lunedì 30 settembre 2024

IL LADRO ONESTO di Fëdor Dostoevskij

 



Recensione

 Dostoyevsky riproduce bene in questa storia lo stile primitivo e sincero di un uomo di popolo. L'idea principale della storia è la gentilezza modesta e sincera di un essere semplice. Il sottufficiale, povero lui stesso, prova un profondo rammarico quando si accorge che Emelia glielo ha rubato, ma non lo rimprovera per delicatezza perché è anche un essere sensibile e delicato. Per debolezza ha commesso un furto ma vorrebbe riscattarsi lavorando per il suo benefattore. Alla fine soccombe più al rimorso che alla malattia.

IL LADRO ONESTO

Una volta, un mattino, quando ero ormai del tutto pronto per andare in ufficio, entrò nella mia stanza Agrafëna, la mia cuoca, lavandaia e governante, e attaccò discorso.


Era stata fino ad allora una donna taciturna e semplice, non si era spinta mai oltre le due parole quotidiane su cosa cucinare per il pranzo, e in sei anni non aveva quasi aperto bocca. O perlomeno io non l’avevo mai sentita aprire bocca.


«Eccomi signore, mi rivolgo a voi,» cominciò tutt’a un tratto «per sapere se non affittereste la cameretta...»


«Quale cameretta?»


«Ma quella accanto alla cucina, si sa.»


«Come mai?»


«Come mai! Per la ragione per cui si prendono inquilini in casa. Perché se no?»


«Ma chi l’affitterebbe?»


«Chi l’affitterebbe! Un inquilino la prenderebbe in affitto. Chi se no?»


«Ma là, madre santa, non si riesce neppure a sistemare un letto. Lo spazio sarà troppo angusto. Chi potrebbe mai viverci?»


«E chi dice che bisogna viverci! È sufficiente avere da dormire. Vivrà sulla finestra.»


«Su quale finestra?»


«Come se non lo sapeste! Su quella che c’è in anticamera. Se ne starà seduto a scrivere, a cucire o a fare altro. Magari si sistemerà sulla sedia. Ha una sedia e anche un tavolo; non gli manca niente.»


«E chi sarebbe?»


«Ma è una brava persona, un uomo navigato. Io gli preparerò da mangiare. E per l’alloggio e il vitto gli chiederò solo tre rubli d’argento il mese...»


Finalmente, dopo lunghi sforzi, seppi che un uomo di una certa età era riuscito in qualche modo a persuadere Agrafëna ad ammetterlo nella sua cucina, come inquilino e parassita. Quando ad Agrafëna veniva un’idea in mente, bisognava a tutti i costi lasciarla fare; altrimenti ormai sapevo che non m’avrebbe lasciato in pace. Quando qualcosa non le andava a genio si faceva subito pensierosa e sprofondava in una cupa malinconia, conservando questo stato d’animo per due o tre settimane. In quel frattempo il cibo si guastava, la biancheria veniva a mancare, i pavimenti non erano lavati, insomma, accadevano molte cose sgradevoli. Avevo da tempo notato che questa donna silenziosa non era in grado di prendere una decisione né di soffermarsi su un pensiero che fosse esclusivamente suo. Ma se nella sua debole mente, per qualche imprevedibile ragione, si stava ormai delineando qualcosa di simile a un’idea, a un’iniziativa, impedirne la sua realizzazione sarebbe stato come ucciderla moralmente. E perciò, dato che amavo la tranquillità più di tutto al mondo, acconsentii senza indugio.


«Ma ha almeno un documento di identità, un passaporto o qualcosa del genere?»


«Come no! Certo che l’ha. È una brava persona, un uomo navigato. Ha promesso di dare tre rubli.»


L’indomani stesso, nel mio modesto appartamento da scapolo, compariva un nuovo inquilino; ma io non mi sentivo irritato, anzi ne ero persino felice per me stesso. Vivevo da sempre isolato, come un vero eremita. Di conoscenti non ne avevo quasi; uscivo di rado. E dieci, quindici anni e forse più di isolamento, a tu per tu con Agrafëna, nel mio appartamento da scapolo, non erano certo una prospettiva troppo allettante! Quindi in quello stato di cose una persona in più, e anche quieta, fu come una benedizione del Cielo!


Agrafëna non aveva mentito: il mio inquilino era un uomo navigato. Dal passaporto risultò che era un soldato in congedo, ma questo io lo scoprii, anche senza guardare il passaporto, fin dalla prima occhiata. Fu facile accorgersene. Astafij Ivanovič, il mio inquilino, era uno dei migliori tra loro. Vivevamo bene insieme. Ma la cosa più bella erano gli episodi e le storie della sua vita che sapeva talora raccontare. E con il tedio della mia esistenza di allora, un simile narratore era semplicemente un tesoro. Una volta mi raccontò una di queste storie. Essa mi fece una certa impressione. Ma ecco in che circostanza avvenne.


Una volta restai solo nell’appartamento, Astafij e Agrafëna erano in giro per i loro affari. A un tratto sentii entrare qualcuno nella seconda stanza e mi sembrò un estraneo; uscii: nell’anticamera c’era effettivamente uno sconosciuto, un uomo di bassa statura, in finanziera, nonostante il tempo freddo e autunnale.


«Che cosa cerchi?»


«L’impiegato Aleksandrov abita qui?»


«Non c’è nessuno qui con quel nome, fratello; addio.»


