giovedì 5 settembre 2024

IL CANCRO DEL POLITICAMENTE CORRETTO Giovanni Ciri




IL CANCRO DEL POLITICAMENTE CORRETTO
Giovanni Ciri
Cosa è il politicamente corretto? Difficile rispondere brevemente ad una simile domanda. Difficile perché ci troviamo di fronte ad un fenomeno molto ampio e complesso, che tocca praticamente la totalità della vita degli esseri umani. Il politicamente corretto riguarda le azioni delle persone come il loro pensiero ed il linguaggio in cui questo si esprime. Ha da dire la sua sui rapporti fra etnie e civiltà, pretende di dettar legge sulle relazioni fra e nei sessi ed in quelle fra genitori e figli. Si interessa degli animali e, più in generale, della natura non umana. Si insinua addirittura nel più privato dei rapporti umani, quello di ognuno di noi con il dolore, la malattia e la morte. E' insomma una filosofia della totalità, meglio, una filosofia totalitaria, nel senso pieno del termine. Ma manca della compattezza e della interna coerenza delle altre filosofia della totalità. Ciò che, ad esempio, nei sistemi di Hegel o di Marx è logicamente connesso appare a malapena giustapposto nelle teorizzazioni politicamente corrette. La visione unificante del mondo e dell'uomo che caratterizza il marxismo scompare nell'oceano delle banalità politicamente corrette. In questo il rimpianto per l'economia di autoconsumo convive con l'esaltazione acritica delle tecnologie informatiche. Il diritto al lavoro affianca la “decrescita felice”, Il femminismo radicale e l'ideologia gender si combinano con l'amore per l'Islam e le urla contro il razzismo cercano di armonizzarsi con uno strisciante e velenoso antisemitismo. La lotta alla globalizzazione infarcita di ideologia localistica ed esaltazione del “chilometro zero” si combina con la teorizzazione del mondialismo.

Relativismo ed odio di sé 

Solo un gran casino allora? Qualcosa al cui interno sarebbe fatica sprecata cercare una logica, un filo conduttore? Sarebbe sbagliato, credo, sostenere una cosa simile. Certo, il politicamente corretto non ha nulla della dignità di altre filosofie totalitarie ma non è per questo una semplice giustapposizione di sciocchezze. Dietro e dentro a queste sciocchezze c'è una logica, un “filo rosso”, o alcuni fili rossi, che in qualche modo le collegano tutte.
Il primo di questo “fili rossi” è senza dubbio il relativismo, nella forma del relativismo culturale “forte”. Non esistono valori universali, né universali norme razionali, questo l'assunto base del relativismo. Valori e norme razionali sono invece il portato di diverse culture. Obbligare delle ragazzine di dodici anni a sposare uomini di sessanta è criminoso per noi, ma non lo è per chi vive in determinate civiltà diverse dalla nostra. Ogni critica ad usanze del genere pecca quindi di eurocentrismo razzista ed è per questo, inaccettabile.
Il relativismo permette ai teorici del politicamente corretto di far fronte alle contraddizioni di cui la loro dottrina è letteralmente grondante. Si può essere fautori dei diritti dei gay e nel contempo strizzare l'occhio a chi i gay li impicca perché chi impicca i gay vive in una cultura diversa dalla nostra e di certo noi non siamo tanto “razzisti” dal volerla giudicare. E' politicamente corretto chi si indigna per una frase “omofoba” e nel contempo solidarizza coi talebani, sono politicamente corrette le femministe radicali e le donne che sfilano col velo integrale contro il maschilismo di Trump. Il relativismo culturale sistema tutto.

