessuna favorevole. Forse, il poliziotto è stato ricattato da quel civile, affinché “facesse finta di niente”. Magari, tutti quegli agenti che sono apparsi sulla scena sono corrotti, iscritti sul “libro paga” di un qualche cartello della droga. Oppure, si può pensare che il poliziotto sia in realtà un impostore. Non è possibile esserne certi, ma è evidente che quella era una scena che rinviava a un episodio di corruzione, informata da un intento criminale e agita con violenza. Sia il poliziotto sia il civile rappresentano due esempi di quanto possano rivelarsi pessimi gli esseri umani. Questo è sicuro.


Le intenzioni giocano un ruolo importante in relazione alle questioni che riguardano la responsabilità morale: quella persona intendeva agire proprio come ha fatto? Quando, esattamente, ha preso forma quell’intento? Sapeva che avrebbe potuto comportarsi diversamente? Percepiva che quel proprio intento le apparteneva? Queste sono questioni rilevanti per i filosofi, gli studiosi di diritto, gli psicologi e i neurobiologi. In realtà, una grande percentuale delle ricerche, che riguardano il dibattito sul libero arbitrio, ruota attorno all’intenzione, spesso analizzandone, microscopicamente, il ruolo, nei secondi prima che un comportamento si manifesti. Numerose conferenze, opere collettanee, intere carriere sono state dedicate a quei pochi secondi e, sotto molti rispetti, tale focus è al centro degli argomenti a supporto del compatibilismo. Tutto ciò dipende dal fatto che, per quanto gli esperimenti condotti per dirimere questa questione siano accurati, articolati e brillanti, considerati nel loro insieme non riescono a falsificare l’ipotesi dell’esistenza del libero arbitrio. Dopo aver esaminato questi risultati sperimentali, lo scopo di questo capitolo è mostrare come tali esiti non siano decisivi per confutare l’esistenza del libero arbitrio. In effetti, questo approccio sperimentale ignora il 99 per cento della questione, non ponendosi la domanda fondamentale: Da dove proviene, anzitutto, quell’intento? Questo aspetto è estremamente rilevante perché, come osserveremo, anche se, a volte, ci può sembrare di disporre dell’autonomia necessaria per attuare le nostre intenzioni, non siamo mai liberi di intenderle. Mantenere la credenza nel libero arbitrio, senza porsi quella domanda, può rivelarsi immorale ed effimero, ma è, soprattutto, l’espressione di un atteggiamento improvvido, per certi versi persino inavveduto, come quando si crede che tutto ciò che serve sapere, per valutare un film, sia guardarne gli ultimi tre minuti. Senza disporre di quella prospettiva più ampia, definire le caratteristiche e le conseguenze dell’intenzione non ha molto valore.


Trecento millisecondi

Iniziamo considerando William Henry Harrison, il nono presidente degli Stati Uniti, il quale viene ricordato solo per essersi ostinato, in maniera sconsiderata, a tenere, nel mese di gennaio del 1841, un discorso di inaugurazione della durata (record) di due ore, esponendosi al freddo gelido, senza indossare né il cappotto né il cappello. Prese una polmonite che, un mese dopo, si rivelò fatale; fu il primo presidente a morire quando era in carica, e il suo rimane il mandato più breve.[*][1]


Adesso che sapete tutto ciò, pensate a William Henry Harrison. Tuttavia, prima collegheremo degli elettrodi con il vostro cuoio capelluto, per eseguire un elettroencefalogramma (EEG) e osservare le onde di eccitazione neuronale generate dalla vostra corteccia quando pensate a Bill.


 




 


Ora non pensate a Harrison – bensì a qualcos’altro –, mentre continuiamo a registrare il vostro EEG. Ottimo, ben fatto. Ora non pensate a Harrison, ma pianificate di pensarci, quando vorrete, dopo un po’ di tempo, e premete questo pulsante nell’istante in cui cominciate a farlo. Oh, dimenticavo: dovete anche tener d’occhio la lancetta su questo cronometro e indicare quando avete scelto di pensare a Harrison. Collegheremo la vostra mano con altri elettrodi, per rilevare, con precisione, quando inizierete a premere. Nel frattempo, l’EEG rileverà il momento in cui i neuroni che inducono quei muscoli a premere il pulsante incominciano ad attivarsi. Ed ecco cosa osserviamo: quei neuroni si erano già attivati prima che voi pensaste di aver liberamente scelto di iniziare a premere il pulsante.


Peraltro, il disegno sperimentale impiegato in questo studio non è perfetto, per via di un deficit di specificità – potremmo aver appena appreso cosa sta succedendo nel vostro cervello quando sta genericamente facendo qualcosa, non già quando si dedica a questo particolare compito. Passiamo allora a considerare la scelta tra “fare A” e “fare B”. William Henry Harrison si siede a mangiare un hamburger e delle patatine, che sono stati contaminati dai batteri che producono il tifo, poi chiede il ketchup. Se decidete che abbia pronunciato “ketch-up”, premete immediatamente questo pulsante, con la mano sinistra; se, invece, pensate che abbia detto “cats-up”, premete quest’altro, con la mano destra. Non considerate, ora, come abbia pronunciato quella parola; osservate solo il cronometro e diteci l’istante in cui avete scelto quale pulsante premere. Ebbene, si ottiene sempre lo stesso risultato: i neuroni responsabili della scelta della mano con cui premete uno dei due pulsanti si attivano prima che voi abbiate consapevolezza della vostra decisione.


Ora, facciamo qualcosa di più sofisticato rispetto all’osservazione delle onde cerebrali, perché, come è noto, l’EEG riflette l’attività di centinaia di milioni di neuroni, rendendo difficile stabilire cosa stia accadendo in specifiche regioni. Grazie a un finanziamento della WHH Foundation, abbiamo acquistato un sistema di neuroimaging, sicché potremo avvalerci della risonanza magnetica funzionale (fMRI) del cervello, mentre svolgete il compito; questo ci consentirà di ottenere informazioni, in contemporanea, circa l’attività in ogni singola regione cerebrale. Ancora una volta, i risultati mostrano chiaramente che specifiche regioni hanno “deciso” quale pulsante premerete, in un momento antecedente a quello in cui credete di aver scelto consapevolmente e liberamente. Di fatto, quella “decisione” può essere stata presa anche fino a dieci secondi prima.


Bene, ora dimenticate la fMRI e le immagini che produce, poiché il segnale relativo a un singolo pixel riflette l’attività di circa mezzo milione di neuroni. Questa volta faremo, invece, dei fori nella vostra testa e, poi, inseriremo degli elettrodi nel vostro cervello, al fine di monitorare l’attività dei singoli neuroni. Impiegando questo approccio, una volta di più, saremo in grado di dire se sceglierete “ketch-up” o “cats-up”, valutando l’attività dei vostri neuroni, prima che voi crediate di aver deciso.


Ho appena descritto gli approcci di base e i risultati prodotti in una imponente serie di studi, che, tra l’altro, hanno generato una monumentale “shitstorm” in relazione all’eventualità che siano in grado di dimostrare, o meno, che il libero arbitrio è solo un mito. Queste sono le fondamentali conclusioni che emergono praticamente in ogni dibattito che consideri cosa le neuroscienze possano dirci sull’argomento. Peraltro, penso anche che, in ultima analisi, queste discussioni siano irrilevanti.


Tutto è iniziato con Benjamin Libet, un neuroscienziato che lavorava alla University of California, San Francisco, il quale pubblicò uno studio, nel 1983, talmente sorprendente e provocatorio che almeno un filosofo lo definisce “tristemente noto”. Oggigiorno, si tengono conferenze sulle questioni che tutto ciò ha sollevato, e alcuni scienziati sono descritti come individui che compiono studi ed esperimenti secondo lo “stile Libet”.[*] [2]


Ecco la configurazione dell’esperimento: vi trovate davanti a un pulsante e potete premerlo quando volete. Non pensateci prima; guardate solo questo sofisticato orologio, che rende facile rilevare frazioni di secondo, e diteci quando avete deciso di premere il pulsante; ovvero, indicateci quel momento, di consapevolezza cosciente, in cui avete liberamente preso la vostra decisione.[*] Nel frattempo, noi raccoglieremo i dati prodotti dall’EEG e monitoreremo, esattamente, quando il vostro dito inizia a muoversi.


Dall’attuazione di tale disegno sperimentale è emerso il risultato fondamentale: le persone hanno riferito di aver deciso di premere il pulsante circa duecento millisecondi – due decimi di secondo – prima che il loro dito iniziasse a muoversi. Era anche possibile riconoscere un distintivo pattern EEG, denominato potenziale di prontezza, quando quelle persone si preparavano a muoversi. Tale pattern proveniva da una parte del cervello chiamata SMA (supplementary motor area, area motoria supplementare), la quale invia proiezioni lungo la colonna vertebrale, favorendo il movimento muscolare. Ma ecco la cosa “folle”: il potenziale di prontezza, l’evidenza che il cervello si era impegnato a premere il pulsante, si verificava circa trecento millisecondi prima che le persone credessero di aver deciso di premere il pulsante. Quella percezione di aver compiuto una libera scelta è solo un’illusione post hoc, un falso senso di agency.


Questa è l’osservazione che ha dato l’abbrivio a tutto il resto. Se leggete degli articoli tecnici su biologia e libero arbitrio, nel 99,9 per cento delle occorrenze, apparirà il nome di Libet; di solito, entro il secondo paragrafo. Lo stesso vale per gli articoli pubblicati dalla stampa non specialistica – “Uno scienziato dimostra che il libero arbitrio non esiste; il vostro cervello decide prima che voi pensiate di averlo fatto”.[*] Tutto ciò ha ispirato moltissime ricerche, e anche le teorizzazioni successive; ci sono persone che stanno ancora compiendo studi direttamente ispirati da quel lavoro condotto da Libet, dopo che sono passati più di quarant’anni dalla sua pubblicazione. Per esempio, c’è un articolo, pubblicato nel 2020, che si intitola Libet’s Intention Reports Are Invalid.[3] Aver pubblicato un lavoro talmente importante che, a distanza di decenni, le persone ancora lo criticano, rappresenta l’immortalità per uno scienziato.


Il risultato fondamentale ottenuto da Libet, in ragione del quale si può dire che vi stiate illudendo, qualora pensiate di aver preso una decisione quando vi sembra di averlo fatto, è stato replicato. Il neuroscienziato Patrick Haggard, che lavora presso la University College London, ha fatto scegliere ai soggetti sperimentali tra due pulsanti – occorreva compiere la scelta tra “fare A” e “fare B”, non già compiere, o meno, un’azione. I risultati di questo esperimento consentivano di giungere alla stessa conclusione di Libet: il cervello sembra aver deciso prima che voi pensiate di averlo fatto.[4]


Queste evidenze ci hanno permesso di accedere al paradigma “Libet 2.0”; si tratta di qualcosa che è stato inaugurato dal John-Dylan Haynes e dei suoi colleghi, presso l’Università Humboldt di Berlino. Erano passati venticinque anni, e disponevano della fMRI; tutto il resto era pressoché identico. Ancora una volta, la percezione delle persone di aver compiuto una scelta cosciente si manifestava circa duecento millisecondi prima che i muscoli iniziassero a muoversi. L’aspetto più importante risiedeva nel fatto che quello studio aveva replicato le conclusioni che si potevano trarre dal lavoro di Libet, approfondendole ulteriormente.[*] Disponendo della fMRI, Haynes è stato in grado di evidenziare che la decisione, in merito a quale pulsante premere, si colloca a un livello ancora superiore “nella catena di comando” del cervello, ovvero nella corteccia prefrontale (prefrontal cortex, PFC). Tutto ciò appariva sensato, poiché la PFC è la regione del cervello dove si prendono le decisioni esecutive. (Quando la PFC, insieme al resto della corteccia frontale, viene distrutta, come accadde a Gage, si prendono decisioni pessime e disinibite.) Pur semplificando un po’, potremmo dire così: una volta presa quella decisione, la PFC la trasmette al resto della corteccia frontale, la quale la comunica alla corteccia premotoria, poi alla SMA e, grazie a qualche ulteriore passaggio, ai vostri muscoli.[*] Corroborando la prospettiva di Haynes, in base alla quale si sosteneva che le decisioni venivano prese più a monte, si è evidenziato che la PFC stava prendendo la propria, persino con un anticipo di dieci secondi rispetto al momento in cui i soggetti sperimentali percepivano di decidere consciamente.[*][5]


Dopodiché abbiamo avuto accesso all’era “Libet 3.0”, nel corso della quale abbiamo considerato l’ipotesi il-libero-arbitrio-è-un’illusione, giungendo a monitorare l’attività dei singoli neuroni. Presso la University of California, Los Angeles, il neuroscienziato Itzhak Fried ha lavorato con pazienti affetti da alcune forme di epilessia intrattabile; ovvero, dei casi in cui non si osserva una risposta all’impiego dei farmaci antiepilettici. Per i neurochirurghi, l’extrema ratio prevede la rimozione della parte del cervello dalla quale originano tali crisi; nei casi che riguardavano i pazienti di Fried, i foci epilettogeni erano localizzati nella corteccia frontale. Ovviamente, in casi del genere, si desidera minimizzare la quantità di tessuto che viene rimosso e, per ottenere ciò, prima dell’intervento, si inseriscono degli elettrodi nell’area target, al fine di poter monitorare l’attività neuronale in quella zona. Tale accorgimento offre una mappa funzionale dettagliata, la quale indica quali porzioni del tessuto cerebrale occorre evitare di rimuovere, sempre che ci siano “margini di manovra”.


In ragione di ciò, Fried invitava quelle persone a eseguire un compito “in stile Libet”, mentre gli elettrodi, impiantati nella loro corteccia frontale, rilevavano quando si attivavano degli specifici neuroni. Ebbene, si è giunti alla stessa conclusione: alcuni neuroni si attivavano in vista di una decisione che riguardava un movimento, qualche secondo prima che quelle persone affermassero di aver deciso consapevolmente. In alcuni affascinanti studi dello stesso tipo, Fried ha mostrato che i neuroni localizzati nell’ippocampo, che codificano uno specifico ricordo, si attivano uno o due secondi prima che la persona diventi consapevole che sta spontaneamente richiamando alla mente quell’episodio.[6]


In sintesi, tre tecniche diverse, le quali prevedono il monitoraggio dell’attività di un numero elevatissimo di cellule nervose, oppure di singoli neuroni, mostrano che, nel momento in cui crediamo di scegliere consapevolmente e liberamente di fare qualcosa, il “dado neurobiologico” è già stato tratto. Quel senso di intenzionalità cosciente non è altro che un evento postumo, del tutto irrilevante.


Questa conclusione è corroborata da studi nei quali si mostra quanto sia plasmabile quel senso di intenzionalità e di agency. Ritorniamo a considerare il paradigma di base proposto da Libet: in un altro esperimento, premere un pulsante causava il suono di una campanella, e i ricercatori variavano l’estensione del ritardo tra la pressione e il suono. Quando il suono della campanella era ritardato, i soggetti riportavano il loro intento di premere il pulsante un po’ più tardi del solito – senza che i potenziali di prontezza, oppure gli esordi del movimento, cambiassero. Un altro studio ha mostrato che se vi sentite felici, percepite prima l’intenzionalità di aver scelto, rispetto a quando siete infelici. Tale evidenza indica quanto la nostra percezione cosciente della scelta possa rivelarsi capricciosa e soggettiva.[7]


Peraltro, altri studi che hanno coinvolto delle persone sottoposte a interventi di neurochirurgia per via dell’epilessia intrattabile, al contempo, mostrano che le percezioni del movimento intenzionale e di quello effettivamente compiuto possono essere “separate”. Stimolate un’ulteriore regione cerebrale, pertinente al processo decisionale,[*] e rileverete che quelle persone affermeranno di essersi mosse volontariamente – senza nemmeno aver contratto un muscolo. Stimolate invece la pre-SMA, e osserverete che le persone muovono il dito, mentre affermano di non averlo fatto.[8]


L’osservazione di un disturbo neurologico corrobora questi risultati. Le lesioni conseguenti agli ictus, che coinvolgono, in maniera monolaterale, la SMA, producono la cosiddetta “sindrome della mano anarchica”, nella quale si osserva che la mano controllata dalla SMA[*] controlaterale agisce indipendentemente dalla volontà della persona (per esempio, prendendo il cibo dal piatto di qualcun altro). Coloro che manifestano tale sindrome, a volte “fermano” la mano anarchica con l’altra.[*] Tutto ciò indica che la SMA focalizza la nostra volontà su un obiettivo, associando “l’intenzione all’azione”, ben prima che la persona creda di aver elaborato quella stessa intenzione.[9]


Alcuni studi di psicologia mostrano anche come il senso di agency possa rivelarsi illusorio. In uno studio, l’azione di premere un pulsante era seguita immediatamente dall’accensione di una luce… alcune volte. La frequenza con cui quella luce era variabile; ai soggetti sperimentali veniva poi chiesto di fare riferimento alla percezione soggettiva del controllo di cui disponevano in merito all’accensione di quella lampadina. Le persone sovrastimavano costantemente l’affidabilità dell’accensione della luce, perché percepivano di controllarla.[*] In un altro studio, i soggetti credevano di scegliere volontariamente con quale mano premevano un pulsante. Senza che loro lo sapessero, la scelta della mano era controllata dalla stimolazione magnetica transcranica (TMS)[*] della loro corteccia motoria. Ciò nonostante, i soggetti sperimentali percepivano di mantenere il controllo sulle proprie decisioni. D’altra parte, ulteriori studi hanno impiegato manipolazioni direttamente acquisite dal repertorio di maghi e mentalisti, con soggetti sperimentali che rivendicavano la loro agency su eventi che erano, in realtà, predeterminati e fuori dal loro controllo.[10]


Se fate X e poi accade Y, quali fattori incrementano le probabilità che voi percepiate di aver causato Y? Lo psicologo Daniel Wegner, che lavorava a Harvard, ha offerto contributi fondamentali in quest’ambito della ricerca, identificando tre variabili razionali. Una è la priorità – quanto minore è il lasso temporale tra X e Y, tanto più facilmente percepiamo quell’illusorio senso di volontà. Le altre due sono la coerenza e l’esclusività – quanto coerentemente accade Y dopo che avete fatto X, e quanto spesso accade Y in assenza di X. Quanto più elevata è la frequenza della coerenza e quanto minore è quella dell’esclusività, tanto più potente è l’illusione.[11]


Nel suo insieme, cosa mostra la letteratura relativa alla tradizione di ricerca inaugurata da Libet? Che possiamo provare un illusorio senso relativo all’agency, laddove la nostra percezione di agire scegliendo liberamente e coscientemente può rivelarsi disconnessa dalla realtà.[*] Inoltre, quella letteratura indica che possiamo essere manipolati in relazione al momento in cui percepiamo di mantenere un controllo, a livello cosciente. Soprattutto, quelle evidenze mostrano che tale senso di agency viene percepito dopo che il cervello si è già impegnato per farci compiere un’azione. Il libero arbitrio è un mito.[12]


Sorpresa! Le persone si sono messe a gridare l’una contro l’altra per via di tali conclusioni. Da allora, gli incompatibilisti citano continuamente Libet e i suoi “discendenti”, mentre i compatibilisti, con sdegno, gettano ombre su tutta quella letteratura. Non ci è voluto molto per innescare tutto ciò. A distanza di due anni dalla pubblicazione del suo articolo fondamentale, Libet ha scritto una recensione in una rivista che accoglieva anche i “peer-commentary” (uno scienziato presenta un articolo teorico in relazione a un argomento controverso, che è seguito da brevi commenti di coloro che sono in accordo o in disaccordo con lui); i commentatori che criticavano Libet lo accusavano di aver commesso “errori gravi”, di aver trascurato alcuni “concetti fondamentali che informano la misurazione”, di una certa rozzezza sul piano concettuale (“Scusa, il tuo dualismo è evidente”, accusava un critico), e di coltivare una fede, per nulla scientifica, nell’accuratezza delle sue misurazioni temporali (definendolo, sarcasticamente, un adepto della “cronoteologia”).[13]


Le critiche al lavoro di Libet, di Haynes, di Fried, di Wegner, e di altri ricercatori continuano ad aggiungersi. Alcune si concentrano su dettagli come, per esempio, i limiti dell’impiego dell’EEG, della fMRI, e delle registrazioni dell’attività di singoli neuroni, oppure fanno riferimento alle insidie associate al self-reporting prodotto dai soggetti sperimentali. Tuttavia, per la maggior parte, le critiche vengono mosse sul piano dei concetti e, nel loro insieme, indicano che le “voci” sulla morte del libero arbitrio, di cui Libet sarebbe responsabile, sono delle esagerazioni. Tali critiche meritano di essere considerate nel dettaglio.


Ragazzi, proclamate davvero la morte del libero arbitrio, basandovi sui movimenti spontanei di un dito?

La letteratura “libetiana” si concentra sulle persone che decidono spontaneamente di fare qualcosa. Secondo Manuel Vargas, il libero arbitrio riguarda quell’orientamento al futuro, che ci induce a sopportare un onere immediato per perseguire un obiettivo a lungo termine; invece: “l’esperimento di Libet ha insistito su un’azione puramente immediata e impulsiva – che non ha niente a che vedere col libero arbitrio.”[14]


Inoltre, quel che veniva deciso spontaneamente era “premere un pulsante”, ma tutto ciò ha poco a che fare con l’idea di stabilire se disponiamo del libero arbitrio in merito alle nostre credenze, ai nostri valori, o alle azioni più rilevanti che compiamo. Secondo lo psicologo Uri Maoz, della Chapman University, si tratta di considerare la differenza tra “scegliere” e “selezionare” – l’esperimento di Libet riguarda la selezione di quale scatola di cereali si prende dallo scaffale del supermercato, non già la scelta relativa a una questione importante. Per esempio, la filosofa Adina Roskies, che lavora al Dartmouth College, considera la “scelta” effettuata nel “mondo di Libet” una caricatura di una scelta “reale”; anzi, appare addirittura meno complessa del decidere tra un tè e un caffè.[*][15]


Dobbiamo dunque chiederci: è possibile applicare la scoperta di Libet a qualcosa di più interessante della semplice pressione di un pulsante? Fried ha replicato l’“effetto Libet”, in un simulatore di guida, facendo scegliere ai soggetti tra girare a sinistra, oppure a destra. Un altro studio ha unito le neuroscienze con l’opportunità di uscire dal laboratorio in una giornata di sole, verificando il fenomeno descritto da Libet nei soggetti che si apprestavano a fare bungee jumping. Hanno saltato anche i neuroscienziati, insieme alle loro attrezzature? No, sulla testa di quei temerari era stato fissato un dispositivo EEG wireless, che li faceva sembrare dei marziani, persuasi a fare bungee jumping, da alcuni ragazzi della loro confraternita, dopo un beer pong. Con quale esito? Sono stati replicati i dati prodotti da Libet; ovvero, un potenziale di prontezza precedeva la convinzione dei soggetti di aver deciso di saltare.[16]


A questo i compatibilisti hanno risposto che si trattava ancora di evidenze del tutto artificiose – scegliere quando saltare in un baratro, oppure se sia il caso di girare a sinistra, o a destra, in un simulatore di guida, non ci dice nulla sul nostro libero arbitrio, quando si tratta di compiere la scelta, per esempio, di diventare nudisti o buddhisti, di abbracciare la professione di algologo oppure di allergologo. Questa critica è stata supportata da uno studio particolarmente elegante. Nella prima condizione sperimentale, ai soggetti venivano presentati due pulsanti e si diceva loro che ciascuno rappresentava una particolare associazione benefica. Quando se ne premeva, l’associazione benefica corrispondente riceveva mille dollari. Invece, nella seconda condizione le variabili erano: due pulsanti, due associazioni benefiche, possibilità di premere uno dei pulsanti, ciascuna associazione benefica riceveva cinquecento dollari. Il cervello comandava lo stesso movimento in entrambi i casi, ma nella prima condizione, la scelta era altamente consequenziale, mentre quella osservata nella seconda era tanto arbitraria quanto quella descritta nello studio di Libet. La situazione noiosa e arbitraria evocava il solito potenziale di prontezza, prima che si percepisse coscientemente di aver preso la decisione; ma ciò non si osservava in quella altamente consequenziale. In altri termini, Libet non ci dice nulla sul libero arbitrio che valga la pena di esser preso in considerazione. Nelle parole meravigliosamente sarcastiche di un influente compatibilista, il messaggio principale comunicato da tutta questa letteratura è: “Non giocate a morra cinese, scommettendo dei soldi [con uno di questi ricercatori scettici sul libero arbitrio], se avete la testa in una macchina per la fMRI.”[17]


Ma poi, è giunta la vendetta degli scettici, che non credono all’esistenza del libero arbitrio. Il gruppo di Haynes ha esaminato il cervello dei soggetti sperimentali, quando erano invitati a eseguire un compito non motorio; ovvero, scegliere se sommare, o sottrarre, un numero da un altro. Ebbene, hanno individuato l’indicazione neurale del fatto che la decisione precede la consapevolezza cosciente, ma hanno anche trovato che proveniva da una regione del cervello diversa rispetto alla SMA (dalla corteccia cingolata posteriore e dal precuneo). Quindi, forse gli scienziati che avevano proposto la scelta dell’associazione benefica stavano considerando la parte sbagliata del cervello – le regioni cerebrali “semplici” decidono le cose prima che voi pensiate di aver preso una decisione “semplice”; invece, quelle più “complesse” prima che voi abbiate pensato di aver compiuto una scelta “complessa”.[18]


In effetti, la questione è ancora aperta, perché la letteratura “libetiana” riguarda quasi esclusivamente decisioni spontanee in merito a opzioni piuttosto semplici. Passiamo alla prossima critica generale.


60 per cento? Davvero?

Cosa significa diventare consapevoli di una decisione cosciente? Qual è il vero significato di “decidere” e “intendere”? Di nuovo, si tratta di confrontarsi con una questione di semantica che, per la verità, non è soltanto tale. Qui, i filosofi si scatenano, nel modo più arguto e sottile, lasciando molti neuroscienziati (per esempio, me) senza fiato, inermi e in soggezione. Quanto tempo ci vuole per focalizzare l’attenzione sul fatto di concentrarsi sulla lancetta di un cronografo? Nei suoi scritti, Roskies evidenzia la differenza tra intenzione conscia e coscienza dell’intenzione. Alfred Mele ipotizza che il potenziale di prontezza sia il momento in cui, di fatto, avete scelto legittimamente e liberamente, ma che, poi, ci voglia un po’ di tempo perché voi siate consciamente consapevoli della vostra scelta, quella che, di nuovo, liberamente volevate compiere. Per argomentare contro tutto ciò, si potrebbe ricordare uno studio, nel quale è stato posto in evidenza il fatto che al momento dell’inizio del potenziale di prontezza, anziché pensare a quando si sarebbero mossi, molti soggetti stavano pensando a qualcosa di assai diverso, come, per esempio, alla loro cena.[19]


Potete decidere di decidere? Intendere e avere un intento sono la stessa cosa? Libet istruì i suoi soggetti sperimentali ad annotare il momento in cui erano divenuti consapevoli, per la prima volta, “dell’esperienza soggettiva di ‘voler agire’ o di ‘intender agire’” – ma “volere” e “intendere” sono la stessa cosa? È possibile essere spontanei quando vi è stato detto di essere spontanei?


E già che ci siamo: che cos’è in realtà un potenziale di prontezza? Sorprendentemente, quasi quarant’anni dopo Libet, è ancora possibile che un articolo si intitoli What Is the Readiness Potential?, ovvero “Cos’è il potenziale di prontezza?”. Potrebbe essere decidere-di-fare, l’effettiva “intenzione”, mentre la consapevolezza cosciente della decisione è decidere-di-fare-ora, un’“attuazione dell’intenzione”? Forse, il potenziale di prontezza non significa alcunché – in effetti, certi modelli indicano che sia solo il punto in cui l’attività casuale nella SMA supera una soglia rilevabile. Mele ritiene, con una certa convinzione, che il potenziale di prontezza non sia una decisione, bensì un impulso, un’urgenza. D’altro canto, la fisica Susan Pockett e la psicologa Suzanne Purdy, che lavorano entrambe all’Università di Auckland, hanno mostrato che il potenziale di prontezza è meno consistente, e più breve, quando i soggetti stanno pianificando di identificare il momento in cui hanno preso una decisione, rispetto a quando hanno percepito l’impulso, o l’urgenza, che dir si voglia. Per altri, il potenziale di prontezza è il processo che ci porta a decidere, non già la decisione stessa. Un eccellente esperimento supporta questa interpretazione. Ecco il disegno sperimentale: ai partecipanti venivano presentate quattro lettere casuali e veniva chiesto loro di sceglierne una mentalmente; a volte, venivano poi invitati a premere un pulsante corrispondente alla lettera scelta, altre volte no – quindi, in entrambi gli scenari avveniva lo stesso processo decisionale, ma solo uno produceva effettivamente un movimento. Ora, è fondamentale osservare che un potenziale di prontezza simile si manifestava in entrambi i casi, un fatto che parrebbe indicare, nelle parole del neuroscienziato compatibilista Michael Gazzaniga, che, anziché decidere di attuare un movimento, la SMA si sta “riscaldando per la sua partecipazione agli eventi dinamici”.[20]


Quindi i potenziali di prontezza e i loro precursori sono decisioni o impulsi? Una decisione è una decisione, ma un impulso, o un’urgenza, determina solo una maggiore probabilità che si prenda quella stessa decisione. Si dà il caso che un segnale preconscio, come un potenziale di prontezza, si verifichi e, nonostante ciò, il movimento, poi, non accada? È possibile che si compia un movimento senza che un segnale preconscio lo preceda? Considerando insieme queste due domande, con quale accuratezza questi segnali preconsci predicono il comportamento effettivamente osservato? Un’accuratezza prossima al 100 per cento rappresenterebbe un duro colpo per coloro che credono all’esistenza del libero arbitrio. Al contrario, quanto più l’accuratezza si avvicina al caso (ovvero, il 50 per cento), tanto meno probabile è che il cervello “decida” qualcosa, prima che percepiamo di aver scelto.


Come si può osservare, la predicibilità non è poi così grande. Lo studio originale di Libet è stato condotto in modo tale che non fosse possibile esprimere questa percentuale. Tuttavia, in quelli di Haynes, le immagini ottenute con la fMRI predicevano quale comportamento si sarebbe verificato con un’accuratezza di circa il 60 per cento; dunque, con un valore prossimo al caso. Per Mele, un “tasso di accuratezza del 60 per cento, nel prevedere quale pulsante un partecipante premerà, non rappresenta un grosso problema per il libero arbitrio.” Nelle parole di Roskies: “Tutto ciò indica solo che ci sono alcuni fattori fisici che ci influenzano quando prendiamo delle decisioni.” Gli studi di Fried che registravano l’attività di singoli neuroni hanno aumentato l’accuratezza fino all’80 per cento; sebbene tali dati siano certamente meglio del caso, di sicuro non consentono di piantare l’ultimo chiodo sulla bara del libero arbitrio.[21]


Ora, passiamo alle critiche successive.


Cos’è la coscienza?

Dare a questo paragrafo un titolo tanto ridicolo indica quanto io sia poco entusiasta di dover scrivere la prossima frase. Non capisco cosa sia la coscienza, non posso definirla. Non riesco a comprendere gli scritti dei filosofi che si occupano di questa questione. Per la verità, nemmeno quelli prodotti dai neuroscienziati, a meno che non si attribuisca al termine “coscienza” il noioso significato neurologico, come, per esempio, nell’espressione “non si dispone della coscienza perché si è in coma”.[*][22]


Tuttavia, la coscienza è al centro dei dibattiti che riguardano i lavori di Libet, a volte, in modo piuttosto pervasivo. Per esempio, considerate Mele, il quale, in un suo libro proclama, fin dal titolo, che dirà quello che pensa – Free: Why Science Hasn’t Disproved Free Will. Nel primo paragrafo, scrive: “Oggigiorno, ci sono due principali argomenti scientifici contro l’esistenza del libero arbitrio.” Uno è proposto dagli psicologi sociali, i quali mostrano che il comportamento può essere manipolato da fattori di cui non siamo consapevoli – abbiamo già osservato alcuni esempi di tutto ciò. L’altro riguarda i neuroscienziati, i quali “argomentano che tutte le nostre decisioni sono prese in maniera inconsapevole e, quindi, non liberamente” (corsivo mio). In altre parole, che la coscienza è solo un epifenomeno, una percezione illusoria, una sorta di ricostruzione, in qualche modo pertinente con l’impressione di mantenere il controllo, ma che, in verità, è irrilevante per le nostre effettive manifestazioni comportamentali. In tutta franchezza, questo mi sembra un modo eccessivamente dogmatico di rappresentare quel che è solo uno dei tanti stili di pensiero neuroscientifico sull’argomento.


In un certo senso, il ritornello “ooh, voi neuroscienziati non solo mangiate i vostri morti, ma credete anche che tutte le nostre decisioni siano inconsapevoli” è importante, perché, se si dà un caso del genere,allora non dovremmo essere ritenuti moralmente responsabili dei nostri comportamenti inconsci (sebbene il neuroscienziato Michael Shadlen, che lavora alla Columbia University, la cui eccellente ricerca ha informato i dibattiti sul libero arbitrio, sostenga, insieme a Roskies, e con vivaci argomentazioni, che dovremmo essere ritenuti moralmente responsabili anche di tali atti).[23]


I compatibilisti, che cercano di arginare i libetiani, spesso organizzano un’ultima resistenza per difendere la coscienza: Okay, okay, supponiamo che Libet, Haynes, Fried, e tutti gli altri, abbiano davvero dimostrato che il cervello decide qualcosa, prima che ci capiti di percepire di averlo fatto coscientemente e liberamente. Concediamo agli incompatibilisti tutto ciò. Tuttavia, trasformare quella decisione preconscia in un comportamento effettivo richiede quel senso cosciente di agency? Perché in questo caso, se ciò è necessario, anziché definire la coscienza come irrilevante e, poi, bypassarla, si deve concludere che il libero arbitrio non può essere escluso.[*]


Come abbiamo già indicato, stabilire qual era la decisione preconscia di un cervello predice solo moderatamente se il comportamento si verificherà effettivamente. Ma qual è la relazione tra la decisione preconscia del cervello e il senso di agency cosciente? In altri termini, si dà il caso che un potenziale di prontezza sia seguito da un comportamento senza che quel senso di agency cosciente intervenga? Uno studio interessante condotto dalla neuroscienziata Thalia Wheatley, che lavora al Dartmouth College, e da altri collaboratori[*] mostra esattamente questo: i soggetti sperimentali sono stati ipnotizzati e, poi, sono stati esposti a una suggestione, la quale, nella fase post-ipnotica, li induceva a compiere un movimento spontaneo, simile a quello descritto da Libet. In questo caso, quando scattava il trigger associato alla suggestione, si osservavano il potenziale di prontezza e il successivo movimento, senza che, tra loro, si collocasse la consapevolezza cosciente. La coscienza è dunque un dettaglio irrilevante.[24]


Certamente, rispondono i compatibilisti, questo non significa che il comportamento intenzionale bypassi sempre la coscienza – respingere il libero arbitrio, basandosi su ciò che accade nel “cervello post-ipnotico”, è un argomento alquanto debole. Peraltro, occorre considerare un fenomeno di ordine superiore associato a questa questione, qualcosa su cui ha posto l’enfasi il filosofo incompatibilista Gregg Caruso della State University of New York: state giocando a calcio, avete la palla tra i piedi e decidete, coscientemente, che proverete a dribblare il difensore, anziché passare la palla a un compagno. Nel corso di questo processo, attuate un’ampia varietà di movimenti procedurali che non state scegliendo consapevolmente. Ebbene, cosa significa che avete compiuto la scelta esplicita di lasciare che un particolare processo implicito prenda il sopravvento? Il dibattito continua, non solo in merito all’eventualità che il preconscio richieda la coscienza, come fattore mediatore, ma anche alla possibilità che entrambi possano, simultaneamente, causare un comportamento.[25]


Tra tutti questi “arcani”, è di enorme importanza stabilire se la decisione preconscia richieda la coscienza come mediatore. Per quale ragione? Perché durante quel momento di mediazione cosciente dovremmo essere in grado di opporci a una decisione, di impedire che accada ciò che ne consegue. Ovviamente, su ciò si può far ricadere la responsabilità morale.[26]


Liberi di non farlo: il potere di opporsi

Anche se non disponiamo del libero arbitrio, abbiamo la possibilità di non fare, di opporci, la capacità di “premere il freno” in quel momento che intercorre tra la sensazione cosciente di scegliere liberamente di fare qualcosa e la manifestazione del comportamento stesso? Queste sono le conclusioni a cui Libet era giunto a partire dai suoi studi. Chiaramente disponiamo di quel potere di veto. Tanto per dirla “in piccolo”: state per prendere degli altri M&M’s, ma vi fermate un istante prima. In una dimensione più grande: state per dire, senza alcuna inibizione, qualcosa di enormemente inappropriato, ma, grazie a Dio, vi fermate, proprio mentre la vostra laringe si prepara a mettervi nei guai.


Le scoperte fondamentali di Libet hanno dato origine a una varietà di studi che considerano dove si colloca l’azione di “opporsi”. Agire o non farlo: una volta che si manifesta quella percezione cosciente di un intento, i soggetti hanno a disposizione l’opzione di fermarsi. Agire ora, oppure tra un po’: una volta che si manifesta quella percezione cosciente dell’intento, si può premere immediatamente il pulsante oppure contare prima fino a dieci. Imposizione di un veto esterno: in uno studio dedicato all’interfaccia cervello-computer, i ricercatori hanno impiegato un algoritmo di apprendimento automatico che monitorava il potenziale di prontezza di un soggetto, predicendo, in tempo reale, quando la persona stava per muoversi; ebbene, alcune volte, il computer avrebbe segnalato al soggetto di bloccare, in tempo, il movimento. Ovviamente, le persone potevano generalmente fermarsi prima di un certo punto di “non ritorno”, che corrispondeva, approssimativamente, al momento in cui i neuroni, che inviano un comando direttamente ai muscoli, stavano per attivarsi. Pertanto, un potenziale di prontezza non rappresenta una decisione inevitabile. Per la verità, dal punto di vista generale non sarebbe differente il fatto che il soggetto stia per premere un pulsante oppure che gli venga impartito un veto.[*][27]


Dal punto di vista neurobiologico, come funziona il veto? “Premere il freno” coinvolge l’attivazione dei neuroni appena a monte della SMA.[*] Libet potrebbe averlo individuato tutto ciò in uno studio di approfondimento che prendeva in considerazione la libertà di “non fare”. Una volta che i soggetti provavano quella percezione cosciente di un intento, dovevano opporsi all’azione; a quel punto, la parte terminale del potenziale di prontezza si sarebbe appiattita, perdendo “rilevanza”.[*][28]


Peraltro, altri studi hanno considerato interessanti sviluppi in merito alla libertà di opporsi. Qual è la neurobiologia di un giocatore d’azzardo che subisce una serie di sconfitte e, poi, riesce a smettere di giocare, rispetto a chi non è in grado di farlo?[*] Cosa succede a tale facoltà quando c’è alcol in circolo? Cosa accade ai bambini rispetto agli adulti? Ebbene, oggigiorno, sappiamo che i bambini mostrano una maggiore attività della loro corteccia frontale, rispetto agli adulti, quando si tratta di manifestare la stessa efficacia nell’inibire un’azione.[29]


Dunque, cosa ci dicono tutte queste declinazioni del veto di un comportamento, che si compie, peraltro, in una frazione di secondo, in merito al libero arbitrio? Ovviamente, dipende dall’interlocutore al quale vi rivolgete. Risultati del genere hanno offerto supporto a un modello, che prevede due fasi, nel quale si suppone che siamo padroni del nostro destino. Questo modello è stato ritenuto adeguato, da alcune persone, a cominciare da William James fino a molti compatibilisti contemporanei. Ecco cosa accade, nella prima fase, quella “libera”: il vostro cervello sceglie spontaneamente, tra opzioni alternative, di propendere per l’attuazione di una qualche azione. Nella seconda fase, quella che riguarda la “volontà”, prendete in considerazione consapevolmente tale propensione e, poi, la autorizzate, oppure la rifiutate, liberamente. Come scrive un sostenitore del modello: “La libertà nasce dalla generazione creativa e indeterministica di opzioni alternative, che si ‘presentano’ alla volontà per essere valutate e selezionate.” Oppure, nelle parole di Mele: “Anche se gli impulsi a premere quel pulsante sono determinati dall’attività cerebrale di cui siamo inconsapevoli, consta ai partecipanti all’esperimento decidere se agire in base a quegli impulsi o no.”[30] Quindi, “i nostri cervelli” generano una suggestione e “noi” la giudichiamo; ebbene, questo dualismo fa arretrare il nostro pensiero di secoli.


La conclusione alternativa è che la “libertà di non fare” non è meno sospetta del libero arbitrio. Tra l’altro, per gli stessi motivi: inibire un comportamento non implica disporre di proprietà neurobiologiche più sofisticate rispetto ad attivarlo, e i circuiti cerebrali coinvolti impiegano le loro componenti in modo interscambiabile. Per esempio, a volte i nostri cervelli “fanno qualcosa” attivando il neurone X, e, in altre occasioni, inibendo il neurone che inibisce il neurone X. Denominare la prima condizione “libero arbitrio” e la seconda “libertà di non fare” rende le due opzioni ugualmente insostenibili. Questa questione attualizza nuovamente la sfida, indicata nel capitolo 1, costituita dall’identificazione di un neurone che abbia innescato l’avvio di un qualsivoglia atto, senza essere influenzato da qualche altra cellula nervosa, o da un evento biologico precedente. Ora la sfida si trasforma leggermente: si tratta di trovare un neurone che si riveli altrettanto autonomo nel prevenire un atto. Ebbene, non esistono né i neuroni del “libero arbitrio” né quelli della “libertà di non fare”.


Dopo aver preso in considerazione tali controversie e dibattiti, cosa possiamo concludere? Per i seguaci di Libet, questi studi mostrano che i nostri cervelli decidono di attuare un comportamento, prima che ci capiti di pensare che lo abbiamo fatto liberamente e consapevolmente. Tuttavia, considerando l’insieme delle critiche espresse, penso che l’unica conclusione a cui si possa giungere sia che, in certe circostanze, piuttosto artificiose, alcune misurazioni dell’attività cerebrale si rivelano moderatamente predittive di un successivo comportamento. Il libero arbitrio, credo, sopravvive al “libetianismo”. Nondimeno, penso che tutto ciò sia irrilevante.


Nel caso abbiate pensato che tutto ciò fosse mera accademia

I dibattiti su Libet e i suoi “discendenti” possono essere ridotti a una questione che riguarda l’intento. In termini più espliciti, quando decidiamo consapevolmente che intendiamo fare qualcosa, il sistema nervoso ha già iniziato a determinare quell’intento? E, qualora lo abbia fatto, cosa significa tutto ciò?


Un’ulteriore domanda appare estremamente importante, e anche gravida di conseguenze, per quel che accade nei luoghi ove si amministra la giurisprudenza, anche se questi sono i contesti nei quali si è fatta più confusione sul libero arbitrio. Ebbene, quando qualcuno ha agito in modo criminale, intendeva farlo?


Con ciò non intendo farvi venire in mente dei giudici, con in testa delle parrucche, che discutono dei potenziali di prontezza dei malviventi. Invece, le domande che ci poniamo al fine di definire un “intento” sono volte a stabilire se un imputato poteva prevedere, senza dubbi sostanziali, quel che sarebbe successo come conseguenza della sua azione, o della sua inazione, e anche se intendeva proprio perseguire ciò che ha fatto. Da questo punto di vista, a meno che non ci sia stato un “intento” in tal senso, una persona non dovrebbe essere condannata per un crimine.


Ovviamente, tutto ciò suscita domande spinose. Per esempio, dovrebbe essere considerato un crimine meno grave l’atto di sparare a qualcuno, mancando il bersaglio, rispetto al caso in cui il proiettile vada a segno? Dovrebbe essere ritenuto meno grave il fatto di guidare con un tasso alcolemico che compromette il controllo di un’auto, se, per fortuna, non avete ucciso un pedone, rispetto al caso in cui vi sia capitato di farlo? (Questa è una questione che il filosofo Neil Levy, della Oxford University, ha studiato in relazione al concetto di “fortuna morale”.)[31]


Inoltre, occorre tener conto di un’altra complicazione: in ambito legale si fa distinzione tra l’intento generale e quello specifico. Il primo fa riferimento all’intenzione di commetterlo al fine di ottenere, mentre il secondo fa riferimento all’intenzione di commettere un crimine ottenendo una specifica conseguenza. Ovviamente, essere accusati in relazione alla seconda fattispecie è decisamente più grave.


Un altro problema che può sorgere è stabilire se una persona ha agito intenzionalmente per paura oppure per rabbia; ovviamente, la prima condizione (soprattutto quando appare ragionevole) viene guardata con maggior clemenza. Fidatevi, se la giuria fosse composta da neuroscienziati, continuerebbe a discutere per l’eternità, cercando di stabilire quale emozione fosse presente. Inoltre, occorre chiedersi se tale persona avesse l’intenzione di compiere un’azione criminale, finendo però per commettere involontariamente un altro reato.


Una questione, di cui tutti riconosciamo l’importanza, è stabilire quanto tempo prima che si manifesti un comportamento si sia definita l’intenzione. Questo è l’ambito della premeditazione; si tratta, per esempio, della differenza che passa tra un delitto passionale, in cui l’intento si è concretizzato nel giro di pochi millisecondi, e un’azione criminale a lungo pianificata. Dal punto di vista legale, non è molto chiaro per quanto tempo sia necessario pensare e pianificare un atto intenzionale, affinché lo si possa considerare premeditato. Ecco un esempio di questa mancanza di chiarezza: una volta sono stato convocato, in qualità di testimone esperto, in un processo; di fatto, la questione cruciale era stabilire se otto secondi (il tempo era stato registrato da una telecamera a circuito chiuso) fossero sufficienti per consentire a qualcuno, in una circostanza contraddistinta dal pericolo di vita, di premeditare un omicidio. (La mia opinione era che, date le circostanze, non solo otto secondi erano insufficienti per consentire al cervello di elaborare pensieri premeditati, ma anche per produrre qualsiasi altro tipo di pensiero, ma che persino il concetto di libero arbitrio era irrilevante. Ebbene, la giuria manifestò fortemente il proprio disaccordo.)


Occorre poi prendere in considerazione le domande che assumono rilevanza nei processi per i crimini di guerra. A che tipo di minaccia si deve esser esposti, affinché la criminalità di un atto sia considerata “coartata”? Come dovremmo valutare il caso in cui qualcuno accettasse di compiere un’azione, con un intento criminale sapendo che, qualora si rifiutasse, qualcun altro la farebbe, immediatamente, e in modo più brutale? Spingendo l’esempio ancora più all’estremo, cosa si dovrebbe fare con qualcuno che avesse scelto intenzionalmente di commettere un crimine, non sapendo che sarebbe stato costretto a compiere quell’atto se avesse cercato di fare diversamente?[*][32]


A questo punto, sembra che si debbano considerare due realtà molto diverse, quando si tratta di riflettere sul concetto di agency e di responsabilità: da un lato, ci sono persone che discutono dell’area motoria supplementare, nelle conferenze di neurofilosofia; dall’altro, nei tribunali, ci sono procuratori e difensori pubblici che si sfidano sul piano dialettico. Eppure, queste due realtà condividono qualcosa che potrebbe sferrare un duro colpo allo scetticismo nei riguardi del libero arbitrio:


Supponiamo che si evidenzi, una volta per tutte, che la nostra percezione di prendere delle decisioni consapevoli non segua effettivamente qualcosa come i potenziali di prontezza, che l’attività nella SMA, nella corteccia prefrontale, in quella parietale, o in qualsiasi altra regione, non sia mai più che moderatamente predittiva del comportamento, e che, in ogni caso, lo sia solo per certe attività, come, per esempio, premere i pulsanti. Basandosi solamente su questo, non si può certo dire che il libero arbitrio sia “morto”.


Analogamente, supponiamo che un imputato dica: “Sì, l’ho fatto. Sapevo che avrei potuto attuare qualcos’altro, ma avevo intenzione di farlo, anche perché avevo pianificato tutto in anticipo. Non solo sapevo che X poteva essere l’esito, ma volevo proprio che accadesse.” Auguro buona fortuna a chiunque si prenda la briga di convincere qualcuno che l’imputato non disponeva del libero arbitrio.


Per quanto mi riguarda, il punto fondamentale, in relazione a questo capitolo, è che, indipendentemente dalla veridicità di una o entrambe queste proposizioni, io continuo comunque a pensare che il libero arbitrio non esista. Per capire il motivo, è tempo di organizzare un esperimento mentale in “stile Libet”.


La morte del libero arbitrio all’ombra dell’intenzione

Avete un amico che sta conducendo una ricerca per il suo dottorato in neurofilosofia, e vi chiede di partecipare a una prova sperimentale. Siete felici di aiutarlo. È entusiasta, perché ha capito come ottenere un altro dato per il suo studio e, contemporaneamente, realizzare un’ulteriore attività che gli interessa molto – una situazione doppiamente vantaggiosa. Occorre portare l’apparecchio per l’elettroencefalogramma fuori dal laboratorio, come nello studio sul bungee jumping. Ora, siete lì, collegati con l’EEG, mentre un elettromiografo registra l’attività muscolare della vostra mano, e avete un cronometro posizionato davanti a voi.


Come nel classico esperimento di Libet, l’azione motoria, che viene monitorata, consiste nel muovere il vostro dito indice. Ehi, non sono ormai passati decenni da quel tipo di scenario così artificioso? Fortunatamente, lo studio è più sofisticato, grazie all’accurato disegno sperimentale concepito dal vostro amico: compirete un movimento “semplice”, ma la conseguenza sarà tutt’altro che banale. Vi dicono di non pianificare in anticipo quel movimento: fatelo spontaneamente e osservate sul cronometro la posizione della lancetta, quando, per la prima volta, percepite coscientemente l’intento di compierlo. È tutto a posto? Ora, quando vi sentite pronti, premete il grilletto e uccidete questa persona.


Forse, quell’individuo è un nemico della patria, un terrorista che fa esplodere ponti in una delle colonie gloriosamente conquistate e occupate. Forse, è la persona dietro il bancone del negozio di liquori che state rapinando. Forse, è un vostro caro, il quale ormai è un malato terminale, che, siccome prova un dolore insopportabile, vi supplica di farlo. Forse, è qualcuno che sta per nuocere a un bambino; forse è il piccolo Hitler, che ciangotta nel suo lettino.


Potete scegliere, in tutta libertà, di non sparare. Siete disillusi per via della brutalità del regime che vi opprime e, quindi, vi rifiutate; pensate che uccidere il commesso vi esponga a un rischio troppo elevato di essere arrestati e incarcerati a lungo; nonostante quella persona vi implori, non riuscite proprio a farlo. Oppure siete Humphrey Bogart, il vostro amico è Claude Rains, state confondendo la realtà con la trama di un film, e pensate che, se lasciate scappare il maggiore Strasser, la storia non si chiuderà e, quindi, potrete recitare nel sequel di Casablanca.[*]


Tuttavia, supponiamo che voi dobbiate premere il grilletto, altrimenti non ci sarà un potenziale di prontezza da rilevare, e la ricerca del vostro amico subirà un rallentamento. Nondimeno, avete comunque delle opzioni. Potete sparare a quella persona. Potete sparare, ma, intenzionalmente, mancare il “bersaglio”. Potete spararvi, invece di obbedire.[*] C’è anche la possibilità di un colpo di scena: potete sparare al vostro amico.


Intuitivamente, ha senso pensare che, se volete capire cosa finirete per fare, con il vostro dito indice su quel grilletto, dovreste considerare le questioni libetiane, studiando alcuni particolari neuroni e dei peculiari millisecondi per stabilire l’istante in cui sentite di aver scelto di compiere quell’azione, quello in cui il vostro cervello si è impegnato per attuarla, e anche stabilire se quei due fenomeni, in realtà, sono uno solo. Ma ecco perché questi “dibattiti libetiani”, così come un sistema di giustizia penale che si preoccupi solo di stabilire se le azioni compiute da qualcuno siano intenzionali, si rivelano irrilevanti al fine di sviluppare una riflessione sul libero arbitrio. Come abbiamo già osservato all’inizio di questo capitolo, tutto ciò dipende dal fatto che, in questi contesti, non ci si pone la domanda che, invece, è fondamentale in ciascuna delle pagine di questo libro: Da dove, in primo luogo, ha tratto origine quell’intento?


Se non vi ponete questa domanda, vi limitate a considerare un dominio che contempla solo pochi secondi. Questa opzione, peraltro, va bene a molte persone. Frankfurt scrive: “Le domande su come le azioni siano causate, così come quelle volte a identificarne l’origine, non sono pertinenti rispetto alla questione se un individuo le compia liberamente, o sia moralmente responsabile per averle compiute.” Oppure, come affermano Shadlen e Roskies, le neuroscienze in stile libetiano “possono offrire una base per l’attendibilità e la responsabilità che si concentra sull’agente, piuttosto che sulle cause precedenti” (corsivo mio).


Da dove trae origine l’intenzione? Sì, dalla biologia che interagisce con l’ambiente, un secondo prima che la vostra SMA si “riscaldi”; ma anche da quello che è accaduto un minuto, un’ora, un millennio prima – questo è il tema principale di questo volume. Una discussione sul libero arbitrio non può iniziare e finire con i potenziali di prontezza o con quel che un individuo stava pensando quando ha commesso un crimine.[*] Per quale ragione ho dedicato tutte queste pagine ad analizzare minuziosamente i dibattiti su cosa significhino i risultati di Libet, prima di respingere con disinvoltura tutte le posizioni affermando: “Nondimeno, penso che tutto ciò sia irrilevante”? Perché lo studio di Libet è considerato quello più importante per quanto riguarda le indagini rivolte alla neurobiologia del libero arbitrio. Perché praticamente ogni articolo scientifico sul libero arbitrio cita, nelle prime righe, Libet. Perché, forse, siete nati nel preciso momento in cui Libet ha pubblicato il suo primo studio e, ora, dopo tutti questi anni, siete così “vecchi” che non solo la musica che ascoltate viene chiamata rock classico, ma producete anche quei singolari suoni, tipici della mezza età, quando vi alzate da una sedia… eppure ancora si discute del lavoro di Libet. Tuttavia, come ho già avuto modo di osservare, tutto ciò è come cercare di capire la trama di un film guardando solo gli ultimi tre minuti.[33]


Questo riferimento alla “miopia” non va inteso in senso spregiativo. In un certo senso, questo stesso “difetto visivo” è importante in relazione alle procedure che noi scienziati attuiamo per scoprire qualcosa di nuovo – imparando sempre di più su questioni progressivamente più parcellari. Mi è capitato di dedicare nove anni a un singolo esperimento; in effetti, tali condizioni possono diventare il centro di un universo molto piccolo. Per la verità, non intendo nemmeno accusare il sistema che amministra la giustizia penale di concentrarsi, in maniera “miope”, esclusivamente sulla determinazione di un’intenzione – dopotutto, quando si tratta di esprimere una sentenza, si valuta da dove ha tratto origine quella stessa intenzione, qual è la storia di un imputato e quali potrebbero essere gli eventuali fattori attenuanti.


Invece, le mie considerazioni dovrebbero essere intese in senso decisamente spregiativo, e peggiorativo, quando questa visione a-storica, nel giudicare il comportamento delle persone assume una connotazione moralistica. Perché vi concedete di ignorare ciò che è accaduto prima dell’attuale presente, quando intendete analizzare il comportamento di qualcuno? Perché non vi interessano le ragioni per le quali qualcun altro è diventato diverso da voi.


Come poche altre volte mi concederò in questo libro, devo ora declinare la mia argomentazione sul piano personale; perciò, mi vedo costretto a considerare il pensiero di Daniel Dennett, che ha lavorato alla Tufts University. Dennett è stato uno dei filosofi più conosciuti e influenti, un compatibilista “di rango”, che ha presentato la sua posizione sia negli scritti tecnici inerenti al suo ambito di ricerca sia in alcuni volumi spiritosi e coinvolgenti, maggiormente orientati alla divulgazione.


Dennett assume implicitamente questa posizione a-storica e la giustifica facendo riferimento a una metafora, che compare frequentemente nelle sue opere e che cita nei dibattiti. Per esempio, in Elbow Room. The Varieties of Free Will Worth Wanting, ci invita a immaginare una corsa podistica, nella quale una persona parte un po’ più indietro, sulla linea di partenza, rispetto agli altri concorrenti. Sarebbe ingiusto? “Sì, se si stanno correndo i cento metri.” Invece, non lo sarebbe se si trattasse di una maratona, perché “in questo tipo di gare, un vantaggio iniziale relativamente piccolo non conta nulla, dal momento che ci si può ragionevolmente aspettare che altri eventi fortuiti possano determinare effetti anche più rilevanti”. Per riassumere in maniera sintetica questa sua prospettiva, scrive: “Dopotutto, nel lungo periodo, la fortuna si compensa.”[34]


Invece no, non lo fa.[*] Supponete di essere nati da una madre tossicodipendente. Per controbilanciare questa “sfortuna”, la società si preoccupa di garantire che voi possiate crescere in una relativa agiatezza, accedendo a varie terapie, per superare i vostri problemi relativi allo sviluppo neurologico? No, piuttosto è molto probabile che voi nasciate in un contesto di povertà e che ci rimaniate. Bene allora, “dice” la società, almeno “assicuriamoci” che vostra madre si riveli amorevole, stabile, che abbia molto tempo libero per crescervi in mezzo ai libri e organizzando numerose visite ai musei. Sì, certo. Come sappiamo, vostra madre è probabilmente sopraffatta dalle conseguenze patologiche della sua sfortunata e miserabile vita; quindi, ci sono buone probabilità che sarete esposti alla trascuratezza, agli abusi, per poi vivere in diverse case famiglia. Ebbene, pensate che la società si “mobiliterà” almeno per controbilanciare questa ulteriore sfortuna, “assicurandosi” che viviate in un quartiere sicuro e che frequentiate scuole eccellenti? No, piuttosto è probabile che nel vostro quartiere spadroneggino le gang e che la vostra scuola riceva finanziamenti inferiori a quelli necessari.


Iniziate la “maratona”, in questo nostro mondo, molto più indietro rispetto al resto del gruppo. Inoltre, contrariamente a quanto sostiene Dennett, dopo mezzo chilometro, proprio perché vi trovate ancora molto indietro rispetto al gruppo, qualche iena randagia vi dà un morso alla caviglia. Al quinto chilometro, il punto di ristoro è rimasto quasi senza acqua, perciò potete bere solo qualche sorso dalle scorte residue. Al decimo chilometro, avete i crampi allo stomaco, perché quell’acqua era contaminata. Al ventesimo, venite ostacolati da persone che, pensando che la gara sia già conclusa, stanno pulendo la strada. Per tutto il tempo, avete guardato le schiene degli altri corridori, che si allontanavano, ognuno dei quali era convinto di essersi guadagnato, o di avere il diritto di considerare ragionevole, la possibilità di vincere. La buona sorte non viene affatto compensata nel corso del tempo e, come afferma Levy, “non possiamo annullare gli effetti della fortuna con altra fortuna”. Per la verità, il nostro mondo garantisce, sul piano concreto, che la buona e la cattiva sorte si amplifichino ulteriormente.


Nello stesso paragrafo, Dennett scrive che “un buon corridore che parte in fondo al gruppo, se è davvero abbastanza forte da MERITARE di vincere, avrà, probabilmente, abbondanti opportunità per colmare lo svantaggio iniziale” (corsivo mio). Nondimeno, possiamo riconoscere che tutto ciò rappresenta un passo avanti rispetto al fatto di credere che Dio abbia inventato la povertà per punire i peccatori.


Dennett dispone di un ulteriore argomento, che riassume questa posizione morale. Proponendo una diversa metafora sportiva che, questa volta, riguarda il baseball, e presumendo che voi pensiate che ci sia qualcosa di ingiusto nel modo in cui funzionano i fuoricampo, scrive: “Se non vi piace la regola relativa ai fuoricampo, non giocate a baseball; potete benissimo dedicarvi a un altro sport.” Sì, voglio un altro gioco, dice il nostro bambino, figlio di una madre tossica, che ora è diventato un adulto. Questa volta, voglio nascere in una famiglia benestante, con due genitori istruiti, che lavorano nelle aziende tecnologiche della Silicon Valley, i quali, una volta che io decida che, diciamo, il pattinaggio sul ghiaccio è divertente, mi garantiranno l’accesso a un corso con un maestro e mi incoraggeranno a compiere i miei primi incerti tentativi su quella fredda e lucida superficie. Al diavolo, questa vita in cui tutti mi hanno scaricato; voglio cambiare questo gioco con quello.


Pensare che sia sufficiente conoscere semplicemente l’intento nel presente è molto peggio della semplice ignoranza intellettuale, molto peggio che credere che a fluttuare nell’aria sia la primissima tartaruga che incontriamo. In un mondo come quello attuale, tutto ciò si rivela profondamente imperfetto e carente, anche dal punto di vista etico.


È ora di considerare da dove trae origine l’intenzione, e anche di osservare che la “biologia della fortuna”, nel lungo periodo, non si controbilancia affatto sul lungo periodo.[35]


* Oggigiorno, un certo revisionismo indica che il presidente Harrison non contrasse la polmonite all’inaugurazione, bensì qualche settimana dopo, quando, di nuovo senza cappotto, uscì per comprare una mucca. Peraltro, c’è anche la versione proposta da un’ulteriore deriva revisionistica ancor più radicale, secondo la quale non sarebbe affatto morto di polmonite, bensì di febbre tifoide, una malattia infettiva contratta bevendo l’acqua contaminata e disgustosa che sgorgava dai rubinetti della Casa Bianca. A questa conclusione sono giunti la scrittrice Jane McHugh e il medico Philip Mackowiak, i quali hanno considerato i sintomi, dettagliatamente descritti dal dottore di Harrison, e anche il fatto che il sistema di approvvigionamento idrico della Casa Bianca era proprio a valle del luogo in cui venivano scaricati i liquami. A quell’epoca, Washington, DC, era una palude malarica, ed era stata imposta, come capitale, da alcuni potenti politici della Virginia, i quali desideravano disporre di una sede facilmente raggiungibile. Pare che tutto ciò sia stato deciso nel corso di trattative segrete occorse tra Alexander Hamilton e due deputati della Virginia Thomas Jefferson e James Madison. “Nessuno sa veramente come si gioca, come si pratica l’arte del mestiere, come si organizzano certe ‘pastette’”, per citare le parole con cui l’influente “storico” Lin-Manuel Miranda, nel suo musical Hamilton, commenta il mistero di ciò che avvenne nel corso di quelle negoziazioni.


* Intendo puntualizzare che quando farò riferimento a qualsiasi risultato scientifico nel resto del volume, scrivendo “il lavoro compiuto da John/Jane Doe”, intendo che quello stesso studio è stato realizzato da uno scienziato che guidava un team di collaboratori. Una puntualizzazione altrettanto importante (che ripeterò in vari contesti, perché non si dà mai il caso che sia ribadita con eccessiva frequenza), è la seguente: scrivendo “Gli scienziati hanno mostrato che quando facevano questo o quello, le persone attuavano X”, intendo affermare che in media le persone rispondevano in quel modo. Ci sono sempre eccezioni e, spesso, sono anche le evidenze più interessanti.


* Nella letteratura pubblicata da Libet, tale momento è stato denominato punto “W”; si tratta dell’istante in cui, per la prima volta, le persone hanno desiderato, consapevolmente, compiere un’azione. Sto evitando di indicarlo così per ridurre al minimo l’impiego di espressioni gergali.


* Un articolo analizza le notizie relative a Libet che sono comparse sui quotidiani e sulle riviste non specialistiche. L’11 per cento dei titoli affermava che l’esistenza del libero arbitrio era stata smentita; un altro 11 per cento indicava il contrario; molti articoli giornalistici erano estremamente imprecisi, soprattutto quando si trattava di descrivere in che modo veniva condotto l’esperimento (per esempio, alcuni affermavano che era il ricercatore a premere il pulsante). Tanto per considerare anche altri fronti, posso aggiungere che è stato prodotto anche un brano musicale, intitolato Libet’s Delay. È talmente brutto e ripetitivo che ho percepito la volontà cosciente di volermi mettere a urlare; posso solo pensare che sia stato composto da un’AI profondamente depressa.