«Come mai il portinaio ha detto che era qui?» disse il visitatore, arretrando prudentemente verso la porta.


«Vattene, fratello, vattene; va’ via.»


Il giorno seguente, dopo pranzo, mentre Astafij Ivanovič mi misurava la finanziera che stava rimodernando, di nuovo qualcuno entrò in anticamera. Dischiusi la porta.


Il signore del giorno prima, sotto i miei occhi, sfilò con tutta calma dall’appendiabiti il mio mantello, se lo ficcò sotto il braccio e si precipitò fuori dall’appartamento. Agrafëna, che era rimasta per tutto il tempo con la bocca spalancata per lo stupore, non aveva fatto nulla per difendere il mio mantello. Astafij Ivanovič si lanciò all’inseguimento del furfante, e dopo dieci minuti tornò tutto affannato. L’uomo era sparito, svanito nel nulla.


«Che disdetta, Astafij Ivanyč! Meno male che vi è rimasto almeno il cappotto! Altrimenti vi avrebbe lasciato proprio nelle peste!»


Ma Astafij Ivanovič sembrava così colpito dall’accaduto che, guardandolo, mi dimenticai persino del furto. Non riusciva a riprendersi. Ogni minuto abbandonava il lavoro che stava facendo e ricominciava a raccontare l’episodio, com’era accaduto, come lui si era trovato lì proprio a due passi e sotto i suoi occhi era stato preso il mantello, e tutto aveva preso una piega tale per cui alla fine era risultato impossibile acchiappare il ladro. Poi riprendeva il lavoro, per abbandonarlo subito dopo, e io lo vidi andare dal portinaio per raccontargli l’accaduto e redarguirlo perché nel suo palazzo accadevano fatti simili. Dopo di che tornò e prese a rimproverare anche Agrafëna. Poi si rimise al lavoro, brontolando ancora a lungo tra sé su come era avvenuto tutto il misfatto e su come noi ci fossimo trovati lì a due passi, e il mantello fosse stato preso sotto i nostri occhi, e così via. Insomma, Astafij Ivanovič, pur sapendo fare il suo lavoro, era un uomo davvero meticoloso e un faccendone.


«Ce l’hanno fatta, Astafij Ivanyč» gli dissi la sera, mentre gli porgevo un bicchiere di tè, e, annoiandomi, lo spinsi a raccontare ancora una volta della scomparsa del mantello; a forza di essere continuamente ripetuto, e grazie alla profonda sincerità del narratore, il racconto aveva finito col divenire assai comico.


«Eh, sì, ce l’hanno fatta, signore! Mi fa davvero rabbia, mi infurierei anche se non fosse mio il mantello che è sparito. Per me non ci sono al mondo canaglie peggiori dei ladri. C’è chi prende senza faticare, ma un ladro ruba il frutto del tuo lavoro, del tuo sudore, del tuo tempo... Che schifo, puah! Fa così rabbia che non viene voglia neppure di parlarne. Come mai, signore, non vi rincresce per la vostra roba?»


«Già, è vero, Astafij Ivanyč. Sarebbe meglio lasciar bruciare un oggetto piuttosto che cederlo a un ladro, questo non lo si vorrebbe mai!»


«E chi lo vorrebbe! Certo, ci sono ladri e ladri... Ma a me, signore, è successo una volta di imbattermi in un ladro onesto.»


«Come in un ladro onesto? Come può un ladro essere onesto, Astafij Ivanyč?»


«Eppure, signore, è la verità. Quale ladro può mai essere onesto? Non ve ne sono di ladri onesti. Intendevo solo dire che vi era un uomo che sembrava onesto e che tuttavia ha rubato. Una vera pena.»


«Ma come successe, Astafij Ivanyč?»


