sabato 21 settembre 2024

LA FINE DEL MONDO Guida per apocalittici perplessi Telmo Pievani


 LA FINE DEL MONDO
Guida per apocalittici perplessi
Telmo Pievani

Recensione 
«Eppure abbiamo bisogno anche della catastrofe, del cataclisma imprevedibile che scompagina le carte, riapre i giochi, ridona speranza a chi era ai margini della storia, rovescia i rapporti di forza, spezza la logica precedente che sembrava invincibile. Un ciclo si compie e un tempo nuovo comincia.»

"Ciò che dobbiamo temere non è un’apocalisse, ma che il futuro lasciato ai nostri discendenti sia peggiore del presente: più monotono, più povero, più conflittuale“.

Questo testo scritto nel 2012, a distanza di 12 anni – 2024 – risulta quanto mai attuale e denso di riflessioni meritevoli di essere lette e condivise.
È un saggio sul perché la tanto attesa fine del mondo ci affascini e terrorizzi in egual modo, sul come sia relativa la concezione stessa di fine del mondo e sul fatto che probabilmente saremo noi stessi a procurarcela.
Consigliato per chi vuole vedere la catastrofe da un’altra prospettiva.. Contesta (senza litigare) il catastrofismo dilagante sul futuro del pianeta e colloca la sua riflessione in un vasto campo di conoscenze scientifiche e di valori etici e di sapere filosofico. Una lettura che cambia (in meglio) la nostra percezione dei grandi temi che l'umanità si trova ad affrontare faccia a faccia

Catastrofe / Disastro / Nemesi / Estinzione / Apocalisse: queste sono le parole chiave che Telmo Pievani prende in esame. Parole che rimandano tutte simultaneamente a un evento distruttivo e catartico, in grado di concludere un “qualcosa” – una specie, un determinato ambiente naturale, un periodo storico, ecc. – e creare così le condizioni per un nuovo inizio.
Il testo è  perciò strutturato in 5 capitoli:
1. Catastrofe (le cose cadono a pezzi e non smettono mai di cadere)
2. Disastro (cattive stelle: l’invenzione della calamità «naturale»)
3. Nemesi (comunque sia, è colpa nostra)
4. Estinzione (siamo i figli della fine del mondo degli altri)
5. Apocalisse (che fare dopo che il mondo, anche questa volta, non sarà finito)

.Un elemento sul quale insiste a più riprese è, il carattere  persistentemente autocentrato dell’uomo, peculiarità che lo porta a interpretare ogni cosa in funzione delle sue esigenze e dei suoi progetti. In altre parole: l’uomo ha da sempre manifestato la tendenza a considerare i fatti naturali come dotati di un senso preciso che lo chiama direttamente in causa. Non riesce perciò ad accettare che la natura non è una divinità capricciosa che castiga o premia a seconda delle azioni compiute, ma è, al contrario, un neutrale campo di relazioni che include tutti gli uomini e che ha una sua storia, e in quanto tale non ascolta né invocazioni né maledizioni.

LA FINE DEL MONDO
Prologo
Voltaire e l’asteroide

Esiste una teoria secondo la quale se qualcuno scoprisse esattamente il motivo di essere dell’Universo e perché esso sia qui, quello istantaneamente scomparirebbe e sarebbe sostituito da qualcosa di ancora più bizzarro e inspiegabile. Esiste poi un’altra teoria secondo la quale tutto questo è già accaduto.

D. Adams, Guida galattica per gli autostoppisti, 2000


Il più grande spettacolo dopo il Big Bang cominciò senza preavviso. In un’epoca primordiale che nessuno ricorda, un bolide roccioso di dieci chilometri di diametro si affacciò dallo spazio profondo e piombò in mezzo al mare, al largo della costa dello Yucatán. Una scia di fuoco illuminò ogni cosa. Fu come se milioni di bombe atomiche scoppiassero in un sol colpo, deflagrando nella più potente esplosione di tutti i tempi. In un battito di ciglia un’enorme palla di luce, più incandescente del Sole, vaporizzò l’oceano, aprendosi un cratere di 180 km di larghezza nella crosta terrestre. La superficie del pianeta si increspò e il fronte sismico fece più volte il giro del globo, innescando terremoti in ogni dove. L’onda d’urto si propagò a 30 km al secondo radendo al suolo in pochi attimi un’area grande come il Nord America. Tsunami colossali si alzarono per centinaia di metri, si misero a correre in tutte le direzioni e nelle ore successive si abbatterono sulle coste fino in Europa e in Africa. Le correnti d’aria impazzite fomentarono enormi uragani. L’atmosfera fu squarciata dall’alto e centinaia di trilioni di roccia fusa furono scagliati di rimbalzo nei suoi strati più esterni. I cieli si addensarono di rosso fulvo, di fuliggine e cenere. Ben presto le polveri velenose impregnarono l’aria e schermarono la luce del Sole in ogni angolo della Terra. Il primo trauma durò poco perché dal buio ridiscese ben presto un inferno di fiamme. Le rocce schizzate in atmosfera nell’esplosione furono di nuovo attratte verso il basso e cominciarono a piovere, infuocate, sulla superficie, disseminandola di incendi devastanti. Questi aumentarono ulteriormente la quantità di fumo e di polveri nell’aria. Un quarto della materia vivente venne ridotta in cenere. Foreste, boschi e praterie furono carbonizzati su tutti i continenti. Poi, con l’oscurità, il freddo prese il sopravvento. Le temperature medie del pianeta scesero di 15 gradi centigradi, come in una velocissima era glaciale. Le piogge acide avvelenarono gli oceani, estinguendo un’enorme quantità di specie marine. Le piante soffocarono e la fotosintesi fu ridotta al minimo. I grandi erbivori sopravvissuti all’impatto morirono progressivamente di fame, trascinando con sé gli equilibri delle catene alimentari globali. I ghiacci avanzarono, unendosi agli effetti mefitici dello zolfo e dell’anossia. Dopo anni di improvviso inverno glaciale – un tetro inverno cosmico – le polveri lentamente si posarono, ma non vi fu sollievo per i vivi perché ebbe inizio una subdola primavera ultravioletta. Il Sole colpiva ora inesorabilmente la superficie senza più la protezione dello strato di ozono, lacerato dagli effetti delle sostanze chimiche immesse in atmosfera dall’impatto. La carne viva degli organismi fu esposta a radiazioni letali e scottata nuovamente dal calore più insopportabile. Il fuoco e il freddo si alternarono per secoli, come piaghe bibliche. Nulla fu mai come prima. Più della metà delle specie, di ogni ordine e fattezza, dal plancton al dinosauro, non sopravvisse alla maledizione piovuta dal cosmo. Perché il mondo tornasse a respirare, ci vollero migliaia, forse milioni, di anni.

Dinanzi a uno scenario di questo tipo [McGuire 2003], è stupefacente che una qualche forma di vita sia riuscita a superare la lunga notte del Cretaceo. Eppure questa fine del mondo, avvenuta 65 milioni di anni fa, ha avuto un ruolo preciso nella nostra fortuna. Ha distrutto le speranze dei dominatori del momento, i grandi rettili, e ha aperto la strada per nuove diversificazioni tra i sopravvissuti, in particolare i mammiferi (decimati soltanto per un terzo) e un ramoscello dei dinosauri che stava dando vita agli uccelli. Si è trattato di una spettacolare e contingente staffetta evoluzionistica, con il testimone affidato a forme viventi che diventeranno i nostri lontani antenati. Noi Homo sapiens, dunque, siamo figli di questa catastrofe orrenda. Dobbiamo essere grati a quel mostro letale di dieci chilometri di diametro che ha tagliato l’atmosfera e ha portato l’inferno sulla Terra. Dovremmo onorarlo nei secoli a venire, perché ha decretato la fine del mondo degli altri, e un nuovo inizio per chi proprio non se l’aspettava.