In realtà non sistema proprio nulla. Già Platone aveva, a suo tempo, messo in rilievo le aporie logiche in cui cade il relativismo. Se tutto è relativo è relativo anche il relativismo. Per il relativista “forte” tutti abbiamo ragione perché il torto e la ragione dipendono interamente dal punto di vista. Ma in questo modo siamo costretti ad ammettere che hanno ragione anche coloro che negano la validità del relativismo e torto anche coloro che la affermano. Se tutti abbiamo ragione tutti abbiamo anche torto, ed un discorso in cui tutti abbiamo nel contempo torto e ragione è solo un insieme di suoni inintelleggibili.
Nella sua forma culturale il relativismo non supera, semmai aggrava, simili contraddizioni. Perché ad esempio condannare come “razzista” chi pretende di giudicare le altre culture? Perché criticare con parole di fuoco chi è nemico della tolleranza? Anche l'atteggiamento di queste persone in fondo è interno a una qualche cultura e di conseguenza dovrebbe essere vietata al relativista ogni condanna nei suoi confronti. Il relativismo culturale vieta a tutti di giudicare, ma, proprio in nome del suo principio, dovrebbe a sua volta astenersi da ogni giudizio. L'incongruenza logica si trasforma a questo punto in inaccettabile conseguenza pratica. Il relativismo culturale dovrebbe farci accettare tutto, ma proprio tutto, perché tutto ciò che gli esseri umani pensano, dicono o fanno è interno a certi orizzonti culturali. In nome del relativismo culturale gli ebrei condotti alle camere a gas avrebbero dovuto solidarizzare con i loro boia, le ragazze vendute oggi come schiave dai tagliagole dell'Isis dovrebbero amare i loro aguzzini. Di certo un relativista culturale dei nostri giorni inorridisce per la prima prospettiva, forse non altrettanto per la seconda.

I relativismo culturale oggi di gran moda si rivela così, ad un esame più approfondito, assai incompleto. E veniamo in questo modo al secondo filo roso, meglio ai secondi numerosi fili rossi che legano fra loro le varie posizioni politicamente corrette. Si tratta dell'odio dell'occidente verso se stesso, che si articola in numerose forme di odio: odio per l'economia di mercato, la tecnologia, il pensiero scientifico, la razionalità strumentale, la modernità.
Gli odierni relativisti evitano, in nome del pensiero debole, qualsiasi condanna nei confronti di tutto ciò che non è occidentale, ma emettono inappellabili condanne verso tutto ciò che non va, o sembra loro non andare, nell'occidente. Una frase maschilista, un titolo di giornale discutibile bastano a suscitare urli, strilla ed un mare di polemiche; le donne vendute come schiave non suscitano invece né polemiche né condanne.
I relativisti politicamente corretti non hanno nulla della grandezza intellettuale dei relativisti e degli scettici classici, nulla in loro rimanda a Protagora, Sesto Empirico o Montaigne. Sono relativisi a metà, combinano il relativismo con il più rigoroso assolutismo. Pronti ad invocare il “contesto culturale” quando si tratta di giudicare culture non occidentali dimenticano ogni contesto se posti di fronte alla storia dell'occidente. L'odio per l'occidente e per tutto ciò che a loro appare, erroneamente, solo occidentale, dal razionalismo all'economia di mercato, li induce, spesso e volentieri ad abbandonare allegramente ogni forma di relativismo. Nel momento stesso in cui tacciono sulla schiavitù di fatto in cui vivono molte donne in alcuni paesi islamici bollano con parole di fuoco la schiavitù... nella Roma antica, fregandosene di ogni valutazione del “contesto storico e socio culturale”. Prima che relativisti sono degli emeriti buffoni.

Una definizione

Il relativismo, più o meno combinato con una buona dose di assolutismo, l'odio degli occidentali verso la loro civiltà ed altri tipi di odio nei confronti del pensiero razionale, la tecnologia, e l'economia di mercato non sono però una caratteristica esclusiva del pensiero politicamente corretto.
Il relativismo è figlio della cultura occidentale, come del resto lo sono le varie forme di dogmatismo ed assolutismo. Se essere relativisti o scettici significasse essere politicamente corretti dovremmo definire politicamente corretti Hume e Montaigne, il che non sembra proprio corretto.
Il relativismo e le varie forme di odio dell'occidente nei confronti di se stesso fanno parte del politicamente corretto ma non ne sono esclusiva. Concorrono a sostenere questa ideologia, ma non ne costituiscono la caratteristica essenziale. Sono insomma dei fili rossi che la attraversano e la sostengono ma non il filo rosso principale, quello che la caratterizza nella sua essenzialità. Quale è questo filo rosso? Per individuarlo diventa necessario definire in qualche modo il politicamente corretto.

