venerdì 6 settembre 2024

PENSARE L'UNIVERSO Italo Calvino e la scienza Massimo Bucciantini

 


PENSARE L'UNIVERSO

Italo Calvino e la scienza

Massimo Bucciantini

Il 9 maggio 1962 Italo Calvino scrive a Umberto Eco di voler redigere un manifesto «per una letteratura cosmica». A un certo punto della sua vita, all’inizio degli anni sessanta, Calvino guarda alla scienza come mai aveva fatto prima. Per comprendere «il nostro inserimento nel mondo», egli sente la necessità di occuparsi delle immagini che la scienza produce e del linguaggio che impiega nel farlo. Sarà per lui un punto di svolta. Poco più di quindici anni fa, Massimo Bucciantini aveva raccontato la centralità di questo passaggio in un volume pionieristico, che torna oggi in libreria arricchito di un ampio saggio introduttivo.

Attraverso l’impiego di numerose lettere e documenti di archivio, Bucciantini traccia le origini di un programma d’immaginazione e di scrittura che Calvino catalogherà sotto la voce «pensare l’universo» e che lo accompagnerà fino alla fine dei suoi giorni; un progetto che lo condurrà in territori inesplorati, verso un nuovo modo di fare letteratura. Non solo dovrà imparare a «navigare negli spazi intergalattici» ma, forte dello sguardo acquisito, lo utilizzerà per provare a comprendere come vivere in questo nuovo mondo, ripensando radicalmente il tema della condizione umana. Una rivoluzione copernicana, condotta nel tentativo di trovare delle vie d’uscita dal mondo di pietra che vede chiudersi sopra di sé. All’entropia dell’universo egli opporrà l’unico strumento che ha a disposizione: la sua fabbrica di parole, la sua idea di letteratura.


Introduzione alla nuova edizione

1. Le molte vite di uno scrittore.

Volgendo lo sguardo al passato recente, a me pare che ci sia una data che segna una discontinuità nel modo di leggere Italo Calvino. Da quando nel settembre del 2000 uscì nei «Meridiani» Mondadori un’ampia raccolta del suo epistolario1, la conoscenza di Calvino si è fatta ancora più articolata e sfaccettata. I percorsi scavati all’interno delle sue opere si sono ramificati, e altri camminamenti sono venuti alla luce, tanto che la trama delle sue parole ha disegnato una mappa ancora più intrecciata. A tal punto da considerare il suo epistolario come se fosse quasi un altro testo da aggiungere ai suoi scritti di narrativa e di saggistica. Un testo molto particolare, con tutte le ambiguità e i non detti che gli epistolari contengono. Ma se è vero che la vita non spiega la letteratura, forse non è meno vero che vita e letteratura non sono affatto due mondi separati. Come ha osservato Merleau-Ponty, «è certo che la vita non spiega l’opera, ma è altrettanto certo che esse comunicano»2. E ciò a dispetto di quanto lo stesso Calvino ha più volte dichiarato, sempre pronto a sottrarsi a qualunque confronto che non avesse al centro solo la pagina scritta. «Io sono ancora di quelli che credono, con Croce, che di un autore contano solo le opere. (Quando contano, naturalmente)», scriveva nel giugno del 1964 a chi, già allora, era pronto a dedicargli una monografia3. Un concetto che ripeterà più volte a tutti coloro che vorranno avvicinarsi ai suoi progetti di scrittura attraverso la conoscenza della sua vita.


Naturalmente non è mia intenzione fare tabula rasa degli studi del secolo scorso, come se non ci fossero state ricerche di valore, ricche di originalità, che hanno segnato in profondità i molti modi di leggere un autore così multiforme. Voglio semplicemente dire che alla luce di una vasta documentazione fino a quel momento ignota, molte interpretazioni hanno trovato un ulteriore banco di prova su cui confrontarsi, nuove fonti su cui cimentarsi, in cui scoprire conferme oppure impreviste battute d’arresto (e tra le battute d’arresto metterei senz’altro l’immagine di un Calvino postmoderno, che esiste solo per certa critica letteraria)4. Soprattutto si sono aperte nuove strade che mettono Calvino in relazione con il fuori, con il mondo esterno, fatto di incontri con libri e persone che in certi casi hanno avuto la forza di entrare in cortocircuito con le sue opere, modificandone senso e prospettiva.


Le oltre 1200 lettere contenute nel «Meridiano» Mondadori, che vengono in gran parte ad aggiungersi a quelle scritte come consulente editoriale, raccolte nel volume I libri degli altri, presentano una miniera di spunti e di riflessioni che servono da commento o da introduzione a molte delle sue opere. In alcuni casi ci rivelano le ragioni che lo hanno condotto a lavorare su determinati argomenti, ci aiutano a capire come si accende in lui la passione per certi scrittori o come nasce la distanza che lo separa da altri. Senza il suo epistolario – che viene ulteriormente incrementato in occasione delle celebrazioni del centenario della nascita5 – conosceremmo ben poco, per esempio, del suo progetto cosmicomico. Prima del 2000, le principali fonti a disposizione sarebbero state la premessa a La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche, il saggio Sfida al labirinto, uscito nel luglio del 1962, l’incipit della conferenza Esattezza inclusa nelle Lezioni americane, e la recensione al libro di Giorgio de Santillana, Fato antico e fato moderno, comparsa su «la Repubblica» il 10 luglio 19856.


Il suo «lavoro di rappresentazione e commento della realtà contemporanea» – per riprendere la definizione che lui stesso dava del suo essere scrittore7 – subisce nel periodo su cui mi soffermo in questo libro delle trasformazioni significative. Siamo nei primi anni sessanta, e «nel mare delle cose che si possono scrivere» Calvino sembra intenzionato a muoversi verso due direzioni tra loro complementari: da un lato c’è l’idea – che però viene subito abbandonata – di dare vita a una serie di racconti dal taglio fortemente saggistico, come La nuvola di smog, La speculazione edilizia, La formica argentina, e il più recente, La giornata d’uno scrutatore (che ha come centro i temi dell’«infelicità di natura, del dolore, la responsabilità della procreazione», che non aveva mai «osato sfiorarli prima d’ora»)8; dall’altro, invece, sta prendendo corpo un programma d’immaginazione e di scrittura che in un primo momento Calvino catalogherà sotto la voce «pensare l’universo» e che nel tempo diverrà preponderante. E mentre il primo proponimento avrebbe dovuto intitolarsi A metà del secolo, e raccogliere storie degli anni cinquanta – racconti di meditazioni ma anche di trasformazioni sociali, segni di un cambiamento in atto nella società contemporanea9 – il secondo si sarebbe concretizzato nel vasto programma cosmicomico che, a differenza del primo progetto, avrebbe avuto lunga vita: un filone creativo e di pensiero che Calvino non interromperà mai del tutto, coltivandolo fino alla fine dei suoi giorni.


Gli anni che vanno dal 1959 al 1963 sono un periodo di inquietudine, di incertezze e di dubbi su quali strade intraprendere. «Con Il cavaliere inesistente, nel 1959, avevo toccato il punto d’arrivo del mio lavoro in una certa direzione. Sapevo che non dovevo ricominciare a scrivere se non quando avessi avuto qualcosa da dire, e che avevo ormai chiuso un certo ciclo»10. Da allora gli ci vollero quattro anni prima di pubblicare il suo nuovo libro. Come ripeterà più volte, l’idea de La giornata d’uno scrutatore, che vide la luce alla fine di febbraio del ’63, era nata dieci anni prima, quando in occasione delle elezioni politiche del 7 giugno 1953 aveva varcato la soglia, in qualità di esponente del Partito comunista, della Piccola Casa della Divina Provvidenza, più nota come il Cottolengo, dal nome del suo fondatore Giuseppe Benedetto Cottolengo. Da allora quel luogo infernale e misterioso gli era rimasto scolpito nella memoria, ma per trasformarlo in scrittura aveva bisogno di tornarvi, di viverci più a lungo. Una nuova opportunità gli si presentò nel 1961, per un’altra tornata elettorale, quando ebbe modo di trascorrervi due giorni nel ruolo di scrutatore di seggio. L’esperienza fu così devastante che per mesi fu incapace di scrivere, quasi paralizzato, disse, dalle «immagini che avevo negli occhi, di infelici senza capacità di intendere né di parlare né di muoversi»11.


Ma quel racconto non segnò un nuovo inizio. «È un libro di punti interrogativi», «in questo libro, do solo notizie sul mio silenzio», dichiarerà in un’intervista ad Andrea Barbato nel marzo del ’6312. L’apertura di un altro ciclo, di un altro progetto di scrittura che lo condurrà verso i territori inesplorati di una letteratura cosmica, avverrà in quegli stessi mesi, ma si svilupperà lentamente e gradualmente.


Molteplici furono gli input che lo spinsero in questa direzione, primo fra tutti – insieme all’incontro fatale con Giorgio de Santillana nel marzo del 196313 – l’idea di accettare la sfida lanciata dal labirinto-mondo, dalle tante facce della realtà che sempre più lo turbavano ma insieme lo affascinavano. Anzi, proprio l’incontro con un fuori caotico, complesso e stratiforme lo portò a ripensare radicalmente al tema della condizione umana.


Ma a differenza di Croce, Calvino non è affatto convinto che avere un’opera in testa significhi possederla compiutamente, e quindi che il passaggio alla scrittura significhi solo «poterla ricordare». Per lui, «un’opera comincia a esistere solo quando si cominciano a mettere le parole sulla carta una dietro l’altra»14. Se lo scrivere è ancora solo una possibilità, fino a quando non diviene realtà quell’insieme di idee resta un qualcosa di indistinto e di vago, come una nuvola.


Oggi, dopo la pubblicazione di alcune lettere inedite alla moglie Esther Singer, Chichita, possiamo dire con certezza in che momento Calvino cominciò a dare forma scritta ai primi racconti cosmicomici. Accadde nella seconda metà di novembre del 1963 o, per essere ancora più precisi, nei giorni immediatamente seguenti all’11 novembre, dopo che ebbe inviato a Chichita questa lettera:


Querida Chichita, […] in questi giorni a San Remo mi sono rimesso a scrivere quel racconto che mi porto in testa da moltissimi anni e che ho cominciato a scrivere solo il giorno del mio 40° compleanno [il 15 ottobre] a casa tua. Veniva fuori abbastanza, anche se le mie idee sono abbastanza vaghe, ma ci mancava qualcosa che volevo dargli e che non so bene cos’è: qualcosa come una dimensione cosmica. Per farmi venire questa dimensione cosmica mi sono messo a sfogliare un libretto di divulgazione astronomica, poi a leggere le voci Cosmogony e Cosmology dell’Encyclopedia Britannica. Così mi sono venute delle altre immagini, delle altre idee e allora – messa da parte l’idea di quel racconto – mi sono messo a studiare un altro progetto: una serie di storie cosmicomiche, un nuovo genere letterario, «comicosmic» in inglese, «série comicosmique» in francese, che sta tra le comics di Popeye, Beckett, la science-fiction, Landolfi, Jules Verne, Borges, e Lewis Carroll15.


«Quel racconto che mi porto in testa da moltissimi anni» è con ogni probabilità Che spavento l’estate16 e a cui a un certo punto Calvino decide di conferire una «dimensione cosmica». Senza successo, a quanto pare. Ma nonostante questa impasse, la sua attenzione ai temi astronomici non cade nel vuoto, anzi, finisce per diventare un filone di ricerca che lo incuriosisce sempre di più. Sono idee e immagini che cominciano a vivere di vita propria e che gli fanno intravedere altre narrazioni possibili. «Mi sono messo a studiare un altro progetto»17. Dice proprio così: «a studiare». E non ci sorprende. Con altre parole lo aveva detto nell’intervista a Barbato di qualche mese prima: «Oggi, il bisogno di pubblicare per esserci, per esistere, non lo sento più. Bene o male, quelle cosine che avevo da dire le ho dette. Oggi il mio problema è un altro: è quello di capire il più possibile, è quello d’una mia costruzione interiore»18.


La lettera a Chichita che ho appena ricordato, e che solo adesso è stata resa pubblica, segna la genesi della scrittura delle Cosmicomiche. Lo prova il fatto che i primi racconti – La distanza della Luna, Sul far del giorno, Un segno nello spazio, Tutto in un punto – videro la luce di lì a poco, nel novembre del 1964, sulla rivista «Il Caffè», diretta da Giambattista Vicari:


Ma devo ancora provare a vedere come vengono. Se me ne vengono bene quattro o cinque, le darò al Caffè per il numero speciale, invece di quel racconto lungo che chissà quando riuscirei a finire19.


Ecco il tassello mancante, che ora spunta fuori e fa combaciare tutto perfettamente. Come dimostra anche un altro dettaglio. Nella nota di commento ai quattro racconti pubblicati su «Il Caffè», torna con alcune modifiche e aggiunte un brano della stessa lettera in cui Calvino elenca gli autori che in qualche modo lo hanno influenzato nel dare corpo al suo nuovo progetto:


Il procedimento delle Cosmicomiche non è quello della Science Fiction (cioè quello classico – e che pur molto apprezzo – di Jules Verne e H. G. Wells). Le Cosmicomiche hanno dietro di sé soprattutto Leopardi, i comics di Popeye (Braccio di Ferro), Samuel Beckett, Giordano Bruno, Lewis Carroll, la pittura di Matta e in certi casi Landolfi, Immanuel Kant, Borges, le incisioni di Grandville20.


Nella pagina a stampa ritroviamo i nomi di Popeye, Beckett, Landolfi, Verne, Borges, Lewis Carroll, ai quali si uniscono ora il poeta lunare Leopardi, l’irriducibile panteista visionario Giordano Bruno, il filosofo antimetafisico per eccellenza Immanuel Kant, il disegnatore fantasmagorico e dissacrante, autore di Un autre monde, Jean-Jacques Grandville e il pittore cileno cosmico Sebastian Matta21. E qui la distanza che separa Calvino dalla science-fiction è ancora più accentuata. Non solo perché quest’ultima è rivolta verso il futuro, mentre «ognuno dei miei racconti ha l’aria di fare il verso a un “mito delle origini”», ma anche e soprattutto per il diverso rapporto che Calvino stabilisce tra informazioni scientifiche e creazione fantastica22.


«Non hanno niente a che fare con la fantascienza ma sono un genere interamente nuovo»23. Lo riaffermerà nei primi anni settanta, quando il progetto sarà giunto al suo apice. In un’intervista dell’aprile 1972 dirà: «Tra il 1963 e il 1968 ho letto molti libri d’astronomia, soprattutto sulle ultime teorie cosmologiche e cosmogoniche. Da sollecitazioni fantastiche nate in margine a queste letture traggono spunto Le Cosmicomiche e Ti con zero. Credo che i racconti di questi due libri seguano vie completamente diverse dalla fantascienza: come modo d’immaginazione, come scrittura e come rapporto paradossale con l’orizzonte della scienza»24.


2. Un nuovo esperimento.

I primi anni sessanta coincidono dunque per Calvino con la scoperta di un nuovo modo di fare letteratura. «Ora ho solo Le Cosmicomiche in testa», ripeterà più volte25. È un’esperienza talmente pervasiva che anche dopo aver scritto i primi racconti decide di continuare a lavorarci, correggendoli e modificandoli, in un corpo a corpo che non sembra avere fine, mettendosi continuamente alla prova, come farebbe un artigiano nel fabbricare oggetti sempre migliori.


Molteplici sono le radici di questo esperimento. Tra queste, una è certamente da rintracciare nel suo primo soggiorno americano (dal novembre 1959 al maggio 1960). Non si finirà mai abbastanza di sottolineare quanto quei mesi furono per lui determinanti, quanto per uno scrittore già affermato e maturo come Calvino finirono per segnare un prima e un poi, uno spartiacque tra esperienze e mondi diversi. Per rendersene conto basta leggere l’intervista che rilasciò a Maria Craipeau, giornalista del «France-Observateur», nei giorni immediatamente seguenti il suo ritorno in Europa.


In quell’occasione, Calvino giunse in ritardo all’appuntamento che aveva con la giornalista in un caffè nel centro di Parigi. Ce lo immaginiamo quando tutto trafelato si siede al tavolo e inizia la sua conversazione così: «La prego di scusarmi. Sono proprio desolato, ma lei mi capirà: a pranzo ho incontrato Sartre. Sono appena ritornato dall’America, dove per sei mesi non ho sentito una sola parola di “conversazione ideologica”. E subito, appena arrivato, Sartre mi spiega le nuove posizioni della sinistra europea…»26.


Sembra una battuta al vetriolo inventata da Woody Allen per uno dei suoi film. Non importava aggiungere altro per far capire al proprio interlocutore in quale strana e comica situazione Calvino si trovasse. È un po’ come quando Voltaire dopo aver visitato l’Inghilterra tornò in Francia e descrisse ciò che aveva scoperto. Là aveva lasciato un nuovo mondo, quello vuoto newtoniano e straordinariamente dinamico della Borsa di Londra, qui, invece, nel continente, nulla era cambiato, a dominare era ancora il mondo pieno cartesiano, e i vortici senza fine delle discussioni engagé di ancien régime. Due mondi incommensurabili, così come lo erano per Calvino da un lato l’America, simbolicamente rappresentata dalla mastodontica Ibm Machine 705, e dall’altro un’Europa sempre più aggrovigliata nelle defatiganti conversazioni ideologiche che lui ben conosceva, e ormai equivalenti al mondo della vaghezza e dell’astrattezza che da tempo aveva deciso di abbandonare.


Ma il suo sguardo verso il futuro non deve trarre in inganno. Sarebbe superficiale e sbagliato concludere che il passato per lui contasse poco o assomigliasse ormai a una zavorra di cui disfarsi. Ed è proprio un’altra intervista rilasciata sempre nel 1960 a offrircene una prova esemplare e a farci capire quanto Calvino sia uno scrittore da maneggiare con cura.


Stesso anno e stesso contesto, dunque. Calvino è appena tornato dagli States, ma questa volta ad attenderlo non ci sono le discussioni con Sartre:


Qualche mese fa, tornavo dall’America, a Torino c’era quella serie di lezioni su cosa è stato il fascismo e l’antifascismo; ogni volta il teatro Alfieri gremito, e in mezzo a questa folla ritrovavo le facce di quel piccolo grande mondo che è l’antifascismo, la gente della resistenza, di nuovo insieme, qualsiasi via si fosse presa, e in più moltissimi giovani, facce nuove. Ebbene, è stato un bel ritorno in patria; ci siamo sempre, e contiamo; difatti, di lì a poco qualcosa si è visto27.


Ecco, in questo caso il ritorno dagli Stati Uniti è di segno opposto rispetto a quello parigino. Il fascino tutto tecnologico che Calvino subisce nel visitare l’Ibm o lo Stock Exchange, la Borsa di New York, non cancella il passato, ma coesiste con la passione civile di cui non ha affatto perso la memoria e che resterà un tratto costante della sua biografia e della sua attività di scrittore. Da lui mai rifiutata, semmai più nascosta o forse è più corretto dire trasfigurata, fino ad assumere le esili forme di uno sciame di effimere che con un guizzo tentano di sfidare il volto di Medusa.


Il progetto cosmicomico implica dunque non solo imparare a «navigare negli spazi intergalattici» ma anche cercare di comprendere come vivere in questo altro mondo, quali situazioni esistenziali e quali campi di forza riuscire a mettere in moto, e quali linguaggi sia necessario inventare per cogliere i suoi tratti più originali. Per questo, il suo impegno sarà totale e produrrà progressivi approfondimenti e ulteriori avanzamenti: dalle fiabe cosmologiche di Qfwfq ai racconti deduttivi di Ti con zero, passando attraverso la storia-cerniera di un mollusco che narra i suoi pensieri mentre fa una conchiglia, punto di arrivo delle Cosmicomiche e a sua volta punto d’inizio di un originalissimo percorso che lo porterà a riflettere sul concetto di tempo:


In Ti con zero cerco di vedere il tempo con la concretezza con cui si vede lo spazio. Nel racconto, ogni secondo, ogni frazione di tempo è un universo. Ho abolito tutto il prima e tutto il dopo fissandomi così sull’istante nel tentativo di scoprirne l’infinita ricchezza. Vivere il tempo come tempo, il secondo per quello che è, rappresenta un tentativo di sfuggire alla drammaticità del divenire. Quello che riusciamo a vivere nel secondo è sempre qualcosa di particolarmente intenso, che prescinde dall’aspettativa del futuro e dal ricordo del passato, finalmente liberato dalla continua presenza della memoria. Ti con zero contiene l’affermazione del valore assoluto di un singolo segmento del vissuto staccato da tutto il resto28.


Sono parole risalenti al gennaio del 1985, e vanno ben oltre il racconto a cui si riferiscono. Calvino prende spunto da quel testo di quasi vent’anni prima per provare a dire quanto quella stagione di scrittura sperimentale lo avesse portato a riflettere sulla vita e sui modi per tentare di «sfuggire alla drammaticità del divenire». L’ottimismo gnoseologico è ormai alle spalle, così come lo sono i suoi vari tentativi di dare un senso compiuto alla propria esistenza. Come abitiamo il tempo? Il racconto Ti con zero, con la sua immagine del mondo fondata sulla suddivisione in infiniti istanti-atomi-universo paralleli tra loro, è una possibile risposta a questo interrogativo. La risposta di chi si rende sempre più conto che una visione «felice» del tempo non è che una vana consolazione:


Ti con zero è lo sforzo di trovare la maniera migliore di abitare la tragicità. C’è ovviamente anche un modo migliore per superare la tragicità: dare una forma al divenire. Ma per far questo bisogna credere alla possibilità di dare una forma qualsivoglia alla propria vita, creando una storia con un senso compiuto. Ma a questa possibilità, che consentirebbe probabilmente un grado maggiore di felicità, credo sempre meno29.


Ma sottolineare questo aspetto – il suo disagio sempre crescente nei confronti della vita, che condurrà Giulio Bollati a definirlo «una delle voci più precise della disperazione contemporanea»30 – non significa mettere in secondo piano il suo continuo tentativo di trovare delle vie d’uscita per non restare schiacciati dal mondo di pietra che ci circonda, per evadere dalle città-fortezze che ci siamo costruiti. Calvino affiderà questo compito alla sua idea di letteratura. All’entropia del mondo egli opporrà l’unico strumento a sua disposizione: la sua fabbrica di parole, la sua idea di letteratura che, come la matematica, è «astrazione e formalizzazione»31.


Mario Barenghi ha sottolineato che Calvino diceva di sé «faccio lo scrittore», e non «sono uno scrittore»32. Il fare, invece dell’essere, acquista in lui quasi un valore assiomatico, che si porta dietro una quantità di corollari che proverò qui solo a elencare. A cominciare da un’immagine: quella di uno scrittore che non si ripete mai, che per tutta la vita non fa altro che costruire e poi verificare la tenuta di progetti diversissimi tra loro e da lui sempre considerati difficili da realizzare. Da questo deriva una conseguenza non meno importante, ovvero che Calvino è uno scrittore sperimentale nel senso più pieno del termine, che ha in odio tutto ciò che è fumoso e approssimativo perché sfugge a qualsiasi conferma o falsificazione. «L’inesattezza, la genericità, l’approssimazione, la sensazione di essere sulle sabbie mobili, ecco quel che mi irrita della parola. È per questo che scrivo: per dare a questa cosa approssimativa una forma, un ordine, una razionalità»33.


Di qui nasce il suo disgusto per la parola parlata, «per questa roba che esce dalla bocca, informe, molle»34. Che contiene in sé un enorme spreco: e per un «montaliano fanatico» (parole sue datate 1979)35 era una delle cose peggiori che potesse accadere. Un disgusto che arriva a un punto tale che in alcune interviste è lui stesso a costruirsi le domande e a fingere poi che siano state formulate dal giornalista di turno. In certi casi si tratta di vere e proprie autointerviste; in altri è Calvino a preferire la risposta scritta invece di quella parlata. «Non mi piace sentirmi parlare», dichiarerà più volte. Ma, ovviamente, il punto vero della questione era ben altro. E lo dirà lui stesso, in una conversazione con Marco D’Eramo: «Cercare di far diventare nella scrittura questa parola, che è sempre un po’ schifosa, qualcosa di esatto e di preciso, può essere lo scopo di una vita»36. Della sua, appunto, cioè di uno scrittore morale la cui attività non è mai disgiunta da quel «fare» sempre in rotta di collisione con qualunque atteggiamento moralistico e con «certo volontarismo campato in aria»37 (leggi, in questo caso, certa sinistra sessantottina).


«Un empirico come me», amava dire di sé stesso. «Per me la letteratura coincide col dubbio. Essa deve avanzare a tentoni, insegnare alle altre discipline che si può avanzare solo brancolando, tenendo conto di tutte le facce della realtà»38. Una letteratura sperimentale, dunque. E insieme figurale. Come quella che ritrovava ogni volta che leggeva Ariosto, dove «c’è solo pensiero figurale, pensiero per figure e immagini, che ci trascina. Una bella terapia, soprattutto contro i malanni del pensiero discorsivo, del pensare per generalità»39. Un’espressione non sua ma di Gianni Celati, che Calvino avrebbe condiviso senza riserve. Parola per parola. Come risulta da un passaggio di una conversazione con Ferdinando Camon del 1973: «Solo se il discorso è figurato, indiretto, non riducibile a termini generici, a facilonerie concettuali, cosciente delle proprie implicazioni, ambiguità, esclusioni, solo allora dice veramente qualcosa, non mente»40.


3. Gli esiti di un colpo di cannone.

A un certo punto, in questo libro mi soffermo sul colloquio che vi fu tra Italo Calvino e Daniele Del Giudice (pubblicato la prima volta nel gennaio del 1978). Un colloquio che è molto di più di un’intervista: una conversazione tra due scrittori che, a distanza di tanti anni, merita di essere riletta e ripensata. Del Giudice tocca uno dei temi cruciali del lavoro di Calvino, e lo fa partendo da una delle sue invenzioni più fantastiche e al tempo stesso più emblematiche: da quella palla di cannone che squarcia in due il visconte Medardo di Terralba. Molte sono le questioni e le riflessioni contenute in quel colpo di cannone. «Per te allora – osserva Del Giudice – molte divisioni possibili: soggetto/oggetto, ragione/fantasia, “la via di fuori” come Vittorini chiamava la politica, e quella di dentro; il Calvino articolista sull’“Unità” di Torino e quello che già andava per immagini nel Medio Evo. L’armonia per te è perduta dall’inizio. L’hai più ritrovata?»41.


La domanda non poteva essere più calzante. Così come la risposta non poteva essere più rigorosa. Del Giudice individua nel Visconte dimezzato il punto d’inizio della riflessione di Calvino sulla dissoluzione della categoria di integrità e interezza, anzi il punto d’inizio della consapevolezza che ogni idea di totalità sia solo un simulacro, un’illusione che contenga in sé qualcosa di falsamente vero, e dunque di dannoso e controproducente:


Ero intero e tutte le cose erano per me naturali e confuse‚ stupide come l’aria; credevo di veder tutto e non era che la scorza. Se mai tu diventerai metà di te stesso‚ e te l’auguro‚ ragazzo‚ capirai cose al di là della comune intelligenza dei cervelli interi. Avrai perso metà di te e del mondo‚ ma la metà rimasta sarà mille volte più profonda e preziosa. E tu pure vorrai che tutto sia dimezzato e straziato a tua immagine‚ perché bellezza e sapienza e giustizia ci sono solo in ciò che è fatto a brani42.


È Medardo-Calvino a parlare. E così continua: «Io ero intero e non capivo‚ e mi muovevo sordo e incomunicabile tra i dolori e le ferite seminati dovunque […]. Non io solo‚ Pamela‚ sono un essere spaccato e divelto‚ ma tu pure e tutti. Ecco ora io ho una fraternità che prima‚ da intero‚ non conoscevo: quella con tutte le mutilazioni e le mancanze del mondo. Se verrai con me‚ Pamela‚ imparerai a soffrire dei mali di ciascuno e a curare i tuoi curando i loro»43.


Venticinque anni più tardi, dopo aver scritto Le Cosmicomiche e Ti con zero, il suo giudizio, da questo punto di vista, non era sostanzialmente cambiato. Anzi, in qualche modo si era rafforzato. Se «la coscienza della lacerazione porta il desiderio d’armonia»44, Calvino aveva provato a cercarla sul piano cosmico, senza però trovarla neppure lì. Tant’è che la conclusione del suo progetto «pensare l’universo» accentuava ancora di più la privazione e l’assenza.


Il niente e il poco e l’Implosione furono i suoi ultimi esperimenti cosmicomici. Il primo, scritto nell’agosto del 1984, prendeva spunto da una serie di ragionamenti che proprio in quelle settimane gli inviò Franco Lucentini e che partivano da un articolo dell’astrofisico Eugene F. Mallove, Our Universe, Created from Nothing, uscito sul «Washington Post» il 3 giugno 1984, che inizia così: «C’era un tempo, forse 10 o 20 bilioni di anni fa, quando l’universo che noi conosciamo non esisteva. A quel “tempo”, infatti, né lo spazio né il tempo esistevano in alcuna forma a noi familiare. Questo concetto, certamente difficile da afferrare, è al centro del nuovo pensiero sulla struttura, l’origine e l’evoluzione dell’universo»45. Da qui Lucentini sviluppava una riflessione sul «niente» inteso come forma assoluta e ordine perfetto. E il racconto di Calvino ne fu a suo modo una prosecuzione, tutto incentrato sul modo di considerare quel «qualcosa» che ne derivò: «Così l’universo, da infinitesimo brufolo nella levigatezza del nulla s’espandeva fulmineo fino alle dimensioni d’un protone, poi d’un atomo, poi d’una punta di spillo, d’una capocchia, d’un cucchiaio, d’un cappello, d’un ombrello…»46. Di cui però solo alla fine del racconto il lucreziano Qfwfq riusciva a comprendere il significato più riposto, ben lontano da quella bramosia di totalità e di pienezza che in un primo momento lo avevano tanto invaghito. È un pensare l’universo che pochi conoscono e che va contro il senso comune. E che facendo propria la lezione dei suoi poeti-filosofi Montale e Caproni si trasforma in una precisa linea di condotta morale ed esistenziale47. Nella parte conclusiva del Niente e il poco Calvino richiamava, quasi con le stesse parole, il finale di un suo scritto dedicato a Giorgio Caproni: «Ecco: il segreto che Caproni ci comunica non è l’esperienza del nulla, che è comune a tanta parte della poesia moderna; egli ci dimostra che ciò a cui il nulla si contrappone non è il tutto: è il poco»48.


Una frase che potrebbe essere posta come sigillo a molti suoi scritti.


Marzo 2023


 


1 I. Calvino, Lettere 1940-1985 (L), a cura di L. Baranelli, introduzione di C. Milanini, Mondadori, Milano 2000, pp. LXXXVI-1624.


2 M. Merleau-Ponty, Senso e non senso, introduzione di E. Paci, il Saggiatore, Milano 1962, p. 39.


3 I. Calvino, LdA, p. 479: Calvino a G. Pescio Bottino, 9 giugno 1964.


4 Cfr. infra, p. 86. A questo proposito, per sottolineare quanto i giudizi siano mutati, cfr. M. Emre, The Worlds of Italo Calvino, in «The New Yorker», 6 marzo, 2023.


5 È prevista, in occasione del centenario della nascita, una nuova edizione dell’epistolario, sempre a cura di Luca Baranelli, accresciuta di un centinaio di lettere.


6 Per un’esauriente «cronologia cosmicomica» prima della pubblicazione delle Lettere nei «Meridiani», cfr. I. Calvino, Tutte le cosmicomiche, a cura di C. Milanini, Mondadori, Milano 1997, pp. 391-420.


7 I. Calvino, Sono nato in America. Interviste 1951-1985, a cura di L. Baranelli, introduzione di M. Barenghi, Mondadori, Milano 2012, p. 93: intervista al «Corriere della Sera», 10 marzo 1963. Nel 2022 è stata pubblicata una nuova edizione che, rispetto alla precedente, contiene la traduzione dell’intervista a William Weaver, Calvino: An interview and its story (agosto 1982). L’intervista si può leggere nella nuova edizione alle pp. 659-70. I miei rinvii, quando non è specificato, sono sempre relativi all’edizione del 2012.


8 Ibid., p. 94. Già in precedenza, Calvino aveva concepito di pubblicare un trittico sotto il nome di «Cronache degli anni Cinquanta», che avrebbe dovuto comprendere La speculazione edilizia, La giornata d’uno scrutatore e Che spavento l’estate, di cui scrisse solo poche pagine. Cfr. Calvino, Sono nato in America cit., p. 651: intervista a M. Corti, in «Autografo», II, 6 ottobre 1985, pp. 47-53.


9 Ibid., pp. 93-4.


10 Ibid., p. 98: intervista ad A. Barbato, Il 7 giugno al Cottolengo (Calvino ha impiegato dieci anni per scrivere le cento pagine del suo ultimo libro), in «L’Espresso», IX, 10 marzo 1963, 10, p. 11.


11 Ibid., p. 97.


12 Ibid., p. 99. Cfr. anche RR, II, p. 1311.


13 In proposito, cfr. D. Scarpa, L’esordio dell’iperstoria, in Id. (a cura di), Atlante della letteratura italiana, III, Dal Romanticismo a oggi, Einaudi, Torino 2012, pp. 842-8.


14 Calvino, Sono nato in America cit., p. 313: intervista a F. Salvemini del 10 luglio 1979, uscita su «Lotta continua», 19 luglio 1979, p. 10.


15 La lettera è stata pubblicata la prima volta su «Robinson», 7 gennaio 2023, pp. 2-3.


16 Ringrazio Domenico Scarpa per questa informazione.


17 Mio il corsivo.


18 Calvino, Sono nato in America cit., p. 99.


19 Calvino a E. Singer, 11 novembre 1963, in «Robinson», 7 gennaio 2023, pp. 2-3.


20 Cit. in Calvino, Tutte le cosmicomiche cit., p. 397.


21 A Sebastian Matta Calvino dedicherà un breve scritto in occasione della mostra Matta. Un trittico ed altri dipinti, Galleria L’Attico, Roma, 10 novembre 1962 (S, II, pp. 1965-96). Si deve a Silvia Mezzanzani (Italo Calvino, all’origine della dimensione cosmicomica, tesi di laurea presso l’Università degli Studi di Milano, a. a. 1995-96, relatore Gianluigi Berardi) il primo studio accurato sull’uso che Calvino fa della voce «Cosmogony» dell’Encyclopaedia Britannica. Su questo punto, cfr. Calvino, Tutte le cosmicomiche cit., p. 397. Sugli autori citati da Calvino nel suo canone «cosmicomico», cfr. R. Maggiore, Dietro le Cosmicomiche, gli altri mondi di Italo Calvino (2015), in https://cle.ens-lyon.fr/italien/litterature/periode-contemporaine/dietro-le-cosmicomiche-gli-altri-mondi-di-italo-calvino.


22 Calvino, Sono nato in America cit., p. 112: autointervista di Italo Calvino, novembre 1965.


23 L, p. 837: Calvino a F. Wahl, 16 novembre 1964.


24 Calvino, Sono nato in America cit., p. 113: intervista ad A. Barberis, in «Corriere della Sera», 27 aprile 1972, p. 13.


25 Ibid., p. 116: autointervista di Italo Calvino, novembre 1965. Cfr. F. Serra, Calvino, Salerno Editrice, Roma 2006, pp. 275-93; M. Pagano, «Da dove piovono le immagini?». La parola e l’immagine nelle Cosmicomiche di Italo Calvino, Cesati, Firenze 2020; C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggi su Italo Calvino, nuova edizione rivista e accresciuta, Carocci, Roma 2022 (I ed. 1990), pp. 89-110.


26 Calvino, Sono nato in America cit., p. 47: intervista di M. Craipeau, in «France-Observateur», XI, 2 giugno 1969, 526, pp. 21-2.


27 Ibid., p. 74: colloquio con Carlo Bo, in «L’Europeo», XVI, 28 agosto 1960, pp. 64-5. Il riferimento finale è alle manifestazioni contro il governo di centro-destra guidato da Fernando Tambroni.


28 Ibid., pp. 597-8: intervista di M. Neri, in «Panorama mese», IV, gennaio 1985, 1, pp. 71-4.


29 Ibid., p. 598.


30 Cfr. infra, p. 172.


31 Calvino, Sono nato in America cit., p. 133: intervista di M. Santschi (1967).


32 Ibid., p. XXIV.


33 Ibid., p. 337: intervista di C. Delacampagne, in «Le Monde», 16-17 dicembre 1979.


34 Ibid., p. 184.


35 Ibid., p. 286: intervista a M. d’Eramo (1979)


36 Ibid., p. 297.


37 Ibid., p. 187: intervista a F. Camon (1973).


38 Ibid., p. 107: intervista a C. Bonnefoy (1964).


39 G. Celati, L’assoluto della prosa, conversazione a cura di A. Cortellessa, in «Il Verri», 2002, 19, pp. 56-64: 63.


40 Calvino, Sono nato in America cit., p. 183: conversazione con F. Camon (1973).


41 D. Del Giudice, Colloquio con Italo Calvino. Un altrove da cui guardare l’universo, in «Paese Sera», 7 gennaio 1978, poi col titolo Situazione 1978, S, II, pp. 2828-34: 2830.


42 I. Calvino, Il visconte dimezzato (1952), RR, I, p. 403. Su queste pagine, cfr. M. Mari, I demoni e la pasta sfoglia, il Saggiatore, Milano 2017, pp. 677-9.


43 Calvino, Il visconte dimezzato cit., RR, I, p. 422.


44 Del Giudice, Colloquio con Italo Calvino cit., S, II, p. 2830.


45 E. F. Mallove, Our Universe, Created from Nothing, in «The Washington Post», 3 giugno 1984. Cfr. C. Fruttero - F. Lucentini, Opere di bottega, progetto editoriale, introduzione, cronologia e note di D. Scarpa, Mondadori, Milano 2019, I, p. CXLII.


46 I. Calvino, Il niente e il poco (1984), RR, II, p. 1260.


47 Cfr. A. Mario, Scrivere il nulla: Calvino e Montale, in Id., Italo Calvino. Quale «autore» laggiù attende la fine?, prefazione di G. Falaschi, Firenze University Press, Firenze 2015, cap. 3; E. Bellini, Saluti scabri e essenziali in Calvino e Montale, in Calvino e i classici italiani, a cura di A. Falessi Bellini, ETS, Pisa 2019, cap. III.


48 I. Calvino, Nel cielo dei pipistrelli (1980), S, I, pp. 1026-7. Cfr. P. Zublena, L’inquietante simmetria della lingua. Il linguaggio tecnico-scientifico nella narrativa italiana del Novecento, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2002, pp. 105-6, 117.


Pensare l’universo

Io se fossi professore di letteratura italiana magari parlerei delle varianti degli scritti di Leonardo che cercava di dire delle cose senza possedere una lingua, lottando con le parole, inventandole. La letteratura italiana è questo caso di una letteratura senza lingua ed è significativa appunto in questi casi di tensione per fabbricarsela.


Italo Calvino (Archivio Einaudi, Verbali delle riunioni editoriali, cart. 13, fasc. 786, Rhêmes-Notre-Dame, 5 luglio 1973).

 Prefazione

1. Fare uscire Calvino da Calvino.

Quando si ha a che fare con Calvino, il rischio che si corre più di frequente è quello di restare imprigionati dentro Calvino. Felicemente imprigionati, s’intende. È un rischio appassionante, che lui stesso ci invita di continuo a mettere in pratica; e non ha limiti, perché il piacere di passare da una pagina all’altra, da un libro all’altro è in certi casi assoluto, avviene spontaneamente e quasi senza accorgersene.


Eppure – e mi riferisco soprattutto al Calvino post-La giornata d’uno scrutatore (1963) e al Calvino saggista e teorico della letteratura – la ricerca di chiarezza e di ordine che emerge dalla rete della sua scrittura può produrre alla lunga più un senso di insoddisfazione che di appagamento. Alla fine si ha quasi l’impressione che, fatti propri alcuni postulati e diventati esperti di alcuni passaggi concettuali chiave, la possibilità di muoversi dentro a un sistema che a prima vista si mostrava mobilissimo, costruito su continui scarti e punti di fuga, risulti più apparente che reale; alla fine, il senso di scoperta e di sorpresa che ci aveva guidato pagina dopo pagina lascia il posto alla prevedibilità di un’invenzione letteraria sì raffinata e sapientemente ben articolata nelle sue quasi infinite varianti combinatorie, ma che rischia di rivelarsi, nella sua «troppa» perfezione, un sistema chiuso, artificiale, senza vita.


Con questo non voglio dire che leggere Calvino con Calvino non abbia portato a risultati rilevanti. Dico soltanto che, fatta eccezione per alcuni studi segnati da intuizioni fulminanti, una prospettiva esclusivamente internista rischia inevitabilmente di esaurirsi o di ripetersi stancamente se non trae nuova linfa dal «fuori», se non tende a far entrare in gioco altri fattori capaci di dare impulso a nuove letture del testo. Insomma, se un approccio di questo tipo ha svolto in passato un compito decisivo nel mettere a fuoco i principali percorsi calviniani, oggi di un nuovo saggio-collage, per quanto ricco e pieno di sfumature possa essere, credo che nessuno senta davvero la mancanza. Aggiungerebbe ben poco a quello che già sappiamo. Anzi, a venti anni dalla morte, può diventare oltre che inutile persino stucchevole, soprattutto se continuassimo a declinare astrattamente parole-concetti come leggerezza e pesantezza, mondo scritto e mondo non scritto, utopia pulviscolare, pathos della distanza, esattezza.


Raccontare Calvino e la scienza è stato dunque anche un modo per fare uscire Calvino da Calvino. Ad eccezione di qualche libro e saggio recenti1, Calvino continua a essere percepito come un mondo a parte, in sé autonomo e autosufficiente. Io credo invece che occorra liberarlo da questo suo splendido e forzato isolamento, e uno dei modi per farlo è trovare dei punti esterni da cui sporgersi per guardare dentro al suo laboratorio di scrittore nel tentativo di farne emergere, con ancora maggior vigore, spessore e originalità. Nelle pagine che seguono ne ho scelti alcuni e all’apparenza, forse, neppure tra i più significativi. C’è però qualcosa che li accomuna: sono legati a precisi contesti storici e culturali e non ad astratte forme di pensiero, non a suggestioni dettate dalle mode del momento o a catene di idee o metafore spesso del tutto contingenti (legate prima a Sartre e Borges, poi a Roland Barthes, Baudrillard, Deleuze, Wittgenstein), libere soprattutto di inseguire le analogie e le immaginazioni di chi scrive.


Giorgio de Santillana, Sergio Solmi, Anna Maria Ortese, Cassola, Vittorini, Bollati, Timpanaro sono, in questo libro, alcuni dei luoghi privilegiati di osservazione. Essi hanno svolto una duplice e importante funzione: quella di essere strumenti capaci di mettere a fuoco aspetti rilevanti della ricerca calviniana e, insieme, di servire da antidoto a inconcludenti e astratti parti dell’immaginazione, evitando il piacere – così contagioso – di percorrere in lungo e in largo il suo universo narrativo e di restarne però, alla fine, prigionieri. Con loro e grazie a loro ho cercato di restringere il campo d’azione per stare il più possibile «sulle cose», avendo cura di non esserne schiacciato ma anche lasciando perdere fin da subito ogni desiderio di completezza.


2. «Domatori di cavallucci a dondolo concettuali».

Per Calvino la scienza non è mai termine di un rapporto. La sua forma di letteratura impura non è quella di Primo Levi. Diversamente da Levi, non stabilisce nessun incrocio tra pensiero e pratica scientifica da una parte ed esperienza letteraria dall’altra: per lui esiste sempre e soltanto la letteratura2. Quando s’interroga su questioni che hanno a che fare con l’astronomia, la biologia, l’ottica, la termodinamica, scrive di letteratura. Quando discute di filosofia, di arte, antropologia, semiologia, il suo pensiero è rivolto alla letteratura.


Da questa prospettiva Italo Calvino e la letteratura sarebbe stato un titolo più adeguato, con il rischio però o di essere scambiato per uno di quei titoli-orpello, che Calvino avrebbe sprezzantemente bocciato, oppure di essere frainteso dal lettore, che si sarebbe atteso un lavoro ben più corposo che affrontasse tutto Calvino. A meno che il termine letteratura, invece di riferirsi alla sua idea di letteratura, non avesse denotato quella degli «altri». Ma non era questo lo scopo che mi ero prefisso.


Non mi restava che ripiegare su una formulazione di genere fin troppo abusata in questi ultimi anni. Un po’, tanto per intenderci, com’è stato il binomio «politica e cultura» in Italia negli anni cinquanta e sessanta: una keyword, una parola d’ordine, più che una vera e propria specificazione di un titolo, che però ha il pregio di far capire subito qual è, se non il punto di arrivo, almeno il punto di partenza di questo lavoro: una zona fittamente popolata, percorsa da continue e pressanti sollecitazioni, che in Calvino non ha quasi mai contorni visibili e che non può essere racchiusa in un determinato periodo della sua vita, ma l’attraversa tutta.


Per poter parlare di Calvino e la scienza occorreva dunque ricominciare da capo, e in primo luogo muovere dalla consapevolezza che nella sua letteratura-universo l’interesse per la scienza occupa sì un ruolo rilevante ma spesso non si vede, e non si vede perché agisce sotto altre sembianze. Per queste ragioni è stato necessario immergersi senza mezze misure nella totalità del suo lavoro di narratore e saggista, senza privilegiare a priori i racconti o i saggi «scientifici», anzi evitando accuratamente di restare invischiati nello schema scienza e letteratura, ovvero in un’operazione che è stata fatta più volte, ed è consistita principalmente nell’enucleare – ma sempre restando dentro Calvino – alcuni contenuti tematici (Calvino e l’astronomia, Calvino e la fisica, Calvino e la tecnica, Calvino e le scienze biologiche) per poi assemblarli, trascinarli fuori, e indagarli. Come se questi temi, una volta da lui riformulati e rielaborati, godessero di un grado di autonomia separati da tutto il resto; come se le parole e le visioni di quell’universo narrativo straordinario che è la scienza, entrando in contatto e in tensione con altri campi di forze, non subissero a loro volta trasformazioni così radicali da fondersi con altri linguaggi e altre immagini, al punto da diventare irriconoscibili.


Calvino si occupa di scienza non perché è interessato alla scienza in quanto tale (e lo stesso si potrebbe dire per l’arte, la filosofia, l’antropologia, la linguistica). Se ne occupa perché «per esprimere via via le nuove situazioni esistenziali», per comprendere «il nostro inserimento nel mondo»3, non può non occuparsi delle immagini del mondo che la scienza produce e dei linguaggi che impiega nel produrle. Solo se teniamo presente la finalità pratica e politica del suo lavoro di scrittore, che lo conduce a varcare i tradizionali confini della letteratura e a nutrirsi di tutto ciò che sta «fuori» (e ben lontano dall’idea caricaturale di un Calvino giocatore, «domatore di cavallucci a dondolo concettuali»)4, ha senso parlare di Calvino e la scienza. Ed è una scelta forte e ben caratterizzata, alla quale resterà sempre fedele e che emergerà pienamente a un certo punto della sua vita.


C’è un momento, infatti, in cui Calvino si rende conto che per non morire, per non restare pietrificato, per sfuggire al mondo di pietra che lo circonda, occorre conoscere bene quel mondo. Ma a partire dalla fine degli anni cinquanta quel mondo non è più quello di sempre. La scienza e la tecnica lo stanno cambiando vorticosamente. E per cercare di comprenderlo non basta più una rappresentazione fondata sull’abitudine e sull’immediatezza della percezione sensibile. Occorre ben altro se si vuole provare a scriverci sopra e, soprattutto, a viverci dentro.


Un’ultima osservazione. Chi si aspetta un libro che affronti Calvino e la scienza dalla a alla zeta resterà deluso. Queste pagine non sono il catalogo delle occorrenze scientifiche calviniane, non sono la minuziosa raccolta di tutti i luoghi di scienza presenti nel suo lavoro di narratore e saggista. Credo che sarebbe utilissimo avere uno strumento del genere, ma esso potrà realizzarsi pienamente soltanto a partire da un impegno collettivo di collaborazione tra storici della lingua, della letteratura e della scienza.


A me interessava un’altra cosa: capire quando e perché l’interesse di Calvino per la scienza si trasforma in progetto. Perché, a un certo punto della sua esistenza, Calvino ricomincia a scrivere traendo linfa da quel principio che egli chiama «pensare l’universo» e che in lui si trasforma in una vera e propria attitudine morale e politica. Perché quel tipo di sperimentazione linguistica e di ricerca «lucreziana», che resta vivissima fino alla fine, e che va oltre gli ultimi racconti cosmicomici, non si esaurisce5. Certo, l’interesse per la cosmologia in Calvino risale a molto tempo prima. E probabilmente senza quel prima, senza quelle appassionanti letture e discussioni dei primi anni quaranta, a cominciare da certe pagine dell’Universo in espansione di Arthur Eddington, tradotte da Giorgio de Santillana, e dedicate all’universo appena nato o alle forme in cui è possibile viaggiare in un universo espanso, molte cose avrebbero preso una piega diversa. Tuttavia è soltanto a partire dalla fine degli anni cinquanta che in lui matura l’esigenza, direi la necessità, di provare a costruire altri percorsi.


Di qui, da questa consapevolezza, prende avvio questo lavoro, da quando cioè Calvino s’impone di cambiare rotta e decide di intraprendere una navigazione sempre più solitaria, lontana dai luoghi letterari tradizionali, riuscendo così a realizzare la sua idea, per tanti versi inimitabile, di letteratura.


Luglio 2007


 


1 Penso soprattutto a M. Belpoliti, Settanta, Einaudi, Torino 2001.


2 «Non credo che Calvino si sia mai molto interessato alla scienza in sé: la scienza era per lui, soprattutto in certe fasi della sua vita e del suo lavoro di scrittore, un problema letterario […]. Il suo problema era come utilizzare i metodi e i linguaggi della scienza, come tradurli in letteratura» (G. C. Roscioni, Calvino editore, in G. Falaschi, a cura di, Italo Calvino. Atti del Convegno internazionale, Garzanti, Milano 1988, pp. 31-9: 36). Condivido il giudizio di Roscioni, ed è da qui che occorre ripartire per tentare di comprendere i molteplici significati che derivano dall’incontro di Calvino con la scienza. Va da sé che il singolare, la scienza, è riferito all’insieme delle scienze classiche e non, così come è implicito il dialogo continuo e fecondo che, soprattutto a partire dai primi anni sessanta, Calvino stabilì tra la scienza e le nuove scienze umane.


3 I. Calvino, Dialogo di due scrittori in crisi (1960), S, I, pp. 83-89: 89.


4 Così A. Moresco, Il paese della merda e del galateo. Note contro Calvino, in Id., Il vulcano. Scritti critici e visionari, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 16.


5 In proposito si vedano le testimonianze di Franco Lucentini di recente pubblicate, con lettere inedite di e a Calvino, in M. Lucentini, Il genio familiare. Vita di Franco Lucentini scritta da suo fratello, Marlin Editore, Cava de’ Tirreni 2006, pp. 125-8. Cfr. infra, cap. III, pp. 62-4.

I. Fantascienza e romanzo cavalleresco: missili, spazi siderei e altro

La delusione più cocente e insieme più astratta della mia vita, e di molti altri come me, fu senza dubbio il mancato sbarco dei marziani nel decennio tra il 1950 e il ’60. […] Ho amici e consanguinei che passarono ore notturne ed estive a scrutare il moto di luci sospette; qualcuno vide stelle fulminee saettare per il cielo e ne provò traumi di natura politica e religiosa. Una volta, in campagna, di sera, il magico luccichio di un nodo di fili elettrici mi raggelò il sangue: sono arrivati.


G. Manganelli, I marziani non arrivarono1.


1. New York, New York.

1959-60. La fine degli anni cinquanta è tempo di cambiamenti per Calvino, ma anche di bilanci e di riflessioni autobiografiche. Alcune informazioni per cominciare, e per non restare troppo nel vago. Nella primavera del 1959 chiude il «Notiziario Einaudi», che Calvino aveva diretto fin dai primi numeri2. In quello stesso anno esce il primo fascicolo del «Menabò», la nuova rivista che dirige con Vittorini, e nel secondo, febbraio 1960, compare il saggio Il mare dell’oggettività. Pochi mesi dopo, il 27 giugno, esce la raccolta dei Nostri antenati con un’importante prefazione su cui torneremo tra poco. Intanto, il 30 novembre 1959 Einaudi pubblicava Il cavaliere inesistente, il terzo e ultimo dei suoi contes philosophiques3, che Calvino riesce a vedere in stampa soltanto un mese più tardi, quando si trova a New York4. Ai primi di novembre risale infatti la sua partenza per gli Stati Uniti, dove rimane fino all’aprile del 1960 grazie a una borsa di studio per giovani scrittori messa a disposizione dalla Ford Foundation5.


Calvino ha 36 anni e – come ha ricordato Esther Calvino – «dell’importanza che ebbe quel viaggio nella sua vita parlò e scrisse in diverse occasioni»6, così come è ampiamente testimoniato dalle lettere inviate all’amico Daniele Ponchiroli, allora caporedattore della casa editrice Einaudi, e che costituiscono uno dei documenti autobiografici calviniani più riusciti e, a torto, poco conosciuti7.


Per averne una minima idea basterebbe leggere la parte del diario epistolare dedicata ai quattro mesi trascorsi a New York: dalle pagine in cui annota gli incontri e le discussioni con artisti, editori e scrittori, ma anche con giovani fisici e matematici, a quelle in cui se ne va in giro per la città e ce la racconta: dalla passeggiata a cavallo in Central Park alla visita alla Random House, al Museo Guggenheim, all’Actor’s Studio, all’euforia che prova nel visitare l’Ibm o lo Stock Exchange, la Borsa di New York.


Dalla lettura del diario colpisce l’occhio tecnologico di Calvino: la cura che ha nell’osservare e descrivere i dettagli di un calcolatore, per esempio, ma anche la simpatia che traspare in lui quando apprende il modo in cui si fabbricano i «piccolissimi transistors» oppure quando descrive la Ramac, «che è quella [macchina] che svolge le operazioni anche su dati messi dentro a caso, cioè non in un ordine stabilito. Bellissime macchine con queste cascate di fili di bellissimi diversi colori, con effetti di grande pittura astrattista»8.


Per un figlio di scienziati come Calvino non sono macchine e basta. Come gli umani, ognuna di loro ha un nome e svolge precise funzioni e possiede determinate caratteristiche; come, appunto, la «Ibm machine 705», che incontra nella più grande agenzia di Borsa di New York e che, con ammirazione, descrive così:


E da tutti gli uffici e i meccanismi di questo enorme palazzo che è la Merrill Lynch, Pierce, Fenner & Smith tutti i dati vanno a finire all’ultimo piano dove c’è la grande Ibm machine 705, che in un minuto può fare 504 mila addizioni o sottrazioni, 75 mila moltiplicaz., 33 mila divisioni e può prendere 1 764 660 decisioni logiche e in tre minuti leggere tutto Via col vento e copiarlo su un tape largo quanto un mignolo, perché tutto va a finire su questo tape, scritto tutto a lineette, che su un inch ci stanno 543 caratteri. Ho visto anche la memoria del 705 che sarebbe un tessuto come uno strofinaccio tutto filini9.


Da pagine come queste si capisce subito che Calvino si trova a suo agio in ambienti di solito considerati anomali per uno scrittore. Sa come muoversi e che cosa chiedere sui nuovi oggetti che vede nei laboratori americani e che confronta con quelli conosciuti a Ivrea, all’Olivetti. È una speciale attitudine la sua, che gli deriva certamente anche dall’aver vissuto fino a diciotto anni all’interno di una famiglia di scienziati e naturalisti. Educato al rigore del linguaggio universale della scienza – dalla botanica alla geologia, dalla zoologia alla chimica alla matematica –, al suo metodo sperimentale e alla sua logica stringente, Calvino ha vissuto a Villa Meridiana, acquistata dal padre nel 1925, come dentro a una vera e propria comunità scientifica, circondato com’era da padre, madre, fratello, zii e zie, tutti, o quasi, professori universitari di discipline scientifiche. Nel 1960, in un passo divenuto famoso, traccia per la prima volta un ritratto della sua famiglia per tanti versi così atipica:


Sono figlio di scienziati: mio padre era un agronomo, mia madre una botanica; entrambi professori universitari. Tra i miei familiari solo gli studi scientifici erano in onore; un mio zio materno era un chimico, professore universitario, sposato a una chimica (anzi ho avuto due zii chimici sposati a due zie chimiche); mio fratello è un geologo, professore universitario. Io sono la pecora nera, l’unico letterato della famiglia10.


E in un altro scritto autobiografico coevo torna a parlare di questa peculiare atmosfera familiare, «insolita sia per San Remo sia per l’Italia d’allora», inserendola in un contesto educativo fortemente caratterizzato da ideali laici, antifascisti e antireligiosi:


I miei genitori erano persone non più giovani, scienziati, adoratori della natura, liberi pensatori, personalità diverse tra loro ed entrambe all’opposto dal clima del paese. Mio padre, sanremese, di famiglia mazziniana repubblicana anticlericale massonica, era stato in gioventù anarchico krapotkiniano e poi socialista riformista […]; mia madre, sarda, di famiglia laica, era cresciuta nella religione del dovere civile e della scienza11.


Sono parole, anche queste ultime, scritte nel 1960, e rendono bene il clima culturale e civile che il giovane Calvino aveva assorbito e che ora, in un periodo segnato da forti cambiamenti scientifici e tecnologici, ritorna alla mente con rinnovato vigore.


Proprio in quello stesso anno, all’inizio del nuovo decennio, «nell’epoca dei cervelli elettronici e dei voli spaziali», Calvino guarda al futuro e osserva il mondo sempre più pieno di scienza che lo circonda, ripartendo da Ariosto:


È evasione, tenersi oggi all’Ariosto? No, ci insegna come l’intelligenza viva anche, e soprattutto, d’immaginazione, d’ironia, d’accuratezza formale, e come nessuna di queste doti sia fine a se stessa ma come possano entrare a far parte d’una concezione del mondo, servire a meglio valutare virtù e vizi umani. Tutte lezioni attuali, necessarie oggi, nell’epoca dei cervelli elettronici e dei voli spaziali. È un’energia volta verso il futuro, ne son certo, non verso il passato, quella che muove Orlando, Angelica, Ruggiero, Bradamante, Astolfo.


È un passo dell’introduzione ai Nostri antenati, poi rimasta inedita e pubblicata solo di recente12. Di questa prima stesura Calvino impiega per la prefazione al volume solo l’inizio, lasciando cadere sia il riferimento all’immaginazione di Picasso, e con esso il richiamo alla sovraccoperta del volume, sia l’accenno di discussione con Pavese13, sia infine la conclusione, interamente dedicata al suo attualissimo Ariosto.


In effetti, la decisione di focalizzare l’attenzione sulla genesi e sul significato dei tre romanzi si mostrava più congeniale allo scopo editoriale della raccolta. Più che aprire lo sguardo verso un futuro quanto mai incerto, si trattava per prima cosa di apporre un sigillo a un ciclo narrativo che si era chiuso definitivamente, provando a dire in poche pagine le ragioni che avevano ispirato il progetto e quali erano stati i risultati raggiunti. La definizione generale dei contes come «albero genealogico degli antenati dell’uomo contemporaneo»14 esprimeva con efficacia il senso complessivo dell’intero ciclo e il valore morale e politico attribuito da Calvino a questa intensa stagione letteraria.


Alcuni brani dell’inedita introduzione saranno recuperati nell’edizione dell’Orlando furioso del 197015. Ma disposti in un contesto assai diverso finiranno per perdere il loro significato originario, incapaci soprattutto di restituirci il forte senso di discontinuità presente in quelle pagine e l’acuta consapevolezza di vivere in un momento segnato da mutamenti profondi, dove tutto – economia, società, cultura – stava velocemente cambiando.


Per Calvino la distanza che separa il decennio trascorso da quello appena iniziato non è misurabile in termini di anni, bensì in ere geologiche. Gli anni sessanta rappresentano davvero l’inizio di un nuovo secolo, a tal punto che qualsiasi tentativo di gettare un ponte tra progetti passati e futuri risulta largamente insoddisfacente. Per queste ragioni egli decide di affacciarsi al mondo della modernità industriale abitato da nuovi oggetti e da nuovi rapporti umani, e solcato da satelliti artificiali lanciati alla conquista dello spazio, lasciando di là gran parte degli «strumenti» finora impiegati nel suo mestiere di scrittore. Decide di portare con sé quel poco che pensa possa servirgli, l’indispensabile, ovvero l’autore simbolo della sua idea di letteratura. Consegnando al passato la trilogia e il suo progetto genealogico, decide così di oltrepassare lo «spesso muro»16 degli anni cinquanta tenendosi ben stretto al poeta ed esploratore lunare della migliore tradizione italiana: «Rileggo Ariosto. Mi è stato, in questi anni, tra tutti i poeti della nostra tradizione, il più vicino e nello stesso tempo il più oscuramente affascinante. Limpido, ilare, incredulo, senza problemi, eppure in fondo così misterioso, così abile a celare se stesso […] Ariosto così pieno d’amore per la vita, così sensuale, così realista, così umano»17. È lui lo scrittore in cui più che in ogni altro Calvino si riconosce, e che, pur muovendo, come Machiavelli, da una visione disincantata del mondo, percorre una strada diametralmente opposta a quella battuta dal segretario fiorentino. Invece di procedere verso la costruzione di una scienza tutta umana della politica, «egli si ostina a disegnare una fiaba», senza tuttavia staccarsi dal mondo. Nessuna evasione, dunque. L’energia che si sprigiona dalla sua audace architettura poetica non è fine a se stessa e non è rivolta al passato: ironia e deformazione fantastica sono i suoi principali strumenti conoscitivi.


È a partire da questo rinnovato atto di amore, e dalla lucida consapevolezza che avrebbe avuto ancora bisogno di lui proprio nel momento in cui il mondo sta cambiando pelle, che Calvino decide, nel «nuovo secolo», di ricominciare a scrivere.


L’immagine con cui si chiude Il cavaliere inesistente, l’ultimo atto della trilogia scritto nel 1959, è da questo punto di vista inconfondibile. Sembra estratta da uno dei capitoli più famosi del Furioso: il trentaquattresimo, dedicato al viaggio lunare di Astolfo18:


Dal raccontare al passato, e dal presente che mi prendeva la mano nei tratti concitati, ecco, o futuro, sono salita in sella al tuo cavallo. Quali nuovi stendardi mi levi incontro dai pennoni delle torri di città non ancora fondate? quali fumi di devastazioni dai castelli e dai giardini che amavo? quali impreviste età dell’oro prepari, tu malpadroneggiato, tu foriero di tesori pagati a caro prezzo, tu mio regno da conquistare, futuro…


I conti con la storia sono terminati. Il progetto letteratura-società si è chiuso definitivamente e non è più tempo di scrivere genealogie. Calvino prende congedo da ciò che ormai considera il passato e guarda al futuro, che gli appare già minaccioso e pieno d’incognite, aggrappandosi stretto al suo poeta. Sotto la sua guida, lascia alle spalle il paesaggio degli anni cinquanta e inizia la traversata verso terre e cieli sconosciuti. Ma come e da dove ricominciare?


Da parte di chi ha avuto l’opportunità di conoscerlo19, è stato più volte sottolineato che Calvino non separa mai scrittura e progetto: l’una rinvia all’altro, nel senso che ogni suo lavoro deve trovare salde ragioni extraindividuali per compiersi. «Solo quando sento di aver raggiunto una struttura rigorosa mi pare di avere qualcosa che sta in piedi, un lavoro completo»20. Se «per molti scrittori la loro soggettività è autosufficiente», Calvino pensa esattamente il contrario: «Ciò che scrivo devo giustificarlo, anche di fronte a me stesso, con qualcosa non solo [di] individuale. […] Scrivere ha senso solo se si ha di fronte un problema da risolvere […]. Ogni volta che tento un libro devo giustificarlo con un progetto, un programma. Di cui vedo subito le limitazioni»21. Per questo i suoi scritti passano attraverso lunghi periodi di elaborazione e di incubazione. È il caso delle Città invisibili, a cui comincia a pensare fin dall’estate del 1966, mentre sta lavorando a Ti con zero22. Lo stesso accade per l’edizione degli scritti di Fourier, che si porta dietro per ben cinque anni. Anche la definizione del progetto per una letteratura cosmica, che si concretizzerà con Le Cosmicomiche (1965) e Ti con zero (1967), per giungere a maturazione ha bisogno di un lungo periodo di «rimuginamenti», di «idee vaghe», di inquietudini.


«Non so cosa scriverò dopo»23, dichiara Calvino nell’introduzione ai Nostri antenati. E a Natalia Ginzburg, nel maggio 1961: «Io forse non scrivo più e vivo bene lo stesso»24. Più volte esprimerà pubblicamente questa sua indecisione, quasi a voler sottolineare il difficile momento epocale che si trova a vivere: «Posso dire che il mio silenzio continua. In questo libro [La giornata d’uno scrutatore], do solo delle notizie sul mio silenzio. È un libro di punti interrogativi»25. L’unica cosa di cui può dirsi sicuro è l’inadeguatezza di progetti che si sono protratti troppo a lungo e che è venuto il momento d’interrompere. È il caso del trittico Cronache degli anni Cinquanta che, «concepito verso il 1955»26, doveva seguire alla trilogia degli «antenati» e comprendere, insieme alla Speculazione edilizia e alla Giornata d’uno scrutatore, un terzo racconto dal titolo Che spavento l’estate. Ne scrisse soltanto poche pagine. La lunga e complessa gestazione della Giornata, che venne pubblicata nel 1963, fuoriusciva infatti da quello schema, finendo per diventare molto di più di una «reazione dell’intellettuale alla negatività del reale»27 rendendo l’intero progetto vecchio e superato.


Forse mai come in questo periodo Calvino sente la necessità di mettersi in ascolto e di guardarsi intorno alla ricerca di un progetto da cui ripartire. Punto d’inizio cronologico (ma forse sarebbe più opportuno parlare di uno dei punti d’inizio)28 di questa riflessione che lo condurrà a una nuova fase nel suo lavoro di scrittore è il biennio 1957-58, proprio quando sta chiudendo la trilogia degli antenati. Il progetto cosmico non è infatti il risultato di un processo lineare e cumulativo, né credo possa essere ricostruito nei suoi dettagli indagando in un’unica direzione, cioè perlustrando la sola pista di de Santillana (un lavoro, del resto, ancora tutto da fare: a partire dal primo viaggio di Calvino negli Stati Uniti fino a giungere all’«illuminazione» seguita all’ascolto della conferenza tenuta da Giorgio de Santillana al teatro Carignano di Torino nel 1963)29. L’incontro con de Santillana, che pure è decisivo, non risulta però sufficiente a spiegare le trasformazioni che condurranno alle Cosmicomiche. Esso si colloca nella parte terminale di un percorso quanto mai accidentato e stratificato, che parte da lontano e in cui si intrecciano questioni e riflessioni diverse tra loro, alcune delle quali, pur entrando in rotta di collisione con altre sollecitazioni e non producendo alcun segno visibile nella sua attività di scrittore, svolgeranno comunque un ruolo attivo nella sua decisione di congedarsi definitivamente e senza nostalgia dal passato.