È ironico pensare che il beneficiario di questa fine del mondo (degli altri) sia oggi così ossessionato dalla fine del mondo (il proprio). Quasi fosse un vizio, abbiamo inflitto la stessa sorte, per nostra mano intenzionale, a milioni di specie viventi, estinte a causa della sempre più ingombrante presenza umana. Quasi fosse un contrappasso per la nostra miopia, ora cominciamo a temere che si possa noi stessi fare la fine dei dinosauri, prima o poi. Ma il senso di colpa e un inveterato antropocentrismo impregnano le umane menti. Così siamo riusciti ad addomesticare anche la fine del mondo, a immaginarcela come il culmine di un disegno, come una rivelazione, come una giusta punizione per chi se la merita (e c’è sempre qualcuno che se la merita), come la realizzazione di un destino già scritto fin dall’inizio. Con la recondita convinzione, sotto sotto, che alcuni ce la faranno e gli eletti daranno battesimo a un nuovo corso. Più consapevoli dei dinosauri e di chi li aveva preceduti in altre colossali estinzioni, noi esorcizziamo la fine del mondo continuando a parlarne, comportandoci voracemente come se fosse dietro l’angolo, sommergendola di significati impropri, deprivandola del suo sottile messaggio, il più radicale e tutto sommato rinfrancante: l’indomabile imprevedibilità della storia naturale, che ha fatto a meno di noi per 3,8 miliardi di anni.

Il 1o di novembre del 1755 un terremoto di magnitudo elevata rase al suolo la città di Lisbona. Seguì uno tsunami catastrofico che non risparmiò le coste africane con onde alte quindici metri. Un incendio incontrollabile completò l’opera iniziata dal sussulto geologico, come sempre impietoso. Morirono a decine di migliaia, anche dentro le chiese, donne, vecchi e bambini, durante le feste della Rimembranza. Qualcuno subito pensò a una vendetta di divinità adirate, a una ribellione degli elementi, a un avvertimento contro la dissolutezza. Giustificare il male, per rimuoverlo, è una struttura universale della mente umana che si erge orgogliosa e penitente dinanzi alla disgrazia. Abbiamo avuto ciò che meritavamo, c’è alfine una giustizia trascendente, sia essa divina o mediata dall’ideale di Madre Natura. Non è dunque sorprendente che le parole di commento e i concetti evocati durante il trauma prodotto dai grandi disastri contemporanei siano identici a quelli che Voltaire e Rousseau usarono per ragionare e confrontarsi attorno al terremoto di Lisbona [Dupuy 2011]. Il tema del male naturale e del male morale è sempre lì, al cuore delle nostre interpretazioni.

Dopo la catastrofe portoghese, il sarcasmo di Voltaire nei confronti della dottrina ottimistica leibniziana – circa la natura del male naturale come illusione del singolo e come componente necessaria per il bene complessivo, nel migliore dei mondi possibili scelto moralmente da Dio – si era già manifestato nel Poema sul disastro di Lisbona del 1756 e poi si condenserà nel Candide del 1759. Nessun «bene superiore» o «legge eterna» poteva spiegare quel dolore insensato, tuonò Voltaire. Oggi noi riteniamo giustamente ripugnanti queste giustificazioni quando le sentiamo profferire da qualche predicatore fondamentalista. Nel 1756 Rousseau obiettò però a Voltaire, in una lettera di quell’agosto, che l’umanità non poteva per questo andare assolta e che la natura aveva avuto un ruolo assai marginale nella vicenda: il male fisico che si era prodotto era opera nostra e solo gli uomini potevano essere imputati di quel massacro. Non era colpa della natura se una moltitudine di imprevidenti aveva ammassato l’una sull’altra casupole malferme e catapecchie di legno. I veri responsabili della catastrofe erano i «Signori della Città» – i campioni di quei miserabili vincoli sociali e di quell’amor proprio che ci hanno tolto dallo stato di natura – e il male è dunque solo morale. Non vi è alcun colpevole oltre all’uomo stesso.

Voltaire preferì invece seguire le orme spigolose del logico calvinista secentesco Pierre Bayle. Dinanzi al male del mondo, il postulato dell’infinita bontà di Dio e il postulato della sua onnipotenza sono incompatibili e generano paradossi senza fine. Se ci teniamo la bontà, allora l’esistenza del male dà sostanza reale a un qualche maligno che limita l’onnipotenza del bene e innesca una lotta manichea. Se ci teniamo l’onnipotenza, allora quel dolore non può che far parte del disegno divino, un disegno cinico e imperfetto. Non resta, per Voltaire, che scegliere il dubbio, ammettere la propria ignoranza circa l’origine del male morale e del male fisico, accettare la finitezza e la contingenza della condizione umana, e respingere ogni irrazionale consolazione metafisica. Il senso del terremoto di Lisbona è che, rispetto a ogni categoria etica umana, esso non ha alcun senso.

Ma che cosa penserebbe, l’illuminista francese, di un benedetto asteroide che viene a trovarsi nel posto giusto al momento giusto e ci spiana la strada? Il quadro è cambiato. Oggi infatti la nostra radicale contingenza storica non è l’esito estremo di una disamina scettica, non è una rinuncia a capire, ma è proprio ciò che la scienza ci ha permesso di capire. Pur nella provvisorietà dei suoi risultati, è ciò che essa ci suggerisce oltre ogni ragionevole dubbio. Non solo, l’asteroide ha qualcosa in più del terremoto di Lisbona: nella sua eguale insensatezza, è la catastrofe brutale senza la quale non saremmo qui a parlarne. L’inverno cosmico decreta la fine del mondo degli altri e pone le basi evolutive della nostra esistenza. Non c’è una natura romantica e noi che ne usciamo. C’è il peggiore dei disastri, uno sterminio alla cieca, e poi un nuovo inizio. Come già molte altre volte era successo.

L’asteroide dunque è stato provvidenziale, ma solo a posteriori e solo dal nostro parziale punto di vista. Nel Dialogo di un folletto e di uno gnomo, Giacomo Leopardi immagina nel 1824 una conversazione postapocalittica. Lo gnomo è stato mandato in avanscoperta per verificare il motivo della strana inazione degli umani, che da tempo non saccheggiano e non mercanteggiano. Il folletto gli comunica che «gli uomini sono tutti morti, e la razza è perduta», e che dunque «non si trova più regni né imperi che vadano gonfiando e scoppiando come le bolle, perché sono tutti sfumati; non si fanno guerre, e tutti gli anni si assomigliano l’uno all’altro come uovo a uovo». La vanità delle vanità umane è andata in fumo, mostrando tutta la sua inutile pomposità, e la natura ha ripreso il suo corso: «il sole si è levato o coricato, fa caldo o freddo, qua e là è piovuto o nevicato o ha tirato vento». Non ci sono più almanacchi, ma non per questo la luna «fallirà la strada». Non ci sono più gazzette piene di menzogne a pagamento, anche perché non vi sono più notizie da dare. E nessuno conterà più il passare del tempo.