* Sto impiegando la formulazione “le conclusioni che si potevano trarre dal lavoro di Libet”, piuttosto che “la conclusione di Libet”, in quanto quest’ultima espressione potrebbe indurvi a intendere che quella conclusione coincidesse con ciò che lo stesso Libet pensava dei risultati che aveva ottenuto. Arriveremo a descrivere in che modo li aveva interpretati.


* Un neuroscienziato descrive giustamente la SMA come la “porta d’accesso” attraverso la quale la PFC comunica con i vostri muscoli.


* Successivamente, Haynes e colleghi hanno identificato l’esatta sottoregione della PFC coinvolta. Hanno anche evidenziato che un’ulteriore regione del cervello, la corteccia parietale, svolge un ruolo nel processo decisionale.


* La corteccia parietale, indicata in una nota precedente.


* Aggiungo un dettaglio tecnico, totalmente estraneo a tutto ciò: la metà destra (emisfero) del cervello regola i movimenti dell’emisoma sinistro; l’emisfero sinistro controlla invece quelli della metà destra del corpo.


* La sindrome della mano anarchica e quella strettamente correlata “della mano aliena” vengono talvolta denominate “sindrome del Dr. Stranamore” – il riferimento è al personaggio principale dell’omonimo film di Stanley Kubrick del 1964. Stranamore è stato per lo più concepito ispirandosi a Wernher von Braun, l’ingegnere missilistico che, durante la Seconda guerra mondiale, dapprima si pose fedelmente al servizio dei suoi “padroni” nazisti, per poi servire quelli statunitensi. Nel film, si scopre che Stranamore è sempre stato fedele agli Stati Uniti, e che tutta quella faccenda, in relazione col nazismo, è solo un malinteso. Costretto su una sedia a rotelle, per via dell’esito prodotto da un ictus, Stranamore manifesta la sindrome della mano anarchica, per effetto della quale cerca costantemente di fare il saluto nazista ai suoi “padroni” americani. Stanley Kubrick, che partecipò alla stesura della sceneggiatura, delineò quel personaggio ispirandosi anche a John von Neumann, Herman Kahn e Edward Teller (ma non considerò Henry Kissinger, nonostante alcune leggende metropolitane indichino il contrario).


* È interessante osservare che gli individui con un disturbo depressivo non si lasciano ingannare da questa “volontà illusoria”. Ritorneremo a considerare tale questione nell’ultimo capitolo.


* Nella TMS, una bobina elettromagnetica è posta sul cuoio capelluto e viene impiegata per attivare, o inattivare, la sottostante porzione di corteccia cerebrale (una volta un collega mi ha sottoposto a questa tecnica di stimolazione del cervello: era in grado di controllare il piegamento del mio dito indice; è stato inquietante). In che modo tali evidenze hanno delle implicazioni in relazione agli argomenti che risuonano in questo volume? Ebbene, la TMS può essere impiegata per modificare i giudizi delle persone sull’adeguatezza morale di un comportamento.


* Tuttavia, in risposta a ciò, il filosofo Peter Tse che lavora al Dartmouth College scrive: “Così come l’esistenza delle illusioni ottiche non prova che tutta la visione sia ingannevole, l’esistenza di quelle relative all’agency cosciente non confuta l’ipotesi che, almeno in certi casi, le operazioni coscienti possano esser causa delle azioni.”


* Anche se solitamente viene considerata una filosofa, Roskies ci fa mangiare la polvere, siccome in confronto a lei siamo solo dei dilettanti, poiché ha conseguito un PhD in neuroscienze, oltre a quello in filosofia.


* Ovviamente, è possibile rendersi conto che la distinzione neurologica tra coscienza e incoscienza non è affatto noiosa, banale, o dicotomica, ma questo è un altro discorso.


* Osservate che, sebbene si tratti di una questione associata, questo argomento è sottilmente diverso dall’idea di stabilire se la percezione di prendere decisioni coscienti si verifichi sempre con lo stesso ritardo temporale, dopo il potenziale di prontezza; come abbiamo già osservato, la tempestività di quel senso di agency può essere manipolata da altri fattori.


* Lo studio è stato condotto in collaborazione non solo tra filosofi e neuroscienziati, ma anche coinvolgendo persone con posizioni decisamente incompatibiliste (Wheatley), convinti compatibilisti, come Roskies, Tse, e anche il filosofo Walter Sinnott-Armstrong della Duke University. Questo è il modo in cui si conduce al meglio il processo di ricerca della conoscenza.


* Un’evidenza interessante, prodotta da questi studi, è che quando non riusciamo a fermarci in tempo si attiva il cingolo anteriore, una regione del cervello associata alle percezioni soggettive del dolore; in altre parole, qualche decina di millisecondi è sufficiente affinché vi sentiate dei perdenti, perché un computer vi ha messo in difficoltà sul piano della rapidità.


* A seconda dello studio che considerate, saranno indicate responsabili la “pre-SMA”, la corteccia anteriore fronto-mediale e/o il giro frontale inferiore destro. È opportuno osservare che le ultime due localizzazioni coinvolgono, coerentemente, la corteccia frontale quando si tratta di attuare un “veto esecutivo”.


* La pubblicazione originale di Libet non menzionava affatto quell’appiattimento; è stato solo in una successiva revisione che ha fatto riferimento tale fenomeno si verificava. Tanto per fare un po’ il guastafeste, dopo aver esaminato l’articolo originale, che contemplava solo quattro soggetti sperimentali, non riesco a individuarlo nella forma dei potenziali di prontezza pubblicati; inoltre, non c’è modo di analizzare rigorosamente la forma di ogni curva, considerando i dati disponibili in quel documento. Questo studio è stato realizzato durante un periodo meno “quantitativo”, in cui si manifestava maggior ingenuità in relazione all’analisi dei dati.


* Continuando a giocare d’azzardo si attivano le regioni cerebrali associate agli incentivi e alle ricompense; al contrario, quando si smette, si attivano le regioni associate al dolore soggettivo, all’ansia e al conflitto. Questa è un’evidenza sorprendente: continuare a scommettere, esponendosi alla possibilità di perdere ulteriormente, si rivela un comportamento meno avversivo, dal punto di vista neurobiologico, rispetto all’eventualità di smettere e contemplare la possibilità che avreste potuto vincere, se non vi foste fermati. Siamo una specie davvero “incasinata”.


* Sembra intuitivo che qualcuno debba essere punito, se pensa di aver scelto volontariamente di fare qualcosa di illegale, senza sapere che in realtà non aveva scelta. Il compianto filosofo Harry Frankfurt, che lavorava a Princeton, ha colto le implicazioni di questa intuizione, muovendosi lungo una particolare traiettoria compatibilistica. Passaggio 1: Gli incompatibilisti dicono che, se il mondo è deterministico, non dovrebbe esser contemplata la responsabilità morale. Passaggio 2: Considerate qualcuno che scelga di fare qualcosa, senza sapere che, qualora si rifiutasse, verrebbe costretto. Passaggio 3: Questo sarebbe dunque un mondo deterministico, in quanto quella persona non avrebbe effettivamente la possibilità di fare diversamente… eppure la nostra intuizione ci induce a ritenerla moralmente responsabile, in quanto la percepiamo dotata di libero arbitrio. Evviva, lo abbiamo appena dimostrato: il libero arbitrio e la responsabilità morale sono compatibili con il determinismo. Mi dispiace dirlo, perché Frankfurt ha l’aspetto di un cherubino nelle foto che lo ritraggono, ma questo sembra poco più di un sofisma e, certamente, non rappresenta la fine dell’incompatibilismo. Inoltre, mi sono fatto l’idea, anche parlando con amici ben informati, che, sebbene Frankfurt sia stato enormemente influente in alcuni ambiti della filosofia giuridica, passeranno millenni prima che tali suoi “controesempi di Frankfurt” si possano dimostrare rilevanti in una reale aula di tribunale. Insomma, è improbabile che si verifichino scenari in cui “l’imputato abbia scelto di schiaffeggiare il presentatore della serata degli Oscar, non essendo consapevole che, qualora avesse scelto di non farlo, sarebbe stato comunque costretto”.


* Ah! Ah!


* Una volta chiesero al Dalai Lama cosa avrebbe fatto nel caso delineato dal cosiddetto “problema del carrello ferroviario” (un veicolo di tal fatta, il cui freno è fuori uso sta correndo lungo i binari, e sta per uccidere cinque persone. È accettabile spingere un individuo davanti al carrello, uccidendolo intenzionalmente, per evitare la morte degli altri cinque?): rispose che si sarebbe gettato lui stesso davanti al carrello.


* Questa contrapposizione tra le spiegazioni prossimali e quelle distali del comportamento (cioè, le cause contigue a una manifestazione comportamentale rispetto a quelle distanti nel tempo) viene perfettamente colta dal neurochirurgo Rickard Sjöberg che lavora alla Università di Umeå, in Svezia. Immaginate che stia camminando lungo un corridoio del suo ospedale e qualcuno gli chieda per quale ragione ha appena messo il piede sinistro davanti a quello destro. Sì, un certo tipo di risposta ci induce a considerare i potenziali di prontezza e i millisecondi. Tuttavia, se ne rivelerebbero valide anche altre, come, per esempio: “Perché stamattina, quando mi sono svegliato, ho deciso di non darmi malato”, oppure “Perché ho deciso di specializzarmi in neurochirurgia, nonostante sapessi che ci sarebbe stato l’onere della frequente reperibilità.” Sjöberg ha prodotto un lavoro importante dedicato agli effetti, che riguardano diverse particolari caratteristiche della volontà, che si manifestano quando si rimuove chirurgicamente la SMA, su diversi aspetti della volontà. In una revisione estremamente prudente conclude che qualunque sarà l’esito dei dibattiti sul libero arbitrio, non si fonderà su considerazioni relative all’attività, che dura solo pochi pochi millisecondi, della SMA.


* Tale posizione è stata sostenuta, con una certa eleganza, dal filosofo Gregg Caruso, nel corso di alcuni accesi dibattiti con Dennett.


1 Nota a piè pagina: J. McHugh e P. Mackowiak, “Death in the White House: President William Henry Harrison’s Atypical Pneumonia”, Clinical Infectious Diseases, 59, 2014, pp. 990-995. Il medico di Harrison lo trattò con una serie di farmaci, che probabilmente hanno accelerato la sua morte. Tra questi, c’era l’oppio, il quale, come è noto a coloro che hanno una dipendenza da questa sostanza, provoca una grave stitichezza, che consente ai batteri del tifo di persistere più a lungo e di moltiplicarsi. Gli fu somministrato anche del bicarbonato di sodio, che probabilmente compromise la capacità degli acidi dello stomaco di uccidere i batteri. Inoltre, solo per precauzione e senza una chiara motivazione, gli fu dispensata anche una considerevole quantità di mercurio, che ha un effetto neurotossico. McHugh e Mackowiak indicano, in maniera convincente, che una grave gastroenterite, causata dall’acqua contaminata, avrebbe colpito il presidente James Polk, durante il suo mandato, e ucciso il presidente Zachary Taylor, mentre era in carica.


2 Libet ha pubblicato i suoi primi dati in B. Libet et al., “Time of Conscious Intention to Act in Relation to Onset of Cerebral Activity (Readiness-Potential): The Unconscious Initiation of a Freely Voluntary Act”, Brain: A Journal of Neurology, 106, 1983, pp. 623-642; “Infamous”: E. Nahmias, Intuitions about Free Will, Determinism, and Bypassing, in The Oxford Handbook of Free Will, seconda edizione, a cura di R. Kane, Oxford University Press, New York 2011.


3 P. Sanford et al., “Libet’s Intention Reports Are Invalid: A Replication of Dominik et al. (2017)”, Consciousness and Cognition, 77, 2020. Questo articolo forniva una risposta a uno precedente: T. Dominik et al., “Libet’s Experiment: Questioning the Validity of Measuring the Urge to Move”, Consciousness and Cognition, 49, 2017, pp. 255-263. La comunicazione relativa all’esperimento di Libet, sui media: E. Racine et al., “Media Portrayal of a Landmark Neuroscience Experiment on Free Will”, Science Engineering Ethics, 23, 2007, pp. 989-1007.


4 P. Haggard, “Decision Time for Free Will”, Neuron, 69, 2011, pp. 404-406; P. Haggard e M. Eimer, “On the Relation between Brain Potentials and the Awareness of Voluntary Movements”, Experimental Brain Research, 126, 1999, pp. 128-133.


5 J.-D. Haynes, The Neural Code for Intentions in the Human Brain, in Bioprediction, Biomarkers, and Bad Behavior, a cura di I. Singh e W. Sinnott-Armstrong, Oxford University Press, Oxford 2013; S. Bode e J. Haynes, “Decoding Sequential Stages of Task Preparation in the Human Brain”, Neuroimage, 45, 2009, pp. 606-613; S. Bode et al., “Tracking the Unconscious Generation of Free Decisions Using Ultra-high Field fMRI”, PLoS One, 6, 6, 2011; C. Soon et al., “Unconscious Determinants of Free Decisions in the Human Brain”, Nature Neuroscience, 11, 2008, pp. 543-545. La sma come “porta d’accesso” (nota a piè pagina): R. Sjöberg, “Free Will and Neurosurgical Resections of the Supplementary Motor Area: A Critical Review”, Acta Neurochirgica, 163, 2021, pp. 1229-1237.


6 I. Fried, R. Mukamel, e G. Kreiman, “Internally Generated Preactivation of Single Neurons in Human Medial Frontal Cortex Predicts Volition”, Neuron, 69, 2011, pp. 548-562; I. Fried, “Neurons as Will and Representation”, Nature Reviews Neuroscience, 23, 2022, pp. 104-114; H. Gelbard-Sagiv et al., “Internally Generated Reactivation of Single Neurons in Human Hippocampus during Free Recall”, Science, 322, 2008, pp. 96-101.


7 Il suono della campanella ritardato: W. Banks e E. Isham, “We Infer Rather Than Perceive the Moment We Decided to Act”, Psychological Science, 20, 2009, pp. 17-21. L’effetto della felicità sul potenziale di prontezza: D. Rigoni, J. Demanet, e G. Sartori, “Happiness in Action: The Impact of Positive Affect on the Time of the Conscious Intention to Act”, Frontiers in Psychology, 6, 1307, 2015. Si veda anche H. Lau et al., “Attention to Intention”, Science, 303, 2004, pp. 1208-1210.


8 M. Desmurget et al., “Movement Intention after Parietal Cortex Stimulation in Humans”, Science, 324, 2009, pp. 811-813.


9 La sindrome della mano anarchica: C. Marchetti e S. Della Sala, “Disentangling the Alien and Anarchic Hand”, Cognitive Neuropsychiatry, 3, 1998, pp. 191-207; S. Della Sala, C. Marchetti, e H. Spinnler, “Right-Sided Anarchic (Alien) Hand: A Longitudinal Study”, Neuropsychologia, 29, 1991, pp. 1113-1127.


10 La stimolazione magnetica transcranica: J. Brasil-Neto et al., “Focal Transcranial Magnetic Stimulation and Response Bias in a Forced-Choice Task”, Journal of Neurology, Neurosurgery and Psychiatry, 55, 1992, pp. 964-966. Maghi: A. Pailhes e G. Kuhn, “Mind Control Tricks: Magicians’ Forcing and Free Will”, Trends in Cognitive Sciences, 25, 2021, pp. 338-341; H. Kelley, Magic Tricks: The Management of Causal Attributions, in Perspectives on Attribution Research and Theory: The Bielefeld Symposium, a cura di D. Gorlitz, Ballinger, Pensacola 1980.

Nota a piè pagina: D. Knoch et al., “Diminishing Reciprocal Fairness by Disrupting the Right Prefrontal Cortex”, Science, 314, 2006, pp. 829-832.


11 D. Wegner, The Illusion of Conscious Will, mit Press, Cambridge (ma) 2002 (trad. it. L’illusione della volontà cosciente, Carbonio Editore, Aci Castello 2020).


12 Nota a piè pagina (p. 26): P. Tse, Two Types of Libertarian Free Will Are Realized in the Human Brain, in Neuroexistentialism: Meanings, Morals and Purpose in the Age of Neuroscience, a cura di G. Caruso e O. Flanagan, Oxford University Press, Oxford 2017.


13 Una panoramica su Libet: B. Libet, “Unconscious Cerebral Initiative and the Role of Conscious Will in Voluntary Action”, Behavioral and Brain Sciences, 8, 1985, pp. 529-566. Critiche al lavoro di Libet: R. Doty, “The Time Course of Conscious Processing: Vetoes by the Uninformed?”, Behavioral and Brain Sciences, 8, 1985, pp. 541-542; C. Wood, “Pardon, Your Dualism Is Showing”, Behavioral and Brain Sciences, 8, 1985, pp. 557-558; G. Wasserman, “Neural/Mental Chronometry and Chronotheology”, Behavioral and Brain Sciences, 8, 1985, pp. 556-557.


14 M. Vargas, Reconsidering Scientific Threats to Free Will, in Moral Psychology, vol. 4, Free Will and Moral Responsibility, a cura di W. Sinnott-Armstrong, mit Press, Cambridge (ma) 2014.


15 Entrambi i punti di vista sono esposti in K. Smith, “Taking Aim at Free Will”, Nature, 477, 2011, pp. 23-25.


16 Simulazione di guida: O. Perez et al., “Preconscious Prediction of a Driver’s Decision Using Intracranial Recordings”, Journal of Cognitive Neuroscience, 27, 2015, pp. 1492-1502. Bungee jumping: Nann et al., “To Jump or Not to Jump – the Bereitschaftspotential Required to Jump into 192-Meter Abyss”, Scientific Reports, 9, 1, 2019.


17 U. Maoz et al., “Neural Precursors of Decisions That Matter – an ERP Study of Deliberate and Arbitrary Choice”, eLife, 8, 2019. Per la citazione, si veda Daniel Dennett, “Is Free Will an Illusion? What Can Cognitive Science Tell Us?”, Santa Fe Institute, 14 maggio 2014, YouTube video, 1:21:19, youtube.com/watch?v=wGPIzSe5cAU&t=3890s, around 41:00.


18 Questo studio e quelli associati sono discussi in Haynes, “The Neural Code for Intentions” cit.


19 O. Bai et al., “Prediction of Human Voluntary Movement Before It Occurs”, Clinical Neurophysiology, 122, 2011, pp. 364-372.


20 Quasi quarant’anni dopo Libet: A. Schurger et al., “What Is the Readiness Potential?”, Trends in Cognitive Science, 25, 2010, pp. 558-570. Impulso versus decisione: S. Pockett e S. Purdy, Are Voluntary Movements Initiated Preconsciously? The Relationships between Readiness Potentials, Urges and Decisions, in Conscious Will and Responsibility: A Tribute to Benjamin Libet, a cura di W. Sinnott-Armstrong e L. Nadel, Oxford University Press, Oxford 2020. La citazione di Gazzaniga è tratta da M. Gazzaniga, On Determinism and Human Responsibility, in Neuroexistentialism: Meanings, Morals and Purpose in the Age of Neuroscience, a cura di G. Caruso e O. Flanagan, Oxford University Press, Oxford 2017.


21 La citazione di Mele è tratta da A. Mele, Free: Why Science Hasn’t Disproved Free Will, Oxford University Press, Oxford 2014, p. 32. Roskies è citata in K. Smith, “Taking Aim at Free Will”, Nature, 477, 2011, p. 24.


22 Nuove scoperte sul coma (dalla nota a piè pagina): A. Owen et al., “Detecting Awareness in the Vegetative State”, Science, 313, 2006, p. 1402; M. Monti et al., “Willful Modulation of Brain Activity in Disorders of Consciousness”, New England Journal of Medicine, 362, 2010, pp. 579-589.


23 M. Shadlen e A. Roskies, “The Neurobiology of Decision-Making and Responsibility: Reconciling Mechanism and Mindedness”, Frontiers in Neuroscience, 6, 56, 2012.


24 A. Schlegel et al., “Hypnotizing Libet: Readiness Potentials with Non-conscious Volition”, Consciousness and Cognition, 33, 2015, pp. 196-203.


25 Caruso esplora questa idea in una serie di pubblicazioni; la più recente è l’eccellente G. Caruso, Rejecting Retributivism: Free Will, Punishment, and Criminal Justice, Cambridge University Press, Cambridge 2021. Per quanto mi riguarda, dibattere se la precoscienza e la coscienza possano esistere contemporaneamente ci conduce nelle “sterpaglie” della filosofia. Per i veri appassionati, questo riporta alle idee superficiali, ma influenti, del filosofo Jaegwon Kim della Brown University. Se ho capito bene: (a) si assume che gli stati mentali coscienti, pur essendo ciò che emerge dalle proprietà fisiche soggiacenti (ovvero, da “cose” come molecole e neuroni), siano diversi da esse; (b) qualcosa come un comportamento non può essere causato sia da uno stato mentale sia dalle sue basi fisiche (è stato chiamato il “principio di esclusione causale” di Kim); (c) eventi fisici (come premere un pulsante o muovere la lingua e la laringe per dire ai tuoi generali di dare inizio a una guerra) sono causati da eventi fisici precedenti. Quindi gli stati mentali non causano i comportamenti. Immagino che tutto ciò sia abbastanza interessante. Be’, forse no, perché secondo me gli stati mentali e le loro basi fisiche/neurobiologiche soggiacenti non possono essere separati: sono solo due “punti di ingresso” concettuali diversi per considerare gli stessi processi. Ne parleremo in maniera più approfondita nei capitoli successivi. Alcuni dei suoi articoli: J. Kim, “Concepts of Supervenience”, Philosophy and Phenomenological Research, 45, 1984, pp. 153-176; J. Kim, “Making Sense of Emergence”, Philosophical Studies, 95, 1999, pp. 3-36.


26 E. Nahmias, Intuitions about Free Will, Determinism, and Bypassing, in The Oxford Handbook of Free Will, seconda edizione, a cura di R. Kane, Oxford University Press, New York 2011.


27 Studio “fare o non fare”: E. Filevich, S. Kuhn, e P. Haggard, “There Is No Free Won’t: Antecedent Brain Activity Predicts Decisions to Inhibit”, PLoS One, 8, 2, 2013. Studio sull’interfaccia cervello-computer: M. Schultze-Kraft et al., “The Point of No Return in Vetoing Self-Initiated Movements”, Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, 113, 2016, pp. 1080-1085.


28 Nota a piè pagina: Il primo report di Libet relativo ai suoi risultati: Libet et al., “Time of Conscious Intention to Act”. La sua discussione del 1985 su questo argomento si trova in Libet, “Unconscious Cerebral Initiative” cit.


29 Studi sul gioco d’azzardo: D. Campbell-Meiklejohn et al., “Knowing When to Stop: The Brain Mechanisms of Chasing Losses”, Biological Psychiatry, 63, 2008, pp. 293-300. Alcol a bordo: Y. Liu et al., “‘Free Won’t’ after a Beer or Two: Chronic and Acute Effects of Alcohol on Neural and Behavioral Indices of Intentional Inhibition”, BMC Psychology, 8, 2020, p. 2. Bambini versus adulti: M. Schel, K. Ridderinkhof, e E. Crone, “Choosing Not to Act: Neural Bases of the Development of Intentional Inhibition”, Developmental Cognitive Neuroscience, 10, 2014, pp. 93-103.


30 “La libertà nasce da”: B. Brembs, “Towards a Scientific Concept of Free Will as a Biological Trait: Spontaneous Actions and Decision-Making in Invertebrates”, Proceedings of the Royal Society B: Biological Sciences, 278, 2011, pp. 930-939; l’articolo affronta l’argomento dal punto di vista molto poco ortodosso (ma interessante) dell’esame del processo decisionale negli insetti. La citazione di Mele: Mele, Free cit., p. 32.


31 N. Levy, Hard Luck: How Luck Undermines Free Will and Moral Responsibility, Oxford University Press, Oxford 2011.


32 Nota a piè pagina: H. Frankfurt, “Alternate Possibilities and Moral Responsibility”, Journal of Philosophy, 66, 1969, pp. 829-839.


33 H. Frankfurt, “Three Concepts of Free Action”, Aristotelian Society Proceedings, Supplementary Volumes, 49, 1975, pp. 95-125, la citazione è a p. 122; Shadlen e Roskies, “The Neurobiology of Decision-making and Responsibility” cit., la citazione è a p. 10.

Nota a piè pagina: Sjöberg, “Free Will and Neurosurgical Resections” cit.


34 D. Dennett, Freedom Evolves, Penguin, London 2004 (trad. it. L’evoluzione della libertà, Raffaello Cortina, Milano 2004); la citazione originale è a p. 276. Dennett esprime queste idee anche in molti dei suoi libri, per esempio, D. Dennett, Elbow Room: The Varieties of Free Will Worth Wanting, mit Press, Cambridge (ma) 1984; D. Dennett, Freedom Evolves, Viking, New York 2003; delle sue conferenze, per esempio, Dennett, “Is Free Will an Illusion?”; e dei suoi dibattiti, per esempio, D. Dennett e G. Caruso, Just Deserts: Debating Free Will, Polity, Cambridge 2021 (trad. it. A ognuno quel che si merita. Sul libero arbitrio, Raffaello Cortina, Milano 2022).


35 N. Levy, “Luck and History-Sensitive Compatibilism”, Philosophical Quarterly, 59, 2009, pp. 237-251, la citazione originale è a p. 244; D. Dennett, “Review of ‘Against Moral Responsibility’”, in Naturalism, http://www.naturalism.org/resources/book-reviews/dennett-review-of-against-moral-responsibility.

Come descritto in questo capitolo, si discute delle “questioni libetiane” da oltre quarant’anni, e i riferimenti citati rappresentano a malapena la superficie delle interpretazioni veramente interessanti relative a tali questioni. Altri articoli rilevanti: G. Gomes, “The Timing of Conscious Experience: A Critical Review and Reinterpretation of Libet’s Research”, Consciousness and Cognition, 7, 1998, pp. 559-595; A. Batthyany, Mental Causation and Free Will after Libet and Soon: Reclaiming Conscious Agency, in Irreducibly Conscious: Selected Papers on Consciousness, a cura di A. Batthyany e A. Elitzur, Universitäts-Verlag Winter, Heidelberg 2009; A. Lavazza, “Free Will and Neuroscience: From Explaining Freedom Away to New Ways of Operationalizing and Measuring It”, Frontiers in Human Neuroscience, 10, 262, 2016; C. Frith, S. Blakemore, e D. Wolpert, “Abnormalities in the Awareness and Control of Action”, Philosophical Transactions of the Royal Society B: Biological Sciences, 355, 2000, pp. 1171-1788; A. Guggisberg e A. Mottaz, “Timing and Awareness of Movement Decisions: Does Consciousness Really Come Too Late?”, Frontiers in Human Neuroscience, 7, 385, 2013; T. Bayne, Neural Decoding and Human Freedom, in Moral Psychology, vol. 4, Free Will and Moral Responsibility, a cura di W. Sinnott-Armstrong, mit Press, Cambridge (ma) 2014.

3.

DA DOVE TRAE ORIGINE L’INTENZIONE?

 

 

 

 

In ragione del nostro affetto per Libet e per il suo disegno sperimentale, vi facciamo sedere di fronte a due pulsanti; dovete premerne uno. Vi viene offerta solo qualche vaga informazione sulle conseguenze che derivano dal fatto che scegliate una di quelle due opzioni. Tuttavia vi viene anche detto che, se optate per quella sbagliata, migliaia di persone moriranno. Ora scegliete.

Nessuno che mostri scetticismo nei confronti del libero arbitrio insisterebbe sul fatto che, qualche volta, può accadere che voi formiate la vostra intenzione, vi risolviate per premere il pulsante appropriato e, improvvisamente, le molecole che compongono il vostro corpo vi scaglino, deterministicamente, in una direzione differente, facendovi premere quell’altro.

Invece, nel precedente capitolo, abbiamo mostrato in che modo il “dibattito libetiano” riguardi esattamente l’istante in cui avete formato quell’intenzione, quando ne siete diventati consapevoli, l’eventualità che i neuroni, i quali comandano i vostri muscoli, fossero già attivi, il momento in cui ancora potevate inibire quell’intenzione. Inoltre, tale dibattito concerne anche le domande che riguardano la vostra SMA, la corteccia frontale, l’amigdala, i nuclei della base – cosa “sapevano” e quando lo hanno saputo. Nel frattempo, nelle aule del tribunale più vicino, gli avvocati discutono sulla natura della vostra intenzione.

Nel precedente capitolo, abbiamo concluso che le minuzie che si verificano in quei millisecondi sono completamente irrilevanti in merito alla possibilità di sostenere le ragioni per le quali non esiste il libero arbitrio. Ecco perché non ci siamo presi la briga di infilarvi degli elettrodi nel cervello, appena prima di farvi sedere. Non ci avrebbero offerto alcuna informazione utile. Questo perché le “guerre libetiane” non ci hanno indotto a porci la domanda fondamentale: Perché avete formato proprio quell’intenzione?

Questo capitolo mostrerà che voi non controllate l’intenzione che formate. Desiderate fare qualcosa, intendete compierlo e poi lo eseguite efficacemente. Tuttavia, non importa quanto fervore o quanta disperazione manifestiate, semplicemente non potete desiderare, efficacemente, di desiderare un intento differente. In altri termini, non potete assumere una “posizione meta”: non potete desiderare, efficacemente, gli “strumenti” (diciamo, maggior autodisciplina) che vi renderanno migliori nel desiderare ciò che desiderate. Nessuno di noi può fare qualcosa del genere.

Ecco perché non ci offrirebbe alcuna informazione utile il fatto di infilare degli elettrodi nella vostra testa, per monitorare cosa stanno facendo i neuroni, nei millisecondi in cui formate la vostra intenzione. Per stabilire da dove essa proviene, dobbiamo conoscere ciò che vi è accaduto nei secondi, o nei minuti, precedenti alla formazione dell’intenzione che vi fa premere il pulsante che scegliete. Così come ciò che vi è successo nelle ore, o nei giorni, antecedenti. E anche negli anni, o nei decenni, pregressi. Durante la vostra adolescenza, l’infanzia e la vita fetale. Occorre stabilire cosa è successo quando lo spermatozoo e l’ovulo, destinati a diventare voi, si sono uniti, determinando il vostro genoma. Cosa è capitato ai vostri antenati, secoli fa, quando stavano dando forma alla cultura in cui siete stati cresciuti, e anche cosa è accaduto alla vostra specie, milioni di anni prima. Sì, è necessario conoscere tutto questo.

Comprendere questo “tartarughismo” significa mostrare come l’intenzione che formate, le persone che siete, non siano altro che l’esito delle interazioni tra la biologia e l’ambiente che sono occorse in precedenza. Ovviamente, tutto ciò è fuori dal vostro controllo. Ogni influenza pregressa consegue, senza soluzione di continuità, dagli effetti indotti dalle precedenti. Pertanto, non c’è alcun punto, in tale sequenza, nel quale potete introdurre qualsivoglia libero arbitrio che influisca su quella dimensione biologica, ma non ne faccia parte.

Ora passeremo a illustrare che quel che siamo è l’esito di ciò che è accaduto nei secondi, nei minuti, nei decenni, nelle ere geologiche precedenti, su cui non abbiamo avuto alcun controllo. Mostreremo anche che, alla fine, la sfortuna e la fortuna certamente non si controbilanciano.

Da secondi a minuti prima

Poniamo la nostra prima versione della domanda sull’origine di quell’intenzione. Quali, tra le informazioni sensoriali che fluiscono nel vostro cervello nei secondi, o minuti, precedenti (incluse alcune di cui non siete nemmeno consapevoli), hanno contribuito a formare quell’intenzione?[*] La risposta potrebbe apparirvi banale: “Ho formato l’intenzione di premere quel pulsante perché ho percepito una richiesta imperiosa di farlo e ho visto quella pistola puntata contro di me.”

Tuttavia, le cose potrebbero essere più sfumate. Guardate, per una frazione di secondo, la fotografia di una persona che ha in mano un oggetto; dovete decidere se si tratta di uno smartphone o di una pistola. Ebbene, la vostra decisione, in quel breve istante, può essere influenzata dal genere, dalla razza, dall’età, dall’espressione facciale della persona ritratta nella foto. Tutti abbiamo memoria delle “versioni reali” di questo esperimento, nelle quali alcuni agenti di polizia sono stati indotti a sparare, in maniera improvvida, a un individuo disarmato; inoltre, siamo anche consapevoli del pregiudizio implicito che ha contribuito a far commettere quegli errori.[1]

Alcuni studi, particolarmente interessanti, hanno considerato esempi di intenti influenzati da stimoli in apparenza irrilevanti.[*] In un ambito di ricerca si osserva in che modo il disgusto sensoriale plasmi gli atteggiamenti e i comportamenti. In un lavoro molto citato, i soggetti sperimentali hanno espresso le loro opinioni, attraverso la valutazione della loro consonanza con certe argomentazioni di natura sociopolitica (per esempio, “Su una scala da 1 a 10, quanto sei d’accordo con questa affermazione?”). Se i soggetti si trovavano in una stanza in cui era stato diffuso un odore ripugnante (rispetto a uno neutro), il grado medio di simpatia che sia i conservatori sia i liberali riportavano per i maschi omosessuali diminuiva. Ovvio, potreste pensare: dopotutto, voi stessi sareste meno disponibili nei confronti di chiunque, se foste impegnati a vomitare. Tuttavia, si trattava di un effetto specifico nei riguardi dei maschi omosessuali, e non veniva evidenziata alcuna variazione nei confronti delle donne lesbiche, degli anziani, o degli afroamericani. Un altro studio ha evidenziato che gli odori disgustosi rendono i soggetti meno “aperti” nei riguardi del matrimonio omosessuale (così come di altri aspetti politicizzati del comportamento sessuale). Inoltre, il semplice fatto di pensare a qualcosa di rivoltante (per esempio, mangiare larve) rende i conservatori meno inclini a entrare in contatto con i maschi omosessuali.[2]

Poi, c’è uno studio divertente, in cui si esponevano i soggetti a stimoli spiacevoli (invitandoli a immergere la mano nell’acqua ghiacciata) oppure si induceva in loro il disgusto (chiedendo di mettere la mano, con indosso un guanto sottile, in un contenitore con del vomito finto).[*] A quei soggetti veniva assegnato il compito di stabilire una punizione per alcune violazioni delle norme relative alla pulizia e all’igiene (per esempio, “John ha sfregato lo spazzolino da denti di qualcuno sul pavimento di un bagno pubblico” o “John ha spinto qualcuno in un bidone della spazzatura che brulicava di scarafaggi”) oppure per altre trasgressioni non correlate all’ambito sopraindicato (per esempio, “John ha graffiato l’auto di qualcuno con una chiave”). La sensazione di disgusto causata dal vomito finto, a differenza del disagio provocato dall’acqua gelida, ha reso i soggetti più severi riguardo alle violazioni delle norme relative alla pulizia.[3]

Come possono un odore disgustoso, o una percezione tattile ripugnante, modificare delle valutazioni morali non associate? Il fenomeno coinvolge una regione cerebrale, denominata insula o anche corteccia insulare. Nei mammiferi, viene attivata dall’odore, oppure dal sapore del cibo avariato, innescando automaticamente lo sputo di quello stesso cibo e il vomito, in base alle caratteristiche specie-specifiche. Quindi, l’insula gestisce il disgusto olfattivo e gustativo, proteggendo l’organismo dall’avvelenamento alimentare, una particolarità molto utile dal punto di vista dell’evoluzione.

Peraltro, la versatile insula degli esseri umani risponde anche agli stimoli che riteniamo moralmente disgustosi. È probabile che la sua funzione, associata a “questo cibo è avariato”, sia presente nei mammiferi da cento milioni di anni. Poi, alcune decine di migliaia di anni fa, gli esseri umani hanno inventato ulteriori costrutti, come, per esempio, la moralità e il disgusto nei riguardi delle violazioni di certe norme etiche. In effetti, questo lasso temporale è troppo breve per l’evoluzione di una nuova regione cerebrale dedicata alla “gestione” del disgusto morale. Quindi, è stato aggiunto al portfolio dell’insula; come si suol dire, anziché inventare, l’evoluzione sperimenta, improvvisando (in modo più o meno elegante) con quel che ha a disposizione. I neuroni dell’insula degli esseri umani non distinguono tra odori e comportamenti disgustosi, un fatto che dà conto di certe metafore impiegate comunemente: il disgusto morale vi lascia un “retrogusto” sgradevole, vi fa sentire “nauseati”, vi fa venir voglia di “vomitare”. Percepite qualcosa di disgustoso… e, quasi inconsapevolmente, vi rendete conto che è disgustoso e sbagliato il fatto che quelle persone facciano X. Quando viene coinvolta in questo modo, l’insula attiva l’amigdala, una regione cerebrale che assume un ruolo centrale per quanto riguarda la paura e l’aggressività.[4]

Ovviamente, c’è anche il rovescio della medaglia del fenomeno del disgusto sensoriale: gli snack zuccherati (rispetto a quelli salati) fanno sì che i soggetti si valutino come individui più gradevoli e disponibili, e che lo stesso tipo di giudizio sia esteso alle opere d’arte e ai volti, che vengono percepiti come più attraenti.[5]

Chiedete a un soggetto sperimentale: “Ehi, nel questionario della settimana scorsa hai affermato di essere d’accordo con il comportamento A, ma ora (in questa stanza maleodorante) non è più così. Perché?” Nessuno risponderà che un odore disgustoso ha “confuso” la sua insula, rendendolo meno relativista sul piano morale. Affermeranno tutti che un recente insight li ha indotti, per via dell’illusione di disporre del libero arbitrio e di un ardente intento conscio, a decidere che il comportamento A non va più bene.

Il disgusto sensoriale non è il solo che può plasmare l’intenzione in pochi secondi o minuti; in effetti, può farlo anche la bellezza. Per millenni, le persone sagge hanno affermato che la bellezza esteriore riflette la bontà interiore. Anche se, probabilmente, non siamo più disposti a dichiarare in modo franco qualcosa del genere, la kalokagathia – l’assunto secondo il quale la bellezza e la bontà coincidono – esercita ancora, su di noi, un’influenza inconscia. In effetti, le persone attraenti vengono considerate più oneste, intelligenti e competenti; hanno maggiori probabilità di essere elette o assunte, anche con salari più elevati; inoltre, è meno probabile che siano giudicate colpevoli e, in ogni caso, ricevono condanne più brevi. Accidenti, il cervello non riesce a distinguere la bellezza dalla bontà? Effettivamente, non sembra essere uno dei suoi punti forti. In tre differenti studi, i soggetti sperimentali, sottoposti a scansioni cerebrali, dovevano esprimere delle valutazioni in merito alla bellezza di qualcosa (per esempio, dei volti) e alla bontà di alcuni comportamenti. Entrambi i tipi di valutazione hanno attivato la stessa regione (la corteccia orbitofrontale, in inglese orbitofrontal cortex, OFC); quanto più si attribuiva bellezza o bontà, tanto maggiore era l’attivazione dell’OFC (e minore quella dell’insula). È come se le emozioni irrilevanti, quelle relative alla bellezza, impedissero al cervello di tenere conto dei criteri che riguardano la giustizia. Tutto ciò è stato mostrato in un altro studio: in seguito all’inibizione temporanea di una parte della PFC, quella che canalizza le informazioni relative alle emozioni nella corteccia frontale, i giudizi morali non erano più influenzati dall’estetica.[*] “Interessante”, viene detto al soggetto sperimentale. E poi si aggiunge: “Però, la settimana scorsa, hai condannato quella persona all’ergastolo. Invece, ora, osservando quest’altro individuo, che ha fatto la stessa cosa, gli hai dato il tuo voto alle elezioni per il Congresso. Perché?” Ebbene, la risposta non è: “L’omicidio è sicuramente una cosa orribile, ma, accidenti, quegli occhi sono come pozze d’acqua cerulea, limpide e profonde.” Da dove proviene l’intenzione soggiacente a tale decisione? Dal fatto che il cervello non ha ancora avuto abbastanza tempo per mettere a punto circuiti separati per valutare la moralità e l’estetica.[6]

Proseguiamo: volete incentivare qualcuno a lavarsi più spesso le mani? Basta che gli chiediate di descrivere qualcosa di spiacevole, ed eticamente discutibile, che ha fatto. In seguito, vi accorgerete che queste persone saranno più propense a lavarsi le mani, oppure a usare del disinfettante, rispetto a quando hanno descritto un atto, eticamente neutro, che hanno compiuto. I soggetti istruiti a mentire, in merito a un certo fatto, valutano i prodotti per la pulizia (ma non quelli privi di un’azione detergente) come più desiderabili, rispetto a coloro che sono stati istruiti a essere onesti. Un altro studio ha evidenziato una notevole specificità somatica, poiché mentire oralmente (lasciando un messaggio in una segreteria telefonica) aumentava il desiderio di disporre di un collutorio, mentre mentire per iscritto (inviando un’email) rendeva più desiderabili i disinfettanti per le mani. Uno studio che ha impiegato le tecniche di neuroimaging ha mostrato che quando si mente, lasciando un messaggio in una segreteria telefonica, un fatto che incrementa la preferenza per il collutorio, si attiva una parte diversa della corteccia sensoriale rispetto a quando la menzogna viene scritta in un’email, la condizione che si associa alla percezione della maggior desiderabilità dei disinfettanti per le mani. In senso letterale, quei neuroni credono che la vostra bocca o, rispettivamente, la vostra mano siano sporche.

Quindi, percepire un senso di sporcizia morale ci fa provare il desiderio di purificarci. Non credo che disponiamo di un’anima su cui tale “macchia” morale possa pesare, ma certamente grava sulla porzione frontale del nostro cervello. D’altro canto, dopo aver descritto un atto, non etico, che hanno compiuto, i soggetti si rivelano meno efficaci nei compiti cognitivi che coinvolgano la funzione frontale… salvo che, nel frattempo, abbiano potuto lavarsi le mani. Gli scienziati che, per primi, hanno osservato questo fenomeno generale lo hanno denominato, con una certa grazia poetica, “effetto Macbeth”, facendo riferimento all’atto compiuto dalla moglie del protagonista dell’omonima tragedia shakespeariana, la quale si lava le mani cercando di eliminare quella dannata macchia immaginaria, che rinvia alla sua malvagità omicida.[*] Alla luce di tutto questo, se inducete disgusto nei soggetti e, poi, consentite loro di lavarsi le mani, giudicheranno meno severamente le violazioni delle norme legate alla “purezza morale”.[7]

Le nostre valutazioni, le decisioni e le intenzioni sono anche plasmate dalle informazioni sensoriali provenienti dal nostro corpo (ovvero, dalla percezione interocettiva). Considerate uno studio che si è occupato proprio di quell’insula, la parte della corteccia che confonde il disgusto morale e quello viscerale. Se vi trovate su una nave, che naviga in acque agitate, e state vomitando oltre la battagliola, è garantito che qualcuno si avvicinerà e vi dirà, con una certa sufficienza, che lui, invece, si sente bene, perché ha mangiato dello zenzero, che “calma” lo stomaco. Nello studio, i soggetti sperimentali dovevano giudicare la gravità delle violazioni delle norme (per esempio, un necroforo che tocca l’occhio di un cadavere quando nessuno lo guarda, oppure qualcuno che beve da un water nuovo): ingerire un pezzetto di zenzero, prima di esprimere la valutazione, riduceva la disapprovazione. Come possiamo interpretare tale evidenza? Anzitutto, il fatto di sentir parlare di quell’illecita palpazione dell’occhio induce lo stomaco a prepararsi per vomitare, per via dell’attività di quella strana insula “da esseri umani”. Quindi, il vostro cervello valuta le vostre emozioni, relative a quel modo di comportarsi, almeno in parte basandosi sull’intensità della nausea – se provate una minore disposizione a vomitare, grazie allo zenzero, gli atti biasimevoli compiuti da coloro che lavorano presso le pompe funebri non vi sembreranno così gravi.[*][8]

Particolarmente interessanti sono le evidenze associate alla percezione interocettiva della fame. Uno studio molto noto indicava che la fame ci rende meno indulgenti. In termini più specifici, dopo aver passato in rassegna più di mille decisioni giudiziarie, si è osservato che maggiore era il tempo trascorso dall’ultimo pasto consumato dai giudici, minori erano le probabilità che concedessero la libertà condizionale a un detenuto. Altri studi mostrano che la fame produce cambiamenti anche nel comportamento prosociale. Cosa si intende con l’espressione “cambiamenti”? Si registra una diminuzione della prosocialità, come accade ai giudici, o se ne osserva un incremento? Dipende. La fame sembra avere effetti diversi su quanto caritatevoli i soggetti dichiarano di voler essere caritatevoli, rispetto a quanto lo sono in realtà;[*] oppure, a come si comportano quando hanno la, possibilità di rivelarsi cattivi, o buoni, in un gioco economico. Tuttavia, il punto importante è che le persone non fanno riferimento alla concentrazione ematica del glucosio quando spiegano perché, supponiamo, si sono rivelate gentili ora, e non prima.[9]

In altre parole, mentre siamo seduti lì, in procinto di decidere quale pulsante premere, presumendo di poter esprimere il nostro intento, frutto di una libera scelta, siamo influenzati dal nostro ambiente sensoriale – un cattivo odore, un bel viso, la sensazione di vomitare il gulasch, lo stomaco che brontola, il cuore che batte forte. Tutto ciò falsifica l’ipotesi che sostiene l’esistenza del libero arbitrio? No, gli effetti sono tipicamente lievi e si verificano solo nel “soggetto medio”, poiché si intercettano molti altri individui che costituiscono delle eccezioni. Questo è solo il primo passo per capire da dove traggono origine le intenzioni.[10]

Da minuti a giorni prima

La scelta che vi pare di compiere liberamente, quando il compito prevede di premere il pulsante vita-o-morte, può essere potentemente influenzata da eventi accaduti nei minuti o nei giorni precedenti. In tal senso, uno dei processi più importanti coinvolge le varie tipologie di ormoni secreti nel nostro letto ematico. Queste secrezioni si realizzano con diverse velocità e producono effetti sul cervello che variano da un individuo all’altro, al di là del nostro controllo e della nostra consapevolezza. Iniziamo, dunque, a occuparci di uno dei “soliti sospetti”, quando si considerano gli ormoni che modificano il comportamento, ovvero il testosterone.

In che modo il testosterone (T), nel lasso temporale che va dai minuti ai giorni precedenti, assume un ruolo nel determinare se ucciderete o no quella persona? Be’, si potrebbe pensare che il testosterone “causi” l’aggressività; quindi, tanto più elevata è la concentrazione del T, quanto più è probabile che prenderete la decisione maggiormente ostile.[*] Semplice. Tuttavia, c’è una prima complicazione: in realtà, il T non causa l’aggressività.

Tanto per cominciare, il T raramente genera nuovi pattern comportamentali che riguardino l’aggressività; invece, rende più probabile che si manifestino quelli preesistenti. Se aumentate le concentrazioni ematiche del T di una scimmia, osserverete che si rivelerà più aggressiva nei confronti di quelle che sono già di rango inferiore nella gerarchia della dominanza, mentre manifesterà sottomissione, come al solito, con quelle che si trovano a un livello superiore. Il testosterone rende l’amigdala più “reattiva”, ma solo se i neuroni ivi locati sono già stati stimolati, perché il soggetto sta osservando, per esempio, il volto di uno sconosciuto. Inoltre, il T abbassa la soglia oltre la quale si manifesta l’aggressività, in modo più rilevante, nei soggetti già inclini a esternarla.[11]

Questo ormone distorce anche il giudizio, rendendovi più propensi a interpretare come minacciosa un’espressione facciale neutra. Un incremento dei livelli di T vi rende più inclini a manifestare eccessiva sicurezza in un gioco economico; in ragione di ciò, vi dimostrate anche meno cooperativi – chi ha bisogno di qualcun altro quando è convinto di farcela da solo?[*] Inoltre, il T vi rende maggiormente propensi ad assumere rischi e ad agire con impulsività, rinforzando la capacità dell’amigdala di attivare direttamente il comportamento (e, al contempo, indebolendo l’inibizione indotta dalla corteccia frontale di inibirlo – restate sintonizzati, soprattutto in relazione al prossimo capitolo).[*] Infine, vi rende meno generosi e maggiormente egocentrici, per esempio, nei giochi economici, così come meno in grado di manifestare empatia e fiducia nei confronti degli sconosciuti.[12]

Stiamo delineando un quadro a tinte fosche. Ma ritorniamo alla vostra decisione in merito a quale pulsante premere. Se il T sta determinando effetti particolarmente significativi nel vostro cervello, in quel momento, vi rivelerete più inclini a percepire delle minacce, indipendentemente dalla loro effettiva realtà, apparirete maggiormente disattenti al dolore provato dagli altri e anche più facilmente disposti a manifestare quelle tendenze aggressive che fanno già parte di voi.

Quali fattori determinano la magnitudo degli effetti prodotti dal T nel vostro cervello? L’ora del giorno conta, poiché le concentrazioni del T sono quasi due volte più elevate, al picco circadiano giornaliero, rispetto ai minimi. Se siete malati o infortunati, se avete appena litigato oppure avete appena avuto un rapporto sessuale, si rilevano variazioni nella secrezione del T. È significativo anche quanto sono elevate le vostre concentrazioni medie di T, le quali possono variare, fino a cinque volte, tra individui sani e dello stesso sesso. Tali fluttuazioni sono ancora più ampie negli adolescenti. Inoltre, varia anche la sensibilità del cervello al T, poiché il numero dei suoi recettori, in alcune regioni cerebrali, può essere differente addirittura di un fattore dieci tra gli individui. A questo punto, è opportuno chiedersi per quale motivo gli individui differiscono in relazione alla quantità di T che le loro gonadi producono, o per il numero di recettori presenti in particolari regioni cerebrali. Ebbene, contano i geni, l’ambiente fetale e quello postnatale. Perché gli individui differiscono per quanto riguarda le preesistenti tendenze a manifestare aggressività (ovvero, in che modo appaiono diverse l’amigdala, la corteccia frontale e così via)? Tutto ciò dipende, soprattutto, da quanto la vita vi abbia “insegnato”, fin da quando eravate giovani, che il mondo è un luogo minaccioso.[*] [13]

Il testosterone non è l’unico ormone che può influenzare le vostre intenzioni in merito al fatto di premere quel pulsante. C’è anche l’ossitocina, che è famosa per indurre effetti prosociali tra i mammiferi, per esempio, migliorando il legame madre-figlio (e persino la relazione tra un uomo e un cane). La vasopressina, ovvero l’ormone strettamente associato all’ossitocina, rende i maschi più “paterni”, nelle rare specie in cui aiutano a crescere i cuccioli. In queste stesse specie, si osserva anche la tendenza a formare coppie monogame; di fatto, l’ossitocina e la vasopressina rinforzano i legami, rispettivamente nelle femmine e nei maschi. Quali aspetti biologici fondamentali danno conto del fatto che i maschi di alcune specie di roditori si rivelano monogami, mentre quelli di altre no? Le specie monogame sono geneticamente predisposte per esporre concentrazioni più elevate di recettori della vasopressina nel nucleo accumbens, la parte dopaminergica del cervello, quella associata alle “ricompense”. L’ormone viene rilasciato durante l’atto sessuale; perciò, l’esperienza con quella femmina si rivela molto piacevole, in ragione della presenza di un maggior numero di recettori, e ciò spinge il maschio a restare con lei. Sorprendentemente, un incremento della concentrazione dei recettori per la vasopressina, in quella parte del cervello, dei maschi che appartengono alle specie di roditori poligame li rende monogami (pensavo a qualcosa del tipo “una botta e via”… e, invece, non so cosa mi sia appena successo, ma credo che trascorrerò il resto dei miei giorni aiutando questa femmina a crescere i nostri figli).[14]

L’ossitocina e la vasopressina producono effetti opposti a quelli indotti dal testosterone. Riducono l’eccitabilità nell’amigdala, rendendo i roditori meno aggressivi e le persone più calme. Se aumentate la concentrazione di ossitocina, in certe condizioni sperimentali, osserverete che i partecipanti a un gioco competitivo si riveleranno più caritatevoli e fiduciosi. A conferma del fatto che questa è l’endocrinologia che regola la socialità, occorre aggiungere che non manifestereste la risposta all’ossitocina se pensaste di giocare contro un computer.[15]

C’è un altro risvolto estremamente interessante: l’ossitocina non ci rende cordiali, affettuosi e prosociali nei riguardi di chiunque. Ciò accade solo verso i membri del nostro gruppo, le persone che che fanno parte del “noi”. In uno studio condotto nei Paesi Bassi, i soggetti dovevano decidere se fosse accettabile uccidere una persona per salvarne cinque; ebbene, l’ossitocina non ha prodotto effetti quando la potenziale vittima aveva un nome olandese, ma ha reso quelle persone maggiormente propense a sacrificare qualcuno con un nome tedesco, o mediorientale (due gruppi che evocano emozioni associate a/connotazioni negative tra gli olandesi), e ha incrementato il pregiudizio implicito nei riguardi di questi due gruppi. In un altro studio, mentre l’ossitocina, come previsto, rendeva i membri del team più cooperativi in un gioco competitivo, al contempo li induceva a manifestare maggior aggressività, in modo preventivo, nei riguardi degli avversari. Quell’ormone aumenta persino il compiacimento per la sfortuna che colpisce gli estranei.[16]

Pertanto, l’ossitocina ci rende più gentili, generosi, empatici, fiduciosi, amorevoli… verso le persone che rientrano nell’in-group, che fanno parte del “noi”. Ma se qualcuno appartiene all’out-group, è uno di “loro”, parla, mangia, prega, appare, ama diversamente da noi, dimenticate di cantare “Kumbaya”.[*]

Passiamo ad analizzare le differenze individuali che riguardano l’ossitocina. Le concentrazioni dell’ormone, così come il numero di recettori presenti nel cervello, variano moltissimo tra individui diversi. Queste differenze dipendono da un’enorme quantità di fattori, che vanno dai geni e dall’ambiente fetale all’eventualità che vi siate svegliati, questa mattina, accanto a qualcuno che vi fa sentire amati e al sicuro. Inoltre, occorre considerare che sia i recettori dell’ossitocina sia quelli della vasopressina presentano, in persone differenti, varianti diverse. Quel che vi è stato offerto fin dal momento del concepimento influenza lo stile genitoriale, la stabilità delle relazioni romantiche, l’aggressività, la sensibilità alla minaccia e la filantropia.[17]

Pertanto, le decisioni che date per scontato di prendere liberamente, nei momenti che mettono alla prova la vostra personalità – generosità, empatia, onestà –, sono influenzate non solo dalle concentrazioni ematiche di questi ormoni, ma anche dal numero e dalle varianti dei loro recettori presenti nel vostro cervello.

Ora, consideriamo un’ultima classe di ormoni. Quando un organismo è stressato, indipendentemente dal fatto che si tratti di un mammifero, un pesce, un uccello, un rettile, oppure un anfibio, secerne i glucocorticoidi, gli ormoni sintetizzati dalla ghiandola surrenale, i quali producono, approssimativamente, gli stessi effetti, a livello somatico, in tutti gli animali indicati.[*] Di fatto, rendono disponibili le riserve di energia immagazzinate in certi tessuti somatici, come, per esempio, in quello epatico o in quello adiposo, per offrirle ai muscoli che devono contrarsi – una funzione molto utile se siete stressati perché, diciamo, un leone sta cercando di sbranarvi; oppure, se siete quel leone, per procurarvi una preda ed evitare di morire di fame. Per ragioni del tutto sensate e sinergiche, i glucocorticoidi incrementano la pressione sanguigna e la frequenza cardiaca, fornendo, in tempi assai rapidi, ossigeno ed energia a quei muscoli che vi salveranno la vita. Inoltre, inibiscono la fisiologia della funzione riproduttiva – non è opportuno sprecare energia nell’ovulazione, se state scappando per non soccombere.[18]

Come potete facilmente immaginare, quando siamo esposti allo stress, i glucocorticoidi influenzano l’attività del cervello. I neuroni dell’amigdala diventano più eccitabili, sicché sono potenzialmente in grado di attivare i nuclei della base e inibire la corteccia frontale – al fine di attuare risposte rapide e, in un certo senso, stereotipate, rinunciando alla precisa valutazione di ciò che sta accadendo. Al contempo, come osserveremo nel prossimo capitolo, i neuroni della corteccia frontale diventano meno eccitabili, una condizione che limita la loro capacità di indurre l’amigdala ad “agire” in modo adeguato.[19]

In ragione di tali particolari effetti a livello cerebrale, i glucocorticoidi inducono prevedibili conseguenze sul comportamento che manifestate sotto stress. I vostri giudizi appariranno maggiormente impulsivi. Se siete inclini a esprimere un certo grado di aggressività, lo farete in misura più ampia, se siete ansiosi, lo diventerete ancora di più, se siete depressi, idem. Apparirete anche meno empatici, più egoisti, e privilegerete voi stessi quando sarete chiamati a prendere decisioni che hanno una valenza morale.[20]

Il funzionamento di ogni parte di questo sistema endocrino rifletterà il fatto che siete stati esposti allo stress di recente, per esempio, a causa di un capo aggressivo e dispotico, o di un orribile tragitto mattutino per recarvi al lavoro, oppure per essere sopravvissuti al saccheggio e alla distruzione del vostro villaggio. Le varianti genetiche influenzeranno tanto l’anabolismo quanto il catabolismo dei glucocorticoidi, così come il numero e la funzionalità dei recettori per quegli ormoni, in diverse parti del vostro cervello. Quel sistema si sarebbe sviluppato diversamente in relazione alla quantità di infiammazione che avete sperimentato quando eravate un feto, allo status socioeconomico dei vostri genitori, allo stile di accudimento attuato da vostra madre.[*]

Dunque, ci sono tre diverse classi di ormoni, che agiscono nel lasso temporale che va dai minuti precedenti fino a qualche ora prima, le quali influiscono sulla decisione che prenderete. Peraltro, questo è solo l’inizio; se digitate nella casella di ricerca di Google “elenco degli ormoni umani” ne troverete più di settantacinque, la maggior parte dei quali influisce sul comportamento. Quindi, tutto ribolle sotto la superficie, influenzando il vostro cervello, senza che ne siate consapevoli. Questi effetti endocrini che si manifestano in quel lasso temporale falsificano l’ipotesi relativa all’esistenza del libero arbitrio? Certamente non bastano, perché, tipicamente, cambiano la probabilità che si manifestino alcuni comportamenti, piuttosto che causarli. Passiamo dunque alla nostra prossima tartaruga della serie che si estende all’infinito.[21]

Da settimane ad anni prima

Abbiamo osservato che gli ormoni possono cambiare l’attività del cervello nel lasso temporale che va dai minuti alle ore precedenti. In quei casi, “cambiare l’attività del cervello” non rinvia a qualsivoglia astrazione. L’esito degli effetti indotti da un ormone si concretizza nel fatto che i neuroni potrebbero rilasciare pacchetti di neurotrasmettitori quando, altrimenti, non lo farebbero; particolari canali ionici potrebbero aprirsi, oppure chiudersi; i recettori per alcuni messaggeri potrebbero variare, per numero e affinità, in una specifica regione cerebrale. In altri termini, il cervello appare plasmabile sia strutturalmente sia funzionalmente, e il vostro pattern di esposizione agli ormoni di questa mattina avrà alterato il vostro cervello ora, mentre state contemplando quei due pulsanti.

L’argomento importante di questo paragrafo è che tale “neuroplasticità” si rivela ben poca cosa, rispetto ai cambiamenti che il cervello può attuare in risposta all’esperienza, nel corso di periodi più lunghi. Le sinapsi potrebbero diventare stabilmente più eccitabili, e maggiormente inclini a trasmettere un messaggio da un neurone all’altro. Alcune coppie di neuroni possono formare sinapsi completamente nuove, o dismettere quelle esistenti. Le ramificazioni di dendriti e assoni potrebbero espandersi oppure ridursi. Alcuni neuroni possono morire, e altri possono nascere.[*] Particolari regioni del cervello potrebbero ampliarsi, o atrofizzarsi, in maniera così radicale che è possibile osservare i cambiamenti in una scansione cerebrale.[22]

Per la verità, parte di questa neuroplasticità è incredibilmente interessante; tuttavia, mi pare solo marginale per quanto riguarda le dispute sul libero arbitrio. Quando qualcuno diventa cieco e impara a leggere il braille, si osserva una rimappatura del suo cervello – ovvero, la distribuzione e l’eccitabilità delle sinapsi in particolari regioni cerebrali cambiano. Qual è l’esito? Leggere il braille con le dita, un’esperienza tattile, stimola i neuroni che si localizzano nella corteccia visiva, come se quell’individuo stesse leggendo un testo stampato. Se bendate un volontario per una settimana, osserverete che le sue proiezioni uditive cominceranno a colonizzare quella “dormiente” corteccia visiva, finendo per potenziare proprio l’udito stesso. Imparare a suonare uno strumento musicale fa sì che la corteccia uditiva si rimappi per dedicare più “spazio” all’elaborazione del suono di quello stesso strumento. Se convincete alcuni volontari, peraltro molto motivati, ad apprendere ed eseguire al pianoforte un “esercizio a cinque dita”, per due ore al giorno nel corso di alcune settimane, osserverete che la loro corteccia motoria si rimappa, finendo per dedicare più spazio al controllo dei movimenti di quella mano. Ma attenzione, c’è qualcosa di ancor più sorprendente: la stessa cosa accade se il volontario trascorre quel tempo immaginando di eseguire quell’esercizio al pianoforte.[23]

Per dirla tutta, c’è anche un fenomeno ascrivibile alla neuroplasticità che mi pare rilevante per sostenere l’inesistenza del libero arbitrio. Quando un individuo subisce un trauma e sviluppa il disturbo da stress post-traumatico, si osservano alcune trasformazioni nell’amigdala. Aumentano sia il numero di sinapsi sia l’estensione del circuito tramite il quale l’amigdala influenza il resto del cervello. Aumentano anche le dimensioni complessive dell’amigdala si incrementano, e quella stessa struttura neurale diviene più eccitabile, definendo una soglia inferiore per scatenare la paura, l’ansia e l’aggressività.[24]

Poi, occorre considerare l’ippocampo, una regione cerebrale davvero fondamentale per l’apprendimento e la memoria. Se si soffre per decenni di un disturbo depressivo maggiore, le dimensioni dell’ippocampo si riducono, e ciò compromette l’apprendimento e la memoria. Al contrario, se sperimentate per due settimane l’incremento dei livelli di estrogeni (ovvero, siete femmine e vi trovate nella fase follicolare del ciclo ovulatorio), l’ippocampo si rinforza l’attività dell’ippocampo aumenta e si rinforza. Lo stesso esito si ottiene se vi allenate regolarmente o vivete in un ambiente stimolante.[25]

Inoltre, i cambiamenti indotti dall’esperienza non si limitano al cervello. Lo stress cronico incrementa le dimensioni delle ghiandole surrenali, le quali, poi, secernono quantità maggiori di glucocorticoidi, anche quando non siete esposti allo stress. Diventare padre riduce la concentrazione di testosterone; tanto più vi rivelerete premurosi, tanto maggiore sarà l’entità della diminuzione.[26]

Osservate quanto possono essere sorprendenti le forze biologiche sotterranee che influenzano il vostro comportamento nel corso di settimane o mesi: il vostro intestino è pieno di batteri, la maggior parte dei quali vi aiuta a digerire il cibo. L’aggettivo “pieno” è persino riduttivo: avete più batteri nell’intestino che cellule nel vostro corpo.[*] Inoltre, questi batteri sono di centinaia di tipi differenti, e pesano, complessivamente, più del vostro cervello. Come indica questo nuovo campo di ricerca, la natura delle diverse specie di batteri che si trovano nel vostro intestino, nelle settimane precedenti, influenzerà l’appetito e le cosiddette “voglie alimentari”… e i pattern di espressione genica nei vostri neuroni… e anche la propensione all’ansia e l’efficacia con cui alcune malattie neurologiche si diffondono nel vostro cervello. Se “ripulite” da tutti i batteri l’intestino di un mammifero (con gli antibiotici) e poi vi trasferite quelli di un altro individuo, avrete variato anche tutti quegli effetti di natura comportamentale. Questi sono per lo più effetti lievi, ma chi avrebbe mai pensato che i batteri nel vostro intestino potessero influenzare ciò che considerate il libero arbitrio?