2. Ariosto e la fantascienza.

«Come mia tendenza dominante sono sempre stato proiettato più verso il futuro che verso il passato, e il futuro ha avuto sempre per me un’immagine metropolitana, tecnologica, cosmopolita»30. Settembre 1984. Se proviamo a contestualizzare questa frase, facendo riferimento al periodo qui preso in esame, risulta subito chiaro in quale direzione stesse guardando Calvino. Rispetto a tutto ciò che è «limitazione d’orizzonte», e che ha sapore dialettale e provinciale, si muove esattamente nella direzione contraria. Ciò che lo affascina sono le infinite domande che la nuova dimensione della realtà sta a tutti ponendo, a cominciare proprio dalle trasformazioni che le recenti realizzazioni scientifiche e tecnologiche avrebbero prodotto nella vita degli uomini e, in particolare, nel modo di rappresentare il mondo. È l’ingresso in una nuova era cosmica caratterizzata dai lanci dei primi satelliti artificiali e dalle prime stazioni interplanetarie, da novità celesti straordinarie come le fotografie della faccia nascosta della Luna inviate da Lunik III nell’ottobre 1959, dalle imprese spaziali compiute a bordo degli Sputnik, Explorer, Vanguard, Pioneer, Lunik, a focalizzare la sua attenzione e il suo lavoro. E con lui e insieme a lui, a porsi le stesse domande e a intavolare discussioni «fantastiche» e «cosmiche», sono altri amici e collaboratori della casa editrice Einaudi come Sergio Solmi, Carlo Fruttero, Franco Lucentini.


Quando nel novembre 1959 uscì Le meraviglie del possibile, l’antologia di fantascienza curata da Sergio Solmi e Carlo Fruttero ottenne un successo di pubblico e di critica assai superiore alle aspettative. Come hanno ricordato Fruttero e Lucentini, essa «venn[e] accolt[a] con straordinario favore dai critici più sottili e difficili. Piovene, Citati, e molti altri […], si leccarono letteralmente i baffi. Dove mai s’era vista tanta fantasia, tanta inventiva, tanta ingegnosità, tanta felice scioltezza narrativa?»31. L’antologia è il frutto di un lungo e paziente lavoro di selezione. Lo scopo – lo dichiarava Solmi a Giulio Einaudi – è quello di realizzare «un’antologia della science-fiction che cercasse di estrarre dallo sterminato e farraginoso materiale qualcuno dei rari esemplari validi». E proseguiva: «Ho dato un’occhiata a quella di Vallecchi, che mi è parsa assai mediocre. Bisognerebbe cercare di attuarla ad un massimo livello»32.


In quei mesi lo scambio d’informazioni e di consigli di lettura tra Solmi e Fruttero diviene assai intenso. Scrive Solmi il 18 giugno 1958: «Ho sentito che legge S. F. tutte le sere, e che comincia a sentire il mal di mare. Coraggio! Anch’io ho letto qualche cosa, nel frattempo. Le faccio avere due libri di Clifford Simak […]. Uno è un romanzo, e può risparmiarsi di leggerlo. L’altro (Strangers in the Universe) contiene racconti, di cui alcuni assai notevoli. Mi pare che nell’antologia dovrebbe essere rappresentata anche questa vena mistico-fiabesca della S. F., di cui Clifford Simak è il massimo esponente»33. «Continuo a leggere con accanimento – gli risponde da Parigi Fruttero il 27 giugno 1958 –; ho per le mani ben quindici antologie di S. F., tutte americane. Ma i risultati sono un po’ scoraggianti: per lo più si tratta di mere stupidaggini, e anche quando la “trovata” è genialissima lo svolgimento risulta poi goffo e scialbo. Le mando il meglio che ho trovato finora»34. Come si vede, non siamo di fronte a un’operazione di mercato, per coprire un settore che stava ottenendo sempre più larghi consensi di pubblico e in cui la casa editrice si sentiva pressoché assente. «Trovo che è una magnifica idea – osserva Giulio Einaudi appena messo al corrente del progetto –, sia dal punto di vista editoriale che da quello letterario. Patrocinata da Lei l’iniziativa avrebbe successo e avrebbe il valore d’un intelligente acquisto culturale»35.


L’«antologia della fantascienza», come recita il sottotitolo, si caratterizza dunque per il suo alto livello letterario. A tal punto che Fruttero avanza l’idea di far tradurre alcuni racconti a noti scrittori italiani: «Sarebbe piccante – scrive a Solmi il 13 maggio – affidare una parte dei racconti, da cinque a dieci, a altrettanti scrittori italiani che abbiano più o meno l’hobby della S. F. Il punto, naturalmente, è di trovarli, ma mi pare che Buzzati, Vittorini, Moravia, Levi, – dico a caso – potrebbero prenderla con spirito. Calvino, beninteso, ne sarebbe felice»36.


Era la prima volta che Einaudi si cimentava con la science fiction. A meno di non considerare come saggio di fantascienza L’esplorazione dello spazio di Arthur Clarke, un libro pubblicato nel 1955 sui recenti sviluppi dell’ingegneria aerospaziale e che conteneva suggestive e avvincenti anticipazioni sulle future missioni interplanetarie37.


L’atmosfera tecnologica che si respirava alla fine degli anni cinquanta contribuì non poco a decretare il successo dell’antologia. La tiratura prevista (cinquemila copie) venne ben presto superata ampiamente. Sulla «Stampa» Piovene ne lodò l’impianto e il valore artistico dei racconti prescelti. «Guardandoli da questo angolo – osservava –, è proprio qui che si ritrovano alcuni pregi della novellistica antica, la trovata ingegnosa, il gusto dell’incidente bizzarro, la soluzione soprendente»38. Non c’è dubbio, infatti, che Bradbury, Sheckley, Asimov, Clarke, Simak, Matheson, Fredric Brown, ovvero il meglio della science fiction di quegli anni, fossero scrittori che mantenevano comunque un filo di continuità con la multiforme tradizione del romanzo fantastico. Ed erano tutti autori presenti nell’antologia einaudiana e alcuni di loro scarsamente conosciuti in Italia39.


Anche se Calvino non prese parte all’impresa editoriale, non è difficile immaginare quanto condividesse l’impostazione generale del progetto che così lucidamente Solmi aveva esposto nella prefazione. Innanzitutto – e Solmi lo sottolineava a dovere – non si trattava di science fiction di «primo grado», cioè di racconti che si limitavano a prendere a prestito situazioni e intrecci tipici delle storie poliziesche o d’avventura. Se da un lato è da considerare parte integrante della letteratura d’evasione e popolare, dall’altro una «science-fiction “bene intesa” si staglia sopra questo panorama diffuso, sia per la superiore ingegnosità delle sue supposizioni e anticipazioni, sia per l’efficienza letteraria»40. E il paragone che subito dopo stabiliva con il romanzo cavalleresco non faceva che accrescere la dignità e il valore di questa nuova forma di letteratura fantastica. Le somiglianze tra science fiction e romanzo fiabesco-cavalleresco sono significative:


Allora, era la scoperta e la conquista del Nuovo Mondo […]; oggi è la scoperta dei nuovi mondi che la scienza dell’atomo, l’astronautica, la nuova biologia ci lasciano intravvedere. Come il romanzo cavalleresco, col suo vagheggiamento dell’avventura e del mistero, costituì la letteratura prediletta dei caballeros de conquista, che negli spazi vergini aperti da Colombo sognavano di rintracciare le meraviglie a lungo covate nella raccolta fantasia medievale, quindi sviluppate e diffuse dalle rapsodie dei narratori loro contemporanei, così oggi la science-fiction è la letteratura prediletta dei giovani tecnici statunitensi e sovietici, che vi ritrovano, come quei lontani antecessori nella loro, un esaltante fermento. Anche nei nuovi cicli fiabeschi, sotto inusitate macchinazioni e terminologie, vediamo riaffiorare le più antiche aspirazioni del cuore umano come le sue più antiche ossessioni e terrori41.


Ma non siamo di fronte a un confronto puramente letterario. È anche un modo per dire che tra le diverse specie di ammiratori e appassionati cultori che la science fiction poteva ormai contare in tutto il mondo, i due curatori, «avendo conservato dall’infanzia il gusto della fiaba e dell’avventura, la capacità di divertita meraviglia», dichiarano apertamente di appartenere alla specie di chi apprezza «non tanto l’elemento ideologico [cioè l’elemento anticipatorio], quanto quello della fantasia»42. Tra la schiera dei «sognatori» e quella dei «meditanti» – per riprendere la distinzione che Solmi aveva fatto dei lettori di fantascienza – essi sicuramente fanno parte del primo gruppo:


I primi prediligono gli spazi incommensurabili […], le epopee su mondi remoti, le grandi battaglie galattiche, i tremendi duelli contro i tiranni e draghi extraterrestri, gli eroi e le eroine del cosmo, insomma la space opera nelle sue forme più o meno sofisticate e autoironiche, ovvero la fantascienza ariostesca, come la definì Solmi, estroversa, proiettata in complesso ottimisticamente verso il futuro43.


Naturalmente si tratta di un’adesione che va ben intesa, tutta da declinare in forma indiretta, da elevare al «secondo livello»: sia per il raffinato poeta e francesista Solmi, sia per dei visitatori d’eccezione di Kafka e Borges come Fruttero e Lucentini44. La felice espressione fantascienza ariostesca coniata da Solmi trova infatti piena conferma nel titolo La fantascienza come il romanzo cavalleresco, con cui il «Notiziario Einaudi» informa i propri lettori della pubblicazione dell’antologia45. È un titolo che evoca rapporti a prima vista invisibili tra la moderna letteratura di fantascienza e l’antica tradizione del fantastico. Ma che ricorda anche quanto fosse allora variegata quella «rinascita ariostesca», proprio quando in contemporanea con la pubblicazione dell’antologia vedeva la luce il Cavaliere inesistente, in cui l’omaggio alla lezione del poeta italiano, come abbiamo visto, era tutt’altro che di superficie o di maniera.


«Se scriverò qualcosa adesso ci sarà una tensione verso il futuro, verso l’indecifrabile domani nascosto nel guscio dell’oggi, il domani sempre diverso da come noi ci attendiamo, sempre in qualche modo peggiore delle nostre speranze, e sempre migliore in un modo che noi non sapevamo sperare». Così, con queste parole, Calvino rispondeva nel marzo del 1959 all’inchiesta Che cosa stanno preparando i nostri scrittori46. Sembra la trascrizione in forma saggistica del finale del Cavaliere, un libro che a pieno titolo entra a far parte della multiforme galassia ariostesca e che, al pari dei migliori racconti dell’antologia di Solmi e Fruttero, esprime in modo mirabile la precarietà e le inquietudini che un futuro sempre più «necessario» sta portando con sé.


3. La scoperta di un «nuovo cielo».

Com’è noto, in più di un’occasione Calvino ribadì la propria distanza dal genere fantascientifico. Soprattutto negli anni sessanta, quando Le Cosmicomiche e Ti con zero avevano suggerito a molti somiglianze e punti di contatto, manifestò sempre la propria contrarietà a essere etichettato come scrittore di fantascienza, seppure «alla rovescia». Così, infatti, lo aveva definito Montale all’indomani dell’uscita delle Cosmicomiche, «fantascientifico alla rovescia, proiettato cioè verso il più oscuro passato e non verso le conquiste della scienza futura»47. Dello stesso tenore era stato il giudizio di Franco Antonicelli («Nella moda della fantascienza, sorta dalle meraviglie della scienza vera, invece di un fantafuturo Calvino ha inserito un fantapassato»)48. Del resto non sarà lo stesso Solmi, pur ammettendo che si era di fronte a un autore «ben difficilmente classificabile», a indicarlo come esempio di «letteratura tout court che si intride nelle opere più recenti di elementi fantascientifici»?49


Pur dichiarandosi un «appassionato e divertito lettore» di science fiction, Calvino teneva a precisare quanto fosse lontano, per attitudine mentale e per la sua stessa idea di letteratura, da quel genere di narrazione. Come sempre, è una questione di rapporti a fare la differenza. In questo caso è il rapporto tra dati scientifici e invenzione fantastica a segnare in modo netto i confini tra i suoi racconti cosmicomici e quelli fantascientifici. Nel 1968, nella Premessa a La memoria del mondo, annota:


Io vorrei servirmi del dato scientifico come d’una carica propulsiva per uscire da abitudini dell’immaginazione, e vivere anche il quotidiano nei termini più lontani dalla nostra esperienza; la fantascienza invece mi pare che tenda ad avvicinare ciò che è lontano, ciò che è difficile da immaginare, che tenda a dargli una dimensione realistica o comunque a farlo entrare in un orizzonte d’immaginazione che fa parte già d’un’abitudine accettata50.


È la costruzione di una narrazione che si muove in una dimensione «altra» rispetto a quelle ricercate dalla science fiction di quegli anni. Se il dato scientifico acquista una sua precisa funzione narrativa, ciò avviene per oltrepassare i confini delle «abitudini dell’immaginazione», ovvero di una rappresentazione del mondo e dell’uomo «a una dimensione» fin troppo rigidamente codificata. Verificare se esistono e come funzionano altri orizzonti immaginativi con cui provare a rappresentare la quotidianità è il progetto a cui Calvino dedicherà ogni sua energia. L’esatto contrario, appunto, dell’operazione sostanzialmente riduzionistica tentata dalla letteratura di fantascienza, che finiva per ricondurre mistero, mito e utopia («ciò che è lontano») entro i consolidati confini percettivi del nostro presente. Insomma, paradossalmente, è la fantascienza la nuova forma di letteratura realistica. Qui sta la ragione di fondo della presa di distanza di chi, invece, sta lavorando per sperimentare nuovi linguaggi e creare così nuovi campi di forza immaginativi che andassero oltre quelli comunemente accettati51.


Va però aggiunto che uno scrittore così attento al futuro come Calvino non poteva prescindere dalla dimensione planetaria e tecnologica che stava permeando ogni aspetto della vita sociale e culturale alla fine degli anni cinquanta. Se non sarà l’attualità «spaziale» il fattore da cui scaturirà il suo nuovo progetto di letteratura52, non vi è dubbio che a introdurlo in una nuova epoca contribuiranno non poco anche le riflessioni sul destino dell’uomo legate all’avventura cosmica. O, comunque, gli permetteranno di dare corpo e rispondenza concreta a impressioni e inquietudini sempre più forti e nette: di fargli percepire che un certo tipo di letteratura è entrato in crisi e che nuovi strumenti e immagini debbono essere fabbricati se vuole continuare a dire qualcosa sulla vita e sul mondo. «Mi sembrava d’intuire – ha scritto di recente Guido Davico Bonino, ricordando i primi anni del suo apprendistato alla Einaudi e gli incontri avuti con Calvino – che era a una svolta delicata del suo itinerario. La stessa pubblicazione della trilogia [1960], con un’introduzione che aveva tutta l’aria d’una messa a punto e di un riepilogo, aveva lasciato intendere, a me come ad altri suoi fedeli, che proseguire sulla strada di una narrativa “lirico-filosofica”, in cui il reale venisse proposto sotto forme “fantastico-morali”, non aveva per lui molto più senso»53. A conferma di ciò, Davico rinvia a una conferenza tenuta da Calvino in diverse città europee nella primavera del 1961 e poi inserita nella raccolta Una pietra sopra. Si tratta del Dialogo Jdi due scrittori in crisi in cui, intrecciando una conversazione immaginaria con Carlo Cassola, Calvino mette a nudo la propria difficoltà a continuare nel mestiere di scrittore. «Chi di noi due è fuori dalla realtà? O lo siamo tutti e due?», chiede a se stesso Calvino54. «In mezzo a questa nostra Italia che esplode d’euforia e di modernità» ha ancora senso continuare a scrivere «magre e austere storie provinciali di sottile malinconia»? «Per esprimere il ritmo della vita moderna» c’è ancora bisogno di raccontare «battaglie e duelli dei paladini di Carlomagno»?55 Di fronte a forme di conoscenza e di narrazione emergenti come il cinema e l’inchiesta giornalistica o sociologica, la letteratura è costretta a rinnovarsi e a ripensare alle proprie funzioni. Non solo: se vuole continuare a vivere, è necessario che trovi «un altro modo di considerare le persone, la realtà delle cose, la logica delle storie umane»56. Da ciò dipende la nascita della «letteratura di domani»:


Il romanzo di domani sarà proprio quello che meno siamo oggi in grado di prevedere. L’Italia è oggi in parte un paese modernissimo, industrializzato, con un alto livello di benessere, in parte un paese antiquato, immobile, poverissimo. Quale situazione migliore per avere un’idea complessiva del mondo? Abbiamo insieme a portata di mano Detroit e Calcutta, tutto è ormai mescolato assieme, Nord e Sud, tecnica avanzata e aree depresse, e le ideologie più diverse convivono, si contaminano, s’abbarbicano le une alle altre. Mai forse s’era data situazione più adatta alla sintesi d’un romanziere che volesse rappresentare in tutta la sua complessità il travaglio del nostro secolo57.


Nel 1958 Sergio Solmi aveva fornito, a livello cosmologico, una descrizione della modernità per molti versi simile:


Tutto insieme. I satelliti artificiali hanno cominciato a descrivere le loro orbite in cielo, i razzi tenteranno presto la Luna. A Benares o a Lourdes moltitudini immense sfilano in processione implorando purificazioni e miracoli, e ricreando integralmente pezzi di medioevo o di antichità immemoriale. In modernissime cliniche il cuore è estratto dal torace di un uomo che ha cessato appena di vivere, e riprende a battere dopo una breve operazione. I Nambikwara vaganti nell’interno del Brasile descritti da Lévi-Strauss, nudi ancora come Adamo, si nutrono di radici e cavallette e dormono la notte sotto gruppi di palmizi le cui foglie, piegate e unite alla cima, forniscono loro un provvisorio riparo. Sotto quelle incerte cupole vegetali chiacchierano e ridono beati, perpetuando un Eden crepuscolare, una squallida e pidocchiosa età dell’Oro. […] Tutto insieme. L’umanità comincia ad entrare nella sua nuova dimensione spaziale con queste sue mobili e confuse stratificazioni, recentissime o remotissime, mescolate come in un mostruoso cocktail di ere58.


La vita degli indiani nambikwara, che si nutrono di focacce di manioca, radici, cavallette, miele selvatico, pipistrelli, insieme alla tecnologia dei missili atomici, degli sputnik e delle prime stazioni interplanetarie. Sono le stesse immagini evocate da Calvino nel suo primo «raccontino» cosmico, La tribù con gli occhi al cielo, mai pubblicato, in cui un’umanità desolata continua a vivere in uno stato di perenne attesa, in cui nulla cambia, ma che ora ha imparato a leggere il proprio destino nei nuovi segni divini che saettano nel cielo: «Da molto tempo, forse da sempre, gli occhi della nostra tribù, questi nostri poveri occhi infiammati dal tracoma, sono puntati al cielo: ma specialmente da quando per la volta stellata sopra il nostro villaggio trascorrono nuovi corpi celesti […]. Nella nostra tribù non si discute ormai d’altro che di razzi teleguidati, e intanto continuiamo ad andare armati di rozze asce e lance e cerbottane»59. La conclusione sulla nascente civiltà cosmonautica è quanto mai amara, e non lascia spazio né a sentimenti di euforia né a miracolistiche trasformazioni della società umana: «Vorrei capire di più […]. Però un’idea ho in testa che nessuno mi leva: che una tribù che s’affida solo al volere dei bolidi celesti, per bene che le vada, continuerà sempre a vendere le sue noci di cocco sottocosto»60.


Scritto nell’ottobre 1957, sarebbe dovuto uscire su «Città aperta»61. Calvino decideva però di non pubblicarlo, forse perché lo considerava troppo didascalico, oppure perché la notizia di Sputnik I, il primo satellite artificiale lanciato dall’Unione Sovietica il 4 ottobre 1957, lo aveva reso subito tecnologicamente obsoleto (nel racconto si parlava infatti del lancio dei primi missili atomici intercontinentali). Sta di fatto, però, che in un periodo segnato da aspri conflitti ideologici, che non risparmiarono neppure il tema allora dibattutissimo della conquista dello spazio, sia Calvino che Solmi mantennero un atteggiamento di attenta e disincantata partecipazione. Di fronte alle ingenue infatuazioni avveniristiche che circolavano su gran parte della stampa di sinistra, fondate sull’esaltazione dei «razzi sovietici», matura espressione di una società in cui «ideologia, scienza, produzione e tecnica sono strettamente fuse tra loro e collegate ai fini umani della società socialista»62, e – simmetricamente – di fronte alle prese di posizione di un vasto numero di giornalisti e intellettuali cattolici e liberali, che si levarono in difesa dei valori «propriamente umani» e dei sacri principi dello «spirito» contro il progresso «puramente tecnico» e la «violazione» perpetrata dall’ambizione umana (per di più atea e materialista)63, Solmi manifestò con il rigore e la pacatezza che lo contraddistinguevano il suo punto di vista in una lettera a Leonardo Sinisgalli:


Sorridiamo dell’esaltazione del progresso scientifico e tecnico perché sappiamo una volta per tutte che esso non comporta di per sé un parallelo progresso morale e sociale, bensì costituisce una formidabile arma a doppio taglio, che l’uomo faticherà a padroneggiare e a dirigere, col rischio della sua stessa distruzione. Sappiamo che l’amplificarsi di quel processo esigerà un parallelo «ridimensionamento» di strutture economiche e sociali, pena il verificarsi di crisi spaventose. Ed appunto per questo sappiamo pure che il gigantesco fenomeno in crescita esige da noi un corrispondente ampliamento di coscienza, per evitare di diventarne le vittime. C’è un intero mondo da acquisire alla consapevolezza del pensiero e della poesia64.


È il linguaggio della riflessione e della prudenza a guidare Solmi. Un mondo sempre più sfaccettato, complesso e dilatato all’esperienza umana, come quello che si presenta inaspettatamente alla fine degli anni cinquanta, ha bisogno di cure particolari per tentare di essere compreso. Così, lontano da tanti giudizi sommari e definitivi che scandivano le straordinarie imprese tecnologiche, egli avvertiva il peso della necessità di avviare un processo di riflessione che non poteva essere di breve durata e che doveva condurre a un «corrispondente ampliamento di coscienza»: condizione indispensabile per vincere la sfida lanciata da questo nuovo mondo, in cui occorrono intensità di sentimenti e talenti nuovi, e parole mai prima usate, capaci di disegnare confini del pensiero e della poesia sempre più ampi e intrecciati.


Lo sguardo di Calvino è altrettanto determinato e cauto. La sua risposta sarà il Dialogo sul satellite, un racconto di chiara impronta leopardiana in cui affronta il tema del concetto di spazio legato ai primi lanci satellitari65.


È un Calvino inquieto, che se ne sta «tutto attento e ansioso»66, pronto a captare la pur minima variazione di significato prodotta da quella presenza anomala nella vita e nei pensieri degli uomini. A chi con eccessivo ottimismo associa le conquiste spaziali al progresso civile e sociale dell’umanità, Calvino replica chiedendosi che cosa stiano pensando del satellite «i pastori dell’Asia centrale, o del Marocco, e disoccupati, e affamati, e analfabeti, e minatori in fondo a buie gallerie, nel Belgio, o nel Cile, o chissà dove»67. E a differenza di coloro che vedono già nel satellite il simbolo di un mondo più giusto, la conferma concreta che «la storia non si può fermare», la sua risposta si fa invece carica di dubbi e di diffidenze, convinto che in fondo «non muta l’atteggiamento dell’uomo semplice», perché anche adesso «la lezione che egli ne trae è di pazienza, di attesa, d’evasione immaginaria»68. Se non fosse intervenuto un cambiamento di mentalità nel modo di guardare il «cielo», anche stavolta nulla sarebbe mutato e, come in passato, la maggioranza delle persone avrebbe finito per proiettare sul satellite le speranze e le illusioni di sempre. Insomma, «il trasferire in cielo una parte di sé, umiliata sulla terra, non è l’antico modo usato dalla religione per offrire conforto alle pene quotidiane? […] Non è questo che i filosofi chiamarono alienazione?»69


Come si vede, sono temi già presenti nel precedente racconto cosmico, La tribù con gli occhi al cielo, ma che qui assumono ben altra consistenza. Merito anche del contrasto che emerge tra le visioni del mondo difese dai due interlocutori, e che la forma dialogica amplifica. Così, alla credenza ingenua nella ragione umana e nelle scoperte dell’homo faber, Calvino contrappone lo scetticismo di chi ha da tempo perso ogni fiducia nell’idea positivistica di un progresso assoluto e cumulativo: «Le conquiste della tecnica – rispondeva al suo immaginario interlocutore – possono assumere un senso o quello opposto. Nelle astronavi potranno prender posto anche eserciti imperialisti, nazisti interplanetari, missionari gesuiti, catene di forzati. Culto tecnocratico e angoscia spaziale si conciliano bene con tutte le ideologie reazionarie»70. Alle «pure» e «nobili» ragioni della scienza e della tecnica oppone l’altra faccia della medaglia, quella screziata e impura della storia dell’uomo entro cui nasce e si sviluppa ogni forma di conoscenza, anche quella dal «volto umano» della moderna società socialista.


Ma nonostante le incertezze e i timori, non misconosce la portata dell’evento. Anzi, ne ribadisce il valore e le straordinarie potenzialità. A una condizione, per lui essenziale: è sulla terra, e non in cielo, che occorre aguzzare lo sguardo alla ricerca delle trasformazioni morali e ideali che la nuova dimensione spaziale è capace di innescare: «Sì, sono giorni, questi, in cui prendono forma molte cose, idee e relazioni che terranno il campo nell’avvenire, nascono nuovi significati ed altri mutano. […] Bisognerebbe che la presenza del satellite non rimpicciolisse ma ingrandisse, aumentasse di peso e d’importanza ogni gesto umano, anche il più umile, e in tutti i lavori le lotte le ricerche si sentisse che l’era interplanetaria è cominciata»71.


Su questo punto, la distanza che lo separa da altri scrittori della sua stessa generazione, primo fra tutti Pasolini, è assai netta.


All’indomani del successo della missione Lunik III72, in una breve ma densa risposta all’inchiesta sul tema «I giovani e il progresso nell’era cosmica» promossa da «Nuova generazione», il settimanale dei giovani comunisti italiani, Pasolini sembra quasi riprendere il filo del ragionamento seguito da Calvino nel Dialogo. Le enormi disparità presenti nelle diverse aree del mondo rischiano di diventare ancora maggiori se le rapportiamo ai traguardi raggiunti dalla moderna civiltà tecnologica: «Chi è ancora all’aratro di legno non può guardare al satellite che in modo religioso», aveva osservato Calvino73. Un’analoga preoccupazione traspare dalla risposta di Pasolini: «Il lunik è stato il colpo di grazia a questo caos: i dislivelli sono divenuti abissi. Tra il livello a cui vivono gli scienziati inventori del lunik e il livello a cui vive una persona anche non analfabeta in qualsiasi area sottosviluppata del mondo c’è una distanza infinita: molto più grande di quella che divide la terra dalla luna»74. Ma se in Calvino resta comunque aperta la possibilità che la scoperta di questo «nuovo cielo» non si cristallizzi in una sofisticata forma di alienazione tecnologico-religiosa, ma si trasformi in una spinta ad agire sulla terra per cambiare modi e abitudini del pensiero, in Pasolini questa opportunità viene con decisione negata:


Diciamocelo francamente: che differenza c’è tra un elettrodomestico, di per sé, e il lunik, di per sé? Nessuna. Se gli elettrodomestici – presi a simbolo di una civiltà tecnologica, badate – non hanno avuto sui giovani che un’influenza nefasta […], non vedo perché il lunik dovrebbe averla diversa […]. È vero che è infinitamente più suggestivo un razzo che un aspirapolvere: ma in questa suggestione […] si annida un pericolo ancora più grosso: ossia una nuova forma, centuplicata, d’evasione, di pretestualità75.


Qui non importa insistere troppo sulle reazioni che questo tipo di considerazioni provocò all’interno della sinistra76. Ciò che conta invece sottolineare è che era stato proprio Calvino ad avanzare l’ipotesi che se tutto si fosse risolto nel culto del satellite, allora quel progresso tecnologico non avrebbe reso l’umanità più consapevole di se stessa bensì più alienata, e le conseguenze derivanti dalla conquista dello spazio sarebbero, di fatto, state pari al «culto del frigorifero per chi ha lo stipendio falcidiato dagli acquisti rateali»77. «Vorresti paragonare il frigorifero al satellite? – gli obietta il suo interlocutore –. Tra poco ti sentirò dire che in un frigorifero puoi tenere in fresco le bottiglie, cosa che non puoi fare in un satellite. – Non ci penso nemmeno. Dicevo che anche il progresso tecnico, in un mondo alienato, può portare nuove alienazioni»78. Facendo proprio il paragone calviniano, Pasolini conclude invece che, al momento, la strada imboccata non aveva altre vie d’uscita: «Nel lunik si sovrappongono e coincidono il pericolo spersonalizzante della tecnica e quello pseudo-umanistico della fantasia evasiva»79. Pur incline alla cautela, Calvino è di altro parere. Egli ritiene che la conquista dello spazio abbia comunque un merito: quello di aprire un nuovo fronte di riflessione sull’uomo e sul mondo che non può essere trascurato, né tantomeno essere sbrigativamente liquidato come l’ennesimo risultato disumanizzante di una razionalità calcolante. Ciò che più lo interessa è capire quali implicazioni morali si possono trarre da questa nuova esperienza, quali interrogativi porta con sé questo nuovo rapporto dell’uomo con l’idea di spazio e le sue dimensioni, e quali ripercussioni tutto ciò avrebbe prodotto nel suo lavoro di scrittore:


La sua prima funzione [del satellite] è quella di dare all’uomo la dimensione dello spazio […]. Voglio che faccia operare sulla terra. E pensare all’universo. Voglio che dia più spazio ai pensieri umani. Da quando è là che gira, ho ripreso a pensare a cose cui non riflettevo da quando avevo diciott’anni80.


Quel «pensare all’universo» non è una dichiarazione d’intenti che resterà isolata. Si può invece già considerarla il punto d’inizio di una riflessione che lo porterà di lì a qualche anno, e in piena solitudine, alla costruzione d’immagini e linguaggi mai prima d’allora tentati.


 


1 In «Il Giorno», 9 luglio 1973, ora col titolo L’attesa dei marziani, in G. Pulce (a cura di), Ufo e altri oggetti non identificati 1972-1990, postfazione di R. Manica, Quiritta, Roma 2003, pp. 15-8: 15.


2 Cfr. C. Segre, Italo Calvino e il «Notiziario Einaudi», in L. Clerici - B. Falcetto (a cura di), Calvino & l’editoria, Marcos y Marcos, Milano 1993, pp. 21-34.


3 L’espressione è usata dallo stesso Calvino: cfr. L, p. 586, lettera a Aldo Camerino, 26 febbraio 1959. Anche se, in altri contesti, teneva a distinguere e a precisare che «i miei racconti non sono esattamente dei contes philosophiques: Voltaire iniziava sempre da un’idea e la sviluppava in racconto. Io, invece, parto da un’immagine o da una catena di immagini che poi sviluppo» (S. Granier, Italo Calvino entre le réalisme et l’imaginaire, in «Le Monde», 7 maggio 1966, cit. in S. Garbarino, Traduzioni letterarie: creazioni poetiche? Italo Calvino in Francia, in «Lettere italiane», LVIII, 2006, 3, pp. 489-505: 493). Per informazioni su tirature e date di pubblicazione (con riferimento al finito di stampare) dei libri calviniani cfr. F. Serra, Calvino, Salerno Editrice, Roma 2006, pp. 358-66.


4 «Ho avuto Il barone rampante per ragazzi ma non Il cavaliere inesistente che si dev’essere perso nella confusione postale natalizia ma ho visto una copia arrivata qui a una famiglia di miei lettori, e mi piace la copertina» (L, p. 634: lettera agli Amici torinesi, New York, 2 gennaio 1960).


5 Sul primo viaggio negli Stati Uniti cfr. P. Castellucci, Un modo di stare al mondo. Italo Calvino e l’America, Adriatica editrice, Bari 1999, pp. 101-18; J. Francese, Lo scrittore che non venne dal freddo, ovvero il primo viaggio di Calvino negli Usa, in «Allegoria», XIII, 2001, 37, pp. 38-61; A. Botta - D. Scarpa (a cura di), Italo Calvino newyorkese, Avagliano, Cava de’ Tirreni 2002, pp. 7-11; G. P. Raffa, «Io amo New York»: Calvino’s Creatively Chaotic City, in P. Antonello - S. A. Gilson (a cura di), Science and Literature in Italian Culture from Dante to Calvino. A Festschrift for Patrick Boyde, Legenda, Oxford 2004, pp. 276-91.


6 I. Calvino, Eremita a Parigi. Pagine autobiografiche, nota introduttiva di E. Calvino, Mondadori, Milano 1994, p. 8. Per sottolineare il rilievo di questo viaggio, è sufficiente ricordare l’intenso lavoro di scrittura che ne seguì, a cominciare da Un ottimista in America, un lavoro che Calvino all’ultimo momento, quando era già in seconde bozze, decise di non pubblicare (cfr. ibid., pp. 8-9). Da tenere presenti anche le schede di lettura che periodicamente inviava alla casa editrice torinese. Di estremo interesse sono le osservazioni sul divario tra scienza e humanities che prendono spunto dall’ultimo libro di Ceram, uscito presso Knopf, nel 1961, col titolo Yestermorrow. Notes on Man’s Progress. Scrive Calvino: «Titolo proposto da Knopf: Note sul futuro della civiltà. Argomento: il problema della nostra civiltà è che scrittori e scienziati non possono parlare tra loro, non hanno un linguaggio in comune; oggi gli scienziati sono enormemente avanzati rispetto agli scrittori; di fronte alle prospettive di un mondo dominato dalla scienza e dalla tecnica l’atteggiamento dell’autore è completamente ottimista, in polemica con tutti i profeti della disumanizzazione tecnica; si tratta soltanto di portare la cultura umanistica, le arti, la filosofia ecc. al livello della scienza. Posizione sacrosanta, che condivido in pieno (in fondo le mie conclusioni sull’America sono quelle)» (L, p. 648: lettera alla Casa editrice Einaudi, 6 aprile 1960).


7 «Vorrei farne un libro come i Viaggi di Gulliver. Avventure, e soprattutto disavventure, non mi sono certo mancate», dichiarava a conclusione del suo soggiorno (Calvino raccoglie le lettere scritte agli amici, in «L’Espresso Mese», I, maggio 1960, 1, p. 109).


8 I. Calvino, Diario americano (1959-1960), in Id., Eremita a Parigi cit., p. 69.


9 Ibid., p. 51.


10 I. Calvino, Ritratto su misura, in Id., Eremita a Parigi cit., p. 23. Cfr. L. Baranelli - E. Ferrero (a cura di), Album Calvino, Mondadori, Milano 1995, pp. 7-12; M. Porro, Letteratura come filosofia naturale, in M. Belpoliti (a cura di), Italo Calvino. Enciclopedia: arte, scienza e letteratura, in «Riga», 1995, 9, pp. 253-82: 253-5; Serra, Calvino cit., pp. 21-5.


11 I. Calvino, Autobiografia politica giovanile (1960), in Id., Eremita a Parigi cit., pp. 151-2.


12 RR, I, pp. 1220-4; il passo citato è a p. 1224, e sarà poi inserito, con leggere varianti, in Tre correnti del romanzo italiano d’oggi (1959), S, I, pp. 61-75: 75.


13 «M’avrebbe approvato Pavese, lui che era il primo a leggere tutto quello che scrivevo, e a dire sì o no?» (RR, I, p. 1222). Su Calvino e Pavese cfr. G. Bertone, Italo Calvino. Il castello della scrittura, Einaudi, Torino 1994, pp. 87-118.


14 I. Calvino, I nostri antenati (1960), RR, I, p. 1219.


15 Cfr. L. Ariosto, Orlando furioso, raccontato da I. Calvino, con una scelta del poema, Einaudi, Torino 1970, pp. XIX, XXIV. Sull’attualità del Furioso, cfr. G. Piovene, Il mondo senza confini dell’«Orlando Furioso», in «La Stampa», 31 dicembre 1967, p. 3. Sull’Ariosto di Calvino cfr. S. Verdino, Ariosto in Calvino, in «Nuova Corrente», XXXIV, 1987, pp. 251-8; P. Grossi, Calvino et l’Arioste: note en marge, in P. Grossi - S. Fabrizio-Costa (a cura di), Italo Calvino: le défi au labyrinthe, Presses Universitaires de Caen, Caen 1998, pp. 129-43; P. Grossi, Italo Calvino lecteur du «Roland Furieux», in Id. (a cura di), Italo Calvino narratore, atti della giornata di studi (19 novembre 2004), Istituto italiano di cultura, Parigi 2005, pp. 109-22; A. Battistini, Geometrie del fantastico: l’Ariosto di Italo Calvino, in «Rivista di Letterature moderne e comparate», LIV, 2001, 2, pp. 147-70.


16 RR, I, p. 1222: «Sono stati anni duri, con alterne fasi di denti stretti, ventate di speranze, calate di pessimismo e di cinismo, gusci che ci siamo costruiti. Tutti abbiamo perduto qualcosa di noi stessi, poco o tanto. Conta quel che siamo riusciti a salvare, per noi e per gli altri».


17 Ibid., p. 1223.


18 I. Calvino, Il cavaliere inesistente (1959), ibid., p. 1064. Su questo passo, e più in generale sul Cavaliere, cfr. D. Scarpa, Italo Calvino, Bruno Mondadori, Milano 1999, pp. 77-80. Sono da tenere presenti anche le osservazioni di G. Guglielmi, Le «finzioni» di Italo Calvino, in Id., La prosa italiana del Novecento II. Tra romanzo e racconto, Einaudi, Torino 1998, pp. 154-73: 154-62, e di M. Lavagetto, Dovuto a Calvino, Bollati Boringhieri, Torino 2001, pp. 99-100. Né molto diversa ci pare l’immagine che Calvino impiegherà quasi trent’anni più tardi in chiusura della sua prima lezione americana. Prendendo spunto dal Cavaliere del secchio, egli trasformerà il racconto di Kafka in un volo della fantasia, facendogli acquistare tutto il fascino della «levità ed eleganza» ariostesca: «Il secchio è così leggero che vola via col suo cavaliere, fino a perdersi oltre le Montagne di Ghiaccio. […] Ma l’idea di questo secchio vuoto che ti solleva al di sopra del livello dove si trova l’aiuto e anche l’egoismo degli altri, il secchio vuoto segno di privazione e desiderio e ricerca, che ti eleva al punto che la tua umile preghiera non potrà più essere esaudita, – apre la via a riflessioni senza fine. […] Così, a cavallo del nostro secchio, ci affacceremo al nuovo millennio, senza sperare di trovarvi nulla di più di quello che saremo capaci di portarvi. La leggerezza, per esempio, le cui virtù questa conferenza ha cercato d’illustrare» (I. Calvino, Lezioni americane, 1988, S, I, p. 655).


19 Ha scritto Daniele Del Giudice: «Quello che di estremamente affascinante c’era in Calvino era questo essere appoggiato con una spalla contro, questo è un verso di Roversi, l’aver necessità di un progetto e il bucarlo continuamente. Certamente ha ragione Celati quando parla di un continuo progetto narrativo in Calvino. Io come Celati, come Ginevra Bompiani e Giorgio Agamben, ho avuto la fortuna di essere amico di Calvino e quindi di parlare spesso con lui e, certe volte, mi trovavo a disagio proprio per il fatto che Calvino metteva a tema della narrazione il problema, invece di usare il problema come noce energetica sotterranea che produce storie, che produce personaggi» (D. Del Giudice, intervento in B. Cottafavi - M. Magri, a cura di, Narratori dell’invisibile. Simposio in memoria di Italo Calvino, Mucchi, Modena 1987, p. 163).


20 I. Calvino, Sogno e delirio. Il Calvino segreto, intervista a cura di D. Pettigrew e W. Weaver, in «la Repubblica», 10 settembre 1995, p. 24.


21 Del Giudice, Colloquio con Italo Calvino cit., pp. 2828-34: 2829-30.


22 Cfr. M. Barenghi, La purezza e la metamorfosi: Fortini vs Calvino, in «L’ospite ingrato», I, 1998, pp. 135-40, ora in Id., Italo Calvino, le linee e i margini, il Mulino, Bologna 2007, pp. 189-97. Barenghi riporta un giudizio di Esther Calvino, secondo la quale «la prima concezione delle Città invisibili risale all’estate del 1966» (p. 139).


23 RR, I, p. 1223.


24 L, p. 683: Calvino a N. Ginzburg, 12 maggio 1961.


25 I. Calvino, Il 7 giugno al Cottolengo, intervista di A. Barbato, in «L’Espresso», 10 marzo 1963, p. 11. Nella stessa intervista dichiarava: «Con Il cavaliere inesistente, nel 1959, avevo toccato il punto d’arrivo del mio lavoro in una certa direzione. Sapevo che non dovevo ricominciare a scrivere se non quando avessi avuto qualcosa da dire, e che avevo ormai chiuso un certo ciclo. Mi pareva d’aver portato alle estreme conseguenze un certo modo d’esprimermi attraverso invenzioni fantastico-avventurose, il cui pericolo è quello di abbandonarsi ad un giuoco che può diventare gratuito». Su questo punto cfr. S. Perrella, Calvino, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 90-4.


26 S, II, p. 2922 (I. Calvino, intervista a Maria Corti, in «Autografo», II, 1985, 6, pp. 47-53).


27 Così Calvino definiva il progetto (ibid.).


28 L’altro è legato alle Fiabe italiane: cfr. infra, cap. IV, pp. 75-6.


29 Cfr. infra, cap. IV.


30 I. Calvino, Dimentica e ricorda, in «la Repubblica», 11 settembre 1984, S, I, pp. 1385-6.


31 C. Fruttero - F. Lucentini, Incontro ravvicinato con la fantascienza (1978), ora in Ead., I ferri del mestiere. Manuale involontario di scrittura con esercizi svolti, a cura di D. Scarpa, Einaudi, Torino 2003, pp. 71-2.


32 S. Solmi a G. Einaudi, 11 febbraio 1958 (AE, Corrispondenza con autori e collaboratori italiani, d’ora in avanti Corrispondenza, S. Solmi, cart. 199, fasc. 2842, n. 26). Del livello assai mediocre della science fiction si era lamentato Roberto Bazlen alcuni anni prima, in una lettera a Solmi: «Due mesi fa ero rimasto un po’ affascinato da certe novelle […] trovate in antologie americane, ma l’interesse m’era passato quasi subito. Interessanti, perché preannunciano un’atmosfera nuova e una nuova geografia (non sono certamente casuali) in cui il mondo vivrà pochi decenni dopo la terza guerra mondiale […]. Ma così penosamente cattiva letteratura, che non ce l’ho fatta a continuare, anche se so che questa infiltrazione di una visionarietà nuova è necessariamente legata ad un livello culturale di terzo ordine» (R. Bazlen, Scritti, a cura di R. Calasso, Adelphi, Milano 1984, pp. 279-80: lettera del 19 novembre 1952).


33 S. Solmi a C. Fruttero, 18 giugno 1958 (AE, Corrispondenza, S. Solmi, cart. 199, fasc. 2842, n. 28).


34 C. Fruttero a S. Solmi, 27 giugno 1958 (ibid., n. 30). E ancora, il 13 maggio: «Il mio lungo silenzio non significa che abbia interrotto l’esplorazione della galassia. In ogni ritaglio di tempo (ho molto da fare per la casa editrice in questo periodo) leggo intensamente racconti su racconti. Ho ritrovato Il labirinto pubblicato da “Temps Modernes”, che ricordavo anch’io come cosa eccellente. E ho fatto varie altre scoperte che le invierò quanto prima» (ibid., n. 27).


35 G. Einaudi a S. Solmi, 17 gennaio 1958 (ibid., n. 25).


36 C. Fruttero a S. Solmi, 13 maggio 1959 (ibid., n. 39). La proposta non si concretizzò, e le traduzioni furono in gran parte realizzate da Giorgio Monicelli e dallo stesso Fruttero. «Giovane brillante, anglicista, radiodrammaturgo, pieno di virtù», così Calvino definiva Fruttero in una lettera a Paolo Grassi del 3 dicembre 1953 (L, p. 386).


37 A questo proposito scriveva Calvino a Lucentini nell’aprile 1954: «Mi dicono che tu sei un ottimo astronomo e astronauta dilettante. Ora noi pubblichiamo L’esplorazione dello spazio di Arthur C. Clarke, presidente della British Interplanetary Society. Ci puoi fare un articoletto informativo e brillante per il “Notiziario Einaudi”? Di 3-4 cartelle […]. Il volume sarà illustratissimo e siamo in caccia di tavole adeguate. Tu non sai mica dove metter le mani, a Parigi, per trovare delle foto interplanetarie o comunque interessanti l’argomento?» (AE, Corrispondenza, F. Lucentini, cart. 120, fasc. 1768, n. 51). Va inoltre ricordato che proprio in quegli anni venne presa in esame l’ipotesi di aprire una nuova collana, una «collana di esperienze avventurose e di divulgazione scientifica dedicata ai giovani», in cui inserire il libro di Clarke. Lo scopo della nuova collana avrebbe dovuto essere quello di «dare ai giovani libri che servano alla scoperta di nuovi mondi e di nuove possibilità umane, libri in cui non manchino i caratteri dell’avventura e del divertimento, ma dove avventura e divertimento non siano mai fini a se stessi» (AE, Verbali delle riunioni editoriali, d’ora in avanti Verbali, fasc. 152, n. 5: 13 luglio 1955; la proposta fu avanzata da Luciano Foà). Il progetto non venne realizzato e il libro di Clarke uscì nella collana «Nuova Atlantide».


38 G. Piovene, Quello che troveremo uscendo dalla Terra, in «La Stampa», 2 dicembre 1959, p. 3.


39 Del tutto sconosciuti erano, per esempio, Clifford Simak e Robert Sheckley. A proposito di Sheckley si veda l’intervista dal titolo Ai confini tra il «genere» e la grande letteratura, in www.fondamenta.org/download/fantascienze.pdf (atti del Laboratorio Le fantascienze, tenuto a Venezia, 5-6 febbraio 2000). Cfr. anche N. Vallorani, La fantascienza anglo-americana nelle traduzioni italiane, in C. Pagetti, I sogni della scienza: storia della science fiction, Editori Riuniti, Roma 1993, pp. 205-10; C. Pagetti, Italo Calvino, il fantastico, la fantascienza, in D. Frigessi (a cura di), Inchiesta sulle fiabe. Italo Calvino e la fiaba, Lubrina Editore, Bergamo 1988, pp. 61-72.


40 S. Solmi - C. Fruttero (a cura di), Le meraviglie del possibile. Antologia della fantascienza, Einaudi, Torino 1959, p. IX.


41 Ibid., pp. X-XI. D’altra parte, Solmi non mancava di rilevare alcune differenze che distinguevano le due forme di narrazione, tra cui la più evidente era il carattere prevalentemente asessuale della letteratura fantascientifica (p. XII).


42 Ibid., p. XXIII.


43 Fruttero - Lucentini, Incontro ravvicinato con la fantascienza cit., pp. 72-3, mio il corsivo.


44 Cfr. ibid., p. 71.


45 Il «Notiziario», che si apriva con la presentazione delle Meraviglie del possibile (strenna del 1959, definito «anno lunare»), riportava alcuni brani dell’introduzione di Solmi e un lungo articolo di Carlo Fruttero, in cui veniva posto l’accento sulla distanza che sempre più separava la letteratura europea da quella americana: «Mentre in Europa si continua a seguire con simpatia, e addirittura con interesse, il fiotto incessante della narrativa commerciale di tipo naturalistico, psicologico, introspettivo, ecc., e a prendere sul serio i sottoprodotti della letteratura dell’Ottocento o dell’avanguardia di quarant’anni fa, in America si è venuta sviluppando una fioritura di opere fantastiche di così intensa e prepotente drammaticità, ricche di così caustici umori, di così geniali e sconvolgenti illuminazioni, che si stenta a non acclamarla come l’unico fatto veramente nuovo, e di grandi conseguenze, verificatosi nella generale palude letteraria da vent’anni a questa parte» (in «Notiziario Einaudi», VIII, 1959, 3, p. 1). Tuttavia, come ebbe modo di constatare con disappunto lo stesso Solmi, gli sviluppi successivi della fantascienza privilegiarono altri aspetti, facendo passare in secondo piano la fantascienza come viaggio spaziale e avventura cosmica e quindi rendendo sempre più esigui i suoi rapporti con il romanzo cavalleresco. Su questo punto si vedano le considerazioni di Renato e Raffaella Solmi in Il terzo libro della fantascienza. Il giardino del tempo e altri racconti, a cura di S. Solmi, Einaudi, Torino 1983, pp. 225-6.


46 I. Calvino, [risposta a] Cosa stanno preparando i nostri scrittori, in «Italia domani», 15 marzo 1959, 11, p. 17.


47 E. Montale, È fantascientifico ma alla rovescia, in «Corriere della Sera», 5 dicembre 1965, poi in Id., Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano 1996, II, pp. 2760-2.


48 F. Antonicelli, Nuove fantasie di Calvino, in «Radiocorriere Tv», 5 dicembre 1965.


49 S. Solmi, Letteratura e società. Saggi sul fantastico. La responsabilità della cultura. Scritti di argomento storico e politico, a cura di G. Pacchiano, Adelphi, Milano 2000, p. 21. E proseguiva: «E varrebbe la pena di un saggio complessivo – che non mi consta di aver mai letto –, che lo seguisse dal patetico lirismo di novelle come Un pomeriggio, Adamo…, attraverso i racconti “partigiani”, poi quelli “realistici”, quindi le allegorie di gusto vagamente illuministico e volteriano, fino a libri come Le Cosmicomiche e Ti con zero, con le loro raggelate geologie, biologie e cosmologie, la cristallizzata precisione del dettaglio descrittivo, la puntigliosa ricerca del dato scientifico: tutt’insieme, comunque, uno dei fatti grossi della letteratura fantastica del nostro tempo».


50 I. Calvino, Premessa a La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche (1968), RR, II, p. 1300.


51 Anche l’ambientazione fantascientifica del Motel dei destini incrociati, se mai lo avesse realizzato, si sarebbe subito trasformata in un’altra cosa, in un efficace espediente narrativo da cui far scaturire un nuovo testo combinatorio da affiancare entro lo schema generale del Castello e della Taverna. Calvino ne tracciava una scarna ma significativa trama nella Nota al Castello dei destini incrociati: «Alcune persone scampate a una catastrofe misteriosa trovano rifugio in un motel semidistrutto, dove è rimasto solo un foglio di giornale bruciacchiato: la pagina dei fumetti. I sopravvissuti, che hanno perso la parola per lo spavento, raccontano le loro storie indicando le vignette, ma non seguendo l’ordine d’ogni strip: passando da una strip all’altra in colonne verticali o in diagonale. Non sono andato più in là della formulazione dell’idea così come l’ho esposta ora. Il mio interesse teorico ed espressivo per questo tipo d’esperimenti si è esaurito» (I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, 1973, RR, II, p. 1281).


52 Cfr. Id., La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche, RR, II, p. 1301.


53 G. Davico Bonino, Alfabeto Einaudi. Scrittori e libri, Garzanti, Milano 2003, p. 67.


54 Calvino, Dialogo di due scrittori in crisi cit., pp. 83-9: 86.


55 Ibid., pp. 85, 86. Sull’Italia del boom economico cfr. G. Crainz, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta, Donzelli, Roma 2005 (1996).


56 Calvino, Dialogo di due scrittori in crisi cit., pp. 84, 89.


57 Ibid., p. 86.


58 S. Solmi, Distrazioni, in «Nuovi Argomenti», VI, gennaio-febbraio 1958, 30, pp. 99-100.


59 I. Calvino, La tribù con gli occhi al cielo (1957), RR, III, pp. 226-7.


60 Ibid., p. 228.


61 La rivista (il primo fascicolo è del marzo 1957) era diretta da Tommaso Chiaretti e vi collaboravano, tra gli altri, Ugo Attardi, Luca Canali, Mario Socrate, un gruppo di intellettuali comunisti dissidenti che, a differenza di Calvino, all’indomani dei fatti ungheresi del 1956, avevano deciso di restare nel Partito.


62 Il passo è tratto da «Nuova generazione. Settimanale dei giovani comunisti italiani», IV, 21 novembre 1959, articolo di fondo non firmato (il direttore era Angelo Coen). Il fascicolo ospitava, sul tema «I giovani e il progresso nell’èra cosmica», gli interventi di Arpino, Libertini, Pasolini, Scarrone e Spriano.


63 Una vera e propria rassegna delle reazioni che la stampa liberale e quella cattolica dedicarono al lancio dei primi satelliti sovietici venne realizzata da Franco Lucentini in due articoli usciti su «Passato e presente» (Le morali del satellite, 1958, 1, pp. 100-8) e «Città aperta» (Religioni dello spazio, II, 1958, 7-8, pp. 50-2). Tra i nomi illustri «infilzati» dalla penna tagliente di Lucentini finirono quelli di Luigi Salvatorelli, Arturo Carlo Jemolo, Carlo Bo, Indro Montanelli, Riccardo Bacchelli, Guido Piovene.


64 Una lettera di Sergio Solmi, in «Civiltà delle macchine», V, 1957, 3, p. 78, poi in Solmi, Letteratura e società cit., pp. 194-7: 197.


65 I. Calvino, Dialogo sul satellite, in «Città aperta», II, marzo 1958, 6, RR, III, pp. 229-33. Calvino era incerto se pubblicare questa «novelletta». Come scriveva a Mario Socrate l’8 ottobre 1957, «dopo il satellite che ha montato l’atmosfera psicologica, mi pare non sia più il caso di pubblicarla […]. È un po’ superata (non sostanzialmente, ma, insomma, non casca più tanto bene) e poi non ho nessuna intenzione di fare la parte del provocatore a oltranza» (L, p. 525). Non era il momento migliore di pubblicare il Dialogo sul satellite, dopo l’uscita sempre su «Città aperta» (I, 25 luglio 1957, 4-5, p. 3) di un’altra «novelletta», La gran bonaccia delle Antille, che, com’è noto, fece così scalpore da essere citata, e stroncata, da Togliatti nel suo intervento al Comitato centrale del 28 settembre. In una successiva lettera a Socrate del 4 gennaio 1958 Calvino tornerà a manifestare i propri dubbi sulla pubblicazione: «Rileggerò il dialogo sul satellite, ma mi pare proprio che sia “datato” e se vogliamo proprio pubblicarlo bisognerebbe scriverci novembre 1957 (era novembre, mi sembra), o una nota della redaz. che dica che era stato prep. per il num. che doveva uscire ecc. ma che – dopo tutto quel che s’è detto sull’arg. – ci sembra abbia ancora conservato l’attualità» (L, p. 526).


66 I. Calvino, Dialogo sul satellite, in «Città aperta», II, marzo 1958, 6, RR, III p. 229. In proposito cfr. G. Nava, La geografia di Calvino, in Falaschi (a cura di), Italo Calvino. Atti del Convegno internazionale cit., pp. 149-65: 159-60; E. Bellini, «Chi cattura chi?». Letteratura e scienza tra Calvino e Galileo, in «Galilaeana», III, 2006, pp. 149-97: 151-3.


67 Calvino, Dialogo sul satellite cit., pp. 229-30.


68 Ibid., pp. 230-1.


69 Ibid., p. 230.


70 Ibid., p. 232.


71 Ibid., pp. 229, 232.


72 Lanciata il 3 ottobre 1959, la stazione interplanetaria sovietica trasmise le immagini della faccia nascosta della luna.


73 Ibid., p. 232.


74 P. P. Pasolini, Una moderna forma di evasione? (1959), in Id., Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano 1999, pp. 731-3: 733.


75 Ibid., p. 731.


76 Lo stesso numero di «Nuova generazione» pubblicava un articolo non firmato (e quindi redazionale) in cui si replicava prontamente a Pasolini e al suo «offensivo» paragone tra il satellite e un aspirapolvere: «Noi non pensiamo che la tecnica sia un fatto neutrale e miracoloso, che non vi sia differenza fra il Lunik e un elettrodomestico […]. La civiltà dei frigoriferi, degli elettrodomestici, dei transistors che prendono il posto della coscienza dell’uomo, che diventano la meta per cui l’uomo aliena se stesso, è propria della “civiltà” capitalistica, delle sue strutture, dell’azione di “direzione” morale e intellettuale che esercita la borghesia per mantenere intatto il suo potere […]. Ben altra misura dell’uomo si ha nella società socialista: il Lunik che va negli spazi non è solo un gioiello tecnico, ma anche il risultato di un diverso modo della ragione umana di porsi di fronte ai problemi della natura, di una diversa concezione del mondo, di una diversa dimensione del valore della personalità umana. È un atto di fiducia nell’uomo, non una tappa della sua spersonalizzazione» (in «Nuova generazione. Settimanale dei giovani comunisti italiani», IV, 21 novembre 1959, p. 732).


77 Calvino, Dialogo sul satellite cit., p. 230.


78 Ibid.


79 Pasolini, Una moderna forma di evasione? cit., p. 732.


80 Calvino, Dialogo sul satellite cit., p. 233.

II. L’ultima generazione

La vita letteraria è come la vita militare. Finché si è giovani si può sopportare, con le sue soddisfazioni e insoddisfazioni. Ma non va prolungata per tutta la vita: viene l’ora di chiedere il congedo.


Italo Calvino a Domenico Rea, 13 maggio 19641.


1. I filosofi di Calvino.

Più volte, in questi anni, Calvino affronta il tema del confronto generazionale: nella prefazione del 1964 alla nuova edizione del Sentiero dei nidi di ragno come nella prefazione agli Antenati. Contemporaneamente avvia un’ampia riflessione critica che non è disgiunta dai primi racconti cosmici e che lo condurrà a La sfida al labirinto, uno dei suoi saggi più belli, e non solo degli anni sessanta.


Nel novembre 1957 usciva su «Tempo Presente», la rivista diretta da Nicola Chiaromonte, la seconda parte di un’inchiesta sul realismo. Sul fascicolo di luglio erano intervenuti Bernari, Moravia, Pratolini, Vittorini. Adesso era la volta di Calvino, Solmi, Zolla. Le osservazioni di Solmi erano apparse a Calvino pienamente condivisibili, in sintonia con quanto da lui sostenuto:


Ho visto su Tempo Presente che le cose che dici tu, con esemplare saggezza, non sono discordi da quelle che, più incompostamente, dico io. E ciò mi riconferma nella mia solidarietà con la vostra generazione contro quella dei giovani fenomenologizzatori come lo Zolla2.


È il modo di porsi di fronte a certe questioni fondamentali che Calvino non esita a riconoscere come proprio. Sia che si parli di realismo3, sia che si affronti il tema letteratura-Resistenza4, il loro giudizio è in gran parte coincidente. Anche l’angolo visuale prescelto da Solmi per proiettarsi sul presente non si distanzia molto dal suo:


La verità è che viviamo in un tempo di rapide trasformazioni, che impone un dinamico e convulso alternarsi di abbandono e di contrazione, di leggerezza e di terrore, in cui molte cose morte hanno l’apparenza della vita, e ciò che è vivo stenta a ritrovarsi. Bisogna cercare di dominare con l’intelletto questo processo difficile5.


C’è un sentire comune, prima di tutto contro i facili schematismi e ogni visione astratta delle cose. E ciò perché entrambi sono stati educati a cogliere le differenze e i mutamenti, anche quelli invisibili e più impercettibili, dei processi culturali e sociali in atto. Come stava accadendo al neorealismo che, se aveva svolto una funzione importantissima nell’Italia del dopoguerra, adesso finiva col ripetersi stancamente, prigioniero di se stesso, chiuso com’era in rigidi e sterili modelli a priori6.


Pur essendo di un’altra generazione, Calvino si sente erede della tradizione di pensiero a cui appartiene Solmi (1899-1981): una tradizione laica e materialista, rivolta alla comprensione, per quanto sempre parziale e imperfetta, della realtà; ben lontana dalle fumisterie metafisiche e dai furori moralisteggianti di chi considerava il realismo italiano e francese alla stregua di un fenomeno di «regressione coatta del pensiero estetico»7. Ma su Zolla torneremo tra poco8. Adesso è importante sottolineare che guardare avanti per Calvino significa prima di tutto fare chiarezza sul passato, andando alla ricerca di radici salde e profonde che lo aiutino a trovare sicurezza e slancio nell’attraversamento del nuovo mondo. Così, ogni momento di passaggio richiede un duplice movimento: uno sguardo limpido sul proprio lavoro (che conduce all’individuazione di un nuovo progetto) e un’azione continua di riposizionamento nei confronti delle generazioni che lo hanno preceduto. Per queste ragioni la definizione dei compiti che lo attendono non è circoscrivibile entro i ristretti confini della sfera autobiografico-esistenziale. Per scrivere, per sentire sopra di sé la necessità della scrittura, perché il progetto sia davvero efficace e riesca a esprimere vitalità e tensione, occorre farsi carico di uno stato d’animo generazionale, com’era appunto riuscito a uno degli autori più rappresentativi della generazione di Solmi e più amati da Calvino, a cui sempre riserverà parole di affetto e di riconoscenza. Scrive a Solmi il 3 luglio 1957: «Il tuo saggio su Montale è molto bello: per la prima sistemazione generale della concezione del mondo di Montale, per quel che dice della storia dei suoi – e tuoi e in parte nostri – anni, e per quel che dice della possibilità di poesia d’oggi»9. E un anno più tardi, a Cesare Cases: «Montale è l’unico filosofo che io sia riuscito a seguire sistematicamente, in gioventù»10.


Del saggio di Solmi gli piace soprattutto la parte iniziale, in cui sono tratteggiate con efficacia le linee essenziali della filosofia del poeta, della sua concezione del mondo. Vi trova giudizi che sono anche i suoi, e in primo luogo il ritratto di chi è consapevole di essere «voce» di un’intera generazione11. A questa generazione, che ha imparato attraverso i suoi versi a conoscere la caducità e la precarietà del vivere, Calvino si sente molto vicino e con essa intende stabilire un filo di continuità. Non è un caso che in uno scritto di poco posteriore voglia rendere omaggio al suo maestro e «filosofo» quasi con le stesse parole usate da Solmi:


Il suo universo pietroso, secco, glaciale, negativo, senza illusioni, è stato per noi l’unica terra solida in cui potevamo affondare le radici. Il rigore delle poesie di Montale e di Ungaretti, il rigore degli scarni racconti provinciali di Bilenchi, il rigore dei quadri di Giorgio Morandi, […] ci hanno insegnato in ogni cosa a tenerci all’osso, ci hanno insegnato che ciò di cui possiamo esser sicuri è pochissimo e va sofferto fino in fondo dentro di noi: una lezione di stoicismo12.


Lo stoicismo cosmico di Montale coincide con il suo atteggiamento nei confronti dell’uomo e del mondo, ed è espressione di una morale tutta terrena, dove «non c’è messaggio di consolazione o d’incoraggiamento […] se non si accetta la consapevolezza dell’universo inospite e avaro»13. È una lezione che Calvino farà propria e ritroverà in un altro poeta a lui vicino come Giorgio Caproni («egli ci dimostra che ciò a cui il nulla si contrappone non è il tutto: è il poco»)14, e che lascerà tracce persistenti nella sua scrittura e visione del mondo, a cominciare dall’utopia infinitesimale delle Città invisibili all’universo come poco delle ultime Cosmicomiche15, trovando insolito alimento nella realtà puntiforme e instabile della scienza contemporanea16.


Come non dirsi d’accordo con Solmi quando polemizza con i tanti moralisti di ieri e di oggi che scambiano per decadentismo e culto della poesia pura quello che invece per loro montaliani è «ricerca di una giustificazione di sé e del mondo» e «aspirazione ad un modello di rigoroso scetticismo stoico, che dubita della incarnazione dei valori perché […] posti troppo in alto»?17 Il rimprovero mosso a quella generazione, di essere vittima di un «compiaciuto edonismo» e di essersi così sottratta alle proprie responsabilità, non è poi troppo lontano dalle accuse di disimpegno che da più parti si sono levate nei confronti di Calvino dopo l’abbandono della trincea neorealista per ripiegare e inabissarsi negli universi della fiaba e del fantastico. Non sorprende dunque che in quel saggio del 1959 accanto a Montale spiccasse sopra tutti il nome di Ariosto, ovvero di un altro «filosofo» calviniano, anche lui poeta cosmico senza illusioni, la cui ironia e fantasia non sono mai fini a se stesse ma eccezionali strumenti conoscitivi del reale.


Di qui nasce la «mia solidarietà con la vostra generazione», aveva scritto a Solmi nel novembre del 1957: e, simmetricamente, la presa di distanza da gran parte dei suoi contemporanei.


2. Si è ciò che si fa.

Il ritratto che Calvino fornisce della letteratura italiana nelle conferenze tenute negli Stati Uniti nell’inverno del 1959 si chiude nello stesso modo in cui termina il Cavaliere inesistente, e cioè con Ariosto. Non si tratta di una semplice coincidenza, bensì di una precisa indicazione che potremmo definire metodologica, tutta rivolta al futuro, di un atteggiamento che contiene già in sé una chiara impronta progettuale, e che Calvino sente l’esigenza di giustificare anche sul piano concettuale.


Se la tensione individuo-natura-storia non basta più per cogliere le novità del presente, altrettanto insoddisfacenti sono le prospettive che caratterizzano le principali tendenze della narrativa italiana. A cominciare da quella che più è in sintonia con la tradizione e che definisce come «ripiegamento dell’epica nell’elegia, ossia nell’approfondimento sentimentale e psicologico in chiave di malinconia»18. Essa trova la sua intensità maggiore nei romanzi di Cassola, nella sua capacità di raccontare storie semplici, fatte «di semplici sentimenti, di semplici frasi della conversazione di tutti i giorni»19. Il suo segreto «sta in questo tono grigio, in questo suo parlare a bassa voce, in questa sua rigorosa cronaca di giornate qualsiasi»20. E insieme a Cassola, Bassani: anche per lui il romanzo si sviluppa «dal contrasto tra l’elemento epico e tragico, di tensione morale che la Resistenza ha rappresentato nelle esistenze individuali e nella storia collettiva, e l’elemento lirico, elegiaco del tempo che tutto seppellisce, addormenta, cancella; ed è questo secondo elemento il vero vincitore»21.