Lo gnomo a questo punto è curioso: che cosa mai è successo? Si sono estinti da soli, spiega il folletto, «parte guerreggiando tra loro, parte navigando, parte mangiandosi l’un l’altro, parte ammazzandosi non pochi di propria mano, parte infracidando nell’ozio, parte stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e disordinando in mille cose; in fine studiando tutte le vie di far contro la propria natura e di capitar male». Deve esserci voluto dell’impegno, per finire proprio tutti, commenta lo gnomo. Così il folletto protoevoluzionista precisa che di per sé la scomparsa di una specie non è una stranezza («varie qualità di bestie si trovarono anticamente che oggi non si trovano»), semmai la bizzarria è che questa volta una specie abbia usato «tanti artifizi» per mandarsi da sola in perdizione. Eppure gli uomini erano così convinti della loro importanza, chiamavano «rivoluzioni del mondo» le loro piccole vicende, persuasi che «le cose del mondo non avessero altro uffizio che di stare al servigio loro», che mosche e zanzare stessero lì per mettere alla prova la loro pazienza, che i maiali fossero stati creati per essere da loro mangiati, che persino «stelle e pianeti fossero moccoli da lanterna piantati lassù in alto a uso di far lume alle signorie loro».

Il commento di Leopardi, in bocca allo gnomo, è perfido: «Ben avrei caro che uno o due di quella ciurmaglia risuscitasse, e sapere quello che penserebbe vedendo che le altre cose, benché sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono come prima, dove essi credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per loro soli». Eppure ogni specie, nella sua vanagloria, è convinta di essere il prodotto delle cause finali dell’universo: il folletto rivendica a sé il senso del mondo, lo gnomo fa altrettanto, ma la contesa saggiamente termina nella constatazione che «anche le lucertole e i moscerini si credono che tutto il mondo sia fatto a posta per uso della loro specie». L’umanità non è indispensabile, conclude il poeta, e quando essa non ci sarà più le stelle e i pianeti non smetteranno per questo di tramontare: «la terra non sente che le manchi nulla, e i fiumi non sono stanchi di correre, e il mare, ancorché non abbia più da servire alla navigazione e al traffico, non si vede che si rasciughi».

Nel breve viaggio delle pagine che seguono esploreremo insieme alcuni risvolti di questa fortunata icona del tempo contemporaneo: la fine del mondo. Lo faremo evocando cinque parole chiave e interpretandole in una prospettiva evoluzionistica. Smontando la pletora di pregiudizi esoterici che circondano il 2012 e gli incolpevoli maya, la struttura argomentativa ci porterà a una tesi filosofica finale che potremmo definire di «contingenza umanistica». Cominceremo con catastrofe – lo scioglimento dell’intreccio drammatico nella tragedia greca – per capire perché il mondo non smette mai di finire e sembra condannato a ripetere all’infinito la minaccia del suo stravolgimento. Dopo che anche questa volta il mondo non sarà finito, proseguiremo con disastro – la cattiva stella – e passeremo in rassegna le possibili cause reali di una fine del mondo (come lo conosciamo) per forze naturali, con qualche sospetto di complicità umane e con non pochi dubbi su ciò che normalmente intendiamo per «naturale». Sarà poi la volta di nemesi – la vendetta, il castigo meritato – per dire di tutte quelle volte in cui proprio le miopi pretese umane, e non gli elementi naturali, hanno creato le condizioni per una fine del mondo, piccola o grande, nostra o di altri. A tal proposito non mancherà estinzione – la scomparsa irreversibile di una forma vivente – per mostrare come noi sedicenti Homo sapiens, figli dell’estinzione catastrofica altrui, ora la infliggiamo ai nostri simili e così facendo impoveriamo quegli ecosistemi che garantiscono, gratuitamente, il nostro benessere. Volgeremo al termine affrontando apocalisse – la rivelazione, il disvelamento – ma interpretandola in modo rispettosamente eterodosso: ciò che la fine del mondo potrebbe svelarci non è il senso ultimo della storia, ma il fatto che la storia un senso non ce l’ha e che la biosfera può benissimo fare a meno della presenza contingente di un bipede invasivo. Da ciò non derivano tuttavia, come molti frettolosamente concludono, né rassegnazione amorale, né lo sguardo cinico del misantropo, né alcun temuto nichilismo o relativismo radicale. Al contrario ne consegue, con un «tragico ottimismo» non privo di ragionevoli speranze, che il massimo compito umanistico è quello di far proseguire con dignità l’esperimento naturale che ha prodotto, tempo fa, una specie cosciente.
Capitolo primo
Catastrofe (le cose cadono a pezzi e non smettono mai di cadere)
Non temere che il mondo possa finire oggi.

In Australia è già domani.

Charles M. Schulz

Il mondo non ha mai smesso di finire. Con tutto vantaggio, si direbbe, per chi ne ha erroneamente presagito la scomparsa. L’attrazione fatale per come il tutto finirà non è infatti prerogativa umana particolarmente recente. Fu Dio stesso a cominciare, preannunciando in Genesi, ma anche nell’Epopea di Gilgamesh, che un’inondazione finale ci avrebbe travolti insieme ai nostri peccati. Qualcosa di simile era forse già successo, poco prima del 3000 a.C., quando un asteroide creò il cratere di Burckle nell’oceano Indiano, sollevando uno smisurato tsunami. In una tavoletta assira del 2800 a.C. il mondo viene già dato per spacciato: c’è troppa degenerazione e corruzione, la fine dei tempi sta per giungere. Lo scontro cosmico finale tra il bene e il male era previsto anche dai zoroastriani in Persia. I greci, da Esiodo in poi, furono ossessionati da un’incombente età dell’oro alle loro spalle e dal sospetto che il tempo stesse invecchiando, che il futuro fosse cioè decadenza e caduta. Per gli stoici l’universo avrebbe attraversato cicli di distruzione e di rinascita nel fuoco palingenetico.

Già nell’anno di fondazione di Roma, il 753 a.C., Romolo sognò che la città sarebbe andata distrutta nel 600 a.C., anno funesto secondo le profezie romane, al pari del 634 a.C. e del 389 a.C. secondo altre leggende di sventura. Ma l’impero sopravvisse ai pronostici. Per Confucio il mondo avrebbe dovuto disgregarsi prima della sua morte: decisamente troppo presto. Allora si convenne che sarebbe stato meglio far finire il mondo più volte, non una: ventinove, secondo la Sibilla; finirà 483 volte, rettificò San Clemente. Ma come ha scritto il geofisico Bill McGuire, «il maggior problema quando si immagina la fine del mondo è che, se la predizione si rivela esatta, non ci sarà nessuno a vantarsene» [2003, XI].

In tanti ce lo avevano detto
Anche il cristianesimo delle origini ebbe i suoi movimenti apocalittici, poi condannati come eretici. Dal II secolo in poi gli adepti del sacerdote Montano e delle sacerdotesse Massimilla e Priscilla attesero a lungo l’arrivo della Nuova Gerusalemme tra i villaggi della Frigia. La fine delle persecuzioni nel IV secolo non infuse abbastanza ottimismo e le profezie di sventura proseguirono: per il massacratore degli eretici ariani, Ilario di Poitiers, l’anno giusto sarebbe stato il 365. Per i donatisti di Ticonio il 380. Le invasioni barbariche apparvero ai più come un’attuazione letterale delle profezie bibliche, il flagello di Dio. Per Gregorio di Tours i tempi sarebbero finiti tra il 799 e l’806. Nel 950 il monaco Adsone di Montier-en-Der annuncia l’arrivo dell’Ultimo Imperatore del Mondo nella sua Lettera sull’Anticristo. Nell’anno 968 ci fu un’eclissi solare, nel 981 apparve la cometa di Halley, nel 970 e nel 992 il Venerdì Santo coincise con l’Annunciazione, si avvicinava la fine del primo millennio cristiano: troppe coincidenze, doveva esserci sotto qualcosa.