Le implicazioni di tutte queste evidenze sono lampanti. Come funzionerà il vostro cervello mentre contemplate quei due pulsanti? La risposta dipende, almeno in parte, dagli eventi occorsi precedentemente, in un lasso di tempo che si estende da giorni ad anni. Siete riusciti a malapena a pagare l’affitto ogni mese? Avete provato certe emozioni quando avete trovato l’amore, oppure siete diventati genitori? Avete sofferto per via di una debilitante depressione? Svolgete con successo la vostra stimolante professione? Avete “ricostruito” voi stessi, dopo aver subito i traumi di un evento bellico, oppure un’aggressione di natura sessuale? Avete apportato un drastico cambiamento nella vostra dieta? Tutto ciò modificherà il vostro cervello, e anche il vostro comportamento, senza che possiate esercitare alcun controllo, e spesso al di là della vostra consapevolezza. Inoltre, occorrerà considerare un meta-livello di differenze, ancora una volta, al di fuori del vostro controllo, nel senso che i vostri geni e la vostra infanzia avranno regolato con quanta facilità il vostro cervello cambierà, in risposta a certe particolari esperienze che vivrete da adulto. In effetti, oggigiorno, sappiamo che c’è una plasticità che riguarda la quantità e anche la tipologia di neuroplasticità che il cervello di ciascuna persona è in grado di gestire.

La neuroplasticità mostra che il libero arbitrio è un mito? Non di per sé. Passiamo alla prossima tartaruga.

Ritorno all’adolescenza

Come apparirà evidente a qualsiasi lettore che sia stato adolescente, questo è un periodo particolarmente complesso della vita. L’adolescenza è caratterizzata dalle “giravolte” emotive, dall’impulsiva assunzione dei rischi, dalla ricerca di sensazioni. Inoltre, coincide con il momento culminante, per quanto riguarda i comportamenti estremi, sia pro- sia antisociali, per la creatività individuale e il conformismo indotto dai coetanei. Dal punto di vista comportamentale, è una “bestia” a sé stante.

In effetti, lo è anche quando la si osserva dalla prospettiva neurobiologica. La maggior parte della ricerca si concentra sulle ragioni per le quali gli adolescenti si comportano in modo “adolescenziale”. Invece, il nostro scopo è capire come le caratteristiche del cervello di un adolescente ci possano aiutare a dar conto delle intenzioni che consideriamo negli adulti, relative al fatto di dover premere quei pulsanti. Peraltro, lo stesso interessantissimo aspetto neurobiologico si dimostra importante per rispondere a entrambe le questioni. All’inizio dell’adolescenza, il cervello è un’approssimazione abbastanza accurata della sua “versione” adulta, poiché si osserva la stessa densità di neuroni e di sinapsi, e anche il processo di mielinizzazione si è ormai realizzato. Ciò vale per tutto il cervello, eccetto una regione che, sorprendentemente, si svilupperà in maniera completa solo al termine del successivo decennio. Qual è questa struttura? La corteccia frontale, ovviamente. In effetti, la sua maturazione “rimane indietro” rispetto al resto della corteccia – in qualche misura, ciò accade in tutti i mammiferi, ma in maniera peculiare nei primati.[29]

In parte, questa maturazione ritardata è un fenomeno lineare. A partire dalle prime fasi dello sviluppo del cervello fetale, c’è un costante incremento della mielinizzazione fino a raggiungere i livelli che si osservano negli adulti; ciò accade anche nella corteccia frontale, sebbene con un enorme ritardo. Tuttavia, il quadro appare assai diverso quando si prendono in considerazione i neuroni e le sinapsi. All’inizio dell’adolescenza, la corteccia frontale appare dotata di un numero maggiore di sinapsi rispetto a ciò che si osserva nell’adulto. Per quanto riguarda la corteccia frontale, nell’adolescenza e nella prima età adulta si caratterizzano perché si osserva l’eliminazione delle sinapsi che si rivelano superflue, lente, o semplicemente inadeguate, mentre quella regione diventa progressivamente più “snella” ed efficiente. Un’importante evidenza di tutto ciò è rappresentata dal fatto che, sebbene un tredicenne e un ventenne possano ottenere lo stesso punteggio in un qualche test che valuti la funzione della corteccia frontale, il primo deve mobilitare più risorse in quella stessa regione per ottenere lo stesso risultato.

Quindi, la corteccia frontale – con tutti quei suoi ruoli associati alla funzione esecutiva, alla pianificazione a lungo termine, alla procrastinazione della gratificazione, al controllo degli impulsi e alla regolazione delle emozioni – non appare massimamente funzionale negli adolescenti. Mmm, cosa pensate che spieghi questa evidenza? Praticamente tutto ciò che caratterizza l’adolescenza, specialmente quando si aggiungono quegli “tsunami” indotti dagli estrogeni, dal progesterone e dal testosterone che si propagano nel cervello in quel periodo. Tutto ciò genera una sorta di “colosso” per quanto riguarda gli appetiti e l’attivazione, che viene parzialmente inibito da un’acerba corteccia frontale.[30]

Per quanto concerne i nostri interessi, la questione principale, relativa alla ritardata maturazione della corteccia frontale, non riguarda il fatto che i ragazzi si facciano dei tatuaggi veramente brutti, bensì che l’adolescenza e la prima età adulta contemplino un massiccio progetto di sviluppo nella parte più interessante del cervello. Peraltro, le implicazioni sono ovvie. Se siete degli adulti, le vostre esperienze adolescenziali relative ai traumi, all’eccitazione, all’amore, al fallimento, al rifiuto, alla felicità, alla disperazione, all’acne – insomma, tutto il “pacchetto” – avranno assunto un ruolo straordinario nella costruzione della corteccia frontale, con la quale state “lavorando” mentre contemplate quei pulsanti. Ovviamente, la più ampia varietà delle esperienze adolescenziali contribuirà a produrre cortecce frontali enormemente differenti, quando completeranno la maturazione all’inizio dell’età adulta.

C’è un’affascinante implicazione associata al fatto che la maturazione della corteccia frontale è ritardata, e sarà importante ricordarla quando tratteremo dei geni. Per definizione, se la corteccia frontale è l’ultima parte del cervello a svilupparsi, sarà meno influenzata dalla genetica e, al contempo, anche quella maggiormente plasmata dall’ambiente. Questa considerazione solleva la questione dei motivi per cui quella regione cerebrale matura così lentamente. Si tratta forse di un progetto di costruzione intrinsecamente più complicato rispetto al resto della corteccia? Ci sono neuroni specializzati, particolari neurotrasmettitori, che sono difficili da sintetizzare, sinapsi talmente uniche ed eleganti da richiedere l’impiego di “spessi manuali” che descrivano le istruzioni per il montaggio? No, non c’è nulla del genere, niente di particolarmente unico e complesso.[*][31]

Quindi, la maturazione ritardata non dipende dalla complessità della costruzione, poiché, se solo potesse, la corteccia frontale si svilupperebbe più velocemente. Invece, quel ritardo è un esito dell’evoluzione; in altri termini, è stato selezionato. Se questa è la regione cerebrale fondamentale per fare la cosa giusta quando è più difficile attuarla, allora nessun gene è in grado di specificarne le caratteristiche. Per apprendere quale sia la cosa giusta da fare è necessario compiere un lungo e difficile percorso, attraverso l’esperienza. Questo vale per qualsiasi primate, che deve affrontare certe complessità sociali, stabilendo se è il caso di dar fastidio a qualcuno o sottomettersi al suo cospetto, se è meglio allearsi oppure pugnalarlo alle spalle.

Se ciò accade ai babbuini, immaginate cosa succede tra gli esseri umani. Dobbiamo apprendere le razionalizzazioni e le ipocrisie della nostra cultura: non uccidere, a meno che non sia uno di loro, in tal caso, ecco qui una medaglia; non mentire, a meno che ci sia in ballo un grosso profitto, o si stia compiendo un’azione profondamente buona (“No, nessun rifugiato è nascosto nel mio sottotetto, no signore”). Ci sono leggi da rispettare rigorosamente, leggi da ignorare, leggi a cui opporre resistenza. Siamo chiamati a comportarci conciliando il “vivi come se ogni giorno fosse l’ultimo” con “oggi è il primo giorno del resto della tua vita”. E così via. In ragione di tutto ciò, mentre la maturazione della corteccia frontale, negli altri primati, raggiunge il culmine intorno alla pubertà, noi abbiamo bisogno di altri dodici anni. Questa condizione indica qualcosa di veramente notevole: il programma genetico del cervello umano si è evoluto per liberare, il più possibile, la corteccia frontale dall’influenza dei geni. Molte altre informazioni sulla corteccia frontale verranno illustrate nel prossimo capitolo.

Passiamo alla prossima tartaruga.[32]

E all’infanzia

L’adolescenza rappresenta dunque la fase finale che riguarda la costruzione della corteccia frontale, la quale si compie per mezzo di un processo fortemente plasmato dall’ambiente e dall’esperienza. Se consideriamo l’infanzia, ovvero la fase ancora precedente, osserviamo un importante sviluppo costruttivo che coinvolge l’intero cervello,[*] un processo che esita nell’incremento uniforme della complessità dei circuiti neuronali e della mielinizzazione. Ovviamente, tutto ciò fa il paio con l’aumento della complessità sul piano comportamentale. Si compie la maturazione delle capacità di ragionamento, e anche della cognizione e dell’affettività, che si rivelano importanti per le decisioni morali (per esempio, si osserva la transizione dall’adeguamento alle norme per evitare punizioni all’obbedire perché “che fine farebbe la società senza le persone che le rispettano?”). Si nota anche la maturazione dell’empatia (per via della crescente capacità di provarla nei riguardi dello stato emotivo di qualcuno, per la sofferenza intesa qui in senso astratto, per il dolore che non avete mai provato, e anche per quello esperito da persone completamente diverse da voi). Anche il controllo degli impulsi sta maturando (le manifestazioni vanno dal riuscire a trattenervi con successo, per qualche minuto, dal mangiare un marshmallow, per poi essere ricompensati con due, alla capacità di rimanere concentrati sul vostro progetto, che durerà ottant’anni, per accedere alla casa di riposo che preferite).

In altre parole, le “cose” più semplici precedono quelle più complesse. I ricercatori che si sono occupati dello sviluppo infantile hanno solitamente descritto queste traiettorie di maturazione facendo riferimento a delle “fasi” (per esempio, i canonici livelli dello sviluppo morale proposti dallo psicologo Lawrence Kohlberg, che lavorava alla Harvard University). Come potete facilmente prevedere, si osservano enormi differenze riguardo alla particolare fase di maturazione in cui si trova ciascun bambino, alla velocità delle transizioni di fase e a quella che caratterizzerà stabilmente l’età adulta.[*] [33]

Per quanto riguarda i nostri interessi, è opportuno chiedersi da dove derivino le differenze individuali nella maturazione, quanto controllo esercitiamo su quel processo, e come aiuti a generare proprio quelle persone che stanno contemplando i pulsanti. Che tipo di influenze intervengono in quel processo di maturazione? Ecco un elenco, non scevro da sovrapposizioni, dei soliti sospetti, seguito da una descrizione estremamente sintetica:

  1. L’educazione, ovviamente. Le differenze nello stile genitoriale sono state considerate con attenzione nei lavori, ampiamente influenti, della psicologa Diana Baumrind, che lavorava presso la University of California, Berkeley. C’è lo stile di genitorialità autorevole, in ragione del quale si pongono elevati livelli di aspettative e di richieste sul bambino, e anche molta flessibilità nel rispondere alle sue esigenze. Di solito, è quello a cui aspirano i nevrotici genitori della classe media. Poi ci sono gli stili di genitorialità autoritario (elevate richieste, bassa reattività – “Fai questo perché l’ho detto io”), permissivo (basse richieste, elevata reattività) e negligente (basse richieste, bassa reattività). Ognuno tende a produrre un tipo di adulto diverso. Come osserveremo nel prossimo capitolo, anche lo status socioeconomico (SES) dei genitori si rivela estremamente importante; per esempio, un basso SES familiare predice una stentata maturazione della corteccia frontale nei bambini che frequentano la scuola materna.[34]
  2. Socializzazione tra pari, con coetanei diversi che modellano comportamenti differenti esercitando un fascino variabile. L’importanza dei coetanei viene spesso sottovalutata dagli psicologi dello sviluppo; invece, non sorprende affatto i primatologi. Gli esseri umani hanno inventato un “nuovo modo” per trasmettere le informazioni attraverso le generazioni, laddove un adulto esperto, ovvero un insegnante, le offre intenzionalmente ai giovani. Invece, tra i primati è comune che i giovani imparino osservando i loro coetanei leggermente più grandi.[35]
  3. Influenze ambientali. È sicuro il parco del quartiere? Ci sono più librerie o negozi di liquori? È facile acquistare cibo sano? Qual è il tasso di criminalità? Insomma, occorre considerare tutti i soliti fattori.
  4. Credenze e valori culturali, che influenzano tutte le altre categorie. Come avremo modo di osservare, la cultura influenza ampiamente lo stile di genitorialità, i comportamenti modellati dai coetanei, i tipi di comunità, sia dal punto di vista sociale sia da quello fisico, che vengono costruite. Ci sono variazioni culturali nei riti di passaggio, sia espliciti sia impliciti, nello stile dei luoghi di culto, nella disposizione dei bambini ad aspirare a ricevere molti “distintivi di merito” rispetto ad acquisire delle abilità nel tormentare i membri dell’out-group.

Quella appena proposta è una lista piuttosto semplice. Ovviamente, in relazione all’infanzia si osservano molte differenze individuali che riguardano i pattern di esposizione agli ormoni, alla nutrizione, al carico patogeno e così via. Tutto converge per produrre un cervello che, come vedremo nel capitolo 5, si rivelerà unico.

Quindi, la domanda davvero rilevante diventa: In che modo infanzie differenti producono adulti diversi? A volte, il percorso più probabile sembra abbastanza chiaro senza dover fare riferimento alle neuroscienze nel loro complesso. Per esempio, uno studio che ha esaminato più di un milione di persone, che vivevano in Cina e negli Stati Uniti, ha mostrato gli effetti conseguenti al fatto di crescere in un clima mite (cioè, con lievi fluttuazioni intorno a una temperatura di 21 gradi). Tali persone appaiono, in media, più individualiste, maggiormente estroverse e aperte alle nuove esperienze. Ecco la probabile spiegazione: il mondo è un posto più sicuro e facile da esplorare se, quando state crescendo, non dovete passare lunghi periodi dell’anno preoccupandovi di non morire a causa dell’ipotermia e/o di un colpo di calore, se il reddito medio è elevato, e l’approvvigionamento del cibo costante. Peraltro, la magnitudo dell’effetto non è trascurabile, poiché appare uguale o maggiore rispetto a quella ascrivibile all’età, al genere, al PIL del paese, alla densità della popolazione e ai mezzi di produzione.[36]

Peraltro, la relazione tra la clemenza del clima, a cui si è esposti nel corso dell’infanzia, e la personalità che si manifesta durante l’età adulta può essere formulata, sul piano biologico, in termini più informativi: il primo fattore influenza il tipo di cervello che state costruendo, e di cui disporrete nel corso dell’età adulta. Come, d’altra parte, accade quasi sempre, anche in relazione ad altri fattori. Per esempio, essere esposti a un elevato livello di stress durante l’infanzia, attraverso gli effetti prodotti dai glucocorticoidi, compromette lo sviluppo della corteccia frontale, “producendo” un adulto meno abile nel controllo degli impulsi, una funzione che, in realtà, si rivela molto utile. Un’elevata esposizione al testosterone, nel corso dell’infanzia, determina lo sviluppo di un’amigdala altamente reattiva, “producendo” un adulto che si rivelerà maggiormente incline a rispondere in maniera aggressiva alle provocazioni.

Il processo che dà conto di come ciò possa accadere rientra nell’ambito di ricerca, straordinariamente trendy, dell’“epigenetica”, grazie al quale si evidenzia in che modo le esperienze precoci, a cui ci espone la vita, causino cambiamenti duraturi nell’espressione genica in particolari regioni cerebrali. Orbene, ciò non significa che l’esperienza modifichi in maniera diretta quegli stessi geni (ovvero, cambiando le sequenze del DNA); tuttavia, ne regola l’espressione: in altri termini, influisce sull’eventualità che un gene sia sempre attivo, non lo sia mai, oppure lo sia solo in un contesto, ma non in un altro. Oggigiorno, disponiamo di molte informazioni in merito a come funzioni tutto ciò. Ecco un celebre esempio: se siete un piccolo di ratto, che cresce con una madre atipicamente disattenta,[*] alcuni cambiamenti epigenetici nella regolazione di un gene, la cui espressione influisce sull’ippocampo, renderanno più difficile per voi riprendervi dallo stress, nel corso della vita adulta.[37]

Da dove traggono origine le differenze nello stile di accudimento dei roditori? Ovviamente, da quel che è accaduto un secondo, un minuto, un’ora prima, nell’intera storia biologica di quella mamma ratto. La conoscenza dei fondamenti epigenetici di tutto ciò è aumentata con una velocità vertiginosa. Siamo stati in grado, per esempio, di mostrare in che modo alcuni cambiamenti epigenetici, nel cervello, possano avere conseguenze multigenerazionali (ciò ci aiuta a dar conto del fatto che un ratto, una scimmia, un essere umano che abbiano subito abusi durante l’infanzia hanno molte più probabilità di diventare genitori abusanti). Tanto per darvi un’idea della complessità epigenetica, considerate che, nelle scimmie, le differenze nello stile di accudimento materno causano cambiamenti nella regolazione dell’espressione di oltre mille geni nella corteccia frontale della prole.[38]

Se doveste “comprimere” la variabilità relativa a tutti quegli aspetti delle influenze infantili su un singolo asse, vi basterebbe chiedervi quanto è stata “baciata dalla fortuna” la vostra infanzia. Questo fattore, straordinariamente importante, è stato tradotto nel punteggio dell’Adverse Childhood Experiences (ACE). In questo strumento di misura, cosa costituisce un’esperienza avversa? Ecco una categorizzazione razionale:

 

 

Fonte: Centers for Disease Control and Prevention

Per ciascuna di queste esperienze vissute, si ottiene un punto sulla checklist, laddove i meno fortunati hanno punteggi che si avvicinano a un inimmaginabile dieci, mentre i più fortunati ne ricevono uno che si aggira intorno allo zero.

In questo ambito di ricerca si è prodotta una particolare scoperta, che dovrebbe sorprendere chiunque si “aggrappi” al concetto di libero arbitrio. Ogni volta che si “sale di un gradino” in uno dei punteggi ACE, si calcola approssimativamente un incremento del 35 per cento della probabilità di manifestare, in età adulta, un comportamento antisociale, nella fattispecie: violenza; riduzione delle competenze cognitive ascrivibili all’attività della corteccia frontale; problemi relativi al controllo degli impulsi; abuso di sostanze; gravidanze nel corso dell’adolescenza, rapporti sessuali non protetti, e altri comportamenti rischiosi; incremento della vulnerabilità alla depressione e ai disturbi d’ansia. Oh, dimenticavo: avrete anche una salute peggiore e, probabilmente, morirete prima.[39]

Otterreste la stessa “storia” se invertiste l’approccio di 180 gradi. Da bambini, vi sentivate amati e al sicuro nella vostra famiglia? C’erano modelli adeguati riguardo alla sessualità? Il vostro quartiere era privo di criminalità, la vostra famiglia era mentalmente sana, il vostro status socioeconomico era buono e costante? Bene, allora ricevereste un punteggio elevato nella scala RLCE (Ridiculously Lucky Childhood Experiences), che si rivela predittiva di tutti i tipi importanti di risultati positivi.

Quindi, essenzialmente ogni aspetto della vostra infanzia – buono, cattivo o intermedio, fattori sui quali non avevate alcun controllo – ha modellato il cervello adulto di cui disponete ora, mentre state contemplando quei pulsanti. Ecco un esempio di qualcosa che è al di fuori del controllo di un individuo: in ragione della casualità del mese di nascita, alcuni bambini possono essere fino a sei mesi più grandi, o più piccoli, rispetto alla media del loro gruppo di coetanei. Per esempio, all’asilo, i bambini più grandi, di solito, sono più competenti dal punto di vista cognitivo. Ed ecco il risultato: ricevono più attenzioni e lodi, sul piano individuale, dai loro insegnanti così che, quando giungono a frequentare la prima elementare, il loro vantaggio è ancora maggiore, così che in seconda elementare… Nel Regno Unito, che ha come data limite il 31 agosto per l’ingresso alla scuola materna, questo “effetto dell’età relativa” produce un significativo squilibrio nel livello di istruzione raggiunto. Per esempio:

 

 

Oxford University – Effetto dell’età relativa – Prima laurea – dal 2004-2005 al 2013-2014

La fortuna si pareggia col passare del tempo? Neanche per idea.[*][40]

Dunque, il ruolo assunto dall’infanzia confuta l’ipotesi relativa all’esistenza del libero arbitrio? No, i punteggi relativi all’ACE riguardano il potenziale e la vulnerabilità degli adulti, non già un inevitabile destino; di fatto, ci sono molte persone che, da adulte, hanno goduto di un avvenire radicalmente diverso da quello che ci si sarebbe aspettati, considerando il loro passato. Questo è solo un altro fattore che si aggiunge alla sequenza di influenze.[41]

Ritornare nel grembo

Se non potevate determinare in quale famiglia vi sareste ritrovati alla nascita, di sicuro non avevate neanche la possibilità di scegliere in quale utero “abitare” durante quei nove mesi, tanto importanti. In effetti, le influenze ambientali iniziano molto prima della nascita. La circolazione materna è la via attraverso la quale si diffondono tali influenze, che contribuiranno a determinare quel che accade nel feto: le concentrazioni di un’enorme varietà di differenti ormoni, dei fattori immunitari, delle molecole mediatrici della flogosi, dei patogeni, dei nutrienti, delle sostanze illecite e di quelle tossiche presenti nell’ambiente, oltre a tutto ciò che regola la funzione cerebrale della madre. Non sorprende che i temi generali riecheggino quelli che abbiamo trattato in relazione all’infanzia. Una grande quantità di glucocorticoidi, provenienti da vostra madre, che “marinano” il vostro cervello fetale, per via dello stress a cui è esposta, incrementa la vostra vulnerabilità nei riguardi dei disturbi d’ansia e depressivi, che manifesterete quando sarete adulti. Un’enorme quantità di androgeni, che si rinviene nella circolazione fetale (provenienti dalla madre, poiché anche le femmine secernono androgeni, sebbene in misura minore rispetto ai maschi), rende più probabile che, da adulti, indipendentemente dal vostro sesso, mostriate aggressività sia spontanea sia reattiva, oltre a una scarsa regolazione emotiva, una ridotta empatia, una disposizione all’alcolismo, alla criminalità e, persino, una brutta calligrafia. La carenza di nutrienti che alimentano il feto, indotta dall’inedia della madre, incrementa il rischio di manifestare la schizofrenia in età adulta, oltre a quello associato a un’ampia varietà di malattie metaboliche e cardiovascolari.[*][42]

Quali sono le conseguenze degli effetti dell’ambiente in cui si sviluppa il feto? Come vedremo, tali implicazioni rappresentano un’altra via che determinerà quanto è probabile che siate fortunati, o sfortunati, nel mondo che vi attende.[43]

Ritorno al vostro inizio: i geni

Consideriamo la prossima tartaruga. Se non avete scelto il grembo in cui siete cresciuti, sicuramente non avete avuto alcun controllo su quel miscuglio, davvero unico, di geni che avete ereditato dai vostri genitori. I geni hanno molto a che fare con certi “bivi decisionali”; peraltro, secondo modalità più interessanti di quel che si crede comunemente.

Cominciamo con un’introduzione, estremamente superficiale, che riguarda i geni, al fine di assumere una prospettiva che ci consenta di apprezzare certe questioni, quando li metteremo in relazione al libero arbitrio.

Innanzitutto, cosa sono i geni e cosa fanno? I nostri corpi sono costituiti da migliaia di diversi tipi di proteine, che svolgono funzioni estremamente varie. Alcune proteine, dette “citoscheletriche”, conferiscono forme distinte ai diversi tipi di cellule. Alcune assumono il ruolo di messaggeri – molti neurotrasmettitori, ormoni, e anche alcune molecole implicate nelle reazioni immunitarie sono proteine. Anche gli enzimi sono proteine, il loro compito è associato all’anabolismo e al catabolismo di quegli stessi messaggeri; infine, praticamente tutti i recettori, nell’intero corpo, sono fatti di proteine.

Da dove viene tutta questa versatilità? Ogni tipo di proteina è costituito da una sequenza distintiva di diversi aminoacidi, che potremmo considerare i loro “mattoni”. La sequenza degli aminoacidi stabilisce la forma della proteina e, quest’ultima, ne determina la funzione. Un “gene” è quel tratto di DNA che specifica la sequenza di aminoacidi, la forma e la funzione di una particolare proteina. Ognuno dei nostri circa ventimila geni codifica le informazioni per la sintesi di un’unica proteina.[*]

Come fa un gene a “decidere” quando avviare la sintesi della proteina che codifica? Come fa a sapere se ne verrà sintetizzata solo una oppure diecimila? Queste domande si fondano su un assunto implicito, il punto di vista “popolare” che considera i geni come l’alfa e l’omega, il “codice dei codici” che regola tutto ciò che avviene nel nostro corpo. Oggigiorno, sappiamo che i geni non decidono nulla; in un certo senso, sono alla deriva. Affermare che un gene decide quando sintetizzare la proteina che codifica è come dire che la ricetta decide quando cuocere la torta di cui indica gli ingredienti.

Invece, i geni vengono attivati e disattivati dall’ambiente. Cosa s’intende qui con la parola “ambiente”? Può trattarsi di quello all’interno di una singola cellula. Trovandosi in una condizione di carenza di energia, la cellula sintetizza una molecola messaggera, la quale attiva i geni, che codificano le proteine, le quali incrementano la produzione di quella stessa energia. Con la parola “ambiente” si può anche far riferimento all’intero corpo: un ormone viene secreto e, attraverso la circolazione ematica, raggiunge le cellule target in un distante distretto somatico, laddove si lega ai suoi specifici recettori; in conseguenza di ciò, alcuni particolari geni vengono attivati, oppure disattivati. D’altro canto, la parola “ambiente” può assumere il significato che tipicamente intendiamo quando la impieghiamo nella nostra quotidianità; ovvero, riferirsi agli eventi che accadono nel mondo intorno a noi. Peraltro, queste diverse “versioni” dell’ambiente sono connesse. Per esempio, vivere in una città stressante e pericolosa produrrà concentrazioni cronicamente elevate di glucocorticoidi, secreti dalle ghiandole surrenali, che attiveranno particolari geni nei neuroni dell’amigdala, rendendo quelle cellule maggiormente eccitabili.[*]

Com’è possibile che i diversi messaggeri, la cui sintesi viene indotta dall’ambiente, attivino geni differenti? Ebbene, non tutto il DNA contribuisce alla codifica di un gene. Anzi, da tempo sappiamo che ci sono lunghe porzioni del DNA che non codificano nulla. Queste parti sono gli interruttori on/off che presiedono all’attivazione dei geni vicini. Ora, ecco un fatto straordinario: soltanto il 5 per cento del DNA costituisce i geni. A cosa serve il restante 95 per cento? Di fatto, costituisce quegli incredibilmente complessi interruttori on/off. Sono questi i mezzi attraverso i quali le varie influenze ambientali regolano particolari reti di geni, con molteplici tipi di interruttori, che agiscono su un singolo gene, oppure una pluralità di geni, i quali sono regolati dallo stesso tipo di interruttore. In altre parole, la maggior parte del DNA è dedicata alla regolazione dell’espressione genica, piuttosto che ai geni stessi. Inoltre, nel DNA, i cambiamenti evolutivi, di solito, sono più significativi quando alterano gli interruttori on/off, piuttosto che un gene. Un’ulteriore evidenza, in merito all’importanza della regolazione, è data dal fatto che quanto più complesso è l’organismo, tanto maggiore è la percentuale del suo DNA dedicata al controllo dell’espressione genica.[*]

Dove siamo arrivati in questa introduzione? I geni codificano per delle proteine che svolgono diverse funzioni, ma non decidono quando si devono attivare, poiché sono regolati dai segnali ambientali; inoltre, l’evoluzione del DNA riguarda, in modo sproporzionato, la regolazione dell’espressione genica piuttosto che i geni stessi.

Quindi, i segnali ambientali hanno attivato alcuni geni, determinando la sintesi delle rispettive proteine codificate, le quali svolgono poi il compito a cui sono deputate. Ecco il successivo punto fondamentale: la stessa proteina può funzionare in modo diverso in ambienti differenti. Tali “interazioni gene/ambiente” sono meno importanti nelle specie che vivono in un solo tipo di habitat. Invece, sono davvero rilevanti nelle specie che abitano più tipi di ambienti – come, per esempio, capita a noi. Possiamo vivere nella tundra, nel deserto, oppure nella foresta pluviale; possiamo abitare in una megalopoli urbana, insieme a milioni di persone, o far parte di piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori; possiamo condurre la nostra esistenza in società capitalistiche oppure socialiste, in culture poligame o monogame. Quando si tratta degli esseri umani, può rivelarsi ingenuo chiedersi cosa faccia un particolare gene; piuttosto, vale la pena di valutare come si manifesta in uno specifico ambiente.

Dunque, come potrebbero configurarsi le interazioni gene/ambiente? Supponiamo che qualcuno disponga di una variante genetica associata all’aggressività; a seconda dell’ambiente, ciò può comportare un incremento delle probabilità che ci si lasci coinvolgere in una rissa, oppure che si giochi a scacchi in modo estremamente combattivo. D’altro canto, un gene associato all’assunzione dei rischi, a seconda dell’ambiente, influenzerà l’eventualità che si rapini un negozio o si fondi una startup. Infine, un gene associato all’assuefazione, a seconda dell’ambiente, farà sì che un “Boston Brahmin”[*] beva troppo Scotch nel suo club, oppure indurrà una persona a rubare per procurarsi il denaro per comprare l’eroina.[*]

Ecco l’ultima parte di questa introduzione. La maggioranza dei geni ha più varianti, e gli individui ereditano quelle particolari che appartengono ai loro genitori. Tali varianti genetiche codificano per versioni leggermente diverse delle loro proteine, ma alcune si rivelano migliori, rispetto ad altre, nello svolgimento dei loro compiti.[*]

A che punto siamo arrivati? Le persone differiscono per quanto riguarda i tipi di geni che possiedono. Inoltre, quegli stessi geni sono regolati, in modo diverso, in ambienti eterogenei. Tale condizione determina la sintesi di proteine il cui effetto varia in ambienti diversi. Ora, possiamo considerare come i geni si relazionano con questa nostra ossessione per il libero arbitrio. È tempo di premere il pulsante; in che modo il vostro cervello sarà influenzato, proprio in quel momento, dai tipi particolari di geni che avete ereditato? Considerate la serotonina – i diversi profili di segnalazione di questo neurotrasmettitore, che si osservano tra le persone, ci aiutano a dar conto delle differenze individuali in merito all’umore, ai livelli di arousal, alla tendenza a manifestare un comportamento compulsivo, alla ruminazione e all’aggressività reattiva. Come possono le peculiarità individuali, che riguardano le varianti genetiche, contribuire alle differenze relative alla segnalazione della serotonina? Per la verità, possono farlo molto facilmente: esistono infatti varianti diverse per i geni, le quali codificano per le proteine che sintetizzano la serotonina, che la “rimuovono” dalla sinapsi e ne determinano la degradazione.[*] Esistono anche delle varianti dei geni, che codificano per più di una dozzina di diversi tipi di recettori per questa molecola.[44]

Lo stesso discorso vale per il neurotrasmettitore dopamina. Tanto per affrontare la questione in maniera piuttosto superficiale, le differenze individuali nella segnalazione della dopamina sono rilevanti per la ricompensa, l’anticipazione, la motivazione, la dipendenza, la procrastinazione della gratificazione, la pianificazione a lungo termine, l’assunzione di rischi, la ricerca di novità, la rilevanza attribuita agli indizi, la capacità di concentrazione – tutti argomenti importanti per valutare, diciamo, se qualcuno, semplicemente mostrando un po’ di autodisciplina, avrebbe potuto far fronte a circostanze avverse. Cosa possiamo dire in merito alle origini genetiche delle differenze, relative alla dopamina, tra le persone? Abbiamo riconosciuto varianti genetiche associate alla sintesi di questo neurotrasmettitore, alla sua degradazione e alla “rimozione” dalla sinapsi, oltre ai vari recettori per questa molecola.[45]

Potremmo ora considerare il neurotrasmettitore norepinefrina; oppure gli enzimi che sintetizzano e degradano vari ormoni e recettori ormonali; o, ancora, quasi tutto ciò che è pertinente con le funzioni cerebrali. Di solito, si rileva un’ampia variabilità individuale in relazione a ogni gene rilevante, e, ovviamente, non siete stati consultati in merito a quale avreste preferito ereditare.

C’è anche il rovescio della medaglia: cosa accade a un gruppo di persone che dispone della stessa variante genetica, ma vive in ambienti diversi? Si osserva esattamente ciò di cui abbiamo discusso sopra; ovvero, effetti del tutto diversi, prodotti dalla stessa variante genetica, a seconda dell’ambiente. Per esempio, una variante del gene la cui proteina degrada la serotonina incrementerà il rischio di comportamenti antisociali… ma solo se siete stati esposti a gravi abusi nel corso dell’infanzia. Una variante di un gene del recettore della dopamina vi rende più o meno propensi alla generosità, a seconda che siate cresciuti disponendo, o no, di un attaccamento genitoriale sicuro. La stessa variante è associata a una scarsa capacità di procrastinare la gratificazione… se siete cresciuti in povertà. Una variante del gene che dirige la sintesi della dopamina ha un’associazione con la rabbia… ma solo se avete subito abusi sessuali nel corso dell’infanzia. Una versione del gene per il recettore dell’ossitocina è associata a una genitorialità meno sensibile… ma solo nel caso in cui abbiate subito abusi durante l’infanzia. E così via (tenendo conto che molte di queste relazioni sono state osservate anche in altre specie di primati).[46]

Accipicchia, com’è possibile che l’ambiente faccia sì che i geni funzionino tanto diversamente, persino in modi diametralmente opposti? Ecco una prima risposta, solo per iniziare a “mettere insieme” tutte le tessere del puzzle: ambienti differenti causeranno diversi tipi di cambiamenti epigenetici nello stesso gene o in un particolare interruttore on/off.

Pertanto, le persone dispongono di tutte queste diverse versioni di ciascuno di quei geni, e tali versioni funzionano in modo differente, a seconda dell’ambiente a cui sono state esposte nel corso dell’infanzia. Solo per darvi qualche numero, il genoma degli esseri umani è composto da circa ventimila geni; di questi, una percentuale che si attesta intorno all’80 per cento è attiva nel cervello – sedicimila. Quasi tutti questi geni sono “polimorfici”, cioè dispongono di più di una varietà. Ciò significa che, in ciascuno di quei geni, il polimorfismo consiste nel fatto che in un punto, nella sequenza del DNA, si rileva una differenza tra gli individui? No. In effetti, ci sono, mediamente, 250 punti, passibili di variazione, nella sequenza del DNA di ciascun gene. Tale condizione produce una possibilità di variazione individuale in circa quattro milioni di punti, nella sequenza del DNA, che codifica per i geni attivi nel cervello.[*][47]

La genetica comportamentale confuta l’ipotesi relativa all’esistenza del libero arbitrio? Non da sola poiché, come abbiamo già visto, i geni riguardano le potenzialità e le vulnerabilità, non già l’inevitabilità; inoltre, gli effetti sul comportamento, prodotti dalla maggior parte di questi geni, sono relativamente lievi. Tuttavia, tali effetti derivano da geni che non avete selezionato voi, i quali interagiscono con un’infanzia che non avete scelto.[48]

Indietro nei secoli: “il tipo di persone da cui provenite”

I pulsanti libetiani ci stanno “facendo un cenno”. Cosa c’entra la vostra cultura con l’intento che porterete a termine? Molto. Ebbene, fin dal momento della vostra nascita, siete stati esposti a un “universale”, ovvero al fatto che i valori della vostra cultura includono modalità che fanno sì che la generazione successiva li ricapitoli; pertanto, a tempo debito, anche voi diventerete “il tipo di persone da cui provenite”. Di conseguenza, il vostro cervello, in un certo senso, riflette i vostri antenati, e anche quelle circostanze storiche ed ecologiche che li hanno portati a stabilire quei valori ai quali, oggi, vi adeguate. Se un neurobiologo di strette vedute diventasse il dittatore del mondo, definirebbe l’antropologia come “lo studio dei modi in cui gruppi diversi di persone cercano di plasmare lo sviluppo cerebrale nei loro figli”.

Le culture producono comportamenti straordinariamente diversi, che fanno riferimento a pattern coerenti. Una delle contrapposizioni più studiate riguarda le culture “individualistiche” rispetto a quelle “collettivistiche”. Le prime enfatizzano l’autonomia, il successo personale, l’unicità, i bisogni e i diritti dell’individuo; si tratta di badare al proprio interesse, poiché le azioni che ponete in atto sono “vostre”. Le culture collettivistiche, al contrario, promuovono l’armonia, l’interdipendenza, la disponibilità a conformarsi, perché i bisogni della comunità informano le manifestazioni comportamentali. La priorità è attribuita al fatto che le vostre azioni rendano orgogliosa quella stessa comunità, perché voi siete “loro”. La maggior parte degli studi su queste contrapposizioni mette a confronto persone che costituiscono campioni rappresentativi delle culture individualistiche, anzitutto di quella statunitense, e delle culture collettivistiche per eccellenza, ovvero quelle diffuse nell’Asia orientale. Le differenze che si riscontrano hanno senso. Le persone che vivono negli Stati Uniti sono più propense a usare i pronomi personali al singolare, a definirsi in qualità di individui piuttosto che in riferimento alla dimensione relazionale (“Sono un avvocato” versus “Sono un genitore”), a organizzare la memoria intorno agli eventi piuttosto che alle relazioni sociali (“L’estate in cui ho imparato a nuotare” versus “L’estate in cui siamo diventati amici”). Se chiedete ai soggetti sperimentali di disegnare un sociogramma – un diagramma in cui i cerchi, che rappresentano loro stessi e le persone che contano nella loro vita, sono collegati da linee –, osserverete che gli statunitensi, di solito, ritraggono loro stessi col cerchio più grande, che pongono al centro. Invece, quello impiegato da un asiatico per rappresentare se stesso, di solito, non è più grande degli altri, e non è posto in una posizione preminente. L’obiettivo degli statunitensi è distinguersi, superando gli altri; quello degli asiatici è evitare di essere diversi.[*] In ragione di tali differenze, si osservano grandi variazioni in merito a cosa significhi violare le norme e a come si affrontino tali eventualità.[49]

Ovviamente, ciò riflette differenti modalità di funzionamento tanto del cervello quanto del soma. Per esempio, si è rilevato che, in media, nelle popolazioni dell’Asia orientale, il sistema dopaminergico della “ricompensa” si attiva maggiormente quando gli individui osservano un’espressione facciale calma, non già quando il volto che stanno guardando comunica eccitazione. Invece, nel caso degli statunitensi, si riscontra il fenomeno diametralmente opposto. Mostrate ai soggetti un’immagine che ritrae una scena piuttosto complessa. Nel giro di millisecondi, gli asiatici solitamente esaminano l’intera scena nel suo insieme, ricordandola; gli statunitensi, invece, focalizzano l’attenzione sulla persona che si trova al centro. Se forzate uno statunitense a raccontarvi dei momenti in cui altre persone lo hanno influenzato, rileverete la secrezione di glucocorticoidi; invece, un individuo di origini asiatiche secernerà l’ormone dello stress quando sarà costretto a raccontarvi dei momenti in cui ha influenzato altre persone.[50]

Da dove derivano tali differenze? Le spiegazioni standard per l’individualismo statunitense almeno due questioni. In primo luogo, occorre tener conto del fatto che: non solo siamo una nazione costituita da espatriati che provengono da altri Paesi (nel 2017, circa il 37 per cento della popolazione era composto da immigrati di prima o seconda generazione), ma occorre anche considerare che non è nemmeno casuale chi emigra; di fatto, l’immigrazione è un processo che seleziona persone disposte ad abbandonare il loro mondo e la loro cultura, a sostenere un difficile viaggio per raggiungere un luogo che pone delle “barriere”, le quali o impediscono l’ingresso, oppure limitano la possibilità di accedere ai posti di lavoro migliori una volta ottenuto il visto di immigrazione. In secondo luogo, la maggior parte della storia americana si è compiuta lungo un confine occidentale, in continua espansione, per via di quanto attuato da coloni altrettanto duri e individualisti. Al contempo, la spiegazione standard volta a dar conto del collettivismo che si osserva nell’Asia orientale rinvia all’idea che l’ecologia definisca i mezzi di produzione. Per circa diecimila anni quelle popolazioni si sono dedicate alla coltivazione del riso; un’attività che richiede un’enormità di lavoro collettivo per trasformare le montagne in risaie terrazzate, per seminare e procedere alla raccolta, per costruire e manutenere gli imponenti e antichi sistemi di irrigazione.[*][51]

Un’affascinante eccezione, che conferma la regola, riguarda alcune parti del Nord della Cina, dove l’ecosistema impedisce la coltivazione del riso, inducendo quelle popolazioni, da millenni, a dedicarsi alla coltivazione, molto più individualistica, del grano. Gli agricoltori di questa regione, e persino i loro nipoti, che studiano nelle università, sono individualisti tanto quanto gli occidentali. In un esperimento, si è ottenuto un esito particolarmente singolare: i cinesi delle regioni dove si coltiva il riso si adattano ed evitano gli ostacoli (in questo caso, camminano intorno a due sedie, poste in una certa posizione al fine di bloccare il passaggio in un locale di Starbucks); invece, le persone che si dedicano alla coltivazione del grano rimuovono gli ostacoli (cioè, spostano le sedie da una parte).[52]

Quindi, le differenze culturali che sono insorte secoli, o millenni fa, influenzano i nostri comportamenti, da quelli più lievi, minuti e poco significativi, a quelli maggiormente eclatanti e vistosi.[*] Un’altra messe di letteratura confronta le culture dei popoli della foresta pluviale e quelle di coloro che vivono nel deserto. Orbene, i primi tendono a “inventare” religioni politeistiche, mentre i secondi quelle monoteistiche. Tutto ciò, probabilmente, riflette anche certe condizioni ecologiche: la vita nel deserto è una lotta contro la disidratazione, che ci impegna sul piano individuale, al fine di garantirci la sopravvivenza; invece, le foreste pluviali pullulano di una moltitudine di specie, che, forse, favoriscono l’“invenzione” di un gran numero di divinità. Inoltre, i popoli monoteisti del deserto sono più inclini alla guerra, e si rivelano anche conquistatori maggiormente efficaci rispetto ai politeisti delle foreste pluviali; un fatto che, probabilmente, spiega perché circa il 55 per cento degli esseri umani esprime la propria fede nei riguardi di religioni inventate da pastori monoteisti del Medio Oriente.[53]

Il fatto di dedicarsi alla conduzione delle greggi ha prodotto un’altra differenza culturale. Tradizionalmente, gli esseri umani si guadagnano “da vivere” facendo gli agricoltori, i cacciatori-raccoglitori, oppure i pastori. Questi ultimi sono persone che vivono nei deserti, nelle praterie, nelle pianure della tundra, accudendo e conducendo i loro animali, che possono essere capre, pecore, cammelli, lama, yak, mucche, o renne. Tali pastori sono spesso soli e vulnerabili. È difficile arrivare di nascosto, nel cuore della notte, e “rubare” il campo di riso o la foresta pluviale di qualcuno. Invece, potete rivelarvi delle “carogne” e rubare il gregge di un pastore, portandogli via il latte e la carne che gli servono per sopravvivere.[*] Questa vulnerabilità ha generato le cosiddette “culture dell’onore”, che hanno le seguenti caratteristiche: (a) la straordinaria ospitalità, ma solo temporanea, verso uno sconosciuto di passaggio – dopotutto, la maggior parte dei pastori si ritrova, insieme ai propri animali, nella stessa condizione di viandante; (b) l’osservanza di rigorosi codici comportamentali, laddove le violazioni delle norme sono tipicamente interpretate come offese rivolte a qualcuno; (c) l’esigenza di rispondere con una reazione violenta a tali affronti – questa è la dimensione delle faide e delle vendette che durano per generazioni; (d) l’esistenza della classe dei guerrieri, che incarnano i loro caratteristici valori, laddove la capacità di distinguersi in battaglia procura uno status elevato e la gloria ultraterrena. Molto è stato detto dell’ospitalità, del conservatorismo (inteso nel senso del custodire rigorosamente le norme tradizionali) e della violenza, insiti nella cultura dell’onore tipica degli Stati Uniti del Sud. Il pattern della violenza racconta molto: negli Stati del Sud, che hanno tipicamente i tassi più alti di omicidi del paese, tali reati non riguardano le rapine “finite male” in una città, quanto piuttosto l’assassinio di qualcuno che ha gravemente leso l’onore di un altro individuo (per esempio, diffamandolo apertamente, non ripianando un debito, facendo avance al suo partner…), specialmente tra coloro che vivono in zone rurali.[*] Da dove trae origine la cultura dell’onore degli Stati del Sud? Una teoria ampiamente accettata dagli storici conferma perfettamente la posizione espressa in questo paragrafo: mentre le colonie del New England si riempivano di pellegrini e la regione medio-atlantica di commercianti, come i quaccheri, il Sud era sproporzionatamente popolato da scapestrati pastori provenienti dal Nord dell’Inghilterra, dalla Scozia e dall’Irlanda.[54]

Analizziamo ora un’ultima comparazione, che riguarda le culture “rigide” (con codici di comportamento che contemplano numerose norme, rigorosamente rispettate) e quelle “libere”. Quali sono alcuni degli indicatori di una società rigida? Una storia costellata dalle crisi culturali, dalla siccità, dalle carestie, dai terremoti, e da elevati tassi di malattie infettive.[*] In questo contesto, intendo propriamente la “storia”: in uno studio che ha considerato trentatré paesi, la rigidità era più probabile nelle culture che avevano avuto un’elevata densità di popolazione nel 1500.[*][55]

Cinquecento anni fa!? Come è possibile? Perché generazione dopo generazione, la cultura ancestrale influenzava le preferenze riguardo a quanto contatto fisico le madri avevano con i loro figli; l’eventualità che i bambini fossero sottoposti a scarificazioni, a mutilazioni genitali e a riti di passaggio pericolosi per la vita; persino le contingenze per le quali i miti e le canzoni trattassero di vendetta o di perdono.

L’influenza della cultura confuta l’ipotesi relativa all’esistenza del libero arbitrio? Ovviamente, no. Come al solito, si tratta di cogliere tendenze, nel bel mezzo di molte variazioni individuali. Basti considerare Gandhi, Anwar Sadat, Yitzhak Rabin, Michael Collins: tutte persone atipicamente propense a perseguire la pace, che sono state da correligionari inclini, in un modo fuori dal comune, a manifestare l’estremismo e a praticare la violenza.[*][56]

Oh, perché no? l’evoluzione

Per varie ragioni, gli esseri umani sono stati plasmati dall’evoluzione, nel corso di milioni di anni, fino a rivelarsi, in media, più aggressivi dei bonobo, ma meno degli scimpanzé, maggiormente sociali rispetto agli oranghi ma comunque meno dei babbuini, più monogami dei lemuri ma anche più poligami delle scimmie marmoset. Nulla da aggiungere.[57]

Senza soluzione di continuità

Da dove trae origine l’intenzione? Cosa ci rende quel che siamo in un dato momento? Ciò è accaduto prima.[*] In effetti, questo argomento solleva una questione straordinariamente importante che, peraltro, abbiamo già affrontato nel capitolo 1: le interazioni tra la biologia e l’ambiente risalenti, tanto per dire, a un minuto oppure a un decennio fa non sono entità separate. Supponiamo di considerare i geni ereditati da qualcuno, quando era uno zigote (ovulo fecondato) per poi chiederci cos’abbiano a che fare col comportamento di quella persona. Be’, allora, stiamo pensando come degli esperti che si occupano di “genetica”. Potremmo persino rendere più esclusivo il nostro club e diventare dei “genetisti del comportamento”, pubblicando le nostre ricerche solo su una rivista che si intitola, per l’appunto, Behavior Genetics. Tuttavia, se stiamo parlando dei geni che sono rilevanti per il comportamento della persona, ci stiamo immediatamente riferendo anche a come è stato costruito il suo cervello, perché tale processo si compie attraverso le funzioni svolte dalle proteine codificate dai “geni implicati nel neurosviluppo”. Analogamente, se stiamo studiando gli effetti prodotti dalle avversità, occorse durante l’infanzia, sul comportamento che si manifesta in età adulta – spesso meglio compresi a livello psicologico o sociologico–, stiamo implicitamente considerando anche come la biologia molecolare dell’epigenetica infantile ci aiuti a spiegare la personalità e il temperamento di un individuo maturo. Se siamo biologi evoluzionisti che si occupano del comportamento umano, per definizione, siamo anche genetisti del comportamento, neurobiologi dello sviluppo e neuroplasticisti (il correttore ortografico è appena impazzito). Questo perché evolvere implica cambiamenti nelle varianti di geni presenti negli organismi e, quindi, nei modi in cui plasmano la costruzione del cervello. Se studiamo gli ormoni e il comportamento, allora stiamo anche considerando tutto ciò che aveva a che fare, nel corso della vita fetale, con lo sviluppo delle ghiandole che secernono determinati ormoni. E così via. Ogni momento dipende da tutto ciò che è accaduto prima: che si tratti dell’odore percepito in una stanza, di ciò che vi è successo quando eravate un feto, o di cosa era accaduto ai vostri antenati nel 1500, ci stiamo riferendo a condizioni che, certamente, non potevate controllare.[*] Questo è un flusso di influenze, privo di ogni sorta di discontinuità che, come abbiamo considerato all’inizio della dissertazione, ci impedisce di inserire quel che chiamiamo “libero arbitrio”, il quale, suppongono altri, si troverebbe nel cervello, pur non facendone parte. Nelle parole di Peter Alces, esperto di diritto, non c’è “più alcun divario tra natura e cultura che si debba colmare con la responsabilità morale”. Il filosofo Peter Tse “colpisce nel segno” quando, facendo riferimento alla serie infinita di tartarughe, nell’ambito dell’argomentazione biologica, afferma che si tratta di un “regresso che distrugge la responsabilità”.[*][58]

Questa sequenza ininterrotta mostra perché la sfortuna non si equilibra, ma si amplifica. Se avete una particolare variante genetica sfortunata, sarete purtroppo sensibili agli effetti prodotti dalle avversità che incontrerete nel corso dell’infanzia. Soffrire per via di tali avversità, nella prima infanzia, è un predittore che rinvia al fatto che vi capiterà di passare il resto della vostra vita in ambienti che vi offriranno meno opportunità di quelle riservate alla maggior parte delle persone. Inoltre, nel corso dello sviluppo, quella stessa sensibilità aumentata vi renderà sfortunatamente meno in grado di beneficiare di quelle rare occasioni: potreste non comprenderle, potreste non riconoscerle in quanto tali, potreste non disporre degli strumenti atti a sfruttarle, oppure di quelli necessari per evitare di sprecarle in maniera impulsiva. La carenza di tali benefici rende maggiormente stressante la vita adulta, e ciò cambierà il vostro cervello trasformandolo, sfortunatamente, in uno che si rivelerà carente per quanto riguarda la resilienza, il controllo delle emozioni, le capacità di riflessione, le abilità cognitive… La sfortuna non viene compensata dal bene. Anzi, di solito viene amplificata, finché va a finire che non metterete nemmeno i piedi sul campo di gioco, che invece dovrebbe garantire il più libero accesso.

Questa è la prospettiva sostenuta con convinzione dal filosofo Neil Levy, il quale la descrive ampiamente nel suo libro, pubblicato nel 2011, che si intitola Hard Luck: How Luck Undermines Free Will and Moral Responsibility (Oxford University Press). Levy si concentra su due categorie che riguardano la fortuna. La prima, che definisce “fortuna presente”, riguarda la differenza che intercorre tra guidare in condizioni di ubriachezza tali che, quando ciò si associa ad altri eventi occorsi nei secondi o nei minuti precedenti, avreste potuto uccidere qualcuno se avesse attraversato la strada, e la sfortuna di trovarsi in quello stato ed, effettivamente, causare la morte di qualcuno. Come abbiamo già avuto modo di osservare, se questa distinzione è rilevante, lo è soprattutto per gli studiosi di giurisprudenza. Più significativa, per Levy, è quella che chiama “fortuna costitutiva”, la quale, potendosi rivelare buona o cattiva, è quella che vi ha plasmato fino a questo momento. In altre parole, Levy considera qui il nostro mondo di un secondo fa, del minuto antecedente… (anche se inquadra, solo incidentalmente, l’idea in una prospettiva biologica). E quando riconoscete che ciò basta per spiegare chi siamo, conclude: “non è l’ontologia che esclude il libero arbitrio, bensì la fortuna” (corsivo suo).[*] Secondo Levy, non ha senso ritenerci responsabili delle nostre azioni; anche perché non abbiamo avuto alcun controllo sulla formazione delle nostre convinzioni riguardo a ciò che è moralmente corretto, né alle conseguenze, di quell’azione, e nemmeno sulla disponibilità di alternative. Non potete realmente credere a qualcosa di diverso da quel che credete.[*]

Nel primo capitolo, ho illustrato ciò che è necessario per dimostrare il libero arbitrio e, in questo contesto, ho specificato ulteriori dettagli in merito a quella richiesta. Più esplicitamente, ho chiesto che mi si dimostri che ciò che è appena accaduto in un neurone, nel cervello di qualcuno, non sia stato influenzato da alcuno dei seguenti fattori: dagli eventi occorsi nei novanta miliardi di neuroni che lo circondano, da nessuna delle infinite combinazioni di concentrazioni ormonali presenti quella mattina, da nessuno degli innumerevoli tipi di infanzia e di ambiente fetale, da nessuno dei due alla quattromilionesima potenza di genomi diversi che quel neurone contiene, il quale va moltiplicato per la gamma, quasi altrettanto grande, di orchestrazioni epigenetiche possibili. E così via. Tutti fattori ben al di fuori del vostro controllo.

“Tartarughe all’infinito” è un divertente aneddoto, o, se preferite, uno scherzo, perché quella pretenziosa affermazione rivolta a William James non è solo assurda, ma anche immune a ogni obiezione che si possa sollevare. È solo una versione intellettualistica di quei conflitti, caratterizzati da insulti, che si verificavano nei cortili delle scuole quando ero giovane: “Sei un pessimo giocatore di baseball.” “Lo sarai tu, ma io cosa sono?” “Ora stai diventando irritante.” “Lo sarai tu, ma io cosa sono?” “Ora tu sei impigrito da questo sofisma.” “Lo sarai tu…” Se la vecchia che discuteva con James avesse a un certo punto ammesso che la successiva tartaruga galleggiava nell’aria, l’aneddoto non si sarebbe rivelato divertente; nondimeno, la risposta sarebbe ancora assurda, perché l’ordine e il ritmo della regressione infinita sarebbe stato interrotto.

Quindi, perché è appena accaduto ciò, proprio in questo momento? “A causa di quel che è venuto prima.” Allora, perché è appena accaduto quel momento? “A causa di ciò che è occorso ancora prima di quello”, ed è così “da sempre”;[*] non è affatto assurdo, perché è questo il modo in cui funziona l’universo. L’assurdità nel bel mezzo di questo continuum è pensare che disponiamo del libero arbitrio, e che esista perché, in qualche momento, lo stato del mondo (o della corteccia frontale, o del neurone, o della molecola di serotonina…) che è “venuto prima di un altro” è occorso a partire dal nulla.

Per dimostrare l’esistenza del libero arbitrio, dovete rendere evidente che un qualche comportamento sia accaduto a partire dal nulla, escludendo tutti questi precursori biologici. Potrebbe essere possibile aggirare questo problema con alcuni sottili argomenti filosofici, ma non lo si può fare con nulla che sia noto in ambito scientifico.

Come abbiamo osservato nel primo capitolo, l’influente filosofo compatibilista Alfred Mele ha giudicato che questo requisito “probatorio” in merito al libero arbitrio sia “assurdamente elevato”. A questo punto entrano in gioco anche alcune sfumature semantiche; quella che Levy chiama “fortuna costitutiva” è, per Mele, una fortuna “remota”; ovvero, talmente lontana nel tempo – un intero milione di anni prima che voi decidiate, un intero minuto prima che voi decidiate – che non esclude né l’esistenza del libero arbitrio né la responsabilità. Si suppone tutto ciò, perché la distanza nel tempo è talmente remota da non essere rilevante; oppure perché le conseguenze di quella distante fortuna biologica e ambientale vengono comunque filtrate attraverso una sorta di “Me” immateriale che, infine, seleziona e sceglie tra le influenze; o, ancora, perché la sfortuna remota verrà bilanciata, à la Dennett, dalla buona sorte a lungo termine e, quindi, può essere ignorata. È così che alcuni compatibilisti giungono alla conclusione che la storia di un individuo sia irrilevante. Invece, la formulazione di Levy del concetto di “fortuna costitutiva” indica qualcosa di molto diverso; ovvero che non solo la storia è rilevante rilevante, bensì, come afferma lui stesso, che “il problema della storia è un problema di fortuna”. È per questo motivo che non si sta ponendo un livello di valutazione eccessivamente elevato, tanto meno un “uomo di paglia”, affermando che il libero arbitrio possa esistere solo se l’attività dei neuroni non è assolutamente influenzata da quella messe di incontrollabili fattori che sono intervenuti prima. Questo è l’unico requisito che si possa richiedere, perché tutto ciò che è accaduto antecedentemente, con tutte le sfumature di quella incontrollabile fortuna, è ciò che ha finito per costituirvi. È così che voi siete diventati quel che siete.[59]

* Se avete letto il mio libro, intitolato Behave, riconoscerete che la parte restante di questo capitolo è un riassunto delle sue prime quattrocento pagine. Buona fortuna…

*Sto cercando di essere diplomatico. Molti lettori conosceranno la “crisi della replicazione” in psicologia, con la quale ci si riferisce al fatto che una percentuale allarmante dei risultati pubblicati, persino in alcuni libri di testo, si rivela difficile, o impossibile, da replicare, in modo indipendente, da altri scienziati (ammetto con dispiacere che alcuni sono stati citati nel mio libro del 2017; avrei dovuto discernere con più attenzione). Pertanto, questo paragrafo considera solo studi le cui conclusioni generali siano state replicate in maniera indipendente.

* Per gli appassionati del fai-da-te, l’articolo indicava anche la ricetta per preparare il vomito finto: vellutata di funghi, crema di pollo, fagioli neri, pezzi di seitan fritto; le quantità non erano specificate, quindi dovrete andare un po’ a occhio – un pizzico di questo, un po’ di quello. Nello studio si osservava anche che questa ricetta era, in parte, basata su una impiegata in un lavoro precedente; in altri termini, le innovazioni più audaci stanno facendo progredire la scienza del vomito finto.

* Questa regione era la PFC dorsomediale, come è possibile evidenziare mediante l’impiego della stimolazione magnetica transcranica. Ecco un’evidenza che funge da controllo: non è stato osservato alcun effetto ascrivibile all’inibizione della PFC dorsolaterale, quella più “razionale”. Vi offrirò molte altre informazioni su queste regioni del cervello nel prossimo capitolo.

* Non va dimenticato che Ponzio Pilato è noto soprattutto per quel suo “lavarsene le mani”, che rinvia al fastidio associato a quella storica crocifissione.

* Gli appassionati di psicologia riconosceranno in che modo questo studio supporti la teoria delle emozioni di James-Lange (sì, William James!). Nella sua declinazione contemporanea, tale teoria presuppone che il nostro cervello “decida”, almeno in parte, l’intensità della percezione delle emozioni indotte da qualcosa, raccogliendo informazioni interocettive dal soma. Per esempio, se vostro il cuore batte forte (magari per via della somministrazione, di cui siete inconsapevoli, di un farmaco simile all’adrenalina), percepite più intensamente le vostre emozioni.

* C’è almeno un articolo che, in maniera singolare, fa riferimento, nel titolo, agli “Hunger games”. A proposito, nel capitolo 11, considereremo una circostanza davvero rilevante, nella quale si osserva una grande discrepanza tra quanto le persone dicono di essere caritatevoli e quanto effettivamente lo siano.

* Indipendentemente dal vostro sesso, poiché sia nei maschi sia nelle femmine si compie la secrezione del T (sebbene in quantità diverse) e si rilevano i suoi recettori nel cervello. Quest’ormone genera effetti, in larga parte simili, nei due sessi; solo che, com’è noto, sono più rilevanti nei maschi.

* Questi sono quasi sempre studi condotti in doppio cieco (“double-blind”), in cui la metà dei soggetti che costituiscono il campione riceve l’ormone, mentre l’altra metà solo una soluzione salina; inoltre, né i partecipanti né i ricercatori che eseguono i test sanno chi ha ricevuto che cosa.

*Cosa intendo quando affermo che il T “rafforza” una proiezione efferente dall’amigdala che raggiunge un’altra parte del cervello (i nuclei della base, in questo caso)? L’amigdala è particolarmente sensibile al T, perché dispone di molti recettori per questo ormone. Il T abbassa la soglia oltre la quale i neuroni amigdaloidei producano dei potenziali d’azione, rendendo più probabile – “rafforzando” – che un segnale si propaghi da un neurone all’altro, e, poi, lungo le vie a cui appartengono. D’altra parte, il T produce anche effetti opposti quando “riduce” l’attività neuronale che riguarda a certe proiezioni. Tanto per puntualizzare ulteriormente, occorre ricordare che i recettori del T sono denominati tecnicamente “recettori degli androgeni”, poiché esiste una serie di tali ormoni “androgenici”, di cui il T è il più potente. Ignoreremo tutto ciò per ragioni di salute mentale.

* C’è ancora una complicazione importante: il testosterone può rendere le persone maggiormente prosociali; ciò accade nei contesti in cui tale atteggiamento consente di acquisire un certo status (per esempio, in un gioco economico, dove tale condizione si ottiene facendo offerte più generose). In altre parole, il testosterone riguarda l’aggressività solo nelle circostanze in cui un grado adeguato di questa tendenza vi conferisce uno status elevato.

* Abbiamo osservato in precedenza che il testosterone può produrre effetti opposti sui neuroni localizzati in due diverse parti del cervello. Ora abbiamo considerato l’ossitocina che determina effetti opposti sul comportamento, in due diversi contesti sociali.

* Aggiungo un ulteriore dettaglio: i glucocorticoidi, secreti dai surreni quando siete esposti allo stress, sono diversi dall’adrenalina, la quale è peraltro sintetizzata da quelle stesse ghiandole. Si tratta di classi di ormoni diverse, ma che producono effetti ampiamente simili. Il principale glucocorticoide presente negli esseri umani e negli altri primati è il cortisolo, ovvero l’idrocortisone.

* Per quel che vale, e anche al fine di mostrare quanto possa rivelarsi ristretto il focus della scienza, vi confesso che ho trascorso più di tre decenni della mia vita ossessionato dalle questioni esposte negli ultimi quattro paragrafi.