Accanto alla via elegiaca Calvino individua un secondo sbocco alla «iniziale spinta epica della letteratura della Resistenza»22, e cioè quello linguistico-dialettale. Anch’esso si inscrive a pieno titolo nell’alveo della tradizione italiana, e di recente ha ricevuto nuovo e originale impulso da scrittori che «usa[no] il dialetto come un particolare mezzo espressivo, con tutte le risorse d’una consumata sensibilità formale»23. Primo fra tutti Gadda, che Calvino considera «l’unica punta d’avanguardia nella ricerca formale che possa affiancarsi a consimili esempi stranieri»24; e insieme a lui il «discepolo» Pasolini, una delle figure «più rappresentative della giovane letteratura italiana»25. Ma pur riconoscendo il valore di ciascuna di queste e di altre forti individualità, Calvino non ha dubbi nel chiedersi se «il dialetto sia la giusta via per dare un’immagine del sempre più complesso mondo in cui viviamo»26. La risposta è fornita subito dopo introducendo la sua scelta letteraria, la corrente della trasfigurazione fantastica a cui lui stesso dichiara di appartenere perché, a differenza delle precedenti, non ha rinunciato alla carica «epica e avventurosa, di energia fisica e morale»27 che aveva contraddistinto la letteratura della Resistenza. Scrive: «Poiché le immagini della vita contemporanea non soddisfacevano questo mio bisogno, mi è venuto naturale di trasferire questa carica in avventure fantastiche, fuori dal nostro tempo, fuori dalla realtà»28. A soccorrerlo e ad accoglierlo in quest’altra via è un «incredulo italiano del Cinquecento»: in lui, nella sua «ostinazione ossessiva» e nel suo «continuo esercizio di levità ed eleganza»29, Calvino trova l’energia necessaria per perlustrare i territori del nuovo mondo. Se è dunque terminato il tempo in cui «le storie sono nelle cose», in cui «è il mondo stesso che tende a raccontarsi, e lo scrittore diventa uno strumento»30, è altrettanto vero che il mondo sul quale ci stiamo affacciando ha bisogno di nuove mappe per essere percorso. Se le consuete sono ormai inservibili, ciò dipende in primo luogo dalla inesauribile complessità e dai molteplici piani di realtà di cui questo mondo è composto.


Queste ultime considerazioni non risalgono agli inizi degli anni settanta. Siamo nel 1959, e in discussione è ancora una volta la crisi del romanzo. Un problema che, secondo Calvino, è male impostato, perché è la nostra attitudine di pensiero, sono le nostre abitudini concettuali a considerare il romanzo «come qualcosa di stabilmente unitario, unidimensionale» a essere inadeguate: «Il romanzo non è in crisi. È anzi la nostra un’epoca in cui la plurileggibilità della realtà è un dato di fatto fuori del quale nessuna realtà può essere accostata»31.


Ma non è sufficiente una consapevolezza astratta per vivere questo inizio e per cogliere fino in fondo le sue opportunità. Per farlo, occorre dotarsi di nuovi strumenti che siano non solo conoscitivi, ma anche linguistici e morali.


Gli Appunti per una collana di ricerca morale si collocano entro questa cornice. Rimasti inediti, furono scritti durante il suo primo viaggio negli Stati Uniti e riportano la data «Chicago, 15 gennaio 1960». Il titolo merita di essere citato per esteso: «Appunti e idee generali per una piccola collezione di testi di ricerca morale per l’uomo moderno»32. Tra i progetti di riviste e di collane editoriali ideate da Calvino e mai realizzate33, queste tre paginette dattiloscritte sono il frutto di un lavoro che egli andava maturando da tempo. Come scrive da New York il 22 novembre 1959, si sarebbe dovuto trattare di «una collana (o un’antologia) di morale dell’uomo moderno, di testi che esemplifichino nella vita e nella morale pratica tutto ciò che serve all’uomo moderno per dirsi completo e che l’ideologia e l’organizzazione non gli dà o gli nega»34. A sollecitarlo in tal senso era stata anche la pubblicazione di un volumetto curato da Elémire Zolla per Garzanti dal titolo I moralisti moderni, che «m’aveva messo voglia di contrapporre a quella qualcosa di simile con opposto spirito»35. L’antologia proponeva alcune pagine dei «grandi moralisti del nostro tempo»36 (Thomas Mann, Kafka, Freud, Proust, Gide, Adorno, Valéry, Musil) suddivise per grandi temi (l’inconscio, l’io, la società, l’amore, l’amicizia, l’arte). Nell’introduzione Moravia specificava così il senso di questa scelta:


Nei loro libri [vi è] un tentativo di ricerca e di ricostruzione di un nuovo umanesimo e dunque di un nuovo moralismo partendo dal livello della distruzione e della morte. Nell’immenso mucchio di macerie del vecchio umanesimo, essi frugano pazientemente cercando di estrarne e mettere da parte quei materiali che non sembrino del tutto logori e inutilizzabili […]. I loro saggi, i loro romanzi, i loro studi, le loro confessioni partono infatti sempre dall’idea preliminare che il vecchio uomo non c’è più, e che il nuovo non c’è ancora37.


In un’epoca aliena da ogni forma di umanesimo, l’unica possibilità di rinascita di un’idea morale dell’uomo è affidata alla misantropia, la quale trova le sue origini nel disprezzo coltivato dagli uomini verso se stessi e verso gli altri: «Questa misantropia profonda e tranquilla – afferma Moravia – è nutrita di disprezzo, proprio di quel disprezzo nel quale Zolla ravvisa a ragione la scaturigine del moralismo»38. Di segno diametralmente opposto è invece la scelta compiuta da Calvino. Siamo in presenza di una ricerca morale che non scaturisce da un’indagine sui tratti distintivi della natura dell’uomo moderno. Se l’uomo si definisce in primo luogo per ciò che fa, libri morali saranno prima di tutto quelli legati alle singole dimensioni del suo agire. Non è una posizione estetico-speculativa la sua, né di carattere tipologico (che si esprime attraverso l’individuazione di particolari figure di moralisti). È dall’idea di un’etica legata al fare nelle sue molteplici accezioni che è necessario ripartire se si vuole progettare una collana di testi morali che coltivi l’ambizione di parlare il linguaggio dell’oggi:


La caratteristica della collana dovrebbe essere nel far scaturire le linee d’una morale dall’attività pratica, dal fare tecnico ed economico, dalla produzione, dal lavoro insomma (e nel lavoro rientra l’organizzazione del lavoro). Ma esistono, dei libri di questo tipo? Io credo che basti riesaminare con questo occhio i testi minori delle varie letterature e se ne possono trovare di bellissimi39.


Sono testi minori, certo, come gli splendidi scritti sull’arte della navigazione e sulla vita marinara che compongono The Mirror of the Sea di Joseph Conrad, o le memorie del timoniere Mark Twain raccolte lungo le rive del Mississippi, oppure i resoconti del lavoro di scienziati come Freud o Charcot, o le testimonianze di rivoluzionari come Herzen. Ma ciascuno di loro, attraverso precise descrizioni di mestieri e di attitudini umane, rivela sentimenti di devozione e di passione e ha la forza di rinviare a una vita interiore e di riflettere su «un particolare modo di vivere la propria vita, di usare l’esistenza stessa come mezzo d’espressione»40.


Ovviamente all’interno della collana avrebbero trovato posto anche libri di memorie e resoconti di esploratori. Con un intento preciso, però, e subito dichiarato: «Il criterio dev’essere fisso all’attualità della morale del limite umano, del suo continuo allargamento dico, oggi nell’epoca spaziale»41. Il nuovo concetto di spazio, la sua tangibile estensione implicano così una rinnovata tensione e una riflessione sui limiti del sapere e dell’operare umani. Come aveva osservato Solmi, la battaglia spaziale, per essere davvero vinta, ha bisogno di «un corrispondente ampliamento di coscienza»42. Da Chicago, Calvino lo ribadiva con forza, sottolineando quanto la scelta dei testi dovesse essere declinata al futuro. Insomma, doveva essere una collana orientata «e non una delle solite universali, decisa su criteri di puro gusto»43.


Del progetto non rimangono che queste poche tracce44. Anche i verbali delle riunioni editoriali di quei mesi non riportano informazioni in proposito. Resta però il fatto che il progetto di una collana di testi morali si inquadra in un contesto più ampio e diviene anch’esso occasione di riflessione sui compiti della letteratura. Di fronte ai radicali e imprevisti cambiamenti del «fuori», se non vuole ridursi a essere simulacro di se stessa, anche la letteratura ha dunque urgente necessità di trasformarsi:


La letteratura è un’operazione sulle parole, è un’operazione sulle immagini, e in quanto tale condiziona in una sua modesta ma pure essenziale parte il procedere di altri modi dell’operare umano […]. Il poeta agisce sugli strumenti delle operazioni mentali dello scienziato, del tecnico, del politico, del filosofo, anche quando questi non lo sanno. E naturalmente tutti questi agiscono sulle operazioni mentali del poeta, anche quando lui non lo sa. In questo senso, un lavoro specificamente letterario, cosciente anche della limitatezza del suo campo, ma responsabile di quello che può contare in un quadro generale, può essere una cosa seria45.


È un passaggio di un suo intervento pubblicato a pochi giorni dall’uscita delle Cosmicomiche, ovvero della sua prima e concreta realizzazione di un progetto di narrazione che in un sol colpo spazza via ogni forma, più o meno camuffata, di antropocentrismo. Se la letteratura vuole continuare ad agire «sui modi di immaginarsi il mondo, sul modo di usare la parola attraverso cui il mondo viene definito»46, occorre che prenda congedo da una rappresentazione fondata principalmente sull’abitudine e sull’immediatezza della percezione sensibile. Spetterà alle Cosmicomiche segnare questo distacco, primo atto di una navigazione sempre più solitaria, rivelando un’idea estrema e inimitabile di letteratura.


3. Una via d’uscita.

Calvino si sentiva di appartenere a un’ultima generazione. Lo dirà esplicitamente a Daniele Del Giudice alla fine degli anni settanta: «Appartengo all’ultima generazione che ha creduto in un disegno di letteratura inserito in un disegno di società. E l’uno e l’altro sono saltati in aria»47. Ma questa sua convinzione è già presente e matura fin dai primi anni sessanta. Il peso della crescente inadeguatezza della letteratura nei confronti dell’infinita e inesauribile complessità del mondo è infatti avvertito con sempre maggiore preoccupazione, fino a essere mirabilmente ritratto e teorizzato nella Sfida al labirinto, il saggio del 1962 che costituisce uno dei momenti cruciali nel passaggio a una letteratura cosmica.


Calvino ne accenna quasi di sfuggita nella parte finale del saggio. Anzi, si ha quasi l’impressione che ritenga non sia ancora il momento di affrontare l’argomento direttamente e compiutamente o, comunque, che il tema meriti una trattazione specifica, ben più ampia e articolata di quanto era il caso di fare in quella sede. Un po’ com’era accaduto in Natura e storia del romanzo, lo scritto del 1958 che si chiudeva con l’immagine inquietante della resa dell’individualità al mare indistinto dell’oggettività48, e a cui dedicherà un saggio famoso l’anno seguente. Non altrettanto invece accadrà sul tema della letteratura cosmica, e ciò nonostante egli avesse intenzione di scriverne un vero e proprio «manifesto».


Soltanto oggi che possiamo disporre di materiali inediti, tra cui un’ampia scelta dell’epistolario, è possibile apprezzare il finale della Sfida al labirinto. Allora, tra i suoi lettori, finì per passare del tutto inosservato o, come nel caso di Angelo Guglielmi, dette occasione a una serie di considerazioni assai poco lusinghiere:


Proclamando la necessità di una letteratura di sfida al labirinto, Calvino che cosa propriamente intende? In verità temiamo che la cosa non sia chiara nemmeno a lui. È un proposito (magari nobile) che non riesce ad articolarsi in un progetto. Calvino vi accenna nelle ultimissime battute del suo lungo saggio che non a caso proprio in queste ultime frasi prende un tono fideistico. Comunque, in parole povere, la letteratura della sfida al labirinto consisterebbe in una letteratura che non rinunci a esprimere giudizi morali e il cui discorso sia tale da incidere direttamente nella storia degli uomini. Che sono propositi, ripetiamo, nobili. Ma perché siano veramente tali è necessario che non rimangano al livello di propositi. E questo è per oggi il suo destino. E il primo a saperlo è proprio Calvino, il quale non è in grado (e come poteva?) di indicarci nel suo lungo saggio le premesse storiche e di cultura sulla cui base potere verosimilmente concepire un proposito del genere49.


Va detto che le cose non stavano proprio così. Non siamo di fronte a un finale a effetto, buttato lì per chiudere con belle parole e con «tono fideistico» il lungo saggio. Tali parole rispecchiano invece un progetto di ricerca a cui Calvino lavorava da tempo, ma che avrebbe avuto bisogno di altro spazio e di altro respiro per essere compreso.


Un ciclo pare chiudersi. Un’intera fase iniziata col grande romanzo dell’Ottocento e poi proseguita nel Novecento, e che aveva avuto come centro indiscusso il rapporto tra individuo, natura e storia, sembra giunta al termine. O, comunque, il saldo legame che univa tra loro i termini di quel rapporto, e che di volta in volta si cristallizzava dando vita a forme di letteratura le più diverse, non è più sufficiente a garantire la possibilità di rappresentare la nuova epoca in cui viviamo. Perfino i percorsi a lui più prossimi, di coloro che come Pavese avevano misurato le proprie forze con una letteratura del mondo industriale50, apparivano espressione di un’epoca ormai definita, e dunque trascorsa, agli antipodi dalle forme che il mondo stava assumendo:


Oggi cominciamo a richiedere dalla letteratura qualcosa di più d’una conoscenza dell’epoca o d’una mimesi degli aspetti esterni degli oggetti o di quelli interni dell’animo umano. Vogliamo dalla letteratura un’immagine cosmica (questo termine è il punto di convergenza del mio discorso con quello di Eco), cioè al livello dei piani di conoscenza che lo sviluppo storico ha messo in gioco51.


Di fronte all’immagine del labirinto che Calvino sceglie per definire la complessità del presente non ci sono soluzioni semplicistiche o indolori. Non è nella sua indole chiamarsi fuori, né può cavarsela chi pensa di trovare rifugio in immagini e visioni consolatrici dell’uomo e del mondo. Scrive: «Quel che la letteratura può fare è definire l’atteggiamento migliore per trovare la via d’uscita, anche se questa via d’uscita non sarà altro che il passaggio da un labirinto all’altro. È la sfida al labirinto che vogliamo salvare, è una letteratura della sfida al labirinto che vogliamo enucleare e distinguere dalla letteratura della resa al labirinto»52. Anche se emotivamente ne subisce il fascino, Calvino non ama «perdersi nel labirinto»: per questo (o anche per questo) non è uno scrittore postmoderno.


L’invenzione di una letteratura cosmica sarà dunque la sua risposta alla sfida lanciata dal labirinto-mondo. Prima Le Cosmicomiche e Ti con zero, poi Le città invisibili e il Castello dei destini incrociati, infine Palomar: queste saranno le sue vie d’uscita. Ciascuna delle quali si inscrive in un progetto di sfida cosmica sì differente, ma con un fondamentale elemento comune, e cioè la consapevolezza che alla fine, anche su questo terreno, «quel che conta per noi è la sua incidenza nella storia degli uomini […], quel che conta per noi è quello che ci insegna»53.


La sfida al labirinto uscì nel luglio del 1962 sul fascicolo 5 del «Menabò». Su quello stesso numero Calvino e Vittorini pubblicavano un lungo saggio di Umberto Eco dal titolo Del modo di formare come impegno sulla realtà. A Calvino non tutto il saggio era piaciuto allo stesso modo. A interessarlo di più era stata la parte finale, in cui Eco avanzava l’ipotesi della costruzione di una letteratura che fosse altro da una «letteratura sulla società», cioè di una letteratura che realizzasse, con gli strumenti che le sono propri, «una immagine del cosmo quale è suggerito dalla scienza» e attraverso di essa riuscisse a esprimere in altro modo, e forse con più efficacia, «il disagio di una certa situazione umana»54. Nelle intenzioni dell’autore porre al centro della letteratura il cosmo e i rapporti cosmici, e non più direttamente l’uomo o la società, non significava affatto rinunciare a creare una letteratura che parlasse della condizione umana. Non solo: era anche il modo migliore per stabilire canali di comunicazione proficui e non subalterni tra l’immaginazione letteraria e il mondo sempre più separato della scienza e della tecnica:


Una letteratura che esprime nelle sue forme aperte e indeterminate gli universi vertiginosi e ipotetici azzardati dall’immaginazione scientifica, si batte ancora sul terreno dell’umano, perché sta ancora definendo un universo che ha assunto la sua nuova configurazione proprio in forza di una operazione umana […]. Ancora una volta la letteratura esprimerebbe il nostro rapporto con l’oggetto della nostra conoscenza, la nostra inquietudine di fronte alla forma che abbiamo dato al mondo, o alla forma che non possiamo dargli; e lavorerebbe per provvedere alla nostra immaginazione schemi senza la mediazione dei quali tutta una zona dell’attività tecnica e scientifica forse ci sfuggirebbe, e diverrebbe veramente qualcosa di altro da noi, da cui al massimo lasciarci condurre55.


Calvino sottoscrive ogni parola delle conclusioni di Eco: «Benissimo il finale per i rapporti cosmici». E aggiunge: «Da anni pensavo di scrivere un manifesto “Per una letteratura cosmica” ma aspettavo di chiarirmi meglio le idee»56.


Che fine abbia fatto questo manifesto è difficile dire. Certo è che quel «nodo d’idee» che da diversi anni lo affascina e lo inquieta avrebbe trovato di lì a poco un suo stato precario di ordine che è qualcosa di più e di assai diverso della redazione di un manifesto-programma.


 


1 L, p. 812.


2 AE, Corrispondenza, S. Solmi, cart. 199, fasc. 2842, lettera del 13 novembre 1957.


3 Scriveva Calvino: «Devo confessarvi che il termine “realismo” l’ho sempre usato pochissimo, ci ho sempre girato intorno, e più sentivo parlarne meno mi veniva voglia di parlarne io» (S, I, p. 1519). E Solmi: «Il termine [realismo], preso estensivamente, mi è sempre sembrato alquanto equivoco e vago» (S. Solmi, Questioni sul realismo, in «Tempo Presente», II, 1957, 11, p. 882).


4 «L’unico grande fatto storico recente che abbia fermentato direttamente sul piano culturale e che continui in qualche modo ad operarvi, per quanto fallito almeno provvisoriamente su quello politico» (ibid., p. 883).


5 Ibid., p. 885.


6 «In questo senso – rileva Solmi –, le recenti favole di uno scrittore che è stato definito neorealista, come Calvino, possono rappresentare una felice rottura, nel senso di una riaffermazione dei diritti della fantasia, del gioco, sugli elementi puramente cronachistici e documentari» (ibid., p. 883).


7 E. Zolla, Questioni sul realismo, in «Tempo Presente», II, 1957, 11, p. 886.


8 Cfr. infra, pp. 40-1.


9 L, pp. 494-5. Si veda anche la lettera a Angelo Maria Ripellino del 14 giugno, in cui parla del «montalismo» come «retaggio obbligatorio delle nostre generazioni» (ibid., p. 493). Il saggio di Solmi a cui qui Calvino si riferisce è La poesia di Montale, in «Nuovi Argomenti» (1957), poi in Id., La letteratura italiana contemporanea, Adelphi, Milano 1992, I, pp. 363-409. Su Solmi e la sua intensa attività di poeta e critico letterario cfr. L. Caretti, Itinerario di Solmi (1969), poi in Id., Antichi e moderni. Studi di letteratura italiana, Einaudi, Torino 1976, pp. 427-52; P. V. Mengaldo, Profili di critici del Novecento, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pp. 39-43; F. D’Alessandro, Lo stile europeo di Sergio Solmi. Tra critica e poesia, Vita e Pensiero, Milano 2005. Da tenere presente, anche per le informazioni che contiene sulla traduzione della Petite cosmogonie portative di Queneau, è il ritratto che ne fece Calvino in occasione della morte (Solmi lunare ma non troppo, in «la Repubblica», 10 ottobre 1981, S, I, pp. 1253-6). Così come sono da rileggere (o da scoprire) l’affettuosa divagazione di Carlo Fruttero dedicata a Solmi dal titolo Sergio Solmi e la cosmobalena, in «Paragone», XXIII, 1972, 266, pp. 128-36, e il saggio di Giovanni Macchia, Solmi e la fantascienza, in Id., Gli anni dell’attesa, Adelphi, Milano 1987, pp. 206-9.


10 L, p. 570: lettera del 21 novembre 1958. Calvino aveva appena letto Marxismo e neopositivismo, e a proposito del concetto di totalità gli confessava, citando Montale, che «mi era il più ostico – perché porta a voler far quadrare tutti i conti, a escludere la maglia rotta della rete» (ibid.).


11 «L’atonia vitale, la disperazione metafisica degli Ossi di seppia non avrebbero avuto il peso che ebbero, ed hanno tuttora, in noi e nelle generazioni che seguirono, se esse rappresentassero soltanto una particolarità, o una scelta, dell’uomo Montale, come individuo separato, anziché l’esponente – pur carico di una individualità irripetibile e incomparabile – di una spiritualità latente, il riflesso di una situazione diffusa, se pure ancora priva di una voce autentica» (Solmi, La poesia di Montale cit., p. 365).


12 I. Calvino, Tre correnti del romanzo italiano d’oggi (1959), S, I, pp. 64-5. Su Calvino e Montale cfr. S. Perrella, Risonanze montaliane in Italo Calvino, in G. Bertone (a cura di), Italo Calvino, la letteratura, la scienza, la città, Marietti, Genova 1988, pp. 156-63; F. Pierangeli, Italo Calvino. La metamorfosi e l’idea del nulla, Rubbettino, Soveria Mannelli 1997, pp. 117-47; J. Butcher, Eugenio Montale and Italo Calvino: Le Cosmicomiche, Ti con zero and the Post-Bufera Verse, in «Forum Italicum», XXXVI, 2002, 2, pp. 411-37.


13 E soggiungeva, richiamando il nome di Leopardi e stabilendo in poche righe un incontro ravvicinato tra i due: «È su questa via ardua che il suo discorso continua quello di Leopardi, anche se le loro voci suonano quanto mai diverse. Così come, confrontato con quello di Leopardi, l’ateismo di Montale è più problematico, percorso da tentazioni continue d’un soprannaturale subito corroso dallo scetticismo di fondo. Se Leopardi dissolve le consolazioni della filosofia dei Lumi, le proposte di consolazione che vengono offerte a Montale sono quelle degli irrazionalismi contemporanei che egli via via valuta e lascia cadere con una scrollata di spalle, riducendo sempre la superficie della roccia su cui poggiano i suoi piedi, lo scoglio cui s’attacca la sua ostinazione di naufrago» (I. Calvino, Le parole nate nella Bufera, 1981, S, I, p. 1193). Sullo stoicismo di Calvino e la sua «inattualità», cfr. P. Citati, Fine dello stoicismo (in risposta a Italo Calvino), in «Paragone», VI, agosto 1955, 68, pp. 32-41, e la replica di Calvino con Il mare dell’oggettività (1959), in Id., Una pietra sopra, Einaudi, Torino 1980, p. 44 (S, I, p. 58).


14 I. Calvino, Nel cielo dei pipistrelli (1980), S, I, pp. 1023-7: 1027. Sul concetto di «poco» in Montale, Caproni (e Calvino) cfr. L. Surdich, Le idee e la poesia. Montale e Caproni, il melangolo, Genova 1998, pp. 143-4; D. Scarpa, Dall’alto degli anni. Sguardi sul paesaggio calviniano, in L. Waage Petersen - B. Grundtvig (a cura di), Italo Calvino. Dipingere con parole, scrivere con immagini, in «Nuova prosa», 2005, 42, pp. 245-62. Cfr. anche M. Lavagetto, «Little is left to tell», in Id., Dovuto a Calvino cit., pp. 87-116.


15 Cfr. infra, cap. III, pp. 62-4.


16 Cfr. infra, cap. VIII, pp. 167-9.


17 Solmi, La poesia di Montale cit., p. 367.


18 Calvino, Tre correnti del romanzo italiano d’oggi, S, I, p. 67.


19 Ibid., p. 68.


20 Ibid.


21 Ibid., p. 69.


22 Ibid., p. 67.


23 Ibid., p. 70.


24 Ibid., p. 71. I nomi che seguivano erano quelli di Joyce e, soprattutto, di Rabelais. Com’è noto, il giudizio su Gadda subirà un mutamento profondo dopo la lettura del libro di Roscioni, La disarmonia prestabilita (1969). Su questo punto cfr. M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, Einaudi, Torino 1996, pp. 173-9. Sul rapporto Calvino-Gadda cfr. ora M. Porro, Networks and Knots: The Discrete and the Continuous Literature. Italo Calvino and Carlo Emilio Gadda, in Antonello - Gilson (a cura di), Science and Literature in Italian Culture cit., pp. 254-75. Da tenere presente anche il giudizio di Cesare Garboli («uno scrittore [Gadda] che Calvino cominciò ad amare quasi controvoglia, e, in certa misura, contro se stesso», in Plutone nella rete, in «L’Indice dei libri del mese», dicembre 1988, ora in Id., Pianura proibita, Adelphi, Milano 2002, pp. 46-54: 46-7).


25 Calvino, Tre correnti del romanzo italiano d’oggi, S, I, p. 71.


26 Ibid., pp. 70-1.


27 Ibid., p. 73.


28 Ibid. E poco dopo: «La realtà intorno a me non mi ha più dato immagini così piene di quell’energia che mi piace d’esprimere».


29 Ibid., pp. 74-5.


30 I. Calvino, Risposte a 9 domande sul romanzo (1959), S, I, pp. 1521-9: 1527.


31 Ibid., p. 1525.


32 Cfr. S, II, pp. 1705-9.


33 Oltre ad «Alì Babà», la rivista progettata da Calvino e Celati, è da ricordare la collana «Classici italiani», ideata per Einaudi da Calvino e Manganelli nei primi anni settanta. Cfr. Belpoliti, Settanta cit., pp. 171-2, 293. Su «Alì Babà» cfr. infra, cap. VIII, pp. 145 sgg.


34 L, p. 617: Calvino a Giulio e Renata Einaudi. Da parte sua Einaudi gli fece pervenire l’abbozzo di progetto formulato da Bazlen, ma che Calvino giudicò «troppo letterario»: «Mi è difficile fare una critica argomentata all’elenco di Bazlen, dato che molti di quei titoli non li conosco neanche di nome. […] Quello che mi interesserebbe è vedere una linea di ricerca, mentre qui siamo su un terreno di gusto, molto casuale» (ibid., p. 636: Calvino a Renata e Giulio Einaudi, 18 gennaio 1960).


35 Ibid. Sull’antologia garzantiana aveva scritto anche Sanguineti (Sui moralisti moderni, in «Aut Aut», 1960, 56, pp. 110-4), con il quale Calvino esprimeva il suo sostanziale accordo: «Ogni tanto leggo delle cose tue che mi interessano, per esempio quella critica dei “Moralisti” di Zolla. Perché non ci si vede mai? A Torino o a Milano si potrebbe vedere di vederci. Ho anche letto con interesse l’Opus metricum e ti dirò» (AE, Corrispondenza, E. Sanguineti, cart. 187, fasc. 2712/1, n. 1: lettera del 13 ottobre 1960). Sull’antologia la posizione di Sanguineti era stata di netto dissenso: «La prima grave riserva contro la presente antologia dovrà nascere proprio dalla inspiegabile ed inspiegata assenza di questi tre nomi fondamentali [Nietzsche, Kierkegaard, Marx], assenza tanto sensibile che lo stesso Moravia, nella prefazione, sente almeno il bisogno di denunciare la mancata partecipazione di Marx» (p. 110). Non solo: la via estetica alla morale contemporanea scelta da Zolla conduceva inevitabilmente a escludere figure come Michelstaedter, Gramsci, Weber, Brecht, Sartre, Camus.


36 E. Zolla, I moralisti moderni, introduzione di A. Moravia, II ed., Garzanti, Milano 1960, p. 26.


37 Ibid., p. 10.


38 Ibid., p. 8. «Il moralista – sono parole di Zolla – è colui che crea dal nulla, o meglio dall’apparenza innocente trae la mitologia del conflitto tra il Bene e il Male, fra schiere angeliche e diaboliche […]. Da che cosa nasce il moralismo? Quale la materia da cui si trae la forma di vita “moralistica”, che è appunto simile a quella dei monaci o dei settari? Un sentimento che da qualche tempo pare la quintessenza del male: il disprezzo» (ibid., p. 14). Nel Mare dell’oggettività Calvino lo definiva «il moralista del rifiuto, della critica arrabbiata alla civiltà contemporanea» (S, I, p. 56); e nei Beatniks e il «sistema», «l’unico vero arrabbiato italiano […], il suo disgusto e odio per la volgarità del mondo istupidito dall’industria culturale viene dalla coscienza offesa d’un esteta» (ibid., p. 100). Il suo libro Minuetto all’inferno, pubblicato da Einaudi nel 1956, fu al centro di vivaci polemiche e trovò, fin da ultimo, una durissima opposizione da parte di Vittorini. «No, francamente – scriveva a Fruttero il 15 novembre 1955 – non abbiamo mai pubblicato un libro tanto brutto e arcaico, presuntuoso e inattuale, cervellotico e ingiustificato come lo Zolla» (cit. in L. Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 681, ora pubblicata integralmente in E. Vittorini, Lettere 1952-1955, a cura di E. Esposito e C. Minoia, Einaudi, Torino 2006, p. 139). La vicenda è ricostruita anche in E. Zolla, Minuetto all’inferno, introduzione di G. Marchianò, Aragno, Torino 2004, pp. 14-9. Di Zolla si veda la recensione ai Racconti (in «Tempo Presente», III, 1958, 12, pp. 995-6), e la reazione di Calvino («È quanto di più maligno abbia letto su me stesso, ma anche probabilmente quanto di più organico», L, p. 577: lettera del 5 gennaio 1959).


39 I. Calvino, Appunti per una collana di ricerca morale (1960), S, II, p. 1705.


40 Ibid., p. 1708.


41 Ibid., p. 1706.


42 Cfr. supra, cap. I, pp. 27-8.


43 Calvino, Appunti per una collana di ricerca morale, S, II, p. 1709.


44 Tuttavia questo atteggiamento etico, che nasce da una morale del fare e che trova nell’osservazione e nella descrizione i suoi momenti pedagogici fondativi, si concretizzerà, a livello di editoria scolastica, nella sua collaborazione all’antologia La lettura, edita da Zanichelli nel 1969. Sulla partecipazione di Calvino cfr. I. Bezzera Violante, «La lettura»: Calvino e un’antologia per la scuola media inferiore, in Clerici - Falcetto (a cura di), Calvino & l’editoria cit., pp. 83-94.


45 I. Calvino, intervento in La letteratura si trasforma. Cosa diventerà?, in «Il Giorno», 10 novembre 1965, poi in F. Fortini, Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, a cura di V. Abati, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 72. Insieme a Calvino, i partecipanti alla tavola rotonda erano Fortini, Sanguineti, Citati.


46 Ibid.


47 Del Giudice, Colloquio con Italo Calvino cit., p. 2828.


48 Cfr. I. Calvino, Natura e storia del romanzo (1958), S, I, pp. 28-51: 50-1.


49 A. Guglielmi, Una «sfida» senza avversari, in «Il Menabò», 1963, 6, pp. 259-67: 266.


50 «Certo, se in fondo Pavese si può valutare completamente soltanto ora, il suo aver vissuto questi temi come precorritore isolato fa sì che sentiamo quanto siano stati lunghi e decisivi i dodici anni che ci separano dalla sua morte e già tanti suoi aspetti (la lingua, per noi ormai abituati a impasti più complessi; il contrasto tra mondo interiore e politica, che ormai ci pare rudimentale; il contrasto campagna-città, selvaggio-civile, dove persiste l’accentuazione filoprimitiva di tutta la cultura “frazeriana”) ci appaiono ormai con l’inconfondibile colore dell’epoca; e già il fatto di poterlo ora riconoscere e definire ci prova che siamo entrati in un’epoca diversa» (I. Calvino, La sfida al labirinto, 1962, S, I, pp. 115-6).


51 Ibid., p. 123.


52 Ibid., p. 122. Sul concetto di labirinto in Calvino (e la distanza da Borges), cfr. M. Barenghi, Italo Calvino e i sentieri che s’interrompono, in «Quaderni piacentini», 1984, 15, pp. 127-50: 134-5, ora in Id., Italo Calvino, le linee e i margini cit., pp. 35-60: 43-4.


53 Calvino, La sfida al labirinto, S, I, p. 123.


54 U. Eco, Del modo di formare come impegno sulla realtà, in «Il Menabò», 1962, 5, pp. 198-237: 236.


55 Ibid., p. 236.


56 L, p. 706: Calvino a U. Eco, 9 maggio 1962.

III. Per una letteratura impura

Inutile è una domanda anzitempo.


Già altre volte immaginarono


di proiettare fra le stelle,


come una costellazione,


un segno di comunicazione intelligente:


il teorema di Pitagora si scelse.


Ebbene, forse voi credete


che l’arco senza fondo della volta


sia un vuoto vertiginoso di silenzi.


Vi posso dire, allora, che verso


questa terra, appena sospettabile,


l’universo già dilaga di pensieri


che a onde si sospingono, e che parla


da sistemi solari, nell’aldilà


di decine d’anni luce, e fra decine


e decine d’anni luce


qui approderanno parole…1.


1. Al limite estremo.

«Da un po’ di tempo in qua leggo solo libri di astronomia». «Adesso sto scrivendo delle storie tutte diverse, di un personaggio che ha l’età dell’universo». In questo momento «sono immerso in un lavoro d’invenzione molto diverso (una serie di racconti che rappresentano un esperimento nuovo e richiedono una concentrazione in una certa logica)»2.


Quelli appena citati sono brani di lettere che Calvino scrive tra il maggio 1964 e il settembre 1965 e testimoniano la definizione di un nuovo progetto e la genesi di una nuova sfida con la scrittura.


Se i primi anni sessanta rappresentano un punto d’inizio, e se La giornata d’uno scrutatore è un segnale di questa crisi e inquietudine, non c’è dubbio che la risposta più articolata e dirompente che marca il distacco crescente dal clima letterario italiano sarà il ciclo di racconti cosmologici che Calvino intraprende a partire dal 1963 e su cui tornerà a misurarsi fino agli ultimi anni della sua vita3.


Come abbiamo già visto, le ragioni che sono all’origine di questa svolta sono molteplici. Tra queste, un posto speciale occupano le discussioni su scienza e letteratura con Franco Lucentini. «Tu per me – gli scrive il 20 marzo 1964 – sei quello di Borges e Robbe-Grillet, sei quello sempre alla ricerca d’una integrazione tra scienza e letteratura, sei quello che faceva progetti di una “letteratura cosmica”»4. Ma una prima riflessione sull’idea di letteratura come «composizione di meccanismi» è già presente nelle parole che Calvino invia a François Wahl il 1° dicembre 1960: una lettera divenuta celebre, soprattutto per un passo spesso citato come cifra distintiva dell’intera poetica calviniana5.


Sul fascicolo di novembre della «Revue de Paris» era comparso in traduzione francese L’avventura di un poeta. Il racconto è preceduto da una breve ma intensa presentazione di Wahl, che desta subito l’interesse di Calvino:


Devo dirle tutto il mio entusiasmo per il suo scritto sulla «Revue de Paris» […]. È la prima volta che si analizza il mio modo di immaginare e costruire una storia. Cioè lei dice delle cose che io non so, ma in cui mi riconosco, spiega un meccanismo di cui io non sono perfettamente cosciente, ma che riconosco come vero […]. Lei ha organizzato e sviluppato spunti di una mia metodologia della narrazione, che io avevo solo accennato disorganicamente: che il mio punto di partenza sia l’immagine e che la narrazione sviluppi una logica interna dell’immagine stessa6.


Wahl era riuscito a trovare il tono e le parole giuste per definire i tratti essenziali di quello che Calvino definiva «la mia metodologia della narrazione», ovvero la letteratura fantastica come concatenazioni di operazioni logiche7. Cinque anni più tardi, in piena fase cosmicomica, Calvino riprendeva quasi alla lettera queste considerazioni: «Le cose che scrivo adesso sono dei racconti in cui più che mai sono alle prese con “segnicità” (quello che per me è uno sviluppo d’una immagine di partenza secondo una logica interna all’immagine o al sistema d’immagini) e “semanticità” (quello che per me è la raggera di possibili significati d’ogni segno-immagine-parola)»8. E in sintonia con quanto appena affermato, all’uscita delle Cosmicomiche confessava a Gian Carlo Ferretti la sua massima aspirazione: «Sì, io vorrei in un tipo di racconto come le Cosmicomiche riuscire a concentrare anche i contenuti d’una ricerca ideale, d’un commento della realtà; ma vorrei farlo non semplicemente nei modi della parola simbolica o meglio allegorico-polivalente: vorrei arrivare a esprimere tutto pensando per immagini, o immagini-parola, ma che abbiano il rigore quasi di astrazione che tra le Cosmicomiche raggiungono forse solo Un segno nello spazio e La spirale (e forse anche Gli anni-luce) e di lì arrivare ad articolare un discorso che sia il mio discorso senza essere una sovrapposizione di significati»9.


A vincere è dunque la componente più astratta delle Cosmicomiche, entro cui però trovano posto (e ancora di più dovevano trovarlo in futuro) le molteplici forme di rappresentazione della vita reale. Calvino considera questo suo «esperimento mentale» un libro di «crisi» rispetto ai suoi precedenti: un libro «postumo» che mette fine una volta per tutte alle pretese ideologiche della letteratura. Forse è il libro più illuminista che abbia mai scritto, restituendo a questo termine, così abusato e frainteso e in aperta polemica con una folta schiera di intellettuali e letterati, il suo significato antropologico più autentico di ricerca del «limite», l’esatto contrario di un’esaltazione dogmatica delle capacità umane e della ragione, e che si traduce nella ricerca di uno spazio antropomorfo situato al suo limite più estremo, posto cioè «al limite delle possibilità d’immaginazione»10, «al di là del pensabile in immagini umane»11.


Questo allargamento e spostamento di piano procedono di pari passo con il crescente distacco dal mondo letterario italiano. Se un’altra letteratura è possibile, essa non va cercata entro i suoi confini consueti: «La letteratura buona (la poesia) si può fare solo con qualcosa di diverso dalla letteratura», osserva nel maggio 196312. Anche per questo i racconti fantabiologici che Primo Levi gli inviava nell’autunno del 1961 erano stati per lui una gradita quanto inattesa sorpresa. Un’eccezione, una piacevole eccezione rispetto ai lavori dei tanti romanzieri di turno che sempre più stancamente gli capitava di leggere. «Il tuo meccanismo fantastico che scatta da un dato punto di partenza scientifico-genetico ha un potere di suggestione intellettuale e anche poetica, come lo hanno per me le divagazioni genetiche e morfologiche di Jean Rostand»13. Tra i racconti, quelli che apprezza di più sono L’amico dell’uomo e Quaestio de centauris: essi mostrano una vena fantastica che sembrava da tempo esaurita, e hanno la forza di richiamare alla memoria «una civiltà comune che è sensibilmente diversa da quella presupposta da tanta letteratura italiana»14.


Anche da lettere come queste si comprende quanto Calvino fosse in sintonia con Levi, quanto ambedue si sentissero stranieri in patria; e, al tempo stesso, quanto egli fosse consapevole del suo isolamento. Lo dichiarerà apertamente a Gian Carlo Ferretti15. E a Parise, che lo invitava a scegliere la strada del silenzio, rispondeva: «L’importante è considerare d’aver smesso di scrivere, cioè decidere di non essere più nella mischia, aver capito quanto tutta l’atmosfera pubblicitaria in cui è intrappolata la letteratura sia nefasta». Ciò che conta davvero è «scrivere per te, o per farlo circolare manoscritto agli amici, per un lettore solitario di due o tre secoli dopo, insomma non per la recensione, la tiratura, l’intervista, il premio»16.


Potremmo portare altre testimonianze, ma credo che siano sufficienti per comprendere quale sia lo stato d’animo con cui Calvino si accinge a scrivere Le Cosmicomiche. Lo stesso che, all’interno della casa editrice Einaudi, lo spinge a sostenere con entusiasmo opere che hanno il coraggio di aprire strade nuove, com’è il caso del Laboratorio, il libro-diario di Renzo Tomatis che racconta un anno di vita quotidiana a Chicago all’interno di un grande istituto di ricerca bio-medica. È proprio Calvino a presentarlo nella seduta del 3 giugno 1964, usando parole di stima per l’autore ma anche muovendo un duro atto d’accusa nei confronti della sempre più asfittica repubblica letteraria italiana:


Mi pare un libro molto interessante. Racconta tutte le miserie della ricerca in Italia, cosa che non è mai stata scritta, e la stessa cosa in America: carrierismo, burocrazia, lavoro per lavoro. Il libro è molto minuzioso: esperimenti, rapporti con tecnici, conferenzieri. È anche un libro sobriamente sull’America. Come libro documento mi pare di un grande interesse. Mentre questi letterati scrivono volumi e volumi per ogni soprassalto sulle loro animucce, mentre gli ideologi parlano un po’ di loro, c’è una vastissima parte dell’intelligenza umana che non si racconta17.


Era il suo modo di intervenire nel dibattito sulle «due culture»: un modo come sempre concreto, per dimostrare come letteratura e scienza fossero tutt’altro che mondi tra loro lontani. Lo stesso farà pochi anni più tardi, quando nel risvolto delle Storie naturali metterà in risalto che il suo autore, di professione chimico, «sa le passioni umane non meno di quanto sappia la legge dell’azione di massa, e smonta e rimonta i segreti meccanismi che governano le vanità umane»18.


2. La conoscenza umanistica non basta più.

Ha ragione Carla Benedetti quando sostiene che agli inizi degli anni sessanta Pasolini e Calvino sono due scrittori superstiti19. Ambedue abitanti di un altro pianeta, sono costretti a ricominciare da capo e, ciascuno a suo modo, a battere nuove strade: Pasolini lascia il romanzo per il cinema (il «cinema di poesia», come scrive nel 1965)20, Calvino resta scrittore ma inventa un nuovo modo di guardare-conoscere il mondo. Sono scelte coraggiose, compiute sotto il segno dell’urgenza e del rinnovamento, ma tra loro divergenti e antagoniste, che condurranno i due scrittori su sponde ancora più lontane, rendendo impensabile qualsiasi riavvicinamento o possibilità d’incontro21. La prefazione al Sentiero dei nidi di ragno e la Divina mimesis sono emblemi di questa crisi e di un profondo disagio nei confronti di una realtà sociale e culturale in continua trasformazione. «Gli elementi extraletterari – dichiara Calvino ripensando al «clima» in cui era nato il suo primo romanzo – stavano lì tanto massicci e indiscutibili che parevano un dato di natura; tutto il problema ci sembrava fosse di poetica, come trasformare in opera letteraria quel mondo che era per noi il mondo»22. Pasolini, da parte sua, non nascondeva di trovarsi «in un momento molto oscuro della mia vita», e come chi ha di fronte «la luce della vecchia verità […], quella davanti a cui non c’è più niente da dire», si sentiva «come un bambino che non ha più casa, un soldato disperso»23.


Come ricorderà un quindicennio più tardi, fu «l’inadeguatezza del modo di conoscenza umanistico a comprendere il mondo» a condurlo nei territori dell’astronomia e della cosmologia, della linguistica, dell’antropologia, della semiologia24. Quella stessa inadeguatezza contro cui Vittorini polemizzò aspramente nei suoi ultimi scritti e dalle pagine del «Menabò». Ma non si trattò di una rinuncia a un’idea forte di letteratura, né tantomeno dell’inizio di un abile gioco per «rimanere sulla cresta dell’onda senza passare per vecchio»25. Il ritratto di un Calvino «tutto preso da problemi d’immagine»26, che si chiude in un «labirinto tutto letterario»27 tipico del trasformismo postmoderno, non regge a un esame ravvicinato delle fonti. Come quasi sempre accade nella scienza, così anche nella letteratura le categorie di precorrimento e di anticipazione falsano la prospettiva storica e creano fantasmi e immagini fittizie: come se, appunto, il Calvino degli anni sessanta si potesse considerare precursore del Calvino di Se una notte d’inverno un viaggiatore, come se il complesso intreccio che instaura tra scrittura e mondo finisse per ridursi in un’inesauribile e tutto sommato tranquilla attività di scrittura autoreferenziale, dove tutto è gioco (un gioco dove non si rischia nulla, che non fa male a nessuno), convenzione e rinuncia. Certo, la strada intrapresa a partire dalle Cosmicomiche non poteva incrociarsi con quella di Pasolini. Ma la scelta di una dimensione fantastico-scientifica non fu l’inizio di una sorta di ripiegamento o, peggio ancora, di una tattica di progressivi e accentuati nascondimenti, bensì il segno tangibile di una distinzione, di una rottura nella tradizione della narrativa italiana compiuta nel segno di un nuovo e originale approccio alla realtà.


«Uno scetticismo di fondo m’ha impedito d’investire tutto me stesso in una battaglia ben definibile»28. Con queste parole, scritte nella primavera del 1980 e poste a bilancio di una vita, Calvino sembra quasi volersi giustificare. Non a caso, subito dopo, ricorda Pasolini e Fortini come esempi di chi, invece, era riuscito in forma immediata e diretta a legare il proprio nome a valori e battaglie positive. Il primo, tutto proteso «nella rivendicazione di verità del dialetto o dell’umile Italia pre-tecnologica»; il secondo, impegnato «nella sua riforma morale come prefigurazione d’una società rigenerata»29. Alle qualità dei suoi interlocutori Calvino non sembra dunque opporre altro che irresolutezza e ambiguità, una totale incapacità a individuare e seguire fino in fondo il proprio demone interiore. È un tratto tipico della sua cosiddetta «irrequietezza stilistica», di cui troviamo frequenti richiami sia nelle opere sia nella corrispondenza, e che Carla Benedetti interpreta come «il bisogno di sfuggire alla riconoscibilità autoriale, […] agli inquadramenti di poetica, sentiti come fastidiosi e ingombranti»30. «Come gli animali che lasciano sul terreno tracce finte, così queste opere portano inscritte delle tracce che non conducono alla tana, cioè all’autore, ma a un’altra tana, dove non c’è nessuno»31. La scelta compiuta da Calvino, uno degli autori-simbolo della tardomodernità, non è però quella di creare un autore fittizio, bensì quella di nascondersi dietro una molteplicità di voci-scritture: «L’apocrifo che Calvino insegue è appunto l’interruzione di questo rapporto necessario e univoco: è come una pianta di zucche che faccia non solo zucche ma anche meloni e patate e cocomeri: in altre parole è la possibilità che da un autore escano fuori opere che non gli rassomigliano»32. «Effetto di apocrifo», lo definisce; «tattiche di alleggerimento dell’identità autoriale»33. Se così stanno le cose, non resta che un ultimo problema da risolvere: «Come può dunque una simile letteratura [quella di Calvino, post-realistica, autoreferenziale, intransitiva] pensarsi in rapporto con il mondo?»34. La risposta non lascia dubbi in proposito: il suo rapporto con il mondo, con il mondo non scritto, si trasforma in un gioco, nel gioco «del descrivi il mondo». Il mondo entra così a far parte del gioco, viene assunto dal gioco stesso, anzi dagli infiniti giochi che la scrittura può inventare; e ciò, di fatto, comporta «la rinuncia al Mondo, quello “vero” e terribile, a vantaggio di un mondo di convenzione; la rinuncia a fare i conti con l’alterità, a vantaggio di un’alterità finta; l’accettazione di un’idea depotenziata di letteratura, tutta ripiegata nei suoi confini istituzionali»35.


Non credo che le cose stiano in questi termini. Alle qualità positive di Pasolini e di Fortini Calvino non oppone una sempre più accentuata «inautenticità», bensì una sempre maggiore consapevolezza dei limiti insiti nel proprio lavoro di scrittore. È un’attitudine di pensiero che si concretizza in un’incessante e sempre insoddisfacente ricerca di punti di vista che sono altri da quelli allora consueti. Non solo: che lo avrebbero condotto a stabilire rapporti sempre più indiretti, ma non per questo meno «veri» e meno «reali», col mondo: un corollario che, come vedremo, discende necessariamente da un atteggiamento niente affatto rinunciatario e che trae vigore dall’esigenza di non restare prigioniero di nessuna immagine data del mondo.


3. Entropia e ordine.

Basta leggere l’epistolario per accorgersi quanto anche il progetto per una letteratura cosmica a cui stava lavorando non fosse rinunciatario e autoreferenziale.


«Io sono capace di trovare immagini solo nell’astronomia o nella genetica», scrive a Hans Magnus Enzensberger nell’ottobre 196536. Una dichiarazione di questo genere non solo sarebbe stata inconcepibile qualche anno prima, ma anche assai poco in sintonia e in armonia con la letteratura allora dominante.


Tra i libri di astronomia che sono sparsi sul suo tavolo vi è certamente l’ultimo libro di Albert Ducrocq, Cybernétique et univers. Le roman de la matière, pubblicato da Julliard nel 1963. L’edizione italiana uscirà per Einaudi nel 1967, e sarà proprio Calvino a proporla con entusiasmo. È sufficiente sfogliarlo per comprendere le ragioni del suo interesse. Ducrocq scrive:


Nel XX secolo la macchina socchiude un occhio. I tecnici la muniscono di «rivelatori», specie di minuscoli organi sensori che le permettono di raccogliere informazioni per guidare il proprio lavoro. Nascono così le cosiddette macchine cibernetiche, capaci di «governarsi» da sole e di raggiungere nel proprio campo fini analoghi a quelli dell’uomo: creare ordine, ridurre l’entropia. È ovvio che le macchine cibernetiche sono concepite e realizzate dall’uomo e quindi ricevono da lui soltanto una «delega» della sua facoltà creativa. Ma il solo fatto che tale facoltà si possa delegare apre la via a una profonda rivoluzione intellettuale. Bisogna concludere che l’ordine è frutto di particolari strutture, nella fattispecie quelle delle macchine cibernetiche, che una volta costruite diventano generatrici di organizzazione […]. Nasce una scienza nuova, che consiste nello studiare i modi in cui sistemi diversi reagiscono gli uni sugli altri; l’uomo cessa di prendersi come termine di riferimento. Alla classica «fisica delle cose» succede così una fisica dei rapporti, che si occupa delle strutture e dei loro effetti. Il problema dell’evoluzione dell’Universo trova adesso le sue basi. L’ordine del cosmo non potrebbe essere dovuto a strutture che a loro volta sarebbero state prodotte da altre strutture? I miei primi studi di cibernetica sono stati scritti in quest’ordine di idee. Notavo allora che l’uomo «governa» se stesso, e oggi costruisce macchine capaci di autogovernarsi; ma prima della sua comparsa la Terra e l’Universo intero si autogovernarono…37.


«Creare ordine, ridurre l’entropia». L’«operazione Qfwfq» – come la chiama Calvino38 – nasce e si sviluppa grazie anche a queste suggestioni, a partire dalla riflessione di pagine come queste. «Ducrocq è mille volte meglio [e il paragone è con Planets for Man di Asimov e Dole], è un testo rivoluzionario». Così lo definisce nella riunione editoriale del 18 novembre 196439. Se la ricerca delle fonti dell’immaginario calviniano è spesso un esercizio inutile, perché fondato su analogie terminologiche puramente esterne, che aggiungono ben poco a quello che già sappiamo (e cioè che per un lettore onnivoro ed enciclopedico come Calvino rientrava nella routine quotidiana perlustrare ogni campo dello scibile umano), in questo caso specifico (e lo stesso vale, lo vedremo, per i lavori di de Santillana) mi pare che possiamo spingerci a dire qualcosa di più. E non tanto per l’evidente assonanza che il titolo del libro di Ducrocq ha con uno dei suoi saggi più noti (Cibernetica e fantasmi), quanto per la possibilità di rintracciare concretamente tematiche e concetti che svolgeranno un ruolo centrale nella realizzazione dell’impegnativo progetto.


«Sono più chemmai [sic] per una letteratura che tenda all’astrazione geometrica, alla composizione di meccanismi che si muovano da soli, il più possibili anonimi. E tutto ciò che è esistenziale, espressionistico, “caldo di vita” lo sento molto lontano»40. Così a un suo corrispondente, Franco Scaglia, il 10 luglio 1965, a pochi mesi dalla pubblicazione delle Cosmicomiche. Scrivere racconti come «composizioni di meccanismi che si muovano da soli» significa dunque scrivere racconti cibernetici: questo è l’obiettivo che si propone di raggiungere. E non è un caso che questo modo di concepire il racconto come ordine capace di governarsi da solo avvenga proprio sul terreno cosmologico.


Non sarà un obiettivo facile. Per riuscirvi pienamente Calvino impiegherà molto tempo, e vi giungerà solo dopo aver portato a termine numerosi tentativi da lui giudicati solo parzialmente soddisfacenti. Lo dirà esplicitamente a François Wahl il 17 maggio 1965: «Quanto alle Cosmicomiche ne ho scritto finalmente una di cui sono contento: la più astratta di tutte. Appena l’avrò messa bene a posto glie la manderò. Per ora in tutto sono undici»41. Il racconto è La spirale, l’ultimo della raccolta, quello che, insieme a Un segno nello spazio, costituisce il suo punto di arrivo, la piena realizzazione del progetto.


In questi racconti le parole-immagini dello scrittore si identificano sempre più con le immagini geometriche, da cui discende la costruzione di racconti sempre più astratti. Così è Un segno nello spazio, la cui parola chiave è segno, «venuta fuori prima con tutta “innocenza” e poi si è caricata delle intenzioni culturali inevitabili»; lo stesso vale per La spirale, «un racconto che da un paio d’anni continuo a riscriverlo e ritoccarlo e gli ultimi ritocchi […] sono riuscito a darglieli dopo la lettura del suo libro»42. Sono racconti che «al punto in cui sono, riesco a permettere che […] si organizzino da se stessi, in base al loro stesso materiale, pensino se stessi, diventino discorso di cui io prendo atto»43. E in cui sono già chiaramente individuati alcuni elementi che di lì a poco lo porteranno a scrivere racconti come L’inseguimento, Il guidatore notturno, Il conte di Montecristo. Vale la pena di rileggere il comunicato stampa, quasi certamente uscito dalla penna di Calvino, che la Einaudi diffuse in occasione della pubblicazione di Ti con zero:


Ritorna Qfwfq, l’impronunciabile e proteiforme protagonista delle Cosmicomiche, pronto a raccontarsi con la sua voce un po’ gracchiante vicende di milioni di anni fa […]. Ma in esso non c’è solo Qfwfq. Calvino è andato avanti, alla ricerca di un approccio nuovo, più preciso, più rigoroso col mondo: negli ultimi racconti ha cercato, come dice lui stesso, di «impiegare un’immaginazione e un linguaggio siderali, col distacco dell’astronomia», per raccontare situazioni tipicamente umane, situazioni drammatiche e angosciose, e risolverle con procedimenti d’astrazione, come se si trattasse di problemi matematici. Questo è stato il suo programma stilistico. E forse non solo stilistico44.


Racconti come se fossero problemi matematici. Passioni e condizioni umane affrontate seguendo un’altra logica, rinunciando a ogni commistione col linguaggio vitalistico dei sentimenti e delle percezioni45. Come per Ducrocq l’avventura cosmica trova la sua spiegazione all’interno di un insieme di operazioni logiche, ovvero di un insieme di relazioni tra sistemi che si autogovernano e interagiscono gli uni sugli altri, così per Calvino la nascita di questi nuovi racconti è vista come il prodotto di un processo combinatorio tra elementi dati. Letteratura e cosmologia vanno dunque pensate come campi disciplinari affini, in quanto ambedue privilegiano lo studio delle strutture e dei loro effetti, e in cui l’orizzonte umano non gode più di nessun privilegio (né a livello dei processi cosmologici, in cui l’ordine da realizzarsi non ha più bisogno dell’uomo come termine di riferimento, né a livello narrativo, in cui la costruzione di immagini astratte e geometriche sostituisce del tutto immagini esistenziali e «calde di vita»). Con una differenza significativa: «La macchina letteraria può effettuare tutte le permutazioni possibili in un dato materiale; ma il risultato poetico sarà l’effetto particolare d’una di queste permutazioni sull’uomo dotato d’una coscienza e d’un inconscio, cioè sull’uomo empirico e storico, sarà lo shock che si verifica solo in quanto attorno alla macchina scrivente esistono i fantasmi nascosti dell’individuo e della società»46.


4. Ovidio e Lucrezio.

La letteratura cosmica nasce sotto il segno di Lucrezio e Ovidio. È Calvino stesso a ricordarlo in più occasioni. Se occorre sempre mostrarsi cauti di fronte ai legami e alle mappe genealogiche che uno scrittore stabilisce a posteriori tra la sua opera e il mondo dei classici, in questo caso troppi sono i riscontri che confermano quanto sia stato decisivo il ruolo di questi autori nella costruzione calviniana di una letteratura come filosofia naturale.


«Io ho due livres de chevet: il De rerum natura di Lucrezio e Le Metamorfosi di Ovidio. Vorrei che tutto ciò che scrivo derivasse dall’uno o dall’altro, o da entrambi»47. Se Palomar «gravita decisamente dalla parte di Lucrezio»48, il progetto cosmicomico è invece debitore dell’uno e dell’altro. Per Calvino sono forze dell’immaginazione tra loro in opposizione ma in ultima istanza convergenti. Pur partendo da punti di vista differenti (favole mitologiche-mondo delle qualità in Ovidio / fisicità della realtà-mondo della quantità in Lucrezio), ambedue hanno come scopo primario la conoscenza del mondo attraverso «la dissoluzione della compattezza del mondo»49. L’energia che sprigionano mira a rendere mobile la realtà, composta da infinite relazioni capaci di dar vita a nuove forme. Non è un caso che l’ultima delle sue fatiche si apra e si chiuda nel nome di Lucrezio e Ovidio, a tal punto che i due autori si possono considerare la vera struttura portante delle intere Lezioni50. Del resto, non è forse vero che essere chiamati «il Lucrezio del proprio tempo» rappresenta uno dei massimi riconoscimenti che Calvino attribuisce ad autori amati come Ponge e Queneau51, e che le Metamorfosi finiscono per diventare il testo per eccellenza dell’intera tradizione fantastica italiana, la «fonte principale della letteratura italiana» fino a tutto il Settecento?52 E quanto sarebbe stata affascinante e densa di significato l’idea di uno Shakespeare «seguace dell’atomismo lucreziano»?53


A proposito delle Cosmicomiche Calvino parla esplicitamente di un progetto dove si respira ancora aria di «ottimismo cognitivo»54. Qfwfq non ha ancora le caratteristiche dell’iperscettico Palomar. La forte presenza del modello lucreziano come espressione di una conoscenza accurata e precisa della natura delle cose non assume ancora i tratti, come accadrà nelle Città invisibili e ancor più in Palomar, della sua tragica dissoluzione.


È la mente enciclopedica di Lucrezio che sta dietro alle informazioni che Qfwfq ci fornisce sull’infinita molteplicità delle esperienze di cui è stato testimone. Ma, al tempo stesso, Le Cosmicomiche e Ti con zero rappresentano anche la prosecuzione moderna delle Metamorfosi ovidiane, una loro continuazione aggiornata. Invece di trovarci di fronte al mito di Pallade e Aracne, ecco di fronte a noi i racconti-mito che traggono spunto dalle pagine dei manuali di biologia molecolare, di termodinamica, di astrofisica, ecco i nuovi miti che nascono dalle pagine della scienza moderna, ristabilendo così quella perfetta circolarità e unità tra vita e forme, quel flusso incontenibile tra immaginazione e pensiero, che la iperspecializzazione disciplinare condanna alla sterilità e alla paralisi.


Come le Metamorfosi, anche il progetto cosmicomico è dunque un grande campionario di miti. Il suo autore, al pari di Ovidio, è e si sente filosofo naturale55. Entrambi costruttori di eventi non isolabili tra loro, essi seguono nel loro incessante manifestarsi una logica interna che nulla però ha di fiabesco (nel senso di miracoloso), bensì è il segno tangibile dell’applicazione di rigorose leggi56. E sono quelle stesse leggi che Calvino individua nel racconto cosmico di Ducrocq, o in altri autori contemporanei come Queneau e de Santillana, i quali, ciascuno a suo modo, incarnano i nuovi Lucrezio e Ovidio dell’età contemporanea57.


5. L’assoluto niente.

Dopo Ti con zero, Calvino pubblica La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche nel novembre del 196858; poi, devono trascorrere quindici anni prima che quel progetto riemerga con rinnovato vigore. Come scrive a Piero Gelli il 14 luglio 1984, era stata sua intenzione, senza però riuscirci, «dare all’insieme delle Cosmicomiche un’organicità lucreziana». Ora, per fare ciò occorreva aggiornare il lavoro compiuto con una serie di nuovi racconti che prendesse spunto dagli ultimi sviluppi della ricerca cosmologica, e «forse con cinque o sei racconti in più riuscirei a completare questa specie di summa cosmologica»59. Com’è noto Calvino ne scrisse soltanto due, Il niente e il poco e L’implosione, il primo composto fra il 14 e il 21 agosto 1984, il secondo nei primi giorni di settembre60. Ma il progetto cosmicomico ben difficilmente si sarebbe esaurito. Ad alimentarlo con continue e puntuali sollecitazioni avrebbe pensato, ancora una volta, l’amico Franco Lucentini. Sappiamo infatti che proprio l’invio che Lucentini gli fece, nell’estate del 1984, di un suo saggio sulla natura dell’universo e la creazione ex nihilo è all’origine del racconto Il niente e il poco. Calvino:


Ti mando un racconto che ho scritto ispirandomi all’articolo che mi hai mandato. E ti mando anche un articolo della rivista «Astronomia» che mi pare spieghi la stessa teoria con più dettagli. Il filo dei tuoi ragionamenti però va più in là, nel nulla di prima e di dopo, e sarei molto curioso di sentirtelo sviluppare, la prima volta che ci vedremo61.


Lucentini aveva parlato del niente come del «solo “stato di cose” metafisicamente pensabile»62, e del mondo come qualcosa che «non è più una matematica, ma lo è stato – finché ha potuto – prima di cominciare»63. Da parte sua, l’ispirato Calvino parlava del niente così: «Il niente aveva in sé un’assolutezza, un rigore, una tenuta da fare apparire approssimativo, limitato, traballante tutto ciò che pretendeva di possedere i requisiti dell’esistenza; in ciò che c’è, se lo si paragona a ciò che non c’è, saltano agli occhi la qualità più scadente, le impurità, le magagne»64. Per questo l’universo (che comprende anche le nostre esistenze) non può essere raccontato magnificando chissà quali sorti progressive o facendo appello a totalità o pienezze varie. Tutto ciò sarebbe apparso quanto mai banale e retorico: «Ma se lo si considerava come fatto di poco, poca cosa racimolata ai margini del niente, suscitava una simpatia incoraggiante, o almeno una benevola curiosità per quel che sarebbe riuscito a fare. […] C’è un segreto che solo Nugkta e io conosciamo: che quanto è contenuto nello spazio e nel tempo non è altro che il poco, generato dal niente, il poco che c’è e potrebbe anche non esserci, o essere ancora più esiguo, più sparuto e deperibile»65.


Tutto fa credere che la collaborazione tra i due sarebbe continuata. Calvino avrebbe tratto alimento dalle appassionate e ludiche discussioni con Lucentini, e viceversa. Dopo la recensione che fece a Cosmicomiche vecchie e nuove (ma forse sarebbe meglio chiamarla una straordinaria ed esilarante pagina di gags e ricordi autobiografici)66, Lucentini gli inviò una lettera «di una decina di pagine» in cui sottolineava quanto quella «favolosa creatura», cioè Qfwfq, si adattasse bene «con l’idea […] che tutti i corpi “siano nostri simili” come fenomenici e plurali rivestimenti di un’unica entità di fondo»67. «Di qui la possibilità – scriveva Lucentini – di un osservatore del tipo Qfwfq di calarsi in essi corpi per introspezione, ravvisandovi, sia pure ai livelli più elementari, i suoi stessi moti e impulsi… Le reali passioni dell’atomo insomma, i veri sentimenti delle particelle!»68. Se non fosse venuto a mancare così presto, c’è da scommettere che questa e quant’altre riflessioni cosmologiche di un lucreziano integrale come Lucentini avrebbero incuriosito e sollecitato Calvino a rispondere sul piano che a lui era più congeniale.


 


1 M. Socrate, Intervista all’osservatorio, in Id., Favole paraboliche, Feltrinelli, Milano 1961, p. 25. La raccolta di queste favole fantascientifiche, «composte tra gli ultimi mesi del ’57 e i primi del ’58», è dedicata a Calvino. Un bel profilo di Mario Socrate è contenuto in una lettera di Calvino a Vittorini del luglio 1959: «Ti mando un gruppo di poesie fantascientifiche di Mario Socrate. A me piacciono. Non ti fermare alla loro spinta un po’ troppo raziocinante e all’assenza d’una felicità di canto o d’immagine. Tale è la natura del Mario Socrate (uomo che non va giudicato dalle sue sempre sfortunate incarnazioni di “bruciato” dalla politica, ma dall’attitudine rara che egli ha di cercare di vedere soprattutto il lato buono delle cose e delle persone – ed è lì la ragione dei suoi trascorsi –, pur sempre con sensibilità e bontà e umiltà), il quale raggiunge il suo meglio quando riesce a immettere nel suo bisogno non sempre genuino d’entusiasmo ottimistico, tutta l’amarezza di cui l’esperienza “generazionale” l’ha caricato» (AE, Corrispondenza, E. Vittorini, cart. 221, fasc. 3099/2, n. 1185, lettera del 15 luglio 1959).


2 L, pp. 812, 840, 881; i destinatari sono, rispettivamente, Domenico Rea (13 maggio 1964), Gianfranco Contini (17 dicembre 1964), Michelangelo Antonioni (29 settembre 1965).


3 I primi racconti, scritti a partire dal novembre del 1963, uscirono sul «Caffè» di Vicari l’anno seguente; gli ultimi su «la Repubblica» (2 e 13 settembre 1984). Sulla stagione cosmicomica mai conclusa, oltre a C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino, Garzanti, Milano 1990, pp. 99-126 e a P. V. Mengaldo, La tradizione del Novecento. Terza serie, Einaudi, Torino 1991, pp. 227-91: 285-91, cfr. RR, II, pp. 1455-75; N. Turi, L’identità negata. Il secondo Calvino e l’utopia del tempo fermo, Società editrice fiorentina, Firenze 2003, capp. II e III; Serra, Calvino cit., pp. 275-93; D. Scarpa, «Tutti frutti». Calvino e la seminagione cosmicomica, in Waage Petersen - Grundtvig (a cura di), Italo Calvino narratore cit., pp. 59-83.


4 L, p. 790. E tre anni prima aveva scritto a Mario Socrate, in occasione della pubblicazione delle Favole paraboliche: «Vorrei fondare un movimento letterario cosmico. O meglio farlo fondare da Lucentini che ha queste idee ben radicate in testa, ed è andato a vedere l’eclissi a Recanati. Ma lui non ha tempo. Come non ne ho io. Tra i nomi delle pochissime persone ammesse al movimento ci saresti tu» (p. 679: lettera del 23 aprile 1961).


5 Ibid., p. 669: «Quello cui io tendo, l’unica cosa che vorrei poter insegnare è un modo di guardare, cioè di essere in mezzo al mondo. In fondo la letteratura non può insegnare altro».


6 Ibid., pp. 668-9, corsivo nel testo. Così inizia la presentazione di Wahl che tanto entusiasmo suscita in Calvino: «Le choc du réel provoque l’apparition d’une image; c’est le réel encore et déjà autre chose; l’image traduit une expérience, mais elle signifie plus et sur un autre plan. Or voici que ce symbole se met à vivre; il développe sa logique propre; il est gros d’un réseau d’événements, de personnages; il impose son ton, son langage» (I. Calvino, L’aventure d’un poète, in «La Revue de Paris», LXVII, novembre 1960, pp. 127-33: 127). Il breve scritto (col titolo La logica dell’immagine in Calvino) venne inserito da Calvino nel fascicolo del «Caffè», novembre 1964, a lui dedicato.