Per la natura un calcolo degli anni in base dieci ha lo stesso significato di un calcolo in base sedici o ventisette, ma tant’è, le dita delle mani sono il nostro strumento di padronanza della realtà e il mondo che deve finire è pur sempre quello umano. I mille anni e non più mille, a causa del confronto allegorico tra i giorni della creazione e le ere dell’umanità presente in un Salmo citato nella seconda lettera di Pietro, hanno così acquistato con il tempo un significato epocale, per quanto del tutto arbitrario [Flori 2010]. Dunque si dedusse che non vi sarebbe stata alcuna alba terrena dopo la notte di San Silvestro del 999, giacché si sarebbe manifestata la seconda venuta di Cristo, gli angeli avrebbero finalmente separato i buoni dai cattivi e gettato questi ultimi nella fornace ardente.

Il calcolo della fine dei tempi in base alla cronologia dei 6.000 anni – simbolicamente, mille anni per ciascuno dei sei giorni della creazione, e alla fine il millennio del regno di Cristo dopo la fine del mondo, come lo calcolava ancora nel XVII secolo Thomas Burnet in Telluris theoria sacra (1691) – era minato dalla terribile incertezza circa la data di origine della creazione: il 3761 a.C. secondo la Bibbia ebraica; il 5500 a.C. secondo la Bibbia greca nella Versione dei Settanta; il 3952 a.C. secondo le sapienti cronografie di un monaco erudito inglese dell’VIII secolo, il venerabile Beda; il 23 ottobre del 4004 a.C., precisamente alle ore 12.00, secondo l’ardita misurazione dell’arcivescovo anglicano d’Irlanda James Ussher, pubblicata nel 1650. Ma se non ci si mette d’accordo sull’inizio, e la durata deve essere proprio di seimila anni, la data della fine del mondo non potrà che oscillare pericolosamente nei calendari.

Secondo le Chronographiae del funzionario cristiano romano Sesto Giulio Africano del 221 d.C., la fine del tempo terreno doveva cadere nell’anno 500, cioè allo scoccare dei presunti 6.000 anni dalla Creazione. Alla smentita dei fatti, un calcolo alternativo optò per l’anno 800. Da lì in poi si preferì lasciarsi suggestionare più semplicemente dagli anni con tre zeri, concentrando le attenzioni sui millenni, ora in modo del tutto arbitrario non soltanto rispetto ai tempi della natura ma anche rispetto alla logica di partenza della misurazione. Grazie al lavoro certosino del venerabile Beda, il calendario degli anni «dopo Cristo» era divenuto canonico e condiviso, ma l’associazione tra l’anno mille a tutto tondo e il secondo avvento del Messia prevalse nella cultura popolare per ragioni assai contingenti.

Non è nemmeno ben chiaro fra gli storici quanto panico vi sia stato, davvero, all’approssimarsi dell’anno mille, ma il sollievo deve aver rinforzato la fede con la gratitudine. Anche il millesimo anniversario della crocifissione, nel 1033, passò innocuamente. Fu poi la volta di una potente visione apocalittica al femminile, nel manoscritto Scivias della badessa benedettina tedesca Ildegarda di Bingen nel 1179. Qualche anno prima Gerardo di Poehlde previde qualcosa di importante nel 1306, millesimo anniversario dell’arrivo dell’imperatore Costantino. Il grande mistico e abate cistercense calabrese Gioacchino da Fiore nel XII secolo concepì una suggestiva divisione trinitaria della storia universale, con il succedersi delle età del Padre o della legge (il Vecchio Testamento), del Figlio o della grazia (l’era cristiana) e dello Spirito Santo (l’era utopica e monacale dopo la sconfitta dell’Anticristo), ma saggiamente preferì non dare indicazioni precise di scadenze perché i piani di Dio onnipotente devono restare inconoscibili ai mortali.

Il Saladino, perfetto anticristo per molti, non fu però cacciato dalla città santa e le penitenze dei flagellanti non portarono una nuova era in Europa. La morte di un altro potenziale anticristo nel 1250, l’imperatore Federico II, non impedì di continuare a usare la profezia come un’arma politica e ideologica. Nel 1286 un allineamento planetario nella Bilancia fece pensare al cardinale cistercense Giovanni di Toledo che tutto fosse sul punto di finire. In effetti il crepuscolo sembrò approssimarsi davvero, ma con la peste nera del 1346 e degli anni seguenti. Tra carestie e rivolte contadine, anche la pandemia alla fine passò e in Europa fu persino Rinascimento. La disfatta di ogni annuncio di sventura definitiva e l’accumulo di predizioni numerologiche fallite (ci provò persino Cristoforo Colombo puntando sul 1658) cominciarono a innervosire anche le gerarchie. Il Quinto Concilio Lateranense stabilì, nel 1515, che «sotto pena di morte, non dovranno più essere fatte profezie sulla fine del mondo»: in altri termini, se le farete, sarà il vostro mondo a finire.

Poi però i pianeti si allinearono nella costellazione dei Pesci nel 1517, l’anno della Riforma Protestante. Ammesso che ciò voglia dire qualcosa, qualcuno tornò a predire la fine del mondo per opera, ovviamente, dell’acqua. Per Lutero, a sua volta, un mondo non riformato sarebbe finito al massimo entro il 1600. Tommaso Campanella calcolò che nel 1603 Sole e Terra si sarebbero scontrati. Nel 1525, prima di finire orribilmente torturato e poi decapitato dai luterani, l’anabattista Thomas Müntzer aveva mandato al massacro i suoi contadini della Turingia nella convinzione che «la fine ultima di tutte le ere» fosse vicina. Dieci anni dopo toccò al messianico Giovanni di Leida a Münster. Nel tormentato Seicento inglese la guerra civile vide protagonisti anche i radicali millenaristi, che si specchiarono nelle fiamme dell’incendio di Londra nel molto apocalittico anno 1666. Tra il 1672 e il 1675, un insospettabile Isaac Newton scriveva in privato un Trattato sull’Apocalisse, sperimentando nella teologia biblica la sua «scienza esatta delle profezie» [Mamiani, in Newton 1994].

Come scrive John D’Agata, gli Stati Uniti in particolare sono stati prodighi di profezie circa la caduta di tutte le cose, soprattutto tra i protestanti. Forse in un paese giovane, dove si abitano i luoghi come un’eterna frontiera, è più facile immaginarsi un baratro alla fine di tutto. I puritani inglesi avevano ora una terra selvaggia, ai limiti del mondo, dove erigere la loro Nuova Gerusalemme e attendere la fine dei tempi. Dopo il rogo dell’anabattista tedesco millenarista Jacob Hutter nel 1536, dal quale nacquero le comunità hutterite statunitensi e canadesi:

Il giovane profeta americano Jacob Zimmerman predisse la fine nel 1674, anno in cui condusse un gruppo di uomini nella foresta battezzandoli «La società delle donne nell’ombra». Il pollo magico di Mary Bateman a Providence, Rhode Island, predisse che la fine sarebbe arrivata nel 1813. John Wesley, fondatore del metodismo, concluse che il capitolo 12, versetto 14 dell’Apocalisse – «un tempo, due tempi e la metà di un tempo» – significava che il mondo sarebbe finito nel 1836 [D’Agata 2010, 120].