E' difficile condensare un fenomeno tanto ampio come il politicamente corretto in una definizione. Tuttavia si può tentare. Potremmo definire il politicamente corretto come quella ideologia che mira a difendere alcuni soggetti, individuali o collettivi, che si ritengono, a torto o a ragione, svantaggiati o discriminati tramite una estensione dei principi della democrazia liberale talmente abnorme da farla coincidere col loro tradimento, e che si risolve in quella che possiamo definire la abolizione delle differenze.
Questo tentativo di definizione non è esaustivo né pretende di avere una scientifica precisione. Il politicamente corretto è qualcosa di talmente ampio e differenziato che nessuna sua definizione può sperare di essere interamente esaustiva. Il suo senso risulterà più chiaro esaminando il politicamente corretto, per così dire, all'opera, nei vari settori in cui esercita la sua influenza.

Esemplificazioni

Il politicamente corretto influenza, forse sarebbe meglio dire infetta, quasi tutti i settori della vita umana e della società. In alcuni tuttavia è più presente che in altri e lo è con maggiore virulenza. Cerchiamo di esaminarli uno per uno.

Sessualità.
Il sesso è uno dei campi della vita umana in cui più virulenta è la aggressione politicamente corretta al modo di pensare e di agire delle persone normali. Ed è anche uno di quelli che esemplificano meglio, a parere di chi scrive, la definizione che si è cercato di darne.
La premessa da cui partono i sostenitori del politicamente corretto è largamente condivisibile. Tutti gli esseri umani, indipendentemente dal loro sesso, hanno pari dignità e diritti. Da questa premessa del tutto condivisibile traggono però conseguenze inaccettabili. Tutti gli esseri umani hanno pari dignità, indipendentemente dal fatto che siano maschi o femmine, omo od eterosessuali. Questo per i politicamente corretti starebbe a significare che il sesso non esiste o ha una importanza del tutto secondaria, inessenziale.
Il sesso cessa, nelle teorizzazioni dei sostenitori della filosofia gender, di essere una caratteristica ontologica degli esseri umani, e non solo. Non è qualcosa di intimamente collegato con quel fatto di enorme rilevanza sociale che si chiama riproduzione della specie, no, il sesso è una scelta, una caratteristica inessenziale che ha una qualche rilevanza solo nel gioco erotico. Si può essere maschi o femmine, un po' maschi un po' femmine, non ha troppa importanza. Non esistono le figure di padre e di madre, esistono le “figure genitoriali” completamente slegate dal sesso dei “genitori”.
Per millenni il sesso è stato un dato ontologicamente pesante che contribuiva a definire la identità di uomini e donne. Ora è degradato a bene di consumo. Il sesso è un giocattolo, qualcosa che si può acquistare sui banconi di un centro commerciale. La abolizione delle differenze emerge qui, e si rivelerà anche altrove, come il vero filo rosso che attraversa tutta la filosofia politicamente corretta.
Cosa contribuisce più del sesso e della differenza sessuale a rendere diversi gli esseri umani? Questa differenza viene oggi irrisa dai politicamente corretti. Viviamo nella società unisex, in cui essere maschi o femmine ha perso ogni rilevanza. Una triste società in cui le donne sono diventate le brutta copia degli uomini. Lo stesso termine sesso è ormai guardato con sospetto. Non si parla più, ad esempio, di parità di diritti e doveri fra le persone di sesso diverso, ma di “parità di genere”. Il sesso non esiste, esiste il “genere”. Peccato che il termine genere venga da “generare” e nel generare la differenza sessuale conta, eccome...