7 Su questo punto rinvio alle puntuali osservazioni di Scarpa, Calvino cit., p. 122: «Fantasia e fantastico sono prima d’ogni altra cosa una logica dell’immagine […]. La fantasia opera sviluppando logicamente una premessa illogica, irreale, gratuita o meravigliosa».


8 L, pp. 891-2: Calvino a E. Garroni, 26 ottobre 1965.


9 Ibid., p. 919: Calvino a G. C. Ferretti, 15 febbraio 1966.


10 Ibid., p. 926: Calvino a L. A. Veršinin, 27 aprile 1966.


11 Ibid., p. 929: Calvino a S. Addamo, 23 giugno 1966.


12 Ibid., p. 744: Calvino a A. Camerino, 21 maggio 1963.


13 Ibid., p. 695: Calvino a P. Levi, 22 novembre 1961. In proposito cfr. ora E. Ferrero, Primo Levi. La vita, le opere, Einaudi, Torino 2007, pp. 49-50. Per un ritratto dei due scrittori rinviamo alle pagine 32 e 33, tutte da leggere per la loro precisione e intensità.


14 L, p. 696.


15 «Sono un isolato: constatazione che ora prende accenti amari ora orgogliosi, a seconda dell’umore in cui mi trovo» (ibid., p. 885: lettera del 5 ottobre 1965).


16 Ibid., p. 778: Calvino a G. Parise, 14 gennaio 1964. Per un confronto tra i due scrittori si veda S. Perrella, Parise, Calvino e due diverse costellazioni, in P. Grossi (a cura di), Les illuminations d’un écrivain. Influences et récréations dans l’oeuvre de Goffredo Parise, Presses universitaires de Caen, Caen 2000, pp. 43-50.


17 Cit. in I. Calvino, Il libro dei risvolti, a cura di C. Ferrero, Einaudi, Torino 2003, p. 106.


18 Cit. in P. Levi, Opere, a cura di M. Belpoliti, introduzione di D. Del Giudice, Einaudi, Torino 1997, I, p. 1434. Belpoliti attribuisce a Calvino sia il risvolto delle Storie naturali sia quello della Tregua.


19 Cfr. C. Benedetti, Pasolini contro Calvino. Per una letteratura impura, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 28.


20 «E tuttavia tutta la tendenza dell’ultimo cinema, da Rossellini eletto a Socrate, alla nouvelle vague, alla produzione di questi anni […] è verso un “cinema di poesia”» (P. P. Pasolini, Il «cinema di poesia» [1965], in Id., Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1972, poi raccolto in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano 1999, t. I, pp. 1461-88: 1472). Cfr. anche Belpoliti, Settanta cit., pp. 53-7.


21 Netto è il giudizio che Calvino esprime in più occasioni su Pasolini: «È uno scrittore – scrive a Donald Heiney il 5 gennaio 1963 – che conosco e spesso apprezzo, ma siamo stati sempre molto lontani, quasi direi agli antipodi. Abbiamo provenienze letterarie e maestri diversi, non abbiamo mai scritto sulle stesse riviste né fatto parte degli stessi gruppi» (L, p. 728). E a Ferretti, riferendosi a un suo libro appena uscito (Letteratura e ideologia. Bassani, Cassola, Pasolini, Editori Riuniti, Roma 1964), scriveva: «Il tuo libro non l’ho letto, primo perché speravo che me lo mandassero in omaggio e non l’ho avuto; secondo perché in questo momento quei tre non m’interessano tanto. Dirò meglio, in questo momento non nutro un interesse problematico per nessuno di loro. Anche su Pasolini, di cui alcune delle ultime poesie testimoniano una ricchezza lontana dall’esaurirsi, mi pare di sapere già tutto quel che avevo da sapere» (LdA, p. 487). Pochi anni più tardi, il dissenso lascia il posto all’indifferenza, come se il poeta e regista Pasolini non esistessero più: «Da tempo ho smesso di considerare P. altro che come un personaggio della cronaca, e non leggo i suoi scritti (né vedo i suoi film, che qui a Parigi sollevano un delirio d’entusiasmo)» (L, p. 1029: Calvino a G. C. Ferretti, 3 febbraio 1969).


22 Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno cit., p. 9.


23 Cfr. P. P. Pasolini, La Divina Mimesis, Einaudi, Torino 1975, pp. 5, 10. «Qualunque cosa facessi, nella “Selva” della realtà del 1963, anno in cui ero giunto, assurdamente impreparato a quell’esclusione dalla vita degli altri che è ripetizione della propria, c’era un senso di oscurità» (ibid., p. 5). Come osserva la Benedetti, «il primo progetto della Divina Mimesis risale al 1963» (Benedetti, Pasolini contro Calvino cit., p. 35). Cfr. M. A. Bazzocchi, Pier Paolo Pasolini, Mondadori, Milano 1998, pp. 97-101.


24 I. Calvino, Sotto quella pietra, in «la Repubblica», 15 aprile 1980, S, I, p. 403.


25 Cfr. Benedetti, Pasolini contro Calvino cit., pp. 20, 25. Più volte la Benedetti torna su questo punto: cfr. anche pp. 42 sgg. Su Calvino e Pasolini cfr. ora le considerazioni di Raffaele Manica, Gli inattuali, in Id., Exit Novecento. Una raccolta di saggi, Gaffi, Roma 2007, pp. 69-83: 71: «Oggi mi sembra che Pasolini e Calvino si escludano soltanto in una prospettiva ideologica. La prospettiva letteraria li include entrambi: possono essere zone di avventura per lettori a caccia del senso del secolo in Italia. Calvino era la tentazione dell’ordine, un oroscopo euclideo della realtà. Pasolini tutto il contrario: le sue geometrie erano sotterranee e spezzate: sotto il caos, e coperte di belle bandiere».


26 Benedetti, Pasolini contro Calvino cit., p. 43.


27 Ibid., p. 44.


28 Calvino, Sotto quella pietra cit., p. 399.


29 Ibid., pp. 399-400.


30 Benedetti, Pasolini contro Calvino cit., p. 104.


31 Ibid., pp. 96, 99.


32 Ibid., pp. 106-7. E poco dopo conclude: «L’effetto di apocrifo si crea per la compresenza di molteplici voci dentro la stessa opera. Non importa che siano compresenti nello stesso libro […]. Ma che lo siano nell’opera globale di un autore, quella che il lettore percepisce come un’unità: la grande unità formata da tutte le opere dell’autore Italo Calvino […]. Così, l’intera produzione di Calvino, nella sua globalità, potrebbe essere considerata un caso di effetto di apocrifo» (p. 107).


33 Ibid., p. 96.


34 Ibid., p. 116.


35 Ibid., p. 135. E poi, ancora: «Spaventato dalla complessità e dalle angosce del mondo contemporaneo, Calvino finisce per rifugiarsi dentro quei confini, ridando però nel contempo una sorta di aura postuma al gioco della letteratura, raggelato nella sua esanime sopravvivenza convenzionale». Cfr. anche pp. 124-7. Sulla stessa lunghezza d’onda Antonio Moresco: «Calvino è una macchina per la produzione di teorie discorsive e trappole concettuali. La sua scrittura, che intende mettere in crisi la retorica che si nasconde in ogni opera letteraria, finisce per creare a sua volta una nuova e ancor più capziosa retorica […]. Calvino, domatore di cavallucci a dondolo concettuali, nato nel ventre stesso dell’editoria, diviene funzionale caposcuola di questa figura d’intellettuale terminale, o che si sente tale, teorizzatore di una sua funzione possibile e accessibile, postmoderna ma anche pallidamente, virtualmente, mimeticamente in rapporto depotenziato col passato» (Il paese della merda e del galateo. Note contro Calvino cit., pp. 16, 21). Di Moresco si vedano anche le considerazioni sul libro della Benedetti (La forma e la morte. Lettera a Carla Benedetti, ibid., pp. 31-47). Ai numerosi critici, da Asor Rosa a Davico Bonino allo stesso Raboni, la Benedetti replica con un articolo dal titolo Un perentorio richiamo all’ordine per dimenticare Pasolini. E Calvino, in «il manifesto», 12 marzo 1998, inserto La talpa libri, p. II, e con un’intervista a Norman Gobetti (Per uscire da un gioco bloccato, in «L’Indice dei libri del mese», XV, 1998, 5).


36 L, p. 895.


37 A. Ducrocq, Cybernétique et univers. Le roman de la matière, Julliard, Paris 1963, pp. 17-8.


38 Cfr. L, p. 1179: Calvino a G. Falaschi, 4 novembre 1972.


39 Riporto di seguito l’intervento di Calvino: «Planets for Men [sic] di Asimov & Dole studia l’abitabilità degli altri pianeti, esamina i requisiti, traccia dei limiti massimi e minimi. I problemi astronomici sono visti in questa funzione, servono quasi a questo pretesto enigmistico, a questo gioco di società (a Baranelli). Certo il Ducroq [sic] è mille volte meglio, è un testo rivoluzionario» (AE, Verbali, Riunione del 18 novembre 1964).


40 LdA, pp. 522-3.


41 L, p. 870.


42 Ibid., p. 892: Calvino a E. Garroni, 26 ottobre 1965. Il libro di Garroni a cui Calvino si riferisce è La crisi semantica delle arti, Edizioni Officina, Roma 1963. Su La spirale cfr. D. Scarpa, Autobiografia di una conchiglia, in Belpoliti (a cura di), Italo Calvino. Enciclopedia cit., pp. 304-17.


43 L, p. 919: lettera a G. C. Ferretti del 15 febbraio 1966.


44 AE, Recensioni di volumi pubblicati (1939-94), cart. 56, fasc. 817, comunicato stampa Einaudi datato 10 novembre 1967, dal titolo Ti con zero: il nuovo libro di Calvino.


45 Un ulteriore e inedito esempio dell’insoddisfazione di Calvino per ogni forma di linguaggio vitalistico allora corrente è fornito da una lettera a Romano Bilenchi del 19 giugno 1958. Dopo aver ricevuto in lettura un romanzo del giornalista Sergio Frosali, incentrato sul mondo giovanile e studentesco, così rispondeva a Bilenchi: «Il Frosali, anche se giudica questo mondo come va giudicato, non sa trovare la chiave per scriverne senza calare dentro la materia narrata, e quindi sembra che tutti questi piccoli intrighi di ragazze abbiano un senso anche per lui. Il linguaggio è spesso ingenuo: scrivere di cose amorose ed erotiche in italiano è quasi impossibile. La lingua italiana le fa diventare retoriche e irreali. Bisognerebbe che i giovani lo capissero e capissero anche che la vita sessuale, in un periodo di liberi costumi e di cattolicesimo che vuole che non si pensi ad altro, è un argomento del tutto privo d’ogni pregnanza morale e poetica» (FMP, Fondo R. Bilenchi, lettere di I. Calvino, n. 9).


46 I. Calvino, Cibernetica e fantasmi (1967), in Id., Una pietra sopra cit., p. 177.


47 Id., I quaderni degli esercizi, intervista di P. Fournel, trad. di D. Scarpa, in Botta - Scarpa (a cura di), Italo Calvino newyorkese cit., pp. 15-25: 22. L’intervista è apparsa col titolo Italo Calvino: Cahiers d’exercice, in «Magazine littéraire», giugno 1985, 220, pp. 84-9. Cfr. P. Antonello, Il ménage a quattro. Scienza, filosofia, tecnica nella letteratura italiana del Novecento, Le Monnier, Firenze 2005, pp. 188-90.


48 Calvino, I quaderni degli esercizi cit., p. 17.


49 Cfr. Id., Lezioni americane, S, I, pp. 636-7.


50 Cfr. i richiami a Lucrezio e Ovidio in ibid., pp. 667, 722, 733.


51 «Ponge è per me un maestro senza eguali perché i brevi testi de Le parti pris des choses e delle altre raccolte […] rappresentano il miglior esempio d’una battaglia col linguaggio per farlo diventare il linguaggio delle cose, che parte dalle cose e torna a noi carico di tutto l’umano che abbiamo investito nelle cose. Intenzione dichiarata di Francis Ponge è stata quella di comporre attraverso i suoi brevi testi e le loro elaborate varianti un nuovo De rerum natura; io credo che possiamo riconoscere in lui il Lucrezio del nostro tempo, che ricostruisce la fisicità del mondo attraverso l’impalpabile pulviscolo delle parole» (ibid., pp. 692-3). Su Queneau, scrittore enciclopedico e «lucreziano» del Novecento, rinvio alla prima presentazione editoriale di Calvino della Petite cosmogonie che risale al marzo 1965: «Abbiamo libero un traduttore come Quadri e io penserei di fargli fare la Petite cosmogonie portative, molto bello e sconosciuto. È un poema, una specie di Lucrezio ironico, con una struttura di poema enciclopedico, e una specie di guida in fondo. È praticamente intraducibile, però si può darne una traduzione informativa, perché l’interesse saggistico è quasi pari all’interesse verbale. Propongo una traduzione con testo a fronte» (AE, Verbali, Riunione del 31 marzo 1965, cart. 5, fasc. 328). Cfr. anche L, pp. 858-9: Calvino a F. Quadri, 1° aprile 1965. La Cosmogonie uscirà in traduzione italiana soltanto nel 1982, grazie all’infaticabile lavoro di Sergio Solmi. Sui rapporti tra Calvino e Queneau si vedano ora la puntuale ricostruzione di Francesca Serra, Calvino cit., pp. 300-9, e i saggi di Sarah Amrani, «Les fleurs bleues», «I fiori blu»: Queneau «traduit» par Calvino, in D. Ferraris - M. Fusco (a cura di), Italo Calvino: les mots, les idées, les rêves, in «Chroniques italiennes», 2005, 75-76, pp. 13-26, e di Paola Sosso, Calvino, Queneau e «I fiori blu», in «Studi francesi», L, 2006, 3, pp. 549-59, in cui sono pubblicate le lettere di Queneau a Calvino conservate a Verviers presso il Centre Queneau (purtroppo mancano le lettere di Calvino). Va aggiunto che Calvino mostrò sempre particolare attenzione per i lavori di Queneau, anche per quelli meno riusciti e nonostante la loro difficile collocazione nel panorama editoriale italiano. Calvino: «Ho letto il nuovo Queneau, Il volo di Icaro. Libro molto leggero come dice il titolo. È un personaggio che scappa e allora l’autore lo fa cercare da un detective perché pensa che sia stato rubato dai colleghi autori, con equivoci qui pro quo ecc. È un romanzo più leggero degli altri Queneau: non c’è quella spugna realistica che c’è negli altri romanzi. È un puro divertissement, un po’ sbadato, con delle chiavi che sembrano risolvere e che invece finiscono in niente. È divertente. Tutto dialogo senza molto spessore, ma da fare» (AE, Verbali, fasc. 447, Riunione del 13 novembre 1968). Il libro uscì l’anno seguente, nei «Supercoralli», col titolo Icaro involato.


52 I. Calvino, La literatura fantastica y las letras italianas (1985), S, II, pp. 1672-82: 1677; Id., Benvenuti fantasmi (1984), S, II, p. 1695.


53 Id., Lezioni americane, S, I, p. 647.


54 «Rileggendo le Cosmicomiche e Ti con zero mi sono accorto che vent’anni fa avevo un ottimismo, come chiamarlo, cognitivo, che in Palomar non c’è più» (Id., I quaderni degli esercizi cit., p. 21).


55 A proposito di Ovidio «filosofo della natura», e sulla sua scrittura «rigorosa» e «fredda», Calvino faceva propria l’interpretazione di Ščeglov meritoriamente ripresa da Piero Bernardini Marzolla, curatore delle Metamorfosi einaudiane (1979). Al riguardo va detto che Bernardini espresse il suo disappunto a Carlo Carena, responsabile a suo dire di aver messo a disposizione di Calvino oltre all’introduzione anche «i libri da me citati e su cui ho meditato per mesi». «Alludo in particolare al saggio di Sceglov [sic], un saggio che, nella critica ovidiana, è passato finora inosservato e a cui io nella mia introduzione ho dato il peso che merita: cosa che costituisce appunto una “novità” della mia introduzione, così come una novità assoluta costituisce il capitolo sul tema dell’amore, e una novità altrettanto assoluta, se non altro per la sua completezza, il capitolo sul pitagorismo. Tutte cose elogiate da Timpanaro. Aver fornito a Calvino tutto questo materiale, che cos’altro significa se non un invito a ricalcare temi già da me trattati? Se per esempio Calvino, affascinato dal saggio di Sceglov [sic], vorrà sviluppare a modo suo questo tema, è evidente che le pagine da me scritte perderebbero il carattere di novità, e passerebbero in second’ordine, quasi che io avessi ripreso idee di Calvino. Analogamente, se Calvino vorrà parlare della fantasia, sarà condizionato da quello che ho scritto io sul rapporto tra barocco e Metamorfosi, e sarà portato a parlare della contrapposizione sacro-profano, svuotando d’interesse certe mie pagine. […] Il “pezzo” di Calvino non sarà più “libera creazione” o, per usare le Sue parole quando Lei pensava a Borges, “qualche pagina su Ovidio nell’esperienza di uno scrittore”, ma sarà uno scritto “condizionato”, con rischio di anticipazione se non di sviluppo di spunti e idee contenuti nella mia introduzione. Apprezzo Calvino, ho fiducia nella sua bravura e originalità, ma non potevo non manifestarle queste mie apprensioni» (AE, Corrispondenza, P. Bernardini Marzolla, cart. 19, fasc. 283, lettera del 22 settembre 1979).


56 Si vedano le considerazioni, che prendono spunto anche da Ovidio, sulla letteratura fantastica come «disegno razionale» e «costruzione di idee» (Calvino, La literatura fantastica y las letras italianas, S, II, pp. 1677-8).


57 «Il progetto delle Cosmicomiche (e della sua continuazione, Ti con zero) era ispirato simultaneamente a Lucrezio e a Ovidio. O, a seconda delle preferenze: da un lato alla Piccola cosmogonia portatile di Queneau (il De rerum natura del nostro secolo), dall’altro a certi repertori etnografici di miti cosmogonici primitivi […]. Il procedimento di Palomar è tutto diverso: manca completamente il versante Metamorfosi, ossia quello mitologico» (Calvino, I quaderni degli esercizi cit., p. 22).


58 La prima edizione apparve presso il Club degli Editori; la seconda, nel 1975, ma sostanzialmente identica alla precedente, presso Einaudi.


59 L, p. 1519. Su questa importante lettera, e sui racconti Il niente e il poco e L’implosione che di lì a poco Calvino scrisse e pubblicò in Cosmicomiche vecchie e nuove (novembre 1984), si vedano le informazioni di Claudio Milanini in RR, II, pp. 1471-5 e Scarpa, «Tutti frutti» cit., pp. 75-83.


60 Cfr. RR, II, pp. 1473-4.


61 Lettera di Calvino cit. in Lucentini, Il genio familiare cit., p. 128. Su questa lettera, e sulla biografia di Franco Lucentini scritta dal fratello Mauro, cfr. D. Scarpa, Lucentini visto da Lucentini, in «La Stampa», 10 ottobre 2006.


62 Lucentini, Il genio familiare cit., p. 127.


63 F. Lucentini, Epigrafica e metafisica (1971), in C. Fruttero - F. Lucentini, L’idraulico non verrà, II ed., il melangolo, Genova 1993, p. 57.


64 I. Calvino, Il niente e il poco (1984), RR, II, p. 1264.


65 Ibid., pp. 1266-7.


66 F. Lucentini, Il nostro uomo su Deneb, in «La Stampa», 12 dicembre 1984, poi in C. Fruttero e F. Lucentini, La prevalenza del cretino, Mondadori, Milano 1985, pp. 327-31: 328. E nel tornare con la memoria al periodo in cui «lavoravamo tutti da Einaudi», Lucentini ricorda: «A una delle riunioni editoriali del mercoledì, si discuteva di una certa autobiografia sessualmente audacissima, almeno per quell’epoca, ma che lui [Calvino] giudicò (come del resto era) d’una desolante ristrettezza di vedute erotiche. “Mai che questa gente ti racconti qualcosa di un po’ diverso”, si stizzì, “come, che ne so, gli amori di un uomo e di un cucchiaio”. Tutti la presero per una battuta di spirito. Noi invece capimmo bene che per “amori”, con la sua mentalità primitiva, lui intendeva appunto quella bramosia che unisce tutti i corpi secondo Eulero, e che più tardi lui stesso avrebbe autobiograficamente rievocato nelle Cosmicomiche».


67 Lucentini, Il genio familiare cit., p. 126.


68 Ibid.

IV. Fiaba, mito, cosmologia: Calvino e de Santillana

Calvino favolista mi entusiasma tanto che abbandono il riserbo della età e della professione, e grido: «evviva!», «Hurrà!». Cosa magnifica – perché la fa Calvino. Saranno le fiabe di Calvino, spero. Spero che Calvino scriverà lui davvero, non si faccia venire in mente scrupolosità filologiche che lo rovinerebbero.


D. Cantimori, [giudizio sulle Fiabe italiane], AE, Verbali, Riunione del 14 aprile 19541.


1. Un anomalo storico della scienza.

È il momento dell’incontro con de Santillana. Più volte annunciato, soltanto adesso crediamo che acquisti il valore che merita.


Nel 1984, in una conversazione con Ernesto Ferrero, Calvino sottolineava quanto fosse stato cruciale nella sua vita di scrittore quell’incontro:


Mi sono avvicinato alla scienza attraverso l’astronomia. Qualcosa avevo letto da ragazzo, tipo l’Eddington, ma le letture più sistematiche sono cominciate intorno al ’59-60, quando sono andato negli Stati Uniti. A Boston ho conosciuto Giorgio de Santillana. Ricordo che mi fece un’enorme impressione una sua conferenza che anticipava alcuni temi di quello che sarebbe poi diventato Il mulino di Amleto. Fu allora che cominciai a scrivere Le Cosmicomiche2.


Classe 1902, laurea in fisica all’Università di Roma nel 1925 e studi filosofici a Parigi, assistente e collaboratore di Federigo Enriques, nel 1936, Santillana si trasferisce negli Stati Uniti, dove svolge seminari e corsi in diverse università e, nel 1954, ottiene la cattedra in storia e filosofia della scienza al Massachusetts Institute of Technology. A metà degli anni cinquanta pubblica The Crime of Galileo, che ottiene vasta eco internazionale ed è al centro di vivaci polemiche anche in Italia3. Nel 1961 esce The Origins of Scientific Thought, in cui trovano posto i primi risultati delle ricerche sul mito e la cosmologia antica che lo condurranno nel 1969 alla pubblicazione, in collaborazione con l’etnologa tedesca Hertha von Dechend, della sua opera più celebre, Hamlet’s Mill. An Essay on the Frame of Time4.


Perché l’incontro con Santillana è stato così importante per Calvino? Hugh Trevor-Roper riconosce a Santillana una dote assai rara tra gli storici e i filosofi della scienza della sua geneƒrazione, e cioè quella di trovarsi perfettamente a suo agio in qualunque habitat culturale: «He is at home in Babylon, in China, in Snorri Sturluson’s Iceland, in untouched Polynesia, in pre-Columbian America. He will quote Hrabanus Maurus and Bertolt Brecht as effortlessly as Metrodorus or Athanasius Kircher, and carry us with him, a little breathless perhaps, and dizzy with his throw-away allusions and polyglot versatility, from Anaximander and Parmenides to Einstein and Oppenheimer, from Hesiod and the Epic of Gilgamesh to Kafka, Auden, Salvemini, and Simone Weil»5. Non solo: questa straordinaria capacità di affrontare con originalità i temi più disparati non è mai disgiunta dal considerare il pensiero umano come una totalità indivisibile. Spirito scientifico e spirito metafisico non sono forme simboliche che possiedono vita autonoma e separata, bensì aspetti di una totalità che nel corso della storia presenta i più vari tratti e le più diverse specificità, ma che un legame spesso invisibile riesce a tenere uniti e che è compito dello storico svelare.


Si tratta di una convinzione profonda che lo contraddistingue nettamente dagli storici della scienza di formazione positivistica, e che gli viene trasmessa negli anni del suo apprendistato filosofico e scientifico da Federigo Enriques. Non vi è dubbio infatti che le posizioni di Enriques, segnate da una forte presa di distanza nei confronti sia delle correnti idealistiche sia delle concezioni pragmatiste-convenzionaliste della scienza allora assai diffuse, esercitino su Santillana una forte influenza. Lo prova il fatto che il tema dell’unità e continuità della scienza – così centrale nella sua riflessione – è già fortemente presente in un’opera del 1937, che nasce dalla collaborazione tra il maestro e l’allievo. È sufficiente leggerne alcune pagine per capire quanto lo studio del mito e delle civiltà arcaiche potesse essere uno degli sbocchi possibili della ricerca futura di Santillana:


La ragione umana si ritrova sempre la stessa, attraverso i luoghi e i tempi e senza questo presupposto sarebbe vano studiare la storia delle idee6.


La costruzione dei concetti si fa secondo leggi in qualche modo universali […], la possibilità della reciproca intelligenza implica l’identità della ragione umana, che è il presupposto fondamentale di ogni scienza comunicabile7.


Anche lo stretto legame tra metafisica e scienza è sottolineato con forza dai due autori: «L’attività scientifica e l’attività mistica e religiosa rivelano una profonda unità, scoprendosi come differenziazioni d’una medesima tendenza primitiva dello spirito […]: dalla quale deriva, in particolare, la ricerca o la creazione mentale d’alcunché d’eterno e d’immobile nel cambiamento di tutte le cose: i più alti ideali della fede e gl’invarianti – oggetti e rapporti – della contemplazione scientifica, sono i due aspetti d’una medesima realtà, suprema aspirazione dell’animo umano, e si ricongiungono nella loro origine»8.


Per Santillana, come per Enriques, la modernità non scaturisce da una rivoluzione scientifica. Non c’è mai stata una rivoluzione nella scienza. La scienza moderna è piuttosto caratterizzata da una rinascita, da una vera e propria riscoperta di idee e concezioni scientifiche antiche.


Non è difficile ritrovare queste idee nelle sue opere più mature, a cominciare da The Origins of Scientific Thought, a cui Santillana sta lavorando proprio nel periodo in cui incontra Calvino. Scrive: «Dobbiamo presumere che in ogni età ci siano ingegni quali un Archimede, un Keplero, un Newton. Nei millenni più remoti, così come l’altro ieri, quegli ingegni furono condizionati dal contesto della loro epoca nel loro modo di esprimersi […]. [Ma] il pensiero che si cela dietro a queste costruzioni dei tempi remoti è sempre elevato, anche se assume forme strane»9. Della loro attività è rimasto ben poco, «paesaggi di nebbia», esili ombre di un sapere remoto che chiede di essere decifrato e ricomposto ma che in gran parte resterà sepolto sotto i simboli di miti e leggende. Tuttavia – e Santillana lo dichiara a più riprese – una volta dismesso l’abito di un passato selvaggio e primitivo e abbandonata l’idea di Progresso, ciò che conta è il modo di avvicinarsi a questo «altro mondo». Il modo migliore per farlo è tenere bene in mente le parole di uno degli ultimi spiriti «arcaici» e padre della modernità: «Ci sembra che Keplero avesse capito il ruolo della scienza nella cultura meglio di tanti moderni, quando scrisse: “I modi in cui gli uomini giunsero alla conoscenza delle cose celesti mi sembrano quasi tanto meravigliosi quanto la natura stessa delle cose”»10.


The Origins of Scientific Thought esce nel 1961 e in traduzione italiana nel 1966. Nel 1962 Boringhieri pubblica una raccolta dal titolo Scienza e cultura oggi, a cura di Gerard Holton, in cui figura anche un saggio di Santillana, The Seventeenth-Century Legacy: Our Mirror of Being. Al centro vi è la questione della nascita della scienza moderna, e con essa la riflessione sull’irriducibile unità del pensiero umano e sulle responsabilità equamente divise tra scienziati e umanisti contemporanei nel non vederne la fecondità nei loro rispettivi campi di ricerca, prigionieri (con rare eccezioni) gli uni di un pragmatismo rozzo e a dir poco ingenuo e gli altri di una creatività spesso stanca e ripetitiva perché fondata su una ristretta visione del mondo:


Eppure, se solo la scienza evitasse di diventare prigioniera delle sue rifiniture formalistiche o della sua rozzezza pragmatistica, […] troverebbe il suo antico posto nel grande dialogo, non semplicemente come struttura di simboli, ma come metafora dell’essere. […] Essa possiede in sé qualcosa di interamente umanistico, vale a dire il suo giuoco di immagini creative, la sua esperienza nella ricerca della verità, che si legano a tutte le altre forme della ricerca. Nel pensiero di uomini come Henri Poincaré e Hermann Weyl si trovano, unite nelle loro speculazioni personali, tutte le sfumature di una cultura; non semplicemente le nude ossature del metodo, ma la coscienza filosofica, la capacità contemplativa e la profonda intuizione che sono comunemente attribuite al pensiero tradizionale. Se gli umanisti fossero così aperti al mondo della ideazione scientifica (che nulla ha a che fare con i risultati particolari) e così comprensivi verso le metafore della scienza come quegli uomini lo furono verso le metafore della letteratura, della storia e della religione, ci sarebbero pochi motivi per una guerra contro i mulini a vento […]. È la ristretta visione monopolistica, da qualunque angolo possa provenire, che costituisce la distruzione del dialogo e del libero gioco del discernimento critico11.


Nel novembre 1967, nel dare alle stampe una raccolta dei suoi principali studi di carattere filosofico ed epistemologico, Santillana concludeva la prefazione esprimendo la consapevolezza di aver dedicato gran parte della vita alla ricerca della verità, in difesa della sua idea di «razionalismo scientifico»12. Accanto alla riproposizione di saggi brillanti e famosi, da Galileo Today a Galileo and Oppenheimer a Prologue to Parmenides, la raccolta contiene anche ricerche recenti sul mito. Santillana avverte il lettore quanto questo nuovo indirizzo di studi fosse in lui ormai prevalente rispetto alle linee di ricerca che lo avevano più caratterizzato, e lo stesse orientando verso «un luogo distante dalla ricerca ordinaria e dagli strumenti usuali, lontano dall’usuale materiale documentario». I saggi Riflessioni sul fato e Les grandes doctrines cosmologiques forniscono appunto un esempio di questo indirizzo, «di un nuovo approccio e di un nuovo metodo che certo potrà essere ritenuto inaffidabile dai nostri più prudenti contemporanei; ma, ne sono sicuro, esso ha un suo valore»13. «Ho sentito il richiamo della grandiosità del tema, della prodigiosa abbondanza di materiale mitologico accumulatosi nei secoli, degli immensi panorami che si aprivano su millenni perduti, su culture sommerse che forse oggi abbiamo finalmente la possibilità di avvicinare»14. Ma, a ben vedere, non siamo di fronte a un radicale cambio di rotta rispetto alle intenzioni e prospettive che lo avevano guidato negli studi passati. Anzi, la sua ultima fatica, di cui fornisce in anteprima il titolo provvisorio, An Introduction to Archaic Cosmology, e che sarebbe uscita l’anno seguente col titolo di Hamlet’s Mill, è la giusta conclusione di un avvincente viaggio attraverso le multiformi manifestazioni del «pensiero scientifico», e che ora si conclude tornando alle sue origini dimenticate e «incomprensibili», al tesoro perduto della danza delle stelle del Tempo Cosmologico:


In contrasto con il mondo moderno, il passato arcaico ha molti punti a suo favore. Esso si fondava su una cultura assai elevata, una cultura artistica di prim’ordine, come tutti sanno, e anche su una cultura scientifica. Quest’ultima portò alla prima rivoluzione tecnologica, per millenni punto d’arrivo della cosiddetta Antichità […]. In genere si preferisce ignorare questa scienza arcaica perché fu costruita su basi errate e giunse a molte conclusioni errate; ma gli storici sanno che ciò che è errato non è necessariamente irrilevante e che un processo razionale può essere scientificamente importante indipendentemente dalle sue premesse e conclusioni15.


«Un libro fortemente anticonvenzionale», come lui stesso aveva previsto16, in cui «il mito non è né fantasia irresponsabile né materiale per grevi studi psicologici» ma «qualcosa di “totalmente altro” [che] vuole essere esaminato con occhi ben aperti»17, e di cui già la lettura dei saggi Riflessioni sul fato e Les grandes doctrines cosmologiques ci aveva fatto pregustare tutte le suggestioni e le novità.


Com’è facile intuire, Calvino non resterà indifferente a una simile impostazione. In più occasioni renderà pubblicamente omaggio a Santillana, ricordando quanto quell’incontro imprevisto si trasformò col tempo in amicizia e fu denso di conseguenze per il suo lavoro di scrittore. A cominciare proprio da una lectio magistralis, una delle Norton Lectures che Calvino avrebbe dovuto tenere a Harvard nell’inverno del 1985. L’inizio di Esattezza, la terza delle Lezioni, esprime bene questo suo debito di riconoscenza. L’affascinante descrizione di Maat, dea della bilancia e nome della piuma che presso gli egizi «serviva da peso sul piatto della bilancia dove si pesano le anime», è appunto ricavata da una conferenza di Santillana sulla cosmologia nell’età arcaica, «sulla precisione degli antichi nell’osservare i fenomeni celesti», e che – come tiene a sottolineare – «ascoltai in Italia nel 1963 e […] ebbe una profonda influenza su di me»18. Nel luglio del 1985 Calvino recensisce un volume di scritti di Santillana che si apre proprio con il testo di quella celebrata conferenza:


Ascoltando la conferenza nel 1963, ne ebbi come la rivelazione d’un nodo d’idee che forse già ronzavano confusamente nella mia testa ma che m’era difficile esprimere; e sarebbero state difficili da esprimere anche dopo, ma da quel momento sono stato cosciente d’una distanza da colmare, d’un qualcosa a cui «far fronte» […]. Dico l’idea che nessuna storia e nessun pensiero umani possano darsi se non situandoli in rapporto a tutto ciò che esiste indipendentemente dall’uomo; l’idea d’un sapere in cui il mondo della scienza moderna e quello della sapienza antica si riunifichino19.


Pur a distanza di tanti anni il ricordo è ancora vivissimo. Calvino ascoltò la conferenza, che Santillana tenne in diverse città italiane nella primavera del 1963, a Torino il 29 marzo, al Teatro Carignano, un incontro che faceva parte dei «Venerdì letterari» promossi dall’Aci, l’Associazione culturale italiana. Le cronache dei giornali del tempo ne riportano il titolo, Il fato nell’antichità e nell’era atomica, e alcuni di loro persino il sottotitolo, Variazioni su un tema di Tinguely20. «Ieri in un’interessantissima conferenza, in poco meno di un’ora, Giorgio de Santillana è riuscito a dare al pubblico una brillante e perfetta sintesi dell’origine del pensiero scientifico nell’uomo, senza paura di affrontare quel pericoloso e mutevole periodo di confine fra la leggenda e la storia, il fato e la scienza, il mito e la religione, in un continuo sfavillio di ricordi e di citazioni, di paradossi e verità filosofiche»21. Così la «Gazzetta del Popolo», che concludeva l’ampio resoconto riportando un passo della conferenza (o della discussione a essa seguita) poi rimasto inedito e in cui Santillana esprimeva tutte le sue perplessità sull’idea di progresso e sul futuro dell’umanità:


Osservando alcuni anni fa lo scoppio d’una bomba atomica nel deserto del Nevada mi parve di scorgere sulla cresta di quel piccolo sole brillantissimo, immobile per eterni secondi sopra la terra, alcune nuvolette bianche al pari d’una ghirlanda di candidi fiori… Assistevo ad una moderna nascita di Venere, una Venere apportatrice non di bellezza, ma di confusione e di lutti? La storia si ripete, come dicevano gli antichi… E quale nome dare dunque al fato nell’era subatomica? Lo chiameremo forse progresso? Un progresso non creato dagli uomini ma dominatore dell’umanità?22


La machine-sculpture dal titolo Hommage à New York, realizzata da Jean Tinguely nel 1960, «la cui unica funzione era quella di disintegrarsi in mille minutissimi pezzi quindici minuti dopo essere stata messa in moto»23, e che Santillana aveva avuto modo di ammirare al Museum of Modern Art di New York, diventa ai suoi occhi esempio eccellente di un progresso tecnologico cieco, metafora assurda e tragica della modernità. Come osserverà nel testo scritto, «questa era la prima volta che avevo visto una macchina fine a se stessa. Era una feroce ironia sulla nostra concezione della macchina come un bene strumentale, che serve a noi. Non poteva non tornarmi a mente l’ingenua certezza del Vico, che se non possiamo comprendere la natura possiamo almeno comprendere la Storia, come quella che facciamo noi stessi»24. Non sorprendono, dunque, le parole di aperto dissenso con cui «l’Unità», a firma S. V. (con ogni probabilità Saverio Vertone), commentava la conferenza, considerata «uno sfogo psicologico […] abbastanza lamentoso e dispersivo», «non di rado confusa ed ermetizzante [che] ha finito col ridursi ad una specie di inno, tra il lirico e il patetico, all’irrazionalismo»25.


2. Un mondo sconosciuto.

Gli argomenti di Santillana producono in Calvino l’effetto di una vera e propria illuminazione su un groviglio di idee che fino a quel momento non era stato capace di padroneggiare e di penetrare distintamente. Il rapporto con il mondo, che già in più occasioni era stato affrontato con dolore e inquietudine (basti pensare alle riflessioni di Amerigo Ormea sul mondo senza parole del Cottolengo), raggiunge ora la sua piena consapevolezza («da quel momento sono stato cosciente d’una distanza da colmare»). L’idea del mito come «primo linguaggio scientifico»26 è l’inaspettata scoperta di Calvino: uno dei punti di partenza per la scrittura delle Cosmicomiche e, più in generale, per la definizione del suo nuovo progetto di letteratura cosmica.


Santillana gli apre le porte a un mondo sconosciuto, a un’epoca di cui s’è persa la memoria, ma dalle cui esili tracce è comunque possibile riportare alla luce altri linguaggi e altre forme di conoscenza. Il mondo arcaico non è infatti abitato da «primitivi», ma da uomini portatori di un’antica sapienza da cui scaturisce l’invenzione dei grandi miti cosmologici, delle prime storie della creazione come costruzioni narrative. Centro di questa antichissima civiltà è il V millennio a.C., «quando molti motivi e livelli di pensiero s’intrecciavano in un tutto che aveva la sua compattezza e formava una visione unitaria del cosmo»27. E proprio questa compattezza e unità originarie sono i caratteri peculiari di un mondo andato irrimediabilmente perduto, dove l’idea del Fato nasce da un «pensiero che è nella sua essenza una cosmologia», e «tutto il reale si impernia sulle potenze stellari [e] chi comanda il mutamento sono i pianeti»28. «Così è nata per prima – osserva Santillana – una vera scienza dei moti celesti, opera di genii ignoti, i Kepleri e i Newton di quei millenni aboliti, i quali seppero tracciare percorsi molteplici convolti e intrecciati degli astri nel cielo»29.


All’interno di una visione dell’universo di questo tipo, dominata da un ordine rigoroso e da una «necessità assoluta di natura matematica»30, non c’è posto per un antropomorfismo divinizzato: «I veri “abitanti” del mondo non siamo noi, sono le potenze stellari. E anch’esse necessitate perché sopra loro sta il Numero»31. Né fato né libertà sono concetti che avevano il medesimo significato che attribuiamo loro adesso. Allora erano facce tra loro speculari; e questo perché in un universo che è unità, la vera libertà dell’uomo non può dispiegarsi che in un solo modo, entrando in perfetta sintonia con il ritmo e l’armonia dell’intero universo:


Il rapporto del pensiero con la natura nei tempi classici era ben diverso dal nostro; non già ricerca di un punto di sfondamento da cui sopraffare l’avversario, ma la ricerca di un’armonia, di una proporzione, di un ritmo in cui ci si inserisce. L’uomo si concepisce come vivente in seno alla natura, non contrapposto ad essa – cittadino della grande repubblica degli dèi, degli uomini e di tutto ciò che è32.


Fisica, etica, giustizia stavano in un rapporto armonico tra loro, erano parti del medesimo ordine universale, prima della lacerazione («la vera rivoluzione seria», la definisce Santillana) avvenuta a partire dal pensiero gnostico e dall’affermarsi del cristianesimo33.


Il rapporto che Calvino stabilisce con Santillana avviene dunque su questo terreno d’indagine, un «luogo» in gran parte ancora inesplorato, in cui mito e cosmologia arcaica si intrecciano e danno luogo a narrazioni piene di fascino e mistero, che hanno insospettito non pochi filologi e storici della civiltà, ma che per lo scrittore ligure si trasformano in momenti irripetibili di apprendimento e di riflessione.


Calvino subisce certamente il fascino dell’impostazione laica e razionalista di Santillana. La sua storia di antiche civiltà altamente sviluppate, i cui miti cosmologici erano essi stessi pensiero scientifico, trova così un lettore appassionato e perfettamente consapevole delle conseguenze derivanti dalla perdita di quell’armonia. È significativo quanto scrive nel 1985 a questo proposito:


Rileggendo ora il testo [Fato antico e fato moderno], ritrovo l’emozione di quando Santillana uscì con l’esempio inaspettato di Pierre Bezuchov in Guerra e pace, che fatto prigioniero e in pericolo di vita guarda le stelle e pensa che tutto questo cielo è in lui, è lui34.


Siamo di fronte all’ultimo rappresentante del pensiero arcaico, all’ultimo «grande scrittore epico», come afferma Santillana35. Da un diverso punto di vista anche Calvino è attratto da un’immagine di questo tipo e non esita a schierarsi dalla stessa parte, a favore cioè di una visione unitaria dell’universo e di un’idea del sapere in cui «il mondo della scienza moderna e quello della sapienza antica si riunifichino»36. È questo il centro della conferenza di Santillana che lo «illumina» e che costituirà un punto di non ritorno: quel farsi carico di una «distanza da colmare» da cui scaturirà una delle linee-forza della sua narrazione futura. A colmare questa distanza e a ristabilire un contatto con il «fuori» ci proverà per primo il vecchio Qfwfq, memoria del mondo e narratore di antiche storie scientifico-mitologiche. È da qui, da un’idea della letteratura come cosmologia, che Calvino ricomincia a scrivere per tornare a dire qualcosa di umano.


3. Favole e scienza.

Pochi anni più tardi, in diretta polemica con Robbe-Grillet, Calvino fornisce una definizione assai calzante del suo progetto cosmico:


Non che il discorso di Robbe-Grillet non mi avesse convinto: ma è successo che poi scrivendo mi è venuto da seguire la via opposta, con dei racconti che sono una specie di delirio dell’antropomorfismo, dell’impossibilità di pensare il mondo se non attraverso figure umane, o più particolarmente smorfie umane, borbottii umani. Certo, anche questo è un modo di mettere alla prova l’immagine più ovvia e pigra e vanagloriosa dell’uomo: moltiplicare i suoi occhi e il suo naso tutt’intorno in modo che non sappia più dove riconoscersi37.


È un’idea di antropomorfismo sui generis, inteso prima di tutto come «procedimento letterario fondamentale, e – prima che letterario – mitico, collegato a una delle prime spiegazioni del mondo dell’uomo primitivo, l’animismo»38, che implica il recupero di un’unità di fondo tra io e mondo da lungo tempo andata perduta.


Cesare Segre ha definito quella di Calvino una «poetica di allargamento», capace cioè di andare oltre l’esperienza sensibile, i dati percepibili dal nostro io individuale. A riprova di ciò cita il passo finale di Molteplicità, del «far parlare ciò che non ha parola»39, sottolineando però quanto questa sua cifra poetica avesse avuto inizio molto tempo prima, a cominciare proprio dal progetto sulle fiabe italiane. «Allargare la realtà è anche conquistare spazi al fiabesco», e comprendere «il senso calviniano del fiabesco» significa prima di tutto comprendere la distanza che lo separa dagli altri scrittori italiani, «quasi sempre invischiati nel ricordo e nella sensibilità da un lato, nel vissuto collettivo passato e presente dall’altro»40. Sull’argomento è tornato Mario Barenghi, precisando in modo direi impeccabile il significato di fiaba in Calvino:


Il ricorso al fantastico si identifica come strumento di investigazione del reale, analogo a un reagente chimico o a una cartina di tornasole […]. In altre parole, il fiabesco per Calvino significa soprattutto la logica della fiaba, l’architettura della fiaba. La fiaba conta essenzialmente come modello costruttivo, come logica narrativa – potremmo azzardare perfino, come schema astratto. […] È notevole che in una certa fase della sua produzione Calvino abbia capovolto senz’altro l’opinione corrente secondo la quale la fiaba interessa la fantasia, l’immaginazione, l’illusione, l’irrealtà, mentre la scienza si identifica con il dominio della razionalità e della logica. Al contrario, egli si avvale della ragione intrinseca e della logica costruttiva della fiaba, mentre dalla scienza (dalla teoria scientifica, dai discorsi scientifici) desume gli aspetti di creatività, di intuizione, di invenzione41.


Il binomio mito-scienza prende dunque avvio di qui. Lucidamente lo aveva avvertito Giovanni Falaschi in un lavoro del 1972, a tal punto che, nel ringraziarlo per il bel saggio, Calvino non mancava di sottolineare che gli era piaciuta molto «l’osservazione che le Fiabe italiane aprono il mio periodo “scientifico”»42. «Favola e scienza, invenzione e logica si conciliano per Calvino indiscutibilmente, poiché ogni racconto ha in sé una struttura razionale e ogni discorso è in potenza un racconto»43. Con altre parole, molti anni più tardi, Mario Lavagetto è tornato sulla passione combinatoria di Calvino facendola risalire al periodo delle fiabe italiane: «Non c’è, io credo, alcuna discontinuità tra chi ha scritto le Fiabe italiane e chi celebra la sofisticata combinatoria di Queneau. Un mondo apparentemente chiuso si moltiplica in un numero incalcolabile di mondi possibili»44. In fondo, che altro sono le storie narrate dal vecchio Qfwfq se non fiabe sul destino dell’uomo gettato nel cosmo, se non un aggiornamento e un ammodernamento del grande inventario fiabesco-mitologico da cui ha preso inizio la letteratura? Con una differenza rilevantissima, tuttavia, e che dipende dal fascino che su Calvino ha sempre esercitato (e ancora di più dopo il suo soggiorno americano) la contemporaneità e i suoi aspetti più innovativi. Con la differenza, questa volta, che è la scienza a produrre il mito, e non viceversa.


È possibile fare narrazione a partire dai risultati acquisiti dal mondo della scienza? Questa è la sfida che Calvino lancia a se stesso e da cui nasce il nuovo progetto. «Le Cosmicomiche – ha osservato Del Giudice – in questo sono evidenti, cominciano con dieci righe di descrizione di un esperimento, di una nozione acquisita dalla scienza e la umanizzano»45. Ed è, a pensarci bene, l’esatto rovesciamento del progetto perseguito da Santillana, che era appunto quello di mostrare come nasce la razionalità dal mito, anzi, che la razionalità è forma del mito.


A partire dalle Cosmicomiche Calvino intende dunque provare che è possibile il percorso inverso. E sarà un progetto che non lascerà cadere neppure al termine della prima fase cosmicomica. Anche il signor Palomar, infatti, continuerà a pensare alla «forza mitica delle nuove immagini celesti»46. Che poi si tratti di quasar, pulsar o nane bianche non ha importanza. Quello che conta – nonostante la reprimenda di Margherita Hack per alcune inesattezze del signor Palomar sui buchi neri47 – è che Calvino resta fermamente convinto che occorre mettersi «in caccia d’immagini al limite del pensabile»48 (com’è appunto quella d’implosione), perché «a ogni secolo e a ogni rivoluzione del pensiero sono la scienza e la filosofia che rimodellano la dimensione mitica dell’immaginazione, cioè il fondamentale rapporto tra gli uomini e le cose»49. Ciò da un lato conferma l’idea della letteratura come poetica di allargamento, fondandosi sull’unità e l’intreccio quanto mai originali tra linguaggio mitopoietico e linguaggio scientifico, e dall’altro fornisce una prova concreta e di rara efficacia di un nuovo modo di fare letteratura, della sua vitalità e insopprimibilità, anche all’interno di un mondo sempre più dominato dalla scienza e dalla sua invisibilità.


4. Un’altra idea di mito.

A Calvino doveva piacere l’atteggiamento antiaccademico e a tratti così pungente di Santillana, per molti versi assai simile al suo. Impietose restano le pagine dedicate a Cassirer nella parte conclusiva del Mulino d’Amleto50, così come esilarante è la fulminante descrizione di una natura vendicatrice e «spara proiettili» in Fato antico e fato moderno:


La realtà fisica per conto suo tira calci per vendicarsi dei suoi conoscitori, sparandoci in faccia una confusione di particelle elementari transeunti e mal distinte, insulto al buon senso, fra cui lo scienziato si aggira ormai come l’impallinato nella notte. Gli psicanalisti dovrebbero trovare qui di che divertirsi in modo perverso, loro che hanno così temerariamente attentato alla nostra personalità51.


«Citazione – osserva Calvino – che merita di figurare in un’antologia ideale, a testimoniare il piglio e lo stile del Santillana scrittore, e la causticità del suo sarcasmo»52. Spunto eccellente per un nuovo racconto cosmicomico.


Come hanno sottolineato Marco Belpoliti e Domenico Scarpa, Calvino allontana da sé, «grazie alla mediazione delle teorie cosmologiche di de Santillana […], ogni rischio di cadere nell’irrazionalismo e nel misticismo»53. «In Calvino il mito si presenta non come una oscura forza sotterranea, bensì come energia diurna e cosmica, e vive del rapporto di propulsione fantastica tra terra e cielo»54. Di qui prende forma il progetto cosmicomico, e con esso l’idea di raccontare l’universo come una grande macchina scientifico-cosmologica. Scrive Santillana: «Il fattore antropomorfico della divinità umanizzata, che tiene tanto posto nel nostro pensiero storico, sembra non esistesse a quel punto. La realtà, nel senso ontologico, è una, è quella regolarità della macchina cosmica»55. E, ancora, nel Mulino di Amleto: «Tutti i miti presentavano racconti, alcuni misteriosi, incoerenti, bizzarri, altri epici e tragici; ora, finalmente, ci è dato intenderli come rappresentazioni parziali di un sistema, come funzioni di un tutto»56. Calvino si muove nella stessa direzione. Su questo piano, la distanza che lo separa da Pavese è netta. Per nessun motivo avrebbe potuto scrivere «Là, sul confine tra cielo e tronco, poteva sbucare il dio»57. Il mito come attimo estatico, come evento metafisico, unico e assoluto, è quanto di più lontano possa esserci dall’immagine tutta terrena, antisacrale e antipsicologica che del mito possiede Calvino. Forse non è un caso che intorno alla fine degli anni cinquanta Calvino faccia i conti con Pavese, che il suo lavoro di editore di Pavese sia anche un lavoro di Calvino per Calvino58. Di chi, cioè, si rende conto che per ripartire occorre sbarazzarsi dell’idea di mito che Pavese aveva lasciato e su cui aveva costruito gran parte della sua idea di letteratura. Si legga in proposito la lettera di Calvino a Vittorini del 3 febbraio 1959. Dopo aver letto il saggio di Giuseppe Cintioli su Pavese (un lavoro che gli era piaciuto e che sarà pubblicato sul «Menabò»), Calvino definisce con precisione il lavoro dell’amico e maestro, facendo emergere tutta la distanza che ormai lo separa da lui: «Convengo anche nel giudizio su Pavese, sul suo non essere mai dentro alla realtà (della guerra come di ogni altra cosa) cui cerca di dar ragione su un piano mitico-assoluto, e aver tutta la sua tensione in questa impossibilità (e rifiuto) a toccare alcuna cosa, pur sempre continuando a cimentarcisi»59.


Non vi è dubbio, dunque, che proprio gli scritti di Santillana abbiano agito in lui come un potente antidoto. A questo proposito va pure ricordato che, quando Santillana incontra Calvino a Boston, il suo lavoro cosmologico era giunto a uno stadio assai avanzato. «Questo libro è basato su ricerche etnologiche e di storia della scienza, frutto di due decenni di ricerche e lavoro», scriveva nell’aprile 1967 al Saggiatore di Alberto Mondadori, che aveva mostrato l’intenzione di pubblicare l’opera appena fosse uscita negli Stati Uniti60. In quella occasione Santillana inviava alla casa editrice milanese una scheda di presentazione, in cui metteva in risalto i principali obiettivi del proprio lavoro, e in particolare la distanza che separava il suo approccio allo studio della mitologia antica da quello psicoanalitico:


Soggetto del libro: Attraverso la mitologia comparata è la ricerca di un antico pensiero cosmologico scientifico, che non fu mai identificato da interpreti precedenti. La mitologia protostorica è stata ormai presa in carico dai [sic] psicanalisti, i quali hanno creato delle opere spesso dotte (come Kérényj) ma che spiegano tutto attraverso la psicologia dell’inconscio, non notando il pensiero razionale che in essa si asconde. Questo pensiero non era in grado di esprimersi in forme identificabili alla nostra analisi, cioè non era analitico nel senso nostro, pur trattando di quello che oggi è oggetto di scienza. […]


Tesi del libro: Le forme protostoriche di pensiero sulla natura si fondavano sopra una coscienza astronomica già altamente formata, e sopra una passione della misura esatta ispirata da fatti astronomici. Si trattava essenzialmente non già di una fisica ma di una cosmologia: cioè di una teoria dell’universo come un tutto organico, in cui tutti quanti i livelli dell’essere si complettono in un insieme che si chiamava il cosmo, struttura estremamente complessa, sfuggente e labile, che non si era prima identificata. Infatti, la mancanza di alfabeto costringeva questi pensatori a «raccontare» il cosmo invece di esporlo analiticamente, creando azioni narrative e avventure – dalle quali è derivato il mito classico. In origine era una lingua tecnica, destinata a essere tramandata a memoria per esprimere i modi e i tempi della cosmologia. Si sono così rivelate scoperte astronomiche eccezionalmente importanti che erano rimaste avvolte nel velo della favola61.


Calvino apprende da Santillana che mito e scienza non sono «ordini del discorso» separati. All’inseparabilità tra fiaba e mito, che segna in modo netto il distacco di Lévi-Strauss da Propp62, ora se ne aggiunge un’altra, quella tra racconto mitologico e racconto cosmologico-scientifico. Così, la scoperta di un nesso logico tra il racconto della fiaba e il suo retroterra arcaico e quello tra la scienza e il racconto cosmologico delle antiche civiltà conduce Calvino all’invenzione di un nuovo e avanzato terreno di scrittura. Se l’immaginario fantastico del linguaggio mitologico elabora continuamente forme di conoscenza del mondo, altrettanto accade nel linguaggio scientifico, che produce incessantemente metafore e finzioni che divengono parti costitutive della scienza stessa. Contro ogni vuoto purismo e solennità della tradizione umanistica63, Calvino trova nelle pagine di uno storico della scienza e studioso del mito un saldo punto di appoggio da cui ripartire per reimparare a guardare il mondo.


5. Il progetto di una rivista.

L’insegnamento di Santillana non si esaurisce con il periodo cosmicomico. Resterà vivo e produrrà nuovi incontri e nuove idee anche negli anni successivi. In particolare, insieme alla lettura decisiva di Lévi-Strauss, contribuirà a svolgere un ruolo di primo piano alla fine degli anni sessanta, quando Calvino, insieme a Gianni Celati, Carlo Ginzburg, Enzo Melandri, Guido Neri, lavorerà alla fondazione di una nuova rivista64, ovvero sarà impegnato nel progetto di ridefinizione della letteratura come nuova cosmologia.


Se leggiamo alcuni passi del Protocollo di una riunione fondativa della rivista, tenuta a Bologna nel dicembre 1968 e a cui parteciparono Calvino, Celati e Neri, ci accorgiamo subito che il rapporto mito-cosmologia riveste un posto centrale. E se l’autore spesso citato è Lévi-Strauss, va detto però che, almeno per Calvino, le idee dell’antropologo francese su mito e cosmologia trovano ascolto e terreno fertile grazie anche alla frequentazione dei testi di Santillana:


1.5. Diviene necessaria la ridefinizione della letteratura come luogo di significati e di forme che non valgono solo per la letteratura; con altri termini: come luogo dei fondamenti mitici dell’operare umano.


1.6. Se il mito non è inteso al modo romantico come fabulazione fascinatoria e derealizzante, ma nell’accezione che si è venuta imponendo con l’antropologia moderna (soprattutto con Lévi-Strauss), come cosmologia, e quindi come classificazione dei ruoli della prassi e dei punti di riferimento del reale, assolve alla funzione di denominatore comune delle esigenze che la prassi promuove; è l’energetica primaria che pervade non solo il discorso letterario, ma anche quello politico ed ogni forma di discorso umano, compreso quello scientifico65.


Come si vede, da un lato vi è l’insistenza sulla letteratura come «luogo dei fondamenti mitici dell’operare umano», dall’altro una concezione del mito come cosmologia, da intendersi come uno dei modelli unitari, non riduzionistici del reale. Celati, che è l’estensore del Protocollo, fa esplicito riferimento a un progetto letterario che si proponga dei modelli «incolmabili», com’è appunto quello mitico-cosmologico. Se si vuole giungere a una «poetica del discorso umano» (intesa come «radicale sovvertimento della concezione dell’uomo e della cultura»)66, è necessario ritrovare «la matrice comune del nostro uso dei segni culturali e dell’immaginario»67. Per queste ragioni nel Protocollo a più riprese si parla di «ipotesi globale e non riduttiva», di ricerca dei «fondamenti archetipici», di letteratura come discorso umano tout court, «che non occulti i suoi fondamenti mitici e la sua vocazione mitopoietica» e che abbia, anche se indirettamente, una chiara finalità politica, e cioè quella di usare la sua funzione mitopoietica «come energetica del desiderio, come prefigurazione del desiderio realizzato, come aggressione alla dimensione infernale in cui si vive»68. In questa prospettiva diviene essenziale recuperare quel processo combinatorio che è all’origine del discorso umano, così come è altrettanto evidente che nessun discorso particolare e specialistico, a cominciare da quello lirico, può assurgere a guida del nuovo progetto letterario:


3.6 […] Riconsiderare la letteratura come possibile enciclopedia dei topoi del sapere, e studiare quegli autori che hanno inteso in questo senso la progettazione letteraria; perché in tal modo l’orizzonte dei fatti letterari viene riscoperto come cosmologia unitaria su cui si fonda il mito, da cui deriva ogni forma di discorso umano e in cui si spiega ogni uso dell’immaginario e dei segni culturali69.


Da Parigi, il 16 gennaio 1969, Calvino invia a Celati le proprie osservazioni sul documento, e punto per punto interviene con rettifiche e integrazioni. Sul punto 3, in particolare, esprime piena consonanza. Innanzitutto si tratta di abbandonare ogni progetto riduzionista della complessità. All’equazione rigore-semplicità, che ha contraddistinto il tempo presente e che Calvino definisce epoca «eroica» del paradigma riduzionista, è arrivato il momento di sostituire un’idea di conoscenza della complessità senza scadere in forme eclettiche e compromissorie di lettura della realtà: «A questo punto è giunto il momento di ribellarsi a un’idea del “più rigoroso” che finisce per equivalere a “più povero”. Troppe volte la semplificazione eroica ha ceduto il campo alla semplificazione di comodo. Questo è il nodo che vogliamo superare con i modelli incolmabili»70. Per provare a ridare slancio e profondità al rapporto realtà-discorso occorre dunque sbarazzarsi di ogni visione limitatrice di forme e modelli letterari, e provare a riannodare i fili con l’antica matrice ordinatrice mitico-cosmologica. Nello Sguardo dell’archeologo Calvino chiama questo spazio «matrice pitagorica del mondo»71 e in Esattezza tornerà sull’argomento, sottolineando il «legame tra le scelte formali della composizione letteraria e il bisogno di un modello cosmologico (ossia d’un quadro mitologico generale)»72. A partire dalle Cosmicomiche, questo è uno dei punti essenziali della sua ricerca, inseparabile dagli altri progetti che di volta in volta Calvino metterà in cantiere: l’idea di un disegno dell’universo, e cioè di una «storia extraumana in cui si inserisce la storia umana», sarà presente in Palomar come nelle Città invisibili73.


6. Uno scrittore postmoderno?

Dopo aver ascoltato la conferenza del 1963 «cominciai a scrivere le Cosmicomiche», dichiara nel 1984. Soltanto dopo quella conferenza Calvino riesce a «vedere» nella sua essenzialità il problema letteratura-mondo. «Pensare all’universo», appunto; ovvero, da una diversa angolatura mai tentata fino ad allora, per dare «più spazio ai problemi umani». Non è l’inizio di un ripiegamento, quanto l’inizio di un nuovo percorso, di un nuovo modo di avvicinarsi al reale e, nello stesso tempo, il suo manifesto per una letteratura impura74.


Era diventato il suo modo di mantenere i contatti con la realtà. L’unica «azione» che egli fosse capace di esprimere; ma che restava un’azione conoscitiva verso un mondo non meno vero e terribile di quello percepito nella sua immediatezza: a meno di considerare meno vera e terribile una realtà che è inesauribile e inconoscibile nella sua totalità.


«Deve esistere una possibilità di letteratura che elabori altre immagini, altre dimensioni del mondo», osserva in piena temperie cosmicomica75. A partire da questa assoluta necessità di sperimentare nuove forme dell’immaginazione si appresta a pubblicare il suo primo «romanzo scientifico» che nulla ha a che fare con la fantascienza, come si premura subito di avvertire76. Semplicemente è la messa in opera di un’altra possibilità, capace appunto di individuare «altre dimensioni del mondo» che altrimenti sarebbero rimaste ignote.


Scrive Santillana ad Alberto Moravia nel 1969, all’indomani dello sbarco sulla luna: «Io serbo una speranza che si trovi una relazione dell’uomo verso il cosmo, come ho cercato di mostrare con le mie ricerche sulla scienza protostorica, che era un tempo essenzialmente antropocentrica in un senso più profondo, perché il cosmo era allora pensato sul serio e capace di influire sull’uomo e di dare un senso alla sua vita»77. In forme e modi diversi sarà la speranza che Calvino coltiverà per tutta la vita. È la sua speciale forma di utopia che, in un periodo ancora caratterizzato da un forte ottimismo gnoseologico, non si è ancora incrinata e dissolta in una molteplicità di frammenti e di linee spezzate, come accadrà a partire dai primi anni settanta. Un’idea di utopia e di funzione politica della letteratura verso la quale si stava orientando già a partire dalla metà degli anni cinquanta e che si era imposta alla sua attenzione lavorando entro il mondo delle fiabe: «Le grandi spiegazioni del mondo sono sempre apparse come favole o come utopie […]. Chi accetta il mondo com’è, sarà scrittore naturalista, chi non vuole accettarlo ma vuole spiegarselo sarà scrittore favoloso»78. Così, una volta esaurita la fase del rapporto diretto con le cose (in cui raccontare equivale a «trasformare dei fatti in parole»)79, se qualsiasi forma realistico-naturalista di rispecchiamento è ormai obsoleta e impraticabile, ciò non significa che non si possano inventare altri modi di rappresentazione. Dalle Cosmicomiche in poi, sarà questa la sua principale «occupazione»80: «Devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica»81. Se il rischio è quello di farsi catturare dal mondo e di finire pietrificati dentro una sua immagine, non resta che escogitare «altri metodi di conoscenza e di verifica». Parziali e provvisori, certo, ma che pur sempre restano forme di conoscenza della realtà. «La letteratura – osserva nel 1967 – è per me una serie di tentativi di conoscenza e di classificazione delle informazioni sul mondo, il tutto molto instabile e relativo ma in qualche modo non inutile»82. Calvino risponde così alle nuove avanguardie, e in primo luogo a un paesaggio sociale e culturale che sta cambiando velocemente e che esige a sua volta profondi cambiamenti in chi ha scelto di non distaccarsene e di farne la propria esperienza. Se l’esterno è mutato e muta continuamente, se il fuori non è più come prima, e non si vuole rinunciare a stabilire con esso una qualche forma di rapporto conoscitivo, allora occorre mutare prospettiva e, dunque, scrittura. La distanza che lo separa da altri scrittori a lui contemporanei risiede appunto nel non considerare la letteratura un sistema autoreferenziale e chiuso al mondo83. A chi sostiene che «l’idea barthesiana della scrittura intransitiva abbia senz’altro influenzato Calvino»84, e che il rapporto che Calvino instaura con ciò che gli sta fuori non è che «un gioco con le parole»85, si può rispondere che sarà proprio Calvino a sottolineare con efficacia le differenze esistenti tra il suo modo di intendere il rapporto scrittura-mondo e quello teorizzato da Barthes, e lo farà proprio a partire da una diversa concezione del linguaggio scientifico e da un diverso rapporto tra scienza e letteratura86.


 


1 Cit. in L. Clerici, Il progetto editoriale delle «Fiabe italiane», in Frigessi (a cura di), Inchiesta sulle fiabe cit., pp. 73-94: 82.


2 E. Ferrero, Se lo scrittore sapesse che la scienza è anche fantasia, in «Tuttolibri», 1984, 390, p. 1 (allegato a «La Stampa», 21 gennaio 1984), cit. in RR, II, p. 1320. Calvino ricorda le prime letture scientifiche anche in un’intervista pubblicata sulla rivista «Il Paradosso» (1960): «Attraverso le lettere e le discussioni estive con Eugenio [Scalfari] venivo a seguire il risveglio dell’antifascismo clandestino e ad avere un orientamento nei libri da leggere: leggi Huizinga, leggi Montale, leggi Vittorini, leggi Pisacane; le novità editoriali di quegli anni segnavano le tappe d’una nostra disordinata educazione etico-letteraria. Si discuteva molto anche di scienza, di cosmologia, dei fondamenti della conoscenza: Eddington, Planck, Heisenberg, Einstein» (S, II, p. 2743).


3 G. de Santillana, The Crime of Galileo, University of Chicago Press, Chicago 1955. Il libro venne tradotto in numerosi paesi. L’edizione italiana, che uscì presso Mondadori nel 1960 col titolo Processo a Galileo, e con numerose varianti rispetto all’edizione americana, era dedicata «a Federigo Enriques e Gaetano Salvemini, miei maestri». Su de Santillana cfr. N. Sivin, Giorgio Diaz de Santillana (1902-1974): éloge, in «Isis», LXVII, 1976, 3, pp. 439-43; E. Giannetto, Saggi di storie del pensiero scientifico, Sestante, Bergamo 2005, pp. 27-36 e passim.


4 G. de Santillana - H. von Dechend, Hamlet’s Mill. An Essay on the Frame of Time, Gambit, Boston 1969. L’edizione italiana, dal titolo Il mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo, uscì presso Adelphi soltanto nel 1983, anche se il progetto di una traduzione fu preso subito in seria considerazione dalla casa editrice Il Saggiatore (cfr. infra, cap. IV, pp. 80-1).