* È giunto il momento di addentrarci in un “campo minato”. Da quando gli esseri umani hanno imparato ad accendere il fuoco, nei corsi introduttivi di neurologia e neuroscienze si insegna che il cervello di un adulto non produce nuovi neuroni. Poi, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, alcuni pionieri coraggiosi iniziarono a cogliere degli indizi in relazione al fatto che, dopotutto, esiste effettivamente una “neurogenesi in età adulta”. Furono ignorati per decenni, finché le evidenze scientifiche non divennero incontrovertibili, trasformando la neurogenesi negli adulti nell’argomento più “eccitante” e rivoluzionario nell’ambito delle neuroscienze. Si sono susseguite numerose ricerche in merito a come/quando/perché tutto ciò si verifica negli animali, quali fattori lo promuovono (per esempio, l’esercizio fisico compiuto volontariamente, gli estrogeni, un ambiente stimolante) e cosa lo inibisce (per esempio, lo stress, l’infiammazione). A cosa servono i nuovi neuroni? Vari studi compiuti sui roditori mostrano che tali cellule nervose offrono un contributo per quanto riguarda la resilienza allo stress e l’anticipazione di una nuova ricompensa e la cosiddetta “separazione dei pattern”: una volta apprese le caratteristiche generali di un oggetto, o di un fenomeno, i nuovi neuroni vi aiutano a distinguerne le diverse occorrenze esemplificative. Per esempio, una volta che avete imparato a riconoscere una rappresentazione di Next to Normal, fate affidamento sulla separazione dei pattern, ascrivibile all’attività dell’ippocampo, per apprendere la differenza tra uno spettacolo eseguito a Broadway, e un altro in una scuola superiore (le difformità possono rivelarsi davvero minime, se quest’ultimo è affidato a una straordinaria regista). A mano a mano che la letteratura sulla neurogenesi si è arricchita, sono state pubblicate ulteriori evidenze in relazione al fatto che anche il cervello umano adulto potrebbe generare nuovi neuroni. Poi, un articolo estremamente dettagliato del 2018, uscito su Nature, che ha preso in considerazione il maggior numero di cervelli umani studiati fino a quel momento, ha indicato che, forse, non c’è molta/alcuna neurogenesi nel cervello degli esseri umani adulti (nonostante, in altre specie, si rilevasse abbondante). Ne è scaturita un’enorme controversia, che continua tutt’oggi. Trovo tale studio convincente (ma, per correttezza, ammetto che potrei non essere obiettivo, dato che l’autore principale dello studio, Shawn Sorrells, che ora lavora alla University of Pittsburgh, è stato uno dei miei migliori studenti di dottorato).

* Tra le altre cose, ciò significa che, se alcuni individui vi avessero centrifugato per poi estrarre il vostro DNA, senza prestare troppa attenzione, avrebbero studiato, per lo più e senza volerlo, il DNA dei vostri batteri intestinali.

*C’è un particolare tipo di cellula nervosa, il “neurone di von Economo” (VEN), che si trova praticamente solo in due regioni cerebrali, strettamente associate alla corteccia frontale – l’insula e la porzione anteriore del giro del cingolo. Per un po’ di tempo, si è diffusa una grande eccitazione, perché sembrava che si trattasse di un tipo di neurone presente solo negli esseri umani; in questo caso, si sarebbe trattato del primo esempio del genere.. Ma le cose erano, in realtà, ancora più interessanti: i VEN si trovano anche nei cervelli di alcune delle specie socialmente più evolute che vivono sulla Terra, come, per esempio, altri primati, i cetacei e gli elefanti. Nessuno può dire, con certezza, a cosa servano, anche se abbiamo fatto qualche progresso. Al di là della presenza dei VEN, le somiglianze tra i “mattoni di costruzione” della regione frontale e il resto della corteccia sono molto più ampie delle differenze.

* Tenete presente che l’espressione “l’intero cervello” include anche la corteccia frontale; nonostante le vicissitudini della maturazione ritardata, una percentuale sostanziale della sua costruzione si compie nel corso dell’infanzia.

* Ovviamente, affidarsi alle “fasi” in maniera eccessivamente rigida genera problemi, poiché le transizioni dall’una all’altra possono dispiegarsi gradualmente lungo un continuum, piuttosto che mediante l’attraversamento di un distinto confine; la fase relativa alla capacità di ragionamento morale di un bambino può differire in relazione a diverse condizioni emotive; tali insight derivano, per lo più, da studi che hanno coinvolto individui che appartenevano a culture occidentali. Tuttavia, l’idea di base si rivela spesso davvero utile.

* Wow, le madri dei ratti si comportano in modo diverso con i loro piccoli? Certo, le variazioni riguardano quanto spesso puliscono o leccano i loro cuccioli, rispondono ai loro vocalizzi e così via. Questi sono i risultati di un lavoro pionieristico intrapreso dal neuroscienziato Michael Meaney della McGill University.

*Lo stesso effetto vale nello sport. Le squadre di atletica professionistiche sono costituite, in maniera assai sproporzionata, da individui che erano più grandi dell’età media calcolata considerando la loro coorte sportiva durante l’infanzia.

*Questi effetti sui feti furono identificati, per la prima volta, negli esseri umani in due esperimenti “naturali” associati all’inedia orribilmente “innaturali”: l’Hongerwinter (inverno della fame) del 1944, quando la popolazione olandese fu affamata dagli occupanti nazisti, e la carestia conseguente al “Grande balzo in avanti”, che flagellò la Cina verso la fine degli anni Cinquanta del secolo scorso.

* Per chi dispone di una formazione in queste discipline, è opportuno considerare alcune delle cose che ho ignorato in questo capoverso: gli introni e gli esoni che costituiscono la struttura dei geni, lo splicing, le multiple conformazioni delle proteine prioniche, i trasposoni, i geni che codificano piccole molecole di RNA interferente e gli enzimi costituiti da RNA

* Ecco quel che ho tralasciato in questo capoverso: i fattori di trascrizione, le vie di trasduzione del segnale, il fatto che sono solo gli ormoni steroidei, non già gli ormoni peptidici, che regolano direttamente la trascrizione…

* Ecco ciò che ho tralasciato qui: i promotori e altri elementi regolatori presenti nel DNA, i co-fattori trascrizionali che conferiscono una certa specificità tissutale alla trascrizione genica, il cosiddetto “DNA egoista” che deriva da retrovirus in grado di autoreplicarsi…

* Vengono definiti Boston Brahmin i membri della tradizionale upper-class bostoniana. Per estensione, il termine viene applicato anche alle vecchie famiglie ricche del New England, protestanti, di origine britannica, che sono diventate influenti nello sviluppo delle istituzioni e della cultura statunitense, soprattutto nel XIX e all’inizio del XX secolo [N.d.T.].

* Tra le cose tralasciate qui, occorre considerare quanto sia semplicistico concentrarsi su un solo gene e sul suo singolo effetto, anche dopo aver tenuto conto dell’ambiente. Per la verità, occorre prendere in considerazione anche la pleiotropia e l’eredità poligenica. Alcune sorprendenti evidenze, prodotte dagli studi di indagine genomica, confermano l’importanza dell’eredità poligenica: anche i tratti degli esseri umani più semplici e banali, come, per esempio, l’altezza, sono codificati da centinaia di geni diversi.

* Ecco alcune questioni tralasciate: omozigosi versus eterozigosi, tratti dominanti versus recessivi…

* Per gli affezionati: sono, rispettivamente, i geni che codificano per l’idrossilasi del triptofano e la L-amminoacidi-aromatici decarbossilasi, il SerT (Serotonin Transporter), la monoammina ossidasi-alfa. Ulteriori dettagli: i geni per la tirosina idrossilasi, il trasportatore della dopamina (DAT), la catecol-O-metiltransferasi.

*Se si assume che ciascuno di quei punti polimorfici disponga di solo due possibili versioni, il numero di diversi patrimoni genetici sarebbe due elevato alla quattromilionesima potenza, una cifra abbastanza prossima all’infinito – due elevato alla quarantesima potenza produce un numero che supera di poco il bilione.

* Intendo ribadire un punto che riguarda ogni fatto descritto in questo capitolo: tutte queste sono differenze statisticamente significative, osservate considerando le popolazioni, ma, ovviamente, non si rivelano predittrici del comportamento manifestato da ciascun individuo. Dunque, dovreste immaginare che ogni affermazione sia implicitamente preceduta dall’espressione “in media”.

* C’è un esempio che mi ha molto colpito, si tratta di un sistema di irrigazione che si trova nei pressi della città di Djiuangyan, in Cina. Tale impianto fornisce acqua a cinquemila chilometri quadrati dedicati alla coltivazione del riso: è stato utilizzato e mantenuto, per duemila anni.

*Tanto per introdurre un argomento spinoso: si osservano differenze genetiche tra gli individui che appartengono alle culture individualistiche e coloro che sono esposti a quelle collettivistiche? Ebbene, qualunque differenza ci sia, non può essere troppo importante; dopo una o due generazioni, i discendenti degli immigrati asiatici sono individualisti tanto quanto gli statunitensi di origine europea. Peraltro, sono state identificate delle differenze genetiche alquanto interessanti. Considerate il gene DRD4, che codifica per un recettore della dopamina. Sì, proprio per la dopamina – il neurotrasmettitore che riguarda la motivazione, l’anticipazione e la ricompensa. Una variante del gene DRD4 produce un recettore che risponde meno a questa molecola e incrementa la probabilità che si manifestino la ricerca di novità, l’estroversione, e persino l’impulsività, nelle persone. Negli abitanti del vecchio continente, e negli euroamericani, l’incidenza di quella variante è pari al 23 per cento. Invece, in coloro che vivono nell’Asia orientale, quell’incidenza è intorno all’1 per cento. Questa differenza è statisticamente significativa, un riscontro che parrebbe indicare che la selezione naturale abbia lavorato, per migliaia di anni, affinché quella variante non si diffondesse in Asia.

* In Africa, tra i pastori Masai con cui ho vissuto a stretto contatto, la violenza di gruppo ruota sempre di più attorno agli scontri con i vicini che si occupano di agricoltura; quando si incontrano nelle aree dei mercati, si osservano spesso risse e conflitti, tra gli Sharks e i Jets, le bande rivali di West Side Story. Peraltro, i “nemici storici” dei Masai sono gli appartenenti al popolo Kuria della Tanzania, dei pastori che, talvolta, di notte, si dedicano al furto di bestiame. Tutto ciò innesca spedizioni punitive, nel corso delle quali le lance possono mietere molte vittime. Una misura della combattività dei Kuria è rappresentata dal fatto che, dopo l’indipendenza, l’esercito della Tanzania era composto per il 50 per cento da individui di quel gruppo etnico, nonostante rappresentassero solo l’1 per cento della popolazione.

* Ecco un esempio sperimentale interessante: fate in modo che il vostro soggetto, un maschio, venga insultato da qualcuno; se proviene dagli Stati Uniti del Sud, osserverete un rilevante incremento della concentrazione del cortisolo e del testosterone. Inoltre, vi accorgerete che, con maggiore probabilità di cogliere l’innesco della risposta violenta consegue alla presunta violazione dell’onore (rispetto ad altri individui del Sud che non sono stati esposti a offese). Cosa accade a coloro che provengono dal Nord degli Stati Uniti? In queste persone, non osserverete alcun cambiamento del genere.

* La relazione con le malattie infettive potrebbe contribuire a dar conto di un’ulteriore osservazione: le culture originarie dei tropici tendono a manifestare una più estrema differenziazione tra in-group e out-group, rispetto a quelle delle regioni maggiormente distanti dall’equatore. Gli ecosistemi esposti a climi temperati favoriscono culture che promuovono atteggiamenti più moderati nei riguardi degli estranei.

* Per trovare un possibile fondamento neurobiologico di tutto ciò, considerate le persone provenienti dalle città, dai sobborghi e dalle aree rurali. Maggiore è la densità di popolazione dell’area in cui un individuo è cresciuto, tanto più è probabile che la sua amigdala si riveli reattiva quando viene esposto allo stress. Questa osservazione ci ha indotto a scrivere vari articoli i cui titoli ruotano attorno al concetto di “stress e città”.

*L’ultima evidenza, che rinvia al potere delle influenze ecologiche associate al fondamento di gran parte di questi modelli culturali, ci è offerto dall’osservazione che gli esseri umani, e anche altri animali, che vivono nello stesso ecosistema tendono a condividere numerosi tratti. Per esempio, gradi elevati di biodiversità, in un particolare ecosistema, prevedono ampi livelli di varietà linguistica tra gli esseri umani che vivono in quel contesto ambientale (negli ambiti in cui un gran numero di specie è esposto al rischio di estinzione si rilevano gli stessi pericoli per le lingue e le culture). Uno studio che ha considerato 339 popolazioni di cacciatori-raccoglitori, provenienti da tutto il mondo, ha mostrato una convergenza, ancora più significativa, tra gli esseri umani e altri animali: le culture umane con elevati gradi di poligamia tendono (in termini statisticamente significativi) a vivere in ambienti nei quali altri animali manifestano, con gli stessi tassi, il medesimo fenomeno. Esiste anche una covarianza tra gli esseri umani e gli altri animali per quanto riguarda la probabilità che i maschi partecipino all’accudimento dei figli, alla conservazione delle riserve di cibo, e anche al sostentamento basato, prevalentemente, su una dieta che prevede l’assunzione di pesce. Dal punto di vista statistico, le somiglianze tra umani e animali sono spiegate da certe caratteristiche ecologiche, come, per esempio, la latitudine, l’altitudine, le precipitazioni, e le qualità distintive dei climi estremi e di quelli temperati. Ancora una volta, dobbiamo riconoscere che siamo solo degli animali, seppure un po’ strani.

* Vale la pena osservare che tipi simili, se non identici, di tartarughe all’infinito spiegano anche perché, per esempio, alcuni scimpanzé sono i membri più dotati della loro generazione nel creare degli strumenti. Tutto ciò dipende non solo da buone capacità sociali e di osservazione, che permettono loro di frequentare da vicino un “maestro” più anziano, dal quale imparano il “mestiere”, ma anche dal controllo degli impulsi, che permette loro di dedicarsi con pazienza alla sequenza di tentativi ed errori, dall’attenzione per i dettagli, dalla combinazione tra la capacità di introdurre qualche innovazione e la sicurezza in se stessi che consente loro di ignorare in che modo lo stanno facendo i “ragazzi cool”. Ebbene, queste qualità derivano tutte da eventi occorsi un minuto prima, un’ora prima e così via. Neanche l’ombra di “quando il gioco si fa duro, gli scimpanzé duri scelgono di iniziare a giocare”.

* Questo approccio è implicito nel pensiero di Derk Pereboom, il filosofo che lavora presso la Cornell University, il quale, di fatto, ipotizza quattro scenari. Mettete in atto qualcosa di terribile perché: gli scienziati (1) hanno manipolato il vostro cervello un secondo fa; (2) hanno manipolato le vostre esperienze infantili; (3) hanno manipolato la cultura in cui siete cresciuti; (4) hanno manipolato la natura fisica dell’universo. In definitiva, questi sono degli scenari ugualmente deterministici, sebbene le intuizioni della maggior parte delle persone rinviino al primo molto più che agli altri tre, soprattutto in ragione della sua stretta prossimità con la manifestazione comportamentale stessa.

* Intendiamoci, il compatibilista Tse non è soddisfatto di tutto ciò; infatti, sviluppa un argomento “a metà strada” tra le ragioni per le quali tale regresso non potrebbe esistere e quelle per cui non dovrebbe – un contrasto che costituirà il fondamento di alcune parti del capitolo 15.

* Aggiungo un ulteriore piccolo chiarimento: Levy non crede necessariamente che non disponiamo di alcun controllo sulle nostre azioni, ritiene solo che non lo abbiamo in maniera rilevante.

* Levy svolge un’interessante analisi che si concentra su una parola da ricordare per il futuro, akrasia, la quale contempla l’eventualità che un individuo agisca contraddicendo il giudizio che ha espresso. Quando questi fenomeni accadono con una certa frequenza, ci troviamo di fronte a inconsistenze apparentemente insolubili… fino a quando non generiamo una visione di noi stessi che accolga coerentemente il concetto di akrasia. “Di solito, sono una persona molto disciplinata… tranne quando si tratta di non mangiare il cioccolato.”

* Potrebbe non darsi realmente il caso che sia così “da sempre”, perché, a un certo punto in questa regressione, si arriva al big bang, e a tutto ciò che è venuto prima, di cui non capisco nulla. Indipendentemente dal fatto che si torni indietro all’infinito, è fondamentale puntualizzare che quanto più ci si allontana, tanto minore è la probabilità che un fatto sia influente: il modo in cui rispondete a un estraneo che potrebbe avervi appena insultati è maggiormente influenzato dalle concentrazioni ematiche degli ormoni dello stress in questo momento, piuttosto che dalla frequenza delle malattie infettive contratte dai vostri lontani antenati. Quando si cerca di dar conto del nostro comportamento, sono massimamente contento di chiamare un “time-out” in merito a “ciò che è venuto prima”, quando si risale abbastanza indietro fino a dar conto, per esempio, del fatto che siamo una forma di vita basata sulla chimica del carbonio, piuttosto che su quella del silicio. Tuttavia, abbiamo raccolto ampie evidenze in merito alla rilevanza di quel ciò-che-è-venuto-prima, che invece le persone, un tempo, si sentivano autorizzate a ignorare: il trauma che è occorso alcuni mesi prima che una persona si comportasse in una certa maniera, il grado ideale di stimolazione sperimentato nella sua infanzia, le quantità di alcol in cui il suo cervello fetale è stato “marinato”…

1 Bias impliciti e sparatorie: J. Correll et al., “Across the Thin Blue Line: Police Officers and Racial Bias in the Decision to Shoot”, Journal of Personality and Social Psychology, 92, 2007, pp. 1006-1023; J. Correll et al., “The Police Officer’s Dilemma: Using Ethnicity to Disambiguate Potentially Threatening Individuals”, Journal of Personality and Social Psychology, 83, 2002, pp. 1314-1329. Per un’eccellente ed esaustiva panoramica dell’intero settore, si veda J. Eberhardt, Biased: Uncovering the Hidden Prejudice That Shapes What We See, Think, and Do, Viking, New York 2019.

2 Effetti impliciti del disgusto: D. Pizarro, Y. Inbar, e C. Helion, “On Disgust and Moral Judgment”, Emotion Review, 3, 2011, pp. 267-268; T. Adams, P. Stewart, e J. Blanchard, “Disgust and the Politics of Sex: Exposure to a Disgusting Odorant Increases Politically Conservative Views on Sex and Decreases Support for Gay Marriage”, PLoS One, 9, 5, 2014; Y. Inbar, D. Pizarro, e P. Bloom, “Disgusting Smells Cause Decreased Liking of Gay Men”, Emotion, 12, 2012, pp. 23-27; J. Terrizzi, N. Shook, e W. Ventis, “Disgust: A Predictor of Social Conservatism and Prejudicial Attitudes Toward Homosexuals”, Personality and Individual Differences, 49, 2010, pp. 587-592.

3 Ancora sul disgusto: S. Tsao e D. McKay, “Behavioral Avoidance Tests and Disgust in Contamination Fears: Distinctions from Trait Anxiety”, Behavioral Research Therapeutics, 42, 2004, pp. 207-216; B. Olatunji, B. Puncochar, e R. Cox, “Effects of Experienced Disgust on Morally Relevant Judgments”, PLoS One, 11, 8, 2016.

4 E ancora sul disgusto: H. Chapman e A. Anderson, “Things Rank and Gross in Nature: A Review and Synthesis of Moral Disgust”, Psychological Bulletin, 139, 2013, pp. 300-327; P. Rozin et al., “The CAD Triad Hypothesis: A Mapping between Three Moral Emotions (Contempt, Anger, Disgust) and Three Moral Codes (Community, Autonomy, Divinity)”, Journal of Personality and Social Psychology, 76, 1999, pp. 574-586. L’insula, quando viene attivata da stati emotivi avversi, parla con l’amigdala: D. Gehrlach et al., “Aversive State Processing in the Posterior Insular Cortex”, Nature Neuroscience, 22, 2019, pp. 1424-1437.

5 Effetti impliciti dei sapori dolci: M. Schaefer et al., “Sweet Taste Experience Improves Prosocial Intentions and Attractiveness Ratings”, Psychological Research, 85, 2021, pp. 1724-1731; B. Meier et al., “Sweet Taste Preferences and Experiences Predict Prosocial Inferences, Personalities, and Behaviors”, Psychological Sciences, 102, 2012, pp. 163-174.

6 Confondere la bellezza con la bontà morale: Q. Cheng et al., “Neural Correlates of Moral Goodness and Moral Beauty Judgments”, Brain Research, 1726, 2020; T. Tsukiura e R. Cabeza, “Shared Brain Activity for Aesthetic and Moral Judgments: Implications for the Beauty-Is-Good Stereotype”, Social Cognitive and Affective Neuroscience, 6, 2011, pp. 138-148; X. Cui et al., “Different Influences of Facial Attractiveness on Judgments of Moral Beauty and Moral Goodness”, Scientific Reports, 9, 1, 2019; T. Wang et al., “Is Moral Beauty Different from Facial Beauty? Evidence from an fMRI Study”, Social Cognitive and Affective Neuroscience, 10, 2015, pp. 814-823; Q. Luo et al., “The Neural Correlates of Integrated Aesthetics between Moral and Facial Beauty”, Scientific Reports, 9, 1, 2019; C. Ferrari et al., “The Dorsomedial Prefrontal Cortex Mediates the Interaction between Moral and Aesthetic Valuation: A TMS Study on the Beauty-Is-Good Stereotype”, Social Cognitive and Affective Neuroscience, 12, 2017, pp. 707-717.
Inoltre, c’è uno studio irresistibile che mostra che i botanici scelgono di dedicare la loro carriera allo studio dei fiori più belli (quelli blu e quelli più alti): M. Adamo et al., “Plant Scientists’ Research Attention Is Skewed towards Colourful, Conspicuous and Broadly Distributed Flowers”, Nature Plants, 7, 2021, pp. 574-578. Per quanto ne so, non ho scelto di dedicare trentatré estati allo studio dei babbuini selvatici perché li consideravo particolarmente belli.

7 Il primo studio ad aver introdotto l’espressione “effetto Macbeth”: C. Zhong e K. Lijenquist, “Washing Away Your Sins: Threatened Morality and Physical Cleansing”, Science, 313, 2006, pp. 1451-1452.
Ulteriori studi sull’effetto Macbeth: S.W. Lee e N. Schwarz, “Dirty Hands and Dirty Mouths: Embodiment of the Moral-Purity Metaphor Is Specific to the Motor Modality Involved in Moral Transgression”, Psychological Sciences, 21, 2010, pp. 1423-1425; E. Kalanthroff, C. Aslan, e R. Dar, “Washing Away Your Sins Will Set Your Mind Free: Physical Cleansing Modulates the Effect of Threatened Morality on Executive Control”, Cognition and Emotion, 31, 2017, pp. 185-192; S. Schnall, J. Benton, e S. Harvey, “With a Clean Conscience: Cleanliness Reduces the Severity of Moral Judgments”, Psychological Sciences, 19, 2008, pp. 1219-1222; K. Kaspar, V. Krapp, e P. Konig, “Hand Washing Induces a Clean Slate Effect in Moral Judgments: A Pupillometry and Eye-Tracking Study”, Scientific Reports, 5, 2015.
Studi di brain imaging sull’effetto Macbeth: C. Denke et al., “Lying and the Subsequent Desire for Toothpaste: Activity in the Somatosensory Cortex Predicts Embodiment of the Moral-Purity Metaphor”, Cerebral Cortex, 26, 2016, pp. 477-484; M. Schaefer et al., “Dirty Deeds and Dirty Bodies: Embodiment of the Macbeth Effect Is Mapped Topographically onto the Somatosensory Cortex”, Scientific Reports, 5, 2015.
Uno studio che indica che questo collegamento potrebbe non essere universale.: E. Gámez, J. M. Díaz, e H. Marrero, “The Uncertain Universality of the Macbeth Effect with a Spanish Sample”, Spanish Journal of Psychology, 14, 2011, pp. 156-162.
Infine, uno studio che mostra che, tra gli studenti universitari, i laureati in scienze sociali sono più vulnerabili all’effetto Macbeth rispetto a quelli di ingegneria: M. Schaefer, “Morality and Soap in Engineers and Social Scientists: The Macbeth Effect Interacts with Professions”, Psychological Research, 83, 2019, pp. 1304-1310.

8 Lo zenzero e il disgusto morale: J. Tracy, C. Steckler, e G. Heltzel, “The Physiological Basis of Psychological Disgust and Moral Judgments”, Journal of Personality and Social Psychology: Attitudes and Social Cognition, 116, 2019, pp. 15-32. Un interessante studio mostra che il disgusto influenza in misura minore i giudizi morali riguardanti eventi lontani nel tempo; ciò è probabilmente mediato da un “inquadramento” psicologico che fa sì che sembri che sia qualcun altro, e non voi, a dover interagire direttamente con lo stimolo disgustoso. M. van Dijke et al., “So Gross and Yet So Far Away: Psychological Distance Moderates the Effect of Disgust on Moral Judgment”, Social Psychological and Personality Science, 9, 6, 2018, pp. 689-701.

9 Lo studio originale sui giudici: S. Danziger, J. Levav, e L. Avnaim-Pesso, “Extraneous Factors in Judicial Decisions”, Proceedings of the National Academy of Science of the United States of America, 108, 2011, pp. 6889-6892. Il risultato di questo studio è stato messo in discussione da alcuni ricercatori, i quali sostengono che si tratta di un artefatto, dovuto a un’inadeguata progettazione del disegno sperimentale; a mio parere, gli autori del lavoro originale hanno efficacemente respinto le accuse. Per ulteriori dettagli, si possono consultare le note 28 e 29 nel capitolo 4.
Ulteriori informazioni sull’argomento: L. Aaroe e M. Petersen, “Hunger Games: Fluctuations in Blood Glucose Levels Influence Support for Social Welfare”, Psychological Sciences, 24, 2013, pp. 2550-2556.
Uno studio che mette in relazione la fame di cibo con quella di denaro: B. Briers et al., “Hungry for Money: The Desire for Caloric Resources Increases the Desire for Financial Resources and Vice Versa”, Psychological Sciences, 17, 2006, pp. 939-943.
Alcuni studi che mostrano che la relazione tra fame e prosocialità è dimostrabile solo in alcuni ambiti: J. Hausser et al., “Acute Hunger Does Not Always Undermine Prosociality”, Nature Communications, 10, 2019; S. Fraser e D. Nettle, “Hunger Affects Social Decisions in a Multi-round Public Goods Game but Not a Single-Shot Ultimatum Game”, Adaptive Human Behavior, 6, 2020, pp. 334-355; I. Harel e T. Kogut, “Visceral Needs and Donation Decisions: Do People Identify with Suffering or with Relief?”, Journal of Experimental and Social Psychology, 56, 2015, pp. 24-29.
Come accade molto spesso, questo fenomeno potrebbe essere influenzato dalla cultura: E. Rantapuska et al., “Does Short-Term Hunger Increase Trust and Trustworthiness in a High Trust Society?”, Frontiers in Psychology, 8, 1944, 2017.

10 Per ulteriori dettagli su questo argomento generale, si veda il capitolo 3 in R. Sapolsky, Behave: The Biology of Humans at Our Best and Worst, Penguin Press, New York 2017.

11 Lo studio classico che mostra che il testosterone non genera aggressività ex novo, ma amplifica l’apprendimento sociale preesistente sull’aggressività: A. Dixson e J. Herbert, “Testosterone, Aggressive Behavior and Dominance Rank in Captive Adult Male Talapoin Monkeys (Miopithecus talapoin)”, Physiology and Behavior, 18, 1977, pp. 539-543.
Come alcuni degli effetti comportamentali del testosterone derivino dai suoi effetti nel cervello: K. Kendrick e R. Drewett, “Testosterone Reduces Refractory Period of Stria Terminalis Neurons in the Rat Brain”, Science, 204, 1979, pp. 877-879; K. Kendrick, “Inputs to Testosterone-Sensitive Stria Terminalis Neurones in the Rat Brain and the Effects of Castration”, Journal of Physiology, 323, 1982, pp. 437-447; K. Kendrick, “The Effect of Castration on Stria Terminalis Neurone Absolute Refractory Periods Using Different Antidromic Stimulation Loci”, Brain Research, 248, 1982, pp. 174-176; K. Kendrick, “Electrophysiological Effects of Testosterone on the Medial Preoptic-Anterior Hypothalamus of the Rat”, Journal of Endocrinology, 96, 1983, pp. 35-42; E. Hermans, N. Ramsey, e J. van Honk, “Exogenous Testosterone Enhances Responsiveness to Social Threat in the Neural Circuitry of Social Aggression in Humans”, Biological Psychiatry, 63, 2008, pp. 263-270.
Nel 1990, l’etologo John Wingfield della University of California, Davis, insieme ai colleghi, pubblicò un articolo che ebbe notevole influenza sulla comprensione della natura degli effetti del testosterone sull’aggressività. La loro “ipotesi della sfida” afferma che non solo il testosterone non causa l’aggressività, ma neppure amplifica uniformemente le tendenze sociali preesistenti verso l’aggressività. Invece, nei momenti in cui un organismo è “sfidato” rispetto allo status sociale, il testosterone amplifica i comportamenti necessari per mantenerlo. Bene, questo non sembra essere un grande chiarimento – se sei un babbuino maschio il cui rango è stato sfidato, hai bisogno proprio dell’aggressività per mantenere quello status. Ma quando si tratta degli esseri umani, ci sono maggiori sfumature, perché lo status può essere preservato in modi diversi. Per esempio, in un gioco economico, nel quale si guadagna uno status superiore se si fanno generose offerte economiche, il testosterone aumenta tale generosità. Si veda: J. Wingfield et al., “The ‘Challenge Hypothesis’: Theoretical Implications for Patterns of Testosterone Secretion, Mating Systems, and Breeding Strategies”, American Naturalist, 136, 1990, pp. 829-846. L’ipotesi aiuta a spiegare un’ampia gamma di comportamenti che dipendono dal testosterone: J. Wingfield “The Challenge Hypothesis: Where It Began and Relevance to Humans”, Hormones and Behavior, 92, 2017, pp. 9-12. Si veda anche: J. Archer, “Testosterone and Human Aggression: An Evaluation of the Challenge Hypothesis”, Neuroscience and Biobehavioral Reviews, 30, 2006, pp. 319-345.

12 Gli articoli riguardanti le basi comportamentali e neurobiologiche del testosterone rendono le persone reattive alla minaccia percepita: E. Hermans, N. Ramsey, e J. van Honk, “Exogenous Testosterone Enhances Responsiveness to Social Threat in the Neural Circuitry of Social Aggression in Humans”, Biological Psychiatry, 63, 2008, pp. 263-270; J. van Honk et al., “A Single Administration of Testosterone Induces Cardiac Accelerative Responses to Angry Faces in Healthy Young Women”, Behavioral Neuroscience, 115, 2001, pp. 238-242; N. Wright et al., “Testosterone Disrupts Human Collaboration by Increasing Egocentric Choices”, Proceedings of the Royal Society B: Biological Sciences, 279, 2012, pp. 2275-2280; P. Mehta e J. Beer, “Neural Mechanisms of the Testosterone-Aggression Relation: The Role of Orbitofrontal Cortex”, Journal of Cognitive Neuroscience, 22, 2010, pp. 2357-2368; G. van Wingen et al., “Testosterone Reduces Amygdala-Orbitofrontal Cortex Coupling”, Psychoneuroendocrinology, 35, 2010, pp. 105-113; P. Bos et al., “The Neural Mechanisms by Which Testosterone Acts on Interpersonal Trust”, Neuroimage, 2, 2012, pp. 730-737.

13 Alcuni studi che esplorano le fonti relative alle differenze individuali nel funzionamento dell’apparato sessuale maschile: C. Laube, R. Lorenz, e L. van den Bos, “Pubertal Testosterone Correlates with Adolescent Impatience and Dorsal Striatal Activity”, Development and Cognitive Neuroscience, 42, 2020; B. Mohr et al., “Normal, Bound and Nonbound Testosterone Levels in Normally Ageing Men: Results from the Massachusetts Male Ageing Study”, Clinical Endocrinology, 62, 2005, pp. 64-73; W. Bremner, M. Vitiello, e P. Prinz, “Loss of Circadian Rhythmicity in Blood Testosterone Levels with Aging in Normal Men”, Journal of Clinical Endocrinology and Metabolism, 56, 1983, pp. 1278-1281; S. Beyenburg et al., “Androgen Receptor mRNA Expression in the Human Hippocampus”, Neuroscience Letters, 294, 2000, pp. 25-28.

14 Per alcune buone rassegne generali, si veda: R. Feldman, “Oxytocin and Social Affiliation in Humans”, Hormones and Behavior, 61, 2012, pp. 380-391; Z. Donaldson e L. Young, “Oxytocin, Vasopressin, and the Neurogenetics of Sociality”, Science, 322, 2008, pp. 900-904; P.S. Churchland e P. Winkielman, “Modulating Social Behavior with Oxytocin: How Does It Work? What Does It Mean?”, Hormones and Behavior, 61, 2012, pp. 392-399.
Gli articoli riguardanti le differenze nel sistema relativo all’ossitocina, che confrontano roditori monogami e poligami: L. Young et al., “Increased Affiliative Response to Vasopressin in Mice Expressing the V1a Receptor from a Monogamous Vole”, Nature, 400, 1999, pp. 766-768; M. Lim et al., “Enhanced Partner Preference in a Promiscuous Species by Manipulating the Expression of a Single Gene”, Nature, 429, 2004, pp. 754-757.
Gli articoli riguardanti le differenze nel sistema relativo all’ossitocina, che confrontano primati non umani monogami e poligami: A. Smith et al., “Manipulation of the Oxytocin System Alters Social Behavior and Attraction in Pair-Bonding Primates, Callithrix penicillata”, Hormones and Behavior, 57, 2010, pp. 255-262; M. Jarcho et al., “Intranasal VP Affects Pair Bonding and Peripheral Gene Expression in Male Callicebus cupreus”, Genes, Brain and Behavior, 10, 2011, pp. 375-383; C. Snowdon et al., “Variation in Oxytocin Is Related to Variation in Affiliative Behavior in Monogamous, Pairbonded Tamarins”, Hormones and Behavior, 58, 2010, pp. 614-618.
La neurobiologia alla base di questi effetti dell’ossitocina: la via ipotalamica che differisce in base al sesso: N. Scott et al., “A Sexually Dimorphic Hypothalamic Circuit Controls Maternal Care and Oxytocin Secretion”, Nature, 525, 2016, pp. 519-522. Per un esempio di come l’ossitocina agisce nella corteccia insulare per modificare le interazioni sociali, si veda M. Carter-Rogers et al., “Insular Cortex Mediates Approach and Avoidance Response to Social Affective Stimuli”, Nature Neuroscience, 21, 2018, pp. 404-414. Allo stesso modo per l’ossitocina che agisce nell’amigdala: Y. Liu et al., “Oxytocin Modulates Social Value Representations in the Amygdala”, Nature Neuroscience, 22, 2019, pp. 633-641; J. Wahis et al., “Astrocytes Mediate the Effect of Oxytocin in the Central Amygdala on Neuronal Activity and Affective States in Rodents”, Nature Neuroscience, 24, 2021, pp. 529-541.
Ossitocina e genitorialità, compreso il comportamento paterno: O. Bosch e I. Neumann, “Both Oxytocin and Vasopressin Are Mediators of Maternal Care and Aggression in Rodents: From Central Release to Sites of Action”, Hormones and Behavior, 61, 2012, pp. 293-303; Y. Kozorovitskiy et al., “Fatherhood Affects Dendritic Spines and Vasopressin V1a Receptors in the Primate Prefrontal Cortex”, Nature Neuroscience, 9, 2006, pp. 1094-1095; Z. Wang, C. Ferris, e G. De Vries, “Role of Septal Vasopressin Innervation in Paternal Behavior in Prairie Voles”, Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, 91, 1994, pp. 400-404.
Differenze genetiche ed epigenetiche che mediano le differenze individuali nella sensibilità all’ossitocina: Marsh et al., “The Influence of Oxytocin Administration on Responses to Infants and Potential Moderation by OXTR Genotype”, Psychopharmacology, 224, 2012, pp. 469-476; M.J. Bakermans-Kranenburg e M.H. van Ijzendoorn, “Oxytocin Receptor (OXTR) and Serotonin Transporter (5-HTT) Genes Associated with Observed Parenting”, Social Cognitive and Affective Neuroscience, 3, 2008, pp. 128-134; E. Hammock e L. Young, “Microsatellite Instability Generates Diversity in Brain and Sociobehavioral Traits”, Science, 308, 2005, pp. 1630-1634.
Annali di scoperte totalmente irresistibili: M. Nagasawa et al., “Oxytocin-Gaze Positive Loop and the Coevolution of Human-Dog Bonds”, Science, 348, 2015, pp. 333-336. Quando un cane e il suo umano si guardano negli occhi, entrambi secernono ossitocina; se si somministra ossitocina a uno dei due, si guarderanno più a lungo, suscitando una maggiore secrezione di quell’ormone nell’altro. In altre parole, un sistema ormonale centrale nel comportamento dei genitori e nel legame di coppia, vecchio di almeno cento milioni di anni, è stato, negli ultimi trentamila anni, cooptato per le interazioni uomo/lupo.

15 Gli effetti dell’ossitocina sulla paura e sull’ansia: M. Yoshida et al., “Evidence That Oxytocin Exerts Anxiolytic Effects via Oxytocin Receptor Expressed in Serotonergic Neurons in Mice”, Journal of Neuroscience, 29, 2009, pp. 2259-2271. L’azione dell’ossitocina nell’amigdala: D. Viviani et al., “Oxytocin Selectively Gates Fear Responses through Distinct Outputs from the Central Nucleus”, Science, 333, 2011, pp. 104-107; H. Knobloch et al., “Evoked Axonal Oxytocin Release in the Central Amygdala Attenuates Fear Response”, Neuron, 73, 2012, pp. 553-566; “Oxytocin Attenuates Amygdala Responses to Emotional Faces Regardless of Valence”, Biological Psychiatry, 62, 2007, pp. 1187-1190; P. Kirsch et al., “Oxytocin Modulates Neural Circuitry for Social Cognition and Fear in Humans”, Journal of Neuroscience, 25, 2005, pp. 11489-11493; I. Labuschagne et al., “Oxytocin Attenuates Amygdala Reactivity to Fear in Generalized Social Anxiety Disorder”, Neuropsychopharmacology, 35, 2010, pp. 2403-2413.
L’ossitocina attenua la risposta allo stress: M. Heinrichs et al., “Social Support and Oxytocin Interact to Suppress Cortisol and Subjective Responses to Psychosocial Stress”, Biological Psychiatry, 54, 2003, pp. 1389-1398.
Gli effetti dell’ossitocina sull’empatia, la fiducia e la cooperazione: S. Rodrigues et al., “Oxytocin Receptor Genetic Variation Relates to Empathy and Stress Reactivity in Humans”, Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, 106, 2009, pp. 21437-21441; M. Kosfeld et al., “Oxytocin Increases Trust in Humans”, Nature, 435, 2005, pp. 673-676; A. Damasio, “Brain Trust”, Nature, 435, 2005, pp. 571-572; S. Israel et al., “The Oxytocin Receptor (OXTR) Contributes to Prosocial Fund Allocations in the Dictator Game and the Social Value Orientations Task”, PLoS One, 4, 5, 2009; P. Zak, R. Kurzban, e W. Matzner, “Oxytocin Is Associated with Human Trustworthiness”, Hormones and Behavior, 48, 2005, pp. 522-527; T. Baumgartner et al., “Oxytocin Shapes the Neural Circuitry of Trust and Trust Adaptation in Humans”, Neuron, 58, 2008, pp. 639-650; J. Filling et al., “Effects of Intranasal Oxytocin and Vasopressin on Cooperative Behavior and Associated Brain Activity in Men”, Psychoneuroendocrinology, 37, 2012, pp. 447-461; A. Theodoridou et al., “Oxytocin and Social Perception: Oxytocin Increases Perceived Facial Trustworthiness and Attractiveness”, Hormones and Behavior, 56, 2009, pp. 128-132. Un fallimento della replicazione: C. Apicella et al., “No Association between Oxytocin Receptor (OXTR) Gene Polymorphisms and Experimentally Elicited Social Preferences”, PLoS One, 5, 6, 2010.
Gli effetti dell’ossitocina sull’aggressività: M. Dhakar et al., “Heightened Aggressive Behavior in Mice with Lifelong versus Postweaning Knockout of the Oxytocin Receptor”, Hormones and Behavior, 62, 2012, pp. 86-92; J. Winslow et al., “Infant Vocalization, Adult Aggression, and Fear Behavior of an Oxytocin Null Mutant Mouse”, Hormones and Behavior, 37, 2005, pp. 145-155.

16 C. De Dreu, “Oxytocin Modulates Cooperation within and Competition between Groups: An Integrative Review and Research Agenda”, Hormones and Behavior, 61, 2012, pp. 419-428; C. De Dreu et al., “The Neuropeptide Oxytocin Regulates Parochial Altruism in Intergroup Conflict among Humans”, Science, 328, 2011, pp. 1408-1411; C. De Dreu et al., “Oxytocin Promotes Human Ethnocentrism”, Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, 108, 2011, pp. 1262-1266.

17 K. Parker et al., “Preliminary Evidence That Plasma Oxytocin Levels Are Elevated in Major Depression”, Psychiatry Research, 178, 2010, pp. 359-362; S. Freeman et al., “Effect of Age and Autism Spectrum Disorder on Oxytocin Receptor Density in the Human Basal Forebrain and Midbrain”, Translational Psychiatry, 8, 2018, p. 257.

18 R. Sapolsky, “Stress and the Brain: Individual Variability and the Inverted-U”, Nature Neuroscience, 25, 2015, pp. 1344-1346.

19 Gli effetti dello stress e degli ormoni dello stress sull’amigdala: J. Rosenkranz, E. Venheim, e M. Padival, “Chronic Stress Causes Amygdala Hyperexcitability in Rodents”, Biological Psychiatry, 67, 2010, pp. 1128-1136; S. Duvarci e D. Pare, “Glucocorticoids Enhance the Excitability of Principal Basolateral Amygdala Neurons”, Journal of Neuroscience, 27, 2007, pp. 4482-4491; A. Kavushansky e G. Richter-Levin, “Effects of Stress and Corticosterone on Activity and Plasticity in the Amygdala”, Journal of Neuroscience Research, 84, 2006, pp. 1580-1587; P. Rodríguez Manzanares et al., “Previous Stress Facilitates Fear Memory, A tenuates GABAergic Inhibition, and Increases Synaptic Plasticity in the Rat Basolateral Amygdala”, Journal of Neuroscience, 25, 2005, pp. 8725-8734.
Gli effetti dello stress e degli ormoni dello stress sulle interazioni tra amigdala e ippocampo: A. Kavushansky et al., “Activity and Plasticity in the CA1, the Dentate Gyrus, and the Amygdala Following Controllable Versus Uncontrollable Water Stress”, Hippocampus, 16, 2006, pp. 35-42; H. Lakshminarasimhan e S. Chattarji, “Stress Leads to Contrasting Effects on the Levels of Brain Derived Neurotrophic Factor in the Hippocampus and Amygdala”, PLoS One, 7, 1, 2012; S. Ghosh, T. Laxmi, e S. Chattarji, “Functional Connectivity from the Amygdala to the Hippocampus Grows Stronger after Stress”, Journal of Neuroscience, 33, 2013, pp. 7234-7244.

20 Gli effetti comportamentali dello stress e degli ormoni dello stress: S. Preston et al., “Effects of Anticipatory Stress on Decision-Making in a Gambling Task”, Behavioral Neuroscience, 121, 2007, pp. 257-263; P. Putman et al., “Exogenous Cortisol Acutely Influences Motivated Decision Making in Healthy Young Men”, Psychopharmacology, 208, 2010, pp. 257-263; P. Putman, E. Hermans, e J. van Honk, “Cortisol Administration Acutely Reduces Threat-Selective Spatial Attention in Healthy Young Men”, Physiology and Behavior, 99, 2010, pp. 294-300; K. Starcke et al., “Anticipatory Stress Influences Decision Making under Explicit Risk Conditions”, Behavioral Neuroscience, 122, 2008, pp. 1352-1360.
Le differenze di sesso e gli effetti dello stress/ormone dello stress: R. van den Bos, M. Harteveld, e H. Stoop, “Stress and Decision-Making in Humans: Performance Is Related to Cortisol Reactivity, Albeit Differently in Men and Women”, Psychoneuroendocrinology, 34, 2009, pp. 1449-1458; N. Lighthall, M. Mather, e M. Gorlick, “Acute Stress Increases Sex Differences in Risk Seeking in the Balloon Analogue Risk Task”, PLoS One, 4, 7, 2009; N. Lighthall et al., “Gender Differences in Reward-Related Decision Processing under Stress”, Social Cognitive and Affective Neuroscience, 7, 2012, pp. 476-484.
Gli effetti dello stress e dell’ormone dello stress sull’aggressività: D. Hayden-Hixson e C. Ferris, “Steroid-Specific Regulation of Agonistic Responding in the Anterior Hypothalamus of Male Hamsters”, Physiology and Behavior, 50, 1991, pp. 793-799; A. Poole e P. Brain, “Effects of Adrenalectomy and Treatments with ACTH and Glucocorticoids on Isolation-Induced Aggressive Behavior in Male Albino Mice”, Progress in Brain Research, 41, 1974, pp. 465-472; E. Mikics, B. Barsy, e J. Haller, “The Effect of Glucocorticoids on Aggressiveness in Established Colonies of Rats”, Psychoneuroendocrinology, 32, 2007, pp. 160-170; R. Böhnke et al., “Exogenous Cortisol Enhances Aggressive Behavior in Females, but Not in Males”, Psychoneuroendocrinology, 35, 2010, pp. 1034-1044; K. Bertsch et al., “Exogenous Cortisol Facilitates Responses to Social Threat under High Provocation”, Hormones and Behavior, 59, 2011, pp. 428-434.
Gli effetti dello stress e dell’ormone dello stress sul processo decisionale morale: K. Starcke, C. Polzer, e O. Wolf, “Does Everyday Stress Alter Moral Decision-Making?”, Psychoneuroendocrinology, 36, 2011, pp. 210-219; F. Youssef, K. Dookeeram, e V. Basdeo, “Stress Alters Personal Moral Decision Making”, Psychoneuroendocrinology, 37, 2012, pp. 491-498.

21 Per maggiori dettagli su questo argomento generale, si veda il capitolo 4 in Sapolsky, Behave cit.

22 Nota a piè pagina: Per una grande storia della (ri)scoperta della neurogenesi negli adulti, si veda M. Specter, “How the Songs of Canaries Upset a Fundamental Principle of Science”, New Yorker, 23 luglio 2001.
Le conseguenze comportamentali della neurogenesi degli adulti: G. Kempermann, “What Is Adult Hippocampal Neurogenesis Good For?”, Frontiers in Neuroscience, 16, 2022; Y. Li, Y. Luo, e Z. Chen, “Hypothalamic Modulation of Adult Hippocampal Neurogenesis in Mice Confers Activity-Dependent Regulation of Memory and Anxiety-Like Behavior”, Nature Neuroscience, 25, 2022, pp. 630-645; D. Seib et al., “Hippocampal Neurogenesis Promotes Preference for Future Rewards”, Molecular Psychiatry, 26, 2021, pp. 6317-6335; C. Anacker et al., “Hippocampal Neurogenesis Confers Stress Resilience by Inhibiting the Ventral Dentate Gyrus”, Nature, 559, 2018, pp. 98-102.
In mezzo a tutto questo, l’esperienza sta modificando anche la conseguente nascita delle cellule gliali, meno appariscenti nel cervello adulto: A. Delgado et al., “Release of Stem Cells from Quiescence Reveals Gliogenic Domains in the Adult Mouse Brain”, Science, 372, 2021, pp. 1205-1209.
Il dibattito sull’effettiva entità della neurogenesi adulta negli esseri umani: S. Sorrells et al., “Human Hippocampal Neurogenesis Drops Sharply in Children to Undetectable Levels in Adults”, Nature, 555, 2018, pp. 377-381. Per una replica: M. Baldrini et al., “Human Hippocampal Neurogenesis Persists throughout Aging”, Cell Stem Cell, 22, 2018, pp. 589-599. Per un articolo d’opinione con un punto di vista simile: G. Kempermann, F. Gage, e L. Aigner, “Human Neurogenesis: Evidence and Remaining Questions”, Cell Stem Cell, 23, 2018, pp. 25-30. Infine, un sostegno ai rivoluzionari: S. Ranade, “Single-Nucleus Sequencing Finds No Adult Hippocampal Neurogenesis in Humans”, Nature Neuroscience, 25, 2022, p. 2.

23 R. Hamilton et al., “Alexia for Braille Following Filateral Occipital Stroke in an Early Blind Woman”, Neuroreport, 11, 2000, pp. 237-240; E. Striem-Amit et al., “Reading with Sounds: Sensory Substitution Selectively Activates the Visual Word Form Area in the Blind”, Neuron, 76, 2012, pp. 640-652; A. Pascual-Leone, Reorganization of Cortical Motor Outputs in the Acquisition of New Motor Skills, in Recent Advances in Clinical Neurophysiology, a cura di J. Kinura e H. Shibasaki, Elsevier Science, Amsterdam 1996, pp. 304-308.

24 S. Rodrigues, J. LeDoux, e R. Sapolsky, “The Influence of Stress Hormones on Fear Circuitry”, Annual Review of Neuroscience, 32, 2009, pp. 289-313.

25 Per una panoramica generale, si veda: B. Leuner e E. Gould, “Structural Plasticity and Hippocampal Function”, Annual Review of Psychology, 61, 2010, pp. 111-140.
Effetti dello stress sulla struttura dell’ippocampo: A. Magarinos e B. McEwen, “Stress-Induced Atrophy of Apical Dendrites of Hippocampal CA3c Neurons: Involvement of Glucocorticoid Secretion and Excitatory Amino Acid Receptors”, Neuroscience, 69, 1995, pp. 89-98; A. Magarinos et al., “Chronic Psychosocial Stress Causes Apical Dendritic Atrophy of Hippocampal CA3 Pyramidal Neurons in Subordinate Tree Shrews”, Journal of Neuroscience, 16, 1996, pp. 3534-3540; B. Eadie, V. Redila, e B. Christie, “Voluntary Exercise Alters the Cytoarchitecture of the Adult Dentate Gyrus by Increasing Cellular Proliferation, Dendritic Complexity, and Spine Density”, Journal of Comparative Neurology, 486, 2005, pp. 39-47; A. Vyas et al., “Chronic Stress Induces Contrasting Patterns of Dendritic Remodeling in Hippocampal and Amygdaloid Neurons”, Journal of Neuroscience, 22, 2002, pp. 6810-6818.
Neuroplasticità correlata alla depressione: P. Videbach e B. Revnkilde, “Hippocampal Volume and Depression: A Meta-analysis of MRI Studies”, American Journal of Psychiatry, 161, 2004, pp. 1957-1966; L. Gerritsen et al., “Childhood Maltreatment Modifies the Relationship of Depression with Hippocampal Volume”, Psychological Medicine, 45, 2015, pp. 3517-3526.
Effetti dell’esercizio e della stimolazione sulla neuroplasticità: J. Firth et al., “Effect of Aerobic Exercise on Hippocampal Volume in Humans: A Systematic Review and Meta-analysis”, Neuroimage, 166, 2018, pp. 230-238; G. Clemenson, W. Deng, e F. Gage, “Environmental Enrichment and Neurogenesis: From Mice to Humans”, Current Opinion in Behavioral Sciences, 4, 2015, pp. 56-62.
Estrogeni e neuroplasticità: B. McEwen, “Estrogen Actions throughout the Brain”, Recent Progress in Hormone Research, 57, 2002, pp. 357-384; N. Lisofsky et al., “Hippocampal Volume and Functional Connectivity Changes during the Female Menstrual Cycle”, Neuroimage, 118, 2015, pp. 154-162; K. Albert et al., “Estrogen Enhances Hippocampal Gray-Matter Volume in Young and Older Postmenopausal Women: A Prospective Dose-Response Study”, Neurobiology of Aging, 56, 2017, pp. 1-6.

26 N. Brebe et al., “Pair-Bonding, Fatherhood, and the Role of Testosterone: A Meta-analytic Review”, Neuroscience and Biobehavioral Reviews, 98, 2019, pp. 221-233; Y. Ulrich-Lai et al., “Chronic Stress Induces Adrenal Hyperplasia and Hypertrophy in a Subregion-Specific Manner”, American Journal of Physiology: Endocrinology and Metabolism, 291, 2006, pp. 965-973.

27 J. Foster, “Modulating Brain Function with Microbiota”, Science, 376, 2022, pp. 936-937; J. Cryan e S. Mazmanian, “Microbiota-Brain Axis: Context and Causality”, Science, 376, 2022, pp. 938-939. Si veda anche: C. Chu et al., “The Microbiota Regulate Neuronal Function and Fear Extinction Learning”, Nature, 574, 2019, pp. 543-548. Si può trovare un ottimo esempio di eventi che nel corso di settimane o mesi modificano il comportamento senza consapevolezza cosciente in S. Mousa, “Building Social Cohesion between Christians and Muslims through Soccer in Post-ISIS Iraq”, Science, 369, 2020, pp. 866-870. Le squadre di calcio di un campionato erano inizialmente composte da giocatori esclusivamente cristiani o da giocatori di entrambe le religioni (senza che i giocatori fossero consapevoli del fatto che fosse stato approntato un disegno sperimentale). Trascorrere una stagione giocando con compagni di squadra musulmani ha aumentato notevolmente l’affiatamento tra i giocatori cristiani e i loro compagni musulmani sul campo, senza che i giocatori cristiani cambiassero gli atteggiamenti dichiarati apertamente nei confronti dei musulmani.

28 Per ulteriori dettagli su questo argomento generale, si veda il capitolo 5 in Sapolsky, Behave cit.

29 A. Caballero, R. Granbeerg, e K. Tseng, “Mechanisms Contributing to Prefrontal Cortex Maturation during Adolescence”, Neuroscience and Biobehavioral Reviews, 70, 2016, pp. 4-12; K. Delevich et al., “Coming of Age in the Frontal Cortex: The Role of Puberty in Cortical Maturation”, Seminars in Cell & Developmental Biology, 118, 2021, pp. 64-72. L’interruzione cronica del sonno nei topi adolescenti modifica il funzionamento del sistema di ricompensa della dopamina in età adulta, e non in senso positivo; in altre parole, le nostre madri avevano ragione quando ci esortavano a resistere all’attrazione adolescenziale verso l’andare a dormire a orari folli: W. Bian et al., “Adolescent Sleep Shapes Social Novelty Preference in Mice”, Nature Neuroscience, 25, 2022, pp. 912-923.

30 E. Sowell et al., “Mapping Continued Brain Growth and Gray Matter Density Reduction in Dorsal Frontal Cortex: Inverse Relationships during Postadolescent Brain Maturation”, Journal of Neuroscience, 21, 2021, pp. 8819-8829; J. Giedd, “The Teen Brain: Insights from Neuroimaging”, Journal of Adolescent Health, 42, 2008, pp. 335-343.

31 Nota a piè pagina: C. González-Acosta et al., “von Economo Neurons in the Human Medial Frontopolar Cortex”, Frontiers in Neuroanatomy, 12, 2018; R. Hodge, J. Miller, ed E. Lein, “Transcriptomic Evidence That von Economo Neurons Are Regionally Specialized Extratelencephalic-Projecting Excitatory Neurons”, Nature Communications, 11, 2020.

32 Per maggiori particolari su questo argomento generale, nonché per i dettagli specifici sull’evoluzione della maturazione corticale frontale ritardata, si veda il capitolo 6 in Sapolsky, Behave cit.

33 Per una buona introduzione al lavoro realmente monumentale di Kohlberg, si veda D. Garz, Lawrence Kohlberg: An Introduction, Barbara Budrich, Leverkusen 2009.

34 D. Baumrind, “Child Care Practices Anteceding Three Patterns of Preschool Behavior”, Genetic Psychology Monographs, 75, 1967, pp. 43-88; E. Maccoby e J. Martin, Socialization in the Context of the Family: Parent-Child Interaction, in Handbook of Child Psychology, a cura di P. Mussen, Wiley, Hoboken 1983.

35 J.R. Harris, The Nurture Assumption: Why Children Turn Out the Way They Do, Free Press, New York 1998.

36 W. Wei, J. Lu, e L. Wang, “Regional Ambient Temperature Is Associated with Human Personality”, Nature Human Behaviour, 1, 2017, pp. 890-895; R. McCrae et al., “Climatic Warmth and National Wealth: Some Culture-Level Determinants of National Character Stereotypes”, European Journal of Personality, 21, 2007, pp. 953-976; G. Hofsteded e R. McCrae, “Personality and Culture Revisited: Linking Traits and Dimensions of Culture”, Cross-Cultural Research, 38, 2004, pp. 52-88.

37 I. Weaver et al., “Epigenetic Programming by Maternal Behavior”, Nature Neuroscience, 7, 2004, pp. 847-854. Per un esempio di stress infantile che causa cambiamenti epigenetici nella funzione del cervello adulto fino alla regolazione genetica nei singoli neuroni, si veda H. Kronman et al., “Long-Term Behavioral and Cell-Type-Specific Molecular Effects of Early Life Stress Are Mediated by H3K79me2 Dynamics in Medium Spiny Neurons”, Nature Neuroscience, 24, 2021, pp. 667-676. Si potrebbe pensare che gli effetti negativi, per esempio, di un basso status socioeconomico durante l’infanzia si manifestino come risultato di un ritardo nello sviluppo del cervello. Invece, il problema è che lo stress dei primi anni di vita accelera la maturazione cerebrale, il che significa che la “finestra” per la costruzione del cervello determinata dall’esperienza si chiude prima: U. Tooley, D. Bassett, e P. Mackay, “Environmental Influences on the Pace of Brain Development”, Nature Reviews Neuroscience, 22, 2021, pp. 372-384.

38 D. Francis et al., “Nongenomic Transmission Across Generations of Maternal Behavior and Stress Responses in the Rat”, Science, 286, 1999, pp. 1155-1158; N. Provencal et al., “The Signature of Maternal Rearing in the Methylome in Rhesus Macaque Prefrontal Cortex and T Cells”, Journal of Neuroscience, 32, 2012, pp. 15626-15642. Tra i babbuini selvatici, avere un basso grado di dominanza accorcia l’aspettativa di vita non solo di una femmina ma anche della generazione successiva: M. Zipple et al., “Intergenerational Effects of Early Adversity on Survival in Wild Baboons”, eLife (8), settembre/2019.

39 Il concetto di esperienze infantili avverse è stato introdotto per la prima volta da Vincent Felitti della Kaiser Permanente San Diego/ucsd e da Robert Anda del cdc. Si veda, per esempio: V. Felitti et al., “Relationship of Childhood Abuse and Household Dysfunction to Many of the Leading Causes of Death in Adults: The Adverse Childhood Experiences (ace) Study”, American Journal of Preventative Medicine, 14, 1998, pp. 245-258. Il loro focus originale era sulla relazione tra il punteggio ace e la salute degli adulti. Per esempio, si veda V. Felitti, “The Relation between Adverse Childhood Experiences and Adult Health: Turning Gold into Lead”, Permanente Journal, 6, 2002, pp. 44-47. I loro risultati sono stati ampiamente replicati e ampliati. Si veda, per esempio: K. Hughes et al., “The Effect of Multiple Adverse Childhood Experiences on Health: A Systematic Review and Meta-analysis”, Lancet Public Health, 2, 2017, pp. e356-e366; K. Petruccelli, J. Davis, e T. Berman, “Adverse Childhood Experiences and Associated Health Outcomes: A Systematic Review and Meta-analysis”, Child Abuse & Neglect, 97, 2019. Ricerche approfondite iniziarono quindi a concentrarsi sulla relazione tra il punteggio ace, la violenza e il comportamento antisociale degli adulti. Si vedano queste pubblicazioni, da cui è stata generata la stima di incremento del 35 per cento): T. Moffitt et al., “A Gradient of Childhood Self-Control Predicts Health, Wealth, and Public Safety”, Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, 108, 2011, pp. 2693-2698; J. Reavis et al., “Adverse Childhood Experiences and Adult Criminality: How Long Must We Live Before We Possess Our Own Lives?”, Permanente Journal, 17, 2013, pp. 44-48; J. Craig et al., “A Little Early Risk Goes a Long Bad Way: Adverse Childhood Experiences and Life-Course Offending in the Cambridge Study”, Journal of Criminal Justice, 53, 2017, pp. 34-45; J. Stinson et al., “Adverse Childhood Experiences and the Onset of Aggression and Criminality in a Forensic Inpatient Sample”, International Journal of Forensic Mental Health 20, 2021, pp. 374-385; L. Dutin et al., “Criminal History and Adverse Childhood Experiences in Relation to Recidivism and Social Functioning in Multi-problem Young Adults”, Criminal Justice and Behavior, 48, 5, 2021, pp. 637-654; B. Fox et al., “Trauma Changes Everything: Examining the Relationship between Adverse Childhood Experiences and Serious, Violent and Chronic Juvenile Offenders”, Child Abuse & Neglect, 46, 2015, pp. 163-173; M. Baglivio et al., “The Relationship between Adverse Childhood Experiences (ACE) and Juvenile Offending Trajectories in a Juvenile Offender Sample”, Journal of Criminal Justice, 43, 2015, pp. 229-241. Per ottime rassegne, si veda: M. Baglivio, On Cumulative Childhood Traumatic Exposure and Violence/Aggression: The Implications of Adverse Childhood Experiences (ACE), in Cambridge Handbook of Violent Behavior and Aggression, seconda edizione, a cura di A. Vazsonyi, D. Flannery, e M. DeLisi, Cambridge University Press, Cambridge 2018, p. 467; G. Graf et al., “Adverse Childhood Experiences and Justice System Contact: A Systematic Review”, Pediatrics, 147, 1, 2021.

40 L’“effetto dell’età relativa” viene trattato a lungo sia in M. Gladwell, Outliers: The Story of Success, Little Brown, New York 2008, sia in S. Levitt e S. Dubner, Superfreakonomics: Global Cooling, Patriotic Prostitutes, and Why Suicide Bombers Should Buy Life Insurance, William Morrow, New York 2009. Per ulteriori esplorazioni del fenomeno, si veda: E. Dhuey e S. Lipscomb, “What Makes a Leader? Relative Age and High School Leadership”, Economic Educational Review, 27, 2008, pp. 173-183; D. Lawlor et al., “Season of Birth and Childhood Intelligence: Findings from the Aberdeen Children of the 1950s Cohort Study”, British Journal of Educational Psychology, 76, 2006, pp. 481-499; A. Thompson, R. Barnsley, e J. Battle, “The Relative Age Effect and the Development of Self-Esteem”, Educational Research, 46, 2004, pp. 313-320.

41 Per maggiori dettagli su questo argomento generale, si veda il capitolo 7 in Sapolsky, Behave cit.

42 T. Roseboom et al., “Hungry in the Womb: What Are the Consequences? Lessons from the Dutch Famine”, Maturitas, 70, 2011, pp. 141-145; B. Horsthemke, “A Critical View on Transgenerational Epigenetic Inheritance in Humans”, Nature Communications, 9, 2018; B. Van den Bergh et al., “Prenatal Developmental Origins of Behavior and Mental Health: The Influence of Maternal Stress in Pregnancy”, Neuroscience and Biobehavioral Reviews, 117, 2020, pp. 26-64; F. Gomes, X. Zhu, e A. Grace, “Stress during Critical Periods of Development and Risk for Schizophrenia”, Schizophrenia Research, 213, 2019, pp. 107-113; A. Brown ed E. Susser, “Prenatal Nutritional Deficiency and Risk of Adult Schizophrenia”, Schizophrenia Bulletin, 3, 2008, pp. 1054-1063; D. St. Clair et al., “Rates of Adult Schizophrenia Following Prenatal Exposure to the Chinese Famine of 1959-1961”, Journal of the American Medical Association, 294, 2005, pp. 557-562. L’intero argomento è stato riassunto nel concetto di “origini delle malattie degli adulti”, introdotto da David Barker presso l’Università di Southampton nel Regno Unito. Si veda, per esempio: D. Barker et al., “Fetal Origins of Adult Disease: Strength of Effects and Biological Basis”, International Journal of Epidemiology, 31, 2002, pp. 1235-1239. Per una lettura scettica di tutta questa letteratura, con la conclusione che l’entità degli effetti è generalmente esagerata, si veda S. Richardson, The Maternal Imprint: The Contested Science of Maternal-Fetal Effects, University of Chicago Press, Chicago 2021.