Civiltà tutte uguali.
Anche per ciò che concerne i rapporti fra le culture e le civiltà i politicamente corretti partono da un valore base del pensiero democratico e liberale. Tutti gli esseri umani hanno pari dignità, indipendentemente dalla razza, dalla civiltà o dalla cultura di appartenenza e dal credo religioso. Anche in questo caso però passano dalla premessa giusta a conclusioni assolutamente inaccettabili.
Tutti gli esseri umani hanno pari dignità... quindi tutto ciò che gli esseri umani realizzano ha pari valore: questo il salto logico. Si passa dalla uguaglianza dei diritti alla uguaglianza delle realizzazioni. Tutti abbiamo diritto di studiare, quindi non c'è differenza fra chi prende otto in tutte le materie e chi invece in tutte le materie prende tre. Si evidenzia qui un, meglio, il dogma centrale del pensiero politicamente corretto: il rifiuto dei concetti stessi di superiorità ed inferiorità. L'uguaglianza liberale costituisce la base su cui crescono le differenze, e con queste le disuguaglianze, fra le persone. Nelle varie teorizzazioni politicamente corrette invece l'uguaglianza distrugge la diversità, meglio, la mantiene privandola però di ogni spessore ontologico. La cultura di un contadino è diversa da quella di un nobel per la fisica, ma non ha un inferiore valore conoscitivo. Tutto è messo alla pari di tutto: la medicina dello sciamano è diversa ma non inferiore a quella del neurochirurgo, una canzonetta non è inferiore alla nona sinfonia, il valore estetico della “Vispa Teresa” non è superato da quello della “Divina commedia”.

Questa sindrome del pareggio raggiunge il suo apice quando si parla delle varie culture e civiltà, specie dal punto di vista della valutazione etica delle loro caratteristiche. Una civiltà è diversa, ma mai inferiore o superiore ad un'altra, strillano i politicamente corretti. Tutti gli usi ed i costumi sono accettabili perché tutti sono interni a qualche civiltà. In un certo paese una adultera può divorziare, in un altro viene lapidata... pazienza, paese che vai, usanze che trovi.
Dando prova di una idiozia degna di miglior causa i teorici del politicamente corretto non si rendono neppure conto di tradire in questo modo l'assunto da cui erano partiti. ”Tutti gli esseri umani hanno pari diritti e dignità” recitava questo assunto. Ma, dopo averlo indebitamente esteso alle realizzazioni storico culturali degli uomini i politicamente corretti sono costretti a dare il loro avallo ad usanze che fanno letteralmente a pugni con questo. Che poligamia ed infibulazione, decapitazione di apostati e bestemmiatori e lapidazione delle adultere costituiscano la negazione della uguaglianza di dignità e diritti dovrebbe essere intuitivo. Che, di conseguenza, esista una contraddizione grande come un grattacielo fra la pretesa uguaglianza di tutte le civiltà e l'universale uguaglianza di dignità, diritti e doveri dovrebbe esserlo altrettanto. Non per gli angioletti del politicamente corretto.

E se le contraddizioni diventano troppo grosse ed evidenti, e intollerabili agli occhi di tanta gente che ha tra l'altro la pessima abitudine di votare, sono pronti, questi angioletti, a chiudere gli occhi e a tapparsi orecchie e bocca di fronte alle cosette che non vanno nelle culture e nelle civiltà che loro tanto amano. Smettono di dire “paese che vai, usanze che trovi” e si chiudono in un ermetico silenzio. Gli orrori non vengono più giustificati, semplicemente ignorati, rimossi. Il mondo reale viene sostituito da un altro mondo, immaginario, in cui tutti siamo bravi, tolleranti ed ed amorosi. Questo è l'atteggiamento politicamente corretto di fronte al fenomeno delle migrazioni. Non si può accettare che chi entra a casa nostra sia portatore di costumi che per noi sono barbari, ed allora si nega che certi costumi esistano. I clandestini diventano “migranti” ed i migrati “profughi”. Persone perfettamente disposte a far propri i nostri valori, a condividere il nostro stile di vita, lontane ani luce da ogni tentazione fondamentalista, pronte a condannare il terrorismo. Fino al prossimo attentato.