5 «Egli è di casa a Babilonia, in Cina, nell’Islanda di Snorri Sturluson, nell’incontaminata Polinesia e nell’America precolombiana. Citerà con estrema naturalezza sia Rabano Mauro e Bertolt Brecht, sia Metrodoro o Athanasius Kircher, e ci porterà con lui, un po’ con il fiato sospeso forse, e ci farà venire le vertigini con le sue disinvolte allusioni e la sua versatilità poliglotta, da Anassimandro e Parmenide a Einstein e Oppenheimer, da Esiodo e l’epopea di Gilgamesh a Kafka, Auden, Salvemini e Simone Weil» (G. de Santillana, Reflections on Men and Ideas, prefazione di H. R. Trevor-Roper, Mit Press, Cambridge, Mass., 1968, pp. VII-VIII).


6 F. Enriques - G. de Santillana, Compendio di storia del pensiero scientifico, Zanichelli, Bologna 1937, p. 16.


7 F. Enriques, Il significato della storia del pensiero scientifico (1936), cit. in P. Rossi, Federigo Enriques, storico della scienza, in Id., I ragni e le formiche. Un’apologia della storia della scienza, il Mulino, Bologna 1986, pp. 211-27: 214.


8 Enriques - de Santillana, Compendio di storia del pensiero scientifico cit., p. 39.


9 G. de Santillana, Le origini del pensiero scientifico. Da Anassimandro a Proclo: 600 a.C.-500 d.C., Sansoni, Firenze 1966, pp. 22-3.


10 Ibid., p. 25. Per Santillana, Newton e Keplero sono «personaggi di transizione, […] a un tempo arcaici e moderni nelle loro abitudini di pensiero». E se il primo, sottoscrivendo il celebre giudizio di John Maynard Keynes, che ben conosceva gli interessi alchemici, di cronologia biblica e teologici di Newton, lo definisce «non il primo dell’Età della Ragione, bensì l’ultimo dei maghi, l’ultimo dei Babilonesi e dei Sumeri», il secondo è colui che «con i suoi calcoli instancabili e la sua appassionata devozione al sogno di riscoprire l’Armonia delle Sfere apparteneva all’ordine antico» (ibid.).


11 G. de Santillana, L’eredità del diciassettesimo secolo: il nostro specchio dell’essere, in G. Holton (a cura di), Scienza e cultura oggi, Boringhieri, Torino 1962, pp. 51-81: 79, 80-1 (Beacon Press, Boston 1958). In proposito cfr. Bellini, «Chi cattura chi?» cit., pp. 166-7.


12 «Razionalismo – dichiara Santillana – è una parola pericolosa, usata con molteplici significati», le cui fondamenta risalgono però nel pensiero arcaico; e a conferma di ciò faceva riferimento alla «severa e sobria architettura delle parole di Anassimandro» (de Santillana, Reflections on Men and Ideas cit., pp. 231, 276).


13 Ibid., p. XI; trad. in G. de Santillana - H. von Dechend, Il mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo, ed. rivista e ampliata a cura di A. Passi, Adelphi, Milano 2003, p. 12 (prefazione all’ed. tedesca).


14 Ibid.


15 De Santillana - von Dechend, Il mulino di Amleto cit., p. 387. Sul libro cfr. R. Calasso, Cento lettere a uno sconosciuto, Adelphi, Milano 2003, pp. 147-50.


16 De Santillana - von Dechend, Il mulino di Amleto cit., p. 83.


17 Ibid., p. 383.


18 Calvino, Lezioni americane, S, I, p. 677.


19 Id., Il cielo sono io, in «la Repubblica», 10 luglio 1985, S, II, p. 2088. La conferenza di Santillana e l’impatto che essa ebbe su Calvino sono ricordati anche da Giulio Einaudi: cfr. S. Cesari, Colloquio con Giulio Einaudi, Theoria, Roma 1991, p. 78 (nuova ed. Einaudi, Torino 2007). Cfr. anche K. Pilz, Mapping Complexity. Literature and Science in the Works of Italo Calvino, Troubador, Leicester 2005, pp. 19-21, 30-2.


20 Un umanista moderno e la macchina che va in pezzi, in «Stampa sera», 29 marzo 1963. Il testo di Santillana venne pubblicato per la prima volta, col titolo Fato antico e fato moderno, nel fascicolo 12 (1962-63, pp. 37-62) delle Conferenze dell’Associazione culturale italiana (Aci). Successivamente venne ripubblicato, con varianti linguistiche e alcune omissioni (i passi a p. 54 su Tolstoj, de Maistre e Isaiah Berlin, quelli a p. 61 su Joyce, Beckett e Harold Pinter), sulla rivista «Tempo Presente» (VIII, settembre-ottobre 1963, pp. 9-24) e, nel 1985, dalla casa editrice Adelphi.


21 Il progresso, fato dell’era atomica, in «La Gazzetta del Popolo», 30 marzo 1963.


22 Ibid.


23 Un umanista moderno e la macchina che va in pezzi cit.


24 G. de Santillana, Fato antico e fato moderno, Adelphi, Milano 1985, p. 42.


25 S. V[ertone], Conferenza sul «fato» al Carignano, in «l’Unità», 30 marzo 1963.


26 De Santillana, Fato antico e fato moderno cit., p. 12.


27 Ibid.


28 Ibid., p. 13.


29 Ibid., p. 14.


30 Ibid., p. 15.


31 Ibid., p. 29.


32 Ibid., p. 33.


33 «La vera rivoluzione seria è stato il cristianesimo, in grazia del pensiero gnostico che porta in sé fin da prima delle origini. […] Così l’uomo è liberato. Quello che si ha da conoscere, lo dice sant’Agostino, è Dio e l’anima soltanto, nulla più. È crollato il mondo delle stelle, e al tempo stesso il mondo della natura. Ama et fac quod vis. La macchina tremenda è ridotta a nulla. È ormai un bell’orologio che il Signore regalò al padre Adamo per la sua nascita. La Provvidenza soprannaturale è su tutto» (ibid., pp. 37-8).


34 Calvino, Il cielo sono io cit., pp. 2088-89. Cfr. il passo in de Santillana, Fato antico e fato moderno cit., p. 17.


35 De Santillana - von Dechend, Il mulino di Amleto cit., p. 384.


36 Calvino, Il cielo sono io cit., p. 2088.


37 Calvino, Due interviste su scienza e letteratura (1968), in Id., Una pietra sopra cit., p. 188 (S, I, p. 234).


38 Ibid. Cfr. M. Barenghi, Il fiabesco nella narrativa di Calvino, in Frigessi (a cura di), Inchiesta sulle fiabe cit., pp. 27-37: 30. Sul tema dell’unità in Calvino cfr. Scarpa, Italo Calvino cit., p. 93.


39 Calvino, Lezioni americane, S, I, p. 733.


40 C. Segre, Presentazione, in Frigessi (a cura di), Inchiesta sulle fiabe cit., pp. 14-5.


41 Barenghi, Il fiabesco nella narrativa di Calvino cit., pp. 34-5.


42 L, p. 1182: Calvino a G. Falaschi, 4 novembre 1972.


43 G. Falaschi, Italo Calvino, in «Belfagor», XXVII, 1972, 5, pp. 530-58: 545.


44 Lavagetto, Dovuto a Calvino cit., p. 86.


45 Del Giudice, intervento, in Narratori dell’invisibile cit., p. 164.


46 I. Calvino, I buchi neri, in «Corriere della Sera», 7 settembre 1975, p. 3, poi in Belpoliti (a cura di), Italo Calvino. Enciclopedia cit., pp. 48-51.


47 M. Hack, Il divario fra due culture, in «Corriere della Sera», 14 ottobre 1975, p. 5 (nella rubrica «Lettere al Corriere»). A proposito delle nane bianche, cioè delle stelle ormai in fase di contrazione, a elevatissima densità e gravità superficiale, la Hack rimproverava a Calvino di essersi «fatto incantare dalle immagini, trascurando il significato». Per quanto riguarda il «Diagramma di Russell», relativo ai parametri di classificazione delle stelle, lo tacciava d’imprecisione definitoria. Per poi concludere: «Forse, da qui innanzi, penserò a lui come a un “settecentesco arrovesciato”, o con le gambe per aria. Nel senso che mentre gli scrittori del Settecento, quali Voltaire etc., tendevano alla scienza e alla precisione, Calvino tende al mistico e al vago, alla “permanenza delle Nane Bianche”. Se è così, se perfino Calvino tende un orecchio distratto alla scienza, nessuna meraviglia che gli astrologi siano tornati tanto di moda». Nella sua risposta Calvino faceva ammenda per alcune imprecisioni («Il signor Palomar, che ora è poco si faceva campione della precisione più meticolosa, ammette d’aver sacrificato l’esattezza sull’altare della concisione»). Tuttavia, a proposito della critica di essersi fatto «incantare» dalle immagini, la risposta non poteva essere più calviniana di così: «E qui il signor Palomar non può sperare di difendersi. Per uno che pensa per immagini, e che va continuamente in caccia d’immagini al limite del pensabile, questo è un duro colpo: come incontrare un cartello di “caccia vietata” in un bosco (la scienza) che per lui era una riserva di pregiata selvaggina» (I. Calvino, Un maremoto nel Pacifico, in «Corriere della Sera», 29 ottobre 1975, p. 3, poi in Belpoliti, a cura di, Italo Calvino. Enciclopedia cit., pp. 52-5: 55).


48 Ibid.


49 Calvino, I buchi neri cit., p. 51. Sulla contemporanea e autonoma riflessione di Levi e Calvino cfr. D. Scarpa, Levi, Calvino e la scoperta dei buchi neri, in A. Ottieri (a cura di), Ai margini della letteratura. Le «scritture contaminate», in «Sinestesie. Rivista di studi sulle letterature e le arti europee», IV, 2006, pp. 297-308.


50 A proposito degli studi di Cassirer sul pensiero mitico scriveva: «Pur con tutto il rispetto dovuto a questo grande storico della filosofia del Rinascimento, rimanemmo allibiti. Seguimmo la sua prosa limpida e persuasiva, che delineava il grande sviluppo del concetto da inizi rozzi e selvaggi fino alle sublimità della consapevolezza kantiana […]. Poi, mentre ci spingevamo a riflettere che questo era il materiale che avrebbe fornito “corsi generali per specialisti” alle immense università del domani, il materiale con cui si sarebbero edificate le splendenti strutture degli Studi Umanistici per le Masse a base di testi stampati elettronicamente e di audiovisivi, fummo improvvisamente afferrati dal ricordo di una grande coppia instancabile, devota e ridicola: Bouvard e Pécuchet» (de Santillana - von Dechend, Il mulino di Amleto cit., p. 381).


51 De Santillana, Fato antico e fato moderno cit., p. 45.


52 Calvino, Il cielo sono io cit., p. 2088.


53 Belpoliti, Settanta cit., p. 116.


54 Scarpa, Italo Calvino cit., p. 181.


55 De Santillana, Fato antico e fato moderno cit., p. 15.


56 De Santillana - von Dechend, Il mulino di Amleto cit., p. 74. Nel Mulino di Amleto Santillana riprendeva e approfondiva il concetto del mito come macchina: «Il cosmo era un unico vasto sistema pieno di ingranaggi che contenevano altri ingranaggi, enormemente intricato nei suoi collegamenti e paragonabile a un orologio dai molti quadranti. Le sue funzioni apparivano e scomparivano dappertutto nel sistema, come strani cucù d’orologio, e attorno a esse venivano intrecciati racconti meravigliosi per descriverne il comportamento; ma, proprio come avviene con le macchine, non è possibile comprendere la singola parte fino a quando non si è compreso il modo in cui tutte le parti sono collegate fra loro nel sistema. […] È esattamente quel che succede nel grandioso apparato dei miti» (ibid.). Su questa pagina si è soffermato di recente D. Del Giudice, Meccanica per viaggi al limite del non conosciuto, in F. Moretti (a cura di), Il romanzo, IV, Temi, luoghi, eroi, Einaudi, Torino 2003, pp. 293-315: 293-4.


57 C. Pavese, Del mito, del simbolo e d’altro, in Id., Feria d’agosto (1946), in La letteratura americana e altri saggi, V ed., Einaudi, Torino 1962, p. 299.


58 Per un’interpretazione del mito in Pavese cfr. almeno F. Jesi, Letteratura e mito, con un saggio di A. Cavalletti, Einaudi, Torino 2002 (1968), pp. 131-60; G. Guglielmi, Pavese mitologo, in Id., La prosa italiana del Novecento II cit., pp. 114-33; C. Pavese - E. De Martino, La Collana viola. Lettere 1945-1950, a cura di P. Angelini, Bollati Boringhieri, Torino 1991; G. Venturi, Cesare Pavese, Furio Jesi e il mito: una interpretazione, in M. Campanello (a cura di), Cesare Pavese. Atti del Convegno internazionale di studi, Olschki, Firenze 2005, pp. 77-110. Su Calvino e il mito cfr. Scarpa, Italo Calvino cit., pp. 98-9, 178-83.


59 AE, Corrispondenza, E. Vittorini, cart. 221, fasc. 3099/2, n. 1157, lettera del 3 febbraio 1959.


60 Una copia dattiloscritta dell’opera, una volta titolata Cosmologia antica, un’altra Sulla cosmologia arcaica, era stata data in lettura a Enzo Paci nel novembre 1968 (AFM, Archivio storico Il Saggiatore, sezione carteggio, de Santillana). In una lettera a Glauco Arneri, Santillana si mostrava non poco preoccupato sulla traduzione dell’opera, e suggeriva il nome di Romano Mastromattei come «persona particolarmente competente nel campo della storia delle religioni e che conosce perfettamente il linguaggio tecnico». «Mi permetto di insistere sul problema dei traduttori, che tante volte mi hanno tradito. A tal punto che dovetti buttar via le traduzioni del mio “Processo a Galileo” e rifare il testo tutto quanto in italiano. Pare il mio stile inglese li metta in difficoltà. Anche il mio “Origini del pensiero scientifico” dovette essere ripreso in parte da me. È tanto difficile trovare un traduttore che capisca i miei soggetti» (ibid., lettera dell’11 ottobre 1967).


61 Ibid., G. de Santillana, Sulla cosmologia arcaica [dattiloscritto, aprile 1967].


62 Cfr. I. Calvino, La tradizione popolare nelle fiabe, in Storia d’Italia, V, I documenti, Einaudi, Torino 1973, pp. 1611-28: 1612 (ora in Id., Sulla fiaba, a cura di M. Lavagetto, Einaudi, Torino, 1988). Cfr. anche R. Deidier, Le forme del tempo. Saggio su Italo Calvino, Guerini, Milano 1995, pp. 39-50.


63 Su questo punto cfr. l’introduzione di C. Milanini, RR, II, pp. XXVI-XXVII.


64 Cfr. infra, cap. VIII, pp. 158-60.


65 [G. Celati], Protocollo d’una riunione tenuta a Bologna nel dicembre 1968, in M. Barenghi - M. Belpoliti (a cura di), «Alì Babà». Progetto di una rivista, 1968-1972, in «Riga», 1998, 14, pp. 57-8. In proposito cfr. M. Porro, Immagini e conoscenza scientifica, in Waage Petersen - Grundtvig (a cura di), Italo Calvino cit., pp. 209-25: 221-3.


66 Celati, Protocollo cit., p. 60.


67 Ibid., p. 61.


68 Ibid., p. 58.


69 Ibid., p. 61. Cfr. P. Antonello, Strutture presenti versus strutture assenti: Italo Calvino, Umberto Eco e il dialogo con le scienze, in G. Olcese (a cura di), Cultura scientifica e cultura umanistica: contrasto o integrazione?, Edizioni San Marco dei Giustiniani, Genova 2004, pp. 263-83: 265-70.


70 Barenghi - Belpoliti (a cura di), «Alì Babà». Progetto di una rivista cit., p. 73: Calvino a G. Celati, 16 gennaio 1969. Va detto che a proposito della letteratura come lirica Calvino dà un giudizio meno severo di quello abbozzato da Celati. Ma pur riconoscendone il valore in certi momenti del Novecento («una seria difesa di ciò che era serio da ciò che non lo era»), individua con precisione il suo limite maggiore («quello dell’anima individuale e della comunicazione tra anime individuali»), incompatibile con il modello cosmologico qui sostenuto. Più articolato era anche il giudizio sulla neoavanguardia, che Calvino rifiuta di vedere come un blocco omogeneo e monocorde: «La neoavanguardia come seguito, insieme di persone ecc. è il nostro pubblico naturale, il teatro delle nostre discussioni, il centro di reclutamento di giovani tra i quali vogliamo scegliere persone che lavorino con noi. […] Bisognerà invece analizzare e distinguere le varie posizioni. Capisco il tuo atteggiamento in quanto la neoavanguardia è stata l’orizzonte naturale del tuo noviziato letterario. Ma io penso alla neoavanguardia soprattutto come opposizione all’orizzonte letterario di “Nuovi argomenti”, “Paragone”, “Il Mondo” ecc. che è stato anche mio orizzonte naturale, e che è ancor vivo e potente» (p. 76).


71 I. Calvino, Lo sguardo dell’archeologo (1972), S, I, p. 327.


72 Id., Lezioni americane, S, I, p. 687.


73 «È lo sfondo che può ritrovare in alcune delle mie Città» (S, II, p. 2794: intervista di F. Camon).


74 Sul tema dell’impurità cfr. L, pp. 583, 593: lettere di Calvino a P. Emmanuel, 17 febbraio 1959, e a F. Fortini, 13 maggio 1959.


75 Ibid., p. 790: Calvino a F. Lucentini, 20 marzo 1964.


76 «Io vado avanti con questa serie di racconti – scriveva a François Wahl –, che non hanno niente a che fare con la fantascienza ma sono un genere interamente nuovo» (ibid., p. 837: 16 novembre 1964). In proposito cfr. C. Milanini, in RR, I, introduzione, pp. XXV-XXVIII.


77 G. de Santillana, Lettera a proposito della Luna, in «Nuovi argomenti», n.s., XV, 1969, pp. 293-6: 293.


78 Incontro con Calvino, intervista a cura di G. Mazzaglia, in «Il Punto», 16 novembre 1957, p. 13.


79 L’espressione è di Pavese ed è riferita a Calvino (C. Pavese, Il sentiero dei nidi di ragno [recensione, 1947], ora in Id., La letteratura americana e altri saggi, II ed., Einaudi, Torino 1953, p. 273).


80 S’intende, con accenti differenti. È noto che gli anni settanta faranno scomparire del tutto dall’orizzonte di Calvino anche questo «ottimismo gnoseologico», e anche il lato politico-utopico finirà per assumere nuovi significati. Cfr. infra, cap. VIII, p. 171.


81 Calvino, Lezioni americane, S, I, p. 635.


82 Id., Je ne suis pas satisfait de la littérature actuelle en Italie, a cura di M. Santschi, in «La Gazette littéraire de Lausanne», 127, 1967, 3-4 giugno, p. 30, cit. in RR, II, p. 1347.


83 Su questo punto condivido il giudizio di Marco Belpoliti: «Calvino scrittore postmoderno, post-ideologico, è un’invenzione della critica, perché nonostante i dubbi, le esitazioni e persino le repulse, egli resta legato a un’idea di letteratura che dialoga con la società in cui nasce e prospera, e non può fare a meno di pensare, con gli strumenti che gli sono propri – la fantasia e l’immaginazione – a una società umana più giusta» (Settanta cit., p. 106). Sulla stessa lunghezza d’onda mi pare sia anche Domenico Scarpa: «L’io e la realtà sensibile, ingarbugliati e geometrici e filiformi come una partita di shangai, non sono un’illusione: esistono, ma non si sa che cosa sono realmente, che cosa significano e in che direzione vanno» (Italo Calvino cit., p. 56). Cfr. anche F. Brioschi, Critica della ragion poetica e altri saggi di letteratura e filosofia, Bollati Boringhieri, Torino 2002, pp. 77-8.


84 Benedetti, Pasolini contro Calvino cit., p. 122.


85 Ibid., p. 120. E a proposito di Palomar: «Si tratta di un gioco assai particolare: un gioco che, tra le sue regole costitutive, contempla un mondo da descrivere […]. Insomma, dentro al gioco c’è una pedina che sta per il mondo di fuori». Cfr. anche pp. 145-6: «La letteratura è un “sistema chiuso” al mondo: scrivere – come diceva Barthes – è “un’attività narcisistica” che non rimanda che a se stessa. […] La consolazione di Barthes […] consiste nel credere al “miracolo” che quell’attività narcisistica continui pur sempre a sollevare “domande valide sul mondo”. Quanto a Calvino, la sua consolazione si chiama “mondo non scritto”. In tutti e due i casi il mondo rientra magicamente nel gioco. Proprio nel momento in cui lo perde come oggetto di rappresentazione, lo scrittore finisce per ritrovare il mondo come oggetto di una “decezione infinita”».


86 Cfr. infra, cap. VI, pp. 119-21.

V. Copernicani, aristotelico-tolemaici, «bella letteratura»: Calvino e Vittorini

Se la nostra percezione del mondo è tolemaica non dipende dal fatto che i nostri sensi sono orientati per natura in modo da darci una visione tolemaica – ma bensì dal fatto che la nostra cultura più profonda è ancora la tolemaica e orienta i nostri sensi in modo tolemaico […]. Noi non usiamo le nostre attuali nozioni fisiche fino ad integrare con esse i nostri sensi – perché i nostri sensi sono tuttora otturati, occlusi dalle nozioni della fisica pre-newtoniana le quali li hanno integrati e strutturati 3000 anni fa.


E. Vittorini, Le due tensioni. Appunti per una ideologia della letteratura, a cura di D. Isella, Il Saggiatore, Milano 1967, p. 167.


1. Per una «coscienza extraindividuale».

Come ha osservato Domenico Scarpa, «Le Cosmicomiche gli faranno perdere molti lettori, anche tra i suoi colleghi romanzieri»1. In effetti, l’accoglienza che da parte della critica ebbero le Cosmicomiche e Ti con zero non fu pari a quella che solitamente accompagnava ogni nuova opera di Calvino. Per sincerarsene basterebbe fare il confronto con i giudizi che seguirono il ciclo degli «antenati» o i racconti come La speculazione edilizia e La giornata d’uno scrutatore.


Accanto a considerazioni che ne sottolineano l’originalità rispetto anche al filone fantastico dei lavori precedenti, non mancano perplessità e riserve sul nuovo corso calviniano. In non pochi casi si assiste a una riproposizione, spesso convenzionale, delle «due anime» di Calvino, autore sempre in bilico tra realtà e fiaba, incapace di fondere in un vero romanzo le molteplici linee della sua narrazione. Claudio Marabini considera le Cosmicomiche una «provvisoria vacanza morale», una «prevalenza così massiccia del giuoco fantastico da pervenire alla gratuità e al solipsismo»2; Giansiro Ferrata parla di «bozzetti fantascientifici […] non più che piacevoli e curiosi nel loro illuminato, simpatico linguaggio»3; Renato Barilli – a proposito di Ti con zero – di una rivisitazione del romanzo fantascientifico «con bruschi ritorni alla quotidianità e alla vita in pantofole, [che] rischia di esser controproducente, di spezzare l’incantesimo, di annullare la vitalità e l’efficienza della narrazione “impossibile”, piuttosto che di riscattarla dai suoi tratti stereotipati»4; Carlo Salinari ricorda invece con nostalgia il Calvino della Speculazione edilizia, quando il suo impegno morale e ideale non si era ancora smarrito in «un gioco distaccato di combinazioni intellettuali»5. Nel recensire su «Vie Nuove» Ti con zero, Vittorio Spinazzola scriveva:


Non ci ha proprio convinto. Nessun scandalo, beninteso: Calvino ha da tempo abbandonato le forme narrative classiche, realistiche o fantastiche, nelle quali aveva pure fatto così eccellenti prove, per dedicarsi allo sperimentalismo. E si sa che gli esperimenti comportano un rischio: possono riuscire o anche non riuscire, senza per questo essere infecondi […]. I più significativi racconti di Ti con zero nascono come esemplificazioni concrete delle teorie letterarie elaborate dall’ultimo Vittorini, che Calvino compartecipava e di cui vuol essere continuatore. […] Calvino mima i procedimenti della logica scientifica con lo stesso accanimento con cui un narratore ultrarealista imiterebbe l’oggettività degli avvenimenti esterni. Ma non ci dà nessuna informazione che non possiamo già reperire in un qualche trattato di scienze fisiche. D’altronde il tono di conversazione sofisticata impresso ai racconti ne appesantisce il ritmo, offuscando quello che dovrebbe essere il loro pregio maggiore, cioè la nitida essenzialità di pensiero6.


Più articolato è il giudizio di Angelo Guglielmi, anche se complessivamente finiscono per essere posti in luce più gli aspetti negativi di quelli positivi:


Lo sforzo della deduzione arrugginisce i materiali che finiscono per stridere e sentono compromessa la corsa del loro slancio e furore. Si tratta di un furore puramente intellettuale, tutto fulgido e lucente che è ciò in cui – non v’è dubbio – risiede tutto quel poco o quel molto di buono che Calvino ci dà con questo libro. Giacché il buono di Ti con zero è insieme poco e molto. Poco in quanto quel furore esplode gagliardamente solo in una parte del libro, nelle altre presentandosi più o meno opaco, spento e confuso. Molto giacché è cosa molto pregevole, e obiettivamente in sé per sé, in quanto una delle poche possibilità di stile che la narrativa italiana più recente ci ha offerto, e in relazione alla storia personale di Calvino il quale proveniva, a parte l’episodio di passaggio delle Cosmicomiche, dall’esperienza non molto felice della Giornata d’uno scrutatore, in cui egli si era proposto di affrontare temi come l’infelicità di natura, il dolore, la responsabilità della procreazione, non solo a lui non congeniali ma da cui non so quale altro scrittore d’oggi avrebbe potuto ricavare qualcosa, trattandosi di temi oramai affidati all’esclusiva competenza di filosofi, moralisti e medici7.


Di diverso tenore sono invece le recensioni di Michele Rago, Benvenuto Terracini, Luigi Baldacci, Claudio Varese, Guido Piovene, Cesare Milanese, Guido Fink, Cesare Garboli. Eugenio Montale ha parole di apprezzamento per «la lucida intelligenza di uno scrittore che sta trincerandosi deliberatamente […] in un suo fortilizio di disimpegno e di “inappartenenza”»8. Dei dodici racconti che compongono le Cosmicomiche quello che apprezza maggiormente è l’ultimo, La spirale, «in cui il giuoco intellettuale si avvicina di più alle illuminazioni della poesia»9. E a proposito di una probabile influenza di Borges, suggerita già in quegli anni, pone in evidenza più le differenze che le analogie scartando ogni diretta filiazione con lo scrittore argentino: «Il raffronto cade subito se si pensa che lo scrittore argentino lavora su pretesti e paradossi di cultura mentre Calvino svolge qui ipotesi astratte e surreali, allargando così, ma anche svuotando, il campo delle sue osservazioni»10. Ma sono soprattutto i saggi di Garboli e Milanese a incuriosire di più Calvino e a farlo tornare a riflettere sui lavori da poco editi.


Non sempre è stato sottolineato che la cura di Calvino per ogni suo scritto non si concludeva con la pubblicazione del testo ma proseguiva intensamente anche nei mesi successivi. Nella maggior parte dei casi quel dopo si trasformava in un accurato lavoro definitorio che prolungava l’opera stessa, anzi che diveniva esso stesso testo, indispensabile perché il progetto da cui l’opera scritta era scaturita potesse dirsi davvero compiuto. Le osservazioni che riceveva lo costringevano a porsi interrogativi che non sempre aveva appieno considerato o a rivedere conclusioni fino ad allora ritenute ben salde: «Sono ancora troppo preso a definire questo lavoro delle Cosmicomiche dall’interno di se stesso per cercare di definirlo nel quadro del resto del mio lavoro», scrive a Ferretti nel febbraio 196611. E a Cesare Milanese, nel dicembre dell’anno seguente dopo aver letto la sua recensione a Ti con zero, risponde: «Di rado […] succede di leggere un articolo critico che muova tante idee e tutte diverse dalla solita zuppa riscaldata, che obblighi a ripensare ogni cosa da capo. […] Quel che mi interessa di più sentir discutere è la parte terza del mio libro, anche per sapere fin dove potrò andare avanti in quella via. E questa descrizione logica della logica di un accadimento mi pare una definizione – e un programma – straordinari»12. La corrispondenza con i lettori diviene dunque un prezioso strumento per misurare il grado di tenuta dei propri progetti e, al tempo stesso, un’opportunità da non sprecare per precisare meglio a se stesso il senso del nuovo lavoro avviato. Anche la lettura di Giù negli abissi del mondo – il «bel ritratto pluri-bifronte» che Cesare Garboli gli dedicò in occasione dell’uscita di Ti con zero13 – finì per trasformarsi in un’occasione di riflessione e di verifica sia del cammino percorso che di quello futuro: «Sono soprattutto contento che tu veda nei punti d’arrivo di questo libro il coronamento di tutto il mio lavoro. Il senso del tuo discorso – tutto centrato sull’identificazione dell’io dell’autore – concorda col mio se vede in questi punti d’arrivo non tanto la scoperta di chi sia quell’io che scrive – cosa del tutto secondaria – ma la conquistata certezza che ciò che conta più che capire se stessi è capire il mondo che ci contiene (e se mai, se stessi in negativo), capire il mondo-prigione, non il prigioniero sempre empirico fungibile provvisorio»14. Forse è soprattutto in dichiarazioni come queste che si percepisce appieno il lungo e accidentato cammino compiuto, la «conquistata certezza» di un’idea della letteratura che si viene liberando di ogni residuo antropocentrico e che si è assunta deliberatamente il compito di «capire il mondo che ci contiene».


Sono parole scritte nel dicembre 1967, che segnano un punto di non ritorno e che troveranno un ulteriore approfondimento in un testo-intervista di un decennio più tardi. In un colloquio con Daniele Del Giudice del 7 gennaio 1978 Calvino spiegava com’era giunto a scrivere le Cosmicomiche e perché aveva fatto quella scelta:


La lacerazione c’è nel Visconte dimezzato e forse in tutto ciò che ho scritto. E la coscienza della lacerazione porta il desiderio d’armonia. Ma ogni illusione d’armonia nelle cose contingenti è mistificatoria, perciò bisogna cercarla su altri piani. Così sono arrivato al cosmo. Ma il cosmo non esiste, nemmeno per la scienza, è solo l’orizzonte di una coscienza extraindividuale, dove superare tutti gli sciovinismi di un’idea particolaristica dell’uomo, e raggiungere magari un’ottica non antropomorfa. In questa ascesa non ho mai avuto né compiacimento né contemplazione. Piuttosto senso di responsabilità verso l’universo. Siamo anello di una catena che parte a scala subatomica o pregalattica: dare ai nostri gesti, ai nostri pensieri, la continuità del prima di noi e dopo di noi, è una cosa in cui credo. E vorrei che questo si raccogliesse da quell’insieme di frammenti che è la mia opera15.


Tutto si concentra in quel «senso di responsabilità verso l’universo» che, buttato lì come un inciso, scivola via senza che ce ne accorgiamo, mentre invece contiene la definizione più rigorosa della cosmologia di Calvino: idea-mito («il cosmo non esiste, nemmeno per la scienza») e spazio-dimora di «una coscienza extraindividuale», che scardina definitivamente ogni visione consolatoria e finalistica dell’uomo, ma anche qualunque opposizione essenzialistica tra uomo e natura. Certo, vorremmo saperne di più, vorremmo capire meglio cosa è stato l’incontro con de Santillana (attraverso, per esempio, la consultazione della corrispondenza che è conservata al Mit di Boston ma alla quale non è ancora possibile accedere), ma anche quanto in questo passaggio abbiano influito le discussioni – e le divergenze – con Vittorini sul significato e sul valore della letteratura, e sul tema specifico dei rapporti tra scienza e letteratura.


2. Promossi e bocciati.

Su questo ultimo punto troviamo una forte sintonia tra l’ultimo Vittorini e il Calvino degli anni sessanta. È sufficiente leggere i verbali delle riunioni della casa editrice torinese per accorgersi di quanti libri di argomento scientifico sono vagliati e proposti dai due scrittori: a volte sono letti all’insaputa l’uno dell’altro, altre invece è il Consiglio editoriale stesso che dà loro in lettura incrociata i medesimi libri. È il caso, per esempio, di Man as an Animal di Wilhelm Charles Osman, un libro di anatomia comparata pubblicato nel 1957 e considerato da Calvino interessante, «tutto fatti, non c’è tromboneria»16, e poi passato a Vittorini, e da lui giudicato «buono per la Pbe, però non mi sembra straordinario»17. Ancora: il 24 giugno 1964 Calvino informa il consiglio editoriale di aver letto due libri di divulgazione scientifica: «From Galaxy to Man di Pfeifer [John Pfeiffer], scritto in quello stile di quando ero ragazzo. È proprio il tipo di divulgazione come non si dovrebbe fare. L’altro è sulla radioastronomia, molto elementare e banale». Mentre il mese precedente, traendo spunto dalla discussione sul libro di Raymond Williams, Culture and Society 1780-1950, era stato Vittorini a sottolineare che «da quando la letteratura si è staccata dal pensiero scientifico, tutti i grandi scrittori sono conservatori (Petrarca ecc.)»18. Il 30 settembre Vittorini informa il Consiglio di aver letto L’evoluzione e la specie umana di Ernst Mayr: un libro che considera assai difficile, perché «non è un’esposizione, ma una discussione su questi temi che sono temi ancora aperti». E il 7 ottobre: «Sto leggendo Le basi dell’evoluzione umana di Klaus. È molto divulgativo, manualisticamente completo, spiega tutto per bene. Finirò di leggerlo mercoledì». Calvino, con prontezza, soggiungeva: «Può darsi che nell’ultimo capitolo il “progetto uomo” non si realizzi…». Il 18 novembre è ancora Vittorini a prendere in considerazione la possibilità di pubblicare alcuni articoli usciti su «Civiltà delle macchine». In particolare lo aveva interessato un saggio dell’astrofisico Bruno Rossi: «Lo trovo molto buono – osserva –, studia i nuovi mezzi d’osservazione per onde radio. Rossi studia in America, mi pare opportuno agganciarlo». Così come sarà ancora Vittorini a segnalare la traduzione di libri di storia della scienza, come A Brief History of Science di Marie Boas e Alfred Rupert Hall, che propone venga pubblicato nella Pbe, oppure a guardare con interesse al libro di Thomas Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, che così sintetizza: «L’idea è: i progressi della scienza avvengono cercando in un mondo di paradigmi già noti. È un puzzle, insomma, e va per esempi»19. Mentre era stato Calvino, due anni prima, a bocciare senza appello gli scritti di Gaston Bachelard20.


L’attenzione verso il mondo scientifico che Vittorini e Calvino manifestano in modo così evidente avviene però in un momento in cui all’interno della casa editrice – come ha sottolineato Luisa Mangoni – sta maturando «una vera e propria torsione dell’asse culturale»21. Il progetto di cui era stato incaricato Guido Neri nel giugno del 1964, e cioè di «affiancare a Barthes e Blanchot altri critici vitali e interessanti», tra i quali in primis Bataille, è un segno evidente di questo cambiamento di indirizzo. Nella riunione del 2 dicembre tale progetto si concretizza nella proposta di pubblicare due testi di Bataille, L’expérience intérieure e Le coupable. Davico, che appoggia la scelta di Neri, li considera «due testi chiave del movimento culturale attuale»22. E mentre Vittorini, pur avanzando perplessità e diffidenze23, decide di rileggere i due testi segnalati da Neri, Calvino esprime, a suo modo e senza indugi, il proprio netto dissenso: «So che mi attende una lunga notte, ben vengano gli uccelli notturni. Occupino loro il campo: questi signori che scopriamo e discopriamo». L’uscita è volutamente provocatoria e, come fedelmente riporta il verbale del Consiglio, viene accolta da «mormorii» e «dissenso netto di alcuni»24, ai quali Calvino replicherà nella riunione del 16 dicembre. Di fronte a posizioni che si stanno facendo sempre più distanti, egli prende spunto dalla presentazione del libro di Albert Ducrocq, Cybernétique et univers. Le roman de la matière, su cui si era già soffermato nella riunione del 18 novembre25, per ergersi, non senza un pizzico di autoironia, a ultimo difensore del razionalismo: «Non ridete se parlo bene del Ducrocq […]. Mi è piaciuto molto: finalmente va contro il secondo principio della termodinamica, è diverso dagli altri, mi ha fatto un grande effetto stimolante». La ricerca di un ordine cosmico, la ricerca di uno spazio di autogoverno che si opponga all’espansione irreversibile di uno spazio entropico sono argomenti sui quali Calvino tornerà in più occasioni ma che, in questa sede, utilizza polemicamente contro i nuovi apologeti di una letteratura (e di una visione del mondo) à la Bataille: «È una rivincita del razionalismo – dichiarava, riferendosi alle tesi sostenute da Ducrocq –, e come razionalista a lungo vilipeso adesso rialzo il viso»26. Ma i severi giudizi di Calvino su gran parte della nouvelle critique francese – dagli scritti di Blanchot considerati «molto faticosi, molto antipatici» al lavoro di Georges Poulet bollato come «vacuo e inutile»27 – non erano certo una novità per nessuno dei collaboratori della casa editrice.


3. L’ultimo Vittorini.

Le discussioni tra Calvino e Vittorini sulla scienza trovano eco anche nella loro corrispondenza. Si tratta di esili tracce, ma sufficienti a farci capire quanto la questione fosse per entrambi rilevante. Comune era il loro punto di partenza, così come l’attenzione rivolta al mondo scientifico e tecnologico:


Tutte le nostre metafore sono d’ordine tolemaico – sottolinea Vittorini –. […] Eterno petrarchismo della letteratura italiana – privatismo – monolinguismo – simmetrismo come aristotelismo – disinteresse per la scienza e la tecnica, cioè per ogni strumento di promozione della condizione umana. Abbiamo avuto scienziati con interessi letterari (Galileo o Cattaneo) ma mai letterati con interessi scientifici28.


Che questi fossero i temi che più stavano a cuore a Vittorini lo testimonia anche l’ultimo numero del «Menabò», a lui interamente dedicato. In apertura, una raccolta di interviste e saggi brevi risalenti agli anni 1961-65 voluta e scelta da Calvino, ovvero la prosecuzione del suo Diario in pubblico, che lo scrittore intendeva realizzare e che l’amico titola significativamente La ragione conoscitiva29. Molte delle considerazioni che lì figurano sono pienamente condivise da Calvino: dal giudizio su Thomas Mann a quelli sul Dottor Zivago e sul Gattopardo30. Così come il parere sulla neoavanguardia, «ancora legata alle concezioni estetiche della prima avanguardia e al suo decadentismo»31. Per non parlare delle illusioni coltivate da una vecchia cultura umanistica sempre desiderosa di marcare la propria autonomia e indipendenza dalla scienza. Certi passi, poi, sono opportunamente ritagliati e messi in risalto anche tipograficamente, tanto da apparire come veri e propri aforismi. Come non leggere, per esempio, in funzione cosmicomica (ovvero in funzione di un nuovo statuto logico-deduttivo del fantastico) un brano di un’intervista a Vittorini del dicembre 1964 che Calvino presentava col titolo La fantasia come sedimentazione di vecchia cultura:


La letteratura sta morendo perché che cos’è l’immaginazione se non vecchia cultura diventata affetto? La letteratura deve compiere una imponente operazione di acquisizione di nuove nozioni. La nostra, è ancora una letteratura a livello dei sensi, aristotelica; che ha un’idea apparente, cioè fallace del mondo. Sì, la fantasia è solo cultura sedimentata32.


Le due tensioni e Ti con zero uscirono contemporaneamente, agli inizi di novembre del 1967. Le polemiche suscitate dall’opera postuma di Vittorini non destarono particolare sorpresa in Calvino. Salvo rare eccezioni, come il saggio di Guido Guglielmi33, il libro venne infatti accolto con freddezza e, in certi casi, con disapprovazione. Sul «Corriere della Sera» Geno Pampaloni, riflettendo sul declino che stava attraversando la letteratura in Italia, si chiedeva se la strada indicata dallo scrittore siciliano fosse davvero una «rivoluzione copernicana» oppure «un ritorno a formulazioni di scientismo tolemaico»34. A suo parere non vi erano dubbi che quel progetto di letteratura come «tensione razionale» avrebbe condotto la letteratura ad abdicare ai suoi compiti e valori tradizionali. Nel libro di Vittorini – osservava – «si postula il rifiuto della letteratura come opera e come espressione di una personalità; l’esprimersi, che è proprio del poeta, è declassato nei confronti dell’informare; il piacere estetico assimilato a categorie magiche, preindustriali»35. Il riferimento è puntuale. In alcune dense pagine del capitolo «I novecenteschi» Vittorini avanza infatti l’ipotesi che l’autore, nel suo tentativo di tendere e approssimarsi alla realtà, non possa più svolgere il ruolo di «coscienza universale del mondo», «di soggettività creazionale, di Dio», ma solo quello di «correlatore», di «registratore di coscienze»36. In una nota al testo, dal titolo «Joyce dei Dubliners», esemplifica con efficacia tutta la distanza che c’è tra una letteratura «espressiva» e una «informativa»: «Joyce dei Dubliners uno che si esprime […] quello invece dell’Ulysses e Finn. W. [Finnegans Wake] uno che informa – che porta una nuova informazione sulle cose degli uomini – (come Cézanne rispetto a Van Gogh, come Rimbaud rispetto a Verlaine). Così lo strano è questo: che proprio coloro che vengono giudicati come un’esasperazione del soggettivo siano loro che informano – che hanno una carica informativa»37. Nessun declassamento dell’autore, dunque; come pure nessun ritorno a forme più o meno mascherate di rispecchiamento o di riduzionismo naturalistico. Anzi, direi esattamente il contrario: la riflessione sui limiti della letteratura come percezione aristotelico-tolemaica del mondo, tipica della vecchia cultura umanistica38, lo conduce a cercare altri tipi di relazioni, in cui la soggettività dell’autore, invece di essere soffocante e autoritaria, viene ad assumere altre funzioni e quindi nuove forme di responsabilità. Da qui nasce l’idea di una letteratura che informi, che fornisca «una nuova informazione sulle cose degli uomini» e che lasci al lettore «una possibilità di scelta tra varie congetture sulla realtà»39.


Ma per comprendere meglio quanto stretto fosse in quegli anni il sodalizio Vittorini-Calvino, e quanto Vittorini desiderasse un esplicito impegno di Calvino al suo fianco, a cominciare dall’assunzione di responsabilità nella direzione del «Menabò»40, può essere utile ritornare sulla polemica Guglielmi-Calvino seguita all’uscita della Sfida al labirinto. Dopo aver apprezzato la risposta di Calvino41, anche Vittorini pensa di intervenire nella discussione con la pubblicazione di una lettera inviata a Calvino nel dicembre del 196342. In essa si sofferma a lungo su ciò che chiama «l’attuale malattia della letteratura», e cioè sulla distanza sempre crescente che separa la letteratura dai processi culturali in atto43. Il confronto che stabilisce con i recenti sviluppi della scienza, con le nuove funzioni che sta assumendo all’interno della cultura contemporanea, è infatti tutto a scapito della letteratura, incapace ormai di elaborare modelli e valori che abbiano la forza di interagire con ciò che è vivo e che sta fuori del suo sempre più limitato orizzonte:


La cultura oggi, dico come insieme di scienze e tecniche, è andata ben oltre il grado di sviluppo toccato al momento in cui (al principio Ottocento) si è avuta la più recente corrispondenza di sviluppo tra letteratura e cultura in genere. La letteratura no. È rimasta più o meno ferma a quel grado – (per esempio col suo modo di riferirsi all’esperienza sensibile che venne giusto allora investito d’importanza culturale ma senza poi che le fosse mantenuta) – o è andata oltre quel grado di così poco e così episodicamente (così fuori dal suo insieme) che oggi sembra aver vita (come insieme) non già nel mondo stesso in cui agiscono scienze e tecniche, ma in una specie di Riserva Indiana, di Parco Nazionale, di luogo conservativo dei sentimenti e dei rapporti e dei processi conoscitivi passati44.


Vittorini parla di conoscenza ingenua della letteratura («Il discorso letterario rende ingenuo tutto ciò che tocca, come se addirittura fosse col rendere ingenuo ch’esso si manifesta per specificamente letterario»)45, a differenza dell’universalità e potenzialità accumulate dalla conoscenza scientifica e tecnica. E si scaglia violentemente contro il lukacsismo e i lukacsiani italiani46, colpevoli a suo dire di non rendersi conto dello stato di minorità in cui versa la letteratura contemporanea, e anche loro accondiscendenti verso forme più o meno mascherate di ingenuità47. La fine del suo stato di minorità avviene dunque con il passaggio da uno stato confuso di immediatezza, sempre più inefficace perché incapace di bucare la realtà nella sua complessità, a uno stato maturo di conoscenza, consapevole del suo «senso operativo» e del suo ruolo attivo e autonomo dentro le molteplici forme della cultura contemporanea. Insomma, o restare confinati nel «parco nazionale», e continuare a vivere alimentandosi della propria inutile spensieratezza, oppure provare a uscirne e riprendere i contatti con un mondo che è cambiato e che non ha più bisogno di quel tipo di letteratura. Uno dei punti del programma del «Menabò» di Vittorini-Calvino era appunto quello di contribuire ad accelerare questo rinnovamento radicale:


Il guaio non deriva dall’interesse storico-sociale in sé, ma dal modo fasullo in cui è stato assunto, né può esservi salvezza nel tornare ad assumerlo, se non salviamo le strutture stesse del discorso letterario dall’ingenuità che le depotenzia e non le rendiamo capaci di elaborare, a livello con le scienze e le tecniche oggi più avanzate, un senso anche storico-sociale che risulti strutturalmente suo proprio. Questo è il punto: la ristrutturazione culturale (o correlativamente culturale) del discorso letterario, possibilità creative comprese, immaginazione compresa; e questo è che postula «Menabò» con la sua polemica pur nell’impertinenza o relativa pertinenza dei suoi saggi48.


Da una diversa angolatura, questi stessi argomenti sono discussi in un’intervista registrata per la rubrica televisiva L’Approdo nella primavera del 1965. Il testo degli appunti che Vittorini segue durante la trasmissione viene da Calvino integralmente trascritto e inserito nell’ultimo numero del «Menabò». Ne cito un passaggio, che poi figurerà quasi alla lettera nell’opera postuma:


Non è l’esprimersi che importa di più. Quello che più importa è l’esprimere. Cioè il dare a vedere qualcosa che c’è anche se da sola non la si vede. Io ho sempre creduto in una funzione oggettiva, informativa, dell’arte. Con questo non nego che vi possa essere una certa grandezza anche nell’esprimersi. Van Gogh è uno che si limita ad esprimersi. Ma Cézanne è uno che soprattutto informa. Rimbaud, lo stesso, è uno che soprattutto informa. E se Joyce dei Racconti dublinesi non fa che esprimersi, l’altro e più grande Joyce, quello dell’Ulysses e di Finnegan’s Wake, arriva invece, e come, a informare49.


Il fascicolo della rivista usciva nell’aprile del 1967. Appena due mesi dopo, in una preziosa intervista rilasciata alla «Gazette de Lausanne», Calvino dichiarava la propria insoddisfazione per lo stato in cui versava la letteratura in Italia. Lo faceva esponendo i tratti peculiari di una nuova idea di letteratura del tutto anomala rispetto al panorama italiano e che, in parte, risentiva dell’intenso sodalizio intellettuale con Vittorini. Anzi, si ha quasi l’impressione che riprenda il filo delle riflessioni interrotte dall’amico e maestro, impiegando gli stessi concetti e perfino la sua stessa terminologia:


Io non sono tra coloro che credono che esista solo il linguaggio, o solo il pensiero umano […]. Io credo che esista una realtà e che ci sia un rapporto (seppure sempre parziale) tra la realtà e i segni con cui la rappresentiamo. La ragione della mia irrequietezza stilistica, dell’insoddisfazione riguardo ai miei procedimenti, deriva proprio da questo fatto. Io credo che il mondo esista indipendentemente dall’uomo; il mondo esisteva prima dell’uomo ed esisterà dopo, e l’uomo è solo un’occasione che il mondo ha per organizzare alcune informazioni su se stesso. Quindi la letteratura è per me una serie di tentativi di conoscenza e di classificazione delle informazioni sul mondo, il tutto molto instabile e relativo ma in qualche modo non inutile50.


A un primo sguardo non ci sono dubbi sul fatto che Calvino intenda ripartire dal progetto di una letteratura come «informazione sul mondo» avanzato pochi anni prima da Vittorini. Ma – come sottolinea limpidamente in chiusura di uno dei saggi più belli a lui dedicati – «vecchie parole prendono sensi nuovi», «già nuove immagini si vanno affollando nell’esperienza del mondo, che Vittorini non ha potuto vedere»51. Certo, ciò che li unisce è molto di più di un sentire comune. È la condivisione di un’indicazione di metodo da sempre perseguito da Vittorini e che Calvino così sintetizza: «Il primato dell’esperienza e dell’immaginazione sull’assolutizzazione ontologica o gnoseologica o moralistica o estetistica; poesia scienza tecnologia sociologia politica come esperienza e immaginazione. Qui sta il senso di un lavoro che tende a muoversi dalla profezia al progetto, senza che la sua forza visionaria e allegorica si perda»52. Ma la strada intrapresa a partire dalle Cosmicomiche, a cui, tra breve, avrebbe fatto seguito Ti con zero, lo avrebbe condotto a ben altri risultati rispetto a quelli tenacemente avviati da Vittorini. Nessuno dei due avrebbe portato a compimento quella rivoluzione copernicana voluta e desiderata dall’altro. La stessa definizione dell’uomo come «occasione» e «possibilità» che il mondo ha per conoscersi, avanzata da Calvino nell’intervista e ampiamente messa in pratica nei due scritti cosmici, sarebbe sicuramente stata accolta da Vittorini, dal suo angolo visuale storico, con forte dissenso. «È sempre un umanesimo il suo – sostiene Calvino –, centrato nella storia degli uomini e negli uomini come storia, nell’opposizione storia-natura». E prosegue:


Qui forse è il punto in cui i miei interessi tendono a divergere dai suoi, a spostarsi verso una conoscenza in cui ogni ipoteca antropocentrica sia abolita, in cui la storia dell’uomo esca dai suoi limiti, sia vista solo come anello, lasciandosi inghiottire ai due estremi dalla storia dell’organizzazione della materia, da una parte nella continuità animale – nella quale Vittorini continua a vedere l’inizio dell’uomo come un salto – e dall’altra nell’estensione alle macchine dell’elaborazione dell’informazione53.


Il punto di approdo dell’ultimo Vittorini resta dunque antropocentrico. Anche se si tratta di un antropocentrismo copernicano54. Di uno scrittore, cioè, che considera la letteratura a tensione razionale, e non più a tensione affettiva, che «sogna il Massachusetts Institute of Technology»55 come antidoto a ogni forma di conoscenza del mondo fondata sull’immediatezza sensibile e contro ogni abitudine-passività sia linguistica che concettuale. Di contro sta la nuova immagine calviniana dell’uomo, ovvero un diverso rapporto uomo-natura che si traduce in un diverso modo di guardare il mondo («La storia dell’uomo esca dai suoi limiti, sia vista solo come anello»). Con parole quasi identiche si esprimerà dieci anni più tardi («Siamo anello di una catena che parte a scala subatomica o pregalattica»)56. Ed è un tema, questo, indissolubilmente legato alla sua concezione materialistica della realtà, entro la quale l’uomo non è soggetto primario ma svolge da sempre una funzione strumentale: «L’uomo – scrive a Sebastiano Timpanaro nel luglio del 1970 – è solo la migliore occasione a noi nota che la materia ha avuto di dare a se stessa informazioni su se stessa»57. L’uomo è funzione della materia, attraverso cui la materia (ovvero l’universo nella sua accezione più generale) conosce se stessa58. Con altre parole lo dirà a Franco Fortini in una bella lettera del novembre 1971: «Quello che io tento è di uscire da ogni teleologia umanistica vedendo l’uomo come strumento o catalizzatore o anello non so di che cosa, di un universo-informazione, d’una storia o antropomorfizzazione della materia, e un mondo senza più esseri umani ma in cui l’uomo si sia realizzato e risolto, un mondo di calcolatori elettronici e farfalle, non mi spaventa anzi mi rassicura»59.


Le considerazioni su Vittorini contenute nella lettera a Enzo Siciliano del 22 giugno 1965 sono un’altra testimonianza preziosa per comprendere la diversa prospettiva da cui i due scrittori si stanno interrogando sul problema scienza. Riprendendo un’osservazione di Siciliano sul «rifiuto della storia» da parte di Vittorini60, Calvino motiva così il suo disaccordo: «Vittorini è al contrario uno che ha della letteratura un’idea fin troppo esclusivamente in funzione storica. (Anche adesso che punta tutto sulla “scienza”; anzi più che mai; è l’idea storica della scienza che lui vede, anzi solo quella). […] Anche l’antitradizionalismo o antipassatismo di Vittorini […] parte sempre da ragioni di sistemazione storica, da un’ipersensibilità per il significato storico d’ogni forma letteraria»61. Credo che sia difficile trovare definizione più rigorosa dell’ultimo Vittorini. Decisamente altri, e in opposizione a ogni funzione storica della scienza, sono gli orizzonti verso i quali il «discepolo» Calvino è proiettato. La ricerca di una definizione della natura e dell’atteggiamento dell’uomo di fronte a essa trova un saldo punto d’approdo nelle sue ultime prove narrative, che segnano – per riprendere un’immagine cara a Vittorini – un diverso modo di essere copernicani in letteratura, che, a sua volta, è profondamente distante dal progetto copernicano teorizzato dal suo maestro.


A unirli è tuttavia il giudizio sulla letteratura del tempo e la necessità di sperimentare nuove forme di conoscenza del mondo mediante l’invenzione di una letteratura che non sia letteraria e antiscientifica. Una consonanza non da poco, soprattutto in Italia, e che in quegli anni di svolta può apparire ben più stretta di quanto possa sembrare oggi.


4. Dentro e fuori.

Le parole di Pampaloni62 rivolte allo scrittore che era da poco scomparso sono indirizzate anche a chi sta dando ampia prova di sé su questo nuovo terreno scientifico-letterario? La domanda resta senza risposta. È da notare comunque che la stessa pagina del «Corriere» in cui figura la recensione del critico fiorentino all’opera postuma di Vittorini ospita altri due pezzi giornalistici. Il primo è un’inchiesta sui «libri più belli dell’anno [1967]», ovvero le preferenze di lettura dei maggiori scrittori ed editori italiani. Calvino sceglie Il giuoco dell’oca di Sanguineti63; Cassola, Lettere agli amici georgiani di Pasternak; Buzzati, Autodafé di Canetti; Montale, Il maestro e margherita di Bulgakov; Parise, Orazione funebre per Ernesto Che Guevara. I più gettonati risultano Il maestro e margherita e Il doge di Palazzeschi. Su cento dichiarazioni Ti con zero ottiene un solo voto, quello di Angelo Maria Ripellino. Il secondo pezzo è invece un servizio dal titolo Otto speranze per il ’68, otto brevi considerazioni sui compiti che attendono la letteratura espresse da alcuni dei maggiori scrittori italiani. Accanto alle dichiarazioni augurali di Natalia Ginzburg, Gadda, Montale, Pratolini, Bo, Flaiano, Volponi, figura anche quella di Cassola. Leggiamola:


Domenica scorsa, su questo giornale Italo Calvino ha affermato che Galilei è il più grande scrittore italiano di ogni secolo. Io credevo che Galilei fosse il più grande scienziato, ma che la palma di massimo scrittore spettasse a Dante. E che oltre Dante, in otto secoli, la letteratura italiana avesse dato alcuni altri poeti, come tali più importanti di Galilei. Ma mentirei se dicessi che l’affermazione di Calvino mi ha scandalizzato. Lo spirito di dimissioni di molti miei colleghi è giunto a un punto tale che non mi scandalizzo più di niente. L’augurio che rivolgo loro è di liberarsi del complesso di inferiorità nei confronti della cultura scientifica e della tecnologia. E se no, che cambino mestiere64.


Che Calvino e Vittorini si trovino l’uno accanto all’altro sulla stessa pagina del principale quotidiano italiano al centro di vivaci polemiche è qualcosa di più di una banale coincidenza. Il fatto che ciascuno, a suo modo, sia impegnato a disegnare e definire un’altra letteratura, che trae nutrimento e vitalità da ciò che sta fuori dai suoi confini tradizionali, carica questo accostamento di un significato non trascurabile e fa passare in secondo piano le differenze che separano i loro progetti e il loro modo di intendere il rapporto scienza-letteratura.


Il dissenso di Cassola è netto e riguarda l’idea di una letteratura disumanizzata e prigioniera delle illusioni scientifiche e tecnologiche che, ai suoi occhi, Calvino ormai incarna. E non è un caso che lo scontro avvenga sul nome di Galileo: Galileo versus Dante, secondo Cassola, ovvero il rovesciamento del canone. Di qui scaturiscono l’allarme e i timori dello scrittore; anche perché l’interesse di Calvino per le scienze non è passeggero, dura ormai da troppo tempo, e non può essere scambiato per un fugace innamoramento. Non desta più scandalo, e per questo può provocare effetti disastrosi che occorre denunciare, se non si vuole che otto secoli di letteratura italiana vengano totalmente riscritti.


«Ovunque arrivi l’intelligenza, per Cassola arriva la morte», ha scritto Cesare Garboli recensendo Ferrovia locale65. È sufficiente leggere poche pagine di questo romanzo, che uscì nel 1968 e che costituisce uno dei punti più alti della poetica cassoliana, per capire quanto il giudizio liquidatorio nei confronti di Calvino non fosse contingente. Tutto ciò che è ricerca, progetto, costruzione, processo combinatorio è per Cassola antitetico all’invenzione letteraria. Nel suo universo non c’è posto per chi è stato sedotto dal presente (cioè da altri fini e altri scopi estranei alla letteratura) e ha smarrito il percorso distruggendo il lavoro compiuto: da costoro non c’è da aspettarsi nessun ripensamento e tantomeno nessun congedo.


 


1 Scarpa, Italo Calvino cit., p. 105. «Dopo quel romanzo [La giornata d’uno scrutatore] – ha dichiarato Domenico Rea – l’ho completamente lasciato: non lo capivo, non m’interessava, e poi, secondo me, nonostante tutto, la letteratura dovrebbe occuparsi degli uomini che esistono. Dico questo con una profonda stima per il letterato, per lo scrittore, per il prosatore. Però da Ti con zero, dalle Cosmicomiche in poi, io non mi sono più interessato al caso Calvino». L’intervista a Rea è pubblicata, insieme ad altre, sotto il titolo a effetto di Processo a Calvino, in «Wimbledon», I, 1990, 4, pp. 2-3.


2 C. Marabini, Italo Calvino, in «Nuova Antologia», CII, novembre 1967, pp. 374-93: 386.


3 G. Ferrata, Le due strade di Italo Calvino, in «Rinascita», 22 gennaio 1966, p. 41. La recensione si concludeva così: «Ci si trova molto al di sotto, bisogna dirlo chiaro, di una opera come Il cavaliere inesistente, se è la forza della verità artistica a interessarci principalmente». Nonostante tali giudizi, nel luglio del 1966 Le Cosmicomiche avevano venduto 45 000 copie (cfr. L, p. 932: Calvino a O. Cecchi, 15 luglio 1966).


4 «Ancora una volta non si può giocare contemporaneamente sul tasto della normalità e su quello dell’abnorme» (R. Barilli, recensione a Ti con zero, in «Il Verri», 1968, 27, pp. 106-8: 108, poi in Id., La barriera del naturalismo. Studi sulla narrativa italiana contemporanea, III ed., Mursia, Milano 1980, pp. 253-4).


5 C. Salinari, Calvino tra fiaba e realtà (1966), in Id., Preludio e fine del realismo in Italia, Morano, Napoli 1967, p. 344. E così concludeva la sua recensione: «Insomma Calvino, oggi, saprebbe dire benissimo – meglio di ogni altro, forse – qualunque cosa volesse; ma, purtroppo ha assai poco da dire» (p. 345).


6 V. Spinazzola, «Ti con zero»: non convince, in «Vie Nuove», XXIII, 1° febbraio 1968, p. 43.


7 A. Guglielmi, Calvino e Galileo, in «Quindici», 15 febbraio-15 marzo 1968, 8.


8 «Proprio oggi – soggiungeva –, in una stagione in cui una problematica d’accatto potrebbe dargli una notorietà magari immeritata ed effimera, ma non per questo meno desiderata da altri autori della sua generazione» (Montale, È fantascientifico ma alla rovescia cit.). Su questo punto cfr. Butcher, Eugenio Montale and Italo Calvino cit., pp. 411-37: 411-4.


9 Montale, È fantascientifico ma alla rovescia cit.


10 Ibid. Sul rapporto con Borges è da tenere presente anche quanto scrive Calvino in risposta a un articolo di Michel David apparso su «Le Monde» il 27 dicembre 1967, in cui avanzava l’ipotesi dell’elezione, tra i propri padri putativi, di Borges al posto di Hemingway: «La sua immagine del ritratto di Borges sostituito a quello di Hemingway è bella e ha molto di vero. Però proprio i miei racconti più hemingwaiani (coscientemente, intenzionalmente hemingwaiani) da Ultimo viene il corvo e altri dell’immediato dopoguerra fino a – diciamo – Un letto di passaggio sono quelli più basati su una costruzione geometrica, su di un disegno di linee astratte, un procedimento combinatorio, un gioco di pieni e di vuoti» (L, pp. 969-70).


11 L., p. 920.


12 Ibid., pp. 971-2.


13 Per Garboli Ti con zero possiede qualcosa che i precedenti lavori non hanno; in esso, e forse per la prima volta, «Calvino ci confida qualcosa di sé: la sua impotenza a esistere, che si trasforma nell’idea vittoriosa, nella consapevolezza trionfante e dolorosa di esistere soltanto nella propria scrittura» (C. Garboli, Giù negli abissi del mondo, in «La Fiera Letteraria», 7 dicembre 1967; poi col titolo Identità di Calvino, in Id., La stanza separata, Mondadori, Milano 1969, pp. 209-14: 212).


14 L, pp. 967-8.


15 Del Giudice, Colloquio con Italo Calvino cit., pp. 2830-1.


16 AE, Verbali, Riunione del 10 giugno 1964.


17 Ibid., Riunione del 1° luglio 1964.


18 Ibid., Riunione del 20 maggio 1964. Cfr. Mangoni, Pensare i libri cit., p. 936.


19 AE, Verbali, Riunione del 2 dicembre 1964. Il libro veniva poi passato in lettura a Geymonat, che ne dava un giudizio molto positivo. A differenza di Bazlen che, invece, in un minuzioso ed esilarante parere per la casa editrice Adelphi indirizzato a Luciano Foà, lo aveva letteralmente stroncato. Ne riporto alcuni passi: «Il Kuhn […] ha avuto la rivelazione che la storia della scienza (che del resto, come fine a se stessa, ti raccomando) non si svolge in una marcia prussiana rettilinea da scoperta culminante a scoperta culminante, ma – e direi come qualsiasi altro fenomeno della vita – attraverso esitazioni, contrasti, opposizioni, incomprensioni, sconfitte, dalle quali si cristallizza qualcosa che viene definitivamente assodato o generalmente accettato, e che costituisce la base di partenza convenzionale per la prossima marcia non prussiana. Ora, che un americanuncolo tenti di divulgare questa sua rivelazione per farsi condannare alla sterilizzazione mediante i grants di qualche foundations e l’insegnamento in qualche college […] è un fatto che disgraziatamente non posso impedire, e che subisco. Ma che implicitamente ci sia la pretesa quasi arrogante di insegnare qualcosa a qualcuno che non sia morto prima del ’14, è di un’ingenuità così offensiva che sarebbe ora, finalmente, di prendere la frusta in mano per cacciare tutta questa genia dal tempio. E se non altro, per difendersi dalla noia» (Bazlen, Scritti cit., p. 344). Per le molteplici questioni che poneva, la discussione che seguì alla traduzione del libro di Kuhn fu assai vivace, e non solo tra gli storici e i filosofi della scienza ma anche tra gli storici-storici. Ne sono una lucida testimonianza due lettere di Carlo Ginzburg a Sebastiano Timpanaro. La prima è datata 2 giugno 1976: «Io sono molto incompetente in fatto di storia della scienza; il libro di Kuhn mi è parso molto bello – oltre che stimolante – anche se mi rendo conto che solleva problemi a cui non sa rispondere – per esempio quello del relativismo. Ma mi pare che in questo campo l’atteggiamento giusto sia per l’appunto questo della “risposta a sfida”» (C. Ginzburg - S. Timpanaro, Lettere intorno a Freud (1971-1995), (con una nota di C.G.), in E. Ghidetti - A. Pagnini, a cura di, Sebastiano Timpanaro e la cultura del secondo Novecento, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2006, pp. 317-45: 334-5). La seconda, invece, del 18 marzo 1975, è un’appassionata recensione a Il lapsus freudiano, da cui si sviluppano delle riflessioni sul mestiere dello storico dense di significato (penso a Spie): «C’è una parte del libro che mi ha particolarmente interessato: quella sulla contrapposizione tra magia concreta e scienza astratta. Mi piacerebbe se tu potessi tornare in futuro su questo punto. Per esempio, non credi che la storiografia sia tutto sommato abbastanza vicina alla “concretezza” della magia? Vedo che solo occasionalmente tu menzioni Kuhn; non so se tu abbia letto di lui La struttura delle rivoluzioni scientifiche – se sì, forse non ti sarà piaciuto. A me è piaciuto moltissimo. Penso che la storiografia sia ancora una disciplina in uno stato “preparadigmatico” (nell’accezione di Kuhn) […]. In questo senso, gran parte delle cose che scrive il reazionario e intelligentissimo Veyne (Come si scrive la storia) mi sembrano giuste. Per diventare scienza a tutti gli effetti la storiografia non dovrà abbandonare le proprie pretese totalizzanti e puntare sul meglio meno ma meglio? e soprattutto non dovrà abbandonare la considerazione individualizzante a ogni costo dei fatti sociali?» (AT, ins. Ginzburg, lettere n. 13).


20 «CALVINO: Riferisce della lettura delle opere di Bachelard, con parere estremamente negativo: “Un cretino come non si è mai visto”. La poétique de l’espace è un libro repellente. La flamme d’une chandelle è il fondo dell’abiezione» (AE, Verbali, Riunione dell’11 luglio 1962). Il giorno seguente Calvino scriveva a Guido Neri: «Il mio odio verso la critica francese sta diventando viscerale. Ho letto anche Bachelard e sono rimasto inorridito dalla vacuità spiritualistica truccata da positivismo» (LdA, p. 404). A proposito di un altro libro di Bachelard, La psychanalyse du feu, è da segnalare il giudizio non meno tagliente fornito da Giacomo Debenedetti per Il Saggiatore: «Un libro da non tradurre, anzi da tenere rigorosamente lontano dalla cultura italiana, che contro la psicanalisi ha già abbastanza “resistenze”. Perché fornire al conformismo indigeno nuovi argomenti per metterla in ridicolo?» (C. Garboli, a cura di, Giacomo Debenedetti 1901-1967, Il Saggiatore, Milano 1968, pp. 60-3: 63). Sulla netta distanza che separa Calvino, ma anche Michel Serres, dall’epistemologia di Bachelard, cfr. Porro, Immagini e conoscenza scientifica cit., p. 218.