43 Per maggiori dettagli su questo argomento generale, si veda il capitolo 7 in Sapolsky, Behave cit.

44 J. Bacque-Cazenave et al., “Serotonin in Animal Cognition and Behavior”, Journal of Molecular Science, 21, 2020, p. 1649; E. Coccaro et al., “Serotonin and Impulsive Aggression”, CNS Spectrum, 20, 2015, pp. 295-302; J. Siegel e M. Crockett, “How Serotonin Shapes Moral Judgment and Behavior”, Annals of the New York Academy of Sciences, 1299, 2013, pp. 42-51; J. Palacios, “Serotonin Receptors in Brain Revisited”, Brain Research, 1645, 2016, pp. 46-49.

45 J. Liu et al., “Tyrosine Hydroxylase Gene Polymorphisms Contribute to Opioid Dependence and Addiction by Affecting Promoter Region Function”, Neuromolecular Medicine, 22, 2020, pp. 391-400.

46 M. Bakermans-Kranenburg e M. van Ijzendoorn, “Differential Susceptibility to Rearing Environment Depending on Dopamine-Related Genes: New Evidence and a Meta-analysis”, Development and Psychopathology, 23, 2011, pp. 39-52; M. Sweitzer et al., “Polymorphic Variation in the Dopamine D4 Receptor Predicts Delay Discounting as a Function of Childhood Socioeconomic Status: Evidence for Differential Susceptibility”, Social Cognitive and Affective Neuroscience, 8, 2013, pp. 499-508; N. Perroud et al., “COMT but Not Serotonin-Related Genes Modulates the Influence of Childhood Abuse on Anger Traits”, Genes Brain and Behavior, 9, 2010, pp. 193-202; S. Lee et al., “Association of Maternal Dopamine Transporter Genotype with Negative Parenting: Evidence for Gene x Environment Interaction with Child Disruptive Behavior”, Molecular Psychiatry, 15, 2010, pp. 548-558. Per un buon esempio di alcuni di questi stessi modelli genetici/educativi in altri primati, si veda M. Champoux et al., “Serotonin Transporter Gene Polymorphism, Differential Early Rearing, and Behavior in Rhesus Monkey Neonates”, Molecular Psychiatry, 7, 2002, pp. 1058-1063. Vale la pena notare che ci sono state controversie nel corso degli anni riguardanti alcune di queste interazioni gene/educazione negli esseri umani, con una parte che sostiene che non sono affidabili e non sono state replicate in modo coerente, mentre altri affermano che queste relazioni sono solide se si considerano solo gli studi che in realtà erano fatti bene. Per esempio, si veda: M. Wankerl et al., “Current Developments and Controversies: Does the Serotonin Transporter Gene-Linked Polymorphic Region (5-HTTLPR) Modulate the Association Between Stress and Depression?”, Current Opinion in Psychiatry, 23, 2010, pp. 582-587.

47 E. Lein et al., “Genome-wide Atlas of Gene Expression in the Adult Mouse Brain”, Nature, 445, 2007, pp. 168-176; Y. Jin et al., “Architecture of Polymorphisms in the Human Genome Reveals Functionally Important and Positively Selected Variants in Immune Response and Drug Transporter Genes”, Human Genomics, 12, 2018, p. 43.

48 Per maggiori dettagli su questo argomento generale, si veda il capitolo 8 in Sapolsky, Behave cit.

49 Differenze interculturali: H. Markus e S. Kitayama, “Culture and Self: Implications for Cognition, Emotion, and Motivation”, Psychological Review, 98, 1991, pp. 224-253; A. Cuddy et al., “Stereotype Content Model across Cultures: Towards Universal Similarities and Some Differences”, British Journal of Social Psychology, 48, 2009, pp. 1-33; R. Nisbett, The Geography of Thought: How Asians and Westerners Think Differently... and Why, Free Press, New York 2003.
Basi neurali di alcune di queste differenze: S. Kitayama e A. Uskul, “Culture, Mind, and the Brain: Current Evidence and Future Directions”, Annual Review of Psychology, 62, 2011, pp. 419-449; B. Park et al., “Neural Evidence for Cultural Differences in the Valuation of Positive Facial Expressions”, Social Cognitive and Affective Neuroscience, 11, 2015, pp. 243-252; B. Cheon et al., “Cultural Influences on Neural Basis of Intergroup Empathy”, Neuroimage, 57, 2011, pp. 642-650.
Differenze interculturali nella vergogna rispetto al senso di colpa: H. Katchadourian, Guilt: The Bite of Conscience, Stanford General Books, Redwood City 2011; J. Jacquet, Is Shame Necessary? New Uses for an Old Tool, Pantheon, New York 2015.

50 T. Hedden et al., “Cultural Influences on Neural Substrates of Attentional Control”, Psychological Science, 19, 2008, pp. 12-17; S. Han e G. Northoff, “Culture-Sensitive Neural Substrates of Human Cognition: A Transcultural Neuroimaging Approach”, Nature Reviews Neuroscience, 9, 2008, pp. 646-654; T. Masuda e R.E. Nisbett, “Attending Holistically vs. Analytically: Comparing the Context Sensitivity of Japanese and Americans”, Journal of Personality and Social Psychology, 81, 2001, pp. 922-934; J. Chiao, “Cultural Neuroscience: A Once and Future Discipline”, Progress in Brain Research, 178, 2009, pp. 287-304.

51 K. Zhang e H. Changsha, World Heritage in China, Press of South China University of Technology, Guangzhou 2006.

52 T. Talhelm et al., “Large-Scale Psychological Differences within China Explained by Rice versus Wheat Agriculture”, Science, 344, 2014, pp. 603-608; T. Talhelm, X. Zhang, e S. Oishi, “Moving Chairs in Starbucks: Observational Studies Find Rice-Wheat Cultural Differences in Daily Life in China”, Science Advances, 4, 2018.

53 Nota a piè pagina: La genetica delle differenze interculturali: H. Harpending e G. Cochran, “In Our Genes”, Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, 99, 2002, pp. 10-12.
Articoli specifici che si occupano di questa area: Y. Ding et al., “Evidence of Positive Selection Acting at the Human Dopamine Receptor D4 Gene Locus”, Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, 99, 2002, pp. 309-314; F. Chang et al., “The World-wide Distribution of Allele Frequencies at the Human Dopamine D4 Receptor Locus”, Human Genetics, 98, 1996, pp. 91-101; K. Kidd et al., “An Historical Perspective on ‘The World-wide Distribution of Allele Frequencies at the Human Dopamine D4 Receptor Locus’”, Human Genetics, 133, 2014, pp. 431-433; C. Chen et al., “Population Migration and the Variation of Dopamine D4 Receptor (DRD4) Allele Frequencies around the Globe”, Evolution and Human Behavior, 20, 5, 1999, pp. 309-324.
Per un’introduzione non tecnica a questo argomento, si veda R. Sapolsky, “Are the Desert People Winning?”, Discover (38), agosto/2005.

54 Nota a piè pagina: M. Fleisher, Kuria Cattle Raiders: Violence and Vigilantism on the Tanzania/Kenya Frontier, University of Michigan Press, Ann Arbor 2000; M. Fleisher, “‘War Is Good for Thieving!’: The Symbiosis of Crime and Warfare among the Kuria of Tanzania”, Africa, 72, 2002, pp. 131-149. In queste tensioni, ovviamente, tifo per i miei Masai; le tensioni Masai/Kuria vanno avanti da molto, molto tempo ma, grazie all’arbitrarietà di ciò che alcuni colonialisti europei hanno fatto nel secolo scorso, quando i due gruppi combattono, ciò conta come un conflitto internazionale; R. McMahon, Homicide in Pre-famine and Famine Ireland, Liverpool University Press, Liverpool 2013; R. Nisbett e D. Cohen, Culture of Honor: The Psychology of Violence in the South, Westview Press, Boulder 1996; B. Wyatt-Brown, Southern Honor: Ethics and Behavior in the Old South, Oxford University Press, Oxford 1982. Teoria sulle origini della cultura meridionale dell’onore tra i pastori delle Isole Britanniche: D. Fischer, Albion’s Seed, Oxford University Press, Oxford 1989.

55 Nota a piè pagina: E. Van de Vliert, “The Global Ecology of Differentiation between Us and Them”, Nature Human Behaviour, 4, 2020, pp. 270-278.
Seconda nota a piè pagina: F. Lederbogen et al., “City Living and Urban Upbringing Affect Neural Social Stress Processing in Humans”, Nature, 474, 2011, pp. 498-501; D. Kennedy e R. Adolphs, “Stress and the City”, Nature, 474, 2011, pp. 452-453; A. Abbott, “City Living Marks the Brain”, Nature, 474, 2011, p. 429; M. Gelfand et al., “Differences between Tight and Loose Cultures: A 33-Nation Study”, Science, 332, 2011, pp. 1100-1104.

56 Nota a piè pagina: K. Hill e R. Boyd, “Behavioral Convergence in Humans and Animals”, Science, 371, 2021, pp. 235-236; T. Barsbai, D. Lukas, e A. Pondorfer, “Local Convergence of Behavior across Species”, Science, 371, 2021, pp. 292-295. Per ulteriori dettagli su questo argomento generale, si veda il capitolo 9 in Sapolsky, Behave cit.

57 Per una panoramica di questo argomento, si veda il capitolo 10 in Sapolsky, Behave cit.

58 P. Alces, Trialectic: The Confluence of Law, Neuroscience, and Morality, University of Chicago Press, Chicago 2023. P. Tse, Two Types of Libertarian Free Will Are Realized in the Human Brain, in Neuroexistentialism: Meaning, Morals, and Purpose in the Age of Neuroscience, a cura di G. Caruso e O. Flanagan, Oxford University Press, Oxford 2018.

59 N. Levy, Hard Luck: How Luck Undermines Free Will and Moral Responsibility, Oxford University Press, Oxford 2015; la citazione è a p. 87.
Nota a piè pagina (p. 83): L’intensità di questa realtà è meravigliosamente riassunta da una citazione dal racconto di Charles Johnson China, in The Penguin Book of the American Short Story, a cura di J. Freeman, Penguin Press, New York 2021, p. 92: “‘Posso essere solo quello che sono stato?’ chiese a bassa voce, ma la sua voce tremava.” Ringrazio Mia Council per avermelo fatto notare.

4.

VOLERE LA FORZA DI VOLONTÀ. IL MITO DELLA TENACIA

 

 

 

 

Negli ultimi due capitoli abbiamo indagato come sia possibile credere nel libero arbitrio ignorando la storia. E abbiamo appurato che non è possibile – tanto per ripetere il nostro mantra, non siamo nient’altro che l’esito, al momento presente, dell’interazione tra biologia e ambiente, due fattori entrambi al di fuori del nostro controllo.

Tuttavia, solo alcuni sostenitori del libero arbitrio negano l’importanza della storia e, quindi, in questo capitolo, considereremo due approcci che vi fanno riferimento. Il primo, che affronteremo in maniera relativamente rapida, è un tentativo, peraltro ingenuo, attuato da alcuni seri studiosi, col quale si tenta di incorporare la storia nel contesto di una strategia più ampia che dice: “Sì, ovviamente il libero arbitrio esiste. Solo che non è dove state guardando.” È esistito nel passato. Esisterà nel vostro futuro. Esiste dovunque voi non stiate guardando all'interno del cervello. Esiste al di fuori di voi, poiché “fluttua” nell’ambito delle interazioni tra le persone.

Invece, ci occuperemo in maniera più approfondita del secondo impiego improprio della storia. Gli ultimi due capitoli hanno illustrato i danni che si producono quando si decide che la punizione e il premio sono moralmente giustificabili, perché la storia di un individuo non è importante quando s’intende dar conto della sua condotta. In questo capitolo vedremo quanto sia distruttivo concludere che la storia è rilevante solo in relazione ad alcuni aspetti del comportamento.

“Essere-stato”

Supponiamo che ci sia un ragazzo in una situazione difficile: viene minacciato da uno sconosciuto, che si avvicina impugnando un coltello. Allora, estrae una pistola e spara una volta, colpendo l’aggressore, che cade a terra. Cosa fa dopo quel ragazzo? Dice a se stesso: “È finita, è fuori combattimento, sono al sicuro”? Oppure continua a esplodere colpi? E se aspetta undici secondi, prima di sparare nuovamente all’aggressore? In quest’ultimo caso, viene accusato di aver compiuto un omicidio premeditato. Se si fosse fermato dopo il primo colpo, le sue azioni sarebbero state inquadrate nella fattispecie della legittima difesa; ma ha avuto a disposizione “ben” undici secondi per riflettere in merito alle proprie opzioni, il che significa che la seconda serie di spari non è altro che l’esito di una libera scelta, ed è persino il frutto della premeditazione.

Ora, consideriamo la storia di quel ragazzo. È nato con la sindrome feto-alcolica, perché la madre ha consumato parecchio alcol durante la gravidanza. Quando aveva cinque anni è stato abbandonato e, in conseguenza di ciò, ha vissuto in una serie di case famiglia, dove è stato vittima di abusi fisici e sessuali. Quando aveva tredici anni ha iniziato ad avere problemi associati all’assunzione di alcol. Quando ne aveva quindici era un senzatetto e ha subito molteplici traumi cerebrali, in seguito al coinvolgimento in alcune risse. È riuscito a sopravvivere, chiedendo l’elemosina e prostituendosi, è stato rapinato numerose volte, e anche accoltellato, un mese prima, da un altro sconosciuto. Un assistente sociale con competenze psichiatriche lo ha incontrato, una volta, e ha osservato che poteva soddisfare i criteri per la diagnosi di disturbo da stress post-traumatico. Riuscite a immaginare?

Qualcuno cerca di uccidervi e avete undici secondi per prendere una decisione di vita-o-morte. Disponiamo di solide evidenze neurobiologiche che mostrano come anche voi probabilmente compiereste una scelta terribile, qualora foste esposti a un fattore di stress così rilevante. Ora, invece, la decisione spetta a quel ragazzo con un disturbo dello sviluppo neurologico prodotto dalle sostanze tossiche a cui è stato esposto quando era un feto, che ha subito ripetuti traumi infantili, abusa di sostanze, presenta lesioni cerebrali multiple, ed è stato recentemente accoltellato in una situazione simile. La sua storia ha determinato l’ipertrofia di questa parte del suo cervello, ha atrofizzato quest’altra, e ha generato varie alterazioni delle vie di connessione neurale. Ebbene, in ragione di tutto ciò, ci sono circa “zero” possibilità che prenda una decisione prudente, autonoma e consapevole, in quegli undici secondi. E voi avreste fatto la stessa cosa, se la vita vi avesse “dato” quel cervello. In questo contesto, considerare sufficienti “undici secondi per premeditare” è una burla, uno scherzo, una barzelletta.[*]

Nondimeno, i filosofi compatibilisti (così come la maggior parte dei pubblici ministeri… dei giudici… e delle giurie) non pensano che sia una barzelletta. Certo, la vita ha esposto quel ragazzo a condizioni terribili, ma, in passato, ha avuto a disposizione un’abbondante quantità di tempo per scegliere di non essere il tipo di persona che torna indietro, e pianta un altro proiettile nel cervello del suo aggressore.

Un’ottima sintesi di questo punto di vista è offerta dal filosofo Neil Levy (il quale non lo condivide affatto):

Gli agenti non sono responsabili appena acquisiscono un insieme di disposizioni attive e di valori; invece, lo diventano facendosi carico delle proprie disposizioni e dei propri valori. Gli agenti soggetti a manipolazione non sono immediatamente responsabili delle loro azioni, perché è solo dopo aver potuto contare su un tempo sufficiente per riflettere, e anche per sperimentare gli effetti delle loro nuove disposizioni, che possono essere considerati pienamente tali. Il passare del tempo (nelle normali condizioni) offre opportunità per la deliberazione e la riflessione, consentendo agli agenti di diventare responsabili di quel che sono. Quegli agenti diventano responsabili delle loro predisposizioni e dei loro valori nel corso della vita normale, anche quando sono l’esito di una pessima fortuna costitutiva. A un certo punto, quella pessima fortuna cessa di fungere da giustificazione, perché gli agenti hanno avuto il tempo adeguato per assumersene la responsabilità.>[1]

Certo, forse non c’è libero arbitrio proprio ora, ma c’era, ed era rilevante, nel passato.

Seppur si evinca da considerazioni che nella citazione di Levy appaiono in modo solo implicito, il processo di scegliere liberamente che tipo di persona diventare, al di là di qualsiasi sfortuna costitutiva la vita vi abbia riservato, di solito viene presentato come un processo di maturazione graduale. Nel corso di un dibattito con Dennett, l’incompatibilista Gregg Caruso ha fatto riferimento a quello che rappresenta il punto essenziale del capitolo 3: non abbiamo controllo né sulla biologia né sull’ambiente a cui siamo esposti. La risposta di Dennett è stata: “E allora? Il punto che penso tu stia trascurando è che l’autonomia è una dimensione in cui si cresce, ed è un processo che, all’inizio, è completamente al di là del nostro controllo; ma, a mano a mano che si matura e si impara, si iniziano a controllare, sempre di più, le proprie attività, le scelte, i pensieri, gli atteggiamenti ecc.” Dopotutto, si tratta persino di una conseguenza razionale a partire dalla pretesa di Dennett, in base alla quale la fortuna e la sfortuna si controbilancerebbero nel corso del tempo: “Dai su, mettiti in riga. Hai avuto abbastanza tempo per assumerti le tue responsabilità, per deciderti a recuperare il ritardo rispetto a tutti gli altri concorrenti della maratona.”[2]

Una prospettiva simile viene proposta dall’influente filosofo Robert Kane, che lavora presso la University of Texas: “Il libero arbitrio, secondo me, implica qualcosa di più della mera possibilità di compiere delle azioni liberamente. Riguarda la self-formation. La domanda rilevante per il libero arbitrio è questa: “Come siete giunti a essere il tipo di persona che siete ora?” Roskies e Shadlen scrivono: “È plausibile pensare che gli agenti possano essere ritenuti moralmente responsabili anche per decisioni di cui non sono coscienti, sempre che siano in linea con l’insieme di regole che sono espressione dell’agente stesso [in altre parole, atti pregressi ascrivibili al libero arbitrio].”[3]

Non tutte le versioni di questa idea richiedono l’acquisizione graduale del libero arbitrio “al past tense”. Kane crede che “scegliamo che tipo di persona vogliamo essere” nei momenti di crisi, quando ci troviamo innanzi ai principali bivi che un percorso di vita riserva, nei momenti in cui siamo chiamati a compiere “azioni di self-formation” (e propone anche un processo tramite il quale tutto ciò si compie; ne parleremo brevemente nel capitolo 10). D’altra parte, lo psichiatra Sean Spence, della University of Sheffield, ritiene che i momenti nei quali “disponevamo-del-libero-arbitrio-in-quel-contesto” si esperiscano quando la vita ci riserva condizioni ottimali, non nel corso di una crisi.[4]

Indipendentemente dal fatto che quel libero arbitrio sia l’esito di un graduale processo di maturazione, oppure si sia concretizzato in un momento di crisi o particolarmente propizio, il problema dovrebbe subito risultarvi evidente. “Ciò che ora appartiene al passato” una volta era un “adesso”. Se la funzione di un neurone proprio adesso fa parte del contesto più ampio del suo ambiente neuronale, degli effetti degli ormoni, dello sviluppo del cervello, dei geni e così via, non potete “andarvene” per una settimana e, poi, dimostrare che quella funzione, in quella stessa settimana precedente, non era affatto integrata.

Una variante di questa posizione è che potreste non disporre ora del libero arbitrio riguardo a “ora”, ma ne disponete “ora” in merito a ciò che sarete in futuro. Il filosofo Peter Tse, il quale definisce tutto ciò “libero arbitrio di secondo ordine”, afferma che il cervello può “coltivare e creare nuovi tipi di opzioni, per se stesso, che riguardano il futuro”. Tuttavia, ciò non vale per tutti i cervelli. Le tigri, osserva Tse, non possono accedere a questo genere di libero arbitrio (per esempio, decidendo di diventare vegane). “Ogni essere umano, al contrario, ha una certa responsabilità per aver scelto di diventare il tipo di ‘decisore’ che è ora.” Combinando questa posizione con la visione retrospettiva di Dennett, otteniamo qualcosa di simile alla singolare idea che, in qualche momento del futuro, giungerete alla conclusione di aver avuto accesso, nel corso del passato, al libero arbitrio – “in un qualche momento precedente, devo aver pur scelto liberamente”.[5]

D’altra parte, piuttosto che dire che c’è il libero arbitrio “solo quando non state guardando”, si potrebbe affermare che c’è “solo dove non state guardando”; in altri termini, si potrebbe mostrare che il libero arbitrio non proviene dall’area del cervello che state considerando, bensì da un’altra regione che non state studiando. Roskies scrive: “È possibile che un evento indeterministico, che si compie altrove, nel più ampio sistema, inneschi i potenziali di azione dei [neuroni nella regione cerebrale X], rendendo così quello stesso sistema indeterministico, nel suo complesso, anche se la relazione tra [attività neuronale nella regione cerebrale X] e un comportamento è deterministica.” Poi, c’è la prospettiva sostenuta dal neuroscienziato Michael Gazzaniga, che “sposta” il libero arbitrio completamente al di fuori del cervello: “La responsabilità esiste a un grado di organizzazione differente: si colloca al livello sociale, non già nei nostri deterministici cervelli.” Questa posizione è debole, per via di due grandi problemi: anzitutto, non si dà per dimostrata l’esistenza del libero arbitrio e della responsabilità solo perché, a livello sociale, tutti dicono che le cose stanno così – questo è un punto fermo che riguarda l’intero volume. In secondo luogo, la socialità, le relazioni che si dispiegano in tale dimensione, gli organismi che interagiscono socialmente tra di loro, non sono altro che l’esito della sinergia tra biologia e ambiente, tanto quanto la forma del vostro naso.[6]

Pertanto, torniamo alla sfida che ho posto nel capitolo 3 – indicatemi proprio qui, proprio ora, il neurone che ha causato quel comportamento, indipendentemente da qualsiasi altra influenza biologica attuale, o collocata nella dimensione storica. La risposta non può essere: “Be’, non possiamo indicarlo, ma si tratta di tutto ciò che è accaduto prima.” Oppure: “Qualcosa accadrà, ma non ancora.” O, di nuovo: “Sta accadendo proprio ora, ma non qui – invece, è laggiù; no, non in quel luogo, e nemmeno in quell’altro…” Ci sono tartarughe in ogni luogo e in ogni tempo; ma, soprattutto, non ci sono crepe nel processo attraverso il quale ciò che fu genera ciò che è, in cui si possa collocare il libero arbitrio.

Passiamo ora a considerare quello che, probabilmente, è l’argomento più importante in questa metà del libro: un modo scorretto di individuare il libero arbitrio che, invece, non esiste.

Quel che ti è stato dato e ciò che ne fai

Kato e Finn (due nomi di fantasia per proteggere le autentiche identità) hanno una buona intesa, si coprono le spalle quando scoppia una rissa e si spalleggiano quando si tratta di rimorchiare. Entrambi hanno una personalità piuttosto dominante, ma quando lavorano insieme, sono imbattibili.

Li sto osservando mentre corrono in una radura. Kato è partito per primo, ma Finn lo sta raggiungendo. Stanno inseguendo una gazzella che cerca di scappare. Kato e Finn sono babbuini, intenti a procurarsi il pasto. Se riescono a prenderla, un’eventualità che sembra sempre più probabile, Kato mangerà per primo, essendo il numero due nella gerarchia, mentre Finn occupa il terzo posto.

Finn sta ancora recuperando terreno. Colgo un sottile cambiamento nella sua corsa, qualcosa che non riesco a descrivere, ma avendolo osservato per molto tempo, so cosa succederà dopo. “Idiota, stai per rovinare tutto”, penso. Tuttavia, pare che Finn abbia deciso: “Al diavolo, mi sono stufato di dover aspettare e accontentarmi di quel che avanza. Voglio il primo assaggio e le parti migliori.” Accelera. “Che sciocchi sono questi babbuini”, penso. Finn salta sulla schiena di Kato, lo morde, facendolo cadere, per poter prendere la gazzella da solo. Ovviamente, inciampa su Kato e finisce pure lui gambe all’aria. Si rialzano entrambi, fulminandosi con lo sguardo, la gazzella è ormai lontana; fine della loro coalizione cooperativa. Kato non è più disposto a sostenere Finn nei conflitti, perciò quest’ultimo viene presto sottomesso da Bodhi, il numero quattro nella gerarchia, e poi anche da Chad, il numero cinque.

Alcuni babbuini sono proprio così. Dispongono di un grande potenziale – sono grossi, muscolosi, hanno canini affilati – ma non ottengono nulla, in termini gerarchici, perché non perdono mai l’occasione di gettare al vento un’opportunità. Mandano in fumo le loro coalizioni con un atto impulsivo, proprio come ha fatto Finn. Non riescono a trattenersi, a evitare di sfidare il maschio alfa per una femmina e, poi, vengono puniti, picchiati violentemente. Sono di cattivo umore, non riescono a trattenersi, sfogano la loro aggressività mordendo la femmina “sbagliata” quando capita loro a tiro, però poi subiscono le ritorsioni dei parenti della vittima di rango elevato e vengono cacciati dal gruppo. Nonostante il loro grande potenziale appaiono sottoperformanti, perché possono resistere a tutto tranne che alla tentazione.

Disponiamo anche di molti esempi riguardanti gli esseri umani, sempre associati alla parola “sperpero”. Atleti che sperperano il loro talento facendo festa. Ragazzi intelligenti che sperperano il loro potenziale accademico assumendo droghe,[*] oppure manifestando indolenza e pigrizia. Rampolli di buona famiglia che sperperano le fortune accumulate dalle generazioni precedenti perseguendo progetti assurdi, strampalati, che non rispecchiano altro che la loro infruttuosa vanità. Ebbene, secondo uno studio, il 70 per cento delle fortune familiari viene dissipato dalla seconda generazione di eredi. Insomma, da Finn in poi, tutti sperperatori.[7]

Poi, ci sono le persone che hanno sconfitto la sfortuna, mostrando di disporre di una tenacia e di una determinazione impressionanti. Oprah, che è cresciuta indossando vestiti ricavati dai sacchi di patate. Harland Sanders,[*] insignito infine del titolo di Colonnello del Kentucky, che, prima di “fare centro”, aveva cercato di vendere la sua ricetta del pollo fritto a ben 1009 ristoranti. Il maratoneta keniano Eliud Kibet, che è collassato a pochi metri dalla linea del traguardo e, poi, l’ha raggiunta strisciando, così come ha fatto la sua compatriota Hyvon Ngetich; la runner giapponese Rei Iida, che nel corso di una maratona a staffetta è caduta, fratturandosi una gamba, e ha gattonato per gli ultimi duecento metri per poi passare il testimone alla compagna. Mario Capecchi, il genetista insignito del premio Nobel, che era un ragazzino di strada, senza una casa, che vagabondava nell’Italia settentrionale, negli anni della seconda guerra mondiale. Poi, ovviamente, ci sono Helen Keller e Anne Sullivan[*] con quel singolare episodio dell’“a-c-q-u-a”. Desmond Doss, un medico, obiettore di coscienza, che pur essendo, ovviamente, disarmato, si è esposto al fuoco nemico per portare in salvo settantacinque militari feriti nella battaglia di Okinawa. Muggsy Bogues, che pur essendo alto solo 160 centimetri ha giocato nella NBA. Madeleine Albright, futura segretaria di Stato degli Stati Uniti, che, da profuga adolescente proveniente dalla Cecoslovacchia, vendeva reggiseni in un grande magazzino di Denver. Infine, occorre ricordare quell’argentino che lavorava come bidello e buttafuori, il quale, dandosi da fare, è diventato papa.

Che si tratti di Finn, degli altri sperperatori, oppure di Albright che vendeva reggiseni, siamo falene attratte dalla calda luce di quel radicato mito che riguarda il libero arbitrio. Nelle pagine precedenti, abbiamo già considerato alcune versioni del libero arbitrio “parziale” – non ora, bensì in passato; non qui, ma dove non stai osservando. Eccone un’altra: sì, ci sono le nostre caratteristiche, i talenti, i difetti e le carenze su cui non abbiamo alcun controllo, ma siamo noi, in quanto liberi agenti e padroni del nostro destino, che scegliamo cosa fare con quegli attributi. Sì, non avevate alcun controllo su quel rapporto ideale tra le fibre muscolari lente e veloci che vi ha resi, naturalmente, eccellenti maratoneti, ma siete stati proprio voi che avete lottato, anche contro il dolore, per raggiungere il traguardo. Sì, non avete scelto le versioni dei geni recettori del glutammato, che avete ereditato e che vi hanno dato una memoria eccezionale, ma siete voi i responsabili della vostra pigrizia e della vostra arroganza. Sì, potreste aver ereditato geni che vi predispongono all’alcolismo, ma siete voi che, lodevolmente, resistete alla tentazione di bere.

Una dichiarazione sorprendentemente chiara in merito a questo dualismo compatibilistico riguarda la vicenda di Jerry Sandusky, l’allenatore di football della Pennsylvania State University che, nel 2012, è stato condannato a sessanta anni di carcere, per essersi rivelato un orribile molestatore seriale di bambini. Qualche tempo dopo, in un provocatorio articolo della CNN che aveva per titolo: “I pedofili meritano compassione?”, lo psicologo James Cantor, della University of Toronto, ha analizzato la neurobiologia della pedofilia. La combinazione sbagliata di geni, di anomalie endocrine nella vita fetale e i traumi o le lesioni alla testa, subiti nel corso dell’infanzia, incrementano la probabilità di rivelarsi dei pedofili. Tutto ciò dovrebbe indurci a considerare la possibilità che ci sia un destino neurobiologico, che alcune persone siano destinate alla pedofilia? Proprio così. Cantor conclude correttamente: “Non si può scegliere di non essere pedofili.”

Ma poi, lo stesso Cantor compie un balzo olimpionico attraverso la falsa dicotomia compatibilista, che ha le dimensioni del Grand Canyon. Qualcuna di quelle condizioni biologiche dovrebbe indurci a ridurre la condanna e la pena che Sandusky meritava? No. “Non si può scegliere di non essere pedofili, ma si può scegliere di non essere molestatori di bambini” (corsivo mio).[8]

La successiva tabella, in un certo qual modo, formalizza questa dicotomia. A sinistra viene indicato ciò che la maggior parte delle persone considera al di fuori del proprio controllo: ovvero, i fattori biologici. Certo, a volte facciamo fatica a ricordarli. Ammiriamo il membro del coro che è un punto fermo, in termini di precisione, per tutti gli altri, in ragione del suo perfetto udito (che è un tratto ereditato biologicamente).[*] Apprezziamo la schiacciata di un giocatore di basket, ignorando che essere alto 218 centimetri sia rilevante. Sorridiamo maggiormente a una persona che ci pare attraente, siamo più propensi a votare per lei in occasione di una tornata elettorale, e anche meno inclini a condannarla per un crimine. Certo, riconosciamo con un po’ di imbarazzo, quando ce lo fanno notare, che, ovviamente, quella determinata persona non ha scelto la forma dei propri zigomi. Siamo di solito abbastanza bravi a ricordare che i fattori biologici a sinistra sono fuori dal nostro controllo.[9]

 

Poi, a destra, c’è il libero arbitrio che, si suppone, esercitereste scegliendo “cosa fare” con i vostri attributi biologici; ovvero, voi che vi sedete in un bunker nel vostro cervello, ma che non fa parte del vostro cervello. La vostra individualità (you-ness) è fatta dai nanochip, dalle vecchie valvole termoioniche, dalle antiche pergamene con le trascrizioni dei sermoni della domenica mattina, dalle “stalattiti” create dai continui rimproveri di vostra madre, da una serie di immagini forti, tenute insieme con i rivetti fatti dalla vostra tenacia. Di qualunque cosa sia composta quella “vera individualità”, di certo non ha niente a che vedere con la molliccia materia biologica di cui è fatto il cervello.

Quando viene visto come se rappresentasse l’evidenza dell’esistenza del libero arbitrio, il lato destro della tabella si trasforma in un parco giochi compatibilista fatto di lodi e biasimo. Sembra davvero difficile, estremamente controintuitivo, pensare che la forza di volontà sia costituita di neuroni, di neurotrasmettitori, di recettori e così via. Pare che ci sia una risposta molto più facile: la forza di volontà è ciò che si manifesta quando quella vostra essenza, non biologica, è cosparsa di polvere magica.

Invece, uno dei punti più importanti espressi in questo volume è che disponiamo di poco controllo su quel che è elencato su ambedue i lati della tabella. In altri termini, entrambi gli insiemi di item riportati in ciascuna colonna sono ugualmente l’esito di una dimensione biologica incontrollabile che interagisce con un ambiente altrettanto incontrollabile.

Per capire la biologia del lato destro della tabella, è ora di focalizzare l’attenzione sulla parte più sofisticata del cervello, la corteccia frontale, di cui abbiamo parlato solo marginalmente negli ultimi due capitoli.

Fare la cosa giusta quando è la più difficile da attuare

Ci vantiamo della corteccia frontale, perché è la parte più recente del cervello; perché noi primati ne abbiamo, proporzionalmente, di più rispetto ad altri mammiferi; perché, quando si esaminano varianti genetiche uniche che caratterizzano i primati, ci si accorge che una percentuale notevole viene espressa in questa regione. La corteccia frontale degli esseri umani è proporzionalmente più grande e/o cablata in modo più complesso rispetto a quella di qualsiasi altro primate. Come abbiamo osservato nel capitolo precedente, è l’ultima parte del cervello che matura completamente, poiché conclude il proprio sviluppo intorno alla metà della terza decade del ciclo di vita. Tale evidenza segna i termini di un singolare ritardo, considerando che la maggior parte del cervello è operativa entro pochi anni dalla nascita. Ebbene, la più importante conseguenza di questo stesso ritardo è che l’assemblaggio della corteccia frontale è plasmato da un quarto di secolo di influenze ambientali. È una delle parti del cervello che lavora di più, quantomeno se si considera il consumo energetico. Dispone anche di un tipo di neurone che non si trova in nessun’altra area nel telencefalo. Inoltre, la parte più interessante è che questa porzione del telencefalo – la corteccia prefrontale (PFC) – è maggiormente estesa, in termini proporzionali, rispetto al resto della corteccia frontale, e si è evoluta ancora più recentemente.[*] [10]

È opportuno ricordare che la PFC assume un ruolo molto importante in relazione alla funzione esecutiva; ovvero, al decision-making. Abbiamo già considerato ciò nel capitolo 2, quando abbiamo indicato, nella catena dei comandi libetiani, che la PFC prendeva decisioni fino a dieci secondi prima che i soggetti diventassero consapevoli di quell’intento. La principale funzione della PFC è prendere decisioni difficili di fronte alle tentazioni – procrastinare la gratificazione, pianificare a lungo termine, controllare gli impulsi, regolare le emozioni. La PFC è essenziale per farvi compiere la cosa giusta quando è quella più difficile da attuare. Ciò è assai pertinente in relazione a quella falsa dicotomia tra gli attributi che il destino vi offre e come li sfruttate.

La PFC cognitiva

Tanto per cominciare, consideriamo cosa significhi “fare la cosa giusta” dal punto di vista cognitivo. È proprio la PFC che vi inibisce quando cercate di fare qualcosa nel modo abituale e, invece, dovreste attuarlo impiegando una modalità nuova. Mettete qualcuno davanti a un computer e offritegli queste istruzioni: “Ecco la regola: quando sullo schermo lampeggia una luce blu, premi il pulsante a sinistra il più velocemente possibile; quando la luce è rossa, premi quello a destra.” Fategli compiere quest’attività per un bel po’ di volte, affinché ci prenda la mano. “Ora invertiamo la consegna: luce blu, pulsante a destra; rossa, premi quello a sinistra.” Fategli fare questa nuova attività per un po’. “Ora, rifacciamo come prima.” Tutte le volte che la regola cambia, la PFC s’incarica di considerare: “Ricordati, adesso blu significa…”

Ora, veloci, ripetete i mesi dell’anno al contrario. La PFC si attiva, sopprimendo la risposta appresa da lungo tempo – “Ricorda, questa volta è settembre-agosto, non settembre-ottobre.” In tali condizioni, una maggiore attivazione della regione frontale predice una migliore prestazione.

Uno dei modi migliori per apprezzare queste funzioni frontali è esaminare gli individui con una PFC danneggiata (come accade nei casi che riguardano certi tipi di ictus o di demenze). In effetti, si osservano enormi problemi nei compiti di “inversione”, come quelli che ho descritto. È estremamente difficile fare la cosa giusta quando questa si configura come una deviazione dall’ordinario.

Pertanto, la PFC serve per imparare una nuova regola, oppure una nuova variante di una certa prescrizione. Ovviamente, una considerazione implicita che deriva da tutto ciò è che il funzionamento della PFC può cambiare. Una volta che quella regola nuova persiste, smettendo di rappresentare una novità, viene gestita impiegando altri circuiti, più “automatici”. Pochi di noi hanno bisogno di attivare la PFC per fare pipì in bagno; ma, di sicuro, quella stessa attivazione si verificava quando avevamo tre anni.

“Fare la cosa giusta” implica l’impiego di due abilità ascrivibili all’attività della PFC. Anzitutto, l’invio del decisivo segnale “fai questo” lungo il percorso che va dalla PFC alla restante regione della corteccia frontale all’area motoria supplementare (la SMA considerata nel capitolo 2) alla corteccia motoria. Tuttavia, un evento ancora più importante è l’invio del segnale “e non fare quello, anche se è l’opzione abituale”. Di nuovo, più che inviare segnali eccitatori alla corteccia motoria, la PFC inibisce i circuiti cerebrali associati alle abitudini. Per tornare a considerare, ancora una volta, quanto esposto nel capitolo 2,
la PFC è fondamentale per dimostrare che non disponiamo né del libero arbitrio né del consapevole potere di veto che ci dovrebbe consentire “liberamente” di non fare.[11]

La PFC sociale

Ovviamente, il massimo traguardo conseguente ai milioni di anni di evoluzione della corteccia frontale non è recitare i mesi all’indietro, ma si manifesta sul piano sociale e consiste nella soppressione dell’opzione emotivamente più facile da attuare. La PFC è il nucleo centrale del nostro cervello sociale. Quanto più ampia è la dimensione media dei gruppi sociali che costituiscono gli esemplari di una specie di primati, tanto maggiore è la percentuale di cervello dedicata alla PFC. Quanto maggiore è la dimensione della rete a cui una persona manda dei messaggi, tanto più estesa è una particolare sottoregione della PFC, e ciò vale anche per le sue connessioni con il sistema limbico. Quindi, la socialità incrementa le dimensioni della PFC? Oppure, una voluminosa PFC induce la socialità? Almeno parzialmente corretta parrebbe la prima opzione: prendete delle scimmie che avete dapprima fatto crescere in condizioni di isolamento, e, poi, fatele vivere in gruppi sociali grandi e complessi; a distanza di un anno, la PFC di tutte si sarà ingrandita; inoltre, l’individuo che si pone al vertice dell’organizzazione mostrerà l’incremento maggiore.[*][12]

Gli studi che hanno impiegato le tecniche di neuroimaging mostrano che la PFC controlla, nel modo più accurato, le regioni cerebrali più emozionali, affinché sia possibile attuare (o pensare) la cosa giusta. Mettete un volontario all’interno di una macchina per la risonanza magnetica cerebrale e mostrategli delle immagini che ritraggono dei volti. Otterrete un risultato deprimente, peraltro ampiamente replicato, poiché quando mostrate il volto di un individuo che appartiene a un’altra razza, in circa il 75 per cento dei soggetti, osserverete l’attivazione dell’amigdala, ovvero la regione cerebrale che ha un ruolo fondamentale nelle questioni legate alla paura, all’ansia e all’aggressività.[*] Dimenticavo, tutto ciò si verificherà in meno di un decimo di secondo.[*] Poi, la PFC s’incaricherà di compiere la cosa più difficile. In molti di quei soggetti, pochi secondi dopo l’attivazione dell’amigdala, entra in gioco la PFC, inibendone l’attività. Questa è la voce che giunge, seppur differita, dalle regioni frontocorticali: “Non devo pensare in quel modo. Questo non sono io.” Ebbene, chi sono gli individui nei quali si osserva che la PFC non mette la museruola all’amigdala? Sono le persone che, senza tante scuse, dichiarano esplicitamente il loro razzismo: “Questo è ciò che sono.”[13]

In un altro paradigma sperimentale, un soggetto posto all’interno di una macchina per la risonanza magnetica cerebrale partecipa a un gioco online con altre due persone – ognuna è rappresentata da un simbolo su un monitor, sicché si forma una sorta di triangolo. Il gioco consiste nel passarsi una palla virtuale; il soggetto sperimentale ha a disposizione due pulsanti e, premendone uno, determina a quale dei due simboli, che osserva sul monitor, verrà lanciata la palla. Le altre due persone se la passano tra loro, e la restituiscono anche all’individuo fatto oggetto di valutazione nel corso dell’esperimento. Si prosegue così per un po’, tutti si divertono, e poi – oh, no – gli altri due smettono di lanciare la palla al soggetto sperimentale. È il ritorno dell’incubo che ci ha afflitto alle scuole medie: “Sanno che sono uno sfigato.” L’amigdala si attiva rapidamente, insieme alla corteccia insulare, una regione associata al disgusto e al disagio. E poi, con un certo ritardo, la PFC inibisce queste altre regioni: “Metti la questione in una certa prospettiva; questo è solo uno stupido gioco.” In un sottoinsieme di individui, tuttavia, la PFC non si attiva in modo significativo, permettendo all’amigdala e alla corteccia insulare di restare operative, mentre il soggetto prova maggiore disagio sul piano soggettivo. Chi sono questi individui compromessi? Gli adolescenti; in effetti, la loro PFC non è ancora all’altezza del compito, che consiste nell’ignorare l’ostracismo sociale, considerandolo privo di significato. Questo è quanto.[*][14]

Ecco un’altra condizione in cui la PFC inibisce l’attività dell’amigdala. Somministrate una lieve scossa, ogni tanto, a un volontario: osserverete che l’amigdala si sveglia “alla grande” ogni volta. Ora, condizionate il volontario: proprio prima di ogni scossa, mostrategli la foto di un oggetto che produca associazioni completamente neutre – diciamo, una pentola, una padella, una scopa, un cappello. Presto, la sola visione di quell’oggetto, considerato precedentemente innocuo, attiverà l’amigdala.[*] Il giorno successivo, mostrategli una foto di quell’oggetto che attiva una risposta condizionata di paura. Osserverete l’attivazione dell’amigdala; solo che, oggi, non somministrerete alcuna scossa. Ripetete per un po’ di volte la sequenza. In occasione di ognuna di tali occorrenze, non somministrate la scossa. Così facendo, “estinguete” lentamente la risposta relativa alla paura; alla fine, l’amigdala smette di reagire. Tutto ciò si realizza, a meno che la PFC non funzioni. Nel corso del giorno precedente, l’amigdala ha appreso che “le scope fanno paura”. Il giorno successivo, è la PFC che impara: “ma non oggi”, e inibisce l’amigdala.[*][15]

Ulteriori approfondimenti sull’attività della PFC sono il frutto dei brillanti studi condotti dal neuroscienziato Josh Greene, che lavora alla Harvard University. I soggetti posti all’interno di una macchina per la risonanza magnetica partecipano a ripetute sessioni di un gioco, nel quale si tratta di indovinare qualcosa, con una probabilità di successo pari al 50 per cento. Poi, in qualità di sperimentatori attuate una manipolazione diabolica. Dite ai soggetti che c’è stato un problema col computer e che, quindi, non possono inserire la loro risposta all’indovinello; ma non importa, proseguite, perché mostrerete loro la soluzione e saranno loro a dire se hanno indovinato. In altre parole, state offrendo l’opportunità di barare. Aggiungete un numero sufficiente di tali opportunità, nelle quali si verifica “di nuovo quel guasto al computer”, e potrete stabilire se qualcuno inizia a barare – la sua percentuale di successo supererà il 50 per cento. Cosa accade nei cervelli dei “bari” quando insorge in loro la tentazione? Si osserva una cospicua attivazione della PFC, l’equivalente neurale della persona che s’impegna per controllare la tentazione di barare.[16]

Poi, occorre fare riferimento a un’ulteriore significativa evidenza. Cosa accade alle persone che non hanno mai barato: come fanno? Forse, la loro PFC si rivela sorprendentemente forte, tanto da “mettere Satana al tappeto”, ogni volta. Si potrebbe pensare che dispongano di una notevole forza di volontà; invece, le cose non vanno così. In quelle persone, la PFC non manifesta attività. A un certo punto, dopo che “non fare pipì nei pantaloni” non richiedeva più alla PFC di fare uno sforzo, in tali individui è accaduto qualcosa di equivalente, che li ha indotti a rispettare automaticamente l’opzione “io non baro”. Come ha concluso Greene, invece di resistere al richiamo del peccato, affidandosi alla “volontà”, questi individui manifestano uno stato di “grazia”. Fare la cosa giusta non è la cosa più difficile.

La corteccia frontale tiene a freno il comportamento inappropriato anche in altri modi. Un esempio coinvolge lo striato, una particolare regione cerebrale che ha a che fare con comportamenti automatici e abituali; insomma, che favorisce l’instaurarsi di quel tipo di condizioni di cui l’amigdala può approfittare, attivandosi. La PFC invia proiezioni inibitorie allo striato, come se fosse opportuno disporre di un’ulteriore contromisura: “Ho avvertito l’amigdala di non farlo, ma se quella testa calda si attiva lo stesso, non ascoltarla.”[17]

Cosa accade, sul piano del comportamento sociale, se la PFC è danneggiata? Si osserva quella che viene denominata una sindrome da “disinibizione frontale”. Tutti abbiamo pensieri – detestabili, lussuriosi, vanitosi, petulanti – che ci metterebbero in un certo imbarazzo, qualora altre persone ne avessero contezza. Soffrire della sindrome da disinibizione frontale significa esprimere e attuare esattamente quei pensieri. Quando si riscontra una condizione simile[*] in un ottantenne, si chiede consulto a un neurologo. Quando la si osserva in un cinquantenne, di solito ci si rivolge a uno psichiatra. Oppure al comando dalla polizia. Oggigiorno, sappiamo che una percentuale significativa di persone incarcerate per crimini violenti ha un’anamnesi positiva per traumi concussivi cronici che hanno prodotto effetti negativi a carico della PFC.[18]

Cognizione versus emozione, cognizione ed emozione, o cognizione tramite emozione?

Come abbiamo osservato, la corteccia frontale non è solo quella regione cerebrale, così raffinata e “intellettuale”, che soppesa i pro e i contro di ogni decisione, inviando dei bei “comandi libetiani”, razionali, alla corteccia motoria – ovvero, non assume solo un ruolo eccitatorio. Di fatto, è anche in grado di svolgere funzioni inibitorie, di “rivelarsi ligia alle regole”, persino “moralista”, dicendo alle parti più emotive del cervello di non fare qualcosa, “altrimenti se ne pentiranno”. Fondamentalmente, queste altre regioni cerebrali considerano la PFC come una figura moralizzante, fastidiosa come un “bastone nel sedere”, specialmente quando dimostra di aver ragione. Tutto ciò genererebbe una dicotomia (attenzione allo spoiler: è una falsità), secondo la quale ci sarebbe un’importante linea di demarcazione tra il pensiero e i sentimenti, tra la corteccia, con a capo la PFC, e la parte del cervello che elabora le emozioni (genericamente chiamata “sistema limbico”, che è costituita dall’amigdala e da altre strutture,[*] la cui attività è associata all’eccitazione sessuale, all’accudimento materno, alla tristezza, al piacere, all’aggressività…).

Entro certi limiti, la metafora del conflitto, sul piano della “volontà”, tra la PFC e il sistema limbico ha sicuramente senso, almeno in relazione a quanto illustrato finora. Dopotutto, è la prima che dice al secondo di inibire quei pensieri implicitamente razzisti, di considerare in una certa prospettiva un gioco stupido, di resistere alla tentazione di barare. Ed è il secondo che si lascia andare “a cose folli” quando la PFC è silente – per esempio, durante il sonno REM; ovvero, quando state sognando. Tuttavia, non sempre le due regioni alimentano il conflitto.[*] A volte, si occupano semplicemente di ambiti diversi. La PFC del 15 aprile, il giorno in cui si presenta la dichiarazione dei redditi federale; il sistema limbico del 14 febbraio, San Valentino. La prima vi fa rispettare, anche se a malincuore, Into the Woods;[*] il secondo vi fa commuovere durante Les Mis,[*] nonostante voi sappiate che state guardando delle rappresentazioni teatrali. La prima è attiva nella testa dei giurati che, in tribunale, decidono in merito alla colpevolezza o all’innocenza di un imputato; il secondo è attivo quando quegli stessi giurati scelgono quale pena comminare a chi è ritenuto responsabile di un reato.[19]

Tuttavia, ecco un punto davvero fondamentale: le attività della PFC e del sistema limbico, anziché contrapporsi, generando delle opposizioni, o una vicendevole indifferenza, sono solitamente intrecciate. Per fare la cosa giusta quando è quella più difficile da attuare, la PFC richiede un’enorme quantità di input, di natura emozionale, che provengono dal sistema limbico.

Per apprezzare tutto ciò, dobbiamo tener conto di ulteriori dettagli, considerando, anzitutto, due subregioni della PFC.

La prima è la corteccia prefrontale dorsolaterale (dlPFC), che potremmo indicare come il decisore razionale “definitivo” nella corteccia frontale. Come se si trattasse di una sorta di matrioska, possiamo dire che la corteccia è la parte del cervello che si è evoluta più recentemente, la corteccia frontale è la parte più recente della corteccia, la PFC è la parte più recente della corteccia frontale e la dlPFC è la parte più recente della PFC. La dlPFC è l’ultima parte della PFC a completare il proprio processo di maturazione.

La dlPFC è l’essenza della corteccia prefrontale, intesa qui come una sorta di rigido “Super-io” rigido. È la parte più attiva della PFC, quando eseguiamo un certo tipo di compiti, come “contare i mesi all’indietro”, oppure quando prendiamo in considerazione una tentazione. Si rivela ferocemente utilitaristica: per esempio, durante l’esecuzione di un compito che prevede considerazioni morali, quanta più attività si riscontra nella dlPFC, tanto più si può predire che quel soggetto sceglierà di uccidere una persona innocente per salvarne cinque.[20]

Quel che accade quando la dlPFC è silenziata si rivela davvero informativo. Tutto ciò può essere ottenuto sperimentalmente con una tecnica molto interessante, denominata stimolazione magnetica transcranica (descritta a pagina 39, nella nota a piè di pagina), in cui un impulso magnetico, applicato sul cuoio capelluto, può temporaneamente attivare, o inibire, la piccola zona della corteccia sottostante. Se attivate la dlPFC in questo modo, vi accorgerete che i soggetti sperimentali si rivelano più utilitaristi quando si tratta di considerare l’opportunità di sacrificare un individuo per salvarne molti. Se, invece, la inibite, si rivelano maggiormente impulsivi – in un gioco economico, valutano un’offerta “scarsa” come ingiusta, ma non dispongono dell’autodisciplina necessaria per resistere al fine di ottenere una ricompensa migliore. Peraltro, tutto ciò riguarda la socialità per esempio, manipolare la dlPFC non ha alcun effetto se i soggetti pensano che il loro avversario sia un computer.[*] [21]

Poi ci sono persone che hanno subito danni selettivi della dlPFC. Gli esiti sono proprio quelli che vi aspettate: compromissione della pianificazione, o della procrastinazione della gratificazione; perseveranza in merito all’attuazione di strategie che offrono ricompense immediate; un controllo esecutivo scadente per quanto riguarda le manifestazioni comportamentali socialmente inappropriate. Insomma, un cervello senza voce che dice: “Non farei così se fossi in te.”

La principale sottoregione della corteccia prefrontale è chiamata PFC ventromediale (vmPFC) e, tanto per semplificare nel modo più brutale, è l’opposto della dlPFC. Quest’ultima subregione della PFC riceve principalmente input da altre regioni corticali, cercando di ottenere informazioni da quegli altri distretti, al fine di scoprire i loro pensieri, che meritano di essere ben ponderati. Invece, la vmPFC riceve informazioni dal sistema limbico, quella regione cerebrale che si appassiona, o si agita eccessivamente, per via di un’emozione – in altri termini, la vmPFC consente alla corteccia prefrontale di stabilire cosa state provando.[*]

Cosa accade se la vmPFC è danneggiata? Grandi cose, se siete persone poco interessate alle emozioni. Per questo genere di individui, offriamo il nostro meglio quando appariamo come macchine razionali, dedite all’ottimizzazione, e alla soluzione, di certi dilemmi morali. In questa prospettiva, il sistema limbico “ingarbuglia” il processo decisionale, rivelandosi eccessivamente incline ai sentimenti, cantando troppo forte, vestendosi in modo appariscente, presentandosi con inquietanti quantità di peli sotto le ascelle. In base a questo punto di vista, se solo potessimo liberarci della vmPFC, saremmo più calmi, più razionali e funzioneremmo meglio.

Tuttavia, oggigiorno disponiamo di evidenze straordinariamente significative: coloro che manifestano lesioni alla vmPFC prendono decisioni terribili, a cui conseguono gravi nocumenti. Anzitutto, le persone con lesioni alla vmPFC, rispetto a quelle con danni alla dlPFC, hanno difficoltà a prendere decisioni, perché non dispongono delle percezioni interocettive in merito a come dovrebbero scegliere. Quando compiamo una scelta, la dlPFC riflette “filosoficamente”, come se facesse degli esperimenti mentali in merito alle opzioni disponibili. Invece, la vmPFC riporta, alla dlPFC, i risultati di quello che potremmo considerare una sorta di esperimento emotivo: “Come mi sentirò se faccio X e poi accade Z?” Ebbene, senza disporre di quegli input di natura interocettiva, è estremamente difficile prendere delle decisioni.[22]

Inoltre, quelle stesse decisioni possono rivelarsi inadeguate secondo i criteri condivisi pressoché da chiunque. Le persone con danni alla vmPFC non cambiano il loro comportamento in base a feedback negativi. Supponiamo che i soggetti scelgano ripetutamente tra due attività, una delle quali offre maggiori ricompense. Se invertite i parametri relativi alla gratificazione, tipicamente, le persone cambieranno, di conseguenza, la loro strategia (anche se non sono consapevoli della variazione dei tassi di ricompensa). Invece, gli individui con lesioni della vmPFC possono persino giungere ad affermare esplicitamente che l’altra attività, ora, è più gratificante… ma continuano a svolgere quella che avevano scelto in precedenza. In altri termini, senza disporre delle funzionalità ascrivibili alla vmPFC, sapete ancora cosa significa il feedback negativo, ma non come ci si sente quando lo si riceve.[23]

Come abbiamo già osservato, i danni alla dlPFC determinano la manifestazione di comportamenti inappropriati, emotivamente disinibiti. Invece, per via delle lesioni alla vmPFC, apparirete insensibili e inariditi, manifestando una sorta di spietato distacco. Un esempio di questa condizione è rappresentato da una persona che, incontrando qualcuno, dice: “Ciao, è un piacere conoscerti. Mi pare che tu sia alquanto sovrappeso.” Quando poi, in un momento successivo, viene rimproverato dal suo partner, che si è sentito in imbarazzo, dirà, manifestando un calmo stupore: “Cosa c’è che non va? È vero.” A differenza della maggior parte delle persone, coloro che hanno subito delle lesioni alla vmPFC non propongono una punizione più severa per i crimini violenti, rispetto a quelli che non si sono rivelati tali, non modificano il loro modo di giocare, se pensano che l’avversario sia un computer piuttosto che un essere umano, e non distinguono tra un parente e uno sconosciuto quando devono decidere se è opportuno sacrificarlo per salvare altre cinque persone. La vmPFC non è l’appendice vestigiale della corteccia prefrontale. Le emozioni non infiammano un cervello razionale, come invece si osserva quando l’appendice vermiforme estende la propria infiammazione all’intestino e alle strutture che le sono prossime. Le funzioni ascrivibili alla vmPFC sono essenziali.

Quindi, la PFC fa la cosa giusta quando è quella più difficile da attuare. Tuttavia, è fondamentale tenere presente che “giusto” va inteso in senso neurobiologico e strumentale, non già facendo riferimento alla dimensione morale.

Considerate la questione associata a mentire, e il ruolo, banale, che la PFC gioca nell’indurvi a resistere alla tentazione di farlo. Peraltro, impiegate la PFC anche per mentire in maniera competente; per esempio, nei bugiardi patologici si riscontra un cablaggio atipicamente complesso nella corteccia prefrontale. D’altro canto, mentire in maniera competente non rinvia alla dimensione dei valori, è semplicemente amorale. Un bambino istruito nell’etica situazionale mente in merito a quanto apprezzi la cena preparata dalla nonna. Un monaco buddhista gioca magnificamente a Liar’s Dice.[*] In certe condizioni, un dittatore può tradursi nel mandante occulto di un massacro, per poi ricorrere a una scusa volta a giustificare l’invasione di un altro paese. Un epigono di Charles Ponzi[*] truffa gli investitori. Come accade in molti eventi e condizioni relative alla corteccia frontale, è una questione che riguarda il contesto, poi il contesto, e ancora il contesto.

Dopo aver completato il nostro tour della PFC, ritorniamo a considerare quella terribile, distruttiva, e falsa dicotomia tra i vostri attributi, ovvero i talenti e le vulnerabilità che semplicemente vi caratterizzano, e le vostre scelte, che alcuni presumono libere, in merito a quel che fate con quelle stesse caratteristiche.

 

 

Esattamente gli stessi fattori

Osservate ancora una volta le azioni riportate nella colonna di destra; ovvero, quei bivi che mettono alla prova la nostra forza di volontà. Resistete e non mettete in pratica i vostri impulsi sessuali distruttivi? Lottate contro il dolore? Lavorate più duramente per colmare le vostre lacune? Potete già inferire dove tutto ciò andrà a parare. Se volete completare la lettura di questo paragrafo e, poi, saltare il resto del capitolo, ecco le tre linee di sviluppo principali: (a) la tenacia, il carattere, la “schiena dritta”, la grinta, il solido orientamento morale, lo spirito forte e volenteroso che vince sulla debole carne, sono tutti “prodotti” della PFC; (b) la PFC è costituita dallo stesso “materiale” biologico che si riscontra nel resto del vostro cervello; (c) la vostra attuale PFC è l’esito dell’interazione tra la biologia e l’ambiente, che sono due fattori che sono, entrambi al di fuori del vostro controllo.

Il capitolo 3 ha offerto una risposta biologica alla seguente domanda: Perché si è appena manifestato quel comportamento? La risposta è stata: Per via di ciò che è accaduto un secondo prima, nel minuto precedente, e… Ora consideriamo un quesito più mirato: Perché quella PFC ha funzionato proprio come ha fatto ora? Ebbene, la risposta è la stessa.

Da secondi a un’ora prima: il retaggio che riceviamo

Siete seduti lì, attenti, concentrati sul compito. Ogni volta che si accende la luce blu, premete rapidamente il pulsante a sinistra; invece, quando si accende la luce rossa, schiacciate quello a destra. Poi, la regola s’inverte – blu a destra, rosso a sinistra. La regola s’inverte di nuovo, e poi ancora…

Cosa accade nel vostro cervello, mentre eseguite questo compito? Ogni volta che lampeggia una luce, la vostra corteccia visiva si attiva, per un breve periodo. Un istante dopo, si riscontra una altrettanto breve attivazione del percorso neurale che veicola quell’informazione dalla corteccia visiva alla PFC. Nell’istante successivo, l’attivazione va dalla PFC alla vostra corteccia motoria e, poi, si diffonde da quell’area cerebrale ai vostri muscoli. Cosa sta accadendo nella PFC? Sta “seduta” lì, concentrata, ripetendo “blu a sinistra, rosso a destra”, oppure “blu a destra, rosso a sinistra”. Lavora duramente, per tutto il tempo, ripetendo qual è la regola a cui attenersi. Quando state cercando di fare la cosa giusta, quella più difficile, la PFC diventa la parte più “costosa” del cervello.

Costosa. Bella metafora. Solo che non è una metafora. Qualsiasi neurone localizzato nella PFC sta producendo potenziali d’azione, senza sosta, ognuno dei quali innesca un flusso di ioni, i quali attraversano le membrane cellulari e, poi, devono essere “raccattati” e successivamente “pompati”, affinché si ritrovino nel versante da cui erano partiti. Quei potenziali d’azione possono verificarsi un centinaio di volte al secondo, mentre vi concentrate sulla regola che dovete seguire. Quei neuroni, localizzati nella PFC, consumano enormi quantità di energia.

Potete rendervene conto impiegando le tecniche di imaging cerebrale, grazie alle quali si evidenzia in che modo una PFC al “lavoro”, consumi grandi quantità di glucosio e ossigeno, veicolate dal flusso ematico che giunge al cervello, oppure misurando quanta “valuta” biochimica sia disponibile, per ogni neurone, in un dato momento.[*] Tutto ciò ci riconduce al punto principale di questo paragrafo: quando la PFC non dispone di sufficiente energia, non funziona bene.