«Successe due anni fa, signore. Allora mi capitò di restare senza lavoro per quasi un anno, ma quando ancora avevo un posto, con me fraternizzò un uomo finito. Fraternizzammo in una bettola. Era un ubriacone, un poco di buono, un parassita, aveva prestato servizio in passato da qualche parte, ma era stato cacciato per la sua ubriachezza. Un tipo talmente indecoroso! E girava con indosso chissà cosa! A volte ci si chiedeva se avesse persino qualcosa sotto il cappotto; si beveva tutto quel che gli capitava. Tuttavia non era un attaccabrighe: era di indole mite e così affettuoso, buono, e non chiedeva mai l’elemosina, ne aveva vergogna: quando vedevi che il poveretto aveva voglia di bere, gli offrivi un bicchiere. E fu così che fraternizzammo, cioè che lui si attaccò a me... a me non importava. Che uomo era! Ti si affezionava come un cane, facevi un passo, e lui dietro; e ci eravamo visti solo una volta; quel mingherlino! Da principio mi chiedeva il permesso di pernottare e io glielo accordavo; avevo visto il suo passaporto ed era in ordine. Era come se non ci fosse! Poi lo lasciai pernottare da me anche il giorno seguente, e quello dopo ancora, e l’intera giornata rimase seduto sulla finestra; restò pure a dormire. Ebbene, pensavo, deve essersi proprio affezionato a me: e bisogna dargli da bere, da mangiare, e anche da dormire. È così che un pover'uomo si ritrova anche un parassita sulle spalle! E prima di venire da me, andava da un impiegato, si era attaccato a lui, si ubriacavano sempre insieme; e l’impiegato divenne un ubriacone e morì per un dispiacere. Il nostro si chiamava Emelej, Emel’jan Il’ič. Non facevo che pensare a come fare con lui. Di scacciarlo, mi vergognavo, mi rincresceva: un uomo così misero, così alla deriva, nelle mani di Dio! E così muto, non chiedeva nulla, se ne stava seduto e ti guardava negli occhi come un cagnolino. Ecco come il vizio del bere distrugge l’uomo! Pensavo fra me: ‘Come potrò dirgli: vattene, Emel’januška, va’ via; qui non hai nulla da fare; sei capitato dalla persona sbagliata; presto non avrò nulla neppure io da mettere sotto i denti, come potrò mantenerti?’. Stavo seduto e pensavo a come avrebbe reagito quando glielo avrei detto. Ebbene, mi immaginavo come mi avrebbe fissato, ascoltando il mio discorso, come sarebbe restato a lungo seduto senza comprendere una parola, e come si sarebbe poi alzato dalla finestra e avrebbe afferrato il suo fagotto; mi sembrava di vederlo, rosso, a quadretti, tutto bucato, nel quale aveva avvolto Dio sa cosa e che portava ovunque con sé, e come si sarebbe aggiustato il suo cappottino perché apparisse decoroso e lo tenesse caldo e perché i buchi non fossero visibili – era una persona delicata! E ancora come avrebbe aperto la porta e sarebbe uscito sulle scale con una lacrimuccia negli occhi. No, non si poteva permettere che quell’uomo andasse del tutto alla deriva! Provai compassione per lui. Ma poi, pensavo, ecco come farò! ‘Aspetta,’ mi dicevo ‘Emel’januška, non potrai gozzovigliare ancora per molto da me! Presto sloggerò da qui e tu non mi ritroverai.’ Ebbene, signore, sloggiammo; allora Aleksandr Filimonovič, il mio padrone (ora non è più in vita, pace all’anima sua!) mi aveva detto: ‘Sono rimasto molto soddisfatto di te, Astafij, quando torneremo tutti dalla campagna, non ci dimenticheremo di te e ti riprenderemo con noi’. Avevo servito da loro come maggiordomo, era un signore buono, ma morì proprio quell’anno. Ebbene, dopo averlo accompagnato, presi la mia roba, avevo qualche soldino e pensavo di riposarmi per un po’, mi trasferii da una vecchietta e presi in affitto da lei un angolino; l’unico che avesse libero. Era stata anche lei a servizio come bambinaia, ma ora viveva per conto suo e riceveva una pensione. ‘Be’,’ pensavo ‘addio Emel’januška, caro, non mi ritroverai più!’ Che cosa credete, signore? Torno a casa verso sera (ero stato a far visita a un conoscente) e il primo che vedo è Emel’jan, se ne sta seduto sul mio baule con accanto il fagottello a quadretti, nel suo cappottino, e mi aspetta... e per la noia ha preso alla vecchia il suo libro di chiesa e lo tiene a testa in giù. E così mi ha ritrovato! Mi sono cadute le braccia. Ma poi ho pensato: ‘Non c’è niente da fare, dovevo scacciarlo fin dal principio...’. E subito ho domandato: “Hai portato il tuo passaporto, Emelja?”.


«E a quel punto, signore, mi sono seduto e ho cominciato a riflettere: mi avrebbe dato poi tanto disturbo quel vagabondo? E risultò, dopo le mie riflessioni, che non me ne avrebbe dato poi molto. ‘Avrà bisogno di mangiare’ pensavo. ‘Be’, un pezzetto di pane il mattino, e per renderlo più gustoso, occorrerà comprare una cipollina. E a mezzogiorno dell’altro pane con della cipolla; e la sera ancora cipolline con del kvas1 e ancora pane, se ne vorrà. E se capiterà, anche un po’ di zuppa di cavoli, e così saremo tutti e due sazi da morire. Io, quanto al mangiare, non mangio molto, e un bevitore, si sa, non mangia nulla: a lui basta che non manchino i liquorini e l’acquavite. Mi darà del filo da torcere con il bere’, e in quel momento si insinuò nella mia mente un’idea che non mi abbandonò più. Ma sì, se Emel’jan se ne fosse andato, io non avrei avuto di che esser contento della vita... E da allora decisi che sarei stato per lui come un padre-benefattore. L’avrei preservato da una fine miserabile, pensavo, e gli avrei fatto perdere l’abitudine del bicchierino! ‘Aspetta un po’, dunque,’ pensavo ‘va bene, Emel’jan resta pure, solo devi comportarti bene e ubbidire al mio volere!’


«E così pensavo fra me: ‘Comincerò ad abituarlo a qualche lavoro, ma non da subito; prima lascerò che se la spassi per un po’ e mi guarderò intorno, cercherò qualcosa per cui Emel’jan abbia predisposizione’, perché per ogni cosa, signore, è necessaria innanzitutto una certa predisposizione. E mi misi di nascosto a osservarlo. ‘Lo vedo, Emel’januška, sei un uomo disperato!’ pensavo. E ho cominciato, dapprima con una buona parola: così e così, gli dico: “Emel’jan Il’ič, dovresti guardarti un po’ e cercare di correggerti. Basta spassarsela! Guardati, vai in giro tutto a brandelli; il tuo cappottino, consentimi di dirlo, andrebbe giusto bene come setaccio; così non va! Sarebbe ora di pensare al proprio onore!”.