21 Mangoni, Pensare i libri cit., p. 933.


22 AE, Verbali, Riunione del 2 dicembre 1964.


23 «Apprezzo L’erotismo, ma ci ho una diffidenza… questo piagnone sulla morte di Dio. Comunque i due segnalati da Neri li rileggo» (ibid.). Ma nella riunione del 23 giugno 1965, una delle ultime a cui partecipò, di fronte alla presentazione di un altro libro di Bataille, non poté trattenersi: «Ah Bataille! Mi passava i suoi racconti erotici! Coito e ostia consacrata nella lingua di Racine!». Gli rispondeva Davico: «È gente che va presa per quello che ci sa dare come attitudine “diversa” nei confronti della letteratura. Valgono per quello che hanno provocato. Vediamo insomma cosa stimolano negli scrittori». La secca replica di Vittorini: «Ma la cultura italiana li conosce questi francesi! È una contaminazione già avvenuta, senza avvenire» (AE, Verbali, fasc. 336, Riunione del 23 giugno 1965).


24 Ibid., Riunione del 2 dicembre 1964.


25 Cfr. supra, cap. III, pp. 55-6.


26 AE, Verbali, Riunione del 16 dicembre 1964. Nella riunione del 20 gennaio 1965 è la volta di Vittorini a sottolineare il valore del libro di Ducrocq: «Bellissimo invece il Romanzo della materia del Ducros [sic] sulle stelle e i pianeti già visto da Calvino. Come è noto, muove appunto alla fisica di essersi fermata al secondo principio della termodinamica, non applicabile su scala universale». E Calvino soggiunge: «È uno dei più bei libri che abbia mai letto. Ho trovato dei fisici professionisti che ne erano entusiasti» (AE, Verbali, Riunione del 20 gennaio 1965, cart. 5, fasc. 320).


27 AE, Verbali, Riunioni del 22 novembre 1961 e dell’11 luglio 1962. Va detto che Calvino non era il solo a considerare Blanchot «noioso». Un giudizio per certi versi simile verrà espresso in quegli stessi anni da Bazlen: cfr. Mangoni, Pensare i libri cit., p. 934.


28 Vittorini, Le due tensioni cit., pp. 96-7.


29 «L’abbiamo intitolata La ragione conoscitiva – osserva Calvino nella prefazione –, preferendo questo agli altri aggettivi “chiave” che più ritornano in questi testi – scientifico, industriale, tecnologico ecc. – perché ci pare la definizione che meglio caratterizza dove va posto l’accento nella posizione culturale dell’ultimo Vittorini» (in «Il Menabò», 1967, 10, p. 8).


30 Cfr. ibid., pp. 18-9.


31 Ibid., p. 25. Anche se per Calvino la neoavanguardia non era affatto un gruppo omogeneo. In più occasioni esprime il suo apprezzamento per Sanguineti e, ovviamente, per Manganelli: cfr. L, p. 927: lettera a F. Wahl, 13 giugno 1966. Cfr., in proposito, le seguenti osservazioni di Sanguineti: «Tra gli autori che hanno risentito del clima di ricerca sperimentale creato dalla neoavanguardia, va naturalmente ricordato Calvino, che se certo non aveva partecipato all’esperienza del gruppo, aveva però meditato il nostro esempio […]. Naturalmente, per me il Calvino più importante e più significativo è proprio quello che ha recepito alcune delle esigenze della nuova avanguardia; va da sé che i difensori della tradizione giudicheranno quell’evoluzione come un processo di corruzione» (in F. Gambaro, Colloquio con Edoardo Sanguineti. Quarant’anni di cultura italiana attraverso i ricordi di un poeta intellettuale, Anabasi, Milano 1991, p. 91).


32 E. Vittorini, Diario in pubblico. La ragione conoscitiva, in «Il Menabò», 1967, 10, p. 22. Cfr. anche Id., Le due tensioni cit., pp. 62-4.


33 Cfr. G. Guglielmi, Vittorini postumo, in Id., Ironia e negazione, Einaudi, Torino 1974, pp. 199-202.


34 G. Pampaloni, Almeno un soffio, in «Corriere della Sera», 31 dicembre 1967.


35 Ibid.


36 «Lo scrittore non ha più una parte sua, di ex-machina, ma solo di correlatore tra coscienze varie (dove lo scrittore non è più coscienza del mondo ma registratore di coscienze e così di livelli coscienti vari) arrivando a un’ipotesi di obbiettività e di coscienza unitaria che è un mosaico di tessere plurisoggettive – pluripersonali – pluri-coscienti – un modello informativo dove il lettore viene ad avere una parte sua come un navigatore in mare con un compito di orientarsi da sé e di decidere da sé» (Vittorini, Le due tensioni cit., p. 29).


37 Ibid., p. 268.


38 Il richiamo polemico alla «superbia petrarchesca», e alla sua presunzione di identificarsi ancora con la verità e la scienza, ricorre più volte nel testo: «È ormai la cultura di una stirpe che vive ad esemplificazione del passato come i pellirosse delle riserve americane, tra fantasmi di piante scomparse, fantasmi di animali scomparsi, in funzione di un’umanità e di una società scomparse» (ibid.).


39 E. Vittorini, intervista di N. Ajello, in «L’Espresso», 10 maggio 1964, poi in «Il Menabò», 1967, 10, p. 22.


40 «Vorrei che tu ti impegnassi con me apertamente. Cioè: che si dirigesse la faccenda a quattro mani, mettendo fuori tutti e due i nostri nomi, e conducendo tutti e due, a colpi alterni, il discorso critico che ci sarebbe da fare in margine ai testi. Ci stai?» (AE, Corrispondenza, E. Vittorini, cart. 221, fasc. 3099/2, n. 1196, lettera del 25 novembre [1958]). Su «Il Menabò»: G. C. Ferretti, L’editore Vittorini, Einaudi, Torino 1992, pp. 285-96; A. Panicali, Elio Vittorini. La narrativa, la saggistica, le traduzioni, le riviste, l’attività editoriale, Mursia, Milano 1994, pp. 322-45; R. Crovi, Il lungo viaggio di Vittorini. Una biografia critica, Marsilio, Venezia 1998, pp. 435-9; E. Bolongaro, Italo Calvino and the Compass of Literature, University of Toronto Press, Toronto 2003, pp. 36-46.


41 «Visto la tua lettera al Guglielmi. Particolarmente felice. Centra la questione. Anch’io nel saggio che sto preparando porto un analogo argomento che mette sullo stesso piano “aristotelici” e “mammisti”. Ma se decidiamo di pubblicare il Guglielmi, pubblicherei anche la tua lettera a contestazione diretta. Che ne dici?» (AE, Corrispondenza, E. Vittorini, cart. 221, fasc. 3099/2, n. 1260, lettera del 13 novembre [1963]). In proposito cfr. il capitolo «Aristotelici e mammisti» in Vittorini, Le due tensioni cit., pp. 172-3. In queste pagine annotava: «inerzia mammista attualizzata dall’attivismo dei barracuda aristotelici. Le due posizioni si identificano nel fideismo cui gli aristotelici vanno e da cui i mammisti discendono per natura / e fideismo è perdere completamente la distinzione tra fede e conoscenza, tra idea e conoscenza, ideale etico e verità scientifica» (p. 172). Per la risposta e la controreplica di Calvino a Guglielmi cfr. «Il Menabò», 1963, 6, pp. 268-71.


42 La lettera è pubblicata in Crovi, Il lungo viaggio di Vittorini cit., pp. 419-23, e in appendice a E. Vittorini, Cultura e libertà. Saggi, note, lettere da «Il Politecnico» e altre lettere, Aragno, Torino 2001, pp. 376-81.


43 «La letteratura non costituisce più una frontiera della cultura e non procede più di pari passo col procedere della cultura» (ibid., p. 377).


44 Ibid.


45 Ibid., p. 378. «Nel realismo ingenuo del XIX° secolo si ripete la posizione dispotica dell’io narratore che fu propria degli autori dell’Antico Testamento: una posizione di depositari della verità rivelata che parlano autoritariamente e non consentono a chi legge che la possibilità di sottomettersi e di interpretare alla luce della Scrittura tutto quanto è di loro propria esperienza» (Vittorini, Le due tensioni cit., p. 241).


46 Il riferimento di Vittorini è puntuale: è a Cesare Cases, all’introduzione a Teoria del dramma moderno di Peter Szondi (1962): «Che razza di esempio tira in ballo Cases, nella sua introduzione a Peter Szondi in contrapposizione ai prodotti del nouveau roman: nientemeno che Les petits enfants du siècle della Rochefort; confessando così in modo definitivo come per un lukacciano la letteratura può permettersi di entrare nel merito di un nuovo problema solo se lo fa trattandone al livello ingenuo (e ben risaputo) dell’aneddoto – ciò che equivale a non entrare nel merito affatto e ad ignorare ogni problematica anche sul piano tematico oltre che sul formale» (Vittorini, Cultura e libertà cit., pp. 380-1). L’introduzione di Cases si può leggere anche in Id., Il testimone secondario. Saggi e interventi sulla cultura del Novecento, Einaudi, Torino 1985, pp. 277-99.


47 «Il lukaccismo ormai concede alla letteratura anche di essere evasiva e irresponsabile purché lo sia nell’ambito dell’ingenuità. Perciò tollera, e addirittura include nel suo sistema, le istanze rappresentate criticamente da Citati o, artisticamente, da Cassola, da Bassani eccetera, eccetera. Quello che non tollera è che la letteratura voglia essere adulta, che voglia aver senso operativo, che voglia strutturarsi culturalmente, che voglia giustificarsi da sé. La letteratura per il lukaccismo, o è ingenua o non è: o accetta di vivere nel confino, nella libertà confinata del bel Parco Nazionale ch’esso lukaccismo le assegna, o non vive. E invece io credo che anche la letteratura, come ogni cosa, oggi ha la sua possibilità di essere in quanto sappia non essere più ingenua e non vivere più a livello di Riserva Indiana, a livello di sopravvivenza» (Vittorini, Cultura e libertà cit., p. 381).


48 Ibid., p. 379.


49 Vittorini, Diario in pubblico cit., p. 61.


50 Calvino, Je ne suis pas satisfait de la littérature actuelle en Italie, RR, II, p. 1347. Il passo è tratto dal dattiloscritto conservato nell’Archivio Calvino, che contiene alcune varianti rispetto al testo a stampa. Cfr. anche C. Milanini, in RR, II, pp. XXII-XXIII; S. Ritrovato, Il sapere scientifico nell’opera letteraria. L’avventura di Calvino, in G. Baffetti (a cura di), Letteratura e orizzonti scientifici, il Mulino, Bologna 1997, pp. 283-303: 291-2.


51 I. Calvino, Vittorini: progettazione e letteratura (1967), S, I, p. 187.


52 Ibid.


53 Ibid., pp. 164-5.


54 «È una sorta di illuminismo, quello che Vittorini annuncia? Certo l’inedito Le due tensioni s’apre col richiamo a una “tensione razionale” e il riferimento al Settecento. Ma il Settecento di Vittorini risale su su a conglobare, prima di Defoe, Cervantes, e il barocco, il suo vero Settecento è il Seicento, è l’esplosione copernicana» (ibid., p. 175).


55 Ibid., p. 182.


56 Cfr. supra, cap. V, p. 91. Del Giudice, Colloquio con Italo Calvino cit., p. 2831.


57 L, p. 1082.


58 Su questo punto cfr. infra, cap. VIII, par. 3.


59 L, p. 1127.


60 Cfr. E. Siciliano, Vittorini: il rifiuto della storia, in Id., Prima della poesia, Vallecchi, Firenze 1965, pp. 19-37.


61 L, p. 874.


62 Cfr. supra, cap. V, p. 97.


63 Sui rapporti tra Calvino e Sanguineti si legga ora la testimonianza di Paolo Fabbri in M. Graffi, Intervista a Paolo Fabbri su «Il giuoco dell’Oca» e «L’orologio astronomico» di Edoardo Sanguineti, in «Il Verri», 2005, 29, pp. 23-49: 24-6. «Se c’è un oulipista naturale – dichiara Fabbri –, è Sanguineti» (p. 26).


64 In «Corriere della Sera», 31 dicembre 1967.


65 C. Garboli, Ferrovia locale, in Id., La stanza separata cit., p. 251.

VI. La nascita di un nuovo canone

L’Orlando Furioso è una bella terapia, soprattutto contro i malanni del pensiero discorsivo, del pensare per generalità. Perché lì c’è solo pensiero figurale, pensiero per figure e immagini, che ti trascina.


G. Celati, L’assoluto della prosa (2002)


1. Contro i «romanzieri».

Credo che Calvino non avrebbe avuto nessun dubbio a sottoscrivere con entusiasmo questo giudizio di Gianni Celati. Anzi, lo avrebbe esteso ad altri autori a lui cari, a cominciare da Galileo: anche lui, come Ariosto, maestro del pensiero figurale, irriducibile avversario di qualunque astrattezza del pensiero.


Galileo, appunto. Ma procediamo con ordine, a partire dal 31 dicembre 1967, da quando Cassola lanciava il suo attacco a Calvino, esattamente un mese dopo l’uscita di Ti con zero.


Le critiche e le polemiche che suscitò il nuovo corso calviniano ci restituiscono un ritratto dello scrittore assai diverso da quello a cui siamo soliti associarlo. Esse ci invitano a essere più cauti e meno schematici, e a distinguere fasi e momenti diversi della sua «fortuna» in vita. Quasi sempre siamo in presenza di immagini costruite a posteriori, sull’onda del successo di critica e di pubblico riportato prima con la Trilogia e poi con il Viaggiatore, e che non tengono conto del fatto che, nonostante continuasse a essere apprezzato e stimato, negli anni sessanta Calvino spesso si sentì un corpo estraneo, un’anomalia nel panorama letterario italiano, come del resto lo furono, per motivi diversissimi tra loro, altri scrittori a lui contemporanei come Pasolini e Parise.


All’interno di questo quadro assume particolare rilievo il tentativo di Calvino di ridisegnare la propria posizione all’interno della tradizione letteraria italiana. Alla nascita di un nuovo ciclo di racconti – il cui secondo atto coincide con la pubblicazione di Ti con zero – si accompagna così la riflessione sul canone, in diretta polemica sia con la neoavanguardia sia con certe correnti letterarie che, in forma più o meno consapevole, indulgevano a improbabili ritorni al passato. Accanto al «barilli-guglielmismo»1, la sua attenzione si rivolge soprattutto a ciò che acutamente definisce la «corrente neo-flaubertiana» della letteratura italiana e i cui maggiori esponenti sono Cassola e Bassani. E se il primo è il rappresentante «più disperato e nature», il secondo è «il più cosciente e intellettuale», accomunati però entrambi dal fatto di essere «indifesi dalla frase di uso comune, dalla banalità linguistica»2. Calvino non condivide nulla delle loro scelte stilistiche e narrative, tutte troppo interne a una logica di letteratura pura. Si tratta tuttavia di autori di «prim’ordine»3, che non vanno confusi con i tanti romanzieri che allora imperversavano e che rendevano il mondo letterario italiano sempre più insopportabile e da lui infinitamente distante4.


Di fronte a un panorama di questo tipo Calvino compie una duplice scelta: da un lato si riserva l’isolamento più intransigente e dall’altro riafferma il valore e la dignità della sua idea di letteratura attraverso la riscoperta e l’invenzione di un canone letterario a cui egli sente profondamente di appartenere. Due atteggiamenti tra loro convergenti; direi perfino, se si tiene conto del contesto culturale di quegli anni, aspetti di una medesima strategia culturale. Appunto perché la creazione di uno spazio narrativo nuovo e quanto mai inattuale che troviamo nelle Cosmicomiche e in Ti con zero non nasceva dal nulla, bensì era figlia di una delle più genuine e antiche tradizioni letterarie.


Lo scopo mi pare evidente: scompaginare la variegata ma per tanti versi tenuissima «modernità» italica attraverso una narrazione questa sì sperimentale e di ricerca, ma che al tempo stesso trae forza e legittimità dalla migliore – ma allora del tutto dimenticata – tradizione italiana in prosa. Così, leggendo le sue lettere degli anni sessanta, più volte emerge la condizione di autoisolamento a cui Calvino rigorosamente si sottopone. Con una punta di orgoglio si dichiara «discepolo e socio» di Vittorini, ovvero «del più isolato degli uomini della letteratura italiana»5. E nulla fa per nascondere la sua «massiccia stanchezza per la letteratura, e per i romanzi in particolare»6. Scrive nel maggio del 1964: «È un momento, in letteratura, che bisogna far parlare di sé il meno possibile […] [e] il mio solo terrore è di essere in qualche modo confuso con i tromboni che imperversano»7. Sono mesi in cui sta lavorando intensamente alla serie di racconti che poi andrà a formare Le Cosmicomiche; «un genere interamente nuovo»8, annuncia a Wahl, un tipo di racconto logico-deduttivo mille miglia lontano dal suo primo romanzo che aveva voluto ripubblicare con una prefazione che spiegasse le ragioni di quella irripetibile esperienza. A quella «specie di triangolo», come si esprime nella prefazione al Sentiero dei nidi di ragno9, formato dai Malavoglia, Conversazione in Sicilia, Paesi tuoi, e che ha costituito la «linea» e il punto di partenza del suo realismo come di tanti altri scrittori alla scoperta della nuova Italia, ne subentra adesso un’altra, composta da Ariosto-Galileo-Leopardi: una scoperta recente che non avrebbe mai abbandonato.


2. Il cielo stellato.

L’intervento di Cassola sul «Corriere della Sera», con cui abbiamo chiuso il capitolo precedente, prende spunto dalla risposta di Calvino a una lettera di Anna Maria Ortese sui nuovi lanci spaziali, entrambe pubblicate dal quotidiano milanese il 24 dicembre col titolo Occhi al cielo (filo diretto Calvino-Ortese)10.


A Calvino la Ortese esprime la sua preoccupazione per questa frenetica attività di conquista dello spazio. In un mondo trasformato dall’uomo in un teatro di sofferenze e dolore, il cielo è l’ultimo luogo in cui è ancora possibile specchiarsi e trovare consolazione e riposo: «Libertà, dopo la guerra, io non l’ho mai vista correre sulla terra, né per me né per gli altri che mi somigliano. Non ho mai visto né pulizia, né spazio, né ordine, né bontà, né ho visto sicurezza, calma, giustizia. Sempre ho dovuto aspettare il sopraggiungere della notte, per trovarle: quando alzavo gli occhi, e rivedevo lo spazio stellato»11. Ora anche questo spazio – «un ordine vasto, dolce, del tutto inerme» – rischia di andare perduto, e una volta colonizzato può trasformarsi in «spazio edilizio, o nuovo territorio di caccia, di meccanico progresso, di corsa alla supremazia, al terrore»12.


Va detto che questo atteggiamento di timore e turbamento di fronte ai nuovi traguardi dell’homo faber non ha in sé niente di originale. Che la tecnica rappresenti una minaccia per il destino dell’uomo è un’idea-forza che percorre l’intero Novecento, e contro la sua cieca potenza, la sua insaziabile libido di dominio, la reazione della cultura filosofica e letteraria europea è pressoché unanime: dalla cosiddetta reazione idealistica di inizio secolo alla crisi husserliana delle scienze, alla concezione di una loro progressiva disumanizzazione negli anni tra le due guerre, fino poi a giungere alle riflessioni imposte dai «trionfi» di Hiroshima e Nagasaki. Non sorprende dunque che l’«assalto» al cielo che seguì alla missione di Gagarin nella primavera del 1961 suscitasse tanta inquietudine e venisse interpretato come un’ulteriore prova del prevalere della ragione tecnologica sul senso e sulla vita dell’uomo. A conferma di ciò potremmo riportare numerose testimonianze come quella che segue: «Il vecchio cielo, il cielo delle religioni e delle contemplazioni, il “lassù” puro e sublime, si era dissolto in un attimo, spogliato del privilegio dell’inaccessibilità, sostituito da un nuovo assoluto, dallo spazio degli scienziati, che non è altro se non una possibilità calcolabile»13. Sono parole di Maurice Blanchot scritte pochi anni dopo l’impresa sovietica e fanno tornare alla mente i versi di un poeta che agli inizi della modernità, di fronte alla profanazione del cielo da parte del nuovo occhiale galileiano, evocava simili immagini di smarrimento14. Come allora, quando la riflessione sulle inattese scoperte telescopiche si trasformò in una riflessione più generale sulla condizione umana, così adesso la conquista dello spazio portava con sé dubbi e preoccupazioni profonde sul destino stesso dell’uomo. È in questo clima che nasce lo scambio epistolare Calvino-Ortese e la condanna da parte della scrittrice della violazione dell’ultimo spazio di umanità rimasto. «Questo spazio, non m’importa da chi, forse da tutti i paesi progrediti, è sottratto al desiderio di riposo, di ordine, di beltà, allo straziante desiderio di riposo di gente che mi somiglia»15. Su questo punto la posizione di Calvino è antitetica.


«Guardare il cielo stellato per consolarci delle brutture terrestri? Ma non le sembra una soluzione troppo comoda?»16. Così, con piglio ironico e diretto Calvino smorza il tono alto e pieno di commozione della scrittrice. In poche battute lo sgomento e l’ansia per il destino del cielo si rivelano per quello che sono: un bisogno interiore di ordine e di bellezza che l’antica visione del cielo è ancora capace di restituirci, ovvero la difesa di uno dei pochi momenti di serenità e consolazione che all’uomo è ancora concesso di vivere.


A rispondere non è un sostenitore delle «magnifiche sorti cosmonautiche dell’umanità». Anzi, da questo punto di vista Calvino condivide pienamente i timori e il pessimismo della Ortese. Anche per lui siamo in presenza di un conflitto tecnologico in cui «i governi e gli stati maggiori pretendono di decidere le sorti del mondo passando sopra la testa dei popoli»17. Ma dire questo non basta. Non è sufficiente provare nostalgia ed esaurire così il rapporto tra uomo e natura che scaturisce dalle notizie dei nuovi lanci spaziali. Ben altre sono le domande che affiorano e hanno bisogno di essere precisate. Com’era sua abitudine, invitava il suo interlocutore a entrare in rapporto con gli altri e con le cose (in questo caso la luna e la violazione da parte dell’uomo dello spazio cosmico) da un diverso punto di vista: «Quel che m’interessa invece è tutto ciò che è appropriazione vera dello spazio e degli oggetti celesti, cioè conoscenza: uscita dal nostro quadro limitato e certamente ingannevole, definizione d’un rapporto tra noi e l’universo extraumano»18. È sul versante conoscitivo che Calvino sposta il suo sguardo, ed è da qui che le notizie che ci giungono dai centri spaziali acquistano valore. Anche per chi si occupa di letteratura quelle notizie non devono restare qualcosa di estraneo. Se esse trovano posto «nell’immaginazione e nel linguaggio di tutti», lo scrittore ha l’obbligo di ripensare gli oggetti e il nuovo rapporto che si stabilisce con essi. Per questo «chi ama la luna davvero non si contenta di contemplarla come un’immagine convenzionale, [ma] vuole entrare in un rapporto più stretto con lei, vuole vedere di più nella luna, vuole che la luna dica di più»19.


Per avere un’idea di questo di più, del contrasto stridente che separa l’immagine contemplativa e stereotipata della luna dal nuovo corpo celeste creato dallo sforzo di scrittura e di fantasia di Calvino, è sufficiente leggere alcune pagine delle Cosmicomiche e di Ti con zero. Le fotografie trasmesse per la prima volta dalle navicelle spaziali reclamano ascolto e producono narrazione. Quelle immagini «bucherellate» e «lattiginose»20 non possono essere dissimulate o cancellate, come se non modificassero la nostra percezione della luna. Esse evocano altre descrizioni e altre storie: come il tenero e disperato amore extraumano del sordo in La distanza della luna o la fittizia e algida superiorità terrestre di Sibyl in La molle luna. Chi prima avrebbe potuto chiamare la luna «grassa, spettinata, pigra, golosa di pasticcini alla crema»21, oppure immaginare la sua superficie rugosa e corrosa ricoperta di denso latte, «una specie di ricotta», o definire la sua luce, durante le notti di plenilunio, «color burro»?22


Quanto la poetica della Ortese fosse distante dal suo modo di intendere la letteratura, lo dimostrano sia le prose che i versi di alcune poesie, La luna che trascorre e La luna sul muro, per esempio, come, del resto, le sue conversazioni pubblicate su giornali e riviste.


Già in precedenza la Ortese si era espressa in maniera esplicita. In un’intervista del maggio 1967, sulle pagine della «Fiera Letteraria», dichiarava con fermezza il suo pensiero. Il titolo stesso, che riprendeva alcuni passaggi del testo, era quanto mai significativo. Riferendosi al suo ultimo libro, Poveri e semplici, osservava che «ci vuole un po’ di coraggio, oggi, a parlare di sentimenti. C’è da sprofondare, lo sento. Ma tutte le altre vie le sento perdute. Pensare è terribile: è come affacciarsi a un pozzo dove non si vede più niente. Invece, in superficie, tutto è lieto, risponde. Ci sono le cose che aiutano, anche la miseria, il breve piangere, Dio»23. I temi che di lì a poco saranno presenti nella polemica con Calvino sono già al centro della sua attenzione, e subito si trasformano in un lamento dolente a forti tinte apocalittiche che coinvolge l’intera umanità, contro i falsi miti liberatori del progresso della civiltà della macchine:


L’umanità non ha bisogno di tante cose, l’umanità è limitata, semplice. Chi le offre molte cose, ne vuole l’anima. All’umanità basterebbe la semplice intelligenza: per fare gli strumenti, le case, gli abiti, e lavorare i campi. Invece, eccola costretta a sventrare la terra, bruciare il mare, fendere il cielo. Perché? Per chi? Piramidi e monumenti infiniti sono elevati dall’eternità; fabbriche immense sorgono, navi sono varate. Strumenti di bellezza e di morte incidono a fuoco lo smalto celeste dell’aria. Ordini ovunque! L’umanità esegue, e non sa perché, per chi24.


Non è difficile immaginare quanto Calvino si sentisse lontano da simili toni e atteggiamenti mentali. Sembrano trascorsi secoli da quando esprimeva tutta la sua ammirazione per Il mare non bagna Napoli, un libro bellissimo25, «una delle opere più alte del nostro realismo documentario»26. Neppure la lettura dell’Iguana lo aveva entusiasmato. La curiosità iniziale per l’originalità della storia era andata sempre più scemando, fino a trasformarsi in delusione e imbarazzo per lo smarrimento quasi totale di senso a cui approdava:


Ho letto anche L’iguana di Annamaria Ortese, che già mi incuriosì sul Mondo. È una favola satirica sugli onnipresenti milanesi, costruttori ed editori. C’è un nobil uomo che vuole comperare terre in Portogallo, e cercare manoscritti in cui si parla di oppressioni. Approda in un’isola, i cui padroni hanno per servetta un’iguana vestita da donna. Uno aspetta di vedere come le cose vanno avanti, sembra una favola, poi la logica si perde, la favola teologica diventa visione mistica (ilarità). È una cosa molto insolita… Giudicherò con sistemi antiquati. C’è la presenza del diavolo; questo spiega che il pio Pampaloni ha da un anno il libro e non si decide a farlo. Letterariamente ha il difetto di essere in falsetto, con raptus e sconcordanze sintattiche. Certo è scritto sull’orlo di una vera pazzia27.


Del resto, qualche anno più tardi, dopo aver letto il manoscritto del Cappello piumato28, sarà lo stesso Calvino a scriverle evidenziando quelli che considerava i limiti della sua scrittura e che in questo ultimo lavoro erano ancora più accentuati: e cioè «una accensione fortemente romantica» e «un voluto abbandono a un’ingenuità entusiasta»29. Attitudini e forme di comunicazione che non gli erano mai appartenute, ma che ora sentiva irrimediabilmente obsolete, incapaci a suo dire di appassionare qualsivoglia lettore30.


3. Sfoghi e veleni.

Il rifiuto della letteratura come forma di conoscenza è ciò che accomuna Anna Maria Ortese a Carlo Cassola. Qualunque tipo d’invasione del pensiero entro i confini del mondo poetico è visto come un attacco al cuore dell’umanità, e cioè alla purezza e alla semplicità dei sentimenti, una violazione indebita che avrebbe portato necessariamente la letteratura a forme di degenerazione e di snaturamento.


In occasione dell’uscita del suo nuovo romanzo, Storia di Ada, Cassola ribadiva con forza la totale estraneità al mondo contemporaneo e il pieno dissenso da qualunque forma di ibridazione tra cultura e narrazione: «Io non sono uno di quegli scrittori “intellettuali” che passano il tempo a macinare idee (le idee degli altri naturalmente) e che cercano di organizzarle, ordinarle in uno schema appunto, in una formula, dopodiché ci calano dentro qualche caso umano, una storia qualsiasi che serva a dimostrare la verità dell’idea da cui sono partiti […]. Io non ho nulla contro la linguistica, la sociologia, lo strutturalismo, ecc. per il semplice motivo che non ne so nulla. Io lo confesso chiaramente, non ho mai letto un libro di quei signori di cui mi si fa il nome [Lévi-Strauss, Jakobson, Šklovskij, Foucault, Saussure, Marcuse, Starobinski]. Così come non leggo testi di matematica o di biologia»31. Anche se non faceva il nome di nessun romanziere «intellettuale», non è difficile immaginare contro chi erano rivolte queste sue accuse. L’anno precedente, in occasione di un viaggio a Londra e Parigi, aveva partecipato nella capitale francese a un dibattito pubblico con alcuni scrittori del nouveau roman e della nouvelle critique, e l’impatto era stato, com’era prevedibile, del tutto negativo: «Niente da fare, non ci intendiamo. Essi tentano di trasferire certi fatti culturali nuovi (come la nuova linguistica) di peso nella letteratura: operazione impossibile, fatta a tavolino, che non tiene conto dei fattori letterari essenziali, che sono: la natura e la storia personale di ciascuno di noi»32.


Ma non era necessario andare a Parigi per incontrare i «nuovi scrittori». Anche in Italia questo tipo di «peste» letteraria stava sempre più diffondendosi, e in certi casi si trattava di una vera e propria mutazione genetica che aveva coinvolto non solo i giovani, ma anche scrittori anziani e di rilievo da cui, in certi casi, dipendevano indirizzi culturali e scelte editoriali. Lo sfogo con cui Cassola reagì nel maggio del 1965 alla notizia del rifiuto da parte della casa editrice Einaudi di pubblicare l’ultimo libro di Manlio Cancogni (da cui in parte dipese la decisione di Cassola di avvicinarsi sempre più a Mondadori) è da questo punto assai sintomatico. Scrive a Davico Bonino il 7 maggio 1965: «Dato che verba volant, come tu stesso mi hai detto per telefono, metto per iscritto quanto segue: la colpa di questo pasticcio [relativo alla tiratura prevista per La ragazza di Bube nella nuova collana economica di Mondadori «Gli Oscar»] è vostra, dico della casa editrice Einaudi s.p.a., e di Calvino in particolare (il quale Calvino, dacché tresca con quel vecchio malvissuto di Vittorini e con l’avanguardia, non può più far niente di buono) che rifiutò perfino di leggere il libro di Cancogni e in questo modo, oltre ad aver rifiutato un magnifico libro, ha messo me in condizioni di dipendenza psicologica nei confronti di Mondadori»33.


La durezza con cui Cassola reagì all’intervento di Calvino del 31 dicembre 1967, in cui Galileo è definito «il più grande scrittore italiano di ogni secolo», non giunge dunque improvvisa. L’invito rivolto a Calvino di «cambiar mestiere» nasce da un contrasto di fondo che non è più possibile colmare: perché chi scrive opere come Ti con zero e Le Cosmicomiche, o chi intende seguirne l’esempio, uccide la letteratura.


Lo scambio di lettere tra la Ortese e Calvino e la polemica dichiarazione di Cassola non passarono inosservati. Tra coloro che presero posizione, schierandosi apertamente a favore di Calvino, vi fu Giulio Preti. Senza fronzoli e giri di parole, definì l’intervento della Ortese «patetico». A lei, e «alle anime romantiche come la sua», che si lamentavano dei silenzi consolatori che il cielo solcato dalle navicelle spaziali aveva rubato, replicava sottolineando l’assoluta inconsistenza di una tale critica e l’artificiale separatezza tra letteratura e scienza. Da storico e filosofo della scienza qual era, allievo di Antonio Banfi (e dunque allergico a ogni forma di scientismo e di razionalismo dogmatico), Preti non riusciva a comprendere come si potesse separare la cultura scientifica e le sue innovazioni tecnologiche da ogni altra forma di pensiero umano: «Perché la verità scientifica non può essere materia di ispirazione lirica? Ha ragione Calvino: una conoscenza più vera e più fresca porterà a nuove immagini, muterà anche il linguaggio. Un contatto nuovo con il mondo può suscitare nuove e diverse emozioni, nuovi e diversi pensieri. E tutto questo può diventare nuova poesia – lirica o no»34. E a proposito del rapporto Galileo-Dante evocato da Cassola, rispondeva prontamente che «in prosa e in poesia, e persino nella sua più alta poesia, Dante ha travasato tutte le sue conoscenze teologiche, filosofiche, scientifiche»35. Né meno sferzante era il giudizio che Preti pronunciava sulla poetica di Cassola:


Purtroppo Cassola si vuol mantenere attaccato alla formula della poesia come espressione: al più meschino, al più povero e ignorante degli slogans di un’estetica e di una filosofia tra le più meschine e inconsistenti. «Espressione» è tutto: anche una bestemmia. Letteratura e poesia sono cose che hanno dietro di sé una plurisecolare tradizione, e quindi hanno forme, strutture, contenuti ben più complessi che non mere «espressioni»36.


Cassola replicò con altrettanta asprezza. Per lui ogni tentativo d’incontro tra poesia e cultura nella sua accezione più varia, ogni progetto d’incrocio tra letteratura e tutto ciò che non è letteratura erano da considerarsi forme più o meno mascherate di riduzionismo, e quindi un attentato ai valori più propri e irriducibili della ricerca poetica: «Un poeta non può che tentare di dar forma al piccolo mondo che gli è proprio, e quanto più riesce a renderlo piccolo, quanto più cioè riesce a renderlo in ciò che ha di personale, di singolare e in definitiva di unico, tanto più può sperare in un risultato che abbia un qualche interesse anche per gli altri»37. Per questo poteva con tutta onestà dire di non essere mai stato crociano, perché «nessuna opera di pensiero ha avuto la benché minima influenza sulla mia formazione letteraria. Che cosa fosse la letteratura, che cosa rappresentasse lo scrivere oggi, che cosa lo stesso potessi scrivere, l’ho capito leggendo Figli e amanti, Dublinesi, Dedalus»38.


4. Pregiudizi.

La fisicità e materialità della luna, il suo essere corpo impediscono a Calvino qualunque ritorno a una visione contemplativa e astratta del cielo. La sua corruttibilità e imperfezione consentono di guardare l’oggetto luna con altri occhi, liberandola così da fittizi e ormai antiquati purismi. Insomma, dopo la «narrazione» della luna che ci ha offerto Galileo tutto questo diventa una necessità ineludibile. E oggi più che mai la lezione dello scienziato italiano torna a essere viva e attuale:


Il più grande scrittore della letteratura italiana d’ogni secolo, Galileo, appena si mette a parlare della luna innalza la sua prosa a un grado di precisione ed evidenza e insieme di rarefazione lirica prodigiose. E la lingua di Galileo fu uno dei modelli per la lingua di Leopardi, gran poeta lunare39.


Sono le parole conclusive della lettera alla Ortese che tanto scandalo suscitano in Cassola. La loro perentorietà e lo stretto legame che inaspettatamente Calvino stabilisce tra il «gran poeta lunare» Leopardi e lo scienziato-poeta Galileo ne hanno fatto un luogo spesso citato. Ma se ne comprende appieno il significato solo se si tiene presente la loro assoluta originalità nel contesto culturale del tempo. Non una dichiarazione a effetto, dunque, né tantomeno un pronunciamento che resterà isolato, bensì la punta emergente di una riflessione sulla prosa italiana iniziata già da tempo e che si concluderà con la nascita di un nuovo canone letterario.


Ma prima di impegnarsi a fondo nella reinvenzione di una tradizione troppo a lungo dimenticata, Calvino deve sgombrare il campo da un pregiudizio duro a morire, e cioè che il linguaggio sia per la scienza uno strumento neutro. Calvino prende spunto da un recente articolo di Roland Barthes dal titolo Science versus Literature40, in cui si sostiene che, proprio sul modo di intendere il linguaggio, scienza e letteratura si contrappongono nettamente. «Per la scienza – afferma Barthes – il linguaggio è solo uno strumento, da rendere il più trasparente e neutro possibile, assoggettato alla materia scientifica (operazioni, ipotesi, risultati) che pare esista al di fuori di esso e lo preceda: da una parte, e in primo luogo, ci sono i contenuti del messaggio scientifico, che sono tutto; dall’altra, e successivamente, la forma verbale preposta a esprimere tali contenuti, che non è niente»41. Per la scienza, contenuto e forma non solo nascono separati ma stanno tra loro in un rapporto gerarchico: il linguaggio infatti «non è niente» perché vive in tutto e per tutto in funzione del suo contenuto. Se la scienza ha certamente bisogno del linguaggio per esprimersi, «essa non è però, come la letteratura, nel linguaggio»:


Per la letteratura […] il linguaggio non può più essere il comodo strumento o la lussuosa decorazione di una «realtà» sociale, passionale o poetica ad esso preesistente, che sarebbe chiamato sussidiariamente ad esprimere, previa sottomissione ad alcune regole stilistiche: il linguaggio è l’essere della letteratura, il suo stesso mondo42.


Calvino non crede affatto che il linguaggio impiegato nella scienza sia da considerarsi un semplice strumento del pensiero, tutto finalizzato e compresso entro una logica della verità dei contenuti; non ritiene cioè che esso sia impiegato «per significare una realtà ad esso estranea»43. Per questa ragione a Barthes contrappone Queneau. Nel medesimo numero del «Times Literary Supplement» figura infatti un suo articolo sui rapporti tra scienza e letteratura in cui le conclusioni sono diametralmente opposte a quelle a cui era giunto Barthes. A differenza di Barthes, Queneau non teme sconfinamenti; anzi, li sollecita. Il suo interesse per la scienza, e in primo luogo per le matematiche, ha lo scopo primario di rivitalizzare l’invenzione letteraria, come sta a dimostrare l’attività di Oulipo, di cui egli è membro autorevole, e che è appunto quella di «scoprire forme letterarie inedite o rinnovate, ispirando la sua ricerca a preoccupazioni matematiche»44. «Secondo me – rileva Queneau – anche l’analisi dei jeux d’esprit deve arricchire la nuova retorica, così come diversi rompicapi hanno portato alla creazione del calcolo delle probabilità, della topologia e della teoria dei giochi»45. Scopo principale di Oulipo è infatti la «fondazione di una nuova retorica che, ai nostri giorni, non può fare a meno della matematica»46. Come le scienze umane (linguistica, psicologia, sociologia) si nutrono continuamente del linguaggio e dell’immaginazione scientifici, così anche la letteratura deve stabilire nuovi e proficui contatti con le diverse scienze. Per Queneau è uno stato di necessità a cui la letteratura non può sottrarsi, pena la sua sopravvivenza: una situazione da lui considerata nuova, in cui ciò che conta non è tanto il fatto che la scienza si trasformi in argomento poetico, quanto che «il linguaggio della scienza sia trasmutato in poesia»47, come egli stesso aveva tentato di fare nella Petite cosmogonie portative.


Ma anche rispetto a Queneau, tutt’altro è l’ambito entro il quale Calvino lavora e affronta il tema scienza-letteratura. Per lui non si tratta tanto di allargare il campo dell’invenzione letteraria costruendo quello che Queneau chiama una «nuova retorica», bensì di affrontare ciò che in più occasioni egli definisce il problema della conoscenza della contemporaneità. È da questa prospettiva che egli guarda con attenzione alla scienza e, in particolare, a Galileo: «Quel che posso dire è che nella direzione in cui lavoro adesso, trovo maggior nutrimento in Galileo, come precisione di linguaggio, come immaginazione scientifico-poetica, come costruzione di congetture»48. Per questa ragione la dicotomia avanzata da Cassola tra scienziato e scrittore è destituita di ogni fondamento. Calvino preferisce parlare di «vocazione profonda della letteratura italiana», che considera «l’opera letteraria come mappa del mondo e dello scibile» e cerca attraverso «la parola letteraria di costruire un’immagine dell’universo». All’interno di questo quadro di riferimento nessuno deve dunque scandalizzarsi dell’idea di porre Dante e Galileo l’uno accanto all’altro, in un’ideale catena letteraria, perché ambedue sono scrittori mossi da una medesima vocazione e tensione conoscitiva:


È una vocazione che esiste in tutte le letterature europee ma che nella letteratura italiana è stata direi dominante sotto le più varie forme, e ne fa una letteratura così diversa dalle altre, così difficile, ma anche così insostituibile. Questa vena negli ultimi secoli è diventata più sporadica, e da allora certo la letteratura italiana ha visto diminuire la sua importanza: oggi forse è venuto il momento di riprenderla49.


Va detto che l’attenzione di Calvino per la letteratura italiana non è mai stata così forte. A guidarlo, in questo suo viaggio all’interno delle diverse componenti della tradizione, è l’urgenza di collocare e definire meglio il progetto intrapreso negli ultimi anni. «In certi momenti ho la sensazione che la via che sto seguendo mi riporti nel vero alveo dimenticato della tradizione italiana»50. Frasi di questo tipo, pronunciate agli inizi del 1968, colpiscono per diverse ragioni. È, infatti, la prima volta che Calvino riconosce alla letteratura italiana un carattere di «indispensabilità»; è la prima volta che ciò che sta scrivendo si inserisce in un preciso quadro di riferimenti letterari e culturali nazionali. Non solo: il nuovo progetto cosmico lo conduce, direi quasi naturalmente, all’interno di quello che considera non uno tra i molteplici indirizzi della tradizione italiana, ma il suo «vero alveo dimenticato».


Queste affermazioni sono contenute in un’intervista pubblicata nel 1968 sull’«Approdo letterario»51. In quella stessa occasione, di fronte alla domanda del perché Galileo debba essere considerato il più grande scrittore italiano, risponde così:


Leopardi nello Zibaldone ammira la prosa di Galileo per la precisione e l’eleganza congiunte. E basta vedere la scelta dei passi di Galileo che Leopardi fa nella sua Crestomazia della prosa italiana, per comprendere quanto la lingua leopardiana – anche del Leopardi poeta – deve a Galileo52.


Il riferimento a Leopardi non può essere più puntuale: Zibaldone e Crestomazia. Ed è una risposta che desta sorpresa non tanto per l’esplicito riconoscimento del valore della prosa di Galileo, quanto per la sua immagine di antesignano e maestro perfino del Leopardi poeta.


Su questo punto Calvino non è il solo a pensarla così: la sua posizione è in perfetto accordo con l’interpretazione che proprio in quegli anni veniva data di Leopardi come «scrittore galileiano». Calvino condivide infatti la responsabilità di questo giudizio con Giulio Bollati. Anzi, la discussione con Bollati sulla prosa di Leopardi doveva risalire a molti anni addietro, se già nel 1953, in occasione della stesura del saggio Mancata fortuna del romanzo italiano, Calvino aveva fatto esplicito riferimento a Leopardi «romanziere»: un’idea che gli era stata suggerita dall’amico, ma che poi aveva deciso di eliminare «per non anticipare il tema d’un saggio che Bollati aveva in mente di scrivere»53.


La condivisione della centralità di Leopardi è dunque di vecchia data, e torna a farsi attuale quando Calvino decide di porsi alla ricerca dei padri della prosa italiana. Un caso davvero anomalo rispetto al resto d’Europa, se è vero – e Calvino ne è pienamente convinto – che il romanzesco (ovvero il fantastico e l’immaginario) nasce in Italia «fuori» dall’alveo tradizionale del romanzo:


Che padre ci sarebbe voluto per il romanzo italiano? Un tipo movimentato e spadaccino come l’Alfieri o il Foscolo? O uno di quei tipi traboccanti di vitalità plebea come il Porta o il Belli? O un grande creatore di caratteri come il Rossini o il Verdi? Forse nessuno di questi. Per me il padre ideale del nostro romanzo sarebbe stato uno che parrebbe lontano più d’ogni altro dalle risorse di quel genere: Giacomo Leopardi. In Leopardi erano vive infatti le grandi componenti del romanzo moderno, quelle che mancavano al Manzoni: la tensione avventurosa (quell’islandese che se ne va solo per le foreste dell’Africa, e quella notte tra i cadaveri nello studio di Federico Ruysch e quell’altra sulla tolda di Colombo), l’assidua ricerca psicologica introspettiva, il bisogno di dare nomi e volti di personaggi ai sentimenti e ai pensieri suoi e del secolo. E poi la lingua: la via ch’egli indicò fu quella dei massimi effetti coi minimi mezzi, che è sempre stato il gran segreto della prosa narrativa54.


È un testo che risale al 1953. E se il giudizio su Manzoni «ebbe tempo di cambiare»55, resta il fatto che per Calvino il padre del romanzo italiano non entra a far parte del suo canone. L’invenzione di un’altra tradizione avviene così sotto il segno di una forte discontinuità: il vero padre non è Manzoni ma Leopardi, e insieme a lui stanno Ariosto e Galileo.


5. Un «grandissimo scrittore».

Curatore dell’edizione della Crestomazia in prosa che vede la luce nel 1968 (lo stesso anno in cui Calvino pubblica le sue interviste sui rapporti tra scienza e letteratura), Bollati sottolinea con forza il vincolo poetico e letterario che unisce Leopardi a Galileo. È lui infatti «l’autore più rappresentato dell’intero libro»56, «la figura dominante dell’antologia»57, uno dei centri caratterizzanti il modello letterario leopardiano:


Se all’eroe gentiluomo e filosofo inseguito da Leopardi nella Crestomazia si volesse dare un volto e un nome, bisognerebbe forse, pur senza dimenticare mai il Tasso, eleggere a protagonista del libro Galileo. In lui, opportunamente antologizzato e atteggiato, il compilatore sembra volersi riconoscere più che in ogni altro58.


Per avvalorare una simile interpretazione, Bollati riporta alcuni passi di una lettera inviata all’editore Stella il 27 dicembre 182659, facendoli seguire da un’annotazione, tratta dallo Zibaldone, del 6 gennaio 1827, in cui Leopardi riconosceva in Galileo uno dei massimi esempi di rigore morale e intellettuale che l’Italia avesse mai avuto60. Bollati insiste a lungo sulla scoperta di un Galileo visto nella sua insopprimibile unità di scienziato e scrittore, e proprio per questo da lui considerato vero e proprio modello leopardiano. A tal punto che questa immagine dello scienziato italiano diventa la chiave interpretativa della figura stessa di Leopardi. Infatti, pur riconoscendo il valore fondamentale delle ricerche di Timpanaro sul «pensiero» di Leopardi, Bollati sposta la sua attenzione sul piano della «totalità», ricercando il legame profondo tra i diversi aspetti della sua attività di pensatore filosofo, scrittore e poeta61. Anzi, si ha quasi l’impressione che le figure di Galileo e di Leopardi finiscano per intrecciarsi e sovrapporsi, mosse dall’urgenza comune di dare nuovi e vitali fondamenti all’intera cultura italiana. Non è un caso che nel finale della sua introduzione Bollati tratteggi Leopardi con parole e immagini che richiamano alla mente le tragiche vicende patite dal grande scienziato:


Così anche la Crestomazia contribuì in qualche misura a fare di Leopardi il primo poeta maledetto dell’età borghese, o, se si preferisce adottare un’altra scala di riferimenti, uno dei primi scrittori moderni condannato o messo al bando per motivi ideologici e d’ordine pubblico, in attesa di eventuali riabilitazioni postume. Questo era il prezzo da pagare per chi lavorava a costituire, nel vivo di una opposizione appassionata e militante, l’inestimabile patrimonio di una alternativa culturale valida ben oltre i tempi brevi e l’orizzonte limitato dell’Ottocento italiano62.


Del lavoro di Bollati Calvino condivide tutto, compreso il suo carattere militante, di intervento innovativo nel panorama culturale italiano. In particolare è pronto ad accogliere e fare propria la riscoperta del legame tra tradizione scientifica e letteraria, così forte sia in Galileo che in Leopardi, indispensabile nella costruzione del suo progetto di rilancio di quella che considera la migliore tradizione italiana, ovvero di un canone stilistico-morale di cui anche lui, solitario erede novecentesco, si sente parte. Insomma, il saggio di Bollati è a tutti gli effetti un contributo prezioso che porta nuova linfa alla scelta calviniana, rafforzando la legittimità e la credibilità dell’asse Galileo-Leopardi63.


Dieci anni più tardi, in un’intervista a Guido Almansi, Calvino tornerà di nuovo su quella che considerava la linea di filosofia naturale presente nella letteratura italiana, accentuando ancora di più il valore paradigmatico dell’esperienza galileiana. Da Dante a Leopardi, da Bruno a Campanella a Vico, «essa [la filosofia naturale] attraversa l’intero corpus letterario italiano e si unisce a una straordinaria commistione linguistica»64. Galileo ne costituisce il «caso estremo»: «Per lui il linguaggio non è uno strumento neutro che lo aiuti a comunicare idee. Niente affatto. C’è in lui una continua consapevolezza letteraria della struttura espressiva, immaginativa, anche lirica del suo messaggio». E per Calvino non significa solo attribuire a Galileo il titolo di «maestro della prosa italiana», del resto già ampiamente riconosciuto prima da Leopardi e poi dalla critica novecentesca, quanto soprattutto affermare che il suo modo di vedere il mondo è imprescindibile dalla sua scrittura. La sua incontenibile capacità inventiva e immaginativa svolge un ruolo insostituibile nella costruzione della nuova scienza: «Galileo possiede l’immaginazione più straordinaria. Discorre delle sue esperienze e controversie sempre per mezzo di racconti e metafore». E se «col passare del tempo molte delle sue posizioni scientifiche si sono dimostrate insostenibili o forse deboli […], esse si mantengono perfettamente salde a livello delle loro strutture interne, sia in termini di linguaggio che di produzioni d’immagini, di creazione di miti»65. Di qui scaturisce l’attenzione di Calvino per Galileo, per la sua straordinaria attualità di «grandissimo scrittore» del mondo, in cui l’eleganza della forma e la solidità dei contenuti costituiscono un tutto unitario: un caso assai raro, e non soltanto nel panorama italiano.


Ma il dialogo con colui che scandalosamente aveva definito «il più grande scrittore della letteratura italiana d’ogni secolo» non s’interrompe alla fine degli anni sessanta. Calvino continuerà a lavorare su Galileo e a interrogarsi sulle sue qualità di scrittore-scienziato anche in altri momenti della sua vita. Il confronto che stabilirà leggendo certe pagine del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo o di altri scritti considerati «minori» – ma che ben conosceva, come le Lettere sulle macchie solari – contrassegnerà in particolare l’ultimo periodo della sua vita: dalla discussione che seguì alla pubblicazione di Spie di Carlo Ginzburg alle lezioni tenute all’École des Hautes Études di Parigi nel marzo e nel novembre 1983, dalla conferenza newyorkese Mondo scritto e mondo non scritto a Palomar e alle Lezioni americane.


 


1 Così Calvino si esprimeva in una lettera del 5 ottobre 1965 a Ferretti (L, pp. 884-5), del quale condivideva il giudizio dato in un recente articolo «su Pasolini, sul barilli-guglielmismo, su quelli dell’ex-Officina» (cfr. G. C. Ferretti, Confessioni, esigenze e proposte di un critico marxista, in «Rendiconti», V, 1965, 11-12).


2 «In Cassola, che non lo fa apposta, questo diventa l’incanto maggiore del suo stile. In Bassani, che forse lo fa apposta, diventa un fondo grigio, su cui spiccano le sue compiacenze di composizione» (L, p. 553: Calvino a F. Wahl, 22 luglio 1958). Sui rapporti Calvino-Cassola cfr. C. Cassola, Racconti e romanzi, a cura e con un saggio introduttivo di A. Andreini, Mondadori, Milano 2007, pp. XXXIV-XXXVI.


3 L, p. 553. Anche se, con il passare degli anni, il giudizio di Calvino nei confronti di Cassola si fa sempre più critico. All’indomani dell’uscita delle Cosmicomiche, Cassola inviava alla casa editrice Einaudi il suo nuovo romanzo. «È arrivato il nuovo Cassola – esordisce Calvino nella riunione del 22 dicembre –, Tempi memorabili. Riprende un racconto della Visita, una storia ambientata a Marina di Cecina, con un ragazzo che alla fine decide di essere innamorato di una certa Anna, e finisce con una professione di petrarchismo. Mah. Le cose belle perché brevi lui le diluisce, ne fa un pentolone di brodo. PONCHIROLI: L’ho letto anch’io, mi ha deluso un po’. La cronaca di un’estate al mare, i soliti discorsi delle madri, tutto è tanto vero che diventa falso. CALVINO: È insipido, c’è niente da fare. Va bene essere fedelissimi alla propria poetica; e tutto questo rigore, ma mai uno sguardo critico, non ti illumina di poesia» (AE, Verbali, cart. 5, fasc. 351, riunione del 22 dicembre 1965).


4 «La letteratura italiana sta attraversando un momento di trombonaggine generale», scriveva a Vicari nel maggio del 1964 (L, p. 813). Ma già da diversi anni il giudizio di Calvino su gran parte della narrativa italiana contemporanea era fortemente negativo: «Oggi si tirano le fila d’una lenta involuzione dei contenuti e degli stili: la letteratura italiana è Il gattopardo [1958] e La messa dei villeggianti [di Mario Soldati, 1959]. Ci sarebbe bisogno – e i tempi sarebbero maturi – d’una battaglia letteraria, uno scontro sul terreno formale e morale. Ma cosa si può fare se al gattopardismo non ci sono delle proposte, delle presenze da contrapporre?» (L, pp. 593-4: Calvino a F. Fortini, 13 maggio 1959). E a proposito dei «romanzieri», scriveva a Ottavio Cecchi in occasione della sua partecipazione con Le Cosmicomiche al Premio Strega del 1966 vinto da Michele Prisco: «È tempo di tornare a usare questo termine nell’accezione negativa che ebbe per lungo tempo nella letteratura italiana» (ibid., p. 933: lettera del 15 luglio 1966).


5 «Se no, che senso ha mettere il mio nome col suo sul Menabò? Certo la rivista resta quasi completamente sua, e non sempre riesco a dialogare con lui, ma ho fiducia in lui perché so che finisce sempre per muoversi nel senso giusto, che la sua idea generale della letteratura non sarà mai povera e ristretta» (ibid., pp. 788-9: Calvino a F. Lucentini, 20 marzo 1964).


6 Ibid., p. 812: Calvino a D. Rea, 13 maggio 1964.


7 Ibid., p. 813: Calvino a G. Vicari, 13 maggio 1964.


8 Ibid, p. 837. Sull’anomalia Calvino hanno scritto, tra gli altri, Pier Vincenzo Mengaldo (La tradizione del Novecento. Terza serie cit., p. 227: «Si può affermare che Calvino è uno scrittore poco italiano») e, di recente, Alberto Asor Rosa, La storia del «romanzo italiano»? Naturalmente una storia «anomala», in F. Moretti (a cura di), Il romanzo, III, Storia e geografia, Einaudi, Torino 2002, pp. 255-306: 302-3: «Calvino ci mette di fronte a questo paradosso: che il più grande narratore italiano della seconda metà del Novecento non ha scritto romanzi. […] La direzione di ricerca di Italo Calvino muove sempre più chiaramente verso uno svincolamento dalle condizioni originarie, para-realistiche e para-naturalistiche, del “romanzo normale”, in vista di una nuova verità e di un nuovo senso dell’operazione narrativa, che tengano conto delle acquisizioni più avanzate della scienza e della semiologia contemporanee».


9 I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, nuova ed. con una prefazione dell’autore (1964), RR, I, p. 1187.


10 «Corriere della Sera», 24 dicembre 1967, p. 11. Cfr. Bellini, «Chi cattura chi?» cit., pp. 157-9.


11 In «Corriere della Sera», 24 dicembre 1967, p. 11.


12 Ibid.


13 M. Blanchot, La conquista dello spazio, in «Il Menabò», 1964, 7, pp. 10-13: 11. Tuttavia Blanchot non mancava di sottolineare, prendendo spunto da Lévinas, quanto di positivo e di liberatorio contenesse questo «atto sacrilego» contro «l’uomo possessivo che vuole avere la terra […], incrostato per sempre dove si trova, nella sua tradizione, nella sua verità, nella sua storia, e non vuole che si attenti alle sedi sacre del bel paesaggio e del grande passato» (ibid.).


14 «Spontaneamente gli uomini confessano che è consumato questo mondo, quando nei pianeti e nel firmamento cercano in tanti il nuovo. E vedono che il mondo è sbriciolato ancora nei suoi atomi. Tutto va in pezzi, ogni coerenza è scomparsa, ogni giusta provvidenza, ogni relazione» (J. Donne, An Anatomy of the World, 1611, trad. in P. Rossi, La nascita della scienza moderna in Europa, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 90-1).


15 In «Corriere della Sera», 24 dicembre 1967, p. 11.


16 Ibid. La risposta di Calvino, col titolo Il rapporto con la luna, è pubblicata in Id., Una pietra sopra, S, I, pp. 226-8. Compare anche in L, pp. 975-7, dove sono riportati passi non inseriti nel testo a stampa ma presenti nel dattiloscritto conservato nell’Archivio Calvino. Sempre a proposito del «guardare» il cielo come desiderio di consolazione, Calvino aveva aggiunto (e poi eliminato): «Anche questo sarebbe fare del cielo un prolungamento della terra e dei suoi mali, e tanto vale allora vederlo lottizzato […] da una società immobiliare, o adibito a parcheggio, a supporto per pubblicità luminosa, oppure adoperato come una lavagna per segnare le traiettorie delle future armi totali: almeno così quella fallace immagine consolatoria andrebbe in fumo e la nostra critica al mondo com’è si farebbe più assoluta ed esigente» (ibid., p. 975).


17 Ibid., pp. 975-6.


18 Ibid., p. 976: corsivo nel testo.


19 Ibid., corsivo nel testo.


20 Ibid.


21 I. Calvino, Ti con zero (1967), RR, II, p. 235.


22 Id., Le Cosmicomiche (1965), RR, II, pp. 81, 84.


23 A. M. Ortese, Pensare è terribile. È come affacciarsi a un pozzo dove non si vede più niente, in «La Fiera Letteraria», XLII, 18 maggio 1967, 20, p. 3. Negli stessi anni una posizione analoga è sostenuta con altrettanto vigore da Guido Ceronetti, Intatta Luna, in «Belfagor», XXV, 1970, 1, pp. 97-103, poi in Id., Difesa della Luna e altri argomenti di miseria terrestre, Rusconi, Milano 1971, pp. 61-81.


24 Ibid.


25 «Lei ha scritto un libro bellissimo, dovrebbe ridere e cantare tutto il giorno, per un anno di seguito, almeno! Se no, a cosa serve scrivere dei bei libri?» (L, p. 370: lettera del 21 maggio 1953).


26 Ibid., p. 532: Calvino a L. A. Veršinin, 16 gennaio 1958.


27 AE, Verbali, Riunione del 21 ottobre 1964. Vale la pena riportare anche la discussione che seguì all’intervento di Calvino: «FONZI: È un libro folle, le ultime puntate sono illeggibili, si perde ogni interesse di lettura, alla fine si disfa tutto. EINAUDI: Ci fossero anche solo cinquanta pagine buone lo farei. CALVINO: La Ortese è una scrittrice, anche se Pampaloni la giudica un Landolfi di ritorno (in lettura a Bollati)». Nella riunione dell’11 novembre Calvino informava il Consiglio di aver ricevuto una lettera della Ortese in cui «spiega il suo libro», e si impegnava a telefonare a Pampaloni «per sollecitare lo sblocco del libro». Assai più soft erano i giudizi che Calvino inviava alla Ortese; cfr. LdA, pp. 486, 488-9: lettere dell’8 e 22 ottobre 1964; L, pp. 1178-9: lettera del 26 ottobre 1972. L’iguana viene pubblicato da Vallecchi.


28 Il romanzo autobiografico della Ortese, inviato a Calvino col titolo Fomà, non sarà pubblicato da Einaudi ma da Mondadori nel 1979. Su L’iguana e Il cappello piumato cfr. L. Clerici, Apparizione e visione. Vita e opere di Anna Maria Ortese, Mondadori, Milano 2002, pp. 382-400, 447, 516.


29 L, p. 1173, corsivo nel testo: Calvino a A. M. Ortese, 26 settembre 1972.


30 «Qui si aprono i miei dubbi: può questa ingenuità prorompente raggiungere e travolgere il lettore contemporaneo – che immagino lontanissimo da ogni abbandono romantico – e farlo partecipare? Io, che di quel clima ho prosciugato anche le ultime nostalgie, partecipo sì, ma come affezionato lettore della Ortese, pronto a riconoscere la presenza dell’autore attraverso ogni chiave stilistica. Quindi sono dubbioso sull’esito d’una lettura priva di mediazioni e prospettive d’altre letture, come quella del pubblico d’oggi (e di parte anche della critica)» (ibid.).


31 C. Cassola, L’intellettuale senza coperta, in «La Fiera Letteraria», XLII, 13 aprile 1967, pp. 3-4.


32 AE, Corrispondenza, C. Cassola, cart. 44, fasc. 644, lettera a G. Davico Bonino del 21 maggio 1966.


33 Ibid., lettera del 7 maggio 1965. Sulla vicenda cfr. anche AFM, Sezione segreteria editoriale autori italiani, fasc. C. Cassola. La decisione di interrompere i suoi rapporti editoriali con la Einaudi avvenne molti anni più tardi, dopo un lungo periodo di ripensamenti: «Ti confesso – scrive a Vittorio Sereni – che sono sempre in dubbio se lasciare Einaudi. Perché ha il grosso della mia produzione (ormai bisogna che dica così) e perché penso che non sia bene cambiare editore. Io da Einaudi ci sono finito per caso, perché nessun altro editore mi voleva pubblicare “Fausto e Anna”. Ma ormai ci sono da vent’anni. Ha un senso cambiare? In ogni caso, per passare a un altro editore, bisogna che ritrovi la fiducia in me stesso, che ho perduto. Quest’estate ho scritto un romanzo, ma non ne sono contento. L’ho messo da parte. E ora non ho in mente nulla, non intravedo nemmeno quello che potrei scrivere» (ibid., lettera del 14 ottobre 1971). Cassola lasciò la Einaudi per Rizzoli nel 1973. Sulle vicende biografiche ed editoriali di questi anni, cfr. Cassola, Racconti e romanzi cit., pp. CXII-CXX.


34 G. Preti, Chi ha paura della scienza?, in «La Fiera Letteraria», XLVIII, 4 aprile 1968, p. 4.


35 Ibid. «Nel Paradiso – soggiungeva – ha fatto proprio dell’argomento, che tanto lo interessava, delle macchie lunari il contenuto da cui muovere per l’impostazione lirico-teologica di tutta la Cantica. Nonostante la programmatica adesione allo stilnovismo, la sua concezione della poesia e del poeta non era certo quella della spontaneità ignorante o della mera liricità autobiografica. Pensava proprio che fosse essenziale, e non solo possibile, all’arte letteraria conseguire quella fusione di precisione scientifica e di rarefazione lirica che Calvino loda in Galileo».


36 Ibid.


37 C. Cassola, Quante scuse per non scrivere, in «La Fiera Letteraria», XLIII, 18 aprile 1968, p. 5.


38 Ibid., p. 5. E proseguiva: «Croce l’ho letto solo anni dopo, quando mi son dovuto preparare a un concorso per l’insegnamento. E nell’estetica crociana non ho trovato nulla che risvegliasse il mio interesse: o c’erano verità che avevo già acquisito per altra via, o c’erano degli errori. È un errore, per me, l’identificazione intuizione-espressione: ciò che sentiamo sorpassa infinitamente le nostre possibilità di esprimerci». Già alcuni prima, in una lettera a Enrico Falqui, Cassola esprimeva con chiarezza le sue intenzioni poetiche: «In relazione alla tua terza pagina sulla “Fiera” desidero dirti che la mia dichiarazione è stata fraintesa; spesso purtroppo accade con le interviste orali, che gl’intervistatori condensano e interpretano a modo loro. Io non mi sono mai pronunciato contro la storia, semmai contro la storiografia, cioè contro uno schema intellettuale, che potrà andare bene per il politico e magari anche per lo storico, ma a cui uno scrittore farebbe male a soggiacere. Più in generale, io sostengo che lo scrittore deve affidarsi alla propria fantasia, dar corpo ad essa e non lasciarsi fuorviare dagli schemi intellettuali in auge. S’intende che questa fantasia opera sulla realtà presente e quindi dà anche sempre la dimensione della storia: ma, appunto, di una storia non prefabbricata, non ridotta a formulario, ma liberamente rivissuta e ricreata. E citavo l’esempio di Tozzi, nelle cui opere non compare mai la “storia” degli storici e dei politici: il che non gli ha impedito di darci un quadro della vita della provincia italiana al principio del secolo più vivo, forse, di qualsiasi altro scrittore del tempo. E avrei potuto citare Verga o Thomas Hardy o il Joyce di “Dublinesi” o il Lawrence di “Figli e amanti”» (BNCR, ARC, Raccolta Falqui, A, 192/5: lettera del 24 novembre 1964).


39 L, p. 976: Calvino a A. M. Ortese, dicembre 1967.


40 R. Barthes, Science versus Literature, in «The Times Literary Supplement», 28 settembre 1967 (trad. it. Dalla scienza alla letteratura, in Id., Il brusio della lingua. Saggi critici IV, Einaudi, Torino 1988, pp. 5-12).


41 Ibid., p. 6.


42 Ibid.


43 Calvino, Due interviste su scienza e letteratura cit., pp. 229-37: 230. Su Barthes e Calvino cfr. J. Wallace, «The World Before Eyes»: Calvino, Barthes and Science, in E. S. Shaffer (a cura di), The Third Culture: Literature and Science, De Gruyter, Berlin-New York 1998, pp. 269-83; S. Blazina, Italo Calvino: un linguaggio fra scienza e mito, in Ferraris - Fusco (a cura di), Italo Calvino: Les mots cit., pp. 59-75: 69-70. Del Barthes di quegli anni Calvino apprezzava molto il lavoro su Sarrasine di Balzac: «Secondo me è il più importante libro di Barthes, ma non solo, è la prima volta che si vede in funzione lo strutturalismo applicato fino in fondo. Secondo me è un libro di enorme importanza, fondamentale» (AE, Verbali, fasc. 513, Riunione del 25 novembre 1970). S/Z era appena uscito per Seuil e venne tradotto da Einaudi nel 1973.


44 R. Queneau, Science & Literature, in «The Times Literary Supplement», 28 settembre 1967, ora in Id., Segni, cifre e lettere e altri saggi, introduzione di I. Calvino, traduzione di G. Bogliolo, Einaudi, Torino 1981, pp. 298-303: 302.