Questo è il fondamento cellulare di concetti come “carico cognitivo”, o “riserva cognitiva”, accennati nel capitolo 3.[*] Quando la vostra PFC lavora intensamente in relazione a un compito, quelle riserve si consumano e, a volte, finiscono finendo per esaurirsi.[24]

Per esempio, mettete una ciotola di M&M’s davanti a qualcuno che sta seguendo una dieta. Ditegli: “Prendine pure quanti ne vuoi.” Cercherà di resistere. Se ha appena fatto qualcosa che ha impegnato la sua corteccia frontale, anche una sciocca e irrilevante attività del tipo “luce rossa/luce blu”, lo vedrete mangiarne più del solito. Tanto per ricordare le parole di una parte del titolo di un affascinante articolo sull’argomento: “Deplete us not into temptation.” Vale anche l’opposto: esaurite la vostra riserva cognitiva frontale, resistendo a quegli M&M’s posti davanti a voi per quindici minuti, e poi otterrete scarsi risultati nel gioco “luce rossa/luce blu”.[25]

La funzione della PFC e la regolazione di voi stessi vanno a “farsi benedire” anche se siete terrorizzati o provate dolore: in questa condizione, la PFC consuma molta energia per affrontare lo stress. Ricordate l’effetto Macbeth, laddove il fatto di riflettere su un’azione eticamente scorretta che avete compiuto, anche solo in un’occasione, compromette le capacità cognitive che si possono ascrivere alla vostra corteccia frontale (a meno che riusciate a liberarvi di quella “macchia”, lavandovi le mani). Tale competenza si riduce anche se vi viene impedito di distrarvi con qualcosa di positivo: i pazienti hanno maggiori probabilità di morire, per via di un intervento chirurgico, se è il compleanno del chirurgo.[26]

Anche la stanchezza esaurisce le risorse della corteccia frontale. A mano a mano che passano le ore che, durante la giornata lavorativa, i medici scelgono con maggiore frequenza la “via più facile”, prescrivendo, o eseguendo, meno test diagnostici. Inoltre, aumentano le probabilità che prescrivano degli oppiacei (invece dei farmaci meno problematici, come i FANS, o la fisioterapia). Con il passare del tempo, oppure dopo essersi impegnati per assolvere un compito cognitivamente impegnativo, gli individui sono più inclini a comportarsi in modo eticamente scorretto, e appaiono anche meno attenti alle questioni morali, a mano a mano che le ore della giornata lavorativa trascorrono, oppure dopo essersi impegnati per assolvere un compito cognitivamente impegnativo. In uno studio particolarmente inquietante, che ha coinvolto i medici del pronto soccorso, si è evidenziato che, quanto più impegnativa era stata la giornata lavorativa dal punto di vista cognitivo (misurata dal carico di pazienti), tanto maggiore era la frequenza di comportamenti ascrivibili a bias razziali impliciti, che si osservavano soprattutto verso la fine del turno.[27]

Peraltro, le stesse considerazioni valgono per la fame. Ecco uno studio che dovrebbe assorbire completamente la vostra attenzione (l’ho citato, per la prima volta, nel capitolo precedente). Alcuni ricercatori hanno studiato oltre 1000 decisioni prese da un gruppo di giudici, incaricati di presiedere le commissioni per la libertà condizionale. Qual era il miglior predittore della decisione del giudice? Il tempo trascorso dal consumo del suo ultimo pasto. Presentarsi davanti al giudice poco dopo che aveva mangiato significava avere circa il 65 per cento di possibilità di ottenere la libertà condizionale; comparire davanti a quel magistrato qualche ora dopo si associava a una probabilità prossima allo zero per cento.[*][28]

Cosa significa tutto ciò? Ovviamente, non è che, nel tardo pomeriggio, i giudici si sentano svenire, balbettino e, poi, confusi, mandino in carcere lo stenografo del tribunale. Lo psicologo Daniel Kahneman, insignito del premio Nobel, ha osservato, in merito a questo studio, che, a mano a mano che passano le ore successive all’assunzione del pasto, la PFC appare meno capace di concentrarsi sui dettagli di ogni caso, sicché il giudice si rivela maggiormente propenso ad attuare ciò che è più facile e richiede meno riflessione, ovvero rispedire un detenuto in prigione. Ulteriori evidenze che corroborano tale ipotesi sono state prodotte da uno studio che ha coinvolto alcuni soggetti invitati a prendere decisioni di crescente complessità: con l’avanzare del protocollo sperimentale, la dlPFC diventava progressivamente più lenta, nell’elaborazione di tali decisioni, e aumentava l’inclinazione di quegli individui a ricorrere a una decisione informata dall’abitudine.[29]

Perché negare la libertà condizionale si rivela la risposta facile e abituale a cui ricorrere? Perché richiede alla PFC un minor impegno. Colui che vi sta di fronte ha commesso dei reati, tuttavia, in prigione, si è comportato bene. Ci vuole una PFC che dispone di quantità notevoli di energia per cercare di capire, di percepire, di immaginare la vita del detenuto – costellata di orribili eventi sfortunati –, per assumere il suo punto di vista sul mondo, per cercare, sul suo duro volto, quegli indizi che rinviano al cambiamento e alla disponibilità di un certo potenziale. Insomma, un giudice deve sottoporre a un notevole impegno la propria corteccia frontale per “mettersi nei panni” di un carcerato, prima di decidere in merito alla sua libertà condizionale. Riflettendo su tutto ciò, nel contesto di quelle decisioni giudiziarie, i magistrati hanno mediamente impiegato più tempo per concedere la libertà condizionale, che per rimandare quelle persone in carcere.[*][*][30]

Pertanto, gli eventi nel mondo intorno a voi influiranno sulle capacità della vostra PFC di resistere a quegli M&M’s, oppure di prendere una decisione giudiziaria rapida e immediata. La biochimica del cervello è un altro fattore rilevante per stabilire quanto allettante sia una tentazione. Tutto ciò ha molto a che fare con il neurotrasmettitore dopamina, il quale viene rilasciato nella PFC dalle proiezioni di neuroni localizzati nel nucleo accumbens, che fa parte del sistema limbico. Cosa produce la dopamina nella PFC? Segnala la rilevanza di una tentazione, ovvero quanto i vostri neuroni nella corteccia prefrontale stiano “pregustando” quegli M&M’s. In effetti, quanto maggiore è la quantità di dopamina in quella regione cerebrale, tanto più forte è quel segnale che comunica la rilevanza della tentazione e, quindi, maggiore è la sfida, che coinvolge la stessa PFC, la quale si sta impegnando per resistere. Aumentate le concentrazioni di dopamina nella vostra PFC e, improvvisamente, avrete qualche problema a tenere a bada i vostri impulsi.[*] Ebbene, proprio come vi potete aspettare, c’è un mondo intero di fattori, fuori dal vostro controllo, che influenzano la quantità di dopamina che andrà a “marinare” la vostra PFC (vale a dire, comprendere il sistema della dopamina richiede un’analisi di cosa è accaduto un secondo prima, un secolo prima…).[31]

In quel lasso temporale che va dai secondi alle ore precedenti, le informazioni sensoriali modulano la funzione della PFC senza che voi ne siate consapevoli. Se fate annusare a un soggetto sperimentale il sudore di una persona spaventata, osserverete che la sua amigdala si attiverà, una condizione che rende più difficile, alla PFC, l’inibizione indotta dalla PFC.[*] Che ne dite di questa rapida alterazione della funzione frontale? Prendete un uomo “medio”, eterosessuale, ed esponetelo a uno stimolo particolare; ebbene, la sua PFC si rivelerà più incline a decidere che attraversare la strada senza camminare sulle strisce pedonali è una buona idea. Qual è lo stimolo? La vicinanza di una donna attraente. Lo so, è patetico.[*][32]

Dunque, tutta una serie di fattori, spesso fuori dal vostro controllo – lo stress, il dolore, la fame, la stanchezza, il sudore che state annusando, chi compare nel vostro campo visivo periferico –, può influenzare l’efficacia con cui la vostra PFC svolge il suo lavoro; di solito, senza che voi sappiate che sta accadendo. Nessun magistrato, qualora gli chiediate perché ha appena preso una decisione in sede giudiziaria, fa riferimento alla propria glicemia. Invece, ascolterete un ampio discorso filosofico su qualche “padre della giurisprudenza” ormai morto.

Tanto per porre una domanda che deriva dagli argomenti discussi nel capitolo precedente: questi risultati mostrano che non esiste quella tenacia che si sceglie liberamente di manifestare? Anche se le dimensioni di questi effetti fossero enormi (cosa che si osserva raramente, nonostante la variazione dei tassi relativi alla libertà condizionale, che, nello studio sui “giudici e la fame”, varia dal 65 allo zero per cento, non sia certamente trascurabile), la mia risposta è: no, questi risultati da soli non bastano. Ora, dobbiamo ampliare ancora un po’ la prospettiva.

Il retaggio delle ore e dei giorni precedenti

Tutto questo ci invita a considerare quale sia l’influenza degli ormoni sulla PFC, nei casi in cui si tratti di esibire ciò che potrebbe essere interpretato come la manifestazione di una certa tenacia in relazione al conseguimento di un obiettivo.

Anzitutto, ricordiamo qualcosa che abbiamo già preso in esame nei capitoli precedenti: l’incremento del testosterone, nel corso di questo intervallo temporale, rendono le persone più impulsive, maggiormente sicure in loro stesse, propense al rischio, egocentriche, inclini a reagire aggressivamente a una provocazione, meno generose o empatiche. I glucocorticoidi e lo stress rendono gli individui meno abili in relazione alla funzione esecutiva, oltre che meno capaci di controllare gli impulsi, e maggiormente inclini a esibire una risposta abituale a una sfida, anche se non funziona, piuttosto che cambiare strategia. Poi c’è l’ossitocina, un ormone che incrementa la fiducia, la socialità e il riconoscimento sociale. Gli estrogeni potenziano la funzione esecutiva, la memoria di lavoro, il controllo degli impulsi, e rendono le persone più efficienti quando si tratta di passare a occuparsi rapidamente di altri compiti differenti, se tutto ciò è necessario.[33]

Molti di questi effetti ormonali si manifestano nella PFC. Se siete incappati in una mattinata terribilmente stressante, a mezzogiorno i glucocorticoidi avranno cambiato l’espressione genica nella dlPFC, rendendola meno eccitabile, e anche meno capace di interagire con l’amigdala, e di inibirla. Nel frattempo, lo stress e i glucocorticoidi rendono l’“emotiva” vmPFC più eccitabile, e anche maggiormente impermeabile ai feedback negativi relativi al comportamento sociale. Lo stress provoca anche la secrezione, nella corteccia prefrontale, di un altro neurotrasmettitore, denominato “noradrenalina” (una sorta di adrenalina del cervello), che influenza negativamente anche la dlPFC.[34]

In quello stesso lasso temporale, il testosterone avrà cambiato l’espressione dei geni nei neuroni localizzati in un’altra parte della PFC (ovvero, nella corteccia orbitofrontale), rendendoli più sensibili a un neurotrasmettitore inibitorio, che “calma” i neuroni e riduce la loro capacità di “ragionare” con il sistema limbico. Il testosterone limita anche l’accoppiamento tra l’attività di una parte della PFC e una regione coinvolta nell’empatia; questa evidenza aiuta a spiegare perché questo ormone renda le persone meno accurate quando cercano di interpretare le emozioni espresse da un altro individuo guardando i suoi occhi. Nel frattempo, l’ossitocina produce i suoi effetti prosociali, rinforzando l’attività della corteccia orbitofrontale, variando anche i tassi di utilizzo dei neurotrasmettitori serotonina e dopamina da parte della vmPFC. Poi, ci sono gli estrogeni, i quali non solo aumentano il numero di recettori per il neurotrasmettitore acetilcolina, ma cambiano persino la struttura dei neuroni localizzati nella vmPFC.[*][35]

Per favore, non ditemi che avete iniziato ad annotare e a memorizzare tutte queste curiosità. Il punto importante è la natura meccanicistica di tutto ciò. A seconda di dove vi “troviate” nel ciclo ovarico, se sia notte oppure giorno, se vi abbiano dato un meraviglioso abbraccio, che vi ha lasciati senza fiato, o se vi abbiano imposto un minaccioso ultimatum a causa del quale state ancora tremando, gli “ingranaggi” e i “congegni” nella vostra PFC funzioneranno in maniera differente. Ma, come abbiamo indicato in precedenza, raramente gli effetti prodotti sono sufficientemente rilevanti, di per loro, da condannare, in quanto tali, il mito della tenacia. Aggiungiamo un’altra tessera.

Il retaggio dei giorni e degli anni precedenti

Nel capitolo 3, abbiamo già considerato il fatto che, nel corso di questo lasso temporale, la struttura e le funzioni del cervello possano cambiare drasticamente. Ricorderete certamente che anni di depressione possono causare l’atrofia dell’ippocampo e che alcuni traumi, i quali inducono il disturbo da stress post-traumatico, possono incrementare le dimensioni dell’amigdala. Ovviamente, la neuroplasticità, intesa qui come risposta all’esperienza, si verifica anche nella PFC. Se soffrite, per anni, di depressione maggiore oppure di un grave disturbo d’ansia, la vostra PFC si atrofizzerà. L’atrofia poi aumenterà a seconda di quanto a lungo persisterà un disturbo dell’umore. Lo stress prolungato, oppure l’esposizione a certe concentrazioni di glucocorticoidi, producono lo stesso effetto. Tra l’altro, quell’ormone, nella PFC, riduce la concentrazione, o l’efficacia, di un importante fattore di crescita neuronale chiamato BDNF,[*] causando la retrazione delle spine dendritiche e dei rami dendritici al punto che gli strati di quella regione corticale si assottigliano. Tutto ciò compromette la funzione della PFC, producendo un effetto davvero poco utile: come abbiamo già osservato, quando viene attivata, l’amigdala aiuta ad avviare la risposta allo stress del corpo (compresa la secrezione dei glucocorticoidi). La PFC lavora per porre fine a questa risposta, “calmando” l’amigdala. I livelli elevati di glucocorticoidi compromettono la funzione della PFC, la quale non è in grado di inibire adeguatamente l’amigdala. Di conseguenza, in quella persona si riscontrano concentrazioni sempre più elevate di glucocorticoidi, i quali, a loro volta, compromettono… Insomma, s’innesca un circolo vizioso.[36]

Peraltro, l’elenco di altri fattori con funzione regolatoria è ancora più esteso. Gli estrogeni fanno sì che i neuroni della PFC costituiscano rami più spessi e complessi che si collegano ad altri neuroni; se rimuovete completamente tali ormoni, osserverete la morte di alcuni neuroni della PFC. L’abuso di alcol distrugge i neuroni nella corteccia orbitofrontale, determinandone l’atrofia; quanto più il fenomeno si rivela rilevante, tanto maggiore è la probabilità che un individuo, il quale si stia astenendo dall’assunzione di quella sostanza, incorra in una ricaduta. L’uso cronico di cannabis riduce il flusso sanguigno e l’attività sia della dlPFC sia della vmPFC. Compiere regolarmente gli esercizi fisici aerobici attiva i geni implicati nella sintesi dei neurotrasmettitori associati alla segnalazione nella PFC, induce la produzione di quantità maggiori del fattore di crescita BDNF e rende anche le relazioni che riguardano le attività di varie sottoregioni della PFC, le quali diventano più interrelate ed efficienti. Nel caso dei disturbi alimentari accade, approssimativamente, l’opposto. Questo elenco può continuare all’infinito.[37] Alcuni di questi effetti sono lievi e poco evidenti. Tuttavia, se volete dei riferimenti a qualcosa di lampante, considerate quel che accade, a distanza di giorni, oppure anni, quando la PFC è danneggiata da una lesione traumatica del cervello (traumatic brain injury, TBI – à la Phineas Gage), o dalla degenerazione ascrivibile alla demenza frontotemporale. Un danno esteso alla PFC incrementa la probabilità, anche a distanza di tempo, associata alla manifestazione di comportamenti disinibiti, tendenze antisociali e violenza. A tali fenomeni ci si riferisce impiegando l’espressione “sociopatia acquisita”.[*] È interessante notare che tali individui possono dirvi, per esempio, che l’omicidio è sbagliato; lo sanno, ma semplicemente non riescono a regolare i loro impulsi. Circa la metà delle persone incarcerate per crimini violenti di natura antisociale ha un’anamnesi positiva per le TBI, mentre l’incidenza nella popolazione generale è di circa l’8 per cento. Inoltre, nella popolazione carceraria, il fatto di aver subito una TBI incrementa la probabilità di recidiva, ovvero di commettere nuovamente quei crimini. Gli studi che hanno impiegato tecniche di neuroimaging rivelano tassi elevati in relazione al riscontro di anomalie strutturali e funzionali nella PFC tra i detenuti con una storia costellata di crimini violenti e di natura antisociale.[*][38]

Poi c’è l’effetto indotto da decenni di discriminazione razziale, che, tra l’altro, è un predittore che rinvia a problemi di salute in ogni organo o apparato somatico. Gli afroamericani, che riportano le storie più severe di sofferenza per via della discriminazione (in base al punteggio ottenuto in un questionario, somministrato dopo aver riscontrato un’anamnesi positiva per trauma e disturbo da stress post-traumatico), manifestano livelli più elevati di attività a riposo nell’amigdala. Inoltre, si osserva una maggiore connessione tra l’amigdala stessa e le regioni cerebrali che è in grado di attivare. Se i soggetti esposti a quel “triste” paradigma sperimentale, che simula l’esclusione sociale (quello in cui gli altri due giocatori smettono di passarvi la palla virtuale) sono afroamericani, l’attivazione della vmPFC risulterà maggiore a seconda che l’ostracismo venga attribuito o no al razzismo. In un altro studio, che ha impiegato le tecniche di neuroimaging, le prestazioni relative a un compito che coinvolge la corteccia frontale sono diminuite nei soggetti condizionati con immagini di ragni (rispetto agli uccelli); per quanto riguarda i soggetti afroamericani, quanto più è significativa la loro storia di discriminazione, tanto maggiore risulta l’attivazione, da parte dei ragni, della vmPFC, determinando una riduzione delle prestazioni. Quali sono dunque gli effetti prodotti da una storia caratterizzata da una discriminazione prolungata? Ebbene, si riscontra un cervello che manifesta uno stato di vigilanza costante, che appare più reattivo alle minacce percepite e con una corteccia prefrontale gravata da un flusso di segnalazioni, provenienti dalla vmPFC, in relazione a questo costante stato di disagio.[39]

Quindi, per riassumere: quando cercate di fare la cosa giusta, anche se è la più difficile, la PFC con cui state lavorando mostrerà tutte le conseguenze di ciò che gli anni precedenti vi hanno riservato.

Il retaggio del tempo dei brufoli

Prendete il paragrafo che avete appena letto, sostituite “gli anni precedenti” con “l’adolescenza”, sottolineate con l’evidenziatore l’intero testo, e siete a posto. Nel capitolo 3 ho illustrato i fatti fondamentali: (a) quando siete degli adolescenti, la vostra PFC ha, davanti a sé, una quantità di “progetti costruttivi” da realizzare; (b) invece, il sistema della dopamina, cruciale per la ricompensa, l’anticipazione e la motivazione, ha già raggiunto le condizioni di pieno funzionamento, quindi la corteccia prefrontale non ha alcuna possibilità di inibire efficacemente la ricerca delle emozioni, l’impulsività, il desiderio di novità, il che significa che gli adolescenti si comportano in modo “adolescenziale”; (c) se la PFC, in questa fase dello sviluppo, è ancora un cantiere in costruzione, allora questo è l’ultimo periodo della vita in cui l’ambiente e l’esperienza avranno un ruolo importante nell’influenzare la struttura e il funzionamento che manifesterà nel soggetto adulto;[*] (d) il ritardo della maturazione di questa regione corticale dev’essere il frutto dell’evoluzione, affinché nel corso dell’adolescenza sia possibile questo genere di influenze – in che altro modo riusciremmo a padroneggiare le discrepanze tra “la forma e il contenuto” delle leggi della socialità?

È così che l’esperienza sociale dell’adolescenza, per esempio, altererà il modo in cui la PFC regolerà il comportamento sociale quando sarete adulti. In che maniera? Riunite tutti i soliti sospetti. Nel corso dell’adolescenza, fate in modo di esporvi a molto stress (fisico, psicologico, sociale), anche a molto cortisolo, e la vostra PFC non “darà” il meglio di sé durante l’età adulta. Non solo ci saranno meno sinapsi, e meno ramificazioni dendritiche complesse, nella mPFC e nella corteccia orbitofrontale, ma si riscontreranno anche cambiamenti permanenti nel modo in cui i neuroni della PFC rispondono al neurotrasmettitore eccitatorio glutammato (a causa di stabili cambiamenti nella struttura di uno dei principali recettori del glutammato stesso). Nel corso dell’età adulta, la PFC si rivelerà meno efficace nell’inibire l’amigdala, rendendo più difficile il processo che consente di disimparare la paura condizionata, e il sistema nervoso autonomo in relazione all’ipersensibilizzazione nei riguardi degli spaventi. Si riscontrerà anche la compromissione del controllo degli impulsi, e dell’esecuzione dei compiti cognitivi dipendenti dal funzionamento della PFC. Insomma, le solite cose.[40]

Al contrario, l’esposizione, durante l’adolescenza, a un ambiente ricco di stimoli produce effetti rilevanti sulla PFC che si riscontreranno nell’età adulta, riuscendo ad annullare alcune delle conseguenze indotte dalle avversità infantili. Per esempio, l’esposizione, nel corso degli anni dell’adolescenza, a un ambiente “arricchito” produce cambiamenti permanenti nella regolazione dell’espressione genica nella PFC, generando, durante l’età adulta, concentrazioni più elevate di fattori di crescita neuronale, come, per esempio, del BDNF. Inoltre, sebbene lo stress prenatale causi la riduzione della concentrazione di BDNF nella PFC degli adulti (rimanete sintonizzati), l’esposizione agli stimoli positivi e alle opportunità di sviluppo, durante l’adolescenza, può annullare questo effetto. Tutti questi cambiamenti compromettono la capacità della PFC di controllare gli impulsi e di procrastinare la gratificazione. Quindi, se volete essere “migliori” quando, da adulti, si tratterà di fare la cosa più difficile, assicuratevi di scegliere l’adolescenza “giusta”.[41]

Ancora più indietro

Ora tornate al paragrafo che avete evidenziato, in cui abbiamo considerato “quel che l’adolescenza potrebbe avervi riservato”, sostituite “adolescenza” con “infanzia” e sottolineate il paragrafo altre diciotto volte. Che sorpresa, il tipo di infanzia che avete vissuto influenza la costruzione della PFC nel corso di quegli anni e determina quella di cui disporrete nel corso dell’età adulta.[*]

Per esempio, non ci sorprende che gli abusi subiti durante l’infanzia producano, nei bambini, una PFC più piccola, con meno materia grigia e con cambiamenti nei circuiti neuronali: per esempio, una peggiore comunicazione tra diverse sottoregioni della PFC, un minor accoppiamento funzionale tra la vmPFC e l’amigdala (e l’inclinazione all’ansia nel bambino sarà direttamente proporzionale all’entità dell’effetto). Inoltre, le sinapsi, nel cervello, sono meno eccitabili; si riscontrano cambiamenti che riguardano il numero di recettori per vari neurotrasmettitori, e alcuni cambiamenti nell’espressione genica, anche indotti dai pattern di marcatura epigenetica del DNA – insieme alla compromissione della funzione esecutiva e del controllo degli impulsi nel bambino. Molti di questi effetti si verificano, più o meno, nei primi cinque anni di vita. In questo contesto si potrebbe sollevare una questione del tipo “prima l’uovo o la gallina”: l’assunto, in questo paragrafo, è che gli abusi causino questi cambiamenti nel cervello. Possiamo considerare la possibilità che tali bambini, i quali manifestano già queste differenze, assumano comportamenti che li rendono più esposti agli abusi? Ciò è altamente improbabile: gli abusi, di solito, precedono i cambiamenti comportamentali.[42]

Non sorprende nemmeno che questi cambiamenti nella PFC, riscontrati già nell’infanzia, possano persistere fino all’età adulta. Gli abusi, subiti nei primi anni di vita, danno per esito una PFC, in età adulta, più piccola, più sottile e con meno materia grigia. Inoltre, si osserva un’alterazione dell’attività della PFC in risposta a stimoli emotivi, così come concentrazioni dei recettori per vari neurotrasmettitori. Infine, si riscontra un accoppiamento indebolito della PFC sia con le regioni dopaminergiche della “ricompensa” (che si associa a un aumento del rischio di depressione), sia con l’amigdala, una condizione predittiva di una maggiore tendenza a rispondere alla frustrazione con manifestazioni rabbiose (“rabbia di tratto”). Banalmente, tutti questi cambiamenti sono associati, ancora una volta, a una PFC che, nel corso dell’età adulta, non può esprimere al massimo le sue capacità.[43]

Di conseguenza, gli abusi subiti durante l’infanzia generano, nell’adulto, una PFC diversa. Purtroppo, il fatto di essere stati esposti a maltrattamenti, da bambini, si associa a una maggiore probabilità di abusare dei propri figli da adulti. A un mese dalla nascita, i circuiti della PFC sono già diversi nei bambini partoriti da madri che hanno subito abusi nel corso dell’infanzia.[44]

Questi risultati riguardano due gruppi di persone – quelle che sono state esposte ad abusi durante l’infanzia e quelle che non hanno vissuto esperienze del genere. E per quanto riguarda l’intero spettro della fortuna? Che effetto ha lo status socioeconomico, al tempo della nostra infanzia, sulla sfera della presunta tenacia?

Non sorprende che lo status socioeconomico della famiglia predica la dimensione, il volume e il contenuto di materia grigia della PFC dei bambini che frequentano la scuola materna. Tuttavia, lo stesso vale per i bambini in età prescolare, per quelli di sei mesi e per i neonati di quattro settimane. Ora potete pure mettervi a urlare per quanto possa rivelarsi ingiusta la vita.[45]

Tutte le singole tessere del puzzle costituito da questi risultati derivano da quanto segue. Lo status socioeconomico predice quanto la dlPFC di un bambino piccolo attivi e recluti le altre regioni cerebrali nel corso di un compito esecutivo. Inoltre, predice una maggiore reattività dell’amigdala in relazione a minacce fisiche o sociali, anche minori; in altri termini, si riscontra un segnale di attivazione più forte che trasmette questa risposta emotiva alla corteccia prefrontale, tramite la vmPFC. Infine, tale status predice, nei bambini, ogni possibile misura della funzione esecutiva ascrivibile alla corteccia frontale. Banalmente, un basso status socioeconomico predice uno sviluppo peggiore della PFC.[46]

Ci sono indizi anche in merito ai mediatori. All’età di sei anni, il basso status socioeconomico predice già concentrazioni elevate di glucocorticoidi; tanto maggiore è il loro livello, quanto minore è l’attività media della PFC.[*] Inoltre, le concentrazioni dei glucocorticoidi, nei bambini, sono influenzate non solo dallo status socioeconomico della famiglia, ma anche da quello del quartiere.[*] Le maggiori quantità di stress mediano la relazione tra il basso status socioeconomico e la minore attivazione della PFC nei bambini. Ed ecco una questione correlata: il basso status socioeconomico predice un ambiente meno stimolante per un bambino – pensate a tutte quelle attività extrascolastiche arricchenti che non possono essere offerte, alle condizioni delle madri single che, magari, hanno più di un lavoro e sono troppo esauste per leggere un libro ai loro figli. Ecco una manifestazione scioccante di tutto ciò: all’età di tre anni, il bambino “medio” che gode di un elevato status socioeconomico ha ascoltato, a casa, circa trenta milioni di parole in più rispetto a uno povero. Inoltre, in uno studio, si è osservato che la relazione tra lo status socioeconomico e l’attività della PFC di un bambino era parzialmente mediata dalla complessità dell’uso del linguaggio in famiglia.[47]

È davvero orribile. Dato che la costruzione della corteccia frontale ha inizio durante l’infanzia, non mi pare particolarmente folle pensare che lo status socioeconomico durante l’infanzia predica gli effetti che si riscontreranno negli adulti. Le condizioni che caratterizzano questa fase (indipendentemente da quelle raggiunte negli anni successivi) sono, negli Stati Uniti, il glucocorticoidi, delle dimensioni della corteccia orbitofrontale e delle prestazioni nei compiti che dipendono dall’attività della PFC, nel corso dell’età adulta. Per non parlare dei tassi associati alla detenzione in carcere.[48]

Alcune condizioni miserevoli, come, per esempio, la povertà e gli abusi subiti in età infantile, sono considerate nel punteggio ottenuto da un individuo all’Adverse Childhood Experiences (ACE). Come abbiamo illustrato nel capitolo precedente, questa scala di valutazione tiene conto dell’eventualità che un individuo abbia subito o assistito ad abusi fisici, emotivi o sessuali durante l’infanzia. Considera anche l’eventualità che sia stato esposto a trascuratezza fisica o emotiva, o a disfunzioni familiari, compresi il divorzio e i maltrattamenti occorsi tra i coniugi. Tiene conto del fatto che viva con un familiare malato di mente, o con problemi associati all’uso di sostanze. Infine, contempla anche la possibilità che un parente prossimo si trovi in carcere. Ogni incremento del punteggio ACE si associa a una maggiore probabilità di riscontrare un’amigdala iperreattiva, che si è ingrandita, e una PFC debole, la quale non si è mai completamente sviluppata.[49]

Facciamo un passo avanti, nell’ambito delle brutte notizie, e analizziamo gli effetti indotti dall’ambiente prenatale, che abbiamo descritto nel capitolo 3. Nel caso di una donna incinta, sia il basso status socioeconomico sia il fatto di vivere in un quartiere con un elevato tasso di criminalità predicono un minor sviluppo corticale del bambino al momento della nascita. Ciò vale anche quando il feto è ancora nell’utero.[*] Ovviamente, i livelli elevati di stress esperiti dalla madre durante la gravidanza (per esempio, causati dalla perdita del coniuge, da catastrofi naturali, o da problemi medici che richiedono il trattamento con la somministrazione di elevati dosaggi di glucocorticoidi di sintesi) predicono una compromissione cognitiva rilevata da una vasta gamma di strumenti di valutazione, una funzione esecutiva più povera, una diminuzione del volume di materia grigia nella dlPFC, un’amigdala iperreattiva e una eccessiva risposta allo stress, mediata dai glucocorticoidi, quando quei feti saranno individui adulti.[*] [50]

Un punteggio ACE, un punteggio di avversità fetale, un punteggio relativo alla scala Ridiculously Lucky Childhood Experiences indicata nel capitolo precedente: raccontano tutti la stessa storia. Ci vuole un certo tipo di spregiudicatezza e indifferenza, di fronte a risultati del genere, per continuare a insistere sul fatto che la facilità con cui un individuo compie le cose più difficili, nel corso della vita, giustifichi le lodi e le ricompense, oppure il biasimo e le punizioni. Provate a chiederlo a quei feti che si trovano nel grembo una madre con un basso status socioeconomico, i quali stanno già pagando il fio, dal punto di vista neurobiologico.

Il retaggio dei geni che vi sono stati trasmessi,
e la loro evoluzione

I geni hanno a che fare con il tipo di PFC di cui disponete. Ecco una “grande sorpresa”: come abbiamo osservato nel precedente capitolo, i fattori di crescita, gli enzimi che sintetizzano, o degradano, i neurotrasmettitori, i loro recettori, anche quelli per gli ormoni ecc., sono tutti costituiti da proteine, e questo significa che sono codificati dai geni.

Peraltro, l’idea che questi stessi geni abbiano qualcosa a che fare con tutto ciò può rivelarsi alquanto superficiale e poco interessante. Le differenze tra il tipo di geni posseduti da specie particolari aiutano a spiegare perché la corteccia frontale si osservi negli esseri umani, ma non nei cirripedi, i quali vivono nel mare, o nell’erica, che cresce sulle colline. I tipi di geni posseduti dagli esseri umani aiutano a spiegare perché la corteccia frontale (come il resto delle regioni corticali del telencefalo) sia composta da sei strati di neuroni, e non sia più grande della vostra scatola cranica. Tuttavia, quando ci interessiamo al tipo di genetica, considerando in che modo entra in gioco il patrimonio costituito dai geni, focalizziamo l’attenzione sul fatto che uno, considerato in termini singolari, può presentarsi in diverse varianti, e anche l’evidenza che le più ampie combinazioni differiscono da una persona all’altra. Quindi, in questo paragrafo, non siamo interessati ai geni che consentono di formare, negli esseri umani, la corteccia frontale, e che non sono presenti nel patrimonio genetico dei funghi. Siamo interessati alla variazione delle versioni dei geni, la quale ci aiuta a spiegare le differenze che riguardano il volume della corteccia frontale, il suo livello di attività (per come è possibile rilevarlo con l’EEG) e le prestazioni nei compiti, le quali dipendono dal funzionamento della PFC.[*] In altre parole, siamo interessati alle varianti di quei geni che aiutano a dar conto del perché due persone manifestino una differente probabilità di rubare un biscotto.[51]

Questo ambito di ricerca è progredito, anche con una certa eleganza, giungendo a comprendere in che modo le varianti di alcuni specifici geni correlino con le funzioni della corteccia frontale. Molte di tali funzioni sono associate al funzionamento della serotonina; per esempio, c’è un gene che codifica per una proteina, la quale rimuove questo neurotrasmettitore dallo spazio sinaptico, e la particolare versione di quel gene, posseduta da un individuo, influenza la stretta relazione tra la PFC e l’amigdala. La variazione in un gene correlato alla degradazione della serotonina nella sinapsi aiuta a prevedere le prestazioni delle persone nei compiti di inversione dipendenti dall’attività della PFC. Inoltre, la variazione nel gene per uno dei recettori della serotonina (ce ne sono molti) aiuta a predire quanto le persone siano efficaci nel controllo degli impulsi.[*] Tutto ciò riguarda solo la genetica della segnalazione della serotonina. In uno studio che ha analizzato il genoma di tredicimila persone, un complesso cluster di varianti genetiche ha predetto un incremento della probabilità associata alla manifestazione di comportamenti impulsivi e all’assunzione di rischi. Di fatto, quante più varianti si riscontravano in un soggetto, tanto meno estesa era la sua dlPFC.[52]

Un punto fondamentale, che riguarda i geni correlati alla funzione cerebrale (be’, praticamente tutti i geni), è che la stessa variante genetica funzionerà in modo diverso, talvolta anche drasticamente diverso, in ambienti disparati. Questa interazione tra la variante genetica e la variazione ambientale implica dover ammettere che, in definitiva, non si può dire cosa faccia un gene, ma solo cosa induce in ogni particolare ambiente in cui è stato studiato. Ecco un’ottima esemplificazione di tutto ciò: alcune varianti, che riguardano il gene il quale codifica un tipo di recettore della serotonina, aiutano a spiegare l’impulsività nelle donne… ma solo se manifestano un disturbo dell’alimentazione.[53]

Nel paragrafo dedicato all’adolescenza abbiamo evidenziato le ragioni per le quali, negli esseri umani, l’evoluzione ha “premiato” una maturazione estremamente ritardata della PFC, e abbiamo anche illustrato in che modo ciò renda la costruzione di quella regione tanto soggetta alle influenze ambientali. Orbene, in che modo i geni effettuano la codifica per garantirsi una certa “libertà espressiva”? Impiegano almeno due modalità. La prima, quella più diretta, coinvolge i geni che influenzano quanto rapidamente si compie la maturazione della PFC.[*] La seconda si rivela persino più sfumata ed elegante: disponiamo di geni rilevanti per stabilire quanto sensibile si rivelerà la PFC ai diversi ambienti. Considerate un (immaginario) gene, che disponga di due varianti, le quali influenzano l’inclinazione ai furti in un individuo. Ebbene, quell’individuo, quando sta da solo, ha le stesse basse probabilità di rubare, indipendentemente dalla variante di cui dispone. Tuttavia, se si trova in un gruppo di coetanei, che lo incitano a commettere un furto, una variante implica un aumento del 5 per cento in relazione alla probabilità che rubi qualcosa, l’altra un incremento del 50 per cento. In altre parole, le due varianti producono differenze significative per quanto concerne la sensibilità nei riguardi della pressione esercitata dai coetanei.

Ora rappresentiamo questo tipo di differenza in termini maggiormente “meccanici”. Supponiamo che disponiate di un cavo elettrico che inserite in una presa; quando si dà questa condizione, non rubate. Diciamo che la presa è costituita da una proteina “immaginaria” che ha due varianti, le quali determinano quanto ampi sono i buchi in cui s’inserisce la spina. In una stanza silenziosa ed ermeticamente sigillata, la spina rimane nella presa, indipendentemente dalla variante. Invece, se un gruppo di elefanti beffardi, e anche suscettibili alla pressione del gruppo dei pari, passa rumorosamente, allora la spina ha dieci volte più probabilità di saltare fuori dalla presa con i buchi larghi rispetto a quella che ha dei fori più stretti.

Tutto ciò si rivela, in qualche modo, simile a un singolare fenomeno genetico che consente di essere più “liberi” dai geni stessi. Il lavoro condotto alla Harvard University da Benjamin de Bivort riguarda un gene che codifica per una proteina, denominata teneurina-A, la quale è coinvolta nella formazione delle sinapsi tra i neuroni. Il gene ha due varianti, le quali influenzano quanto saldamente un “cavo” che parte da un neurone si inserisce in una “presa” localizzata sull’altro. La “presa” è costituita dalla teneurina-A (semplificando enormemente). Disporre della variante che codifica la sintesi della “presa” con i buchi larghi determina una maggiore variabilità nella connettività sinaptica. Oppure, per dirla “a modo nostro”, la variante del gene che codifica la sintesi della “presa” con i buchi larghi fa sì che i neuroni si rivelino più sensibili alle influenze ambientali, durante la formazione delle sinapsi. Non si sa ancora se le teneurine funzionino in questo modo nel nostro cervello (qui si tratta di studi condotti sulle mosche – sì, le influenze ambientali giocano un ruolo persino nella formazione delle sinapsi nelle mosche), ma qualcosa di concettualmente simile deve pur accadere in innumerevoli parti e dimensioni nel nostro cervello.[54]

Il retaggio culturale tramandato alla vostra PFC dai vostri antenati

Come abbiamo osservato nella panoramica del capitolo precedente, differenti tipi di ecosistemi producono diversi generi di culture, le quali influenzano l’educazione di un bambino praticamente dal momento della nascita, indirizzando la costruzione del cervello verso modalità che rendono più facile il suo inserimento nella cultura. È così che si passano i suoi valori alla generazione successiva…

Ovviamente, le differenze culturali influenzano in modo significativo anche la PFC. Sostanzialmente, tutti gli studi condotti consistono in confronti tra le culture collettivistiche del Sud-est asiatico che valorizzano l’armonia, l’interdipendenza, il conformismo, e quelle individualistiche del Nord America, le quali pongono l’enfasi sull’autonomia, sui diritti individuali e sul successo personale. Le conclusioni a cui giungono sono sensate.[*]

Ecco qualcosa che non si potrebbe “inventare”: negli occidentali, la vmPFC si attiva in risposta alla vista di una foto del loro stesso viso, ma non di quello della loro madre; negli asiatici orientali, la vmPFC si attiva ugualmente quando osservano entrambi i ritratti fotografici; queste differenze si rivelano ancora più estreme se si preparano preventivamente i soggetti a pensare ai propri valori culturali. Quando si studiano individui “biculturali” (ovvero, con un genitore che appartiene a una cultura collettivistica e l’altro a una individualistica), e li si prepara a pensare all’una cultura o all’altra, si osserva il profilo tipico dell’attivazione della vmPFC associato alla prospettiva culturale considerata in quel momento.[55]

Altri studi evidenziano differenze sia nella PFC sia nella regolazione delle emozioni. Una meta-analisi, che ha considerato trentacinque studi i quali hanno impiegato le tecniche di neuroimaging durante l’esecuzione, da parte dei soggetti sperimentali, di alcuni compiti di elaborazione sociale, ha mostrato che gli asiatici orientali presentano una maggiore attività media nella dlPFC rispetto agli occidentali (e anche l’attivazione di una regione cerebrale chiamata giunzione temporoparietale, che svolge un ruolo importante per la teoria della mente). Ebbene, è facile inferire che questo sia fondamentalmente un cervello che lavora più attivamente sulla regolazione delle emozioni e sulla comprensione delle prospettive altrui. Al contrario, gli occidentali manifestano un profilo che indica una più significativa intensità emozionale, autoreferenzialità, accentuata disposizione a provare disgusto o empatia emotiva – infatti, si osserva una maggiore attività nella vmPFC, nell’insula e nel cingolo anteriore. Inoltre, queste differenze, rivelate mediante le tecniche di neuroimaging, sono più spiccate nei soggetti che accolgono in maniera più convinta i loro valori culturali.[56]

Ci sono anche differenze che riguardano l’attività della PFC che si riflettono nello stile cognitivo. In generale, gli individui che appartengono a culture collettivistiche preferiscono i compiti cognitivi dipendenti dal contesto nei quali eccellono, mentre quelli indipendenti dalla situazione si rivelano più adatti a coloro che provengono da culture individualistiche. Si osserva, inoltre, che in entrambe le popolazioni la PFC deve lavorare più intensamente quando i soggetti manifestano difficoltà con il tipo di compito meno privilegiato dalla loro cultura.

Da dove derivano queste differenze, considerando il livello macro?[*] Come abbiamo indicato nel capitolo precedente, si ritiene, generalmente, che il collettivismo diffuso in Estremo Oriente derivi dall’esigenza di lavorare insieme alla coltivazione del riso, nel contesto delle pianure alluvionali. Gli immigrati cinesi, giunti di recente negli Stati Uniti, manifestano già la distinzione “occidentale” tra l’attivazione della vmPFC, quando pensano a loro stessi e alla loro madre. Ciò pare indicare che quelle persone, le quali già nel paese d’origine erano più individualiste, potrebbero essere anche quelle maggiormente propense a scegliere di emigrare: si tratterebbe, insomma, di un processo di autoselezione in relazione a questi tratti.[57]

Da dove derivano queste differenze considerando il livello micro? Come abbiamo osservato nel capitolo precedente, i bambini vengono educati in modo diverso nelle culture collettivistiche rispetto a quelle individualistiche e, quindi, ci sono differenze che riguardano la costruzione del cervello.

Inoltre, è probabile che intervengano alcune influenze genetiche. Le persone che ottengono uno “spettacolare” successo, nell’esprimere i valori della propria cultura, tendono a riprodursi, ergo a diffondere copie dei loro geni. Al contrario, non partecipare, insieme al resto degli abitanti del villaggio, durante la giornata di raccolta del riso perché avete deciso di fare snowboard, oppure dar fastidio, durante il Super Bowl, cercando di convincere le squadre a cooperare invece di competere… be’, tali disadattati, dissidenti e stravaganti, sul piano culturale, avranno meno probabilità di trasmettere i loro geni. Evidentemente, se questi tratti sono influenzati in qualche modo dai geni (come abbiamo osservato nel paragrafo precedente), si possono determinare differenze culturali nelle frequenze geniche. In effetti, le culture collettivistiche e individualistiche differiscono non solo nell’incidenza di varianti genetiche associate all’anabolismo e al catabolismo della dopamina e della norepinefrina, ma anche per quel che riguarda alcune varianti del gene che codifica per la pompa che rimuove la serotonina dalla sinapsi, e a varianti di quello che codifica per il recettore dell’ossitocina nel cervello.[58]

In altre parole, c’è una coevoluzione che riguarda le frequenze geniche, i valori culturali, le pratiche che favoriscono lo sviluppo infantile; insomma, si tratta di fattori che si rinforzano reciprocamente, attraverso le generazioni, finendo per plasmare quella che sarà la vostra PFC.

La fine del mito della tenacia liberamente scelta

Siamo piuttosto bravi nel riconoscere che non abbiamo controllo sulle caratteristiche che la vita ci ha donato, favorendoci o condannandoci. Peraltro, ciò che facciamo con quegli attributi, quando ci troviamo innanzi a bivi dicotomici, tra giusto e sbagliato, ci invita convintamente, e in maniera tossica, a concludere, in virtù della più potente delle intuizioni, che stiamo osservando il libero arbitrio in azione. Invece, la realtà è che voi mostrate una lodevole determinazione, sprecate delle opportunità, perdendovi nella nebbia dell’autoindulgenza, fate fronte, maestosamente, alle tentazioni, o ci cascate in pieno, in ragione dell’attività della PFC e delle altre regioni cerebrali a cui si connette. Ebbene, quel funzionamento della PFC non è altro che l’esito di ciò che è accaduto nel secondo precedente, nel minuto antecedente, nel millennio pregresso. Si tratta della stessa conclusione, espressa nel capitolo precedente, in merito all’intero cervello. Occorre peraltro fare riferimento alla stessa decisiva affermazione: senza soluzione di continuità. Come abbiamo già osservato, parlare dell’evoluzione della PFC significa parlare anche dei geni che si sono evoluti, delle proteine che codificano, e che agiscono nel cervello, di come l’infanzia abbia alterato la regolazione tanto di quei geni quanto di quelle stesse proteine. Un ampio insieme di influenze, privo di ogni soluzione di continuità, di influenze che determina lo stato della vostra PFC in questo momento, senza che si scorga uno iato in cui il libero arbitrio possa insinuarsi.

Ecco il mio risultato scientifico preferito, per quanto riguarda la pertinenza in questo capitolo. C’è un compito che può essere svolto in due modi diversi: nella prima versione, eseguite una certa quantità di lavoro e ottenete una ricompensa; tuttavia, se ne fate il doppio, il premio sarà triplicato. Ecco la seconda versione: fate una certa quantità di lavoro e ottenete una ricompensa, ma se la triplicate ottenete un premio maggiore di un fantastiliardo di volte. Quale versione vi pare opportuno scegliere? Se pensate di poter scegliere liberamente, di esercitare l’autodisciplina, preferirete la seconda versione – farete un po’ più di lavoro e otterrete, come esito, un enorme incremento della ricompensa. Le persone, di solito, scelgono la seconda, indipendentemente dalle dimensioni delle ricompense. Uno studio recente mostra che l’attività nella vmpfc[*] traccia il grado di preferenza per la seconda versione. Cosa significa tutto ciò? In questo contesto, la vmPFC sta indicando quanto preferiamo le circostanze che premiano l’autodisciplina. Quindi, questa è la parte del cervello che codifica quanto “saggiamente” pensiamo di esercitare il libero arbitrio. In altre parole, questa è la macchina biologica, fatta di viti e bulloni, che codifica la credenza che non siamo fatti di viti e bulloni.[59]

Sam Harris argomenta, in modo convincente, che è impossibile riuscire a pensare a cosa penseremo dopo. La conclusione dei capitoli 2 e 3 è che è impossibile riuscire a desiderare ciò che desidereremo. La conclusione di questo capitolo è che è impossibile riuscire a voler avere più forza di volontà. Quindi, non è una grande idea governare il mondo basandosi sulla convinzione che le persone possano e debbano farlo.

* Ho partecipato a circa una dozzina di processi, in qualità di testimone esperto, dicendo qualcosa di simile a quanto esposto in questo paragrafo. Ebbene, in ognuno di quei casi, l’imputato era un individuo, con quel tipo di storia alle spalle, che aveva pochi secondi per prendere una decisione di quel genere, ed era tornato ad avvicinarsi all’aggressore, ormai prono a terra, per poi mettere nuovamente in atto la violenza. Finora, a eccezione di un caso che, oggi, considero nulla più che un’occorrenza fortunata, le giurie hanno deciso che quelli erano omicidi premeditati e hanno condannato gli imputati in merito a tutti i capi d’accusa.

* Con mia grande sorpresa, alcuni studi hanno mostrato che i bambini con un quoziente intellettivo elevato sono più inclini, rispetto alla media, all’impiego di sostanze illecite e all’abuso di alcol, nel corso dell’età adulta.

* Harland Sanders (1890-1908) è stato il fondatore di una delle più famose catene di fast food statunitensi, la Kentucky Fried Chicken (KFC) [N.d.T.].

*Helen Keller, nata negli Stati Uniti nel 1880, all’età di diciannove mesi divenne sordo-cieca, probabilmente in conseguenza della scarlattina o di una meningite. Qualche anno dopo, la bambina venne affidata a un istituto per ciechi, dove le fu affiancata Anne Sullivan, una ragazza di circa vent’anni, che era stata allieva di quella stessa scuola. L’episodio descritto – riportato nell’autobiografia di Keller, The Story of My Life, che ha ispirato l’opera teatrale Anna dei miracoli e il film omonimo – si riferisce al momento in cui Anne, tenendo una mano di Helen sotto il getto di una fontana, e segnando nell’altra la parola “acqua”, riesce a far comprendere alla bambina la differenza tra “tazza” e “acqua” [N.d.T.].

* L’orecchio assoluto è in realtà un classico esempio di come i geni si colleghino al potenziale, non alla certezza. Gli studi suggeriscono che è probabile che il potenziale per l’orecchio assoluto sia un fattore ereditario, ma questo tipo di talento non si manifesta in una persona a meno che questa non sia stata esposta a una quantità significativa di musica sin dalla prima infanzia.

* I neuroanatomisti si rivolteranno nella tomba, ma, d’ora in poi, indicherò l’intera corteccia frontale con l’acronimo PFC, per una mera questione di semplicità.

* Ciò vi dice qualcosa di molto importante in merito ai primati. Per esempio, per un babbuino maschio, acquisire un rango elevato è una questione che riguarda solo i muscoli, i canini affilati e la capacità di uscire vincitore nei conflitti “giusti”. Invece, per mantenere quel rango occorre evitare i conflitti, disporre dell’autodisciplina che consente di ignorare le provocazioni, scongiurare uno scontro impiegando soltanto l’intimidazione psicologica, rivelarsi un partner abbastanza disciplinato e stabile (a differenza di Finn) in modo da rivelarsi in grado di dar vita a delle coalizioni, che consentano di disporre sempre di protezione. Un maschio alfa, che si fa costantemente coinvolgere nei conflitti, non occuperà a lungo l’“ufficio del CEO”; il successo nel mantenimento dello status preminente non è altro che l’arte minimalista della non belligeranza.

*Occorre considerare peraltro che in tutto ciò si dispiega la più ampia complessità. In effetti, dipende da chi è il soggetto della foto – se è un giovane robusto, allora l’amigdala “ruggisce”; se si tratta di una fragile anziana, allora quell’attività è molto più ridotta. Ma c’è anche qualcosa in più; se lo sconosciuto è, in realtà, una celebrità amata che appartiene a un’altra razza, allora quella persona gode di una sorta di “noi” onorario. Cosa è accaduto a quel 25 per cento di persone nelle quali non si osserva alcuna risposta da parte dell’amigdala? Sono state tipicamente cresciute in comunità multirazziali, hanno coltivato relazioni intime con persone di quella diversa etnia, oppure sono state condizionate psicologicamente, prima dell’esperimento, affinché considerassero ogni volto come un individuo. In altre parole, il razzismo implicito, codificato nell’amigdala, non è affatto inevitabile.

* Questi studi hanno prodotto anche un altro risultato preoccupante. Quando guardiamo i volti, si attiva una parte molto primitiva del cervello chiamata area fusiforme facciale. Nella maggior parte dei soggetti, il viso di uno di “loro”, ovvero di un individuo che appartiene a un’altra razza, genera un’attivazione dell’area fusiforme facciale inferiore al solito. In altri termini, il volto di questi individui non conta molto in quanto tale.

* Studi come questo includono una fondamentale condizione di controllo, grazie alla quale si mostra che viene generata proprio l’ansia sociale. Quando viene detto al soggetto sperimentale che gli altri due smettono di passargli la palla a causa di un malfunzionamento dei computer, quell’individuo non interpreta ciò che sta accadendo in termini di ostracismo sociale, e non si rileva una risposta cerebrale equivalente a quella osservata nel gruppo sperimentale.

* Ecco un’evidenza deprimente: invece di condizionare i soggetti a un oggetto neutro e innocuo, fatelo con l’immagine di un membro che appartiene all’out-group. Le persone impareranno ad associarlo con una scossa più velocemente rispetto a quando la foto ritrae un individuo che fa parte dell’in-group.

* È la PFC che induce l’amigdala a dimenticare che le scope sono spaventose? No. L’insight è ancora presente, ma è stato semplicemente soppresso dalla corteccia frontale. Come si può fare un’affermazione del genere? Il terzo giorno dello studio, somministrate nuovamente la scossa dopo aver mostrato quell’oggetto arbitrario. Il volontario riacquisisce l’associazione più velocemente rispetto a quando l’ha appresa la prima volta, perché l’amigdala ricorda.

*Ecco alcuni “fattoidi”, che evidenziano la misura in cui le richieste sociali modellano l’evoluzione della PFC. La PFC contiene un tipo di neurone che non si trova in altre parti del cervello. Alimentando una sorta di fenomeno di moda, per un po’ di tempo le persone hanno pensato che questi “neuroni di von Economo”, a cui ho fatto riferimento nella nota a pagina 82 fossero presenti solo negli esseri umani. Tuttavia, è ben più interessante il fatto che tali neuroni si trovino anche nelle specie che manifestano comportamenti più complessi sul piano sociale: altre scimmie antropomorfe, gli elefanti e i cetacei. La variante comportamentale di una malattia neurologica, per l’appunto, quella che abbiamo denominato demenza frontotemporale, mostra che al danno alla PFC consegue un comportamento sociale inappropriato. Quali sono i primi neuroni che muoiono a causa di quella patologia? I neuroni di von Economo. Quindi, qualunque cosa facciano (che non è affatto chiara), è evidente che si tratta di “occuparsi della cosa più difficile”. (Breve messaggio interessante solo per pochi lettori: nonostante certe affermazioni quasi-New Age circolate anche in ambito neuroscientifico, i neuroni di von Economo non sono neuroni specchio che sarebbero responsabili dell’empatia. Anzi, di più: questi non sono i neuroni specchio. Inoltre, i neuroni specchio sono i responsabili dell’empatia. Non intendo neanche iniziare a parlarne.)

* Tali strutture sono l’ippocampo, il setto, l’abenula, l’ipotalamo, i corpi mammillari e il nucleo accumbens.

* È particolarmente importante osservare che ci sono circostanze, fatte oggetto, più avanti, di alcune considerazioni, in cui il sistema limbico “convince” la PFC ad approvare decisioni fortemente emotive.

* Into the Woods è un musical (1986; musiche di Stephen Sondheim e libretto di James Lapine), ispirato al libro Il mondo incantato (1976) dello psicoanalista austriaco naturalizzato statunitense Bruno Bettelheim. Nella trama, si intrecciano le vicende dei principali personaggi delle fiabe dei fratelli Grimm e vengono esplorate le conseguenze dei desideri. Dal musical è stato tratto, nel 2014, un film diretto da Rob Marshall [N.d.T.].

* Les Misérables (spesso abbreviato in Les Mis) è un famoso musical teatrale basato sul romanzo omonimo di Victor Hugo. La musica è composta da Claude-Michel Schönberg, i testi originali in francese sono di Alain Boublil, mentre l’adattamento in inglese è di Herbert Kretzmer. Di questo musical sono state fatte numerose trasposizioni cinematografiche [N.d.T.].

* Fate attenzione, capitalisti sciacalli: in uno studio, è stata impiegata la TMS per influenzare l’attività della proiezione della dlPFC che influenza il circuito dopaminergico della ricompensa nello striato, cambiando temporaneamente i gusti musicali delle persone. Nella fattispecie, è stato possibile incrementare l’apprezzamento soggettivo di un pezzo musicale e la corrispondente risposta fisiologica degli individui… oltre a incrementare il valore economico che veniva attribuito a quel brano.

*A partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, Walle Nauta, lo stimato neuroanatomista che lavorava al MIT, ha quasi compromesso la sua carriera, affermando che sarebbe stato opportuno considerare la vmPFC come una componente del sistema limbico. Orrore! – la corteccia è fatta per risolvere il teorema di Fermat, non già per commuoversi quando Mimì sta morendo tra le braccia di Roger. Ebbene, ci sono voluti parecchi anni prima che tutti gli altri si rendessero conto che la vmPFC è il portale attraverso cui il sistema limbico comunica con la corteccia prefrontale.

*Liar’s Dice (dadi del bugiardo) è una classe di giochi di dadi, per due o più giocatori, basati sulla capacità di ingannare l’avversario e di rilevare gli inganni [N.d.T.].

* Charles Ponzi (1882-1949) è stato uno dei più noti truffatori della storia statunitense. Le sue frodi si basavano su una tecnica da lui stesso ideata, chiamata “schema Ponzi” [N.d.T.].

* “Valuta” = ATP, detto anche adenosintrifosfato, solo per attingere ai reconditi recessi della vostra memoria, risvegliando un ricordo della biologia studiata alle scuole medie.

* Due concetti simili, a cui, talvolta, si fa riferimento, sono l’“ego depletion” e la “decision fatigue”. Considerate le note in fondo al volume per comprendere in base a quali argomenti i concetti, peraltro ampiamente diffusi, di “riserva cognitiva” e “d’elezione dell’io” siano stati fatti oggetto di revisione critica nel corso degli ultimi anni.

* I risultati prodotti da questo studio sono stati oggetto di critiche da parte di alcuni, i quali hanno considerato che tali esiti fossero inficiati da artefatti statistici, inerenti alle modalità con cui venivano condotte le udienze per la libertà condizionale. Quei ricercatori hanno riesaminato i loro dati per controllare questa eventualità, mostrando, in modo convincente, che l’effetto era comunque presente. Un ulteriore studio ha evidenziato lo stesso identico pattern: i soggetti leggevano i profili dei candidati a una posizione lavorativa, che riguardavano individui appartenenti a out-group minoritari; quanto più ampio era il lasso temporale trascorso dall’ultimo pasto, tanto meno tempo veniva dedicato alla valutazione di ogni candidatura.

* “Mio Dio, questo tizio è un liberal compassionevole.” No, è ben più di questo – vedrete.

* Analogamente, i funzionari bancari che valutano le richieste di prestito tendono a respingerle a mano a mano che passano le ore della giornata lavorativa. D’altro canto, attori esperti sanno che non è opportuno scegliere il periodo appena prima del pranzo, o alla fine della giornata, per sostenere un provino.

* Come abbiamo appreso tutto ciò? Nel modo peggiore. La malattia di Parkinson, un disturbo del movimento in cui diventa complicato dar inizio ai movimenti volontari, è causata da una carenza di dopamina in una particolare porzione del mesencefalo. Be’, trattiamola aumentando le concentrazioni di dopamina in quell’individuo (impiegando un farmaco, che si chiama L-DOPA; ma questa è una lunga storia). Ovviamente, non state per fare un buco nella testa della persona al fine di infondere L-DOPA direttamente in quella parte del cervello. In realtà, quell’individuo assume una pillola di L-DOPA, in modo da ottenere un incremento della concentrazione di dopamina in quella parte malata del mesencefalo… così come nel resto del cervello, compresa la PFC. Risultato? Un effetto collaterale dei regimi ad alto dosaggio di L-DOPA, sul piano comportamentale, può riguardare l’esordio del gioco d’azzardo compulsivo.

* Uh, di cosa ci si occupa in questo esperimento? Del sudore di persone spaventate, che è stato ottenuto tamponando le loro ascelle dopo il loro primo lancio con il paracadute. Qual è il gruppo di controllo? Il sudore di persone felici, che hanno appena concluso una corsa piacevole al parco. La scienza è la migliore; adoro queste cose.

* Per inciso, le donne eterosessuali non cominciano a manifestare comportamenti equivalenti, sul piano della stupidità, quando stanno vicino a qualche uomo attraente. Un altro studio ha mostrato che gli skater maschi facevano trick maggiormente rischiosi, incappando in più incidenti, quando erano al cospetto di una donna attraente. (Solo per dimostrare che tutta la scienza è rigorosa, l’avvenenza è stata valutata da team di giudici indipendenti. Tuttavia, nelle parole degli autori: “quelle valutazioni sono state corroborate dalla richiesta del numero di telefono e da molti commenti informali da parte degli skater”.)

* Ecco un dettaglio quasi insignificante: per la verità, non solo nella vmPFC, bensì in tutta la “PFC mediale” (mPFC).

*Brain-Derived Neurotrophic Factor, fattore neurotrofico derivato dal cervello.

* A proposito, la psicopatia e la sociopatia non sono la stessa cosa, ma io faccio fatica a tenerle separate; ho la stessa difficoltà che riscontro nell’impiego di “that” o di “which”. In effetti, ci sono differenze fondamentali tra le due categorie. Tuttavia, siccome siamo dei “barbari”, ci concentreremo sulle somiglianze, e impiegheremo questi due termini in maniera intercambiabile.

*Tassi elevati rispetto a chi? Ai vincitori del Nobel per la pace? Nell’ambito di questa letteratura, i gruppi di controllo sono costituiti da soggetti che non sono detenuti, i quali sono comparati dal punto di vista demografico. In altri casi, i controlli sono costituiti da carcerati che non hanno commesso reati violenti.

* Solo per ricordare qualcosa che abbiamo considerato già nel capitolo 3: la maturazione della regione cerebrale frontale, nel corso dell’adolescenza, non consiste nell’ultima rifinitura “costruttiva” di nuove sinapsi, di proiezioni neuronali e circuiti. Per la verità, la corteccia frontale, all’inizio dell’adolescenza, dispone in numero maggiore di tali sinapsi e strutture neurali, ed è anche proporzionalmente più grande, rispetto a quella di un adulto. In altre parole, la maturazione di questa regione cerebrale, nel corso di questo periodo, consiste nella “potatura” delle sinapsi e dei circuiti superflui e meno efficienti, che appariranno ridotti nella vostra corteccia frontale quando sarete degli adulti.

* Sebbene lo sviluppo della PFC si completi solo intorno alla terza decade del ciclo di vita, la sua costruzione inizia già nel corso della vita fetale.

*Ciò significa che il circolo vizioso, descritto in precedenza riferendosi agli adulti, riguarda anche i bambini: i livelli elevati di glucocorticoidi determinano una PFC più debole, in via di sviluppo. Se parte di ciò che fa questa regione cerebrale è ridurre le risposte allo stress mediate dai glucocorticoidi, questa PFC “indebolita” contribuisce a far aumentare ancora di più le concentrazioni di tali ormoni.

* Le influenze provenienti dal mondo al di fuori della famiglia di un bambino sono indicate dalla letteratura sull’argomento: a parità di tutte le altre condizioni, negli Stati Uniti, il semplice fatto di crescere in un ambiente urbano (rispetto a uno suburbano o rurale) predice un volume di materia grigia minore nelle diverse parti della PFC che si osserva negli adulti, un’amigdala più reattiva e una maggiore secrezione di glucocorticoidi in risposta allo stress sociale. (Inoltre, tanto maggiore è la dimensione della città in cui si vive durante l’infanzia, quanto più la magnitudo dell’attività amigdaloidea apparirà rilevante.) D’altro canto, lo sviluppo cerebrale corticale nei neonati è predetto non solo dal disagio sociale della famiglia, ma anche dai tassi di criminalità nel quartiere.

* Queste evidenze comprendevano la rappresentazione strutturale del cervello fetale ottenuta mediante l’analisi delle immagini prodotte dalla risonanza magnetica nucleare. Si osservi che queste stesse evidenze, in merito ai feti e ai neonati, interessano solo lo sviluppo della corteccia, non già, in maniera più specifica, quello della corteccia frontale, perché, a quell’età, è troppo difficile distinguere le sottoregioni nell’imaging cerebrale.

* Ecco un promemoria volto a rassicurarvi: questi sono i principali fattori di stress da considerare in relazione a una donna incinta, non quelli relativi alla vita quotidiana. Inoltre, l’entità di questi effetti è generalmente lieve (fatta salva l’eccezione, rappresentata dal caso in cui le avversità che il feto sperimenta includano l’assunzione di alcol o l’uso di droghe da parte della madre).

*Si osservi che la variabilità di un tratto in una popolazione è determinata dal grado di quella stessa variabilità nei geni (ossia da un “punteggio di ereditabilità”). Questo è un argomento ampiamente controverso, in relazione al quale si rilevano spesso posizioni diverse tra ottimisti e pessimisti su quanto sia più o meno rilevante un gene. Per una panoramica, dettagliata ma non troppo tecnica, delle controversie sulla genetica del comportamento, mi permetto di rinviare al capitolo 8 del mio Behave.

* Per gli appassionati dei dettagli, la proteina che rimuove la serotonina è denominata “serotonin transporter”; la proteina che degrada la serotonina è la MAO-alfa; il recettore coinvolto è il 5HT2A.

* Le avversità e i fattori di stress sono dannosi per lo sviluppo della PFC; orbene, è interessante notare che ciò si traduce in una forma di maturazione accelerata. Tutto questo implica una minor estensione della finestra temporale in cui l’ambiente può favorire una crescita ottimale della PFC.

* Alcuni studi hanno considerato gli europei occidentali, invece che i nordamericani, evidenziando le stesse differenze generali rispetto alle culture ­dell’Asia orientale.

* Occorre ricordare, ancora una volta, che si tratta di differenze nell’espressione media dei tratti, diversità che riguardano le popolazioni, con molte eccezioni sul piano individuale.

* Insieme a un’altra regione, la PFC rostrolaterale.

1 N. Levy, “Luck and History-Sensitive Compatibilism”, Philosophical Quarterly, 59, 2009, pp. 237-251; la citazione è a p. 242.

2 G. Caruso e D. Dennett, “Just Deserts”, Aeon, https://aeon.co/essays/on-free-will-daniel-dennett-and-gregg-caruso-go-head-to-head.

3 R. Kane, Free Will, Mechanism and Determinism, in Moral Psychology, vol. 4, Free Will and Moral Responsibility, a cura di W. Sinnott-Armstrong, mit Press, Cambridge (ma) 2014, la citazione è a p. 130; M. Shadlen e A. Roskies, “The Neurobiology of Decision-Making and Responsibility: Reconciling Mechanism and Mindedness”, Frontiers in Neuroscience, 6, 56, 2012.

4 S. Spence, The Actor’s Brain: Exploring the Cognitive Neuroscience of Free Will, Oxford University Press, Oxford 2009.

5 P. Tse, Two Types of Libertarian Free Will Are Realized in the Human Brain, in Neuroexistentialism: Meaning, Morals and Purpose in the Age of Neuroscience, a cura di G. Caruso e O. Flanagan, Oxford University Press, Oxford 2013.

6 A. Roskies, “Can Neuroscience Resolve Issues about Free Will?”, Moral Psychology, vol. 4, Free Will and Moral Responsibility, a cura di W. Sinnott-Armstrong, mit Press, Cambridge (ma) 2014, la citazione è a p. 116; M. Gazzaniga, Mental Life and Responsibility in Real Time with a Determined Brain, in Moral Psychology, vol. 4, Free Will and Moral Responsibility, a cura di W. Sinnott-Armstrong, mit Press, Cambridge (ma) 2014, p. 59.