Malattia, dolore, morte.
Il mondo politicamente corretto è dolce, leggero, soffice. Una zuccherosa melassa in cui ogni asprezza scompare e tutti ci vogliamo tanto, tanto bene. E' un mondo immaginario in cui l'Islam è una “religione di pace”, i terroristi sono “squilibrati mentali” o “giovani che hanno avuto una infanzia difficile”. Un mondo in cui, se non fosse per alcuni cattivoni come Donald Trump tutti vivremmo felici e contenti, amandoci teneramente l'un l'altro.
E' talmente bello questo mondo zuccheroso che da esso è scomparso il dolore, qualsiasi tipo di dolore. Gli esseri umani invecchiano, si ammalano, soffrono e muoiono. Alcuni nascono con gravi malformazioni, altri subiscono terribili sventure. La dimensione del dolore è parte essenziale del nostro essere umani. Soffriamo perché siamo esseri finiti, immensamente lontani dalla perfezione divina. Si può ridurre l'ampiezza dell'umano dolore, controllarlo, lenirlo, non eliminarlo.
Ma ai distributori di melassa tutto questo non piace. E così il dolore viene eliminato dal mondo, con un procedimento simile a quello seguito in altri campi. Un disabile ha la stessa dignità di chi disabile non è ed ha diritto a cure ed assistenza. Dopo esser partiti da queste accettabilissime premesse gli angioletti del politicamente corretto saltano alla conclusione secondo cui malattie, disabilità e dolore non esistono, per lo meno, non esistono in natura, sono “costruzioni sociali” derivanti dalla incapacità delle persone normali di apprezzare ciò che appare loro solo negativo. Un cieco o una persona inchiodata su una sedia a rotelle non sono inferiori, dal punto di vista fisico, da chi ci vede bene o può correre con le proprie gambe. No, si tratta di persone “diversamente abili” che solo odiosi pregiudizi possono farci considerare menomate.
Naturalmente malattia, disabilità e dolore non si lasciano eliminare da vacue chiacchiere. Nessuno che ci veda o cammini bene vorrebbe essere “diversamente abile”. Ma dove non si arriva con le azioni si può arrivare con le parole. Così, grazie all'eufemismo ed alla litote ogni cosa viene sistemata. I ciechi, gli zoppi ed i sordi restano tali, ma ora si chiamano “non vedenti”, “diversamente deambulanti”, “non udenti”. Le persone normali diventano “normodotate”, quelli bassi di statura si trasformano in “verticalmente svantaggiati”, i vecchi cessano di essere tali per trasformarsi in “anziani”, e quando, terminato il tempo a nostra disposizione, cessiamo di vivere non moriamo, no, ce ne andiamo. Il dolore resta, solo che chi ne è preda viene considerato “diversamente felice”. Molto bello, commovente.

La natura non umana.
In tutti i casi che si sono fino ad ora esaminati il passaggio è grosso modo simile. Si parte dal presupposto della uguale dignità degli esseri umani per saltare da questo a conclusioni inaccettabili. Siamo tutti persone titolari di diritti e vincolate da doveri, quindi... quindi non esistono differenze fra i sessi, quindi le culture sono tutte sullo stesso piano, quindi non esistono salute e malattia, disabilità e morte e così via. Quando si passa al rapporto dell'uomo con la natura non umana i politicamente corretti fanno però un altro salto, ancora più spericolato. Non si passa più dai diritti e dalla dignità umane alla abolizione di differenze essenziali ed ontologicamente rilevanti. Si cerca di estendere alla natura non umana, gli animali in primo luogo ma non solo, la dignità ed i diritti (ma non i doveri) che possono competer solo all'uomo.
L'antispecismo nega che all'uomo vada riconosciuto alcun privilegio etico rispetto alle varie specie animali. Un uomo ha, più o meno, gli stessi diritti di un topo; un feto umano, visto che, a differenza del topo, non prova piacere e dolore ne ha ancora meno del roditore. Qualcuno va addirittura oltre. Perché limitare la attribuzione di diritti umani ai solo animali? La terra tutta è un enorme organismo vivente e tutta deve godere dei diritti che qualcuno vorrebbe limitare agli umani o agli animali. Abeti e betulle, Rocce e monti, mari e fiumi devono vedere salvaguardati i loro diritti, affermano gli “ecoguerrieri”. In fondo sono più coerenti degli “antispecisti”. Se si devono estendere alla natura non umana diritti e dignità tipici dell'uomo perché fermarsi a cernie e toporagni? Siamo sicuri che un abete secolare meriti meno rispetto di un toporagno? E la vetta ghiacciata del Bianco non è un monumento della natura che va rispettato?