«Sta seduto e ascolta a testa bassa, il mio Emel’januška. Che volete che dica, signore! Era giunto a un tale stadio che sembrava essersi bevuto anche la lingua, e non riusciva più a dire una parola sensata. Ti metti a parlargli di cetrioli e ti risponde di fave! Ascolta, ascolta e poi sospira.


«“Emel’jan Il’ič, dico a te, perché sospiri?”


«“Ma così, per niente, Astafij Ivanyč, non vi allarmate. Ecco, oggi due donnette, Astafij Ivanyč, si sono azzuffate per strada, una ha rovesciato, senza volere, il canestro dell’altra, pieno di kljukvy.”2


«“E poi, Emel’jan Il’ič?”


«E l’altra le ha rovesciato apposta il suo canestro di kljukvy, e poi si è messa a pestarli con i piedi.”


«“E allora, Emel’jan Il’ič?”


«“Ma nulla, Astafij Ivanyč, lo dicevo così per dire.”


«‘Nulla, lo dicevo così per dire. Eh!’ penso ‘Emelja, Emeljuška! Ti sei bevuto anche la testolina a furia di baldorie!...’


«“E poi un signore ha fatto cadere un assegno sul marciapiede della via Gorochovaja, o forse, era quello della Sadovaja. E un mužik l’ha visto e ha detto: ‘Che fortuna!’; ma in quel momento anche un altro mužik l’ha visto e ha esclamato: ‘No, la fortuna è mia! L’ho visto prima di te!...’.”


«“Ebbene, Emel’jan Il’ič?”»


«“E si sono azzuffati, Astafij Ivanyč. Ma si avvicinò una guardia, ha raccolto l’assegno e l’ha ridato al signore, e ha minacciato di metterli in gattabuia tutti e due.”


«“Ebbene, che cosa c’è di così edificante, Emel’januška?”


«“Ma niente. La gente rideva, Astafij Ivanyč.”


«“Eh-eh, Emel’januška! Che importa della gente? Ti sei venduto l’animuccia per un altyn3 di rame. Ma sai, Emel’jan Il’ič, che cosa ti dico?”


«“Che cosa, Astafij Ivanyč?”


«Trovati un lavoro qualunque, davvero, trovalo. È la centesima volta che te lo dico, trovalo, abbi pietà di te stesso.”


«“E che lavoro dovrei trovare, Astafij Ivanyč? Non so proprio che lavoro potrei trovare; e non mi prenderà nessuno, Astafij Ivanyč.”


«“È appunto per questo che ti hanno cacciato dal posto in cui prestavi servizio, Emelja, ubriacone che non sei altro!”


«“Ma ecco, oggi hanno chiamato in ufficio Vlas, il ragazzo del buffet, Astafij Ivanyč.”


«“E come mai l’hanno chiamato, Emel’januška?”


«“Ecco, proprio non so perché, Astafij Ivanyč. Vuol dire che là avevano bisogno di lui...”


«“‘Eh,’ penso ‘siamo perduti, Emel’januška! Dio ci punisce per i nostri peccati!’ Ebbene, signore, che cosa fare con uomo simile?”


«Però era un tipo furbo, altroché se lo era! Mi ascoltava, mi ascoltava, ma poi si capiva che gli era venuto a noia ascoltarmi; quando vedeva che ero in collera, prendeva il suo cappottino e se la squagliava – e chi s’è visto, s’è visto! Se ne andava in giro per tutto il giorno, e verso sera rincasava brillo. Chi gli desse da bere, dove riuscisse a trovare il denaro, Dio solo lo sa, e non era certo mia la colpa!...


«“No,” dico “Emel’jan Il’ič, non la passerai liscia! Basta bere, mi senti, basta bere! Se un’altra volta tornerai ubriaco, passerai la notte sulle scale. Non ti lascerò entrare!...”


«Dopo aver ascoltato le mie disposizioni, il mio Emel’jan se ne sta a casa un giorno, e poi un altro; ma il terzo se la squaglia. Aspetto, aspetto, ma lui non arriva! Devo confessare che mi viene paura e mi dispiace per lui. ‘Che gli ho fatto?’ penso. ‘L’ho spaventato. E dove sarà mai andato il poveraccio? Finirà male, Dio mio! Viene la notte e non è ancora tornato.’ Verso mattina esco nell’andito, guardo, e vedo che ha voluto passare la notte sulle scale. Tiene la testa sul primo gradino e se ne sta là disteso, tutto intirizzito per il gelo.


«“Ma che ti succede, Emel’jan? Che Dio sia con te! Dove sei finito?”


«“Ma voi, giorni fa, vi eravate così arrabbiato, Astafij Ivanyč, eravate così amareggiato e mi avevate promesso che mi avreste fatto dormire nell’andito, così io non ho avuto il coraggio di entrare, Astafij Ivanyč, e mi sono disteso lì...”


«Rabbia e pietà si impadronirono di me.


«“Ma tu, Emel’jan, dovresti proprio cercarti un altro impiego. Perché ti sei messo a fare il guardiano delle scale?”


«“Ma quale altro impiego dovrei cercare, Astafij Ivanyč?”


«“Ma se tu, anima derelitta che non sei altro (mi montava la rabbia!), imparassi almeno il mestiere del sarto! Non vedi che cappotto hai! Non basta che sia tutto un buco, ti metti a scopare pure le scale! Faresti meglio a prendere l’ago e a rattopparli, come l’onore impone. Eh, ubriacone!”