7 Famiglie che perdono fortune: C. Hill, “Here’s Why 90% of Rich People Squander Their Fortunes”, MarketWatch, 23 aprile 2017, marketwatch.com/story/heres-why-90-of-rich-people-squander-their-fortunes-2017-04-23.
Nota a piè pagina: J. White e G. Batty, “Intelligence across Childhood in Relation to Illegal Drug Use in Adulthood: 1970 British Cohort Study”, Journal of Epidemiology and Community Health, 66, 2012, pp. 767-774.

8 J. Cantor, “Do Pedophiles Deserve Sympathy?”, cnn, 21 giugno 2012.

9 Nota a piè pagina: Z. Goldberger, “Music of the Left Hemisphere: Exploring the Neurobiology of Absolute Pitch”, Yale Journal of Biology and Medicine, 74, 2001, pp. 323-327.

10 K. Semendeferi et al., “Humans and Great Apes Share a Large Frontal Cortex”, Nature Neuroscience, 5, 2002, pp. 272-276; P. Schoenemann, “Evolution of the Size and Functional Areas of the Human Brain”, Annual Review of Anthropology, 35, 2006, pp. 379-406. Inoltre, a seconda del modo in cui viene misurata, la pfc umana è proporzionalmente maggiore, in termini di dimensioni, e/o collegata più densamente e in maniera maggiormente complessa rispetto a quella di qualsiasi altro primate: J. Rilling e T. Insel, “The Primate Neocortex in Comparative Perspective Using MRI”, Journal of Human Evolution, 37, 1999, pp. 191-223; R. Barton e C. Venditti, “Human Frontal Lobes Are Not Relatively Large”, Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, 110, 2013, pp. 9001-9006. Incorporata in tutte queste scoperte c’è la sfida di comprendere quale sia esattamente l’equivalente della corteccia frontale umana, per esempio, in un topo da laboratorio; si veda M. Carlen, “What Constitutes the Prefrontal Cortex?”, Science, 358, 2017, pp. 478-482.

11 E. Miller e J. Cohen, “An Integrative Theory of Prefrontal Cortex Function”, Annual Review of Neuroscience, 24, 2001, pp. 167-202; L. Gao et al., “Single-Neuron Projectome of Mouse Prefrontal Cortex”, Nature Neuroscience, 25, 2022, pp. 515-529; V. Mante et al., “Context-Dependent Computation by Recurrent Dynamics in Prefrontal Cortex”, Nature, 503, 2013, pp. 78-84. Alcuni altri esempi di coinvolgimento corticale frontale nel cambio di compito: S. Bunge, “How We Use Rules to Select Actions: A Review of Evidence from Cognitive Neuroscience”, Cognitive, Affective & Behavioral Neuroscience, 4, 2004, pp. 564-579; E. Crone et al., “Evidence for Separable Neural Processes Underlying Flexible Rule Use”, Cerebral Cortex, 16, 2005, pp. 475-486.

12 R. Dunbar, “The Social Brain Meets Neuroimaging”, Trends in Cognitive Sciences, 16, 2011, pp. 101-102; P. Lewis et al., “Ventromedial Prefrontal Volume Predicts Understanding of Others and Social Network Size”, Neuroimage, 57, 2011, pp. 1624-1629; K. Bickart et al., “Intrinsic Amygdala-Cortical Functional Connectivity Predicts Social Network Size in Humans”, Journal of Neuroscience, 32, 2012, pp. 14729-14741; R. Kanai et al., “Online Social Network Size Is Reflected in Human Brain Structure”, Proceedings of the Royal Society B: Biological Sciences, 279, 2012, pp. 1327-1334; J. Sallet et al., “Social Network Size Affects Neural Circuits in Macaques”, Science, 334, 2011, pp. 697-700.

13 J. Kubota, M. Banaji, e E. Phelps, “The Neuroscience of Race”, Nature Neuroscience, 15, 2012, pp. 940-948.
Nota a piè pagina: Recensito in J. Eberhardt, Biased: Uncovering the Hidden Prejudice That Shapes What We See, Think, and Do, Viking, New York 2019.

14 N. Eisenberger, M. Lieberman, e K. Williams, “Does Rejection Hurt? An FMRI Study of Social Exclusion”, Science, 302, 2003, pp. 290-292; N. Eisenberger, “The Pain of Social Disconnection: Examining the Shared Neural Underpinnings of Physical and Social Pain”, Nature Reviews Neuroscience, 3, 2012, pp. 421-434; C. Masten, N. Eisenberger, e L. Borofsky, “Neural Correlates of Social Exclusion during Adolescence: Understanding the Distress of Peer Rejection”, Social Cognitive and Affective Neuroscience, 4, 2009, pp. 143-157. Per un interessante studio sulla regolazione genica nella corteccia prefrontale che media la resilienza sotto stress, si veda: Z. Lorsch et al., “Stress Resilience Is Promoted by a Zfp189-Driven Transcriptional Network in Prefrontal Cortex”, Nature Neuroscience, 22, 2019, pp. 1413-1423.

15 Neurobiologia della paura: C. Herry et al., “Switching On and Off Fear by Distinct Neuronal Circuits”, Nature, 454, 2008, pp. 600-606; S. Maren e G. Quirk, “Neuronal Signaling of Fear Memory”, Nature Reviews Neuroscience, 5, 2004, pp. 844-852; S. Rodrigues, R. Sapolsky, e J. LeDoux, “The Influence of Stress Hormones on Fear Circuitry”, Annual Review of Neuroscience, 32, 2009, pp. 289-313; O. Klavir et al., “Manipulating Fear Associations via Optogenetic Modulation of Amygdala Inputs to Prefrontal Cortex”, Nature Neuroscience, 20, 2017, pp. 836-844; S. Ciocchi et al., “Encoding of Conditioned Fear in Central Amygdala Inhibitory Circuits”, Nature, 468, 2010, pp. 277-282; W. Haubensak et al., “Genetic Dissection of an Amygdala Microcircuit That Gates Conditioned Fear”, Nature, 468, 2010, pp. 270-276.
Neurobiologia dell’estinzione della paura: M. Milad e G. Quirk, “Neurons in Medial Prefrontal Cortex Signal Memory for Fear Extinction”, Nature, 420, 2002, pp. 70-74; E. Phelps et al., “Extinction Learning in Humans: Role of the Amygdala and vmPFC”, Neuron, 43, 2004, pp. 897-905. Neurobiologia della riespressione della paura condizionata: R. Marek et al., “Hippocampus-Driven Feed-Forward Inhibition of the Prefrontal Cortex Mediates Relapse of Extinguished Fear”, Nature Neuroscience, 21, 2018, pp. 384-392.

16 J. Greene e J. Paxton, “Patterns of Neural Activity Associated with Honest and Dishonest Moral Decisions”, Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, 106, 2009, pp. 12506-12511. Si veda anche il suo superbo libro: J. Greene, Moral Tribes: Emotion, Reason, and the Gap between Us and Them, Penguin Press, New York 2013.

17 H. Terra et al., “Prefrontal Cortical Projection Neurons Targeting Dorsomedial Striatum Control Behavioral Inhibition”, Current Biology, 30, 2020, pp. 4188-4200; S. de Kloet et al., “Bidirectional Regulation of Cognitive Control by Distinct Prefrontal Cortical Output Neurons to Thalamus and Striatum”, Nature Communications, 12, 2021.

18 Disinibizione frontale: R. Bonelli e J. Cummings, “Frontal-Subcortical Circuitry and Behavior”, Dialogues in Clinical Neuroscience, 9, 2007, pp. 141-151; E. Huey, “A Critical Review of Behavioral and Emotional Disinhibition”, Journal of Nervous and Mental Disease, 208, 2020, pp. 344-351. (Sono orgoglioso di dire che l’autore, professore alla Columbia University Medical School, una volta era un eccezionale membro del mio laboratorio.)
Danno frontale e criminalità: B. Miller e J. Llibre Guerra, “Frontotemporal Dementia”, Handbook of Clinical Neurology, 165, 2019, pp. 33-45; M. Brower e B. Price, “Neuropsychiatry of Frontal Lobe Dysfunction in Violent and Criminal Behaviour: A Critical Review”, Neurology, Neurosurgery and Psychiatry, 71, 2001, pp. 720-726; E. Shiroma, P. Ferguson, e E. Pickelsimer, “Prevalence of Traumatic Brain Injury in an Offender Population: A Meta-analysis”, Journal of Corrective Health Care, 16, 2010, pp. 147-159.
Nota a piè pagina: J. Allman et al., “The von Economo Neurons in the Frontoinsular and Anterior Cingulate Cortex”, Annals of the New York Academy of Sciences, 1225, 2011, pp. 59-71; C. Butti et al., “von Economo Neurons: Clinical and Evolutionary Perspectives”, Cortex, 49, 2013, pp. 312-326; H. Evrard et al., “von Economo Neurons in the Anterior Insula of the Macaque Monkey”, Neuron, 74, 2012, pp. 482-489. Per una critica adeguatamente scettica del collegamento tra empatia, neuroni specchio e neuroni di von Economo si veda: G. Hickok, The Myth of Mirror Neurons: The Real Neuroscience of Communication and Cognition, Norton, New York-London 2014 (trad. it. Il mito dei neuroni specchio. Comunicazione e facoltà cognitive, Bollati Boringhieri, Torino 2015).

19 Y. Wang et al., “Neural Circuitry Underlying REM Sleep: A Review of the Literature and Current Concepts”, Progress in Neurobiology, 204, 2021; J. Greene et al., “An fMRI Investigation of Emotional Engagement in Moral Judgment”, Science, 293, 2001, pp. 2105-2108; J. Greene et al., “The Neural Bases of Cognitive Conflict and Control in Moral Judgment”, Neuron, 44, 2004, pp. 389-400.

20 A. Barbey, M. Koenigs, e J. Grafman, “Dorsolateral Prefrontal Contributions to Human Intelligence”, Neuropsychologia, 51, 2013, pp. 1361-1369. Per una panoramica su dlpfc e vmpfc, si veda Greene, Moral Tribes cit.

21 D. Knock et al., “Diminishing Reciprocal Fairness by Disrupting the Right Prefrontal Cortex”, Science, 314, 2006, pp. 829-832; A. Bechara, “The Role of Emotion in Decision-Making: Evidence from Neurological Patients with Orbitofrontal Damage”, Brain and Cognition, 55, 2004, pp. 30-40; A. Damasio, The Feeling of What Happens: Body and Emotion in the Making of Consciousness, Harcourt, New York 1999. Questi temi sono esplorati anche in L. Koban, P. Gianaros, e T. Wager, “The Self in Context: Brain Systems Linking Mental and Physical Health”, Nature Reviews Neuroscience, 22, 2021, pp. 309-322.
Nota a piè pagina: E. Mas-Herrero, A. Dagher, e R. Zatorre, “Modulating Musical Reward Sensitivity Up and Down with Transcranial Magnetic Stimulation”, Nature Human Behaviour, 2, 2018, pp. 27-32. Si veda anche J. Grahn, “Tuning the Brain to Musical Delight”, Nature Human Behaviour, 2, 2018, pp. 17-18.

22 M. Koenigs et al., “Damage to the Prefrontal Cortex Increases Utilitarian Moral Judgments”, Nature, 446, 2007, pp. 908-911; B. Thomas, K. Croft, e D. Tranel, “Harming Kin to Save Strangers: Further Evidence for Abnormally Utilitarian Moral Judgments after Ventromedial Prefrontal Damage”, Journal of Cognitive Neuroscience, 23, 2011, pp. 2186-2196; L. Young et al., “Damage to Ventromedial Prefrontal Cortex Impairs Judgment of Harmful Intent”, Neuron, 25, 2010, pp. 845-851.

23 J. Saver e A. Damasio, “Preserved Access and Processing of Social Knowledge in a Patient with Acquired Sociopathy Due to Ventromedial Frontal Damage”, Neuropsychologia, 29, 1991, pp. 1241-1249; M. Donoso, A. Collins, e E. Koechlin, “Foundations of Human Reasoning in the Prefrontal Cortex”, Science, 344, 2014, pp. 1481-1486; T. Hare, “Exploiting and Exploring the Options”, Science, 344, 2014, pp. 1446-1447; T. Baumgartner et al., “Dorsolateral and Ventromedial Pre-frontal Cortex Orchestrate Normative Choice”, Nature Neuroscience, 14, 2011, pp. 1468-1474; A. Bechara, “The Role of Emotion in Decision-Making: Evidence from Neurological Patients with Orbitofrontal Damage”, Brain and Cognition, 55, 2004, pp. 30-40. Conseguenze del danno alla vmpfc: G. Moretto, M. Sellitto, e G. Pellegrino, “Investment and Repayment in a Trust Game after Ventromedial Prefrontal Damage”, Frontiers in Human Neuroscience, 7, 593, 2013.

24 La pfc tiene traccia delle regole di categorizzazione a lungo termine: S. Reinert et al., “Mouse Prefrontal Cortex Represents Learned Rules for Categorization”, Nature, 593, 2021, pp. 411-417. Il fatto che la pfc debba lavorare intensamente per tenere traccia di un continuo cambiamento di regole può protrarsi per settimane nei ratti (un tempo lungo per loro): M. Chen et al., “Persistent Transcriptional Programmes Are Associated with Remote Memory”, Nature, 587, 2020, pp. 437-442.
Il “carico cognitivo” è diventato molto controverso. I concetti di “riserva cognitiva” ed “esaurimento dell’ego” sono stati introdotti dallo psicologo sociale Roy Baumeister e colleghi: R. Baumeister e L. Newman, “Self-Regulation of Cognitive Inference and Decision Processes”, Personality and Social Psychology Bulletin, 20, 1994, pp. 3-19; R. Baumeister, M. Muraven, e D. Tice, “Ego Depletion: A Resource Model of Volition, Self-Regulation, and Controlled Processing”, Social Cognition, 18, 2000, pp. 130-150; R. Baumeister et al., “Ego Depletion: Is the Active Self a Limited Resource?”, Journal of Personality and Social Psychology, 74, 1988, pp. 1252-1265. Tuttavia, un certo numero di studi ha iniziato a riferire problemi nella replicazione dell’effetto (per esempio, L. Koppel et al., “No Effect of Ego Depletion on Risk Taking”, Scientific Reports, 9, 1, 2019). Altri hanno prodotto delle repliche; si vedano, per esempio: M. Hagger et al., “A Multilab Preregistered Replication of the Ego-Depletion Effect”, Perspectives on Psychological Science, 11, 2016, pp. 546-573. La discussione di alcune possibili fonti di confusione si può trovare in: M. Friese et al., “Is Ego Depletion Real? An Analysis of Arguments”, Personality and Social Psychology Review, 23, 2019, pp. 107-131. Baumeister e colleghi hanno risposto ai fallimenti di replicazione segnalati con: R. Baumeister e K. Vohs, “Misguided Effort with Elusive Implications”, Perspectives on Psychological Science, 11, 2016, pp. 574-575. Le meta-analisi di questi studi sono diventate così numerose – e hanno prodotto conclusioni tanto contrastanti sull’esistenza dell’effetto – che ora esistono persino meta-analisi delle meta-analisi: S. Harrison et al., “Exploring Strategies to Operationalize Cognitive Reserve: A Systematic Review of Reviews”, Journal of Clinical and Experimental Neuropsychology, 37, 2015, pp. 253-264. Non sono nella posizione di valutare i dibattiti che circondano gli aspetti psicologici e sociali di questi studi, per non parlare di quelli riguardanti l’analisi dei dati. Mi trovo su un terreno leggermente più solido nel valutare gli elementi biologici di questi studi. Pertanto, la mia interpretazione da outsider è che gli effetti sono spesso reali, ma in genere di entità notevolmente inferiore rispetto a quanto suggerito dalle prime ricerche. Questa non sarebbe certamente la prima volta che questo tipo di revisionismo si rende necessario nella scienza.

25 W. Hofmann, W. Rauch, e B. Gawronski, “And Deplete Us Not into Temptation: Automatic Attitudes, Dietary Restraint, and Self-Regulatory Resources as Determinants of Eating Behavior”, Journal of Experimental Social Psychology, 4, 2007, pp. 497-504.

26 H. Kato, A. Jena, e Y. Tsugawa, “Patient Mortality after Surgery on the Surgeon’s Birthday: Observational Study”, British Medical Journal, 371, 2020, p. m4381.

27 M. Kouchaki e I. Smith, “The Morning Morality Effect: The Influence of Time of Day on Unethical Behavior”, Psychological Sciences, 25, 2014, pp. 95-102; F. Gino et al., “Unable to Resist Temptation: How Self-Control Depletion Promotes Unethical Behavior”, Organizational Behavior and Human Decision Processes, 115, 2011, pp. 191-192; N. Mead et al., “Too Tired to Tell the Truth: Self-Control Resource Depletion and Dishonesty”, Journal of Experimental Social Psychology, 45, 2009, pp. 594-597.
Questi problemi si verificano in ambito medico: T. Johnson et al., “The Impact of Cognitive Stressors in the Emergency Department on Physician Implicit Racial Bias”, Academy of Emergency Medicine, 23, 2016, pp. 297-305; P. Trinh, D. Hoover, e F. Sonnenberg, “Time-of-Day Changes in Physician Clinical Decision Making: A Retrospective Study”, PLoS One, 16, 9, 2021; H. Nephrash e M. Barnett, “Association of Primary Care Clinic Appointment Time with Opioid Prescribing”, JAMA Network Open, 2, 8, 2019.

28 S. Danziger, J. Levav, e L. Avnaim-Pesso, “Extraneous Factors in Judicial Decisions”, Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, 108, 2011, pp. 6889-6892.
Nota a piè pagina: L’effetto del giudice affamato: K. Weinshall-Margel e J. Shapard, “Overlooked Factors in the Analysis of Parole Decisions”, Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, 108, 2011, p. E833. E ancora: A. Glöckner, “The Irrational Hungry Judge Effect Revisited: Simulations Reveal That the Magnitude of the Effect Is Overestimated”, Judgment and Decision Making, 11, 2016, pp. 601-610. Ulteriori studi: D. Hangartner, D. Kopp, e M. Siegenthaler, “Monitoring Hiring Discrimination through Online Recruitment Platforms”, Nature, 589, 2021, pp. 572-576. Si veda anche P. Hunter, “Your Decisions Are What You Eat: Metabolic State Can Have a Serious Impact on Risk-Taking and Decision-Making in Humans and Animals”, EMBO Reports, 14, 2013, pp. 505-508.
Nel frattempo, alcune ricerche successive hanno suggerito una versione molto diversa delle decisioni giudiziarie influenzate da fattori impliciti: in media, i giudici comminano condanne più leggere se quel giorno è il compleanno dell’imputato. Per esempio, nelle aule di tribunale di New Orleans, si registra una diminuzione della durata delle sentenze pari a circa il 15 per cento; significativamente, l’effetto è circa doppio se il giudice e l’imputato sono della stessa razza. Il giorno prima o dopo il vostro compleanno? Niente da fare, non si rileva alcun effetto. E, cosa ancora più significativa ma non sorprendente, nessun giudice ha menzionato astrazioni come i compleanni nelle proprie opinioni giudiziarie. Il titolo dell’articolo riassume in modo appropriato il fatto che si tratta di valori contrastanti: “i criminali dovrebbero essere puniti” e “dovremmo essere gentili con le persone nel giorno del loro compleanno”. D. Chen e P. Arnaud, “Clash of Norms: Judicial Leniency on Defendant Birthdays”, Journal of Economic Behavior & Organization, 211, 2020, pp. 324-344.

29 D. Kahneman, Thinking, Fast and Slow, Farrar, Straus and Giroux, New York 2013 (trad. it. Pensieri lenti e veloci, Mondadori, Milano 2013). Inoltre, per approfondimenti sul ragionamento di Kahneman: H. Nohlen, F. van Harreveld, e W. Cunningham, “Social Evaluations under Conflict: Negative Judgments of Conflicting Information Are Easier Than Positive Judgments”, Social Cognitive and Affective Neuroscience, 14, 2019, pp. 709-718.

30 Nota a piè pagina: T. Baer e S. Schnall, “Quantifying the Cost of Decision Fatigue: Suboptimal Risk Decisions in Finance”, Royal Society Open Science, 8, 5, 2021.

31 I. Beaulieu-Boire e A. Lang, “Behavioral Effects of Levodopa”, Movement Disorders, 30, 2015, pp. 90-102.

32 L.R. Mujica-Parodi et al., “Chemosensory Cues to Conspecific Emotional Stress Activate Amygdala in Humans”, PLoS One, 4, 7, 2009. Jaywalking: B. Pawlowski, R. Atwal, e R. Dunbar, “Sex Differences in Everyday Risk-Taking Behavior in Humans”, Evolutionary Psychology, 6, 2008, pp. 29-42.
Nota a piè pagina: L. Chang et al., “The Face That Launched a Thousand Ships: The MatingWarring Association in Men”, Personality and Social Psychology Bulletin, 37, 2011, pp. 976-984; S. Ainsworth e J. Maner, “Sex Begets Violence: Mating Motives, Social Dominance, and Physical Aggression in Men”, Journal of Personality and Social Psychology, 103, 2012, pp. 819-829; W. Iredale, M. van Vugt, e R. Dunbar, “Showing Off in Humans: Male Generosity as a Mating Signal”, Evolutionary Psychology, 6, 2008, pp. 386-392; M. Van Vugt e W. Iredale, “Men Behaving Nicely: Public Goods as Peacock Tails”, British Journal of Psychology, 104, 2013, pp. 3-13. Oh, quegli skater: R. Ronay e W. von Hippel, “The Presence of an Attractive Woman Elevates Testosterone and Physical Risk Taking in Young Men”, Social Psychological and Personality Science, 1, 1, 2010, pp. 57-64.

33 J. Ferguson et al., “Oxytocin in the Medial Amygdala Is Essential for Social Recognition in the Mouse”, Journal of Neuroscience, 21, 2001, pp. 8278-8285; R. Griksiene e O. Ruksenas, “Effects of Hormonal Contraceptives on Mental Rotation and Verbal Fluency”, Psychoneuroendocrinology, 36, 2011, pp. 1239-1248; R. Norbury et al., “Estrogen Therapy and Brain Muscarinic Receptor Density in Healthy Females: A SPET Study”, Hormones and Behavior, 5, 2007, pp. 249-257.

34 Gli effetti dello stress sull’efficacia dell’azione frontale: S. Qin et al., “Acute Psychological Stress Reduces Working Memory-Related Activity in the Dorsolateral Prefrontal Cortex”, Biological Psychiatry, 66, 2009, pp. 25-32; L. Schwabe et al., “Simultaneous Glucocorticoid and Noradrenergic Activity Disrupts the Neural Basis of Goal-Directed Action in the Human Brain”, Journal of Neuroscience, 32, 2012, pp. 10146-10155; A. Arnsten, M. Wang, e C. Paspalas, “Neuromodulation of Thought: Flexibilities and Vulnerabilities in Prefrontal Cortical Network Synapses”, Neuron, 76, 2012, pp. 223-239; A. Arnsten, “Stress Weakens Prefrontal Networks: Molecular Insults to Higher Cognition”, Nature Neuroscience, 18, 2015, pp. 1376-1385; E. Woo et al., “Chronic Stress Weakens Connectivity in the Prefrontal Cortex: Architectural and Molecular Changes”, Chronic Stress (5), agosto/2021.

35 Effetti del testosterone sulla corteccia frontale: P. Mehta e J. Beer, “Neural Mechanisms of the Testosterone-Aggression Relation: The Role of Orbitofrontal Cortex”, Journal of Cognitive Neuroscience, 22, 2010, pp. 2357-2368; E. Hermans et al., “Exogenous Testosterone Enhances Responsiveness to Social Threat in the Neural Circuitry of Social Aggression in Humans”, Biological Psychiatry, 63, 2008, pp. 263-270; G. van Wingen et al., “Testosterone Reduces AmygdalaOrbitofrontal Cortex Coupling”, Psychoneuroendocrinology, 35, 2010, pp. 105-113; I. Volman et al., “Endogenous Testosterone Modulates Prefrontal-Amygdala Connectivity during Social Emotional Behavior”, Cerebral Cortex, 21, 2011, pp. 2282-2290; P. Bos et al., “The Neural Mechanisms by Which Testosterone Acts on Interpersonal Trust”, Neuroimage, 61, 2012, pp. 730-737; P. Bos et al., “Testosterone Reduces Functional Connectivity during the ‘Reading the Mind in the Eyes’ Test”, Psychoneuroendocrinology, 68, 2016, pp. 194-201; R. Handa, G. Hejnaa, e G. Murphy, “Androgen Inhibits Neurotransmitter Turnover in the Medial Prefrontal Cortex of the Rat Following Exposure to a Novel Environment”, Brain Research, 751, 1997, pp. 131-138; T. Hajszan et al., “Effects of Androgens and Estradiol on Spine Synapse Formation in the Prefrontal Cortex of Normal and Testicular Feminization Mutant Male Rats”, Endocrinology, 148, 2007, pp. 1963-1967.
Effetti dell’ossitocina sulla corteccia frontale: N. Ebner et al., “Oxytocin’s Effect on Resting-State Functional Connectivity Varies by Age and Sex”, Psychoneuroendocrinology, 69, 2016, pp. 50-59; S. Dodhia et al., “Modulation of Resting-State Amygdala-Frontal Functional Connectivity by Oxytocin in Generalized Social Anxiety Disorder”, Neuropsychopharmacology, 39, 2014, pp. 2061-2069.
Effetti degli estrogeni sulla corteccia frontale: R. Hill et al., “Estrogen Deficiency Results in Apoptosis in the Frontal Cortex of Adult Female Aromatase Knockout Mice”, Molecular and Cellular Neuroscience, 41, 2009, pp. 1-7; R. Brinton et al., “Equilin, a Principal Component of the Estrogen Replacement Therapy Premarin, Increases the Growth of Cortical Neurons via an NMDA Receptor-Dependent Mechanism”, Experimental Neurology, 147, 1997, pp. 211-220.

36 Effetti di una varietà di esperienze avverse sulla corteccia frontale. Depressione: E. Belleau, M. Treadway, e D. Pizzagalli, “The Impact of Stress and Major Depressive Disorder on Hippocampal and Medial Prefrontal Cortex Morphology”, Biological Psychiatry, 85, 2019, pp. 443-453; F. Calabrese et al., “Neuronal Plasticity: A Link between Stress and Mood Disorders”, Psychoneuroendocrinology, 34, supplemento 1, 2009, pp. 208-216; S. Chiba et al., “Chronic Restraint Stress Causes Anxietyand Depression-Like Behaviors, Downregulates Glucocorticoid Receptor Expression, and Attenuates Glutamate Release Induced by Brain-Derived Neurotrophic Factor in the Prefrontal Cortex”, Progress in Neuro-psychopharmacology and Biological Psychiatry, 39, 2012, pp. 112-119; J. Radley et al., “Chronic Stress-Induced Alterations of Dendritic Spine Subtypes Predict Functional Decrements in an Hypothalamo-Pituitary-Adrenal-Inhibitory Prefrontal Circuit”, Journal of Neuroscience, 33, 2013, pp. 14379-14391.
Ansia e disturbo da stress post-traumatico: L. Mah, C. Szabuniewicz, e A. Fiocco, “Can Anxiety Damage the Brain?”, Current Opinions in Psychiatry, 29, 2016, pp. 56-63; K. Moench e C. Wellman, “Stress-Induced Alterations in Prefrontal Dendritic Spines: Implications for Post-traumatic Stress Disorder”, Neuroscience Letters, 601, 2015, pp. 41-45.
Instabilità sociale: M. Breach, K. Moench, e C. Wellman, “Social Instability in Adolescence Differentially Alters Dendritic Morphology in the Medial Prefrontal Cortex and Its Response to Stress in Adult Male and Female Rats”, Developmental Neurobiology, 79, 9-10, 2019, pp. 839-856.

37 Effetti dell’alcol e dell’erba sulla corteccia frontale: C. Shields e C. Gremel, “Review of Orbitofrontal Cortex in Alcohol Dependence: A Disrupted Cognitive Map?”, Alcohol: Clinical and Experimental Research, 44, 2020, pp. 1952-1964; D. Eldreth, J. Matochik, e L. Cadet, “Abnormal Brain Activity in Prefrontal Brain Regions in Abstinent Marijuana Users”, Neuroimage, 23, 2004, pp. 914-920; J. Quickfall e D. Crockford, “Brain Neuroimaging in Cannabis Use: A Review”, Journal of Neuropsychiatry and Clinical Neuroscience, 18, 2006, pp. 318-332; V. Lorenzetti et al., “Does Regular Cannabis Use Affect Neuroanatomy? An Updated Systematic Review and Meta-analysis of Structural Neuroimaging Studies”, European Archives of Psychiatry and Clinical Neuroscience, 269, 2019, pp. 59-71. Studi come questi sono una valida conferma della mia decisione, presa quando avevo quindici anni, di non bere e di non drogarmi mai (e di attenermi a quella decisione).
Esercizio e corteccia frontale: D. Moore et al., “Interrelationships between Exercise, Functional Connectivity, and Cognition among Healthy Adults: A Systematic Review”, Psychophysiology, 59, 6, 2022, p. e14014; J. Graban, N. Hlavacova, e D. Jezova, “Increased Gene Expression of Selected Vesicular and Glial Glutamate Transporters in the Frontal Cortex in Rats Exposed to Voluntary Wheel Running”, Journal of Physiology and Pharmacology, 68, 2017, pp. 709-714; M. Cefis et al., “The Effect of Exercise on Memory and BDNF Signaling Is Dependent on Intensity”, Brain Structure and Function, 224, 2019, pp. 1975-1985.
Disturbi dell’alimentazione e corteccia frontale: B. Donnelly et al., “Neuroimaging in Bulimia Nervosa and Binge Eating Disorder: A Systematic Review”, Journal of Eating Disorders, 6, 2018, p. 3; V. Alfano et al., “Multimodal Neuroimaging in Anorexia Nervosa”, Journal of Neuroscience Research, 98, 2020, pp. 2178-2207.
E per uno studio davvero interessante, si veda: F. Lederbogen et al., “City Living and Urban Upbringing Affect Neural Social Stress Processing in Humans”, Nature, 474, 2011, pp. 498-501.

38 E. Durand et al., “History of Traumatic Brain Injury in Prison Populations: A Systematic Review”, Annals of Physical Rehabilitation Medicine, 60, 2017, pp. 95-101; E. Shiroma, P. Ferguson, ed E. Pickelsimer, “Prevalence of Traumatic Brain Injury in an Offender Population: A Metaanalysis”, Journal of Corrective Health Care, 16, 2010, pp. 147-159; C. O’Rourke, M. Linden, M. Lohan, e J. Bates-Gaston, “Traumatic Brain Injury and Co-occurring Problems in Prison Populations: A Systematic Review”, Brain Injury, 30, 2016, pp. 839-854; E. De Geus et al., “Acquired Brain Injury and Interventions in the Offender Population: A Systematic Review”, Frontiers in Psychiatry, 12, 2021.
Nota a piè pagina: J. Pemment, “Psychopathy versus Sociopathy: Why the Distinction Has Become Crucial”, Aggression and Violent Behavior, 18, 2013, pp. 458-461.

39 E. Pascoe e L. Smart Richman, “Perceived Discrimination and Health: A Meta-analytic Review”, Psychological Bulletin, 135, 2009, pp. 531-554; U. Clark, E. Miller, e R.R. Hegde, “Experiences of Discrimination Are Associated with Greater Resting Amygdala Activity and Functional Connectivity”, Biological Psychiatry, Cognitive Neuroscience and Neuroimaging, 3, 2018, pp. 367-378; C. Masten, E. Telzer, e N. Eisenberger, “An FMRI Investigation of Attributing Negative Social Treatment to Racial Discrimination”, Journal of Cognitive Neuroscience, 23, 2011, pp. 1042-1051; N. Fani et al., “Association of Racial Discrimination with Neural Response to Threat in Black Women in the US Exposed to Trauma”, JAMA Psychiatry, 78, 2021, pp. 1005-1012.

40 Avversità durante l’adolescenza: K. Yamamuro et al., “A Prefrontal-Paraventricular Thalamus Circuit Requires Juvenile Social Experience to Regulate Adult Sociability in Mice”, Nature Neuroscience, 23, 2020, pp. 1240-1252; C. Drzewiecki et al., “Adolescent Stress during, but Not after, Pubertal Onset Impairs Indices of Prepulse Inhibition in Adult Rats”, Developmental Psychobiology, 63, 2021, pp. 837-850; M. Breach, K. Moench, e C. Wellman, “Social Instability in Adolescence Differentially Alters Dendritic Morphology in the Medial Prefrontal Cortex and Its Response to Stress in Adult Male and Female Rats”, Developmental Neurobiology, 79, 9-10, 2019, pp. 839-856; M. Leussis et al., “The Enduring Effects of an Adolescent Social Stressor on Synaptic Density, Part II: Poststress Reversal of Synaptic Loss in the Cortex by Adinazolam and MK-801”, Synapse, 62, 2008, pp. 185-192; K. Zimmermann, R. Richardson, e K. Baker, “Maturational Changes in Prefrontal and Amygdala Circuits in Adolescence: Implications for Understanding Fear Inhibition during a Vulnerable Period of Development”, Brain Science, 9, 2019, p. 65; L. Wise et al., “Long-Term Effects of Adolescent Exposure to Bisphenol A on Neuron and Glia Number in the Rat Prefrontal Cortex: Differences between the Sexes and Cell Type”, Neurotoxicology, 53, 2016, pp. 186-192.

41 T. Koseki et al., “Exposure to Enriched Environments during Adolescence Prevents Abnormal Behaviours Associated with Histone Deacetylation in Phencyclidine-Treated Mice”, International Journal of Psychoneuropharmacology, 15, 2012, pp. 1489-1501; F. Sadegzadeh et al., “Effects of Exposure to Enriched Environment during Adolescence on Passive Avoidance Memory, Nociception, and Prefrontal BDNF Level in Adult Male and Female Rats”, Neuroscience Letters, 732, 2020; J. McCreary, Z. Erikson, e Y. Hao, “Environmental Intervention as a Therapy for Adverse Programming by Ancestral Stress”, Scientific Reports, 6, 2016.

42 Effetti dello stress e dei traumi infantili sulla corteccia frontale: C. Weems et al., “Post-traumatic Stress and Age Variation in Amygdala Volumes among Youth Exposed to Trauma”, Social Cognitive and Affective Neuroscience, 10, 2015, pp. 1661-1667; A. Garrett et al., “Longitudinal Changes in Brain Function Associated with Symptom Improvement in Youth with PTSD”, Journal of Psychiatric Research, 114, 2019, pp. 161-169; V. Carrion et al., “Reduced Hippocampal Activity in Youth with Posttraumatic Stress Symptoms: An fMRI Study”, Journal of Pediatric Psychology, 35, 2010, pp. 559-569; V. Carrion et al., “Converging Evidence for Abnormalities of the Prefrontal Cortex and Evaluation of Midsagittal Structures in Pediatric Posttraumatic Stress Disorder: An MRI Study”, Psychiatry Research: Neuroimaging, 172, 2009, pp. 226-234; K. Richert et al., “Regional Differences of the Prefrontal Cortex in Pediatric PTSD: An MRI Study”, Depression and Anxiety, 23, 2006, pp. 17-25; A. Tomoda et al., “Reduced Prefrontal Cortical Gray Matter Volume in Young Adults Exposed to Harsh Corporal Punishment”, Neuroimage, 47, supplemento 2, 2009, pp. T66-T71; A. Chocyk et al., “Impact of Early-Life Stress on the Medial Prefrontal Cortex Functions – a Search for the Pathomechanisms of Anxiety and Mood Disorders”, Pharmacology Reports, 65, 2013, pp. 1462-1470; A. Chocyk et al., “Early-Life Stress Affects the Structural and Functional Plasticity of the Medial Prefrontal Cortex in Adolescent Rats”, European Journal of Neuroscience, 38, 2013, pp. 2089-2107; A. Chocyk et al., “Early Life Stress Affects the Structural and Functional Plasticity in the Medial Prefrontal Cortex in Adolescent Rats”, European Journal of Neuroscience, 38, 2013, pp. 2089-2107 (nota: questo è stato il film in cui il giovane Tom Hanks ha debuttato come corteccia frontale dorsolaterale); M. Lopez et al., “The Social Ecology of Childhood and Early Life Adversity”, Pediatric Research, 89, 2021, pp. 353-367; V. Carrion e S. Wong, “Can Traumatic Stress Alter the Brain? Understanding the Implications of Early Trauma on Brain Development and Learning”, Journal of Adolescent Health, 51, supplemento 2, 2013, pp. 23-28.
Effetti del quartiere in cui il bambino sta crescendo: X. Zhang et al., “Childhood Urbanicity Interacts with Polygenic Risk for Depression to Affect Stress-Related Medial Prefrontal Function”, Translation Psychiatry, 11, 2021, p. 522; B. Ramphal et al., “Associations between Amygdala-Prefrontal Functional Connectivity and Age Depend on Neighborhood Socioeconomic Status”, Cerebral Cortex Communications, 1, 1, 2020.
Effetti materni sulla maturazione frontocorticale: D. Liu et al., “Maternal Care, Hippocampal Glucocorticoid Receptors, and Hypothalamic-Pituitary-Adrenal Responses to Stress”, Science, 277, 1997, pp. 1659-1662; S. Uchida et al., “Maternal and Genetic Factors in Stress-Resilient and -Vulnerable Rats: A Cross-Fostering Study”, Brain Research, 1316, 2010, pp. 43-50.
In questa vasta e cupa letteratura, la questione è se ci troviamo nell’ambito della patologia o dell’adattamento. Le principali avversità della prima infanzia producono un cervello che, in età adulta, è iperreattivo alle minacce e allo stress, ha difficoltà a disattivare la vigilanza, è poco efficiente nella pianificazione a lungo termine e nel rinvio della gratificazione e così via. Ciò costituisce un caso di cervello patologicamente disfunzionale in età adulta? Oppure è proprio il tipo di cervello che desiderate (se questa è stata la vostra infanzia, è meglio avere questo tipo di cervello nell’eventualità di dover affrontare le stesse avversità durante l’età adulta)? Questo problema viene considerato in M. Teicher, J. Samson, e K. Ohashi, “The Effects of Childhood Maltreatment on Brain Structure, Function and Connectivity”, Nature Reviews Neuroscience, 17, 2016, pp. 652-666.

43 D. Kirsch et al., “Childhood Maltreatment, Prefrontal-Paralimbic Gray Matter Volume, and Substance Use in Young Adults and Interactions with Risk for Bipolar Disorder”, Scientific Reports, 11, 1, 2021; M. Monninger et al., “The Long-Term Impact of Early Life Stress on Orbitofrontal Cortical Thickness”, Cerebral Cortex, 30, 2020, pp. 1307-1317; A. Van Harmelen et al., “Hypoactive Medial Prefrontal Cortex Functioning in Adults Reporting Childhood Emotional Maltreatment”, Scan, 9, 2014, pp. 2026-2033; A. Van Harmelen et al., “Childhood Emotional Maltreatment Severity Is Associated with Dorsal Medial Prefrontal Cortex Responsivity to Social Exclusion in Young Adults”, PLoS One, 9, 1, 2014; M. Underwood, M. Bakalian, e V. Johnson, “Less NMDA Receptor Binding in Dorsolateral Prefrontal Cortex and Anterior Cingulate Cortex Associated with Reported Early-Life Adversity but Not Suicide”, International Journal of Neuropsychopharmacology, 23, 2020, pp. 311-318; R. Salokangas et al., “Effect of Childhood Physical Abuse on Social Anxiety Is Mediated via Reduced Frontal Lobe and Amygdala-Hippocampus Complex Volume in Adult Clinical High-Risk Subjects”, Schizophrenia Research, 22, 2021, pp. 101-109; M. Kim et al., “A Link between Childhood Adversity and Trait Anger Reflects Relative Activity of the Amygdala and Dorsolateral Prefrontal Cortex”, Biological Psychiatry, Cognitive Neuroscience and Neuroimaging, 3, 2018, pp. 644-649; T. Kraynak et al., “Retrospectively Reported Childhood Physical Abuse, Systemic Inflammation, and Resting Corticolimbic Connectivity in Midlife Adults”, Brain, Behavior and Immunity, 82, 2019, pp. 203-213.

44 C. Hendrix, D. Dilks, e B. McKenna, “Maternal Childhood Adversity Associates with Frontoamygdala Connectivity in Neonates”, Biological Psychiatry, Cognitive Neuroscience and Neuroimaging, 6, 2021, pp. 470-478.

45 M. Monninger, E. Kraaijenvanger, e T. Pollok, “The Long-Term Impact of Early Life Stress on Orbitofrontal Cortical Thickness”, Cerebral Cortex, 30, 2020, pp. 1307-1317; N. Bush et al., “Kindergarten Stressors and Cumulative Adrenocortical Activation: The ‘First Straws’ of Allostatic Load?”, Developmental Psychopathology, 23, 2011, pp. 1089-1106; A. Conejero et al., “Frontal Theta Activation Associated with Error Detection in Toddlers: Influence of Familial Socioeconomic Status”, Developmental Science, 21, 1, 2018; S. Lu, R. Xu, e J. Cao, “The Left Dorsolateral Prefrontal Cortex Volume Is Reduced in Adults Reporting Childhood Trauma Independent of Depression Diagnosis”, Journal of Psychiatric Research, 12, 2019, pp. 12-17; L. Betancourt, N. Brodsky, e H. Hurt, “Socioeconomic (ses) Differences in Language Are Evident in Female Infants at 7 Months of Age”, Early Human Development, 91, 2015, pp. 719.

46 Y. Moriguchi e I. Shinohara, “Socioeconomic Disparity in Prefrontal Development during Early Childhood”, Scientific Reports, 9, 1, 2019; M. Varnum e S. Kitayama, “The Neuroscience of Social Class”, Current Opinion in Psychology, 18, 2017, pp. 147-151; K. Muscatell et al., “Social Status Modulates Neural Activity in the Mentalizing Network”, Neuroimage, 60, 2012, pp. 1771-1777; K. Sarsour et al., “Family Socioeconomic Status and Child Executive Functions: The Roles of Language, Home Environment, and Single Parenthood”, Journal of the International Neuropsychology Society, 17, 2011, pp. 120-132; M. Monninger, E. Kraaijenvanger, e T. Pollok, “The Long-Term Impact of Early Life Stress on Orbitofrontal Cortical Thickness”, Cerebral Cortex, 30, 2020, pp. 1307-1317; N. Hair et al., “Association of Child Poverty, Brain Development, and Academic Achievement”, JAMA Pediatrics, 169, 2015, pp. 822-829.

47 L. Machlin, K. McLaughlin, e M. Sheridan, “Brain Structure Mediates the Association between Socioeconomic Status and Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder”, Developmental Science, 23, 1, 2020, p. e12844; Sarsour et al., “Family Socioeconomic Status and Child Executive Functions” cit.; Kim et al., “A Link between Childhood Adversity and Trait Anger Reflects Relative Activity of the Amygdala and Dorsolateral Prefrontal Cortex” cit.; B. Hart e T. Risley, Meaningful Differences in the Everyday Experience of Young American Children, Brooke, Baltimora 1995; E. Hoff, “How Social Contexts Support and Shape Language Development”, Developmental Review, 26, 2006, pp. 55-88.
Nota a piè pagina: J. Reed, E. D’Ambrosio, e S. Marenco, “Interaction of Childhood Urbanicity and Variation in Dopamine Genes Alters Adult Prefrontal Function as Measured by Functional Magnetic Resonance Imaging (fMRI)”, PLoS One, 13, 4, 2018; B. Besteher et al., “Associations between Urban Upbringing and Cortical Thickness and Gyrification”, Journal of Psychiatric Research, 95, 2017, pp. 114-120; J. Xu et al., “Global Urbanicity Is Associated with Brain and Behavior in Young People”, Nature Human Behaviour, 6, 2022, pp. 279-293; V. Steinheuser et al., “Impact of Urban Upbringing on the (Re)activity of the Hypothalamus-Pituitary-Adrenal Axis”, Psychosomatic Medicine, 76, 2014, pp. 678-685; F. Lederbogen, P. Kirsch, e L. Haddad, “City Living and Urban Upbringing Affect Neural Social Stress Processing in Humans”, Nature, 474, 2011, pp. 498-501.

48 C. Franz et al., “Adult Cognitive Ability and Socioeconomic Status as Mediators of the Effects of Childhood Disadvantage on Salivary Cortisol in Aging Adults”, Psychoneuroendocrinology, 38, 2013, pp. 2127-2139; D. Barch et al., “Early Childhood Socioeconomic Status and Cognitive and Adaptive Outcomes at the Transition to Adulthood: The Mediating Role of Gray Matter Development across 5 Scan Waves”, Biological Psychiatry, Cognitive Neuroscience and Neuroimaging, 7, 2021, pp. 34-44; M. Farah, “Socioeconomic Status and the Brain: Prospects for Neuroscience-Informed Policy”, Nature Reviews Neuroscience, 19, 2018, pp. 428-438.

49 J. Herzog e C. Schmahl, “Adverse Childhood Experiences and the Consequences on Neurobiological, Psychosocial, and Somatic Conditions across the Lifespan”, Frontiers in Psychiatry, 9, 2018.

50 Una varietà di conseguenze neurobiologiche avverse dello stress prenatale: Y. Lu, K. Kapse, e N. Andersen, “Association between Socioeconomic Status and In Utero Fetal Brain Development”, JAMA Network Open, 4, 3, 2021.
Effetti sul rischio di manifestare disturbi psichiatrici: A. Converse et al., “Prenatal Stress Induces Increased Striatal Dopamine Transporter Binding in Adult Nonhuman Primates”, Biological Psychiatry, 74, 2013, pp. 502-510; C. Davies et al., “Prenatal and Perinatal Risk and Protective Factors for Psychosis: A Systematic Review and Meta-analysis”, Lancet Psychiatry, 7, 2010, pp. 399-410; J. Markham e J. Koenig, “Prenatal Stress: Role in Psychotic and Depressive Diseases”, Psychopharmacology, 214, 2011, pp. 89-106; B. Van den Bergh et al., “Prenatal Developmental Origins of Behavior and Mental Health: The Influence of Maternal Stress in Pregnancy”, Neuroscience and Biobehavioral Reviews, 117, 2020, pp. 26-64.
In che modo lo stress materno durante la gravidanza ha questi effetti negativi sul cervello del feto e sul cervello di quel feto quando diventa adulto? Livelli elevati di glucocorticoidi nel passaggio dalla circolazione materna a quella fetale, livelli elevati di messaggeri infiammatori dannosi, diminuzione del flusso sanguigno al feto. Si vedano: A. Kinnunen, J. Koenig, e G. Bilbe, “Repeated Variable Prenatal Stress Alters Preand Postsynaptic Gene Expression in the Rat Frontal Pole”, Journal of Neurochemistry, 86, 2003, pp. 736-748; B. Van den Bergh, R. Dahnke, e M. Mennes, “Prenatal Stress and the Developing Brain: Risks for Neurodevelopmental Disorders”, Development and Psychopathology, 30, 2018, pp. 743-762.

51 G. Winterer e D. Goldman, “Genetics of Human Prefrontal Function”, Brain Research Reviews, 43, 2003, pp. 134-163.

52 A. Heinz et al., “Amygdala-Prefrontal Coupling Depends on a Genetic Variation of the Serotonin Transporter”, Nature Neuroscience, 8, 2005, pp. 20-21; L. Passamonti et al., “Monoamine Oxidase-a Genetic Variations Influence Brain Activity Associated with Inhibitory Control: New Insight into the Neural Correlates of Impulsivity”, Biological Psychiatry, 59, 2006, pp. 334-340; M. Nomura e Y. Nomura, “Psychological, Neuroimaging, and Biochemical Studies on Functional Association between Impulsive Behavior and the 5-HT2A Receptor Gene Polymorphism in Humans”, Annals of the New York Academy of Sciences, 1086, 2006, pp. 134-143. Maggiore è il numero di varianti genetiche del cluster di “assunzione di rischio”, più ridotta è la dlpfc: G. Avdogan et al., “Genetic Underpinnings of Risky Behavior Relate to Altered Neuroanatomy”, Nature Human Behaviour, 5, 2021, pp. 787-794.

53 K. Bruce et al., “Association of the Promoter Polymorphism -1438G/A of the 5-HT2A Receptor Gene with Behavioral Impulsiveness and Serotonin Function in Women with Bulimia Nervosa”, American Journal of Medical Genetics, Part B, Neuropsychiatric Genetics, 137, 1, 2005, pp. 40-44.

54 K. Honegger e B. de Bivort, “Stochasticity, Individuality and Behavior”, Current Biology, 28, 2018, pp. R8-R12; J. Ayroles et al., “Behavioral Idiosyncrasy Reveals Genetic Control of Phenotypic Variability”, Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, 112, 2015, pp. 6706-6711. Si veda anche G. Linneweber et al., “A Neurodevelopmental Origin of Behavioral Individual in the Drosophila Visual System”, Science, 367, 2020, pp. 1112-1119.

55 J. Chiao et al., “Neural Basis of Individualistic and Collectivistic Views of Self”, Human Brain Mapping, 30, 2009, pp. 2813-2820.

56 S. Han e Y. Ma, “Cultural Differences in Human Brain Activity: A Quantitative Meta-analysis”, Neuroimage, 99, 2014, pp. 293-300; Y. Ma et al., “Sociocultural Patterning of Neural Activity during Self-Reflection”, Social Cognitive and Affective Neuroscience, 9, 2014, pp. 73-80; Lu, Kapse, e Andersen, “Association between Socioeconomic Status” cit.

57 P. Chen et al., “Medial Prefrontal Cortex Differentiates Self from Mother in Chinese: Evidence from Self-Motivated Immigrants”, Culture and Brain, 1, 2013, pp. 3-15.

58 Revisione generale: J. Sasaki e H. Kim, “Nature, Nurture, and Their Interplay: A Review of Cultural Neuroscience”, Journal of Cross-Cultural Psychology, 48, 2016, pp. 4-22.
Interazioni tra cultura e geni: M. Palmatier, A. Kang, e K. Kidd, “Global Variation in the Frequencies of Functionally Different Catechol-O-Methyltransferase Alleles”, Biological Psychiatry, 46, 1999, pp. 557-567; Y. Chiao e K. Blizinsky, “Culture-Gene Coevolution of Individualism-Collectivism and the Serotonin Transporter Gene”, Proceedings of the Royal Society B: Biological Sciences, 277, 2010, pp. 529-537; K. Ishii et al., “Culture Modulates Sensitivity to the Disappearance of Facial Expression Associated with Serotonin Transporter Polymorphism (5-HTTLPR)”, Culture and Brain, 2, 2014, pp. 72-88; J. LeClair et al., “Gene-Culture Interaction: Influence of Culture and Oxytocin Receptor Gene (OXTR) Polymorphism on Loneliness”, Culture and Brain, 4, 2016, pp. 21-37; S. Luo et al., “Interaction between Oxytocin Receptor Polymorphism and Interdependent Culture Values on Human Empathy”, Social Cognitive and Affective Neuroscience, 10, 2015, pp. 1273-1281.

59 K. Norton e M. Liljeholm, “The Rostrolateral Prefrontal Cortex Mediates a Preference for High-Agency Environments”, Journal of Neuroscience, 40, 2020, pp. 4401-4409. Per un tema simile, si veda anche J. Parvizi et al., “The Will to Persevere Induced by Electrical Stimulation of the Human Cingulate Gyrus”, Neuron, 80, 2013, pp. 1359-1367.

5.

UNA GUIDA INTRODUTTIVA AL CAOS

 


 


 


 


Supponete che, subito prima di iniziare a leggere questa frase, abbiate cercato di grattarvi la spalla che vi prudeva. Vi siete resi conto che sta diventando più difficile raggiungere quel punto, e avete pensato alle vostre articolazioni, le quali si stanno calcificando con l’età. Tutto ciò vi ha indotto a giurare che farete più esercizio fisico e, poi, vi siete concessi uno spuntino. Ebbene, la scienza ha ufficialmente analizzato ogni azione o pensiero, conscio o no; inoltre, ha individuato ogni parte neurobiologica che supporta tutto ciò. Niente ha improvvisamente deciso di diventare una “causa senza causa”.


Indipendentemente dal grado di dettaglio con cui la esaminate, ogni condizione biologica, nella sua unicità, è stata causata da uno stato di cose, altrettanto unico, che l’ha preceduta. Quindi, se volete davvero capire come stanno le cose, dovete scomporre questi due stati nelle loro componenti, e stabilire in che modo ogni elemento che riguarda l’“appena-prima-di-adesso” abbia dato origine a ciascuna parte di “adesso”. È così che funziona l’universo.


Ma se così non fosse? E se alcuni momenti non fossero causati da nulla che li avesse preceduti? E se alcuni “adesso”, del tutto unici, potessero essere causati da più “appena-prima-di-adesso”, altrettanto unici? E se la strategia di imparare come funziona qualcosa, suddividendolo nelle sue componenti, si rivelasse spesso inutile? Oggigiorno, come ben sappiamo, le cose stanno proprio così. Nel corso del secolo scorso, l’immagine dell’universo descritta nel capoverso precedente è stata sovvertita, per via di alcune scienze fondate sulla teoria del caos, sulla complessità e sul principio di indeterminazione della meccanica quantistica.


Definire tutto ciò una rivoluzione non è un’iperbole. Quando ero bambino, ho letto un romanzo, The Twenty-One Ballons,[*] nel quale veniva descritta una società utopica, sull’isola di Krakatoa, costruita sfruttando la tecnologia dei palloni aerostatici, ma destinata a essere distrutta dalla famosa eruzione del vulcano, avvenuta nel 1883. Era fantastico e appena sono arrivato alla fine, ho subito ricominciato a leggerlo. Poi, è passato quasi un quarto di secolo prima che mi ricapitasse di arrivare alla fine di un libro e ricominciare immediatamente a leggerlo – si trattava di un’introduzione a una di queste rivoluzioni scientifiche.[*]


Quel volume descriveva qualcosa di incredibilmente interessante. Questo capitolo e i cinque successivi esaminano queste tre rivoluzioni, illustrando il modo in cui numerosi pensatori credono che, nelle loro pieghe, si possa individuare il libero arbitrio. Devo ammettere che i tre capitoli precedenti suscitano in me emozioni di una certa intensità. Sono indotto a provare una sorta di rabbia distaccata, intellettualistica, da accademico nei confronti dell’idea che si possa valutare il comportamento di una persona al di fuori del contesto che ha determinato il suo stato in quell’istante e l’ha indotta a manifestare un intento; ovvero, che la sua storia non abbia importanza. Mi indispone anche l’idea, sostenuta da alcuni, che anche se un comportamento sembra determinato, il libero arbitrio si nasconda laddove non state guardando. D’altro canto, non mi soddisfa nemmeno la conclusione secondo cui il giudizio basato su principi morali ed etici, espresso da altri, sia da considerarsi adeguato perché conta solo ciò che scegliamo liberamente di fare, anche se la vita è difficile e ci ha riservato, in modo iniquo, caratteristiche vantaggiose e svantaggiose. Queste posizioni hanno prodotto un’enorme quantità di ingiusto dolore, e hanno anche negato molti diritti.


Le rivoluzioni che descriverò nei prossimi cinque capitoli non suscitano in me quello stesso coinvolgimento viscerale. Come osserveremo, non ci sono molti pensatori che fanno riferimento, diciamo, all’indeterminazione subatomica della meccanica quantistica, quando proclamano, con una certa sufficienza, che il libero arbitrio esiste e che loro si sono guadagnati la vita, collocandosi nel primo percentile. Questi argomenti non mi fanno venire voglia di allestire barricate a Parigi, né di intonare gli inni rivoluzionari di Les Mis. D’altro canto, mi interessano immensamente, perché rivelano una struttura e un pattern completamente inaspettati. Nondimeno, dal mio punto di vista, tutto ciò accresce, anziché spegnere, la percezione che la vita sia più interessante di quanto si possa immaginare. Questi sono argomenti che sovvertono, fin nei fondamenti, il nostro modo di pensare in merito al funzionamento degli eventi complessi. Tuttavia, non hanno nulla a che vedere con la sede in cui risiederebbe il libero arbitrio. Questo capitolo e il prossimo si concentrano sulla teoria del caos, l’ambito scientifico che potrebbe rendere inutile lo studio delle componenti che costituiscono i fenomeni complessi. Dopo aver introdotto l’argomento in questo capitolo, nel prossimo analizzeremo due modalità attraverso le quali le persone credono, erroneamente, di aver individuato il libero arbitrio nei sistemi caotici. La prima è l’idea che quando, nel contesto della biologia, si parte da qualcosa di semplice, in modo imprevedibile, emerga un comportamento estremamente complesso: insomma, si pensa che il libero arbitrio sia “semplicemente” accaduto. La seconda è la convinzione che se state osservando un comportamento complesso, il quale potrebbe essere derivato da due diversi stati biologici, e non c’è modo di stabilire quale dei due lo abbia causato, allora potete affermare che non è stato causato “da nulla”, ossia che l’evento non è soggetto al determinismo.


Quando le cose avevano senso

Supponete che


X = Y + 1


e se questo è il caso, allora


X + 1 = ?


e siete facilmente in grado di calcolare che la risposta è


(Y + 1) + 1.


Se considerate X + 3 avrete istantaneamente (Y + 1) + 3. Ecco il punto cruciale: dopo aver risolto X + 1, siete in grado di risolvere X + 3 senza dover prima calcolare X + 2. In altri termini, vi trovate nella condizione di poter fare una previsione, che riguarda il futuro, senza esaminare il passaggio intermedio. La stessa cosa vale per X + un fantastiliardo, o X + quasi un fantastiliardo, o X + una talpa dal muso stellato.


Un mondo del genere gode di diverse proprietà:


Come abbiamo appena osservato, conoscendo lo stato iniziale di un sistema (per esempio, X = Y + 1) potete prevedere, con precisione, quale sarà il valore di X + qualsiasi cosa, senza dover considerare i passaggi intermedi. Inoltre, questa proprietà vale in senso bidirezionale. Se vi viene dato (Y + 1) + qualsiasi cosa, allora sapete che il vostro punto di partenza era X + qualsiasi cosa.

Ciò che appare implicito in questa condizione è che esista un “percorso unico”, il quale collega gli stati iniziali e quelli finali; inoltre, è anche impossibile che, qualche volta, X + 1 non sia uguale a (Y + 1) + 1.

Come si dimostra affrontando qualcosa del tipo “quasi un fantastiliardo”, l’ampiezza del grado di incertezza e l’approssimazione relativi allo stato iniziale sono direttamente proporzionali agli stessi parametri riferiti allo stato finale. Insomma, potete conoscere quel che non sapete, e potete prevedere il grado di imprevedibilità.[1]

Questa relazione tra gli stati iniziali e quelli finali ha contribuito a dare origine a quello che è stato il concetto fondamentale della scienza nel corso di secoli. Si tratta del riduzionismo; ovvero, l’idea che, per capire qualcosa di complicato, sia necessario “sezionarlo” nelle sue parti costituenti, studiarle, aggiungere i vostri insight, in merito a ciascuna componente. Grazie a tutto ciò, comprenderete l’intero nel suo complesso. Se una di quelle parti costituenti è troppo complicata da trattare, studiate le minuscole parti che la compongono e comprendetele.


Il riduzionismo è fondamentale. Se il vostro orologio, che funziona con l’antica tecnologia degli ingranaggi, smette di segnare correttamente l’ora, applicherete un approccio riduzionistico per risolvere il problema. Smontate l’orologio, identificate quel piccolo ingranaggio che ha un dente rotto, lo sostituite, rimettete insieme i pezzi, e l’orologio tornerà a funzionare. Questo approccio è anche quello che si adotta per condurre le indagini: giungete sulla scena del crimine e ponete delle domande ai testimoni. Il primo ha osservato solo le parti 1, 2 e 3 dell’evento. Il secondo ha visto solo la 2, la 3 e la 4. Il terzo, solo la 3, la 4 e la 5. Peccato che nessuno abbia osservato tutto ciò che è successo. Nondimeno, grazie a un approccio riduzionistico, potete risolvere il problema, considerando le componenti frammentarie, le osservazioni dei tre testimoni che si sovrappongono, per poi combinarle e stabilire la sequenza completa degli eventi.[*] Ora, prendete in considerazione un altro caso esemplificativo. Nella prima ondata della pandemia, le persone, in tutto il mondo, hanno atteso le risposte a domande di natura riduzionistica: per esempio, “quale recettore sulla superficie di una cellula polmonare si lega alla proteina spike del SARS-CoV-2, consentendo al virus di infettarla?”.


Fate attenzione, però, perché un approccio riduzionistico non si applica a qualsiasi fenomeno. Per esempio, se si sta verificando un periodo di siccità, con il cielo punteggiato di nuvole soffici che non regalano la pioggia da un anno, non isolate dapprima una nuvola, per poi studiare la metà sinistra, quella destra e, quindi, la metà di ciascuna metà, e così via, finché non trovate quel minuscolo ingranaggio che ha un dente rotto. Tuttavia, un approccio riduzionistico è stato a lungo il quadro di riferimento per esplorare scientificamente un fenomeno complesso.


Peraltro, a partire dagli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso, è stata compiuta una rivoluzione scientifica che è stata denominata teoria del caos. L’idea fondamentale è che le cose davvero interessanti e complesse spesso non sono meglio comprese, anzi, non possono essere spiegate, assumendo un approccio riduzionistico. Per comprendere, diciamo, un essere umano che manifesta comportamenti anomali, è opportuno affrontare il problema come se fosse una nuvola che non genera precipitazioni, giammai come se si trattasse di un orologio che non emette alcun ticchettio. Ovviamente, gli esseri umani-nuvola manifestano un’ampia gamma di impulsi, che si rivelano peraltro quasi irresistibili, i quali ci consentirebbero di giungere alla conclusione che si sta osservando il libero arbitrio in azione.


Impredicibilità caotica

La teoria del caos ha una sua storia fondativa. Quando ero bambino, nel corso degli anni Sessanta del secolo scorso, le previsioni meteorologiche, alquanto inaccurate, erano oggetto di un certo dileggio: “Il tizio delle previsioni del tempo alla radio [invariabilmente, si trattava di un uomo] ha detto che ci sarà il sole, quindi porta l’ombrello.” Edward Lorenz, un meteorologo che lavorava al Massachusetts Institute of Technology (MIT), ha iniziato a impiegare un qualche computer antidiluviano per modellizzare i pattern relativi alle condizioni atmosferiche, col fine di migliorare l’accuratezza delle previsioni. Inserite delle variabili nel modello, come, per esempio, la temperatura e l’umidità, e osservate di quanto diventano più esatte le vostre previsioni. Considerate l’eventualità che l’aggiunta di ulteriori variabili e l’attribuzione di pesi differenti migliorino la predicibilità.[*]


Ebbene, Lorenz, impiegando un computer, stava studiando un modello che considerava l’utilizzo di dodici variabili. Provate a immaginare. È ora di andare a pranzo: interrompete l’esecuzione del programma, a metà del processo di elaborazione di una serie temporale di previsioni. Tornate dopo aver mangiato e, per risparmiare tempo, riavviate il programma dal punto appena precedente a dove lo avevate interrotto, invece di ricominciare da capo. Inserite i valori di quelle dodici variabili, in quel punto, e lasciate che il modello riprenda a elaborare le previsioni meteorologiche. Questo è ciò che fece Lorenz, e, in quel momento, la nostra comprensione dell’universo cambiò.


Una variabile, al momento dell’interruzione, aveva assunto un valore pari a 0,506127. Invece, sul foglio stampato il computer lo aveva arrotondato a 0,506; forse, quella macchina non voleva sovraccaricare questo essere umano 1.0. In ogni caso, 0,506127 divenne 0,506. Ebbene, Lorenz, non avendo contezza di questa leggera differenza, riavviò il programma impostando la variabile col valore 0,506, pensando che fosse effettivamente lo stesso che il computer aveva elaborato prima del pranzo.