Nel Settecento il vasto movimento del «Grande Risveglio» invitò i coloni americani a prepararsi al nuovo regno che sarebbe giunto di lì a poco. Dal 1820 fu poi necessario ricorrere a un Secondo Grande Risveglio, tra sette millenariste e professionisti di predizioni sbagliate come il reverendo anglicano Michael Paget Baxter (che annunciò l’apocalisse per il 1867, 1868, 1869, 1872, 1896, 1903 e infine 1908). Anche gli shakers, i credenti nel secondo avvento, si prepararono per decenni tra danze liturgiche convulse e purificazioni. In alcune profezie millenariste non manca il sadismo: i veri credenti verranno portati in cielo subito e potranno poi assistere per sette anni alle terrificanti tribolazioni che perseguiteranno i dannati sulla Terra. Nel 1830 anche Joseph Smith, fondatore della Chiesa Mormone, guida i suoi fedeli verso il punto di raccolta delle anime da salvare, suggeritogli da un angelo, in attesa dell’evento finale previsto intorno al 1891. Nel 1844 una mitica epopea verso ovest porterà i suoi fedeli fin nello Utah, dove non sopraggiunse alcuna fine del mondo ma al contrario una robusta prosperità che dura ancora oggi.

Negli stessi anni un ufficiale dell’esercito poi convertitosi alla predicazione, William Miller, convinse migliaia di persone che la fine del mondo, con il ritorno di Cristo e la spaventosa distruzione dei miscredenti, sarebbe giunta tra il 21 marzo del 1843 e il 21 marzo del 1844 (poi rinviata, senza successo, al 22 ottobre). I versetti di Daniele nell’Antico Testamento e quelli dell’Apocalisse nel Nuovo lo avevano tradito, ma una volta metabolizzata la grande delusione altri subito pensarono che quelle date non fossero esattamente la fine del mondo, bensì l’inizio della meticolosa analisi da parte di Dio dei salvati nel gran libro della vita. Dato che il compito è lungo e pedante, il regno di Cristo deve ancora tardare e da allora molteplici chiese attendono il «secondo avvento».

La data dell’apocalisse fu calcolata invano anche da illustri matematici (come Jacques Bernoulli), da astronomi, da cabalisti ebrei (come Shabbetai Tzevi, autoproclamatosi messia nel 1648), da astrologi e da qualche piramidologo. Nei primi anni del XX secolo nasce il movimento cristiano pentecostale, con forti venature millenaristiche. Inizia la raggelante sequenza dei suicidi collettivi per accogliere il secondo avvento. Nel marzo del 1910 alcuni temettero un avvelenamento globale causato dalla mefistofelica coda della cometa di Halley. Charles Taze Russell, fondatore della comunità che poi darà origine ai Testimoni di Geova, era convinto che il presente fosse il regno della perdizione e che le Sacre Scritture contenessero un calendario occulto da prendere alla lettera per sconfiggere la perversione: l’umanità si sta avviando verso lo scontro finale di Armageddon (antica città-stato ai piedi del Monte Carmelo, vicino ai primi siti di insediamento di Homo sapiens fuori dall’Africa), dopo il quale inizierà il regno di Cristo. Il secondo avvento fu pronosticato da Russell per il 1914, due anni prima della sua morte, ma in quei mesi l’epifania, tutta umana, fu piuttosto quella di una spaventosa guerra mondiale.

Profezie sbagliate generano nuove profezie
L’angelo della storia è sempre sul punto di colpire, eppure in tanti sono morti e continuano a morire con il cruccio di non aver avuto l’occasione di pronunciare, con la più inutile delle sicumere, il proverbiale «ve lo avevo detto». L’intera storia della modernità occidentale può essere riletta attraverso la lente delle idee millenaristiche [Baumgartner 1999]. Charles Manson si concentrò sul 1954 come anno fatidico. Il teologo evangelico Herbert W. Armstrong ci provò con il 1936, il 1943, il 1972 e il 1975. Il fondatore della Christian Coalition, Pat Robertson, si buttò sul 1982, predicando invano. Lo stesso anno (come pure già nel 1919) ci fu un insignificante allineamento di pianeti, l’«effetto Giove», che non sortì alcun effetto tranne che sulle vendite di alcuni bestseller apocalittici. Edgar Cayce predisse la riemersione di Atlantide, con cambiamento delle correnti oceaniche e catastrofi globali, per il 1968, anno in cui cambiarono piuttosto le correnti di pensiero. Venature apocalittiche, figlie della Guerra Fredda, erano peraltro ben presenti nella controcultura americana [Hall 2009]. Ronald Reagan scelse come sottosegretario agli Interni un pentecostale che sosteneva fosse inutile impegnarsi nelle lotte per la salvaguardia dell’ambiente, dato che il mondo sarebbe finito senz’altro prima di vederne qualche effetto positivo. Da qui al secondo avvento le risorse petrolifere sarebbero state più che sufficienti.

Nel novembre del 1978 ben 909 americani, convinti che l’olocausto nucleare fosse imminente, si suicidarono con il cianuro, seguendo le direttive maniacali del reverendo apocalittico Jim Jones, fondatore dell’omonima comunità di Jonestown in Guyana. I criminali del «Peoples Temple» avvelenarono prima i bambini (303, un terzo), poi i genitori e in ordine gerarchico gli altri, in una macabra messinscena della follia umana. Nel 1992 la fine del mondo venne predetta da un profeta coreano di sedici anni, Bang-Ik Ha, e molti non mancarono di credergli, anticipandola di propria mano. I sopravvissuti, rinsaviti, presero i forconi e per i sacerdoti del profeta furono momenti difficili. Raeliani e migliaia di altre sette apocalittiche in ogni dove promettono da decenni di portarci verso dimensioni superiori e di includerci nella lista dei salvati, pagando beninteso la nostra quota in denaro al capo carismatico.

Ma se la fine sta per arrivare comunque, perché perdersi lo spettacolo da quaggiù? Nel 1997 trentanove adepti della setta Heaven’s Gate di Marshall Applewhite – mescolando millenarismo da cartone animato, fantascienza e New Age – si diedero la morte perché convinti che un’astronave, nascosta dietro la coda della cometa Hale-Bopp, stesse per venirli a prendere per ricongiungerli, una volta separatisi dalla loro prigione corporea, con una civiltà extraterrestre superiore. Nell’ultimo messaggio lasciato scritto a chi restava in questa valle di lacrime dissero che erano «venuti dal Livello Superumano nel lontano spazio» e ora erano usciti dai corpi che avevano «indossato» per il loro «compito terreno»: «siamo venuti con lo scopo di offrire una via d’accesso al Regno di Dio alla fine di questa civiltà, la fine di questo millennio» [Gould 1999, 66]. Così l’astronave della morte, ben racchiusa nelle loro allucinazioni diurne, se li portò via per davvero. Se nel rito suicida non fossero rimasti vittime anche alcuni innocenti plagiati, questi esaltati meriterebbero a furor di popolo il Darwin Award, assegnato periodicamente a coloro che si sono autoestinti nel modo più stupido.

Fallì il pronostico persino Nostradamus, che sembrava aver detto qualcosa di funesto circa il settimo mese dell’anno 1999, per mano di un certo Re del Terrore. Come sempre, la quartina cinquecentesca del nostro è talmente vaga e barocca da essere compatibile con qualsiasi corso degli eventi. Ma poi venne il 2008, l’anno della definitiva distruzione degli Stati Uniti secondo il reverendo Ronald Weinland della God’s Church. E soprattutto il 2011, anno particolarmente bersagliato dalle cabale catastrofiste, al quale siamo tutto sommato sopravvissuti, crisi permettendo.