«E chi l’avrebbe mai detto, signore! Prese davvero l’ago; io glielo avevo detto per scherzo, ma lui si era intimorito e l’aveva preso sul serio. Si era tolto il cappottino e aveva iniziato a infilare il filo nell’ago. Lo osservavo: si sa che cosa succede in simili casi, gli occhi sono cisposi, arrossati, le mani gli tremano, non ci riesce: prova e riprova, ma il filo non entra; strizza gli occhi, si inumidisce con la saliva le dita – ma no, non ci riesce! Abbandona tutto e mi guarda...


«“Su, Emel’jan, fammi il favore! Se fosse avvenuto in presenza d’altri, ti avrei tagliato la testa! Te l’avevo detto per scherzo, uomo ingenuo che sei, per darti una lezione... E ora va’, va’ con Dio, stai lontano dal vizio. Resta pure seduto, ma evita di compiere azioni di cui potresti vergognarti, non pernottare sulle scale, e non coprirmi di vergogna!...”


«“Ma che posso fare, Astafij Ivanyč? Non mi accorgo forse di essere sempre ubriaco, di non saper fare nulla?... Sono capace solo di far arrabbiare inutilmente voi, il mio benefattore...”


«E a un tratto cominciarono a tremargli le labbra livide, gli scese una lacrimuccia lungo la guancia pallida, e questa lacrimuccia che gli tremolava sulla barba non fatta, il mio Emel’jan la trasformò in un pianto a dirotto, in un vero fiume di lacrime... Dio del cielo! Fu come se la lama di un coltello mi sfiorasse il cuore!


«‘Eh, che uomo sensibile sei, non l’avrei mai pensato! Chi l’avrebbe detto, chi poteva intuirlo?... No, Emel’jan, credo che rinuncerò a te. Va’ pure alla deriva come un relitto!...’


«Ebbene, signore, vi sarebbe ancora molto da raccontare! Tutta la faccenda è così sciocca, così misera che non vale la pena parlarne, cioè, voi, signore, non dareste neppure due soldi bucati, mentre io invece ne darei parecchi, se avessi tanto denaro, perché tutto ciò non fosse accaduto! Avevo, signore, un paio di calzoni, che il diavolo se li porti, un paio di bellissimi, magnifici calzoni blu, a quadretti, me li aveva ordinati un possidente che era venuto qui, ma poi non li aveva più voluti. Diceva che erano stretti; e così erano rimasti a me. Pensavo: sono un capo di valore! Al mercato Tolkučij mi daranno almeno cinque rubli, e se non me li daranno, ne ricaverò due paia di pantaloni alla moda pietroburghese, e mi resterà ancora un avanzo per un panciotto. Come sapete, la povera gente non spreca nulla! Per Emel’januška era allora cominciato un periodo triste e difficile. Lo osservavo: non bevve un giorno, e poi un altro, e il terzo non prese neppure una goccia di alcol, appariva inebetito, faceva pena, sedeva tutto avvilito. ‘Bene,’ pensavo ‘o non hai denaro per comprarti da bere, o ti sei messo sulla retta via e hai detto basta, hai ubbidito al buon senso.’


«Ecco, signore, fu così che andò. Si era alla vigilia di una grande festa. Andai in chiesa alla funzione serale, e poi rincasai: il mio Emel’jan stava seduto sulla finestra, brillo, e barcollava. ‘Eh! Eh! Ecco in che stato sei, ragazzo’ pensai. E, chissà perché, decisi di guardare dentro il baule. Guardo! I calzoni non ci sono!... Cerco qui e là: spariti! Dopo aver rovistato, ed essermi accorto che non c’erano proprio, avvertii come una stretta al cuore. Mi precipitai dalla vecchietta, e da principio la calunniai, facendole un torto, ma su Emel’jan, che sedeva ubriaco, benché vi fossero degli indizi, non nutrivo alcun sospetto. “No,” diceva la vecchietta, “Dio sia con te, cavaliere, che me ne faccio io dei calzoni, posso forse indossarli? Anche a me giorni fa è sparita una gonna. Se non è quel brav’uomo di vostro fratello... Be’, insomma, non ne ho la più pallida idea” diceva. “Chi è stato qui, chi è venuto?” “Ma nessuno” diceva “non è venuto proprio nessuno, cavaliere; sono sempre stata qui. Emel’jan Il’ič è uscito e poi è rincasato; eccolo, è seduto lì! Chiedetelo a lui.” “Non li hai presi per caso tu, perché ti occorrevano, i miei calzoni nuovi, quelli che avevo cucito per il possidente?” “No, Astafij Ivanyč,” diceva Emel’jan “cioè, io non li ho presi.”


«Che fatto strano! Ricominciai a cercare, frugai, frugai, ma non c’erano! Emel’jan stava seduto traballante. E io, signore, mi accoccolai di fronte a lui sul baule, e mi misi a guardarlo di sottecchi... ‘Ahimè!’ pensavo, e tutt’a un tratto mi sentii il cuore in fiamme; mi salì persino il sangue alla testa. All’improvviso Emel’jan mi guardò.


«“No, Astafij Ivanyč, voi potete pensare chissà cosa, ma io i vostri calzoni non li ho presi.”


«“Ma dove sono potuti sparire allora, Emel’jan Il’ič?”


«“No, Astafij Ivanyč, io non li ho proprio visti.”