Così, ora la macchina stava considerando un valore leggermente diverso da quello elaborato in precedenza. Nel nostro presunto mondo lineare e riduzionistico, sappiamo esattamente cosa sarebbe dovuto accadere successivamente: la differenza relativa allo stato iniziale, il quale era diverso da quello che si pensava che fosse (ovvero, 0,506 invece di 0,506127), avrebbe riprodotto quel grado di inaccuratezza previsionale nello stato finale: il programma avrebbe indicato un punto che sarebbe stato solo leggermente diverso da quello previsto prima del pranzo – sovrapponendo i due tracciati, avreste a malapena notato una differenza.


Lorenz ha lasciato che il programma, il quale considerava ancora 0,506 invece di 0,506127, continuasse a eseguire i calcoli su quei dati, ma il risultato era assai discorde rispetto a quel che si aspettava di ottenere dall’elaborazione pre-pranzo. Strano. E considerando ogni punto successivo, lo scenario appariva ancora più singolare – a volte sembrava che le cose fossero tornate al modello pre-pranzo, ma, poi, si notavano, di nuovo, divergenze sempre più marcate, imprevedibili, bizzarre. Alla fine, il programma, invece di generare qualcosa di simile a quel che si era osservato nel corso della prima elaborazione, produceva discrepanze quanto mai ampie tra le due tracce.


Questo fu quel che Lorenz ebbe modo di osservare – le tracce pre- e post-pranzo sovrapposte, un foglio stampato che, oggigiorno, ha assunto lo status di sacra reliquia in quell’ambito di ricerca scientifica.


Alla fine, Lorenz riuscì a individuare quel piccolo errore, dovuto all’arrotondamento, introdotto dopo pranzo, sicché comprese che era questo a rendere il sistema imprevedibile e non lineare.


 




 


Nel 1963, Lorenz descrisse quel che aveva osservato in un denso articolo tecnico, intitolato “Deterministic Non-periodic Flow”, che fu pubblicato nel Journal of Atmospheric Sciences, una rivista straordinariamente specialistica. (Peraltro, in quello scritto, Lorenz, pur rendendosi conto che certi insight stavano per sovvertire secoli di pensiero riduzionistico, non dimenticava da “dove veniva”. I lettori della rivista, con tono lamentoso, si chiedevano: “Sarà mai possibile prevedere con precisione l’evoluzione delle condizioni meteorologiche?” No, concludeva Lorenz; di fatto, questa possibilità è “inesistente”.) Ebbene, quell’articolo è stato citato oltre 26.000 volte.[2]


Se il programma di elaborazione impiegato da Lorenz avesse considerato solo due variabili meteorologiche, invece delle dodici che stava effettivamente valutando il familiare riduzionismo sarebbe stato confermato – se si fosse inserito un numero leggermente diverso nel computer, l’output sarebbe stato lievemente e costantemente “sbagliato”, dopo ogni passo, per il resto del tempo. In modo prevedibile. Immaginate un universo che sia descritto soltanto da due variabili, le quali rappresentano le forze gravitazionali che la Terra e la Luna esercitano l’una sull’altra. In questo mondo lineare, è possibile dedurre esattamente dove la Terra e la Luna si trovavano in qualsiasi momento del passato, e anche predire con precisione dove si troveranno in qualsiasi istante futuro;[*] quindi, se ci capitasse di inserire accidentalmente un errore di approssimazione, la magnitudo della discrepanza sarebbe mantenuta per sempre. Orbene, adesso aggiungete il Sole al modello e introdurrete la non linearità. Tutto ciò accade perché la Terra influenza la Luna, il che significa che la Terra influenza come la Luna influisce sul Sole, il che significa che la Terra influenza come la Luna influenza l’influenza del Sole sulla Terra… E non dimenticate di tener in considerazione l’altra direzione, dalla Terra al Sole alla Luna. Le interazioni tra le tre variabili rendono impossibile la predicibilità lineare. Una volta che abbiamo avuto accesso a quello che è conosciuto come il “problema dei tre corpi”, nel quale tre o più variabili interagiscono, gli esiti sono inevitabilmente diventati imprevedibili.


In un sistema non lineare, piccole differenze nello stato iniziale, da un momento all’altro, possono far divergere enormemente gli stati futuri o finali, persino in modo esponenziale.[*] Tale fenomeno è stato successivamente definito “dipendenza sensibile dalle condizioni iniziali”. Lorenz ha peraltro osservato che l’imprevedibilità, anziché dirigersi, una volta per tutte, nella stratosfera dello scostamento esponenziale, a volte si rivela limitata, “vincolata” e “dissipativa”. In altre parole, il grado di imprevedibilità oscilla, in modo “erratico”, intorno al valore previsto; prima un po’ sopra, poi un po’ sotto, rispetto a quanto atteso nella serie di numeri che state generando. Nondimeno, il grado di discrepanza appare sempre diverso, e tale osservazione si ripete, ancora una volta, per sempre. È come se ogni punto dati che ottenete fosse attratto, in qualche modo, verso il punto dati previsto, ma non abbastanza, sicché non raggiunge mai, effettivamente, quel valore. Un fenomeno strano. In ragione di ciò, Lorenz ha denominato “strani” questi stessi attrattori.[*][3]


Quindi, una minima differenza che riguarda gli stati iniziali può amplificarsi, in modo imprevedibile, nel corso del tempo. Lorenz prese l’abitudine di riassumere questa idea con una metafora sul colpo d’ala dei gabbiani. Un amico gli suggerì qualcosa di più pittoresco, e tutto ciò venne “formalizzato”, nel 1972, proprio nel titolo di una famosa conferenza tenuta da Lorenz. Ecco un’altra sacra reliquia in questo ambito di ricerca (si veda la figura nella pagina successiva).


Così, prese forma l’emblema della rivoluzione indotta dalla teoria del caos, ovvero l’“effetto farfalla”.[*][4]


 




 


Il caos che potete generare in casa

Ora consideriamo come si manifestano il fenomeno del caos e la dipendenza sensibile dalle condizioni iniziali nella pratica. È possibile far tutto ciò impiegando un piccolo sistema, un modello, così interessante e divertente che ho persino desiderato, per un attimo, di poter programmare il computer, poiché sarebbe stato più facile giocarci.


Iniziate con una griglia, come quella che potete disegnare su un foglio di carta a quadretti. La prima riga rappresenta la vostra condizione iniziale. In particolare, ogni casella della riga può trovarsi in uno dei due stati previsti, libera o occupata (oppure, nel codice binario, zero o uno). Ci sono 16.384 pattern possibili per quella riga;[*] ecco il nostro, che è stato prodotto casualmente:


 




 


Ora, è tempo di generare la seconda riga di caselle libere o occupate; che sarà un pattern determinato[*] in base alla configurazione presente nella riga 1. Ovviamente, abbiamo bisogno di una regola per poter produrre tutto ciò. Ecco la regola più noiosa: nella riga 2, una casella che si trova sotto una occupata sarà occupata; una casella sotto una libera sarà libera. Applicate quella regola più e più volte, usando la riga 2 come riferimento per la riga 3, la 3 per la 4 e così via; alla fine, produrrete solo alcune colonne noiose. Oppure applicate la regola opposta, sicché quando una casella è occupata, quella sotto, nella riga successiva, sarà libera, mentre una casella libera ne genererà una occupata; anche in questo caso, il risultato non apparirà troppo emozionante, dato che produrrete una sorta di pattern a scacchi asimmetrico e sbilanciato:


 




 


Ecco quel che rappresenta il punto focale: applicando una delle due regole, se conoscete lo stato iniziale (ovvero, il pattern nella riga 1), potete predire, con precisione, come apparirà una riga in un qualsiasi momento futuro. Riconosciamo qui, di nuovo, il nostro universo lineare.


Torniamo alla nostra riga 1:


 




 


Ora, se una particolare casella della riga 2 sarà libera o occupata è determinato dalla condizione in cui si trovano tre caselle – la casella della riga 1 immediatamente sopra e le due vicine, sempre nella riga precedente.


Ecco una regola casuale, in base alla quale lo stato di un trio di caselle adiacenti, nella riga 1, determina cosa accade nella casella della sottostante riga 2: una casella della riga 2 è occupata se e solo se una sola delle tre caselle, sopra di essa, è occupata. Altrimenti, la casella della riga 2 rimarrà libera.


Iniziamo con la seconda casella da sinistra nella riga 2. Ecco il trio della riga 1 immediatamente soprastante (ovvero, le prime tre caselle della riga 1):


 




 


Una delle tre caselle è occupata, sicché la casella della riga 2 che stiamo considerando risulterà occupata:


 




 


Osservate ora il prossimo trio nella riga 1 (ovvero, le caselle 2, 3 e 4). Siccome una casella è occupata, anche la casella 3, nella riga 2, sarà occupata:


 


 




 


Nel trio costituito dalle caselle 3, 4 e 5 nella riga 1, due caselle (4 e 5) sono occupate, quindi la prossima casella della riga 2 sarà libera. E così via. La regola con cui stiamo lavorando – se e solo se una casella del trio è occupata, riempi la casella della riga 2 in questione – può essere riassunta così:


 




 


Ci sono otto possibili trii (due possibili stati per la prima casella di un trio, due possibili stati per la seconda, due possibili stati per la terza), e solo le combinazioni 4, 6, 7 determinano il fatto che la casella considerata, nella riga 2, sarà occupata.


Tornando a considerare il nostro stato iniziale e applicando questa regola, le prime due righe appariranno così:


 




 


Tuttavia, aspettate un attimo: cosa succede con la prima e l’ultima casella della riga 2, laddove la casella, nella riga 1, ha soltanto un vicino? Non dovremmo considerare tale questione se la riga 1 fosse infinitamente lunga in entrambe le direzioni, ma, purtroppo, non godiamo di questo privilegio. Cosa facciamo in questi due casi? Basta guardare la casella sopra di essa e l’unica vicina, e usare la stessa regola – se una sola di quelle due è occupata, la casella della riga 2 sarà occupata; se entrambe, o nessuna delle due, sono occupate, la casella della riga 2 sarà libera. Così, con quest’aggiustamento, le prime due righe appaiono in questo modo:


 




 


Ora impiegate la stessa regola per generare la riga 3:


 




 


Continuate, se non avete altro da fare.


Ora, consideriamo questo stato iniziale e impieghiamo la stessa regola:


 




 


Le prime due righe appariranno così:


 




 


Se completate le prime 250 righe (circa), otterrete questo:


 




 


Se partite da uno stato iniziale diverso, casuale, e più ampio, applicando la stessa regola, più e più volte, otterrete questo:


 




 


Whoa.


Ora provate con questo stato iniziale:


 




 


Alla riga 2, otterrete questo:


 




 


E non cambierà nulla nelle righe successive. In effetti, con questo particolare stato iniziale, la riga 2 è tutta composta da caselle libere, e questo caso si ripeterà in ogni riga successiva. Il pattern della riga 1 viene annullato.


Ora, descriviamo quanto abbiamo imparato in modo metaforico, anziché impiegare termini come input, output e algoritmo. Dati alcuni stati iniziali e la regola che definisce la riproduzione di ogni generazione successiva, le cose possono evolvere verso stati maturi estremamente interessanti, ma si danno casi in cui si osserva un’estinzione, come nell’ultimo esempio.


Perché stiamo impiegando metafore biologiche? Perché questo metodo per la generazione dei pattern è analogo a quello che viene impiegato in natura (si veda la figura nella pagina successiva).


Abbiamo appena esplorato un esempio di automa cellulare, dove si inizia con una riga di celle che sono libere o occupate, si definisce una regola di riproduzione e si lascia che il processo iteri.[*][5]


 




 


A sinistra, un vero guscio; a destra, un pattern generato da un computer


La regola che abbiamo seguito (se e solo se una sola casella del trio sopra è occupata…) è chiamata regola 22 nell’universo degli automi cellulari, che è composto da 256 regole.[*] Non tutte quelle regole generano qualcosa di interessante – a seconda dello stato iniziale, alcune producono un pattern che si ripete all’infinito, in maniera monotona, inerte e senza vita, o che si estingue alla seconda riga. Per la verità, poche di quelle stesse regole generano modelli complessi e dinamici. Tra queste, la regola 22 è una di quelle che ha suscitato il maggior interesse. Alcune persone hanno dedicato un’intera carriera allo studio del caos che genera.


Cosa c’è di “caotico” nella regola 22? Orbene, abbiamo appena osservato che, a seconda dello stato iniziale, applicando la regola 22 potete ottenere uno dei tre pattern maturi: (a) nulla, perché il pattern si estingue; (b) un pattern periodico, cristallizzato, noioso e inorganico; (c) un pattern che cresce, si contorce, cambia, con regioni strutturate che lasciano spazio solo a un profilo dinamico e organico. Ma ecco la questione fondamentale: non c’è modo di partire da uno stato iniziale irregolare e prevedere come si sarà evoluto alla riga 100, o alla riga 1000, o alla riga associata a qualsivoglia numero. Dovete stabilire la configurazione di ogni riga intermedia, simulandola, per definire lo stato che intendete considerare. È impossibile prevedere se la forma matura di uno stato iniziale particolare si estinguerà, si cristallizzerà, o si rivelerà dinamica. Non si può predire nemmeno, se avremo a che fare con un caso che appartiene alle due ultime categorie, quale sarà il pattern. Credetemi, ci hanno provato persone con spettacolari capacità matematiche, e hanno fallito. Questo limite, paradossalmente, si estende fino a poter dimostrare l’impossibilità che, da qualche parte, pochi passi prima di raggiungere l’infinito, l’imprevedibilità, associata al caos, si “calmerà” improvvisamente, trasformandosi in un pattern “ragionevole” e ripetitivo. Dunque, abbiamo innanzi a noi una versione del problema dei tre corpi, con interazioni che non sono né lineari né additive. Non si può quindi adottare un approccio riduzionistico, scomponendo i fenomeni nelle loro parti componenti (le otto possibili combinazioni diverse delle triadi di caselle e i loro esiti nella riga successiva), pensando di poter prevedere ciò che otterrete. Questi non sono sistemi per costruire orologi. Servono invece per generare le nuvole.[6]


Ricapitolando, abbiamo appena stabilito che conoscere uno stato iniziale irregolare non ci offre alcun potere predittivo in merito allo stato finale: dovrete semplicemente simulare ogni passo intermedio per scoprirlo.


Ora, considerate la regola 22 applicata a ciascuno di questi quattro stati iniziali (si veda la figura successiva).


Due di questi quattro, dopo dieci generazioni, producono un pattern che rimane tale per il resto del tempo. Vi sfido a individuare, con un colpo d’occhio, quali saranno quei due. Ebbene, non si può fare.


Prendete della carta a quadretti e analizzate l’esempio, vedrete che due convergono. D’altro canto, conoscere lo stato maturo di un sistema del genere non vi offre alcuna possibilità di inferire quale fosse lo stato iniziale, né se si tratta dell’esito che deriva da più stati iniziali diversi, dal momento che questa è un’altra caratteristica distintiva del caos insito in questo sistema.


 




 


Infine, considerate il seguente stato iniziale:


 




 


Che si estingue alla terza riga:


 




 


Ora, introducete un piccolo cambiamento in quello stato iniziale, ossia cambiate lo stato libero/occupato in una sola delle venticinque caselle – la casella 20 ora è occupata invece che libera:


 




 


E improvvisamente, la vita esplode, dando luogo a un pattern asimmetrico (si veda la figura successiva).


Per dirla in termini biologici: una singola mutazione, nella casella 20, può generare conseguenze importanti.


 




 


Ricorrendo al formalismo della teoria del caos: questo sistema mostra una dipendenza sensibile dalla condizione iniziale della casella 20.


Diciamolo con le parole che appaiono, in fin dei conti, più significative: una farfalla nella casella 20 ha, o non ha, battuto le ali.


Mi piace molto lavorare con questi pattern. Uno dei motivi è dovuto alle modalità con cui si possono modellizzare i sistemi biologici, un’opportunità ampiamente sviluppata e studiata da Stephen Wolfram.[*] Gli automi cellulari sono anche straordinariamente interessanti perché potete aumentarne la dimensionalità. La versione che abbiamo considerato qui è unidimensionale, nel senso che si parte con una linea di caselle e si generano altre linee. Il “Gioco della vita” inventato da John Conway, un matematico che lavorava a Princeton, è una versione bidimensionale in cui si parte con una griglia di caselle dalla quale si genera quella che rappresenta la generazione successiva. Questo sistema produce pattern dinamici e caotici assolutamente sorprendenti, di solito descritti come configurazioni di singole caselle che sono definite “vive” o “morte”. Tutti i pattern manifestano le proprietà usuali: non potete predire lo stato maturo considerando lo stato iniziale, dovete simulare ogni passo intermedio; non potete inferire lo stato iniziale considerando esclusivamente quello maturo, poiché si dà la possibilità che più stati iniziali convergano sullo stesso stato maturo (torneremo su questa caratteristica della convergenza, descrivendone la rilevanza); il sistema mostra una dipendenza sensibile dalle condizioni iniziali.[7]


(C’è un altro ambito classico, peraltro ampiamente discusso, a cui si fa riferimento quando si introduce il concetto di caos. Ho evitato di trattarlo qui perché ho imparato, a mie spese, nel corso delle mie lezioni, che è molto difficile e/o non sono bravo a spiegarlo. Se siete interessati, leggete qualcosa in merito alla ruota idraulica di Malkus (nota anche come ruota di Lorenz), alla transizione al caos per raddoppiamento di periodo, e anche all’importanza del periodo 3 per innescare il caos.)


Dopo aver concluso questa introduzione, possiamo ora apprezzare il prossimo capitolo dedicato a questo ambito di ricerca – inaspettatamente, alcuni concetti della teoria del caos sono diventati molto popolari, diffondendo i semi per far germogliare un certo stile di pensiero associato alla credenza nel libero arbitrio.


*Di William Pène du Bois, Viking Books for Young Readers, New York 1947.


*Chaos: Making a New Science di James Gleick (prima edizione Viking Press, New York 1987; trad. it. Caos. La nascita di una nuova scienza, Rizzoli, Milano 2018).


* La stessa strategia è stata impiegata al fine di sequenziare, per la prima volta, il genoma umano. Supponiamo che un particolare tratto di DNA, composto da nove unità, si riveli eccessivamente lungo per essere sistematicamente sequenziato – diciamo che le tecniche di laboratorio non sono ancora adeguate. Ora, tagliate quel tratto in una serie di frammenti abbastanza corti da poterli sequenziare, diciamo, frammento 1/2/3, frammento 4/5/6 e frammento 7/8/9. Adesso, prendete una seconda copia di quello stesso tratto di DNA e tagliatela secondo un diverso pattern: frammento 1, frammento 2/3/4, frammento 5/6/7, frammento 8/9. Tagliate una terza copia in questo modo: 1/2, 3/4/5 e 6/7/8/9. Accoppiate i frammenti sovrapposti e conoscerete l’intera sequenza.


* L’attribuzione di pesi differenti alle è l’esito della transizione da “Aggiungete le variabili A e B insieme e otterrete una previsione decente su qualunque cosa” a “Aggiungete le variabili A e B insieme… e, poi, ricordate che la variabile A è più importante della variabile B”. Tuttavia, si può esser ancora più raffinati: “Sommate insieme le variabili A e B… e fate in modo che la variabile A abbia un peso nell’equazione, diciamo, 3,2 volte maggiore rispetto alla variabile B.”


* Ciò significa che il passato e il futuro sono “identici”, che non esiste la freccia del tempo, che gli eventi che accadranno tra un secondo, nel futuro, saranno già il passato quando saranno trascorsi due secondi. Tutto ciò mi fa sentire a disagio, direi nauseato, perché mi viene in mente che, in qualche istante che appartiene al futuro, sono già morto.


* Le persone che lavorano in questo ambito di ricerca passano molto tempo a dibattere se le variazioni esponenziali siano eventi occasionali, probabili o inevitabili, laddove l’esito dipende dall’esponente di Lyapunov e dal tempo caratteristico. Non ho idea di cosa significhi ciò, e questa nota a piè di pagina è totalmente ingiustificata. Le opinioni divergenti sugli aumenti esponenziali sono state considerate da Robert Bishop, il filosofo e matematico del Wheaton College, il quale conclude che la prospettiva secondo cui i sistemi caotici manifestano sempre variazioni esponenziali, nella dimensione dell’imprevedibilità, è una “leggenda”, che si traduce in un’occasione per ridere.


* Le oscillazioni dell’imprevedibilità intorno alla risposta prevista in un attrattore strano mostrano alcune proprietà sorprendentemente interessanti:

A. La prima è un’estensione dell’esperienza di Lorenz con le sue sei cifre decimali. Dunque, sappiamo che i valori nelle oscillazioni caotiche non raggiungono mai effettivamente l’attrattore, poiché continuano semplicemente a “danzarci” intorno. Se state manifestando un certo scetticismo in merito a questa faccenda del caos, sappiate che, prima o poi, questo insieme strano di risultati che state ottenendo si stabilizzerà per “corrispondere” a ciò che avete previsto. In effetti, sembra proprio che questo accada – le vostre belle previsioni lineari dicono che il valore osservato, a un certo punto, dovrebbe essere, diciamo, 27 unità di qualcosa. Ed è esattamente quel che misurate. Ah, quindi: “tanto rumore per nulla”, giusto per dire che questo sistema è imprevedibile. Poi, arriva un tizio che si occupa della teoria del caos e vi dà una lente d’ingrandimento, guardate bene e vi rendete conto che il valore osservato non era 27, bensì 27,1. Ciò contrasta con quel previsto 27,0. “Okay, okay,” dite voi “non credo ancora alle facezie di questa ‘benedetta’ teoria del caos. In realtà, ciò che abbiamo appena imparato è che dobbiamo essere precisi, considerando una cifra decimale.” Poi, in un certo momento futuro, quando avete previsto che la misura dovrebbe essere, diciamo, 47,1, ed è esattamente quello che osservate, imprudentemente esclamate: “addio, teoria del caos!” Ma quel tizio che si occupa della teoria del caos vi propone di usare una lente d’ingrandimento ancora più potente: il valore osservato è 47,09, invece del previsto 47,10. Ok, questo non dimostra che la matematica contenga elementi caotici; dobbiamo solo essere ancora più precisi, e considerare due cifre decimali. Poi trovate una discrepanza alla terza cifra decimale. Successivamente, aspettando abbastanza a lungo, ne individuate una che riguarda la quarta. E così via, all’infinito, sicché i risultati non sono ancora prevedibili (ma se poteste “superare” quello stesso infinito, allora lo sarebbero perfettamente. In altre parole, il caos indica, solo superficialmente, che Laplace aveva torto – soprattutto ci sta consentendo di inferire quanto sia “esteso” l’infinito. Così, l’ampiezza delle oscillazioni caotiche intorno a un attrattore strano rimane la stessa, indipendentemente dalla lente di ingrandimento con cui la state osservando (insomma, rilevate qualcosa di simile alla natura scale-free che caratterizza i frattali).

B. Le oscillazioni intorno ai valori previsti sono la manifestazione della loro “strana attrazione” nei riguardi di ciò che è predetto. Tuttavia, il fatto che le oscillazioni non raggiungano mai esattamente il valore previsto (a una sufficiente scala di ingrandimento) mostra che un attrattore strano respinge, oltre che attrarre.

C. Una razionale estensione di queste idee prevede che il pattern delle oscillazioni, intorno al valore previsto, non si ripeta mai. Anche se vi sembra che tale pattern oscilli attorno allo stesso punto, peraltro imprevisto, della settimana scorsa, se guardate meglio, vi accorgerete che le cose stanno in un modo leggermente diverso. Insomma, rileverete la stessa caratteristica scale-free. Quando un pattern dinamico si ripete più e più volte, si dice che è “periodico”, e il suo comportamento all’infinito può essere espresso in maniera molto sintetica, per esempio dicendo “Va avanti così per sempre” oppure “si alternano questi due pattern per sempre” (con ciò si sta affermando che le variazioni prevedibili tra più configurazioni dell’oscillazione è il pattern stesso). Invece, quando il pattern è caratterizzato da oscillazioni imprevedibili, intorno a un attrattore strano, non si ripete mai, fino alla fine dei tempi, perciò è definito “non periodico” (la stessa espressione che compare nel titolo dell’articolo di Lorenz). In un caso del genere, l’unica descrizione possibile di un pattern infinitamente lungo deve essere altrettanto estesa. (Jorge Luis Borges ha scritto un racconto molto breve [costituito da un solo paragrafo], che s’intitola Del rigore nella scienza, in cui un cartografo crea una mappa perfetta di un impero, senza tralasciare alcun dettaglio; la mappa, ovviamente, è grande quanto l’impero.)


* Ray Bradbury anticipò tutto ciò nel suo racconto del 1952, intitolato Rumore di tuono. Un uomo viaggia all’indietro nel tempo, per sessanta milioni di anni, facendo attenzione a non “alterare” nulla, nel corso del suo viaggio. Inevitabilmente, cambia qualcosa e, poi, ritorna al presente, aspettandosi che il mondo sia diverso – Bradbury scrisse che quell’uomo aveva destabilizzato una piccola tessera del domino che, però, ne aveva fatte cadere altre più grandi e, infine, alcune gigantesche. Qual è stato l’impatto infinitamente piccolo che quell’uomo ha indotto nel passato? Ha calpestato una farfalla. Vi pare che si tratti di una mera coincidenza il fatto che la farfalla rientrasse nella metafora suggerita a Lorenz dal suo amico? Personalmente, credo di no.


* La griglia, in larghezza, è composta da 14 caselle; ognuna può trovarsi in uno dei 2 stati contemplati; quindi, il numero totale di pattern possibili è 2 alla quattordicesima potenza, ovvero 16.384.


* Una parola ricca di significato.


* Gli automi cellulari sono stati così denominati e studiati, per la prima volta, da John von Neumann, il matematico/fisico/informatico ungherese naturalizzato statunitense nel corso degli anni Cinquanta del secolo scorso. È praticamente obbligatorio definirlo un genio. È stato un bambino estremamente precoce – a sei anni, era in grado di dividere numeri di otto cifre a mente e comprendeva perfettamente il greco antico. Un giorno, più o meno a quella stessa età, osservando sua madre persa nei suoi pensieri e le chiese: “Cosa stai calcolando?” (A differenza della figlia di un mio amico, la quale, osservando suo padre assorto, gli ha domandato: “Papà, a quale caramella stai pensando?”)


*Ritornando al nostro insieme di istruzioni per la regola 22: basta osservare la prima riga. Come abbiamo visto, ci sono otto combinazioni triadiche possibili. Ciascuna, nella generazione successiva, può produrre due stati possibili, ovvero libero o occupato. Per esempio, il nostro primo trio, dove tutte e tre le caselle sono occupate, potrebbe portare a una casella della riga 2 libera (come otterremmo applicando la regola 22) o a una che è occupata (in base all’applicazione di altre regole). Così, considerando due stati possibili per ciascuna delle otto combinazioni triadiche avremo 28, ovvero 256, ovvero il numero totale delle regole possibili in questo sistema.


* Come già abbiamo detto riguardo a von Neumann, è impossibile menzionare Wolfram senza riconoscere la sua straordinaria genialità. Wolfram ha scritto tre libri di fisica delle particelle all’età di quattordici anni, era professore al Caltech a ventuno, ha prodotto un linguaggio e un sistema informatico chiamato Mathematica che è ampiamente utilizzato, ha contribuito a creare il linguaggio con cui gli alieni comunicavano nel film Arrival, ha generato un atlante degli automi cellulari, che vi permette di giocare con le 256 regole, ecc., ecc. Nel 2002, ha pubblicato un libro intitolato A New Kind of Science, nel quale argomenta in merito al fatto che i sistemi computazionali, come, per esempio, gli automi cellulari, siano fondamentali per tutto, dalla filosofia all’evoluzione, dallo sviluppo biologico al postmodernismo. Ciò ha generato molte controversie, che ruotavano attorno alla domanda se questi sistemi computazionali siano strumenti adeguati per generare modelli di fenomeni che appartengono al mondo reale, o se, invece, si dia il caso che non facciano altro che generare la loro stessa complessità (una parte delle critiche si concentrano sul fatto che i fenomeni, in natura, non progrediscono per “step temporali” discreti e sincronizzati, come accade in questi modelli). Molte persone non sono apparse particolarmente entusiaste in merito alla grandiosità di certe affermazioni espresse nel libro (a cominciare dal titolo), e anche per la presunta tendenza di Wolfram a rivendicare come propria ogni idea descritta nel volume stesso. Nondimeno, tutti ne hanno comprato una copia e ne hanno discusso all’infinito (e quasi mai l’hanno effettivamente letto fino alla fine, visto che è composto da 1.192 pagine – sì, io compreso).


1 Questi concetti sono discussi in A. Maar, “Kinds of Determinism in Science”, Principia, 23, 2019, pp. 503-528.


2 E. Lorenz, “Deterministic Non-periodic Flow”, Journal of Atmospheric Sciences, 20, 1963, pp. 130-141.


3 Occasione per ridere: R. Bishop, “What Could Be Worse Than the Butterfly Effect?”, Canadian Journal of Philosophy, 38, 2008, pp. 519-547. Attrattori strani sia repulsivi sia attrattivi: J. Hobbs, “Chaos and Indeterminism”, Canadian Journal of Philosophy, 21, 1991, pp. 141-164.


4 “A Sound of Thunder” si può reperire in R. Bradbury, The Golden Apples of the Sun, Doubleday, New York 1953 (trad. it. Le auree mele del sole, La Tribuna, Piacenza 1964).


5 Nota a piè pagina: M. Mitchell, Complexity: A Guided Tour, Oxford University Press, Oxford-New York 2009.


6 Per una discussione particolarmente chiara di queste idee, si veda: M. Bedau, “Weak Emergence”, Philosophical Perspectives, 11, 1997, pp. 375-399.


7 C. Gu et al., “Three-Dimensional Cellular Automaton Simulation of Coupled Hydrogen Porosity and Microstructure during Solidification of Ternary Aluminum Alloys”, Scientific Reports, 9, 1, 2019. Su YouTube è possibile trovare una serie di video che mostrano automi cellulari 3D, che sono spettacolari. Per esempio: Softology, “3D Cellular Automata”, 5 dicembre 2017, YouTube video, 2:30, youtube.com/watch?v=dQJ5aEsP6Fs; Softology, “3D Accretor Cellular Automata”, 26 gennaio 2018, YouTube video, 4:45, youtube.com/watch?v=_W-n510Pca0.

Nota a piè pagina (p. 142): S. Wolfram, A New Kind of Science, Wolfram Media, Champaign (IL) 2002.

Ok, ho un’orribile confessione da fare. A p. 179, c’è un’immagine che rappresenta gli automi cellulari complessi, del tutto caotici e imprevedibili, che si possono generare con la regola 22. Ecco quel che vi devo confessare: questa immagine, in realtà, non è stata realizzata con la regola 22, bensì con la regola 90, che è strettamente correlata. L’immagine che mostrava una versione incredibilmente complessa e meravigliosa dell’applicazione della regola 22 era di pessima qualità, non sono riuscito a trovare niente di meglio, non ho fatto progressi nel convincere l’impero Wolfram a mandarmi un’immagine con una risoluzione più alta... e, in un momento particolarmente buio della notte, quando l’anima è messa alla prova, con in sottofondo il ticchettio dell’orologio, ho deciso di inserire una bella immagine generata con la regola 90. Il punto è lo stesso: conoscere lo stato iniziale e la regola di riproduzione (90, in questo cacoscienza.A dà alcuna possibilità di predire come apparirà una versione complessa. In effetti, mette in luce la caoticità degli automi cellulari in modo ancora più efficace: nessuno (confermatemelo, vi prego) guardandola potrebbe dire che questo modello complesso sia nato dall’applicazione della regola 22 o della a regola 90. Mi sono tolto un peso dalla coscienza.

6.

IL LIBERO ARBITRIO È CAOTICO?

 


 


 


 


L’era del caos

Nei primi anni Sessanta del secolo scorso, la teoria del caos, gli attrattori strani e la dipendenza sensibile dalle condizioni iniziali, hanno generato un fermento che si è diffuso con rapidità nel mondo intero, modificando, fin nei fondamenti, ogni cosa, dalle riflessioni filosofiche più alte e raffinate alle banali preoccupazioni relative alla vita quotidiana.


In realtà, non accadde nulla di tutto ciò. Il rivoluzionario articolo di Lorenz, pubblicato nel 1963, fu per lo più accolto dall’indifferenza. Ci vollero anni perché iniziasse a essere considerato. Di fatto, ciò avvenne principalmente grazie a un gruppo di studenti universitari di fisica della University of California, Santa Cruz, i quali, probabilmente, passavano molto tempo sotto l’effetto di stupefacenti, dedicando la loro attenzione a qualcosa di stravagante, come, per esempio, il caos in relazione al gocciolamento di un rubinetto.[*] I teorici mainstream ignorarono per lo più le implicazioni di quella rivoluzione.


In parte, quella negligenza rifletteva il fatto che il nome “teoria del caos” è un nome straordinariamente disorientante e inadeguato, In effetti, non ha niente a che vedere con il caos nichilistico, dal momento che mette in luce pattern strutturali nascosti nella confusione apparente. Il principale motivo a cui si deve il rallentamento della diffusione della teoria del caos è rappresentato dal fatto che, se disponete di un mindset riduzionistico, le “irrisolvibili” interazioni non lineari, tra un gran numero di variabili, si riveleranno un problema realmente fastidioso. Quindi, la maggior parte dei ricercatori ha cercato di occuparsi di questioni complicate, limitando il numero delle variabili considerate, affinché i fenomeni rimanessero docili e gestibili. Ciò garantiva, peraltro, di giungere a una conclusione sbagliata; ovvero, che il mondo è conoscibile facendo riferimento principalmente alla prevedibilità lineare, additiva, mentre il caos non lineare rappresenterebbe soltanto una strana anomalia, di cui non tener conto nella gran parte dei casi. Fino al momento in cui non è stato più possibile ignorare che il caos si nascondeva dietro alle questioni complesse più affascinanti. Una cellula, un cervello, una persona, una società… assomigliavano di più al caos caratteristico di una nuvola che al riduzionismo meccanicistico di un orologio.[1]


Nel corso degli anni Ottanta del secolo scorso, la teoria del caos si diffuse anche in ambito accademico (dopotutto, era il periodo in cui la generazione pionieristica dei fisici ribelli che fumavano l’erba iniziò a occupare le cattedre a Oxford, oppure a fondare società finanziarie le quali, impiegando quell’ipotesi, “saccheggiavano” il mercato azionario). Improvvisamente, comparvero riviste specializzate, si tennero conferenze, si aprirono dipartimenti e istituti interdisciplinari. Sono stati pubblicati libri e paper accademici che descrivevano le implicazioni del caos in merito all’istruzione, alla gestione aziendale, all’economia, al mercato azionario, all’arte e all’architettura (oltre all’interessante questione legata al fatto che percepiamo come più bella la geometria della natura rispetto, per esempio, agli edifici modernisti adibiti a uffici, perché la prima contiene “esattamente” la giusta quantità di caos), alla critica letteraria, agli studi di matrice culturale sulla televisione (osservando che, come i sistemi caotici, “le fiction sono contemporaneamente semplici e complesse”), alla neurologia e alla cardiologia (due discipline nelle quali, curiosamente, troppo poco caos sembra essere una condizione negativa).[*] Sono stati scritti persino articoli accademici in merito alla rilevanza della teoria del caos per la teologia (in uno, che ha un titolo meraviglioso, “Chaos at the Marriage of Heaven and Hell”, l’autore scriveva: “Coloro che, tra noi, cercano di considerare la cultura contemporanea nella riflessione teologica non possono concedersi di trascurare la teoria del caos”).[2]


 




 


Nel frattempo, l’interesse, più o meno profondo e accurato, per la teoria del caos si è diffuso anche nella platea del grande pubblico – chi avrebbe mai potuto prevederlo? C’erano calendari, appesi ovunque, con immagini di frattali. Romanzi, raccolte di poesie, diversi film, episodi di serie televisive, gruppi musicali, album e canzoni che si riferivano, in qualche modo, all’attrattore strano o all’effetto farfalla, nei titoli e nelle denominazioni.[*] Secondo quanto riportato in un sito gestito dai fan dei Simpson, nell’episodio in cui diventa allenatrice di una squadra di baseball, Lisa legge un libro intitolato Chaos Theory in Baseball Analysis. Tuttavia, il mio preferito è il romanzo Chaos Theory, che fa parte della serie “Nerds of Paradise”, pubblicata dalla Harlequin, in cui la nostra protagonista ha “messo gli occhi” su Will Darling, un bell’uomo che fa l’ingegnere. Nonostante la camicia sbottonata, gli addominali scolpiti e lo sguardo seducente e provocante, Will dev’essere senz’altro un nerd, dato che indossa gli occhiali.[3]


Il crescente interesse per la teoria del caos ha prodotto il suono “assordante” di un fantastiliardo di farfalle che sbattono le ali. Date queste premesse, era inevitabile che vari pensatori cominciassero a proclamare che l’imprevedibile, caotica, “nuvola” del comportamento umano sia la dimensione in cui si esprime, senza vincoli deterministici, il libero arbitrio. Spero che quanto già esposto nelle pagine precedenti, analizzando cos’è e cosa non è il caos, ci aiuterà a stabilire che tale eventualità non si dà. Nondimeno, la “spensierata” conclusione che il caos dimostri l’esistenza del libero arbitrio è stata declinata in almeno due forme.


Conclusione errata #1: la nuvola che sceglie liberamente

Per coloro che credono all’esistenza del libero arbitrio, il nocciolo della questione è la mancanza di prevedibilità – in innumerevoli casi della nostra vita, inclusi quelli altamente consequenziali, scegliamo tra X e non-X. Nemmeno un osservatore estremamente informato avrebbe potuto prevedere ognuna di queste singole scelte.


In questo senso, il fisico Gert Eilenberger scrive: “È semplicemente improbabile che la realtà sia completamente ed esaustivamente mappabile da costrutti matematici.” Questo perché “le capacità matematiche della specie Homo sapiens sono, in linea di principio, limitate, in ragione del loro fondamento biologico… A causa della presenza del caos, il determinismo di Laplace[*] non può essere assoluto; perciò, la questione relativa alla possibilità che si diano la casualità e la libertà è nuovamente aperta!” La punteggiatura è quella originale impiegata da Eilenberger; occorre notare che quando un fisico mette punti esclamativi in un suo scritto sta facendo davvero sul serio.[4]


Anche la biologa Kelly Clancy esprime una posizione simile in merito al caos nel cervello: “Col passare del tempo, le traiettorie caotiche si avvicineranno agli attrattori strani. Poiché il caos può essere controllato, si raggiunge un sottile equilibrio tra affidabilità ed esplorazione. Eppure, poiché è imprevedibile, il caos si rivela un ottimo candidato per assumere il ruolo di substrato dinamico del libero arbitrio.”[5]


Anche Doyne Farmer si esprime in un modo che mi pare deludente, considerando che è stato uno dei precursori della teoria del caos e dovrebbe saperne di più. “Sul piano filosofico, mi ha colpito [che il caos fosse] un modo operativo per definire il libero arbitrio, secondo una modalità che ci permette di conciliarlo con il determinismo. Il sistema è deterministico, ma non possiamo prevedere cosa accadrà dopo.”[6]


Infine, un ultimo esempio: il filosofo David Steenburg collega esplicitamente il libero arbitrio fondato sul caos con la dimensione morale. In effetti afferma: “La teoria del caos permette la reintegrazione dei fatti e dei valori, generando un’apertura dell’interpretazione rinnovata degli uni e degli altri.” Mi si conceda far notare, giusto per enfatizzare tale relazione, che l’articolo di Steenburg non è stato pubblicato su una qualche rivista scientifica o filosofica, bensì sulla Harvard Theological Review.[7]


Quindi, un gruppo di pensatori coglie il libero arbitrio nella struttura del caos. Compatibilisti e incompatibilisti dibattono in merito alla possibilità che si dia il libero arbitrio in un mondo deterministico, ma ora si può evitare di fare tutto quel “baccano” perché, secondo questi pensatori, il caos dimostra che il mondo non è affatto deterministico. Come riassume Eilenberger: “Dal momento che ora sappiamo che le più piccole differenze nelle condizioni iniziali possono generare stati finali completamente diversi (ovvero, decisioni), la fisica non può provare empiricamente l’impossibilità del libero arbitrio.” In questa prospettiva, l’imprevedibilità del caos significa che, sebbene non vi aiuti a provare che esiste il libero arbitrio, vi permetterebbe di affermare che non potete dimostrare che non ci sia.[8]


Eccoci, dunque, nella condizione di poter vedere chiaramente l’errore fondamentale che attraversa tutti questi argomenti: il determinismo e la prevedibilità sono “cose” molto diverse. Sebbene il caos sia imprevedibile, è comunque deterministico. Tale distinzione può essere formulata in molti modi. Il primo è che il determinismo vi permette di spiegare perché è successo qualcosa, mentre la prevedibilità vi consente di dar conto di ciò che accadrà dopo. Un altro modo è considerare la sfocata distinzione tra il piano ontologico e quello epistemologico; il primo riguarda ciò che sta succedendo, ovvero una questione associata al determinismo, mentre il secondo rinvia a ciò che è conoscibile, ponendo la questione in termini di prevedibilità. Una terza modalità passa per la differenza che intercorre tra “determinato” e “determinabile” (al quale si riferisce il titolo di un articolo impegnativo, intitolato “Il determinismo è ontico, la determinabilità è epistemica”, scritto dal fisico e filosofo Harald Atmanspacher).[9]


Gli esperti si “strappano i capelli” al pensiero che i sostenitori della posizione “caos = libero arbitrio” non riescano a cogliere queste distinzioni. “Si osserva una persistente confusione tra determinismo e prevedibilità”, scrivono i fisici Sergio Caprara e Angelo Vulpiani. D’altro canto, il “filosofo senza nome”, G.M.K. Hunt della University of Warwick, afferma: “In un mondo in cui la misurazione perfettamente accurata è impossibile, il determinismo fisico, classico, non comporta il determinismo epistemico.” La stessa idea viene espressa dal filosofo Mark Stone: “I sistemi caotici, seppur siano deterministici, non sono prevedibili [non sono deterministici sul piano epistemico]… Sostenere che i sistemi caotici siano imprevedibili non implica che la scienza non possa darne spiegazione.” I filosofi Vadim Batitsky e Zoltan Domotor, nel loro articolo intitolato con meravigliosa ironia “When Good Theories Make Bad Predictions”, descrivono i sistemi caotici come “deterministicamente imprevedibili”.[10]


Ecco un modo per considerare questo punto estremamente importante. Sono appena tornato a quel fantastico pattern che ho illustrato nel capitolo precedente (da pagina 173) e ho stimato che sia lungo circa 250 righe e largo 400 colonne. Tutto ciò significa che la figura è composta da circa 100.000 caselle, ognuna delle quali, ora, è libera o occupata. Prendete un grosso foglio di carta a quadretti, copiate lo stato iniziale della riga 1 dalla figura, e poi passate il prossimo anno, insonni, applicando la regola 22 a ciascuna delle righe successive, riempiendo le 100.000 caselle con la vostra matita hb. Alla fine, avrete generato lo stesso identico pattern della figura. Respirate profondamente, e fatelo una seconda volta; ovviamente, otterrete lo stesso risultato. Fate fare lo stesso esercizio a un delfino addestrato, che dispone di una straordinaria capacità imitativa: stesso esito. La riga “113”, tanto per prenderne una a caso, non sarebbe ciò che è perché voi, o il delfino, alla riga “112”, avete semplicemente scelto di far dipendere la condizione libera/occupata dallo spirito che vi muove o da ciò che pensate che direbbe Greta Thunberg. Quel pattern è l’esito dello sviluppo di un sistema completamente deterministico, costituito dalle otto istruzioni che compongono la regola 22. In nessuna delle 100.000 caselle avrebbe potuto manifestarsi un esito diverso (a meno che non si verifichi un errore casuale; tuttavia, come osserveremo nel capitolo 10, costruire l’edificio del libero arbitrio su sussulti casuali si rivela un’operazione abbastanza rischiosa). Proprio come la ricerca di un neurone non determinato da una causa precedente si rivelerà infruttuosa, si osserverà la stessa insormontabile difficoltà con le caselle.


Inquadriamo tutto ciò nel contesto del comportamento umano. È il 1922, e vi vengono presentati cento giovani destinati a condurre una vita convenzionale. Tuttavia, vi dicono che a distanza di circa quarant’anni, uno di quei cento si discosterà dall’abituale comportamento, dimostrandosi impulsivo e socialmente inadeguato, tanto che finirà per commettere dei reati. Ecco i campioni di sangue di ciascuna di queste persone; date un’occhiata. Ebbene, non c’è modo di predire quale persona si possa associare a una probabilità che trascenda il limite della casualità.


Ora siamo nel 2022. Stessa coorte, con ancora una persona destinata ad apparire deviante, a distanza di quarant’anni. Di nuovo, ecco i campioni di sangue. Questa volta, in questo secolo, li impiegate per sequenziare il genoma di tutti quei soggetti. Così, stabilite che un individuo manifesta una mutazione in un gene chiamato MAPT, che codifica per qualcosa nel cervello che chiamiamo proteina tau. In ragione di ciò, potete predire, con precisione, che sarà quella persona a discostarsi dal comportamento abituale, perché all’età di sessant’anni mostrerà i sintomi della variante comportamentale della demenza frontotemporale.[11]


Torniamo a considerare la coorte del 1922. Dopo quarant’anni, la persona in questione ha iniziato a rubare nei negozi, a minacciare gli estranei, a urinare in pubblico. Perché si è comportato in quel modo? Perché ha scelto di farlo.


Ora, prendiamo in esame la coorte del 2022: osserviamo gli stessi atti inaccettabili in quell’individuo. Perché si è comportato in quel modo? A causa di una mutazione deterministica in un gene.[*]


Secondo la logica dei pensatori appena citati, il comportamento della persona del 1922 è l’esito del libero arbitrio. Non lo si considera come “il risultato dei comportamenti che, erroneamente, stiamo attribuendo al libero arbitrio”. Quello era il libero arbitrio. Invece, nel 2022, non è il libero arbitrio. In questa odierna prospettiva, quel “libero arbitrio” è come chiamiamo la biologia che non comprendiamo ancora a livello predittivo, e, poi, quando ci raccapezziamo, smette addirittura di essere libero arbitrio. Anzi, non si dà soltanto il caso che smetta di essere scambiato per libero arbitrio; in verità, smette letteralmente di esistere. C’è qualcosa di sbagliato, se un’istanza in merito al libero arbitrio esiste solo fino a quando si riduce la nostra ignoranza. Ecco un punto fondamentale: le nostre intuizioni sul libero arbitrio certamente funzionano in questo modo, ma la stessa condizione non si applica al libero arbitrio stesso.


Facciamo qualcosa, manifestiamo un comportamento, sentiamo di aver scelto, percepiamo che c’è un Io, dentro di noi, distinto e separato da tutti quei neuroni, giungiamo a convincerci che tanto l’agency quanto la nostra volontà risiedono lì, in quella singolare istanza. Le nostre intuizioni ce lo “urlano”, ma è perché non conosciamo, non possiamo nemmeno immaginare, le “forze sotterranee” che riguardano la nostra storia biologica, le quali hanno davvero assunto un ruolo causale. Certamente, si tratta di confrontarsi con una sfida enorme, volta a superare quelle intuizioni, quando dobbiamo ancora attendere che la scienza sia in grado di predire, con precisione, quel comportamento. Nondimeno, la tentazione di equiparare il caos al libero arbitrio illustra quanto sia più difficile superare quelle intuizioni, quando si sa che la scienza non sarà mai in grado di prevedere, con precisione, gli esiti di un sistema deterministico.


Conclusione errata #2: un fuoco senza causa

La maggior parte del fascino che ammanta il caos deriva dal fatto che è possibile partire con alcune semplici regole deterministiche, applicarle a un sistema, per poi produrre qualcosa di elaborato ed estremamente imprevedibile. Abbiamo appena osservato che confondere questo fatto con l’indeterminazione innesca una tragica spirale associata alla credenza nel libero arbitrio. È ora il momento di parlare della seconda conclusione problematica.


Torniamo alla figura collocata a pagina 180


, grazie alla quale è possibile dimostrare che, applicando la regola 22 a due stati iniziali diversi, si osserva la trasformazione di entrambi nel medesimo pattern; quindi, non è possibile sapere, a posteriori, quale dei due rappresenti il vero punto di partenza.


Come abbiamo già indicato, questo è il fenomeno della convergenza. Quest’espressione è frequentemente impiegata in biologia evolutiva. In questo caso, il problema non risiede tanto nel fatto che non potete dire da quale dei due possibili antenati una particolare specie si sia evoluta (per esempio, “L’antenato degli elefanti aveva tre o cinque zampe? Chi può dirlo?”). La questione è più rilevante quando due tipi, molto diversi, di specie convergono adottando la stessa soluzione al medesimo tipo di sfida selettiva.[*] Tra i filosofi analitici, il fenomeno è chiamato sovradeterminazione – e vi si fa riferimento quando due percorsi diversi potrebbero determinare, ciascuno separatamente, la progressione verso il medesimo risultato. In questa convergenza c’è una perdita implicita di informazioni. Considerate una qualsiasi riga di un automa cellulare, e non solo non potrete prevedere cosa accadrà, ma nemmeno sapere cosa è successo, ovvero, quale percorso possibile ha generato lo stato attuale.


Questa questione della convergenza ha un parallelo sorprendente nella storia del diritto. Per via di una negligenza, un incendio divampa nell’edificio A. Nelle vicinanze, senza che ci sia alcuna relazione causale, un secondo comportamento negligente ne determina un altro nell’edificio B. I due incendi si espandono e convergono l’uno verso l’altro, mandando in fiamme l’edificio C, che si trovava nel mezzo. Il proprietario dell’edificio C fa causa agli altri due proprietari. Ma quale delle due persone negligenti è responsabile dell’incendio? Non io, potrebbe argomentare ciascuno dei due in tribunale, perché se il mio incendio non fosse accaduto, l’edificio C sarebbe comunque andato in fiamme. Ebbene, l’argomentazione sarebbe considerata legittima, nel senso che nessun proprietario sarebbe ritenuto responsabile. Questa era la situazione in vigore fino al 1927, quando i tribunali stabilirono, nel caso Kingston versus Chicago e NW Railroad, che è possibile essere parzialmente responsabili di quel che è accaduto, ovvero, che si possano stabilire “frazioni” di colpa.[12]


Ora considerate alcuni soldati allineati, che costituiscono un plotone di esecuzione, i quali stanno per uccidere qualcuno. Indipendentemente dal fatto che ognuno di quei soldati stia per premere il grilletto, essendo mosso dall’ossequiosa obbedienza a Dio e alla patria. Per la verità, in tali condizioni si percepisce spesso una certa ambivalenza, forse un senso di colpa indotto dall’idea di uccidere qualcuno, oppure la preoccupazione che la sorte potrebbe cambiare, mettendo noi davanti a un plotone di esecuzione. Per secoli, tutto ciò ha reso comune l’impiego di una singolare manipolazione cognitiva: un soldato, a caso, riceveva una cartuccia caricata a salve. Nessuno sapeva chi aveva effettivamente ricevuto quella cartuccia, sicché ogni soldato poteva pensare di non essere stato un assassino. Quando furono inventate le macchine per somministrare l’iniezione letale, alcuni stati stabilirono che era opportuno allestire due vie di veicolazione separate, ciascuna con una siringa piena di “veleno”. Due persone avrebbero premuto uno dei due pulsanti, e un sistema di casualizzazione, presente nella macchina, avrebbe infuso il veleno contenuto in una siringa nella persona condannata a morte, e quello dell’altra in un secchio. Non si teneva alcuna traccia di chi aveva fatto cosa. Ogni individuo poteva dunque pensare di non essere stato materialmente l’esecutore. Questi sono ingegnosi espedienti psicologici per “smorzare” il senso di responsabilità.[13]


Le dinamiche del caos rinviano a un trucco psicologico che appare, in qualche modo, associato. La caratteristica del caos per la quale conoscere uno stato iniziale non vi permette di predire cosa accadrà rappresenta un duro colpo inferto al riduzionismo classico. Tuttavia, il fatto di non sapere mai cosa è successo nel passato “demolisce” ciò che viene chiamato riduzionismo eliminativo radicale; ovvero, la disposizione a escludere ogni possibile causa di un fenomeno fino a quando non si è arrivati a individuarla.


Quindi, non potete dapprima “neutralizzare” il riduzionismo eliminativo radicale, per poi decidere quale singolo evento abbia causato l’incendio, quale pressione del pulsante abbia iniettato il veleno, o quale stato precedente abbia generato un particolare pattern caotico. Tuttavia, ciò non implica che l’incendio non sia stato causato da qualcosa, che nessuno abbia sparato al prigioniero trapassato dai proiettili, o che lo stato caotico sia emerso improvvisamente dal nulla. Escludere il riduzionismo eliminativo radicale non corrobora l’indeterminazione.


Tutto ciò dovrebbe apparire ovvio. Invece, queste sono le tendenziose conclusioni di alcuni sostenitori del libero arbitrio: se non possiamo dire cosa ha causato X, allora non è possibile escludere che sia indeterminato, e ciò apre uno spazio per collocarvi il libero arbitrio. Come ha scritto un influente compatibilista, è improbabile che il riduzionismo escluda la possibilità del libero arbitrio, “perché la catena delle cause e degli effetti è caratterizzata da soluzioni di continuo che minano tanto il riduzionismo radicale quanto il determinismo, almeno nella forma necessaria per confutare la libertà”. Dio mi aiuti, dato che sono giunto a “spaccare il capello” in merito a una “e”; nondimeno, resta fermo che la convergenza caotica non mina il riduzionismo radicale e il determinismo. Confuta solo il primo. Invece, secondo il punto di vista di quell’influente compatibilista, questo presunto scardinamento del determinismo sarebbe rilevante per i principi “su cui fondiamo la responsabilità”. Solo perché non potete dire su quale delle due pile infinite di tartarughe poggiate i piedi, non siete legittimati ad affermare che state fluttuando nell’aria.[14]


Conclusione

A questo punto, dove siamo arrivati? Abbiamo confutato il riduzionismo “istintivo, impulsivo, automatico”, abbiamo mostrato che il caos ha caratteristiche distanti dall’indeterminazione e dal nichilismo, e anche obiettato in merito all’idea che ci sia meno casualità di quanto pensiamo, dal momento che, spesso, rinveniamo una struttura tanto inaspettata quanto deterministica. Ebbene, tutto ciò è meraviglioso. Le stesse considerazioni valgono per il battito delle ali di una farfalla, per la manifestazione di pattern sulla superficie delle conchiglie marine, e anche per Will Darling. Tuttavia, per giungere al libero arbitrio, partendo da qui, è necessario “confondere” il fallimento del riduzionismo, in merito alla possibilità di descrivere precisamente il passato e prevedere il futuro, con un’evidenza a supporto dell’indeterminazione. Quando ci troviamo di fronte a fenomeni complicati, le nostre stesse intuizioni ci “supplicano” di riempire ciò che non comprendiamo; ci invitano a farlo anche in relazione a quel che non potremo mai capire, persino ricorrendo ad attribuzioni sbagliate.


È giunta l’ora di passare al prossimo argomento associato.


* Nel 1984, questo specifico interesse per il fenomeno ha condotto alla pubblicazione nella collana Science Frontier Express Series (Aerial Press, Santa Cruz 1984), dell’ormai leggendario paper di Robert Shaw, che si intitola The Dripping Faucet as a Model Chaotic System (“Il rubinetto che gocciola come sistema caotico modello”).


* In cardiologia, si osserva che i sistemi cardiovascolari più sani manifestano una maggiore variabilità caotica negli intervalli di tempo tra i battiti cardiaci. In neurologia, una quantità insufficiente di caos si rivela un segno del fatto che i neuroni generano potenziali d’azione con frequenze estremamente elevate, i quali esitano nella manifestazione di onde anormalmente sincrone – ovvero, è in corso una crisi epilettica. Al contempo, altri neuroscienziati hanno considerato in che modo il caos possa essere sfruttato dal cervello per migliorare la trasmissione di alcuni tipi di informazioni.


* La diffusione della teoria del caos ha anche determinato una proliferazione, che ho attentamente osservato, delle località in cui quella farfalla batte le ali. Oggigiorno, si riscontrano diverse citazioni che pongono la suddetta farfalla in Congo, nello Sri Lanka, nel deserto del Gobi, in Antartide e su Alpha Centauri. D’altro canto, il tornado sembra quasi sempre concretizzarsi in Texas, in Oklahoma o, considerando le testimonianze di Dorothy e Toto, in Kansas.


* Come ho già indicato nelle precedenti pagine del volume, Laplace è stato il filosofo del XVIII secolo che ha concepito il grido di battaglia del determinismo scientifico: se comprendeste le leggi della fisica che plasmano l’universo e conosceste l’esatta posizione di ogni sua particella, allora potreste stabilire, con precisione, ciò che è occorso in ogni momento, fin dall’inizio del mondo, e anche predire quel che accadrà in ogni momento successivo fino alla fine dei tempi. Questo significa che qualsiasi cosa si verifichi nell’universo è destinata ad accadere (in senso matematico, non teologico).


* Occorre ricordare che, come abbiamo osservato nel capitolo 3, è molto raro che un singolo gene si riveli in grado di produrre un effetto deterministico di questo genere. Dunque, è bene ribadire che quasi tutti i geni riguardano il potenziale e la vulnerabilità, piuttosto che l’inevitabilità, poiché interagiscono, secondo modalità non lineari, sia con l’ambiente sia con gli altri geni.


* In Kenya, ho osservato un interessante esempio di tutto ciò. Vicino all’equatore c’è il Monte Kenya, che, con i suoi oltre cinquemila metri, è la seconda montagna più alta dell’Africa. Tra i tanti aspetti interessanti di quel luogo c’è il clima, che è equatoriale alla base della montagna e glaciale in vetta (anche se rimarrà tale per poco, poiché la neve e il ghiaccio si stanno sciogliendo rapidamente); tale condizione produce ecosistemi completamente diversi a distanza di poche centinaia di metri. Nella zona montana, intorno ai 4.500 metri, ci sono alcune specie vegetali dall’aspetto strano. Un giorno, stavo chiacchierando con un biologo specializzato in evoluzione delle piante e, nel suo ufficio, c’erano foto che ne ritraevano una nel suo ambiente naturale. Così gli ho detto: “Ehi, vedo che sei stato sul Monte Kenya.” Lui mi ha risposto: “No, ho scattato quelle foto sulle Ande.” La pianta andina aveva ben poco in comune con quella keniota, eppure sembrava praticamente la stessa. A quanto pare, ci sono solo pochi modi per “essere” una pianta che vive ad alta quota, in prossimità dell’equatore; sicché queste specie vegetali, molto diverse, che vivono in parti lontane del globo, avevano attuato una convergenza su queste soluzioni. Tutto ciò rinvia implicitamente a una grande affermazione di Richard Dawkins: “Per quanti siano i modi che ci consentono di essere vivi, è certo che ce ne sono molti di più per essere morti.” Insomma, c’è un numero finito di modi che ci permettono di mantenerci vivi, e ciascuna specie vivente è arrivata a convergere su uno di questi.


1 Queste idee sono discusse in D. Porush, “Making Chaos: Two Views of a New Science”, New England Review and Bread Loaf Quarterly, 12, 4, 1990, pp. 427-442.


2 Alcuni riferimenti: M. Cutright, Chaos Theory and Higher Education: Leadership, Planning, and Policy, Peter Lang, New York 2001; S. Sule e S. Nilhan, Chaos, Complexity and Leadership 2018: Explorations of Chaotic and Complexity Theory, Springer, Cham 2020; E. Peters, Fractal Market Analysis: Applying Chaos Theory to Investment and Economics, Wiley, New York 1994; R. Pryor, The Chaos Theory of Careers, Routledge, New York-London 2011; K. Yas et al., “From Natural to Artificial Selection: A Chaotic Reading of Shelagh Stephenson’s An Experiment with an Air Pump (1998)”, International Journal of Applied Linguistics and English Literature, 7, 2018, p. 23; A. McLachlan, “Same but Different: Chaos and TV Drama Narratives”, tesi di dottorato, Victoria University, Wellington 2019, hdl.handle.net/10063/8046. Riflessioni teologiche: D. Gray, Toward a Theology of Chaos: The New Scientific Paradigm and Some Implications for Ministry, CiteSeer, 1997; D. Steenburg, “Chaos at the Marriage of Heaven and Hell”, The Harvard Theological Review, 84, 4, 1991, pp. 447-466; J. Eigenauer, “The Humanities and Chaos Theory: A Response to Steenburg’s ‘Chaos at the Marriage of Heaven and Hell’”, The Harvard Theological Review, 86, 4, 1993, pp. 455-469; D. Steenburg, “A Response to John D. Eigenauer”, The Harvard Theological Review, 86, 4, 1993, pp. 471-476.

Nota a piè pagina: J. Bassingthwaighte, L. Liebovitch, e B. West, Fractal Physiology, American Physiological Society, New York 1994; N. Schweighofer et al., “Chaos May Enhance Information Transmission in the Inferior Olive”, Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, 101, 2004, pp. 4655-4660.


3 Simpsons Wiki, s.v. “Chaos Theory in Baseball Analysis”, simpsons.fandom.com/wiki/Chaos_Theory_in_Baseball_Analysis; M. Farmer, Chaos Theory, Nerds of Paradise book 2, Amazon.com Services, 2017.


4 G. Eilenberger, Freedom, Science, and Aesthetics, in The Beauty of Fractals, a cura di H.-O. Peitgen e P.H. Richter, Springer, Cham 1986, p. 179.


5 K. Clancy, “Your Brain Is on the Brink of Chaos”, Nautilus, 25 giugno 2014.


6 Farmer è citato in James Gleick, Chaos: Making a New Science, Viking, New York 1987, p. 251 (trad. it. Caos. La nascita di una nuova scienza, Rizzoli, Milano 2018).


7 Steenburg, “Chaos at the Marriage” cit.


8 Eilenberger, “Freedom, Science, and Aesthetics” cit., p. 176.


9 A. Maar, “Kinds of Determinism in Science”, Principia, 23, 2019, pp. 503-528. Per un confronto tra determinismo complessivo e determinismo individuale, si veda: J. Doomen, “Cornering ‘Free Will’”, Journal of Mind and Behavior, 32, 2011, pp. 165-179; H. Atmanspacher, Determinism Is Ontic, Determinability Is Epistemic, in Between Chance and Choice: Interdisciplinary Perspectives on Determinism, a cura di R. Bishop e H. Atmanspacher, Imprint Academic, Thorverton-Charlottesville 2002. Per ulteriori approfondimenti su concetti come “determinismo parziale” e “determinismo adeguato”, si veda: J. Earman, A Primer on Determinism, Reidel, Dordrecht 1986; S. Kellert, In the Wake of Chaos: Unpredictable Order in Dynamic Systems, University of Chicago Press, Chicago 1993.


10 S. Caprara e A. Vulpiani, Chaos and Stochastic Models in Physics: Ontic and Epistemic Aspects, in Models and Inferences in Science. Studies in Applied Philosophy, Epistemology and Rational Ethics, vol. 25, a cura di E. Ippoliti, F. Sterpetti, e T. Nickles, Springer, Cham 2016, pp. 133-146; G. Hunt, “Determinism, Predictability and Chaos”, Analysis, 47, 1987, pp. 129-133; M. Stone, “Chaos, Prediction and Laplacean Determinism”, American Philosophical Quarterly, 26, 1989, pp. 123-131; V. Batitsky e Z. Domotor, “When Good Theories Make Bad Predictions”, Synthese, 157, 2007, pp. 79-103.


11 W. Seeley, “Behavioral Variant Frontotemporal Dementia”, Continuum, 25, 2019, pp. 76-100; R. Dawkins, The Blind Watchmaker, Norton, New York 1986, p. 9.


12 W. Farnsworth e M. Grady, Torts: Cases and Questions, terza edizione, Wolters Kluwer, New York 2019.


13 R. Sapolsky, “Measures of Life”, The Sciences, 34, 2, 1994, pp. 10-13.


14 M. Shandlen, Comment on Adina Roskies, in Moral Psychology, vol. 4, Free Will and Moral Responsibility, a cura di W. Sinnott-Armstrong, mit Press, Cambridge (ma) 2014, p. 139.