A conti fatti il cambio del secondo millennio andò in modo assai più banale e deludente del previsto, benché secondo l’arcivescovo Ussher la fine del mondo dovesse proprio cadere intorno al 2000 d.C., cioè seimila anni esatti dopo la creazione del 24 ottobre 4004 a.C. a mezzodì. Ma la confusione fu somma anche in questo caso, per via del celebre errore di quattro anni, nel calcolo della nascita di Cristo, commesso nel VI secolo dal monaco Dionysius Exiguus, che non si era reso conto che Erode era morto nel 4 a.C. Dunque Gesù, che pure nel Vangelo di Marco accenna in un discorso all’apocalisse senza prevederne la data, è nato nell’anno quarto «prima di se stesso». Inoltre, il monaco aveva fatto partire il tempo dal 1o gennaio dell’anno uno e non dell’anno zero (come avrebbe dovuto, ma non si usava lo zero allora). Quindi nel momento in cui Gesù compiva un anno il sistema di calcolo del tempo basato sulla sua nascita segnava già due anni.

Matematicamente, il terzo millennio in cui siamo ora – come avevano suggerito nel 1968 Arthur C. Clarke e Stanley Kubrick scegliendo puntigliosamente l’anno della loro odissea nello spazio – è cominciato non il 1o gennaio del 2000, ma il 1o gennaio del 2001. Né in un caso né nell’altro il mondo è finito, ma queste incertezze (unitamente al politically correct) stanno inducendo alcuni scienziati ad abolire la dicitura «a.C.» e a sostituirla con quella più neutra di B.P. (before present). Tuttavia, dato che il tempo passa, quest’ultima ha l’inconveniente di dover specificare ogni volta quale sia l’anno a cui ci riferiamo con «present»!

Ginepraio delle datazioni a parte, nell’anno giubilare più prosaicamente le nostre ansie si concentrarono sulle possibili conseguenze di una cattiva interpretazione delle ultime due cifre della data (00 per 1900 anziché per 2000) da parte dei computer di tutto il mondo, con il rischio paventato di flussi finanziari impazziti, interessi bancari alle stelle, telecomunicazioni interrotte, macchinari fermi, metropoli senza elettricità, centrali nucleari fuori controllo, aerei senza bussola, ospedali al buio, gente bloccata negli ascensori, missili in libertà. A ridosso di questa nuova, imminente fine, nacque negli Stati Uniti anche un movimento «Teotwawki», che stava per «The End Of The World As We Know It». Il Millennium Bug o Y2K, costato miliardi di dollari preventivi, non produsse alcunché di tutto ciò e la «bomba tecnologica» annunciata da analisti e governanti in cerca di paure da strumentalizzare non produsse alcun blackout. Tuttavia, la temuta apocalisse tecnologica fu un ottimo catalizzatore per angosce millenariste, guru, telepredicatori e affari d’oro di futurologi e cartomanti. Ma il medioevo prossimo venturo fu rinviato anche quella volta.

Quanto al terzo e giovane millennio, pare faccia sul serio. Sembra uscito direttamente dal Libro di Daniele. È cominciato l’11 settembre 2001 imprimendo in modo indelebile nella nostra memoria le immagini della più perfetta delle apocalissi. Una rivelazione, appunto: la capitale dell’impero della modernità sotto scacco; il nemico suicida che piomba dall’alto; le torri che un tempo toccavano il cielo, ora ferite e sanguinanti, collassano su se stesse; donne e uomini che si lanciano nel vuoto e cadono, cadono, non smettono di cadere nel loro ultimo gesto di libertà; la gente che fugge cosparsa di cenere e polvere; il volto di un presidente, attonito, imbambolato e manifestamente inadeguato. Emerse così in tutta la sua portata il paradosso del possibile nella storia: ciò che sembrava tanto impossibile da essere impensabile, se non nella fantapolitica, si verificò, mostrando così di essere possibile; più precisamente, mostrando che gli eventi che precedettero quella catastrofe contenevano già la sua possibilità. Se per una qualche ragione contingente il piano terroristico fosse fallito sul nascere, continueremmo a ritenerlo impossibile. Il che ci fa supporre che anche ciò che consideriamo adesso impossibile, rispetto al corso attuale degli eventi, potrebbe in realtà aver già maturato le sue condizioni di possibilità [Dupuy 2011]. Eppure nemmeno quella fu «la fine del mondo»: fu bensì la fine di una certa illusione di sicurezza e la fine di un’impossibilità, che tale aveva smesso di essere.

La catastrofe si è inceppata
La fine del mondo, ha scritto Jean Flori, è «una delle credenze più fondamentali dell’umanità, adottata dalle tre religioni maggiori», ebraismo, cristianesimo e islam: «Tutte e tre queste religioni insegnano infatti che il mondo ha avuto un inizio e avrà una fine. Non si può affatto sperare di comprendere la storia degli uomini, e in particolare quella della civiltà occidentale, senza prestare attenzione a questa constatazione» [Flori 2010, 8]. Se la catastrofe è inscritta nella storia che la precede, eppur nascosta nelle sue pieghe, allora anche il presente è gravido della sua potenziale fine. E infatti le narrazioni mitologiche e religiose della fine del mondo, in culture assai diverse tra loro, presentano spesso una struttura comune, uno schema archetipico che significativamente troviamo poi rappresentato nei luoghi comuni dell’immaginario collettivo moderno. È come se fosse una storia di aspettative apocalittiche da ripetere e ripetere ancora, ritualmente, forse per scongiurarla.

Il plot narrativo è inconfondibile. La tranquilla vita della comunità è interrotta da inquietanti segni premonitori, percepiti da alcuni e ignorati dai più. Chi prevede l’imminenza del disastro e cerca di avvisare gli altri viene accolto come un pazzo, o peggio come un eretico. O al più come una Cassandra, che ebbe in dono da Apollo la facoltà del vaticinio ma poi si ribellò al suo dio. La sfrontata non volle giacere con lui ed ebbe così come condanna non la perdita della profezia, bensì, assai più perfidamente, la perdita della credibilità. Anzi, di fronte ai suoi ammonimenti, puntualmente avverati, gli umani corrono ancor più risolutamente verso la catastrofe, quasi stregati in negativo dalla sua incapacità di persuasione.

Ma la narrazione è solo all’inizio. Si sospetta che le autorità sappiano, ma che stiano sottacendo il rischio per non creare panico e per organizzare la propria egoistica salvezza (la teoria del complotto internazionale è un ingrediente indispensabile). Alcuni scienziati avveduti e onesti si accorgono del disastro dietro l’angolo, vengono sentiti dalle commissioni competenti ma non sono presi sul serio. L’evidenza tuttavia si palesa – rapida e senza pietà – e lo sprigionarsi delle forze catastrofiche separa in pochi attimi magicamente i giusti dagli empi, i salvati e i sommersi, i volenterosi e i mediocri. La maggioranza impotente si rassegna e, paralizzata dal suo fatalismo, inizia a pregare nei grandi santuari religiosi del mondo. Stringendosi la mano aspettano la fine.

I malvagi che cercano di salvarsi arrampicandosi sugli altri o corrompendo le autorità sono puniti dalla sorte e soccombono. Viene prontamente a costituirsi una minoranza virtuosa di «eletti», o di autoeletti, che non accetta la fatalità dell’evento, resiste strenuamente alla distruzione e alla fine sopravvive, al costo del sacrificio di alcuni eroi che saranno onorati dai posteri. La furia degli elementi alla fine si placa e tra gli squarci di sereno del cielo si schiudono le porte di un nuovo mondo – rasserenato, pacifico e ora più umilmente consapevole dei propri limiti e dei propri sbagli – dove dare inizio a una nuova progenie di cuccioli umani.