«“E allora, Emel’jan Il’ič, vorrà dire che sono spariti da soli, dato che non ci sono...”


«“Può darsi che siano spariti da soli, Astafij Ivanyč.”


«Dopo averlo ascoltato mi alzai, mi avvicinai alla finestra, accesi il lume e mi misi a cucire. Rimodernavo il panciotto di un impiegato che viveva sotto di noi. Ma qualcosa continuava a bruciarmi e a farmi male. Mi sarebbe costato di meno gettare nella stufa l’intero guardaroba. Sembrava che Emel’jan avvertisse la rabbia che si era impadronita di me. Il fatto è che quando un uomo è colpevole del male che ha commesso, fiuta già da lontano la sventura, come l’uccello del cielo il temporale in arrivo.


«“Ecco, Astafij Ivanyč,” cominciò con la voce tremante Emel’juška “oggi Antip Prochoryč, l’infermiere, si è sposato con la moglie del cocchiere che è morto giorni fa...”


«“Io gli lanciai un’occhiata così adirata che Emel’jan capì. Vidi che si alzava, si avvicinava al letto e si metteva a frugare. Trafficò a lungo, non la finiva mai e continuava a ripetere: “No, non ci sono, non ci sono, ma dove saranno spariti quei birbanti?”. Aspettavo per vedere che cosa sarebbe accaduto; osservavo Emel’jan strisciare carponi sotto il letto. Non mi trattenni più.


«“Ma perché, Emel’jan Il’ič, vi siete messo a strisciare?”


«“Cerco se vi siano per caso i calzoni, Astafij Ivanyč. Bisogna guardare se non siano finiti in qualche posto.”


«“Ma che vi prende, signore,” (dalla stizza avevo cominciato a dargli del signore) “perché vi mettete ad aiutare un pover'uomo come me, perché vi consumate le ginocchia a furia di dimenarvi sotto il letto?”


«“Ma perché no, Astafij Ivanyč? Non fa nulla... Forse salteranno fuori se li cerchiamo.”


«“Hm!... Ascolta dunque, Emel’jan Il’ič!”


«“Che dite, Astafij Ivanyč?”


«“Ma non sarai stato tu a rubarmeli semplicemente, come un ladro e un furfante, a rendermi questo servizio in cambio dell’ospitalità che ti ho dato?” Ecco, signore, mi aveva fatto inalberare, mettendosi a strisciare così davanti a me sul pavimento.


«“Nossignore, Astafij Ivanyč...”


«E rimase come si trovava, carponi sotto il letto. Vi restò a lungo; poi uscì fuori strisciando. Lo guardai: era pallido come un lenzuolo. Si alzò, si mise a sedere accanto a me sulla finestra e restò così per una decina di minuti.


«“No, Astafij Ivanyč” e a un tratto si alzò e mi venne vicino, orribile come il peccato.


«“No, Astafij Ivanyč, i vostri calzoni non li ho presi io...”


«Tremava tutto, e col dito tremante si batteva il petto, la voce gli tremava talmente che ebbi e restai come inchiodato alla finestra.


«“Ebbene, Emel’jan Il’ič, come volete, perdonate se io, come uno sciocco, vi ho rimproverato senza ragione alcuna. I calzoni saranno senz’altro spariti; sopravviveremo anche senza di loro. Le mani, grazie al Cielo, non ci mancano, e non andremo certo a rubare... né a mendicare da un pover'uomo; ci guadagneremo il pane.”


«Emel’jan mi ascoltò, stette davanti a me a lungo, e poi mi accorsi che si era seduto. Restò seduto per tutta la sera, non si mosse; era già andato a dormire, ma Emel’jan continuava a stare seduto sempre allo stesso posto. Soltanto verso mattina, guardai: era disteso sul pavimento nudo, avvolto nel suo misero cappotto; si sentiva troppo umiliato per andare a coricarsi nel letto. Ebbene, signore, cominciai a non amarlo più da quel momento, anzi nei primi giorni lo detestai. Era, tanto per dire, come se uno dei miei figli mi avesse derubato, arrecandomi un’offesa mortale. ‘Ah,’ pensavo ‘Emel’jan, Emel’jan!’ Ma Emel’jan da due settimane era ubriaco fradicio. Cioè si era lasciato del tutto andare nel bere. Usciva il mattino e rincasava a notte fonda, e in quelle due settimane non udii mai una parola da lui! Cioè, vero è che il dolore lo straziava e che cercava in qualche modo di distruggersi. Poi finalmente, basta, cessò di bere, si era bevuto tutto ciò che aveva e si rimise a sedere sulla finestra. Ricordo che stette seduto in silenzio per tre giorni e tre notti; e a un tratto lo guardai: stava piangendo. Cioè stava seduto, signore, e piangeva, come piangeva! Come una fontana! Le lacrime gli sgorgavano e lui pareva non sentirle. È penoso vedere un uomo adulto, un vecchio per di più, come Emel’jan, piangere per il dolore e la tristezza.


«“Che hai, Emel’jan?” gli dico.


«Cominciò a tremare in tutto il corpo. E sussultò persino. Era la prima volta che da quel giorno gli rivolgevo la parola.


«“Non è nulla... Astafij Ivanyč.”


«“Dio sia con te, Emel’jan, che si perda pure tutto quanto! Perché te ne stai lì così abbattuto?” Cominciavo a provare pena per lui.