45 Ibid.


46 Ibid. In proposito cfr. A. Battistini, «Ménage à trois». Scienza, arte combinatoria e mosaico della scrittura, in «Nuova civiltà delle macchine», V, 1987, 1, pp. 11-24: 13-4.


47 Queneau, Science & Literature cit., p. 301.


48 Calvino, Due interviste su scienza e letteratura cit., p. 232. Su queste pagine cfr. A. Asor Rosa, Stile Calvino. Cinque studi, Einaudi, Torino 2001, pp. 118-20; Perrella, Calvino cit., pp. 106-7; M. Rizzante, Il geografo e il viaggiatore. Variazioni su I. Calvino e G. Celati, Metauro, Fossombrone 1993, pp. 64-70.


49 Ibid., p. 233. È da ricordare che proprio in questi stessi anni, nel sottolineare l’antica vocazione della letteratura italiana, Calvino introduce per la prima volta il tema della letteratura come «filosofia naturale» (cfr. LdA, p. 579: Calvino a G. Bonaviri, 29 aprile 1969).


50 Ibid.


51 Calvino ripubblicava il testo dell’intervista in Una pietra sopra, ma senza le due ultime risposte riguardanti Le due tensioni, il libro postumo di Vittorini, le quali non sono state reintegrate nell’edizione mondadoriana. Su questo punto cfr. Bellini, «Chi cattura chi?» cit., p. 157, nota 19.


52 Calvino, Due interviste su scienza e letteratura, S, I, pp. 231-2.


53 Id., Mancata fortuna del romanzo italiano (1953), S, I, pp. 1507-11: 1508 (nota dell’autore).


54 Ibid.: il passo, che figura nel manoscritto, non è stato inserito nel testo a stampa.


55 Cfr. ibid., p. 1507. Su Calvino e Manzoni cfr. E. Bellini, Calvino e i classici italiani (Calvino e Manzoni), in E. Elli - G. Langella (a cura di), Studi di letteratura italiana in onore di Francesco Mattesini, Vita e Pensiero, Milano 2000, pp. 489-534.


56 G. Bollati, introduzione, in G. Leopardi, Crestomazia italiana. La prosa, Einaudi, Torino 1968, poi in Id., Giacomo Leopardi e la letteratura italiana, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 16.


57 Ibid., p. 80.


58 Ibid., p. 112.


59 Nella lettera Leopardi gli annunciava che l’antologia avrebbe compreso anche «i luoghi del Galileo, che senza essere né fisici né matematici, contengono dei pensieri filosofici e belli; estratti da me con diligenza da tutte le sue opere. Essi soli farebbero un librettino molto importante. Sarebbero letti con piacere da tutti; laddove nella farraggine fisica e matematica delle opere di Galileo, nessuno li legge né li conosce» (ibid.).


60 Il passo leopardiano citato da Bollati corrisponde a Zibaldone, 4241: «Non so s’io m’inganno, ma certo mi par di scorgere nella maniera sì di pensare e sì di scrivere del Galilei un segno e un effetto del suo esser nobile. Quella franchezza e libertà di pensare, placida, tranquilla, sicura, e non forzata, la stessa non disaggradevole, e nel tempo stesso decorosa sprezzatura del suo stile, scuoprono una certa magnanimità, una fiducia ed estimazion lodevole di se stesso, una generosità d’animo, non acquisita col tempo e la riflessione, ma quasi ingenita, perché avuta fin dal principio della vita, e nata dalla considerazione altrui riscossa fin da’ primi anni ed abituata» (ibid., pp. 113-4).


61 Cfr. ibid., p. 87. In proposito cfr. L. Blasucci, Giulio Bollati «leopardiano», in Aa.Vv., Giulio Bollati. Lo studioso, l’editore, Bollati Boringhieri, Torino 1997, pp. 33-40. Sulla sua figura di editore e intellettuale cfr. L. Mangoni, Giulio Bollati all’Einaudi, ibid., pp. 43-8; E. Ferrero, Il Maestro, ibid., pp. 60-3; Id., I migliori anni della nostra vita, Feltrinelli, Milano 2005, pp. 41-8.


62 Bollati, Giacomo Leopardi e la letteratura italiana cit., p. 118. Sull’importanza del saggio di Bollati è da ricordare la testimonianza di Rossana Rossanda. Gli scrive il 30 settembre 1969: «Il suo Leopardi è bellissimo. La sola lettura affascinante di questo tempestoso scorcio d’estate. Affascinante, almeno per me, perché vi trovo il solo modo di fare storia in cui credo, e che viene a conferma d’una cultura ancora possibile, d’un atteggiamento del riflettere e del conoscere che va, prima che difeso, trovato. Le pagine per me più interessanti sono quelle sui punti di “entropia” del pensiero risorgimentale; l’elemento insieme aggregante e distruttivo dell’idea di nazione. Questo è, dal punto di vista del metodo, il taglio secondo il quale bisogna operare anche nel lavoro che sto tentando – sul rapporto fra cultura e rivoluzione, almeno se si vuol uscire dal solito, per quanto sacrosanto, discorso contro le burocrazie. Ma non è facile. Anche perché certi risultati si ottengono solo quando, come accade a lei, un sondaggio interpretativo così pungente ha alle spalle quel corredo filologico che lei rende con tanta souplesse (Luporini ne era deliziato). Insomma, mi permetta di rallegrarmi con Lei, e di ringraziarla» (AE, Corrispondenza, R. Rossanda, cart. 181, fasc. 2626, n. 42).


63 Come ha puntualmente osservato Paolo Rota, «tutti i rimandi agli scritti galileiani citati da Calvino appartengono alla scelta leopardiana per la Crestomazia, o sono variazioni sopra temi presenti in essa» (La sfera e la luna. Studio di una figura tra Leopardi, Galileo e Calvino, in «Studi e problemi di critica testuale», LI, 1995, pp. 125-58: 147).


64 Italo Calvino Talks to Guido Almansi, in «The New Review», IV, 1978, 39-40; poi tradotto in G. Almansi, Intervista a Italo Calvino, traduzione di M. Boselli, in «Nuova Corrente», XXXIV, 1987, 100, pp. 387-408: 396. A questo proposito è da segnalare che Calvino doveva scrivere per il volume VI della Letteratura Italiana Einaudi, diretta da Alberto Asor Rosa, un saggio intitolato La letteratura e la filosofia naturale. Lo si desume da un pieghevole (fine 1982-inizio 1983) che presenta il piano analitico dell’opera. Cfr. anche Perrella, Calvino cit., p. 194.


65 Almansi, Intervista a Italo Calvino cit., pp. 395-6.

VII. Calvino e Galileo: dal libro della natura agli alfabeti del mondo

Rendono più il senso del mare le frasi in alfabeto Morse, e le radici quadrate del radar che tutte le trasfigurazioni lirico-tragiche. La misteriosità conta perché è nelle cose, non nelle parole.


Italo Calvino a Raffaello Brignetti, 14 febbraio 19661.


1. Viaggi mentali.

Nell’autunno del 1980, la rivista «Pace e Guerra», mensile di economia e politica diretto da Luciana Castellina, Claudio Napoleoni e Stefano Rodotà, ospitava una lunga conversazione tra Calvino e Daniele Del Giudice. Tre fitte pagine di discussione rimaste praticamente inedite2. C’è ancora possibilità di narrare una storia? Questo è il titolo e l’oggetto principale del confronto: una messa a punto sulla letteratura e in primis sul senso e le condizioni del narrare contemporaneo. Il punto di partenza è volutamente circoscritto, ma forse proprio per questo ancora oggi quanto mai prezioso. I due scrittori si propongono di lavorare su alcune parole-chiave e in primo luogo su quella di esperienza, sul concetto di crisi dell’esperienza narrativa:


Il venir meno dell’esperienza – osserva Del Giudice –, la comunità di inesperienze ridotte a puri eventi, rendono più problematica e complessa la soggettività di un narrare. Non v’è quotidiano e non v’è neanche eccezione che possa più porsi come esperienza: non la giovinezza di Jünger né lo struggimento per la diversità del colonnello Lawrence, né la ricerca del limite in Bataille (almeno da un punto di vista non filosofico), né l’odissea minimale nella metropoli di Dedalus o di Bloom. Voglio dire: dove può trovare origine un narrare, nell’indifferenza degli eventi?3


Nel suo intervento Calvino concorda con il suo interlocutore sull’esaurimento dell’esperienza come «segreto» dell’individualità («perché crediamo meno al fascino dell’unicità, schiacciati come siamo nell’uniformità delle esperienze quale realtà vera del “vissuto”»). E come via d’uscita da questa impasse ritiene ancora valida la soluzione dell’esperimento mentale utilizzato dalla scienza contemporanea, visto da lui come una vera e propria forma di narrazione creativa in opposizione all’impersonalità e uniformità di tante esperienze di vita:


Nel nostro secolo, le esperienze scientifiche più caratteristiche sono gli esperimenti mentali di cui parlava Einstein. Nella loro astrazione sono anche i più personali, quelli che maggiormente portano il sigillo creativo di chi li propone. Non diversamente, io credo, l’esperienza della narrativa che si basa su una costruzione astratta può risultare più corposa e sofferta di quanto sarebbe se la inseguissimo «direttamente», nel vissuto, senza tra l’altro mai più raggiungerla4.


Se Del Giudice richiama i viaggi mentali e i «falsi movimenti» di Wim Wenders, Calvino propone gli esperimenti mentali di Galileo, i «raccontini» dello scienziato-scrittore, come quello celebre del naviglio nel Dialogo o sull’origine dei suoni nel Saggiatore: «Che l’esperimento possa essere narrazione è dimostrato dal caso più evidente di un grande scienziato e grande scrittore: Galileo. Quando Galileo fa un esempio, molto spesso è un bellissimo raccontino, tanto da essere antologizzato da Enrico Falqui nella sua raccolta di prose scientifiche del Seicento italiano»5. In un momento di crisi dell’esperienza letteraria è dunque ancora Galileo il migliore esempio da proporre come emblema di individualità e unicità della narrazione.


Anche in questo caso Calvino invita a guardare più alla scienza che alla filosofia, si sente più vicino alla narrazione scientifica che a quella filosofica. Non è una novità. Da sempre infatti il mondo della filosofia (o, almeno, una parte consistente di esso) è per Calvino dominato dall’astrattezza; un mondo da cui si sente distante, e in non pochi casi persino ostile. La filosofia è come la poesia incentrata sul problema dell’essere: «La poesia è sull’essere, ed è al presente […]. C’è una dimensione presente del rapporto individuo-linguaggio, o individuo-società, che è quella della poesia; e c’è una dimensione nel tempo di questo rapporto, che è quella della narrazione»6. Ed è proprio la dimensione del tempo uno dei problemi che più tormenta la scienza contemporanea. Con una differenza però essenziale rispetto alla letteratura: se la scienza vive intensamente e contraddittoriamente la molteplicità e la problematica dei possibili, essa cerca tuttavia, per quanto può, di sottrarsene in nome di un superiore principio di unità. La letteratura, invece, «è stata sempre l’escamotage all’unicità, è stata sempre la contemplazione della molteplicità, un sistema di moltiplicazione dei possibili per esorcizzare la tragicità dell’unicità. Il fatto che la vita è una, che ogni avvenimento è uno, comporta la perdita di miliardi di altri avvenimenti, perduti per sempre. Narratore è colui che vuole sottrarsi a questo destino»7. E il narratore Calvino si era radicalmente sottratto fin dai primi anni sessanta, da quando aveva provato a raccontare il tempo suddividendolo in istanti, e ogni istante, ogni frazione di tempo, era diventato un universo a sé stante. Ma anche allora non si era trattato di un raffinato e asettico gioco scientifico-letterario, né di una sofisticata trovata intellettualistica da parte di chi non riusciva più a scrivere e aveva perduto il contatto con la realtà8, bensì di un modo di reagire alla drammaticità insita nella vita umana, di «uno sforzo di trovare la maniera migliore di abitare la tragicità»9.


2. Narrazione scientifica e narrazione storica.

Nonostante guardi all’universalità, anche la scienza può tuttavia inventare forme originalissime di narrazione: anch’essa è parola e racconto, e dunque esperienza. Con questo convincimento Calvino si discosta dalla posizione assunta in quegli stessi anni da Carlo Ginzburg e Giorgio Agamben.


Il libro di Agamben, Infanzia e storia10, viene pubblicato da Einaudi nel marzo del 1978 e, pur non essendo citato espressamente né da Calvino né da Ginzburg, entra a pieno titolo nella discussione sui fondamenti della scienza e sulla crisi della ragione. Anche la conversazione tra Del Giudice e Calvino potrebbe avere avuto come punto di partenza proprio la riflessione di Agamben sul concetto di fine dell’esperienza11.


Fin dall’inizio del suo saggio Agamben sottolinea il ruolo cruciale che l’affermazione della scienza moderna ha svolto nell’opera di distruzione dell’esperienza individuale: «Ogni discorso sull’esperienza deve oggi partire dalla constatazione che essa non è più qualcosa che ci sia ancora dato di fare»12. Sono le percezioni legate alla vita di ogni soggetto concreto a produrre quella che da sempre è stata chiamata esperienza: è il senso comune che, una volta assurto a soggetto dell’esperienza, esprime il proprio rapporto con il mondo attraverso la parola e il racconto.


Per Agamben, questo modo di porsi di fronte alla vita, che è peculiare di ciascun individuo, viene come cancellato dalla scienza moderna. Infanzia e storia parla infatti di «espropriazione dell’esperienza»13, chiamando direttamente in causa i padri fondatori della nuova scienza, Bacone, Descartes, Galileo. Con l’introduzione del concetto di esperimento, l’esperienza tradizionale, vincolata al principio dell’individualità, «quella che si traduce in massime e proverbi» ed è legata alla vita quotidiana del singolo, viene cioè spogliata completamente del suo valore. È l’oggettivazione dell’esperienza, la sua ripetibilità e misurabilità, a segnare la morte di ogni esperienza individuale: «L’esperienza è incompatibile con la certezza e un’esperienza divenuta calcolabile e certa perde immediatamente la sua autorità. Non si può formulare una massima né raccontare una storia là dove vige una legge scientifica»14.


La scienza di Galileo e Descartes rappresenta dunque il primato dell’esperimento, ovvero della negazione dell’esperienza. Quest’ultima viene depotenziata a tal punto che il soggetto concreto finisce per essere completamente esautorato nel suo rapporto con la realtà. Scrive Agamben: «Nella sua ricerca della certezza la scienza moderna abolisce questa separazione e fa dell’esperienza il luogo – il “metodo”, cioè il cammino – della conoscenza»15. L’atto della percezione che è proprio di ogni singolarità perde così ogni diritto di cittadinanza: alla molteplicità dei soggetti da cui dipende l’esperienza sensibile si sostituisce un soggetto astratto, «l’ego cogito cartesiano, la coscienza»16, l’unico che detiene il potere di «fare esperienza». Infine, l’ultimo passaggio: di contro alla nascita della scienza moderna sta Montaigne. Anche lui si occupa di esperienza, ma essa continua a essere intesa come forma dell’agire umano nella sua infinita varietà, individualità e molteplicità, indisciplinabile a qualunque ordine e legge scientifica. Montaigne è colui che resta fedele alla separazione tra esperienza e scienza, tra vita e forme, e ciò – avverte Agamben – gli consente di individuare chiaramente «il fine ultimo dell’esperienza», che si realizza nel «portare l’uomo a maturità attraverso un’anticipazione della morte in quanto limite estremo dell’esperienza»17.


Il libro di Agamben è del 1978. L’anno seguente esce Crisi della ragione, il volume curato da Aldo Gargani, che contiene un lungo saggio di Carlo Ginzburg dal titolo Spie: radici di un paradigma indiziario, incentrato sulla dicotomia tra narrazione e scienza, tra indagine storica e indagine scientifica18.


Nel recensirlo Calvino non risparmia parole di elogio «per il gran numero di idee che vi sono intessute», mettendone subito in risalto l’obiettivo primario, e cioè «la dichiarata intenzione di rappresentare un paradigma epistemologico, contrapposto a quello della scienza detta galileiana»19. La contrapposizione tra il paradigma indiziario (valido in medicina, semeiotica, scienze umane, e quindi nell’indagine storica) e il paradigma galileiano (fondato sulla generalizzazione e quantificazione dei fenomeni) è infatti quanto mai netto. Scrive Ginzburg: «La scienza galileiana […] avrebbe potuto far proprio il motto scolastico “individuum est ineffabile”, di ciò che è individuale non si può parlare. L’impiego della matematica e il metodo sperimentale, infatti, implicavano rispettivamente la quantificazione e la reiterabilità dei fenomeni, mentre la prospettiva individualizzante escludeva per definizione la seconda e ammetteva la prima solo con funzioni ausiliarie. Tutto ciò spiega perché la storia non sia mai riuscita a diventare una scienza galileiana»20. Su questo aspetto, le posizioni di Ginzburg e di Agamben sono tra loro coincidenti: la scienza moderna, fondata sulla quantificazione a oltranza, e dunque sulla geometrizzazione dello spazio, esclude dal suo ambito ogni tipo di conoscenza che poggia sull’esperienza approssimativa, e quindi ingannatrice, dei sensi21. Ma, a differenza di Agamben, per Ginzburg una tale ammissione diventa il punto di partenza per individuare i caratteri peculiari della storia come disciplina qualitativa, per rivendicarne a tutti gli effetti il valore di forma conoscitiva che si fonda su un altro paradigma, e che ha per oggetto «casi, situazioni e documenti individuali»:


La storia è rimasta una scienza sociale sui generis, irrimediabilmente legata al concreto. […] La sua strategia conoscitiva, così come i suoi codici espressivi, rimangono intrinsecamente individualizzanti (anche se l’individuo sarà magari un gruppo sociale o una società intera). In questo senso lo storico è paragonabile al medico che utilizza i quadri nosografici per analizzare il morbo specifico del malato singolo. E come quella del medico, la conoscenza storica è indiretta, indiziaria, congetturale22.


Il modello oppositivo adottato da Ginzburg è chiaro: il rifiuto della sensibilità implica necessariamente il rifiuto della singolarità, di ogni individualità concreta come oggetto della conoscenza. L’estremo riduzionismo matematico-quantitativo della scienza moderna comporta la perdita di tutto ciò che è legato e dipende dal senso comune. Le dimostrazioni «con prove matematiche o per via di senso e di sicura esperienza» evocate da Galileo non hanno nulla a che fare con il mondo della percezione e dell’immediatezza sensibile.


Calvino s’interroga sulla generalizzazione e sulla tenuta di una tale conclusione, partendo dai mutamenti che la scienza moderna ha introdotto nel concetto di esperienza. Certo, in Galileo e in Descartes non vi è più esperienza nel senso tradizionale del termine. Ma da ciò si può affermare che l’esperienza come emblema della singolarità viene completamente annullata, che scompare dall’orizzonte scientifico? Su questo punto egli non nutre le sicurezze dei suoi interlocutori:


Ma sarà poi del tutto pertinente questa contrapposizione? Proprio il nome di Galileo ci avverte che le cose non sono così semplici. L’osservatore delle macchie del sole e della luna, delle irregolarità nel moto dei pianeti, il ragionatore che non si faceva scrupolo d’accumulare prove per ridurre la Terra al rango di pianeta in mezzo agli altri, quale obiettivo poneva alla scienza se non il render conto della singolarità contro ciò che si pretendeva essere la norma, nel caso macroscopico del sistema solare visto per la prima volta nella sua individualità d’insieme d’oggetti corruttibili e asimmetrici, di contro a un paradigma razionale e armonioso di perfetta tenuta su molteplici livelli come quello aristotelico-tolemaico?23


I dubbi sollevati da Calvino si traducono in una limpida presa di posizione: questa netta separazione non vale certamente per la scienza di Galileo, ovvero per uno dei massimi artefici della nascita della scienza moderna. La scienza ammette infatti un nuovo modo di concepire l’esperienza individuale, una volta recuperata e trasfigurata a livello di esperimento mentale. Insomma, il passaggio dall’esperienza del senso comune all’esperimento non implica necessariamente la morte della narrazione. L’esperienza come segno del raccontare storie non muore con la scienza: si trasforma, cambia pelle, senza rinunciare ai propri caratteri di individualità.


Ma Calvino va oltre. Si chiede infatti quanto Galileo abbia usato nei suoi lavori il metodo galileiano: e non è affatto una domanda banale. Ciò che prima di tutto vuole capire è se la scienza nel suo farsi, quando ancora non si è cristallizzata in metodo, possa essere anch’essa indiziaria. L’esempio della scoperta galileiana delle macchie solari e delle montagne lunari risponde perfettamente a questa domanda. Si tratta di fenomeni marginali, di pure accidentalità, ma che in Galileo assumono il ruolo di dati rivelatori, capaci di cogliere una realtà più profonda. Osserva Calvino: «Ma non è questo forse il movimento proprio d’ogni sapere? Riconoscimento della singolarità che sfugge al modello normativo; costruzione di un modello più sofisticato, tale da aderire a una realtà più accidentata e spigolosa; nuova rottura delle maglie del sistema; e così via»24. È a partire da un sintomo di perturbazione, da un minimo indizio come sono appunto le macchie solari, che non rientra nel quadro normativo del modello aristotelico-tolemaico, che Galileo fornisce la spiegazione del Sole come corpo corruttibile che brucia al pari di qualunque altro fenomeno terrestre di combustione. E non è in fondo proprio la ricerca di un dettaglio, a prima vista insignificante ma che si rivela capace di scardinare ogni idea di sistema-fortezza, al centro di uno dei racconti epistemologici più belli di Calvino?


I termini della questione posta da Ginzburg finiscono così per risultare rovesciati, a tal punto che il modo di procedere dello scienziato innovatore non risulta poi molto diverso da quello utilizzato da chi fa narrazione originale: «Quel che mi preme di dire è che il racconto […] propone insieme singolarità e geometria: si dà racconto quando la singolarità dei dati si compone in uno schema, sia esso rigido o fluido. Ogni nuovo racconto è una vittoria della singolarità sullo schema già ossificato, finché un insieme di eccezioni allo schema non si configurano come schema esse stesse. Ritrovo insomma nella pratica del raccontare le stesse fasi di movimento che ho cercato di delineare poc’anzi, parlando della scienza galileiana»25. Ciò che è individuale e anomalo è indizio di una più generale e radicale trasformazione conoscitiva, e se ciò vale nella letteratura come nella storia, nondimeno vale nella scienza.


La difesa di Galileo come esempio mirabile di narratore che non rinuncia all’impiego della singolarità nella messa in crisi della scienza tradizionale sta al fondo della risposta a Ginzburg26. Calvino non avrebbe mai definito Galileo inventore del metodo scientifico, non è questa immagine a fargli mantenere un rapporto privilegiato con lui. Né, del resto, a interessarlo è il Galileo civile e militante di Brecht o di Geymonat, che pure tanta fortuna aveva incontrato a partire dalla fine degli anni cinquanta e i primi anni sessanta27. Calvino non legge Galileo come fosse un illuminista ante litteram ma come un autore letterario, nominandolo suo predecessore e maestro: non a caso vi arriva attraverso Leopardi, attraverso la lettura che ne fa Giulio Bollati nell’introduzione alla Crestomazia.


Dove c’è scienza può dunque esserci racconto. In questo modo Calvino aggiunge un altro tassello di originalità al suo canone letterario, e così facendo ha cura di mantenere aperta e viva la comunicazione tra narrazione scientifica e narrazione letteraria, rifiutando di considerare la scienza come produttrice di un linguaggio puramente autoreferenziale e che trova il suo posto accanto alla narrazione mitologica e a quella tratta dal vissuto dell’esperienza comune.


3. Alfabeti.

La recensione al saggio di Ginzburg è del gennaio 1980, la conversazione con Del Giudice risale al novembre dello stesso anno. Tre anni più tardi Calvino è nominato directeur d’études all’École des Hautes Études di Parigi, e in quella occasione torna a interessarsi di Galileo con una lezione dal titolo Science et métaphore chez Galilée.


A più riprese lavora alla preparazione del seminario di Greimas. Dai suoi Taccuini risulta che se ne occupa dal 4 al 10 marzo e poi, successivamente, il 20 e 21 novembre 198328. Sicuramente i materiali preparatori dovevano essere ben più ricchi di quelli poi confluiti nel saggio pubblicato nel 1985 col titolo Le livre de la nature chez Galilée29.


Al centro del saggio sta la metafora del libro della natura scritto in linguaggio matematico. Ma che altro di originale è possibile dire su un argomento da sempre lungamente dibattuto? La lettura che ne fa Calvino merita di essere seguita da vicino. Egli osserva: «L’apporto più nuovo di Galileo alla metafora libro-mondo è l’attenzione al suo speciale alfabeto, ai “caratteri ne’ quali è scritto”. Si può allora precisare che il vero rapporto metaforico si stabilisce, più che tra mondo e libro, tra mondo e alfabeto»30. Calvino sposta il baricentro della metafora galileiana dal libro all’alfabeto-mondo, e così facendo vuol dirci che è possibile cogliere l’infinita varietà dell’universo solo se riusciamo a munirci di un sistema di segni, ovvero (per lui, Calvino) di un sistema plurale di alfabeti che, combinando tutti gli elementi tra loro, consenta di «rappresentare la totalità del reale». È la semplicità astratta degli «elementi minimali» a determinare la loro infinita multifunzionalità, e a dar vita a un «sistema combinatorio in grado di render conto di tutta la molteplicità dell’universo»31. Galileo rientra così a pieno titolo nella tradizione combinatoria insieme a Lullo, Pico della Mirandola e Leibniz32.


A riprova di questa interpretazione Calvino accosta due celebri pagine galileiane: la prima, tratta dalle Lettere sulle macchie solari (1613); la seconda, dalla Giornata Seconda del Dialogo sopra i due massimi sistemi (1632), e in entrambe è presente il paragone con la pittura. Mentre nella prima il confronto è tra la filosofia in libris degli aristotelici e la pittura di Arcimboldo, ambedue accomunate da «strette leggi» (l’una, pronta a risolvere qualunque quesito purché la soluzione sia tratta dai testi di Aristotele, l’altra, non meno sottoposta a vincoli e obblighi, imita la natura «con l’accozzamento ora de’ soli strumenti d’agricoltura, ora de’ frutti solamente, o de i fiori di questa, o di quella stagione»)33, nella seconda, invece, è tra le lettere dell’alfabeto e i colori semplici presenti sulla tavolozza. Nel primo caso siamo in presenza di «una combinatoria di oggetti già dotati di significato»34 (testi di Aristotele, quadri di Arcimboldo), che non possono descrivere il mondo nella sua totalità; nel secondo siamo di fronte a una «combinatoria di elementi minimali»35 che però hanno la capacità di imitare tutti gli oggetti visibili.


È sull’idea dell’alfabeto come mondo che risiede dunque la vera originalità di Galileo, perché è quel nuovo e speciale alfabeto della natura che possiede le caratteristiche dell’universalità e della rapidità.


Su questo punto Calvino si dimostra lettore di Galileo attento e preparato. Dopo aver passato in rassegna alcune pagine del Saggiatore, delle Lettere sulle macchie solari e del Dialogo, la lettera all’aristotelico Fortunio Liceti del gennaio 1641 gli consente il passaggio ultimo dall’alfabeto agli oggetti visibili, dalle forme geometriche (i suoi «caratteruzzi») alle forme naturali che originano dalla combinazione di quei caratteri. «Ma io veramente stimo – scrive Galileo –, il libro della filosofia esser quello che perpetuamente ci sta aperto dinanzi a gli occhi; ma perché è scritto in caratteri diversi da quelli del nostro alfabeto, non può esser da tutti letto: e sono i caratteri di tal libro triangoli, quadrati, cerchi, sfere, coni, piramidi et altre figure matematiche, attissime per tale lettura»36. Pur essendo la natura un libro scritto in caratteri matematici, essa non è un libro di matematica ma di filosofia, anzi è l’unico vero libro di filosofia che vale la pena leggere: un passaggio chiave nella lettura che Calvino fa di Galileo, e della sua promozione a nume tutelare dell’idea di letteratura come filosofia naturale.


Tra le indicazioni bibliografiche contenute nel saggio in lingua francese, espunte nella versione italiana, Calvino rinvia anche al libro di Hans Blumenberg, Die Lesbarkeit der Welt, pubblicato da Suhrkamp nel 198137. In una lettera a Primo Levi dell’aprile 1985 Calvino lo definisce «interessantissimo» (a proposito di alcune osservazioni su Schrödinger)38. In Molteplicità, la quinta delle Lezioni americane, l’«affascinante» libro di Blumenberg si trasforma in un’ottima guida: uno dei capitoli più belli, quello intitolato «Il libro vuoto del mondo», gli servirà infatti da punto di partenza per le sue riflessioni su Mallarmé e Flaubert39. Ma si può dire lo stesso per quanto riguarda Galileo? Sebbene il tema prescelto – la metafora del libro della natura – coincida con quello trattato da Blumenberg, le considerazioni che quest’ultimo riserva allo scienziato italiano nel capitolo settimo, «I libri di Dio concordano», non vanno nella stessa direzione tracciata da Calvino. Proviamo a capire perché. Il Galileo di Blumenberg è stretto, da un lato, nella morsa di Keplero (nonostante per ambedue il libro della natura sia scritto in caratteri matematici, Galileo non prenderà mai in considerazione le orbite ellittiche dei pianeti), dall’altro entra in tensione e deve fare i conti con l’aspirazione a un sapere accessibile a tutti, che però non potrà essere realizzata per la natura stessa di quel libro, «che non può essere da tutti letto». Insomma, siamo di fronte a un Galileo minor sotto ogni punto di vista: sia rispetto a Keplero, perché incapace di realizzare l’unificazione tra fisica celeste e terrestre, sia rispetto alle sue stesse intenzioni, perché in conflitto con quell’idea di sapere pubblico e non accademico che propugnava con tanto vigore in polemica con gli aristotelici e i tanti sostenitori della magia rinascimentale40.


Rispetto a Blumenberg le considerazioni di Calvino seguono altri percorsi, sono sollecitate da altri interrogativi, e ha scarso rilievo chiedersi quanto, in tutto o in parte, siano filologicamente corrette. La costruzione dell’immagine di un Galileo combinatorio, inventore di un nuovo alfabeto della natura, sostenitore della bellezza e nobiltà dell’universo in quanto espressione della molteplicità, inesauribilità e caducità delle forme, non è un’operazione approssimativa, affidata alle armi della suggestione e dell’invenzione letteraria. Si tratta di un lavoro a lungo meditato, che giunge alla fine di un’ampia frequentazione delle opere galileiane e che si incunea nel cuore della riflessione calviniana sulla letteratura. A testimoniarlo restano, oltre agli scritti già ricordati, anche le pagine dedicate a Galileo nelle Lezioni americane.


In Rapidità Calvino riprende la metafora dell’alfabeto come sistema combinatorio già impiegata nella conferenza parigina del 1983. Ma qui la riflessione segue una direzione diversa. La straordinaria invenzione della scrittura non serve tanto da introduzione allo speciale alfabeto con cui è scolpito il libro della natura, ovvero da premessa al tema classico della geometrizzazione dello spazio. È viceversa la parte conclusiva di una serie di considerazioni sulle metafore impiegate da Galileo nel definire che cos’è «discorso» e che cosa significa «discorrere»:


«Il discorrere è come il correre»: questa affermazione è come il programma stilistico di Galileo, stile come metodo di pensiero e come gusto letterario: la rapidità, l’agilità del ragionamento, l’economia degli argomenti, ma anche la fantasia degli esempi sono per Galileo qualità decisive del pensar bene41.


Più volte, nel polemizzare con i tanti Simplicio di turno, Galileo aveva sostenuto che la correttezza di un ragionamento non risiede nel numero di autorità portato a suo favore, quanto nel rigore e nella speditezza dell’argomentazione. Galileo usava una metafora che Calvino subito riprende, facendola propria: «Se il discorrere circa un problema difficile fosse come portar pesi, dove molti cavalli porteranno più sacca di grano che un caval solo, io acconsentirei che i molti discorsi facessero più che un solo; ma il discorrere è come il correre, e non come il portare, ed un caval barbero solo correrà più che cento frisoni»42. Il passo è tratto dal Saggiatore ed è una delle foto più belle che lo scrittore potesse scattare di Galileo e che in modo impeccabile ci fa capire quanto si sentisse suo «discepolo».


Calvino non si era imbattuto per caso nel passo del Saggiatore che assurge a cifra della rapidità. È lui stesso a ricordarci di aver condotto negli scritti di Galileo un ampio studio sulla metafora:


In uno studio che ho fatto sulla metafora negli scritti di Galileo ho contato almeno undici esempi significativi in cui Galileo parla di cavalli: come immagine in movimento, dunque come strumento d’esperimenti di cinetica, come forma della natura in tutta la sua complessità e anche in tutta la sua bellezza, come forma che scatena l’immaginazione nelle ipotesi di cavalli sottoposti alle prove più inverosimili o cresciuti fino a dimensioni gigantesche; oltre che nell’identificazione del ragionamento con la corsa: «Il discorrere è come il correre»43.


«Ho contato almeno undici esempi significativi»: non dieci, o una decina, ma undici. E per dire undici, occorre compiere un lavoro accurato, metodico, scrupoloso. Al pari di Leonardo, Galileo è da considerare uno dei massimi costruttori della letteratura italiana, di una letteratura che per secoli è rimasta «senza lingua» e che nasce come una vera e propria lotta con le parole nel tentativo di afferrare con immagini e metafore pezzi sconosciuti di realtà44.


Galileo è l’inventore di un linguaggio che ha prodotto una nuova rappresentazione del mondo. È colui che per primo ha visto l’invisibile, che ha spostato il confine tra visibile e invisibile (come nel caso dei satelliti di Giove e della Via Lattea) e, nello stesso tempo, ha fatto vedere l’invisibile in ciò che già era visibile e pareva non avesse profondità e spessore (come nel caso delle macchie lunari). Vi è riuscito non soltanto mettendoci a disposizione il suo cannocchiale, ma anche perché è stato capace di descrivere, con un linguaggio che non c’era, cose che prima di lui non erano mai state descritte in quel modo.


Galileo ha mutato la natura degli oggetti. È riuscito a trasformarli – in qualche modo a farli «scomparire», facendone nascere di nuovi – perché ha assegnato loro un’altra forma fatta solo di numero, pondere et mensura: una «solidità» puramente matematica, dove «tutto il resto», tutto il di più che c’è non dipende da alcuna necessità ma dalla sola presenza umana. Per questo va contro e al di là di ogni narrazione e descrizione naturalistica. Se alla conclusione del suo progetto per una nuova costituzione dell’universo giunge a una forma di rispecchiamento tra i nomi e le cose, questo tipo di rispecchiamento è ciò che di più antinaturalistico ci possa essere.


Per queste ragioni Calvino lo considera suo maestro e suo contemporaneo, e il confronto con la sua opera si fa quanto mai necessario e stringente. È dopo la svolta delle Cosmicomiche, non prima, che Galileo diventa esempio altissimo per essere riuscito a stabilire un rapporto positivo tra scrittura e mondo.


Da qui dipende il suo successo. Ma nello stesso tempo anche il suo scacco. Perché se da un lato è riuscito a rappresentare il mondo, ovvero a dare un ordine al mondo, quello della scrittura geometrica, dall’altro ha sacrificato ed escluso parti consistenti di esso: non solo colori, suoni, sapori restano fuori, ma anche la molteplice e frammentata superficie del mondo. E a Calvino certo non basta più l’alfabeto della matematica per tentare di cogliere l’intricato groviglio che lo circonda.


4. Cannocchiali.

Munito del più potente cannocchiale del suo tempo, il signor Palomar si accinge così a descrivere il mondo, ovvero a provare a dare forma e ordine a ciò che esiste. Anche per lui, l’obiettivo più difficile non è tanto quello di rendere visibile ciò che non lo è, attraverso la scoperta di nuovi oggetti, quanto quello di rendere visibili, attraverso l’invenzione di una nuova scrittura, gli oggetti che da sempre sono sotto i nostri occhi, e che da sempre ci illudiamo di conoscere. Per avere una qualche possibilità di riuscita Palomar sceglie di procedere con un esperimento mentale: disporsi su un altro mondo e provare a descrivere quelle cose che da sempre chiamiamo tartaruga, onda, geco, come se non facessero parte di questo nostro mondo ma appartenessero a un altro universo. Per questo Palomar è il «signor Palomar», cannocchiale-uomo che da un punto dello spazio guarda il mondo come nessuno aveva fatto prima: lo stesso esperimento mentale che Galileo fece su se stesso e che lo condusse a vedere oggetti (pietre lasciate cadere da una torre, navigli, pianeti) in modo nuovo, e il loro movimento (per lui inerziale se sul piano dell’orizzonte) come un falso-movimento, uno stato al pari della quiete.


Il progetto Palomar è il tentativo estremo di trovare un ordine tra le cose, fondato sulla descrizione esatta della realtà. Calvino vi lavora per circa un decennio e la pubblicazione del libro omonimo segna la conclusione di questa esperienza. È un libro che potremmo definire di formazione, «una specie di alfabetizzazione dello sguardo»45. Scrive nel febbraio 1983: «Forse la prima operazione per rinnovare un rapporto tra linguaggio e mondo è la più semplice: fissare l’attenzione su un oggetto qualsiasi, il più banale e familiare, e descriverlo minuziosamente come se fosse la cosa più nuova e più interessante dell’universo»46. Di fronte al linguaggio che si fa sempre più astratto e artificiale, e di fronte a un mondo sempre più complesso e imperscrutabile, la scelta di Calvino è quella di un recupero della realtà attraverso la realizzazione di un progetto antiantropocentrico per eccellenza, attraverso un «qualcosa che sia lontanissimo da ogni immagine umana: un oggetto o pianta o animale in cui identificare il nostro senso della realtà, la nostra morale, il nostro io»47.


Naturalmente Calvino non gode più delle certezze che hanno guidato Galileo, e cioè che la leggibilità, pur nascosta, sia di per sé insita nel mondo, ovvero che il mondo sia un libro da leggere, che sia lì, pronto, ad attendere il suo lettore. Per Calvino il mondo è non scritto e la sfida è appunto quella di provare a trasformare in scrittura un «qualcosa» che di per sé non è predisposto a essere decifrato, né a essere ascoltato. «Scriviamo per rendere possibile al mondo non scritto di esprimersi attraverso di noi»48. La realtà esterna non è un libro già costruito e confezionato, non attende nessuno e niente, è un universo caotico, un insieme inesauribile di segni che si aggregano e si scompongono in infiniti modi. Da questo punto di vista Galileo resta un esempio irraggiungibile: di chi ha accettato la sfida postagli dal suo tempo e non ne è rimasto sconfitto perché è riuscito nell’intento di dare una forma e un ordine al mondo.


Nonostante la distanza incolmabile che c’è tra loro, nonostante lo sguardo disincantato di Calvino, Galileo fa tuttavia parte di quella eletta schiera di nuovi e antichi Persei per i quali vale la pena riannodare i fili col passato. Ed è sul terreno della scrittura e della narrazione che avviene il loro incontro. A differenza di quanto accade con Heisenberg, Planck, Dyson, Hoyle, Watson e Crick, e le molte altre letture scientifiche che costellano la sua vita di scrittore onnivoro, non sono i risultati della scienza galileiana ad appassionarlo. Ad avvincerlo è l’uso che Galileo fa dell’immaginazione come strumento scientifico, fonte capace di produrre una nuova conoscenza del mondo. Per questo motivo la sua presenza nell’universo calviniano non è contingente e non resta un fatto isolato, né deve essere interpretata come un omaggio «dovuto» da parte di uno scrittore che infatuatosi della scienza decide in un certo momento della vita di cambiare rotta.


 


1 L, p. 916.


2 La conversazione non è compresa nell’edizione Mondadori delle Opere di Calvino, anche se è presente nella Bibliografia degli scritti di Italo Calvino, a cura di L. Baranelli, RR, III, p. 1482, e ora in L. Baranelli, Bibliografia di Italo Calvino, Edizioni della Normale, Pisa 2007, p. 156.


3 I. Calvino - D. Del Giudice, C’è ancora possibilità di narrare una storia?, in «Pace e Guerra», I, novembre 1980, 8, pp. 24-6: 24.


4 Ibid.


5 «Anche ogni assioma è un racconto. Quale racconto più bello di: Si dicono parallele due linee che si incontrano all’infinito?» (ibid., p. 26).


6 Ibid.


7 Ibid.


8 «La cosa che amo di meno sono Le Cosmicomiche», ha dichiarato Cesare Cases pochi anni dopo la morte di Calvino. E Franco Fortini: «Do invece un’importanza molto minore alla serie legata all’ideologia scientistica, alle opere fantastiche, alle combinazioni di tipo struttural-linguistico. E giudico in modo molto negativo le Lezioni americane: una serie di banalità a uso degli stranieri presentate con il sistema, molto americano, delle schede fatte per gente che non ha familiarità con la nostra cultura e in un totale disprezzo della dimensione storica» (in «Wimbledon», I, 1990, 4, pp. 2-3).


9 M. Neri, Italo Calvino: vivere ogni secondo per vincere il tragico divenire, intervista, in «PM: Panorama Mese», gennaio 1985, pp. 71-4: 71.


10 Il titolo completo del saggio è Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia, Einaudi, Torino 1978.


11 Va ricordato il giudizio assai incoraggiante di Calvino sul libro di Agamben: «Giorgio l’ho visto a Roma durante le feste e mi ha dato oltre il Presepio il saggio sull’Esperienza, pieno di cose molto interessanti, che lui vorrebbe diventasse un libro» (L, p. 1361: Calvino a G. Neri, 31 gennaio 1978). Né va dimenticato che proprio in quegli anni Agamben discuteva con Calvino del progetto di una nuova rivista: «La rivista – scrive Calvino a Neri – certo è una bella cosa ma sarebbe una rivista in cui l’unico che scrive è lui Giorgio e gli altri possibili come me, te e Roscioni o Rugafiori non scriviamo mai niente. […] Il mio consiglio è che Giorgio faccia la rivista stampandola da un tipografo, potremmo tutti un po’ contribuire, e quando la rivista c’è l’editore che vuole distribuirla certo si presenterà» (ibid.). Sul significato di quel progetto è tornato di recente Agamben in un colloquio con Antonio Gnoli: «Mi pareva che Benveniste per la linguistica e Warburg per l’antropologia avessero condotto le scienze umane a urtarsi contro il loro limite, al di là del quale non potevano procedere senza chiamare in causa anche la filosofia. Il progetto di una scienza generale dell’umano e, piuttosto, di una “scienza senza nome” nasce da questa esperienza. Ed è dalle discussioni con Italo Calvino e Claudio Rugafiori intorno a questa idea che nacque anche il progetto comune di una rivista che non vide mai la luce» (in «la Repubblica», 14 maggio 2005, p. 41).


12 Agamben, Infanzia e storia cit., p. 5.


13 Ibid., p. 10.


14 Ibid., p. 11.


15 Ibid., p. 13.


16 Ibid.


17 Ibid., p. 12.


18 A. Gargani (a cura di), Crisi della ragione. Nuovi modelli nel rapporto tra sapere e attività umane, Einaudi, Torino 1979, pp. 57-106, poi raccolto in C. Ginzburg, Miti, emblemi, spie. Morfologia e storia, Einaudi, Torino 1986, pp. 158-209. Il saggio era comparso, in forma abbreviata, su «Ombre Rosse», 1979, 29, pp. 80-107. Ma anche la versione pubblicata nel volume einaudiano era considerata da Ginzburg «una stesura provvisoria» (C. Ginzburg, intervento in Paradigma indiziario e conoscenza storica: dibattito su «Spie» di Carlo Ginzburg, in «Quaderni di storia», VI, 1980, 12, pp. 2-54: 30). Nel dibattito, che si era svolto alla Casa della Cultura di Milano il 14 marzo 1980, erano intervenuti Luciano Canfora, Andrea Carandini, Giulio Giorello, Mario Rosa, Aldo Schiavone, Salvatore Veca, Mario Vegetti, Rosario Villari, Eva Cantarella e Umberto Eco. Nel numero precedente erano usciti gli interventi di Andrea Carandini e Mario Vegetti, pp. 3-18.


19 I. Calvino, L’orecchio, il cacciatore, il pettegolo, in «la Repubblica» (1980), S, II, pp. 2031-7: 2032. In proposito cfr. Belpoliti, L’occhio di Calvino cit., pp. 208-9.


20 Ginzburg, Spie cit., p. 71.


21 Citando la celebre distinzione galileiana, e cartesiana, tra qualità primarie e secondarie, Ginzburg concludeva giustamente che «con questa frase [tratta dal Saggiatore] Galileo imprimeva alla scienza della natura una svolta in senso tendenzialmente antiantropocentrico e antiantropomorfico, che essa non doveva abbandonare più. Nella carta geografica del sapere si apriva uno strappo destinato via via ad allargarsi. E certo, tra il fisico galileiano professionalmente sordo ai suoni e insensibile ai sapori e agli odori, e il medico suo contemporaneo, che arrischiava diagnosi tendendo l’orecchio a petti rantolanti, fiutando feci e assaggiando orine, il contrasto non poteva essere maggiore» (ibid., p. 73).


22 Ibid., p. 71.


23 Calvino, L’orecchio, il cacciatore, il pettegolo cit., p. 2032.


24 Ibid., pp. 2032-3.


25 Ibid., p. 2034.


26 Va detto che l’obiezione di Calvino fu attentamente considerata da Ginzburg, e in parte accolta: «Può darsi che la contrapposizione non sia in realtà così netta – rispose Ginzburg ai suoi critici – […]. Ma al di là di questo mi pare utile distinguere due strategie cognitive diverse, una volta a ricostruire la norma al di là delle anomalie individuali (il paradigma galileiano) l’altra volta invece a ricostruire le anomalie individuali (il paradigma indiziario). Va da sé che lo studio delle anomalie presuppone la conoscenza della norma; ma il fine delle due strategie rimane diverso. Forse la contrapposizione netta dei due paradigmi, quello galileiano e quello indiziario, riflette la mia insofferenza verso una consuetudine molto diffusa nella cultura (e se non erro anche nella politica) italiana, quella cioè di ricostruire larghe maggioranze smussando spigoli e angoli. Confesso di nutrire una grande simpatia per il modo di procedere di un grande pensatore molto poco italiano (nonostante le apparenze) voglio dire Niccolò Machiavelli: le cose stanno o così, o così. Esasperare le contrapposizioni mi pare utile, a scopo euristico: per le sfumature intermedie c’è sempre tempo» (C. Ginzburg, intervento, in Paradigma indiziario e conoscenza storica cit., pp. 33-4).


27 Sul Galileo di Geymonat sia consentito rinviare al mio Galileo e la cultura italiana del Novecento: Timpanaro, Banfi, Geymonat, in «Belfagor», LXI, 2006, 3, pp. 263-88.


28 Cfr. S, II, p. 2988.


29 Pubblicato per la prima volta in H. Parret - H.-G. Ruprecht (a cura di), Exigences et perspectives de la sémiotique. Recueil d’homages pour Algirdas Julien Greimas, John Benjamins, Amsterdam-Philadelphia 1985, II, pp. 683-8 (col titolo Le grand livre de la nature, in «Alliage», 1992, 13, pp. 25-30). Per la traduzione italiana, a cura di Carlo Fruttero, cfr. I. Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori, Milano 1991, pp. 102-10 (S, I, pp. 853-60).


30 I. Calvino, Il libro della natura in Galileo (1985), S, I, p. 854. In proposito cfr. Porro, Letteratura come filosofia naturale cit., pp. 271 sgg.; Bellini, «Chi cattura chi?» cit., pp. 184 sgg.; V. Zaccaro, Galileo nell’interpretazione di Italo Calvino, in M. Di Giandomenico - P. Guaragnella (a cura di), La prosa di Galileo. La lingua, la retorica, la storia, Argo, Lecce 2006, pp. 215-38.


31 Calvino, Il libro della natura in Galileo, S, I, p. 855.


32 Cfr. Id., Lezioni americane, S, I, p. 653. Sul manierismo e l’ars combinatoria in Calvino ha scritto pagine efficaci Daniele Del Giudice: «Il filone di Calvino era quello del manierismo, non nel senso negativo di arte manierata che acquisì dal Seicento in poi, ma nel senso più antico, che ebbe presso i Greci, di un’arte della phantasia (cioè, letteralmente “visionaria”) opposta all’arte della mimesis, cioè naturalistica. È il filone che da Pitagora e Plotino, da Raimondo Lullo a Pico della Mirandola ad Athanasius Kircher arriva su fino a Mallarmé e Valéry, ma anche fino a Gottfried Benn. […] A differenza del modo naturalistico, le parole non cercano di rispecchiare le cose fino a sostituirsi ad esse, prendendone il posto, non cercano di dire i sentimenti e la tensione esistenziale e il mondo sostituendosi ad esso, ma se ne stanno “esterne”, consapevoli della loro misera natura di parole e basta, con la quale però tentano di circondare la realtà, di costringerla a venir fuori per via indiretta, di stanarla, di convincerla a mostrarsi e a dirsi senza ucciderla, e avendo cura invece della sua integrità. […] Ciò spiega il perché della sua ars combinatoria, l’amore per il segno, sia esso una lettera dell’alfabeto o una carta dei tarocchi, il perché di alcune sue tematiche specifiche come quelle del labirinto, del dedalo, dei possibili, e perché la sua narrazione non poteva che impattare con la scienza, erede di quell’alchimia con cui ebbero commercio tutti i grandi manieristi» (D. Del Giudice, Calvino, lo scrittore nel suo labirinto, in «Corriere della Sera», 25 febbraio 1990, p. 3; ed. orig. Un écrivain diurne, in «Magazine Littéraire», febbraio 1990, 274, pp. 26-9: 28).


33 È un passo delle Lettere sulle macchie solari citato da Calvino (Il libro della natura in Galileo cit., p. 854).


34 Ibid., p. 855.


35 Ibid.


36 Il passo è riportato per intero da Calvino (ibid., p. 856).


37 L’edizione italiana, La leggibilità del mondo. Il libro come metafora della natura, a cura di Remo Bodei, uscirà nel 1984 per il Mulino.


38 L, p. 1534: Calvino a P. Levi, 30 aprile 1985.


39 Cfr. Calvino, Lezioni americane, S, I, pp. 723-6.


40 Cfr. Blumenberg, La leggibilità del mondo cit., pp. 93-8; Id., The Genesis of the Copernican World, Mit Press, Cambridge (Mass.)-London 1987, pp. 652 sgg.


41 Calvino, Lezioni americane, S, I, p. 666.


42 Ibid.


43 Ibid.


44 Sulla «battaglia» di Leonardo con la lingua, che Calvino ha da tempo ben presente (come dimostra l’inserimento della favola leonardiana del fuoco nell’antologia scolastica La lettura del 1969), si rinvia alle pagine di Esattezza (ibid., pp. 694-6). In proposito cfr. M. Rizzante, Calvino e la luna, in Belpoliti (a cura di), Italo Calvino. Enciclopedia cit., pp. 293-303.


45 L’espressione è di Daniele Del Giudice, in L’occhio che scrive, in «Rinascita», 20 gennaio 1984. Su Palomar cfr. almeno G. Celati, Palomar, la prosa del mondo, in «Alfabeta», aprile 1984, 59, pp. 7-8; Id., Palomar, nella prosa dl mondo, in «Nuova Corrente», XXXIV, 1987, pp. 227-42; G. C. Ferretti, Le capre di Bikini. Calvino giornalista e saggista, 1945-1985, Editori Riuniti, Roma 1989, pp. 145-53; G. Gabbi, Tre poetiche della descrizione: Perec, Calvino, Celati, in A. Battistini (a cura di), Mappe e letture. Studi in onore di Ezio Raimondi, il Mulino, Bologna 1994, pp. 467-83; M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, Einaudi, Torino 1996, cap. III; M. McLaughlin, Italo Calvino, Edinburgh University Press, Edinburgh 1998, pp. 129-44; Scarpa, Italo Calvino cit., pp. 203-7; Perrella, Calvino cit., pp. 154-65; H. R. Jauss, Il «Monsieur Teste» di Valéry e il «Palomar» di Calvino, in «Intersezioni», XVI, 1996, 1, pp. 73-93; Pilz, Mapping Complexity cit., pp. 55-81.


46 I. Calvino, Mondo scritto e mondo non scritto (1983), S, II, pp. 1865-75: 1872-3.

47 Ibid., p. 1873.

48 Ibid., p. 1875. Cfr. M. Barenghi, La forma dei desideri, in Botta - Scarpa (a cura di), Italo Calvino newyorkese cit., pp. 27-40, ora in Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini cit., pp. 109-21.

VIII. Sfuggire a un mondo di pietra: tra Lévi-Strauss, Prigogine e Stendhal

Io non faccio altro che basare la mia letteratura su una visione del mondo elaborata dalla scienza. Così come i poeti del Duecento basavano la loro sulla filosofia e scienza medievale. Così come – con maggiore o minore coscienza – hanno sempre fatto gli scrittori, riferendosi – il più delle volte inconsapevolmente – a un modello del mondo che era quello che la scienza precedente a loro aveva elaborato.


Italo Calvino a Daniela Colamasi, 19 settembre 19771.


1. Inalterabilità e dissoluzione.

Una delle prime volte che incontriamo Galileo è in Ti con zero. Le sue parole, insieme a quelle di Bataille, Sartre, Thomas Hunt Morgan, Ernest Borek, Johann von Neumann, Jacques Bossuet, sono poste come introduzione a Priscilla, la parte seconda del libro. Anzi, per essere più precisi (e per riprendere una delle immagini più belle che Calvino ha voluto lasciare di sé), le opere di Galileo e degli altri autori sono proprio quelle che Calvino-Lucrezio-Qfwfq ha dispiegate di fronte a sé, ed è intento a leggerle e a tradurle «in una specie di poema sulla vita e la morte a livello cellulare». Una sorta di De rerum natura contemporaneo, aggiornato alle ultime scoperte della scienza. Scritto però nel linguaggio che ormai gli era proprio, senza «quel clima da tragedia in versi» che negli stessi anni vivamente sconsigliava a Raffaello Brignetti2: un «sottolinguaggio» – come lui stesso amava definirlo –, «inteso a smorzare il più possibile ogni magniloquenza cosmica, ogni commozione panica»3.


Sulla sua scrivania, sovrapposti e mescolati a trattati di genetica, di biochimica, di logica, spuntano Erotisme di Bataille, uno squarcio dell’autobiografia di Sartre e del Sermon sur la mort di Bossuet, una pagina della Giornata Prima del Dialogo:


Questi che esaltano tanto l’incorruttibilità, l’inalterabilità, credo che si riduchino a dir queste cose per il desiderio grande di campare assai, e per il terrore che hanno della morte. E non considerano che, quando gli uomini fussero immortali, a loro non toccava a venire al mondo. Questi meriterebbero d’incontrarsi in un capo di Medusa, che gli trasmutasse in istatue di diaspro o di diamante, per diventar più perfetti che non sono. […] E non è dubbio alcuno che la Terra è molto più perfetta, essendo, come ella è, alterabile, mutabile; che se la fusse una massa di pietra; quando ben anco fusse un intero diamante durissimo e impassibile4.


Il brano galileiano non è tra i più celebri, non fa parte del bagaglio d’uso che ogni buon letterato è tenuto di norma a conoscere (tipo, per intenderci, la metafora del libro della natura scritto in caratteri matematici, dei sapori e dei colori che non ineriscono alle cose ma al soggetto percepiente, o quella della luna «montuosa» o del naviglio che scivola sul filo dell’orizzonte). A una prima lettura assomiglia più a un commento seicentesco in prosa del poema lucreziano che a una pagina tratta da un’opera di astronomia e di fisica. Siamo di fronte invece a una delle più rilevanti conseguenze che scaturiscono dalle scoperte astronomiche dello scienziato italiano. Le macchie solari sono la prova inconfutabile della corruttibilità dei cieli. La loro contiguità al corpo solare, a guisa di nuvole, è il segno tangibile del fenomeno di generazione, corruzione e morte che si produce quotidianamente nel cielo, anzi nel luogo da sempre ritenuto più nobile. Dunque, tutti coloro che hanno considerato attributi della perfezione l’incorruttibilità e l’immutabilità si sono sbagliati: terra e cielo non sono due mondi ontologicamente distinti, ma parti di un unico e immenso universo dominato dalla molteplicità e dalla vicissitudine.


«Il rischio che abbiamo corso è stato vivere: vivere sempre»5. Inizia così l’ultimo atto della storia di Priscilla, l’organismo unicellulare scelto da Calvino per raccontarci il processo di perenne trasformazione della materia e in cui la morte svolge il ruolo determinante di liberazione da ogni ripetizione perpetua. Ed è contro ogni idea di un mondo pietrificato che Calvino prende in prestito le parole e le immagini dello scienziato Galileo. Alla compattezza e inalterabilità del mondo preferisce la sua dissoluzione; così come, di fronte a un’astratta concezione dell’essere veicolata da tanta «nuova» filosofia, non ha dubbi nel preferire le sfide alla complessità lanciate dalle nuove scienze fisiche e biologiche.


L’immagine di un mondo pietrificato e la minaccia sempre incombente di esserne preda figureranno più volte nei suoi scritti. Prima fra tutte nelle pagine d’inizio di Leggerezza che ben conosciamo: «In certi momenti mi sembrava che il mondo stesse diventando tutto di pietra: una lenta pietrificazione più o meno avanzata a seconda delle persone e dei luoghi, ma che non risparmiava nessun aspetto della vita. Era come se nessuno potesse sfuggire allo sguardo inesorabile della Medusa»6. Anche se il richiamo non è esplicito, è difficile credere che Calvino non avesse presente il passo galileiano sopra citato, sul quale, per giunta, era tornato a riflettere poco tempo prima, nel 1983, in occasione di una lezione tenuta a Parigi al seminario di Greimas7.


Per Galileo la potenza del mito è tutta concentrata nella penetrazione visiva. Agli strenui difensori del principio di incorruttibilità e immutabilità replicava nella maniera più diretta ed efficace, augurando di assurgere all’immortalità nell’unica forma loro concessa, ovvero «d’incontrarsi in un capo di Medusa, che gli trasmutasse in istatue di diaspro o di diamante». Simmetrico è l’invito che Calvino rivolge al lettore e in primo luogo a se stesso: per sfuggire alla morsa di pietra che la vita nasconde, occorre tramutarsi nell’alato Perseo. Ciò che lo scrittore ligure tentò di fare per tutta la vita, e non tanto per suggerire o avallare «fughe nel sogno o nell’irrazionale», quanto per esperire «altri metodi di conoscenza e di verifica» di quel mondo in cui gli è toccato di vivere8.


2. Prigioni e fortezze quasi perfette.

Nell’ottobre del 1969, a due anni dall’uscita di Ti con zero9, Calvino scrive a Mario Boselli: «Il nucleo drammatico della disperazione di fronte all’invivibilità del mondo contemporaneo e dell’impossibilità di partecipazione attiva perché tutte le vie appaiono chiuse a un futuro desiderabile, risponde probabilmente alla mia posizione d’oggi»10. Siamo di fronte a una posizione che non lascia spazio a nessun atteggiamento consolatorio, a nessuna illusione nei confronti della vita, e che caratterizzerà fortemente l’intero arco della sua esistenza. Non solo: in questa lettera traccia con nettezza il punto di arrivo di un percorso personale molto ambizioso che, prendendo le mosse dalla riflessione sulla cosmologia moderna, ovvero dallo studio dei possibili modelli di universo, aveva posto le basi di un nuovo rapporto tra storia umana e storia extraumana, fino a mettere a fuoco nelle ultime pagine di Ti con zero ciò che considerava uno dei caratteri peculiari della società contemporanea:


Io credo che il finale del Montecristo sia la vera conclusione etico-gnoseologica a cui sono arrivato, cioè io vedo la progettazione congetturale della prigione assoluta come una professione di fede nella deduttività, nella necessità di costruire modelli teorici formalmente perfetti della realtà oggettiva con cui si vogliono fare i conti. (L’epistemologo che mi ha più convinto è il Popper). Dei dati dell’esperienza (i tentativi dell’Abate Faria) è pur indispensabile valersi per verificare il modello formale confrontandolo continuamente con la realtà empirica11.


Il richiamo a Popper non è casuale. L’insistenza sui due piani, quello congetturale («la progettazione congetturale della prigione assoluta») e quello della confutazione empirica («i tentativi dell’Abate Faria»), è una trasposizione in chiave fantastica di uno dei passaggi chiave dell’epistemologia popperiana. Del resto, era stato proprio Calvino nella riunione editoriale del 14 dicembre 1966 a proporre «con entusiasmo» la traduzione di alcuni saggi del filosofo12. Ma quello che più conta sottolineare è il significato totus politicus che lo scrittore attribuiva a ciò che considerava il suo «testamento gnoseologico»13: la costruzione del modello di prigione perfetta non è un’invenzione puramente letteraria, bensì ha lo scopo di evidenziare «i punti deboli della realtà empirica, cioè quelli in cui l’operare storico può trovare una breccia per andare avanti»14.


Nonostante si sia imposto da almeno una decina di anni il ruolo dell’osservatore marginale, Calvino non resta dunque indifferente alle sconfitte politiche e culturali che una dopo l’altra vede tristemente passare di fronte a sé. «Oggi che il fallimento della “nuova sinistra” è scontato – scrive amaramente a Falaschi nel novembre 1972 –, meno che mai ho voglia di venire a dire: avevo ragione io, dato che sono sconfitto come tutti gli altri. Ma mi è chiaro più di prima che immaginare il mondo come “sistema”, sistema negativo, ostile, […] impedisce ogni opposizione ad esso se non nel raptus irrazionale autodistruttivo»15. Sono considerazioni che prendono spunto dal ritratto che Falaschi gli aveva dedicato su «Belfagor» e che Calvino aveva letto con interesse soffermandosi in particolare sulle pagine relative alle Cosmicomiche e a Ti con zero16. La riflessione sul capitalismo come sistema totalizzante non è disgiunta dalla discussione sulle pagine finali di Ti con zero. Anzi, e lo ribadiva con forza, «il Montecristo nasce in questo contesto, vuole indicare il modo giusto in cui il sistema assoluto, la prigione perfetta va ipotizzata proprio per dimostrare che la prigione reale non è perfetta»17.


La lettera a Falaschi risale al novembre 1972, coeva alla pubblicazione delle Città invisibili, ed è importante non soltanto per i riferimenti puntuali a fatti e persone e per la passione civile e politica che traspare da ogni riga, ma anche perché è documento esemplare per comprendere più a fondo sia il progetto cosmicomico sia i nessi tra narrazione, società e politica18. Ha ragione Marco Belpoliti quando sottolinea che «non c’è un solo racconto o saggio che prescinda dal contesto sociale e politico in cui è stato scritto; e questo non solo negli anni Cinquanta, quando lo scrittore militava nel Partito comunista, ma anche in seguito, quando prese sempre più distanza dalla politica attiva»19. E se ciò vale nella svolta degli anni sessanta, nondimeno continua a valere nei decenni successivi. La possibilità di indicare di volta in volta una via d’uscita rappresenta infatti uno dei compiti più alti della letteratura di Calvino. Da questo punto di vista non c’è soluzione di continuità tra la fase cosmicomica, Le città invisibili e Palomar. Come ha notato Lavagetto «non è un caso che Calvino rievochi o dia ripetutamente vita e parola a figure di reclusi (il conte di Montecristo, una suora, un re in ascolto) o a personaggi inseguiti, braccati, che devono cercare una fessura o che si giocano la salvezza e la libertà su un’inezia decisiva»20. Anche se siamo di fronte a differenti forme di sperimentazione narrativa, il senso e la direzione della ricerca non mutano: essi nascono dall’esigenza di approfondire il rapporto con il mondo nel tentativo di sfuggire alla drammaticità che la vita riserva. Calvino lo farà senza che venga mai meno la sua adesione a una visione materialista dell’uomo e dell’universo; anzi, col passare degli anni, essa resterà, se non l’unica, una delle poche incrollabili certezze, contribuendo non poco a segnare profondamente i progetti futuri.


3. Storia dell’uomo e storia della materia.

Anche se manca uno studio esauriente sul materialismo di Calvino che ne colga gli aspetti più peculiari e, soprattutto, le influenze che esso ha avuto sui suoi progetti e sulla stessa idea di conoscenza scientifica, molteplici sono i riferimenti su cui potremmo fissare la nostra attenzione21. Tra questi la lettera a Sebastiano Timpanaro del 7 luglio 1970 è certamente uno dei documenti più significativi.


Calvino aveva letto con molto interesse il saggio pubblicato su «Quaderni Piacentini» dal titolo Engels, materialismo, «libero arbitrio»22, a tal punto che decideva di scrivergli una lunga lettera sulla fine del mondo, un tema affrontato da Timpanaro e anche per lui quanto mai attuale. Con Timpanaro si dice d’accordo «sulle linee generali […] così come nelle grandi linee con tutta la tua polemica materialista»23: dalla rivalutazione del materialismo engelsiano alla riflessione sul rapporto tra storia naturale e storia umana, alla critica a ogni forma di antropocentrismo e di assolutizzazione della libertà umana24. A Calvino piacciono soprattutto certe pagine in cui, attraverso le parole dell’introduzione della Dialettica della natura di Engels (ma che hanno al fondo il motivo lucreziano della fine del mondo e il pessimismo e il materialismo leopardiano)25, Timpanaro s’interroga sulla fine della specie umana e del sistema solare:


La materia, che ha come caratteristica indistruttibile il movimento, avrebbe dato luogo a nuove aggregazioni e differenziazioni, a nuovi mondi che si sarebbero prodotti, «se pur dopo milioni e milioni di anni, più o meno casualmente, ma tuttavia con quella necessità che è inerente anche al caso». E su un pianeta di uno di questi mondi sarebbero sorte di nuovo, «per un breve intervallo» della storia cosmica, condizioni favorevoli all’origine della vita organica. […] Dunque una prospettiva di «eterno ciclo», di successive distruzioni e ri-formazioni cosmiche, senza trasmissione di eredità culturale dall’una all’altra26.


È il tema della trasmissibilità dell’esperienza umana al termine della vita sul pianeta Terra che a Calvino preme di più approfondire. E lo fa sviluppando alcune considerazioni che già aveva affrontato nel racconto cosmicomico La memoria del mondo. Scrive a Timpanaro:


Basterebbe depositare con qualche sistema di proiezione a distanza una summa dello scibile umano, – uno stock di immagini di quella che è stata la vita sulla Terra, insomma tutta la nostra memoria – su di un corpo celeste neutro, spento, inabitabile, in modo da conservarla lì in luogo sicuro, come in una biblioteca o meglio come nella cripta d’una piramide, e poi ci penseranno gli altri a scoprire questo nostro messaggio globale e a decodificarlo, gli altri generi umani che riusciranno ad andare più avanti di noi nell’esplorazione del cosmo, noi l’importante è che facciamo la nostra parte di elaborare un’informazione chiara di cosa è stata l’esperienza umana, e poi gli altri si arrangino, vorrà dire che la storia umana avrà una discontinuità anche magari lunghissima, ma non si può dire che sarà perduta27.