La sensibilità estetica è davvero mutata: dal «sublime dinamico» di Immanuel Kant, che ci avvicinava ai nostri limiti cognitivi, e dal sentimento di terrore stupefatto che lo spettacolo della natura morente regalava ai romantici ottocenteschi, siamo passati al paternalista catastrofismo hollywoodiano, misto di buoni sentimenti ed effetti speciali. I telepredicatori che ogni anno preannunciano apocalissi si adattano fedelmente a questa sceneggiatura e ogni volta non mancano gli adepti pronti a depositare fortune per guadagnarsi un posticino sull’arca della salvezza. In caso di mancata fine del mondo, dovuta a un improvviso slancio di benevolenza di Dio, non si restituisce la caparra e il leader della setta di solito si dà irreperibile: si resta vivi, ma insoddisfatti e non rimborsati.

Nell’immaginario di chi ha bisogno costantemente di un nemico da fronteggiare, la fine del mondo diventa una metafora, inverosimile ma efficace, della battaglia contro le avversità. Questa immagine rituale ed edificante della catastrofe, però, stride oltremodo con la realtà della natura e della storia. L’incapacità totale degli umani di predire la fine del mondo, così come più in generale il futuro, è suffragata da una casistica sterminata. La percentuale di errore delle profezie sulla fine del mondo è attualmente pari al 100%, altrimenti non stareste leggendo questo libro. Per quale recondita ragione il continuo fallimento di questi annunci non crea assuefazione, ma al contrario trova sempre nuovo seguito nel pubblico? E poi, come mai ci sbagliamo sempre?

Forse il mondo è deterministico, tutto è già implicito in ciò che è avvenuto, ma i limiti della nostra mente – evolutasi per ragioni contingenti certamente differenti dai pronostici sulla fine del mondo – ci impediscono di comprenderlo. Oppure, indipendentemente dall’imperfezione della ragione umana, lo scacco delle previsioni rappresenta la reale natura di fenomeni non lineari, imprevedibili non solo di fatto ma anche di principio, frutto di una mistura ogni volta differente di regolarità sottese e di puro caso, come pensava Stephen J. Gould [1999]. In ogni caso, l’esigenza di fare predizioni generalizzate circa la fine dei tempi sembra ben radicata nel nostro corredo psicologico. La percezione soggettiva di una probabilità non ci basta.

Il rischio della smentita non impedisce a sette e predicatori, dal medioevo a oggi, di formulare incessantemente predizioni circoscritte sul momento decisivo in cui la catastrofe si avvererà. Illustri psicologi sociali, già dagli anni Cinquanta, hanno mostrato come nel delirio settario il non avverarsi della profezia possa addirittura diventare motivo per crederci ancor più intensamente, a causa delle giustificazioni a posteriori che leniscono la delusione per la smentita [Festinger, Riecken e Schachter 2012]. Nel Vangelo di Matteo già si mettevano opportunamente le mani avanti: la fine collettiva, come quella individuale, è certa ma indeterminata; inutile calcolarla in anticipo (25, 13). Ma non è servito, troppo forte la tentazione di stringersi attorno a un capo religioso o politico che indica il punto esatto. Così torna al centro l’evidenza dell’ossessione catastrofista, dell’imminenza di una soluzione radicale della crisi che viene però rinviata e rinviata ancora. Le cose cadono a pezzi, e continuano a cadere a pezzi, come in una moviola che non finisce mai, come in un sogno in cui non si smette mai di cadere. Il risultato è che la catastrofe non è un punto asintotico del futuro, ma è già da sempre presente, se non altro come grande narrazione influente. Con la sua inerzia e i suoi strascichi, innerva la contemporaneità. Lo scrive fra gli altri Paul Auster nel romanzo Nel paese delle ultime cose: «Ci impiega tanto tempo un mondo per svanire, più di quanto si possa pensare» [2003, 27]. L’intreccio dunque non si scioglie. Perché?

Le origini greche del verbo kata-strépho – rivolgere di sotto in su, stravolgere, sconvolgere, ma anche volgere a un termine – rimandano alla soluzione drammatica del dilemma nel teatro tragico: è la svolta rovinosa, il finale rivelatore prima della catarsi. Formalizzata nella Poetica di Aristotele, «catastrofe» è lo scioglimento repentino dell’intreccio. Gli eventi precipitano, i legami si spezzano, la continuità della storia è rotta, gli impliciti emergono, l’irreparabile avviene. Ciò che deve accadere accade. Il fato già scritto si compie, anche sotto forma di caso, e noi possiamo soltanto narrarlo e rinarrarlo indefinite volte per esorcizzare la sua necessità inscritta nella storia. Ma nel nostro mondo l’intreccio non smette di sciogliersi del tutto e il dolore della catastrofe non è catartico. La catastrofe si è inceppata, non trova esito, soluzione (altro significato del termine in greco). È diventata fisiologica e ci conviviamo, come con una malattia che si cronicizza.

Forse questa attitudine a pensare una continua apocalisse senza giudizio finale si è accentuata da quando abbiamo scoperto, tra Settecento e Ottocento, grazie alle scienze della Terra e alla teoria evoluzionistica, che la nostra epoca galleggia come una sottile pellicola sopra un oceano sterminato di tempo già passato, milioni di anni in cui la gran parte delle specie viventi si è già estinta. Se il tempo è così profondo e tormentato, ci viene più facile pensare che il mondo stia per finire, perché di sicuro non sta per cominciare.

O più probabilmente è il caos del presente a suggerirci che la fine è già dentro la storia che stiamo vivendo e non ha redenzione né liberazione. La fine è adesso e può rivelarsi in qualsiasi momento. Come racconta magistralmente Francis Ford Coppola in Apocalypse Now (1979), in una situazione come la guerra del Vietnam la catastrofe non è là da venire, non la dobbiamo né attendere né temere, perché si è già compiuta interiormente e silenziosamente nell’orrore e nella perdita di qualsiasi senso di cui sono capaci le azioni umane. La risalita di quel fiume è ormai soltanto il vuoto simulacro di citazioni letterarie. Non vi è alcun esito da raggiungere, se non attraversare il caos. La catastrofe ripete sempre lo stesso ritornello di morte, diventa allucinogena e infernale. Non ha dunque alcun senso «ulteriore» da rivelarci. Il tempo della fine non è più vicino, è già qui. E il settimo sigillo è aperto da tempo.

Il determinismo dell’astrologia: storie che ci piacciono da pensare
La coazione al ripetersi della catastrofe nel nostro immaginario trova alimento nella facile credulità con la quale siamo istintivamente attratti dallo scenario apocalittico, con quel suo misto di grandezza e di timore che lo rende sublime. Morbosamente, vogliamo vedere e rivedere quegli aerei che si schiantano sulle due torri. È difficile risolvere un problema (il mondo rischia di finire, facciamo qualcosa) se quel problema per qualcuno è una soluzione. Anche in perfetta buona fede, il fascino intuitivo per la fine del mondo potrebbe risiedere in un’avversione per la realtà che ci circonda, nel sincero convincimento di essere tra i «salvati», nella percezione della propria insanabile inadeguatezza, o nel sentimento dell’insopportabile ingiustizia di un mondo che meriterà prima o poi la sua punizione. Ma forse c’è una ragione meno emotiva e più cognitiva, connessa ai nostri modi di raccontare le storie e di interpretare le relazioni tra eventi che ci stupiscono e ci atterriscono al contempo.