«“Così, Astafij Ivanyč, non è per quello. Voglio trovarmi un lavoro qualunque, Astafij Ivanyč.”


«“Quale lavoro vorresti, Emel’jan Il’ič?”


«“Così, un lavoro qualunque. Forse troverò un impiego come l’avevo prima; sono già andato a domandarlo a Fedosej Ivanyč... Non sta bene che vi offenda, Astafij Ivanyč. Io, Astafij Ivanyč, forse troverò un impiego, e allora vi restituirò e vi darò un compenso per il vitto.


«“Basta, Emel’jan, basta! Ebbene, prima c’era il vizio, ma ora è finita! Che non se ne parli più! Ritorniamo a vivere come prima!”


«“Nossignore, Astafij Ivanyč, voi, forse, credete... ma non sono stato io prendere i vostri calzoni...”


«“Be’, come vuoi; Dio sia con te, Emel’januška!”


«“Nossignore, Astafij Ivanyč. È evidente che non sono più il vostro inquilino. Mi dovete scusare, Astafij Ivanyč.”


«“Ma che Dio sia con te, ti dico; chi vuole offenderti, Emel’jan Il’ič, chi avrebbe intenzione di scacciarti, io forse?”


«“Non è decoroso vivere così in casa vostra, Astafij Ivanyč... È meglio che me ne vada...”


«“Cioè, quell’uomo si era mortalmente offeso e aveva già accomodato tutto. Lo osservavo: lui si alzò davvero in piedi e si tirò sulle spalle il suo cappottino.


«“Ma dove te ne vai così, Emel’jan Il’ič? Abbi giudizio, ragiona: che fai? Dove vuoi andare?”


«“No, addio, Astafij Ivanyč, non cercate di trattenermi,” (e di nuovo piagnucolava) “andrò via, lontano dal vizio, Astafij Ivanovič. Voi non siete più quello di un tempo.”


«“Ma come, non sono più lo stesso? Ma tu sei come un bimbo senza giudizio, ti perderai da solo, Emel’jan Il’ič.”


«“No, Astafij Ivanyč, voi ora quando uscite chiudete il baule a chiave, e io, Astafij Ivanyč, vi vedo e piango... No, è meglio se mi lasciate andare via, Astafij Ivanyč, e perdonatemi per tutto, per tutte le offese che vi ho arrecato durante la nostra convivenza.”


«Che ne dite, signore? Quell’uomo se ne andò. Aspettai un giorno, pensando che la sera sarebbe tornato, ma nulla! E così il secondo e il terzo giorno. Ero spaventato e l’angoscia mi tormentava: non bevevo, né mangiavo, né dormivo. Quell’uomo mi aveva del tutto disarmato! Il quarto giorno presi a girare da un’osteria all’altra, davo un’occhiata, domandavo – ma Emel’januška era sparito! ‘Non ci avrai già rimesso la vita, quella tua vita dissennata?’ pensavo. ‘Può darsi che tu sia crepato davanti a qualche steccato, ubriaco, e che ora tu giaccia lì come una trave marcia.’ Rincasai più morto che vivo. E il giorno successivo tornai a cercarlo. E mi maledicevo per aver lasciato che quello sciocco se ne andasse liberamente da casa mia. Ma il quinto giorno (era un giorno di festa) sentii cigolare la porta. E vidi Emel’jan che entrava, livido, i capelli infangati come se avesse dormito per strada, era scarno come un chiodo; si tolse il cappottino e si sedette accanto a me sul baule. Ero contento, ma l’angoscia mi opprimeva anche di più l’animo. Ecco di che si trattava, signore: se avessi avuto un simile vizio, giuro che piuttosto sarei crepato come un cane, ma non sarei tornato. Ma Emel’jan era tornato! E naturalmente è penoso vedere un uomo in simili condizioni. Presi a vezzeggiarlo, coccolarlo e confortarlo. “Ebbene,” gli dicevo, “Emel’januška, sono felice che tu sia tornato. Se avessi tardato ancora un po’ a tornare, sarei andato a cercarti anche oggi per le osterie. Hai mangiato?”


«“Sì, ho mangiato, Astafij Ivanyč.”


«“Ma hai mangiato abbastanza? Ecco, è rimasta un po’ di minestra di cavoli di ieri, fratellino; c’era anche del manzo dentro, non è semplice zuppa; ed eccoti una cipollina con del pane. Mangia, ti dico: non può farti male alla salute.”


«Gli servii il cibo; e in quel momento mi accorsi che non doveva aver mangiato da tre giorni, tale era l’appetito che mostrava. Quindi era stata la fame a spingerlo da me. Mi intenerii, guardando il poveretto. ‘E perché no?’ pensai. ‘Farò una corsa alla bottiglieria. Gli porterò qualcosa che gli renderà il cuore più leggero e così, basta, la faremo finita!’ Gli portai del vinello. “Ecco,” dicevo “Emel’jan Il’ič, beviamo, è festa. Ti farà bene.”


«Tese la mano, l’aveva tesa avidamente, ma stava per prendere il bicchiere quando si fermò; aspettò un po’; lo guardai: prese il bicchiere, lo portò alla bocca, ma il vinello gli colava sulle maniche. Non riuscì a portare il bicchiere alla bocca, e subito tornò a posarlo sul tavolo.


«“Che hai, Emel’januška?”


«“Ma niente; io... Astafij Ivanyč...”


«“Non lo bevi?”