In realtà il rispetto per la natura e l'affetto per gli animali c'entrano ben poco con la follia dell'ecologismo e dell'animalismo radicali. Non si tratta di salvaguardare, in nome di valori umani, l'ambiente e gli animali, di voler bene a cani e gatti e di evitare, per quanto possibile, l'estinzione di intere specie. Si tratta di estendere l'area dell'etica, dei diritti e dei conseguenti doveri, ad un mondo che ne è radicalmente estraneo. Squali e coccodrilli non sono “cattivi”, così come non sono “buone” le zebre e le antilopi e i leoni non divorano gli gnu perché “obbligati” a farlo, esattamente come i terremoti non sono “cattivi”, le piacevoli giornate di sole non sono “buone” e le valanghe non precipitano a valle perché “costrette” a farlo.
La natura non umana non è immorale, è amorale, si colloca in una sfera dell'essere che è, molto semplicemente, fuori dall'etica. Parlare di giustizia ed ingiustizia, innocenza e colpevolezza, costrizione o legittima difesa in rapporto a barracuda o bufali neri è semplicemente privo di senso, come lo è parlarne rispetto a uragani, rampicanti o piante carnivore. La natura è il regno dell'essere, non del dover essere. L'etica crea una frattura nel mondo, separa dal resto del mondo una piccola, molto piccola, area al cui interno soltanto ha senso parlare di giusto ed ingiusto, attribuire diritti ed esigere il rispetto di doveri. Il filo rosso della abolizione delle differenze elimina questa frattura.

Gli angioletti del politicamente corretto in nome di un immenso amore per la natura distruggono le peculiarità della natura stessa. Presi dalla smania di eliminare ogni differenza pretendono di considerare natura ed animali alla stessa stregua degli esseri umani. In questo modo trasformano gli animali in ridicoli pupazzi di peluche e la natura in uno zuccheroso cartone animato. E non elevano orsi e passerotti al livello degli umani, semmai portano questi al livello di quelli. Questi personaggi non amano in realtà la natura, esattamente come non amano sul serio i disabili, né rispettano veramente le donne e gli omosessuali, o gli esseri umani dalle pelle di un altro colore, né studiano seriamente le caratteristiche di altre civiltà. Questi personaggi amano solo la loro immagine ideologica della natura, delle donne e degli omosessuali, delle altre etnie, razze e civiltà, dei disabili e dei sofferenti. Sono malati di ideologia nel senso più pieno e completo del termine.

Un nuovo totalitarismo.