Naturalmente l’idea di salvezza del patrimonio umano non si inscrive in nessun disegno che abbia al centro concetti quali «eternità della storia umana», «umanizzazione universale o altre balle»28. Qualunque rivendicazione di questo tipo è inammissibile: non può godere di un minimo di credibilità nella sua visione laica e materialista. Se la storia dell’uomo continua a svolgere un ruolo rilevante, ciò avviene sempre all’interno della più generale e onnicomprensiva storia della materia. La natura umana non è nient’altro che un suo efficace e perfezionato strumento, a cui è estranea qualunque forma di ragione finalistica e di provvidenzialismo (teologico o umanistico fa lo stesso). «L’uomo è un “luogo” della materia dove provvisoriamente avvengono certi processi di specializzazione che si ridistribuiranno poi in tutto ciò che esiste cioè quando si sarà compreso o ricompreso che è al lavoro dell’universo che l’uomo necessariamente collabora»29. Insomma, quello che ancora trova difficoltà a essere compreso è che «in realtà è la memoria della materia che organizza se stessa attraverso l’uomo»30.


Calvino definisce queste sue osservazioni dei «prodotti semilavorati», fatte da chi sente di non aver «più nessun discorso pubblico da fare», e come tali avrebbe voluto che fossero considerate dal suo corrispondente.


La risposta di Timpanaro non si fa attendere ed è di piacevole sorpresa. Subito gli propone di non lasciare in forma privata queste sue riflessioni: «Spero – gli scrive – che la tua lettera non finisca qui, e sia il primo abbozzo di un’operetta, satirica e serissima insieme. Un po’ mi sembra già di immaginarla: mi auguro davvero di leggerla presto stampata»31. Timpanaro, che condivide l’impianto di fondo della lettera, si sente di aggiungere solo questo avvertimento sulla natura umana:


Osserverei soltanto che disgraziatamente l’uomo è fatto in modo tale che, pur essendo nient’altro che un «luogo» della materia dove avvengono certi processi che continueranno poi in altri «luoghi», non riesce a provare piacere di ciò. Può (e deve) convincersene, può arrivare ad accettare «stoicamente» questo stato di cose, ma è ben difficile che possa godere di ciò immediatamente, con edonismo schietto, senza un faticoso esercizio di ascetismo e di sublimazione filosofica. È, in questo senso, un essere mal fatto e squilibrato: resta da vedere se la società comunista saprà riequilibrarlo in tutto e per tutto32.


Sulla conclusione, nient’affatto ironica ma serissima33, Calvino avrebbe avuto non pochi dubbi, visto che da tempo non nutriva più la speranza in un rinnovamento radicale e globale della società. Ma ciò che è più interessante notare è quanto divergenti siano le prospettive che maturano a partire da una condivisa matrice materialistica. Mentre per Calvino il rifiuto dell’antropocentrismo e la consapevolezza che l’uomo sia in primis un «luogo» della materia («un congegno di cui il mondo dispone per sapere se c’è»)34 producono originali spazi di riflessione, che nascono dal confronto aperto e continuo con le nuove scienze dell’uomo e della natura del Novecento, per Timpanaro si ha l’impressione che la battaglia a favore del materialismo serva prima di tutto a cercare un saldo punto di difesa di fronte alle minacce degenerative portate avanti dai nuovi interpreti del marxismo novecentesco e dall’insorgere di nuovi indirizzi culturali e scientifici.


Il dialogo tra i due si interrompe qui. Né tra le carte Calvino né tra quelle di Timpanaro esiste altra documentazione in proposito. Tuttavia, per comprendere meglio, seppur indirettamente, questo loro diverso atteggiamento, può aiutarci la corrispondenza Timpanaro-Ginzburg, in occasione della pubblicazione del volume Sul materialismo.


Dopo la lettura del libro, e in particolare dell’inedito capitolo quarto intitolato «Lo strutturalismo e i suoi successori», Ginzburg esprimeva senza reticenze (come, del resto, farà Timpanaro nei suoi confronti) il suo disaccordo di fondo:


Mi pare che ci sia in esso non, certo, una nostalgia per certi aspetti del pensiero ottocentesco – questo assolutamente no – ma una concezione eccessivamente difensiva del marxismo. Certo: tu hai perfettamente ragione nel polemizzare con i marxisti che corrono dietro alle ultime mode, annacquano il marxismo per conciliarlo con lo strutturalismo, la psicoanalisi ecc. (il quarto saggio è molto bello). Tuttavia mi pare che il tuo discorso sia troppo unilaterale, nel senso che tu, dopo aver sottolineato l’importanza della distinzione tra ideologia reazionaria, antimaterialista ecc. di questi indirizzi culturali (strutturalismo, psicoanalisi ecc.) trascuri poi, di fatto, il problema costituito dalle acquisizioni scientifiche ottenute da questi indirizzi. Riconosci che il problema esiste, però non lo affronti affatto […]. La mia impressione è che il problema dell’assimilazione nel marxismo o da parte del marxismo delle acquisizioni scientifiche di queste correnti culturali sia ai tuoi occhi infinitamente meno importante (oltre che meno urgente) della demistificazione delle implicazioni ideologiche reazionarie di queste correnti. Io invece penso che il primo problema sia importantissimo. Penso cioè che questo tipo di ricerche ponga (certo non sempre) un’infinità di questioni concrete nuove, con cui occorre fare i conti; e che la demistificazione ideologica non sia sufficiente35.


Timpanaro replicava da par suo, con la lucidità e il rigore morale che lo contraddistinguevano. La lunga lettera di risposta andrebbe riportata per intero sia per le argomentazioni in essa contenute (a partire dalle ironiche e taglienti osservazioni sulla presunta scientificità della psicanalisi freudiana) sia perché, man mano che si procede nella lettura, ci accorgiamo che essa assume la forma di un vero e proprio autoritratto. Eccone alcuni stralci:


Su un punto hai senz’altro ragione: cioè sul tono complessivamente «difensivo» e «passatista» del mio libro. È un limite dovuto in parte alla mia formazione, ai miei gusti arretrati anche nel campo artistico; […] in parte al fatto che, non intendendomi di nessuna delle scienze-guida della cultura novecentesca, sono in pratica costretto a battere l’accento esclusivamente sugli aspetti ideologici deteriori di questi indirizzi, e a non approfondire il discorso sulle acquisizioni scientifiche con le quali, pure, il marxismo deve fare i conti (anche se finora li ha fatti molto male, cioè lasciandosi irretire proprio nelle ideologie deteriori). Vorrei tuttavia precisare che il mio atteggiamento difensivo non riguarda tanto la purezza del marxismo, quanto l’esigenza dell’oggettività, il rifiuto di tutto ciò che di illusionistico, spiritualistico, ciarlatanesco c’è nella «rinascita idealistica» del Novecento. Per quanto riguarda la purezza, nemmeno io voglio difenderla. Io non sono affatto un marxista ortodosso, tant’è vero che sono leopardista quasi altrettanto che marxista, sono antidialettico, ho del rapporto uomo-natura una concezione che, se è lontanissima da quella dei marxisti del Novecento, non corrisponde esattamente nemmeno a quella di Marx e forse nemmeno di Engels […]. Io sono, caso mai, un marxista eterodosso la cui eterodossia va in direzione opposta a quella dei marxisti novecenteschi […]. Certo non basta nemmeno – me ne rendo ben conto – integrare Marx con Leopardi o coi materialisti del Settecento o con Darwin. Restano sempre da fare i conti con la scienza del Novecento, con le famose sue acquisizioni scientifiche. Qui, ripeto, si apre il problema della mia personale incompetenza: per questo, fin dalla prefazione, ho sottolineato il carattere ideologico-polemico, «prescientifico», del mio libro. Più oltre io non so andare: quella che sarebbe la mia «scienza professionale», la filologia classica, non serve quasi a nulla a questo scopo36.


Ho voluto soffermarmi su questo confronto ravvicinato Timpanaro-Ginzburg non solo perché mi pare una testimonianza preziosa per la natura dei problemi che affronta, ma anche perché alle origini delle obiezioni di Ginzburg vi sono – o almeno così a me pare – le medesime istanze e questioni alle quali Calvino aveva tentato, a suo modo, di far fronte a partire dai primi anni sessanta. Le vivaci discussioni che nel periodo 1968-72 intrattiene con Celati, Guido Neri, Enzo Melandri e lo stesso Ginzburg muovono infatti dall’urgenza dei problemi che nuove scienze e nuove filosofie pongono in primo piano e di fronte alle quali non è più sufficiente opporre un atteggiamento di critica ideologica. Trent’anni più tardi sarà Celati a richiamare alla memoria il clima per tanti versi irripetibile di quegli anni: «Ricordo libri d’ogni genere che gettavamo nel calderone delle nostre proposte, letture in tre o quattro lingue più il greco antico che Melandri leggeva come niente fosse. Ricordo testi di antropologia, linguistica, psicanalisi, biologia, urbanistica, teorie utopiche, teorie scientifiche, teorie letterarie, teorie sull’arte, teorie della visione, teorie sociologiche, oppure gli sviluppi delle nuove filosofie. Tutti questi libri sembravano una caverna di Alì Babà, dove riuscendo a penetrare di soppiatto avremmo trovato patrimoni inestimabili che bastavano a renderci contenti per tutta la vita»37. Siamo di fronte a una breve ma intensa stagione intellettuale, fatta di progetti comuni (ma anche di dissensi sul tipo di rivista da realizzare)38, di sollecitazioni continue, scambi epistolari, e che avrebbe dovuto concretizzarsi con la nascita di una nuova rivista di «archeologia», in cui «tutti gli scarti, tutte le cose perse per strada o eliminate dalla memoria storica […] suggerivano la necessità d’un lavoro di “restituzione del sommerso”»39. Il primo numero avrebbe dovuto contenere «reperti» di lavori in corso, e in apertura un saggio di Calvino, Lo sguardo dell’archeologo, che avrebbe spiegato le ragioni della nuova rivista40.


Nello scritto, che nasce da una discussione a più voci41, Calvino ribadisce che il «magazzino dei materiali accumulati dall’umanità»42 non è più ricomponibile entro un disegno finalistico43. Guardare con gli occhi dell’archeologo significa prima di tutto ricominciare da capo, provando a descrivere pezzo per pezzo la realtà nella sua complessità, senza la pretesa di voler spiegare o ordinare il mondo nella sua interezza, senza dipendere dalla necessità «d’intestare l’inventario dei nuovi reperti ancora a un soggetto ridefinito Uomo»44.


Ricominciare dal poco, da pezzi sparsi e frammenti: questa è la prospettiva da cui Calvino guarda ora il mondo e la letteratura. Per molti versi analogo è il percorso che sta compiendo Carlo Ginzburg. Anche il suo mugnaio non è estraneo alle discussioni del gruppo («Menocchio è anche il frammento sperduto, giuntoci casualmente, di un mondo scuro, opaco, che solo con un gesto arbitrario possiamo ricondurre alla nostra storia»)45. Anch’esso avrebbe dovuto far parte del primo fascicolo della rivista, accanto ad alcune pagine dei nuovi lavori di Calvino e Celati («un pezzo dalle città invisibili, un pezzo dal Guizzardi di Gianni, un pezzo del matto di Valesio, un pezzo del mio mugnaio»)46. L’utopia infinitesimale delle Città, ovvero la ricerca dei suoi nascosti e discontinui spazi di libertà, è l’unica difesa concreta che Calvino riesce a immaginare di fronte allo sfacelo e al caos del mondo contemporaneo: l’unico spiraglio di ottimismo che riesce a opporre al trionfo dell’entropia.


A chi leggeva le Città come un libro cupo e disperato, privo di speranza e fiducia nelle capacità dell’uomo, Calvino replicava respingendo nettamente questa interpretazione:


È un libro in cui ci s’interroga sulla città (sulla società) con la coscienza della gravità della situazione, gravità che sarebbe criminale passare sottogamba, e con una continua ostinazione a veder chiaro, a non accontentarsi di nessuna immagine stabilita, a ricominciare il discorso da capo47.


È un libro di un pessimista, non di un nichilista. La sua tenacia a «veder chiaro» dentro le pieghe della società, dentro le sue città, non lascia spazio a facili consolazioni né a generosi, ma sterili, atti volontaristici. Il giudizio negativo nei confronti di tanto spontaneismo e velleitarismo presenti nei movimenti di sinistra di allora muove appunto di qui: dalla loro sostanziale incapacità a calcolare con esattezza i rapporti di forza e a individuare concretamente i luoghi dell’agire per il cambiamento della società. Soltanto un’analisi rigorosa della realtà nei suoi molteplici aspetti può consentire un’attività politica davvero efficace. Il progetto delle Città va dunque visto anche da questa angolatura, e cioè come una riflessione e una polemica indiretta «contro un certo volontarismo campato in aria che si sente in giro in questi anni e che non può portare da nessuna parte». Scrive all’indomani delle Città invisibili:


Un avvenimento storico, grande o piccolo, ha tutto uno spessore dietro, una molteplicità di strati. Senza il senso della necessità, la volontà è assolutamente niente. […] Solo essendo coscienti al massimo dei fattori che ci determinano si può trovare lo spiraglio per sfuggire alla determinazione in senso passivo e dominarla in senso attivo. È il senso che ho voluto dare al mio racconto Il conte di Montecristo che resta ancora uno dei miei punti d’arrivo48.


Il finale delle Città riprende e sviluppa la metafora della prigione-fortezza dell’ultimo racconto di Ti con zero. Ma lo stesso potremmo dire dell’inizio. La prima pagina è infatti Il castello dei Pirenei, il quadro di Magritte che Calvino ha scelto per illustrare il suo nuovo lavoro e che possiede tutte le caratteristiche di Lalage, la città sognata da Kublai Khan. L’isola volante, come la definisce Belpoliti49, la città di pietra che assomiglia a un altro castello, all’inespugnabile Castello d’If in cui sono intrappolati Faria e Dantès. Ma la somiglianza è soltanto apparente, perché Lalage gode di «un privilegio più raro»50: della facoltà di innalzarsi in cielo grazie alla sua levità.


Riuscire a trovare di volta in volta una via d’uscita che renda meno opprimente il vivere: di questo, ancora, si tratta. Soltanto se si è perfettamente consapevoli della necessità che costringe, è possibile sfuggire al mondo di pietra che ci circonda. «La mappa della prigione perfetta e quella della fuga perfetta a prima vista sono identiche. Solo aguzzando la vista si può scoprire il punto in cui non combaciano»51. Da questo punto di vista le Città sono una diramazione e un approfondimento del progetto cosmico. Da questo punto di vista Le Cosmicomiche, Ti con zero, le Città invisibili sono la nuova trilogia di Italo Calvino: il suo nuovo tentativo per uscire dalla crisi.


Non solo. Se da un lato le Città segnano la convergenza tra l’idea di evasione di Faria-Dantès e quella di salvezza come utopia polverizzata e corpuscolare di Kublai Khan-Marco Polo, dall’altro si ricongiungono alle riflessioni sul tema delle tracce e della mathesis singularis che avevano trovato un loro primo banco di prova proprio all’interno del progetto «archeologico» e che contribuiranno, in Calvino, alla nascita delle prime descrizioni per frammenti del Signor Palomar (1975), e, in Ginzburg, alla messa in discussione di tanta parte della storiografia tradizionale.


4. La lezione di Lévi-Strauss.

Grazie alla pubblicazione dei materiali preparatori e di numerose lettere e documenti, oggi conosciamo molti particolari attorno al progetto editoriale denominato «Alì Babà». E non crediamo di sbagliare se affermiamo che si è trattato di una fase molto feconda sia per Calvino che per Celati, Neri e Ginzburg. Se quel lavoro non produsse nessun risultato concreto, è altrettanto vero che il nucleo di quelle animate discussioni non andò perduto, tant’è che certi temi considerati allora comuni non furono abbandonati, ma rielaborati e ripensati da ciascuno di loro in modo autonomo. In quegli anni, facendo leva su Benjamin, Celati osservava che «al frammentario e al discontinuo, all’escluso e al dimenticato è affidato il compito di contestare l’illusione d’uno sviluppo lineare continuo della storia umana»52. Se ciò che conta è volgere «lo sguardo su accadimenti e culture e gruppi e pratiche di cui non calcoleremmo l’esistenza, limitandoci alla selezione che la storia ha compiuto per noi», ne consegue in primo luogo la costruzione di «una scienza del passato non più basata sulla rappresentazione e l’apprezzamento, ma sull’inventario di segni minimi, di dati laterali, i quali poi accostati rimettono in questione la coscienza che il presente ha del passato»53. Per queste ragioni anche per lui la modernità sta nel guardare il mondo con gli occhi dell’archeologo, ovvero di colui che – per usare le sue parole – «coglie l’essere non come unità originaria che si ripresentifica negli aspetti mondani, ma come frammentarietà di rovine»54. Benjamin, dunque, più che Foucault55; e, insieme a Benjamin, la forte presenza di Lévi-Strauss.


Può apparire superfluo sottolineare quanto la lettura di Lévi-Strauss abbia influito nell’orientare il progetto della nuova rivista. L’omaggio e il debito riservati alle opere dell’antropologo francese sono infatti costanti: dal rinvio puntuale di Ginzburg alle pagine dell’introduzione all’Anthropologie structurale in cui si discute del rapporto tra etnografia e storia56, ai richiami a L’Homme nu, l’ultimo volume delle Mythologiques, di Celati e Calvino57. A incuriosire Calvino e a fare di lui un lettore appassionato è l’infaticabile e minuzioso lavoro di messa in ordine della realtà attraverso la scoperta dei vincoli che le diverse società producono. A interessarlo di più sono proprio quegli aspetti che, soprattutto in Italia, suscitavano le perplessità maggiori. Scrive nel 1983:


A me Lévi-Strauss interessa sempre molto, lui si distacca da tutti, a me piace proprio per gli aspetti che da noi si criticano di più, mi piace questa cristallografia della civiltà, non mi interessano quelli che lo vorrebbero conciliare con la storia, la sua verità è tutto il contrario di questo e – ora sarebbe troppo lungo spiegare – io ci credo58.


Che, per un «empirico» come Calvino, Lévi-Strauss continui a svolgere un ruolo così importante può sembrare persino paradossale (non solo negli anni sessanta, ma anche successivamente, quando la moda strutturalista era da tempo tramontata). Sono numerose le occasioni in cui esprimerà profonda ammirazione per l’antropologo francese; anzi, va osservato che a partire dalla fine degli anni cinquanta fino alla recensione del 1983 a Le regard éloigné il suo giudizio di fondo non muterà, a tal punto che a tutti gli effetti Lévi-Strauss si può considerare uno degli autori del Novecento da lui più amati.


Al di là delle banali etichette e delle fatue mode culturali alle quali è stato a lungo apparentato, Lévi-Strauss è figura eminente, «una personalità completamente a sé», «una mente sempre aperta e libera», «dallo sguardo sgombro […] che trova sempre un’angolazione nuova per raggiungere l’essenza d’ogni concetto e ogni problema»59. A colpire Calvino è prima di tutto la sua ferma determinazione a ricercare sempre una spiegazione per qualunque fenomeno, a non arrendersi mai, anche di fronte a ciò che appare quanto di più insondabile e misterioso. I miti che egli studia, con le loro impercettibili varianti e trasformazioni continue, sono anche per lui «operazioni logico-linguistiche basate su una combinatoria empirica»60, che non si lasciano racchiudere entro costruzioni astratte. Le forme di determinismo che viene scoprendo nelle società primitive come in quelle contemporanee (e che Calvino definisce forme di cristallizzazione di civiltà) non scaturiscono da schematiche applicazioni di un metodo, quanto da un’instancabile ricerca dei particolari e del loro peculiare significato. Per questi motivi agli occhi di Calvino appare prima di tutto come «l’etnologo della discontinuità», un lucido tassonomista e dissezionatore del mito che «separa la sua fluidità e densità di succhi vitali in elementi asciutti e asettici»61.


Sono posizioni che Calvino condivide pienamente e che con fermezza difende dalle critiche mosse, tra gli altri, da Roberto Calasso.


La distanza che divide Calasso da Lévi-Strauss, ovvero dalla «sua bestia nera»62, sul senso da attribuire a parole e concetti come ritualità e sacrificio, è la stessa che lo separa da Calvino, e che si traduce in un modo profondamente diverso di leggere il mito e, dunque, di interpretare e ordinare la realtà. Le pagine che nella Rovina di Kasch Calasso dedica a L’Homme nu sono una netta presa di distanza contro chi, «per anni e anni, con l’amorevole acribia di un nuovo Linneo»63, ha sempre cercato di neutralizzare e disinnescare con il pensiero analitico le commistioni vitaliste e mistiche presenti nelle diverse forme di ritualità e di sacrificio64.


Nel commentare queste pagine Calvino annota che si tratta di un «profilo fedele al vero», ma nello stesso tempo «ingiusto», che non tiene conto di «quanta onestà intellettuale vi sia in Lévi-Strauss, quanta capacità di non restare prigioniero del metodo»65. E aggiunge:


Ma quel che vorrei dire va più in là, ed è che la cultura della discontinuità, se alimentata da una sensibilità analitica sempre più esigente, può essere il solo metodo che renda ragione dell’unità dell’umano nell’unità dell’universo, e tenti di saldare ancora microcosmo e macrocosmo66.


Sono parole che fanno tornare ai primi anni settanta, al sodalizio con Celati e Ginzburg, quando la lettura di L’Homme nu si viene intrecciando al progetto delle Città e alle prime riflessioni sugli oggetti e alla mitologia dei «minutissimi dèi» che sovrintendono limitate e frammentarie zone d’ordine della vita quotidiana: «Sempre LS [Lévi-Strauss] – scrive Calvino a Celati il 12 marzo 1972 – in questo finale de L’Homme nu che è come una miniera senza fondo parla molto del morcellement, dei piccoli dèi (da Dumézil), che cercano di avvicinarsi alla continuità del vissuto, contrapposto alla mitologia dei grandi dèi, sintesi triadiche, grandi découpures del reale. È un’idea che da tempo mi gira in testa, questa della mitologia dei piccoli dèi minutissimi»67.


Refrattario a ogni linguaggio ideologico e a ogni forma di pensiero totalizzante, Calvino legge Lévi-Strauss liberandolo dalle strette maglie metodologiche in cui è solitamente costretto. L’esigenza di giungere a una rinnovata continuità e armonia tra uomo e mondo, che provi a rintracciare un filo che ci unisca alle cose, avviene così attraverso un percorso a prima vista antitetico, che procede attraverso la dissezione delle singolarità, degli oggetti nella loro individualità, ovvero attraverso ciò che Calvino chiama la «cultura della discontinuità». Se, a proposito delle diverse pratiche del rituale, Lévi-Strauss aveva parlato della necessità di procedere attraverso una suddivisione in «piccole unità distintive» che rinviassero alle molteplici «forme della vita pratica»68, anche Calvino intende ripartire da questo livello «minimo» – anzi, infinitesimale –, e non da quello monumentale evocato dai grandi miti, nel tentativo di ristabilire – come scriverà a Guido Calogero – «la continuità uomo-cose, il modo in cui la società, la cultura si riflettono nelle cose da essa prodotte»69. La sola via, per lui, capace di «costruire la città giusta, dotata di cose giuste, usabili nel modo giusto»70.


Sono temi cruciali, che investono direttamente il suo lavoro di scrittore e il suo modo di intendere la vita e la letteratura. E non è certo un caso che proprio in questo periodo Calvino ricordi che se gli fosse capitato di riscrivere il suo primo libro sulla guerra partigiana, lo avrebbe fatto in modo completamente diverso, privilegiando a livello «quasi microscopico, una situazione, un episodio minimo, un momento tra la vita e la morte»:


La storia sarebbe vista non événementielle ma attraverso tutti i reciproci influssi di fauna e di flora e di clima e di fisiologia e di tutte le cose necessarie per la sopravvivenza, armi castagne munizioni lacci da scarpe, per passare via via ai condizionamenti militari locali e a quelli dei quartieri generali alleati e tedeschi […], mettendo in luce la rete di rapporti diretti e indiretti di fatti naturali e culturali e storici con un singolo minimo episodio in cui alcuni semplici combattenti anonimi mettono in gioco le vite loro e altrui71.


La ricerca del senso della necessità da un lato, e dall’altro la scoperta dell’impercettibile, l’individuazione di spiragli esilissimi capaci di mutare il corso delle cose e della vita, e liberarci così da limiti e condizionamenti, sono aspetti tra loro convergenti e complementari. Da questo punto di vista non vi è dubbio che la lezione di Lévi-Strauss gli sia servita a dare maggiore consistenza a quella visione pulviscolare e discontinua della realtà che a partire dalle Città resta uno dei suoi punti di approdo più saldi.


5. Zone di ordine e di libertà.

Ma Le città invisibili sono anche una risposta a Monod. Per rendersene conto credo sia sufficiente leggere alcune pagine del libro che più di ogni altro esprime lo stato della condizione umana dopo le sconvolgenti scoperte di Crick e Watson: «Soltanto il caso è all’origine di ogni novità, di ogni creazione nella biosfera. Il caso puro, il solo caso, libertà assoluta ma cieca, alla radice stessa del prodigioso edificio dell’evoluzione: oggi questa nozione centrale della biologia non è più un’ipotesi fra le molte possibili o perlomeno concepibili, ma è la sola concepibile in quanto è l’unica compatibile con la realtà quale ce la mostrano l’osservazione e l’esperienza»72. Di fronte al determinismo cosmico evocato dal biologo francese, l’antropologia che ne deriva non può che essere contrassegnata dall’isolamento e dall’estraneazione. Qualunque forma di unità o nesso uomo-mondo ne esce irrimediabilmente spezzata perché qualunque organismo vivente è un sistema chiuso, incapace di ricevere istruzioni dal mondo esterno: «Occorre che l’uomo si svegli dal suo millenario sogno per scoprire la sua solitudine completa, la sua estraneità radicale. […] L’antica alleanza è infranta; l’uomo finalmente sa di essere solo nell’immensità indifferente dell’Universo da cui è emerso per caso»73. Duplice è invece la conclusione delle Città, perché duplice è il modo di abitare «l’inferno dei viventi»: «Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e sapere riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio»74.


Le Hasard et la Nécessité esce nel 1970, le Città due anni dopo. Al quadro delineato da Monod con impeccabile lucidità, Calvino non resta indifferente. Come abbiamo visto, a chi gli ricorda l’esito fortemente nichilistico del suo ultimo lavoro, reagisce respingendo con fermezza una tale infondata conclusione75. Le piccole zone d’ordine e di libertà alle quali occorre dare spazio nell’inferno in cui viviamo (e su cui, come abbiamo visto, aveva avuto modo di riflettere attraverso Lévi-Strauss) marcano la sua presa di distanza dall’immagine di un mondo che trova nel meccanicismo e riduzionismo della nuova biologia cellulare la sua cifra più inquietante. Non è un caso che alcuni anni più tardi Calvino accolga con vero sollievo e interesse (così come era accaduto leggendo Ducrocq)76 la pubblicazione di un libro che giunge a conclusioni opposte a quelle a cui era pervenuto Monod. Infatti, quando nel 1980 si pubblica La nouvelle alliance di Prigogine e Stengers, Calvino ne coglie subito le novità e l’originalità:


Come uomo la posizione di Prigogine m’interessa contrapposta a quella di Jacques Monod, che vedeva l’uomo completamente solo e sospeso tra caso e necessità nell’assoluta indifferenza dell’universo. Prigogine avanza invece l’immagine di una natura grande organismo di cui facciamo anche noi parte. È l’integrazione dell’uomo nel cosmo attraverso un intimo legame che passa per il tempo. E a questa comunione sono particolarmente sensibile. Anche se non ho il coraggio di esplicitare una filosofia, mi appassiona l’immagine di un universo unitario a cui siamo tutti chiamati a collaborare77.


Già il titolo dell’articolo che compare su «la Repubblica» del 3 maggio (No, non saremo soli) ne sottolinea il valore di evento editoriale, pari almeno a quello goduto dal libro di Monod. Anch’esso si presenta come «una meditazione appassionata sull’uomo e l’universo», ma che, a differenza del lavoro del biologo francese, «procede, se non verso un lieto fine, verso una logica in cui la organizzazione degli esseri viventi, l’uomo e la sua storia non sono affatto accidenti estranei»78. Ancora una volta è nella scienza che Calvino trova nuovi materiali di riflessione e possibili risposte alle proprie inquietudini.


La nouvelle alliance è dunque un libro che, invece di separare, unisce e apre nuovi interrogativi, e le riflessioni che suggerisce si ripercuotono ben oltre i confini della scienza:


Si sta avvicinando la fine del XX secolo e sembra che la scienza sia arrivata a formulare un messaggio più universale, un messaggio che parla dell’interazione tra l’uomo e la natura come pure tra uomo e uomo. […] Una piccola fluttuazione può dare inizio ad una nuova evoluzione che cambierà drasticamente l’intero comportamento del sistema macroscopico. Non si può sfuggire all’analogia con i problemi sociali, addirittura con la storia79.


La nascita dal caos di nuove strutture di ordine (ovvero lo studio dei processi microscopici di irreversibilità, tipici nei sistemi di non equilibrio, da cui scaturiscono impreviste forme di organizzazione) non pone soltanto intricate e avvincenti questioni di meccanica statistica o di termodinamica. Come viene sottolineato nella presentazione einaudiana, «la scienza ritiene oggi che, lungi dall’essere un’illusione, l’irreversibilità giochi un ruolo essenziale nella natura e sia all’origine di molti processi di organizzazione spontanea»80. La nuova alleanza ridisegna un universo aperto, meno «stupido», «differenziato, rischioso, improbabile»81. Rispetto allo scenario tragico di Monod, quello tratteggiato da Prigogine e Stengers è dunque più incerto, ma proprio per questo carico di opportunità, proteso verso nuove forme di integrazione tra uomo e natura, all’interno di un mondo non statico e in condizioni di perenne non equilibrio.


6. Crepe e interstizi.

La recensione al libro di Prigogine e Stengers risale ai primi di maggio del 1980. Nel marzo dello stesso anno Calvino partecipa al convegno milanese su Stendhal con una relazione dal titolo La conoscenza della Via lattea. Apparentemente i due fatti non sembrano avere nessun collegamento: la curiosità intellettuale di Calvino è tale che non sorprende vederlo al lavoro contemporaneamente su questioni e problemi appartenenti a campi così distanti.


In un’intervista pubblicata su «Paese Sera» del 19 marzo, Calvino anticipava alcuni temi della relazione, sottolineando quanto fosse cambiato il suo modo di leggere un autore come Stendhal. Lo scrittore francese non si identifica più con il poeta dell’energia vitale, che tanto lo aveva appassionato da giovane, bensì con il poeta intimo, profondo conoscitore dei fatti più minuti e delle circostanze apparentemente insignificanti82. La realtà per Stendhal – dichiara Calvino – è «puntiforme, discontinua, instabile, un pulviscolo di fenomeni non omogenei, isolati gli uni dagli altri, suddivisibili a loro volta in fenomeni ancora più minuti»83. «La sua conoscenza puntiforme […] connette il sublime con l’infimo, l’amour-passion con la marque de petite vérole, senza escludere che la traccia più oscura possa essere il segno del destino più luminoso»84. Per questo, un’opera come De l’amour deve essere letta come un vero e proprio discorso sul metodo di un nuovo tipo di conoscenza, di una scientia singularis dedita all’indagine rigorosa dei dettagli dell’esistenza. Qui risiede la vera forza e la modernità di Stendhal, a tal punto che le parole d’ordine gridate in Lucien Leuwen («Più particolari, più particolari! Non c’è verità e originalità che nei particolari») si trasformano in un’anticipazione del paradigma indiziario messo a fuoco da Carlo Ginzburg e finiscono per diventare un buon viatico per il mondo pulviscolare e caotico che abitiamo:


Proprio perché l’esistenza è dominata dall’entropia, dalla dissoluzione in istanti e in impulsi come corpuscoli senza nesso né forma, egli [Stendhal] vuole che l’individuo si realizzi secondo un principio di conservazione dell’energia, o meglio di riproduzione continua di cariche energetiche. Imperativo tanto più rigoroso quanto più egli è vicino a comprendere che l’entropia sarà comunque alla fine la trionfatrice, e dell’universo con tutte le sue galassie non resterà che un vorticare d’atomi nel vuoto85.


Sono i passi finali della relazione stendhaliana, che potevano servire altrettanto bene come incipit o come ponte per l’articolo che di lì a poco avrebbe dedicato al libro di Prigogine e Stengers. Calvino è sempre più convinto che né i filosofi, da sempre a caccia degli universali, né gli scrittori tradizionali, che «assolutizzano le passioni» senza capire invece che «sono fatte […] di minimi movimenti psicologici suddivisibili all’infinito»86, hanno molto da dire su questo mondo. Per vivere e non ridursi al silenzio, «per esprimere via via le nuove situazioni esistenziali», la letteratura come filosofia naturale, la letteratura come cosmologia, ha bisogno di mettere in campo nuove strumentazioni conoscitive, e ciò non può essere fatto ignorando la scienza.


Com’era accaduto alla fine degli anni cinquanta, Calvino continua dunque a guardare insistentemente alla scienza. Certo, l’ottimismo si è esaurito da un pezzo. Ma il suo atteggiamento di fondo non è mutato e corrisponde a chi, poggiando su una solida base materialista, è consapevole di vivere in un universo integrato, di cui l’uomo è parte e in cui la scienza svolge un ruolo determinante. «Il mondo che io abito – annota nel 1975 in occasione di un viaggio in Iran – è governato dalla scienza, e questa scienza ha un fondamento logico: il processo irreversibile che conduce l’universo a decomporsi in una nube di calore»87. Sempre più quel poco di fiducia rimastagli assume dimensioni microscopiche e s’intravede a fatica dentro crepe e interstizi. Sempre più parla di «pieghe», di «versanti in ombra», di zone fuori mano dove nessuno va e cerca, e dove invece è là che la letteratura si rifugia per sopravvivere88.


7. Forme di senso.

«Una delle voci più precise della disperazione contemporanea», dirà di lui Giulio Bollati89. Ed è una definizione quanto mai esatta, anche se parziale, che non tiene conto dell’altra faccia della medaglia (oppure che la considera implicita, da parte di chi lo conosceva bene), e cioè del suo continuo ed estremo tentativo di trovare anche nelle situazioni più difficili una qualche via d’uscita. Una delle immagini che meglio descrive con ironia ed eleganza questo suo atteggiamento esistenziale è la copertina da lui scelta per Una pietra sopra, dove un cavaliere-scrittore inseguitore-inseguito è lanciato alla ricerca di nuove immagini e di un nuovo lessico che riescano a salvarlo da un mondo di pietra che sta rotolando vorticosamente alle sue spalle e sta per raggiungerlo. Di fronte alla minaccia continua e pervasiva di restare schiacciati sotto il peso di un mondo che sempre più domina e determina ogni aspetto del vivere, per uno scrittore opporsi significa prima di tutto rifiutare il linguaggio astratto del mondo, proponendo «un altro codice, un’altra sintassi, un altro lessico»90. Il nostro mondo – sostiene Prigogine – «non è un automa, né il caos. È un mondo d’incertezza, ma anche un mondo in cui l’azione individuale non è necessariamente condannata all’insignificanza»91. Nella stessa direzione vanno le considerazioni che Calvino espone nelle Lezioni americane sul rifiuto di una vita dominata dal caso e sul senso da dare oggi alla letteratura:


L’universo si disfa in una nube di calore, precipita senza scampo in un vortice d’entropia, ma all’interno di questo processo irreversibile possono darsi zone d’ordine, porzioni d’esistente che tendono verso una forma, punti privilegiati da cui sembra di scorgere un disegno, una prospettiva. L’opera letteraria è una di queste minime porzioni in cui l’esistente si cristallizza in una forma, acquista un senso, non fisso, non definitivo, non irrigidito in una immobilità minerale, ma vivente come un organismo. La poesia è la grande nemica del caso, pur essendo anch’essa figlia del caso e sapendo che il caso in ultima istanza avrà partita vinta92.


Per sfuggire alla pietrificazione occorre essere consapevoli dei fattori che ci determinano. È una lotta impari, che non trova sintesi esaurienti e risposte definitive. Ma nonostante lo scetticismo di fondo, nonostante il suo acuto pessimismo, il realista Calvino non ha rinunciato a sfidare il volto di Medusa, continuando «caso per caso a chieder[si] e a decidere cos’è bene e cos’è male»93. «Il mio disagio – dichiarerà alla fine della sua esistenza – è per la perdita di forma che constato nella vita, e a cui cerco d’opporre l’unica difesa che riesco a concepire: un’idea della letteratura»94. Il suo Perseo ha la forma esile e sottile di uno sciame d’effimere che con un guizzo supera ogni barriera e volteggiando penetra dentro i pertugi della città-fortezza:


Noi guizziamo nel vuoto così come la scrittura sul foglio bianco e le note del flauto nel silenzio. Senza di noi, non resta che il vuoto onnipotente e onnipresente, così pesante che schiaccia il mondo, il vuoto il cui potere annientatore si riveste di fortezze compatte, il vuoto-pieno che può essere dissolto solo da ciò che è leggero e rapido e sottile95.


 


1 L, p. 1343.


2 Cfr. ibid., p. 916: Calvino a R. Brignetti, 14 febbraio 1966.


3 I. Calvino, Ti con zero, Einaudi, Torino 1967, i passi sono tratti dal risvolto di copertina, a cui si rinvia anche per il richiamo a Lucrezio.


4 G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632), cit. in RR, II, p. 273. È da notare che lo stesso identico passo figura citato da Santillana nel Prologo a Le origini del pensiero scientifico (Sansoni, Firenze 1966, p. 12), di cui Calvino conosceva certamente l’edizione originale (The Origins of Scientific Thought, University of Chicago Press, Chicago 1961). Sull’importanza di queste pagine in Calvino cfr. Pierangeli, Italo Calvino. La metamorfosi cit., pp. 174 sgg.


5 Calvino, Ti con zero, RR, II, p. 299.


6 Id., Lezioni americane, S, I, p. 632. Una lettura in parallelo di queste pagine con I sommersi e i salvati di Primo Levi viene suggerita da Belpoliti, Settanta cit., p. 112.


7 Cfr. supra, cap. VII, p. 138. Già alla fine degli anni sessanta Calvino frequentava i seminari di Greimas. È lui stesso a parlarne nella riunione del comitato editoriale del 1° aprile 1970, in concomitanza con la pubblicazione del libro di Greimas intitolato Du sens: «Sono usciti in questi giorni a Parigi un’infornata di libri di critica. Ho letto il Greimas, il Todorov, il Barthes. Io sono favorevole al Barthes: è la prima volta che c’è una critica strutturalista parola per parola sul testo breve e di Balzac. C’è fumo, ma certamente c’è anche arrosto […]. Invece la Kristeva ha una forza di manifesto letterario, ma sono le elucubrazioni teoriche che non convincono (No). Todorov ha fatto una Introduzione alla letteratura fantastica: la sua sistematica del fantastico è molto più ampia del solito. È meglio di quello che io credessi, ma non è certamente un maestro. Poi ho letto Greimas che ha pubblicato un libro di saggi. Greimas si occupa di semiologia e ha continuato il lavoro di Propp. Sono saggi molto difficili, di studio, e di una algebricità assoluta. La sua idea di fondo è che il racconto primitivo è una forma elementare di logica. Trovo molta difficoltà a parlare di lui perché frequento il suo seminario: è un logico di cui è molto difficile parlare. Questo libro si intitola Del senso e quindi va proprio alle radici del problema. Greimas è certamente un caposcuola, fumo qui non ce n’è, però i saggi sono molto ostici» (AE, Verbali, cart. 7, fasc. 489, Riunione del 1° aprile 1970).


8 Cfr. Calvino, Lezioni americane, S, I, p. 635.


9 Nel novembre 1968 Calvino aveva pubblicato La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche, che conteneva otto racconti inediti.


10 L, pp. 1061-2: Calvino a M. Boselli, 23 ottobre 1969.


11 Ibid., p. 1062.


12 «Ho letto con entusiasmo il libro di Popper, Saggi di filosofia della scienza, in polemica con l’idealismo per prove negative sperimentali contro il principio di autorità. Va fatta una scelta: specialmente della parte generale (Congetture). Cerchiamo di farci dare i diritti del taglio, e prepariamo una scelta» (AE, Verbali, cart. 5, fasc. 385, Riunione del 14 dicembre 1966). Alcuni di quei saggi furono pubblicati da Einaudi nel 1969, nella collana «Nuovo Politecnico», col titolo Scienza e filosofia. Problemi e scopi della scienza. Come Calvino precisava a Falaschi, Il conte di Montecristo, l’ultimo racconto di Ti con zero, era stato scritto nell’estate del 1967 (L, p. 1180).


13 L’espressione è in L, p. 1180: Calvino a G. Falaschi, 4 novembre 1972.


14 L, p. 1062: il corsivo è nel testo.


15 Ibid., pp. 1180-1: lettera del 4 novembre 1972.


16 Cfr. Falaschi, Italo Calvino cit.


17 L, p. 1181. E soggiungeva: «Il modello di sistema totalitario, astratto e l’empiria delle verifiche dell’Abate Faria devono operare contemporaneamente, il sistema deduttivo ha continuamente bisogno dell’esperimento induttivo che lo confermi o lo smentisca».


18 Ancora Calvino: «Io ho sempre avuto forti riserve sulla teorizzazione (francofortese-americana) del neocapitalismo come sistema totalitario. Con tutto l’interesse che anch’io ho avuto per questo capovolgimento delle parti nell’ideologia rivoluzionaria degli ultimi anni, credo d’essere rimasto con l’impronta della vecchia vulgata marxista delle “contraddizioni insanabili del capitalismo” e dell’“anarchia capitalista” […]. È questo il nodo ideologico fondamentale che mi ha tenuto lontano dalla teorizzazione di quella che sarebbe diventata la “nuova sinistra”, fin dalle origini, agli inizi degli Anni Sessanta (origini che seguivo si può dire ogni giorno lavorando in casa editrice con Raniero Panzieri, con Renato Solmi, Fortini, Cases). Dal non poter contrapporre al loro discorso un mio discorso altrettanto rigoroso e mordente nasce in fondo il mio silenzio sul piano delle affermazioni teoriche» (ibid., p. 1180).


19 Belpoliti, Settanta cit., p. 106. Su questo punto cfr. anche Id., Città visibili e città invisibili, in Ferraris - Fusco (a cura di), Italo Calvino: les mots cit., pp. 45-57. Per una diversa interpretazione cfr. A. Berardinelli, Calvino moralista. Ovvero, restare sani dopo la fine del mondo, in «Diario», VII, 1991, 9, pp. 37-58.


20 Lavagetto, Dovuto a Calvino cit., p. 96.


21 Fa eccezione il saggio di D. Scarpa, Materialismo volgare. Italo Calvino e il lavoro, pubblicato in «Sud», n.s., 2004, 3, pp. 6-7; 2005, 4-5, pp. 4-5.


22 Ora si può leggere in S. Timpanaro, Sul materialismo, III ed. riveduta e ampliata, Unicopli, Milano 1997, pp. 47-104.


23 L, p. 1081.


24 «Lo sfondo cosmico sul quale Engels proiettava la sua visione della storia umana poneva anche altri limiti al concetto di progresso. In tutti i materialismi c’è un intimo contrasto fra una spinta illuministica, fiduciosa che ogni liberazione dal mito e dal dogma, ogni acquisto di verità, sia per ciò stesso un acquisto di felicità, e l’affiorare di motivi pessimistici, che inevitabilmente risultano da una visione smitizzata della condizione umana» (Timpanaro, Sul materialismo cit., p. 70).


25 «Del pessimismo leopardiano – ricordava Timpanaro in un’intervista del 1989 – faceva parte, insieme a molti altri motivi, anche la “fine del mondo”» (cit. in G. De Liguori, Il classicista e la scienza. Nota sul «dilettantismo» filosofico di Sebastiano Timpanaro, in «Segni e comprensioni», XIX, 2005, 55, pp. 94-112: 98).


26 Timpanaro, Sul materialismo cit., pp. 72-3. Su questo saggio cfr. U. Carpi, Appunti sull’antimoderatismo di Sebastiano Timpanaro, in «Allegoria», XIII, 2001, 39, pp. 7-30: 15-24.


27 L, pp. 1081-2. «È per la fine del mondo, Müller. Lavoriamo in vista d’una prossima fine della vita sulla Terra. È perché tutto non sia stato inutile, per trasmettere tutto quello che sappiamo ad altri che non sappiamo chi sono né cosa sanno» (I. Calvino, La memoria del mondo [1967], RR, II, p. 1249).


28 L, p. 1082.


29 Ibid., pp. 1082-83.


30 Ibid., p. 1083. In proposito cfr. le osservazioni di Antonello, Il ménage a quattro cit., pp. 201-3.


31 AT, Corrispondenza, ins. I. Calvino, lettera del 16 luglio 1970.


32 Ibid.


33 A titolo di esempio, si veda la lettera a Cases del 12 maggio 1970, in cui Timpanaro esprimeva la sua salda convinzione che il comunismo avrebbe eliminato quelli che considerava «i modi di vita innaturali» che «oggi ci affliggono e ci abbreviano la vita», «dalla guerra allo sfruttamento in fabbrica all’inquinamento dell’aria» (C. Cases - S. Timpanaro, Un lapsus di Marx. Carteggio 1956-1990, a cura di L. Baranelli, Edizioni della Normale, Pisa 2004, pp. 168-9).


34 I. Calvino, Dall’opaco (1971), RR, III, p. 101.


35 Ginzburg - Timpanaro, Lettere intorno a Freud (1971-1995) cit., pp. 319-20.


36 Ibid., pp. 325-6: lettera del 5 marzo 1971, il corsivo è nel testo. E proseguiva: «E tuttavia quando ti vedo difendere con tanta passione la psicanalisi, io non posso – pur non intendendomene – non ribadire le mie forti perplessità. Non è questione di esigere che la psicanalisi sia nata già “tutta scientifica”: io ho anzi molta simpatia per le scienze inesatte (a cui appartengono anche la filologia e la storiografia e le stesse scienze biologiche e mediche). Ma il fatto è che a mio modesto parere, la psicanalisi non è scientifica nemmeno tendenzialmente; è anzi un ostacolo alla scientificizzazione della psicologia, perché tende a staccarla dalla neurofisiologia e a considerare le malattie nervose come qualcosa di radicalmente diverso dalle malattie degli altri organi e apparati e sistemi del nostro corpo. Il futuro della psicologia scientifica, per me, è rappresentato da Pavlov. Freud è un personaggio importantissimo, ma non come scienziato, bensì come creatore di un grande “mito” della borghesia decadente europea. È il fondatore di una nuova “stregoneria” necessaria ad una borghesia raffinata, che non ha più né il conforto delle religioni tradizionali né lotte politico-sociali progressiste da sostenere. Anche quello che rimane un suo grande merito – l’avere infranto il tabù del sesso – si ridimensiona molto se si considera che egli non voleva affatto, nemmeno all’interno della società borghese, rivoluzionare il costume, rendere più liberi i rapporti familiari e sessuali ecc., ma voleva adattare i sofferenti a vivere in questa società» (p. 326).


37 G. Celati, Il progetto «Alì Babà», trent’anni dopo, in Barenghi - Belpoliti (a cura di), «Alì Babà». Progetto di una rivista 1968-1972 cit., pp. 316-7. Ancora: «C’era di tutto che veniva a galla alla rinfusa: Artaud e il teatro della crudeltà, Saussure e la linguistica, Lévi-Strauss e le società primitive, Lacan e la psicanalisi, Propp e la morfologia delle fiabe, Benjamin e le sue tesi sulla storia, Foucault e l’archeologia, Deleuze e la logica della differenza, Sade e le perversioni sessuali, Nietzsche e l’opposizione tra storia monumentale e storia antiquaria, Bachtin e il carnevale, il dialogismo, etc. […]. Con Calvino ci scrivevamo quasi ogni settimana sulle nostre ultime letture; oppure, se eravamo entrambi in Italia, lui mi telefonava da Torino ogni volta che arrivava da Parigi. Ed è stato il periodo di studi più tumultuosi e caotici della mia vita, perché ci sorbivamo quantità industriali di libri e articoli, ci suggerivamo sempre nuovi titoli da leggere, come in una ricerca dove non si vede mai il fondo» (p. 316). Per un confronto serrato Calvino-Celati cfr. M. Belpoliti, Calvino, Celati e «Alì Babà», in ibid., pp. 24-51 (poi, rivisto, in Id., Settanta cit., pp. 117-45).


38 Sul diverso modello di rivista a cui pensavano Celati e Calvino ha indagato M. Barenghi, Congetture su un dissenso, in Barenghi - Belpoliti (a cura di), «Alì Babà». Progetto di una rivista 1968-1972 cit., pp. 13-23, ora in Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini cit., pp. 175-88. Scrive: «Calvino […] vede nell’impresa di una nuova rivista letteraria un’occasione per riflettere sulla presenza del pubblico nella letteratura: di quel pubblico che non ha mai trascurato o ignorato, ma che ora sente più lontano, e del quale avverte quindi la necessità di comprendere ed interpretare meglio le esigenze. Celati invece, scrittore emergente, è mosso da intenti “espressivi” […] tira avanti per la propria strada, senza curarsi troppo dei possibili destinatari della rivista; il suo intento è di esplorare implicazioni teoriche, di stabilire connessioni culturali – di fare ricerca, insomma» (p. 21). Si tratta di dissensi che risentono ovviamente di differenti formazioni e atteggiamenti culturali, e che trovano una conferma, seppur indiretta, nelle parole che Calvino pronunciava in occasione della riunione editoriale einaudiana a Rhêmes-Notre-Dame del 5 luglio 1973. Nel rispondere a una considerazione di Guido Neri sulla inarrestabile specializzazione della letteratura, Calvino osservava: «Neri ha ragione quando dice che oggi la letteratura è una disciplina specializzata, però io sento in me una certa resistenza ad accettare questo stato di fatto, a rassegnarmici. Io ho creduto sul serio alle illusioni del ’45, cioè ad una letteratura che trovasse un terreno di comunicazione con un pubblico di massa, con un pubblico nuovo, mosso da un bisogno di leggere e discutere. Era illusione di approdare oltre all’avanguardia, a una cultura letteraria popolare assolutamente moderna. Queste illusioni sono state sconfitte e io vivo questa sconfitta da allora in poi. Mi muovo nell’orizzonte letterario di oggi, e faccio la sola cosa che posso, lottare contro la sciatteria, la volgarità imperante cercando di contrapporre dei prodotti di qualità» (AE, Verbali, cart. 13, fasc. 786, p. 36).


39 Celati, Il progetto «Alì Babà», trent’anni dopo cit., p. 317.


40 Cfr. ibid., p. 320.


41 Cfr. Barenghi - Belpoliti (a cura di), «Alì Babà». Progetto di una rivista 1968-1972 cit., pp. 162-3, 319-20. Il ruolo centrale svolto da Enzo Melandri nella definizione del concetto di «archeologia» è sottolineato da G. Agamben, Archeologia di un’archeologia, in E. Melandri, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, Quodlibet, Macerata 2004, pp. XXXI-XXXV.


42 Calvino, Lo sguardo dell’archeologo, S, I, pp. 324-7: 325.


43 Sono i processi innescati dall’uomo stesso la causa di questa impossibilità: «È il genere umano dei grandi numeri in crescita esponenziale sul pianeta, è l’esplosione della metropoli, è la fine dell’eurocentrismo economico-ideologico, è il rifiuto da parte degli esclusi, degli inarticolati, degli omessi d’accettare una storia per loro fondata sull’espulsione, l’obliterazione, la cancellazione dai ruoli» (ibid., pp. 324-5).


44 Ibid., p. 325.


45 C. Ginzburg, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ’500, Einaudi, Torino 1976, p. XXV. «L’anno prima di andare a Princeton – ricorda Carlo Ginzburg – ero diventato più che mai consapevole delle implicazioni conoscitive della letteratura discutendo lungamente con due scrittori, Italo Calvino e Gianni Celati, su un progetto comune che poi non andò in porto: una rivista che avrebbe dovuto mettere insieme letteratura, filosofia, antropologia, storia. Quelle discussioni s’intrecciavano nella mia testa con la ricerca che avevo cominciato sul mugnaio friulano Menocchio» (C. Ginzburg, L’occhio dello straniero, in «Passato e presente», XII, 1994, 33, pp. 97-103: 100).


46 Barenghi - Belpoliti (a cura di), «Alì Babà». Progetto di una rivista 1968-1972 cit., p. 169: lettera di C. Ginzburg e G. Celati a Calvino, 11 maggio 1972.


47 F. Camon, Il mestiere di scrittore. Conversazioni critiche, Garzanti, Milano 1973, S, II, pp. 2774-96: 2790.


48 Ibid., pp. 2780-1.


49 Cfr. Belpoliti, Settanta cit., pp. 185 sgg. Sulle copertine di Calvino cfr. N. Leone, Le copertine di Calvino: altri mondi possibili, in «Autografo», XIV, 1998, 36, pp. 49-66. Sulle Città cfr. almeno M. Lavagetto, Le carte visibili (1973), poi in Id., Dovuto a Calvino cit., pp. 15-22; G. Celati, Il racconto di superficie, in «il Verri», V s., 1973, 1, pp. 93-114, rist. in Barenghi - Belpoliti (a cura di), «Alì Babà». Progetto di una rivista 1968-1972 cit., pp. 176-93; P. V. Mengaldo, L’arco e le pietre (Calvino, «Le città invisibili»), in Id., La tradizione del Novecento. Da D’Annunzio a Montale, Feltrinelli, Milano 1975, pp. 406-26; M. Barenghi, G. Canova, B. Falcetto (a cura di), La visione dell’invisibile. Saggi e materiali su «Le città invisibili» di Italo Calvino, Mondadori, Milano 2002; C. Segre, «Le città invisibili» e la vertigine epistemica (1994), ora in Id., Tempo di bilanci. La fine del Novecento, Einaudi, Torino 2005, pp. 99-108; M. Zancan, Le città invisibili, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, IV, t. II, Einaudi, Torino 1996, pp. 875-929; D. Scarpa, Sguardi dal ponte. «Le città invisibili» come autobiografia di un dopoguerra, in Ferraris - Fusco (a cura di), Italo Calvino: les mots cit., pp. 213-31. F. Bertoni, Realismo e letteratura. Una storia possibile, Einaudi, Torino 2007, pp. 68-78.


50 I. Calvino, Le città invisibili (1972), RR, II, p. 420.


51 Camon, Il mestiere di scrittore cit., S, II, p. 2781.


52 G. Celati, Il bazar archeologico, in Barenghi - Belpoliti (a cura di), «Alì Babà». Progetto di una rivista 1968-1972 cit., p. 204 (già pubbl. in G. Celati, Finzioni occidentali. Fabulazione, comicità e scrittura, III ed. riveduta, Einaudi, Torino 2001, pp. 202-3).


53 Ibid.


54 Ibid., p. 203.


55 In una lettera a Calvino del 24 febbraio 1972 Ginzburg affrontava la questione Foucault: «Sto leggendo finalmente (superando parecchie resistenze) l’Archéologie du savoir di Foucault. Dato che continuiamo a parlare di archeologia, penso che dovremmo dire ben chiaro che cosa accettiamo e che cosa non accettiamo del discorso di Foucault. Per me, l’archeologia che m’interessa è un discorso sulle cose, non sugli oggetti del “discorso” (in senso foucaultiano). Cioè penso a un’archeologia proprio materialistica, materialistica volgare. Invece F. contrappone alla “histoire des choses mêmes” una “histoire des objets discursifs” che sarebbe quella che vuol fare lui» (Barenghi - Belpoliti, a cura di, «Alì Babà». Progetto di una rivista 1968-1972 cit., p. 162, corsivo nel testo). Poche settimane dopo era la volta di Calvino a scrivere a Celati e a pronunciarsi su Foucault (e su Lévi-Strauss), richiamando espressamente la lettera di Ginzburg: «Forse dobbiamo soffermarci un momento per stabilire quanto dobbiamo a Foucault, per definire la nostra démarche rispetto alla sua. Da una lettera di Carlo vedo che anche lui si pone lo stesso problema e sta leggendo l’Archéologie du savoir che io mi ci sono messo più volte ma non sono mai andato avanti […]. Io con Foucault sono combattuto tra i nervi che mi fa venire per questo spettacolo discorsivo che deve metter su ogni volta e le cose intelligenti che dice. Mentre invece per LS [Lévi-Strauss] ho sempre più fiducia e ammirazione e la sua polemica coi filosofi mi convince sempre» (L, pp. 1151-2: Calvino a G. Celati, 12 marzo 1972).


56 Cfr. Ginzburg, Miti, emblemi, spie cit., p. XI.


57 Cfr. Barenghi - Belpoliti (a cura di), «Alì Babà». Progetto di una rivista 1968-1972 cit., pp. 61, 63, 158.


58 Camon, Il mestiere di scrittore cit., S, II, p. 2788. Su Calvino e Lévi-Strauss cfr. Porro, Letteratura come filosofia naturale cit., pp. 261-2; M. A. Bazzocchi, L’immaginazione mitologica. Leopardi e Calvino, Pascoli e Pasolini, Pendragon, Bologna 1996, pp. 83-5.


59 I. Calvino, Sotto gli occhi di Lévi-Strauss (1983), S, II, pp. 2067-8.


60 Ibid., p. 2071.


61 I. Calvino, La rovina di Kasch e quel che resta (1983), S, I, p. 1022.


62 Così Calvino: ibid., p. 1021.


63 R. Calasso, La rovina di Kasch, Adelphi, Milano 1983, p. 259.


64 «Nella forma del sacrificio – commenta Calasso – Lévi-Strauss intravede la massima colpa contro la cultura: “il sacrificio ricorre al paragone come mezzo per cancellare la differenza”. Sono qui evocati, testimoni muti, senza che sia pronunciato il loro nome, gli antagonisti ultimi del pensiero di Lévi-Strauss: i veggenti vedici. Nessuna forma di pensiero è per lui ripugnante come il loro infaticabile cavalcare i tre mondi dicendo “questo è quello”, senza rispettare alcun recinto tassonomico, senza accettare quelle censure che sole dovrebbero garantire il significato e qui vengono coperte ogni volta almeno di orchidee selvagge. Mentre, dietro a tutto, si profila la categoria aborrita: l’interdipendenza, ma non più di relazioni, bensì di sostanze, una rete mistica che avvolge ogni rete logica. Questo è davvero il Nemico» (ibid., p. 262).


65 Calvino, La rovina di Kasch e quel che resta, S, I, p. 1022. Così Lévi-Strauss rispondeva ai suoi numerosi critici: «Io non sottovaluto l’importanza della vita affettiva. Rifiuto soltanto di assumere nei suoi confronti un atteggiamento rinunciatario e di abbandonarmi in sua presenza a quella forma di misticismo che proclama il carattere intuitivo e ineffabile dei sentimenti morali ed estetici e giunge talvolta a sostenere che essi illuminano la coscienza indipendentemente da qualsiasi apprensione del loro oggetto da parte dell’intelletto […]. Per contro io mi propongo di scoprire, dietro le manifestazioni della vita affettiva, l’effetto indiretto di alterazioni intervenute nel corso delle operazioni dell’intelletto, più che riconoscere nelle stesse operazioni dell’intelletto dei fenomeni secondari rispetto all’affettività» (C. Lévi-Strauss, L’uomo nudo. Mitologica 4, trad. di E. Lucarelli, Il Saggiatore, Milano 1974, p. 629).


66 Calvino, La rovina di Kasch e quel che resta, S, I, p. 1022: mio il corsivo. Calasso tornerà a discutere con Calvino, e con la sua recensione a La rovina di Kasch (a proposito del rapporto tra comunità e tecnica o, come aveva osservato Calvino, sulle «fonti avvelenate del moderno», p. 1018), molti anni più tardi (La letteratura e gli dèi, Adelphi, Milano 2001, pp. 54, 167).


67 L, p. 1151: Calvino a G. Celati, 12 marzo 1972. Il rinvio a Lévi-Strauss non presenta difficoltà: «Quali possono essere le ragioni profonde di questo sistematico ricorrere, da parte del rituale, ai due procedimenti complementari del frazionamento (morcellement) e della ripetizione? I celebri lavori dedicati alla religione romana arcaica da G. Dumézil fanno luce su questo problema e consentono di proporne la soluzione. Lo studioso distingue infatti gli dèi romani in due categorie: da una parte le divinità maggiori, poco numerose, costituite da triadi di opposizioni distinte, ciascuna responsabile di un aspetto dell’ordine dell’universo, insiemi funzionali il cui rapporto con altri insiemi funzionali ricostituisce la struttura globale del mondo e della società; dall’altra parte una pleiade di divinità minori che la loro stessa molteplicità permette di assegnare ad altrettante determinate fasi del rituale o alle successive tappe, minuziosamente distinte le une dalle altre, di questa o quella forma della vita pratica, come i periodi e le varie operazioni dell’agricoltura e dell’allevamento del bestiame, con tutti i riti a esse collegati, e forse anche i rischi del parto» (Lévi-Strauss, L’uomo nudo cit., p. 636). Ma già in uno dei suoi primi lavori, Les structures élémentaires de la parenté (Puf 1949; nuova ed. riveduta e corretta 1967; ed. italiana a cura di A. M. Cirese e L. Serafini, Feltrinelli, Milano 1969) Lévi-Strauss parlava di «isole» d’ordine. A questo proposito, conversando con Didier Eribon, osservava: «Penso semplicemente che in questa vasta zuppa empirica, se mi passa l’espressione, in cui regna il disordine, si formano qua e là delle isole di organizzazione. La mia storia personale, le mie scelte scientifiche, hanno fatto sì che mi interessassi a questi particolari piuttosto che al resto […]. Per parte mia ho scelto di concentrarmi su alcuni ambiti, anche piccolissimi, nello studio dei quali è possibile introdurre un po’ di rigore» (C. Lévi-Strauss - D. Eribon, Da vicino e da lontano. Discutendo con Claude Lévi-Strauss, Rizzoli, Milano 1988, p. 147). Sul tema dei «piccoli dèi» in Calvino si veda il saggio di M. Barenghi, Gli oggetti e gli dèi. Appunti su una metafora calviniana (1996), ora in Id., Italo Calvino, le linee e i margini cit., pp. 211-27.


68 Lévi-Strauss, L’uomo nudo cit., p. 635.


69 L, p. 1341: lettera del 19 settembre 1977.


70 I. Calvino, Gli uomini giusti con le cose giuste, in «Corriere della Sera», 15 agosto 1977, L, p. 1343.


71 Camon, Il mestiere di scrittore cit., S, II, pp. 2778, 2780.


72 J. Monod, Il caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea, II ed., Mondadori, Milano 1971, pp. 95-6.


73 Ibid., p. 143.


74 Calvino, Le città invisibili, RR, II, pp. 497-8. Nel commentare questa pagina Asor Rosa osserva: «La creazione del mito serve dunque non a cancellare l’inferno e il mostro, ma a difendersene con gli unici strumenti a disposizione dell’uomo, e cioè fantasia e ragione» (Stile Calvino cit., p. 125).


75 Cfr. supra, cap. VIII, pp. 150-3.


76 Cfr. supra, cap. III.


77 Neri, Italo Calvino: vivere ogni secondo cit., pp. 73-4. Su questo punto cfr. Porro, Letteratura come filosofia naturale cit., pp. 273-4.


78 I. Calvino, No, non saremo soli (1980), S, II, pp. 2038-44: 2039, 2043.


79 I. Prigogine - I. Stengers, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, nuova ed. a cura di P. D. Napolitani, Einaudi, Torino 1993, pp. 9, 16.


80 Ibid., il passo figura in quarta di copertina.


81 Calvino, No, non saremo soli, S, II, p. 2044.


82 Cfr. D. Del Giudice, Stendhal, un uomo che avrebbe voluto essere un altro, intervista a I. Calvino, in «Paese Sera», 19 marzo 1980. Su Calvino e Stendhal cfr. il bel saggio di D. Scarpa, Dalla musica che trascina al silenzio degli spazi. Calvino lettore di Stendhal, 1955-1980, in «Nuovi argomenti», n.s., VII, 1999, pp. 196-223. Cfr. anche M. Schilirò, Le memorie difficili. Saggio su Italo Calvino, Cuecm, Catania 2002, pp. 121 sgg.


83 I. Calvino, La conoscenza della Via lattea (1980), S, I, pp. 942-58: 943.


84 Ibid., p. 949.


85 Ibid., p. 958. Il riferimento a Stendhal come «precursore» del paradigma indiziario è a p. 948. Si veda anche C. Ginzburg, L’aspra verità. Una sfida di Stendhal agli storici, in Id., Il filo e le tracce. Vero falso finto, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 167-84.


86 Del Giudice, Stendhal cit.


87 Calvino, Collezione di sabbia, S, I, p. 620.


88 E ciò segna sempre più la distanza da qualsiasi idea foureriana di società futura: «Chiuso il libro, Fourier non mi segue […]. Mi sono reso conto che appena avevo saldato questo debito d’ammirazione che avevo per lui, ogni passo che facevo era per allontanarmi. […] Il meglio che m’aspetto ancora è altro, e va cercato nelle pieghe, nei versanti in ombra, nel gran numero d’effetti involontari che il sistema più calcolato porta con sé senza sapere che forse là più che altrove è la sua verità» (I. Calvino, Quale utopia?, 1973, in Id., Una pietra sopra, S, I, p. 314). Negli stessi anni anche Rossana Rossanda stava lavorando su Fourier, ma con scarso entusiasmo e senza che diventasse, come invece fu per Calvino, un punto di passaggio importante, anche se in negativo. Scrive a Bollati il 16 aprile 1970: «Ora ho in corso una scelta, introduzione e traduzione di Fourier per una serie diretta da Lelio Basso; discorrendo con Calvino, ho scoperto che facciamo tutti e due il medesimo lavoro. Tuttavia mi stufa un po’ fare soltanto queste cose, e torno a vedere con te se e come è possibile “produrre” qualcosa di diverso, o avere un tipo di collaborazione costante con voi» (AE, Corrispondenza, R. Rossanda, cart. 181, fasc. 2626). Quattro anni dopo, accanto a vari progetti e lavori «pensati» e mai realizzati, c’è ancora «un Fourier che mi annoia e una “rivoluzione” che non so come scrivere» (ibid., lettera a G. Bollati, 30 aprile 1974).


89 G. Bollati, Calvino (anche) editore, in «Micromega», 1991, 1, pp. 203-13: 210, poi col titolo Calvino editore, in Clerici - Falcetto (a cura di), Calvino & l’editoria cit., pp. 1-17: 13.


90 Calvino, Quale utopia, S, I, p. 310. «Leggere Calvino – ha scritto Mario Barenghi – per me significa (ma spero non per me solo) sentirmi, di fronte a questo mondo non scritto così insensato, così aggrovigliato ed enigmatico, così difficile da interpretare, un po’ meno inerme» (Barenghi, La forma dei desideri cit., p. 120).


91 Cit. in M. Galzigna, Ilya Prigogine, in G. Gembillo - M. Galzigna, Scienziati e nuove immagini del mondo, Marzorati, Milano 1994, p. 195.

92 Calvino, Lezioni americane, S, I, pp. 687-8.

93 L, p. 1407: Calvino a L. Lombardo Radice, 13 novembre 1979.

94 Calvino, Lezioni americane, S, I, p. 679.

95 Id., Le effimere nella fortezza, in Id., Collezione di sabbia, S, I, p. 487.