«Io, Astafij Ivanyč, ecco... non voglio più bere, Astafij Ivanyč.”


«“Quindi ti sei deciso a smettere, Emel’juška, o è solo oggi che non bevi?”


«Taceva. Lo guardai: dopo un istante posò il capo sul braccio.


«“Che hai, ti sei forse ammalato, Emel’jan?”


«“Be’, non mi sento bene, Astafij Ivanyč.”


«Lo presi e lo adagiai sul letto. Lo osservai, era davvero magro: la testa gli bruciava, e la febbre lo faceva sussultare. Rimasi al suo capezzale tutto il giorno; la notte peggiorò. Gli diedi del kvas4 che avevo condito con del burro e della cipolla, e vi sbriciolai del pane. “Ebbene,” gli dissi “mangia un po’ di zuppa, ti farà sentire meglio!” Scuoteva la testa. “No,” diceva “oggi non pranzerò, Astafij Ivanyč.” Gli preparai del tè, sfinii completamente la vecchietta – non c’era nulla di meglio. Ebbene, pensavo, va male! Il terzo giorno, di mattina, andai dal dottore. Nelle vicinanze abitava il medico Kostopravov, un mio conoscente. Avevo fatto la sua conoscenza quando stavo a servizio dai signori Bosomjagin; mi aveva curato. Il medico venne e lo visitò. “È grave,” disse “non c’era ragione di chiamarmi. Ma forse, gli darò delle polverine.” Ma non gliele diede; e così, pensavo, il medico forse avrà scherzato; e intanto si giunse al quinto giorno.


«Stava disteso, signore, davanti a me, e si spegneva. Io sedevo alla finestra con il lavoro in mano. La vecchietta accendeva la stufa. Tutti tacevano. Il cuore mi si spezzava per lui, per quel beone, signore: come se stessi seppellendo uno dei miei figli. Sapevo che Emel’jan mi stava guardando, mi ero accorto fin dal mattino che cercava di farsi forza, che voleva dirmi qualcosa, ma che, evidentemente, non ne aveva il coraggio. Alla fine gli lanciai un’occhiata; vidi che vi era una tale angoscia negli occhi del poveretto, non distoglieva da me il suo sguardo; quando si accorse che lo guardavo, subito abbassò gli occhi.


«“Astafij Ivanyč!”


«“Che c’è, Emel’juška?”


«“Ecco, se per esempio si portasse il mio cappottino al Tolkučij, pensate che mi darebbero parecchio, Astafij Ivanyč?”


«“Be’, non si sa, se darebbero proprio parecchio. Ma forse, tre rubli li darebbero, Emel’jan Il’ič.”


«Ma se l’avesse portato davvero, non gli avrebbero dato niente, gli avrebbe riso solo in faccia e gli avrebbero domandato come poteva immaginare di vendere un indumento così malconcio. L’avevo detto solo per confortare quel sant’uomo, conoscendo la sua indole ingenua.


«“E io che credevo che avrebbero dato tre rubli d’argento per il mio cappottino, Astafij Ivanyč; è un indumento di panno. Come mai solo tre rubli di carta, se è di panno, Astafij Ivanyč?”


«“Non so,” gli dico “Emel’jan Il’ič; se vuoi portarlo al mercato, sarà bene chiedere subito tre rubli come prima offerta.”


«Emel’jan tacque per un po’; poi mi chiamò di nuovo:


«“Astafij Ivanyč?”


«“Che c’è,” gli chiedo “Emel’januška?”


«“Vendete il mio cappottino quando sarò morto, non dovete seppellirmi con esso. Posso essere seppellito anche così: è un indumento di valore, potrebbe tornarvi utile.”


«In quel momento, signore, il cuore mi si strinse in modo indicibile. Vedevo che quell’angoscia che precede la morte cominciava a impadronirsi dell’uomo. Trascorse così un’ora. Lo guardai di nuovo: non mi toglieva gli occhi di dosso e quando incontrai il suo sguardo abbassò daccapo gli occhi.


«“Non volete bere dell’acqua, Emel’jan Il’ič?”


«“Datemene un sorso, Dio sia con voi, Astafij Ivanyč.”


«Gli portai dell’acqua. Ne bevve un sorso.


«“Vi ringrazio, Astafij Ivanyč.”


«“Non avete bisogno d’altro, Emel’januška?”


«“No, Astafij Ivanyč, non mi occorre nulla; ecco, io...”


«“Che cosa?”


«“Ecco...”


«“Che cosa, Emel’juška?”


«“I vostri calzoni... ero stato io a prenderli allora... Astafij Ivanyč...”


«“Ebbene,” gli dico “Dio ti perdonerà, Emel’januška, mio povero infelice... Riposa in pace...”


«Mi mancò il respiro e mi sciolsi in lacrime; gli voltai per un minuto le spalle.


«“Astafij Ivanyč...”


«Lo guardai: Emel’jan voleva dirmi qualcosa; si sollevò, si sforzò, mosse le labbra... A un tratto divenne tutto rosso e mi guardò... Poi di colpo vidi che si faceva di nuovo pallido pallido; ricadde indietro per un istante; rovesciò la testa, fece un ultimo respiro e rese l’anima a Dio...»


1 Bevanda a base di pane fermentato.


2 Frutti simili al ribes che crescono nei paesi nordici.


3 Antica moneta russa, corrispondente a tre copeche.


4 Bevanda fermentata.