E'  inutile continuare a parlare delle applicazioni della filosofia politicamente corretta, occorrerebbero centinaia di pagine e ci si ripeterebbe. Non ne vale la pena.
Siamo di fronte ad una filosofia che ha, come altre, il suo perno, il suo “filo rosso” nella pretesa tanto assurda quanto totalitaria di unificare tutto, abolire le differenze, appunto. Differenze fra sessi, culture, salute e malattie, mondo umano e natura non umana. Ma è anche una filosofia che non ha nulla della grandezza e dello spessore culturale di altre filosofie della totalità. La filosofia politicamente corretta è insostenibilmente banale, leggera, zuccherosa. Appare soffusa di apparente bontà. Ma è in realtà estremamente cattiva, autoritaria, dura fino alla spietatezza. Non potrebbe essere diversamente visto che si tratta di una filosofia profondamente totalitaria.
Il politicamente corretto riguarda tutti gli spetti della vita umana, per questo, come tutte le filosofie totalitarie, vorrebbe modificare radicalmente l'uomo, cambiarne il modo di agire, di pensare, di sentire. L'uomo nuovo politicamente corretto deve pensare, parlare, agire, provare pulsioni e sentimenti in maniera del tutto diversa da come pensa, parla, agisce, prova pulsioni e sentimenti l'uomo vecchio, l'antico essere umano che vive qui ed ora nel mondo. Il teorico del politicamente corretto non si interessa solo alle idee politiche delle persone. Vuole controllare la loro visione del mondo, il modo in cui si rapportano fra e nei sessi. Come mangi, ti vesti, parli, ti muovi, fai sesso è oggetto di un interessamento morboso perché ogni tuo gesto, ogni tua parola, ogni tuo sguardo potrebbe rivelare in te qualcosa che politicamente corretto non è. Residui di “xenofobia razzista” o di “sessismo” o di “islamofobia”, insomma, del “vecchio” che la filosofia politicamente corretta vorrebbe cancellare dal mondo.

Non stupisce quindi l'interessamento maniacale che i censori politicamente corretti hanno per il linguaggio. Lo ha detto molto chiaramente Orwell: chi controlla il linguaggio controlla il pensiero e, si può aggiungere, chi controlla il pensiero controlla la vita degli esseri umani. Il linguaggio va riformato in maniera di renderlo docile strumento della filosofia totalitaria politicamente corretta. L'ideale è costruire una neolingua in cui, come nella orwelliana neolingua di “1984”, i pensieri eretici non possano neppure essere espressi: mancano le parole per esprimerli.
Ogni giorno potenti censori introducono nel linguaggio nuove parole, proibendone altre, giudicate “razziste” o “sessiste” o “insultanti” per qualcuno.
La lingue si evolvono molecolarmente dal basso, lo sanno tutti. Ed ogni tanto la loro evoluzione viene sottoposta all'azione di sistematizzazione di grandi scrittori e linguisti. I burocrati del politicamente corretto irridono un simile fenomeno. Si riuniscono in una stanza, esaminano alcune parole o espressioni verbali e decidono se conservarle o meno. Ne aboliscono d'imperio alcune e ne inventano altre. Da quel momento chi continua ad usare le vecchie parole è considerato una persona quanto meno poco raccomandabile. Un “razzista” od un “sessista” o uno “xenofobo” se non peggio. Prima o poi bisognerà prendere provvedimenti contro di lui. Per ora lo si isoli dal consesso civile.
Il linguaggio politicamente corretto è lontano anni luce dalla vita come dalla vera cultura. Nessuno parla questo linguaggio fra la gente normale. Qualcuno riesce ad immaginare due persone in metrò che parlano di “normodotati” e di “verticalmente svantaggiati”? Qualcuno ha mai letto in un romanzo decente parole come “sindaca” o “femminicidio”? Non credo. Simili parole sono invece all'ordine all'ordine del giorno nei vari telegiornali o nei documenti ufficiali dei partititi politici. Non è un caso.

Dalle azioni al linguaggio, dai rapporti con gli animali a quelli coi bambini l'ideologia politicamente corretta è, lo dico senza paura di esagerare, il cancro della nostra civiltà. E' la diffusione di questo cancro che impedisce o rende estremamente difficile all'occidente, per fare solo qualche esempio, di rispondere in maniera adeguata alle aggressioni del terrorismo islamico, o di controllare seriamente i flussi migratori, o di costruire una scuola capace di formare le nuove generazioni in maniera adeguata alle sfide che ci stanno di fronte. Non siamo di fronte solo ad un fenomeno culturale, meglio, sottoculturale. Siamo di fronte ad un fenomeno complessivo che ci riguarda tutti e tocca tutti i campi della vita sociale. Prima cominciamo a combatterlo seriamente meglio è, per tutti.