La focalizzazione sul 21 dicembre 2012 come data fatidica per una qualche non meglio precisata «fine del mondo», in virtù di un’interpretazione del calendario maya, è un formidabile esempio dell’attitudine umana a dare importanza a correlazioni inesistenti e a cercare eccessivi significati nelle coincidenze. Del resto, se quel giorno sarà il 21/12 del 2012, dovrà pur voler dire qualcosa (i maya non avevano il nostro sistema numerico, ma poco importa per gli improvvisati numerologi occidentali in cerca di segreti esoterici). È all’opera qui una struttura di pensiero antichissima, radicata nella nostra evoluzione biologica, frutto di vincoli cognitivi sedimentatisi nella storia naturale per ragioni adattative o come effetti collaterali di altre funzioni, che ci porta a interpretare fenomeni e regolarità naturali, siano esse terrestri o sideree, non nel loro significato letterale e meccanico, bensì come messaggi e «segni» riguardanti aspetti cruciali della storia umana e della vita della comunità [Wolpert 2008; Girotto, Pievani e Vallortigara 2008]. La nostra mente sembra predisposta a interpretare le manifestazioni del cielo e della terra come il prodotto di un’intenzione, come significati nascosti, come simboli di un disegno cifrato.

Dunque occorre individuare un mediatore umano che sia capace di leggere questi messaggi e di interpretarli nei termini di un destino storico che abbraccia l’intera comunità. Una grande narrazione terrà unito il gruppo, mescolando elementi di linearità e di ciclicità del tempo, entro i quali si inscrive la possibilità della «catastrofe», mutuata dall’esperienza dell’imprevedibilità distruttiva della natura, che ci colpisce con cataclismi meteorologici quando meno ce lo aspettiamo. Allora la catastrofe naturale non può avere una sua logica esplicativa autonoma: deve essere invece un rimando ad altro, un messaggio riguardante una corrispondente e simmetrica kata-strophé umana e sociale, storicamente designata.

La narrazione apocalittica, con la sua immediatezza, si esprime dunque in un linguaggio comprensibile, intuitivo, familiare. Inserisce l’apparente casualità degli eventi terreni in un grande disegno universale che riempie di significato ogni cosa e rende, per contrasto, fortemente controintuitiva ogni spiegazione scientifica che restituisca ai cieli e alla terra una propria immanente logica di funzionamento, le cui leggi e i cui ritmi sono del tutto indifferenti alle sorti di un primate di grossa taglia che abita il terzo pianeta di un sistema solare periferico.

Noi vogliamo fortemente credere che una meteora o un allineamento di pianeti ci stiano dicendo qualcosa di esoterico: deve esserci sotto qualcosa, una trama che sfugge, un senso recondito della storia. Che il ritorno di una cometa sia dettato soltanto dall’eccentricità della sua orbita non ci basta. Sarebbe dunque un errore pensare che queste strutture interpretative che alimentano la nostra immaginazione siano soltanto residui di un’età infantile del mondo, stupide superstizioni sopravvissute alla secolarizzazione. Al contrario, esse sono espressione di vincoli cognitivi profondi che tutti ci portiamo appresso. L’indagine sul loro funzionamento ci permette quindi di spiegare, anche se non di giustificare, l’attrazione che proviamo per questo passato che non passa.

Ecco perché i maya sono perfetti. Come primo passo, si parte da un dato di fatto acquisito nella letteratura di riferimento, in questo caso archeologica: le eccellenti conoscenze astronomiche sviluppate dal popolo maya e testimoniate dai pochissimi testi sopravvissuti (tre soli Codici rinvenuti finora), da iscrizioni e sculture, nonché dalla conformazione architettonica degli insediamenti. I maya furono in grado di prevedere realmente una notevole quantità di fenomeni astronomici. Escogitarono un modo univoco per indicare la data di un qualsiasi evento celeste, alla stregua di ciò che in Occidente accadrà soltanto nel XVI secolo con l’invenzione del giorno giuliano. Si stabilisce un inizio arbitrario del conteggio del tempo, valido per tutti, e poi si calcolano i cicli temporali assoluti in base alle regolarità astronomiche (anno solare, mese lunare, e così via). Secondo quanto desunto dall’interpretazione più attendibile del Codice di Dresda e delle sue tabelle astronomiche, nei maya il calendario religioso si sincronizzava ogni 52 anni con il calendario astronomico osservato, che consisteva di 365 giorni suddivisi in 18 mesi da 20 giorni ciascuno, più 5 giorni residuali che non venivano calcolati in quanto ritenuti sfortunati.

Esisteva tuttavia un «lungo computo», a partire da un giorno zero che corrispondeva al nostro 11 di agosto del 3114 a.C., che permetteva di attribuire a ogni giorno una datazione assoluta [Diamond 2005]. Con un sistema ingegnoso a tre simboli (un ovale per 0, un punto per 1 unità, una linea per 5), a ogni data corrispondeva una notazione numerica che includeva giorno, mese, anno, cicli di 20 anni e infine 13 cicli di 400 anni. Quindi i giorni contenuti in un «grande ciclo» dei maya sono 20 × 18 mesi × 400 anni × 13, cioè l’equivalente di 5.128,76 anni. Il 21 dicembre 2012 (traslato nel nostro calendario) è il giorno conclusivo dell’attuale grande ciclo del tempo. Un giorno importante, non c’è che dire, purché si accetti l’arbitrarietà dell’inizio del computo e dei cicli interni.

Il dato acquisito rende plausibile il contesto di discussione e viene poi associato, in modo apparentemente corretto, a un’interpretazione storico-culturale. Ecco il secondo passo: ovvero, per questi popoli gli astri e i loro movimenti rappresentavano la modalità privilegiata per accedere a quello che consideravano il mondo ultraterreno, popolato di dei, di spiriti e di antenati. Dunque il calendario astrale e i suoi momenti topici – come eclissi, presunti allineamenti di pianeti, passaggi di comete, solstizi ed equinozi, la fine di un grande ciclo – assumevano significati religiosi legati al succedersi delle stagioni, alla fecondità e al futuro benessere delle comunità secondo la volontà delle divinità.

Come è normale che sia per chi impara a conoscere le regolarità dei movimenti celesti, il calcolo di un periodo di rivoluzione o di un ciclo astronomico implica automaticamente la possibilità, irresistibile per la curiosità umana, di fare previsioni su eventi che si verificheranno nel futuro, anche in un lontanissimo futuro. Dobbiamo imporre un ordine al caos, così come alle profondità del tempo. E quelle dei maya sono previsioni molto accurate, che svelano l’interessante paradosso del determinismo dell’astrologia. Mentre il pensiero scientifico è da secoli alle prese con la consapevolezza dei propri limiti conoscitivi e con strategie probabilistiche per rendere intelligibile il comportamento di sistemi imprevedibili, dai tempi dei caldei fino alla versione ellenistica di impronta stoica l’astrologia è un’antica struttura interpretativa che associa posizioni astrali e destini umani in modo fatalistico. In essa la profezia ha funzione di monito e di memoria, ma non di sostanziale cambiamento dei comportamenti.

La sua efficacia deresponsabilizzante la rende assai attraente, potendo incasellare fortune, temperamenti e predisposizioni in etichette preconfezionate che escludono dall’orizzonte della spiegazione il caso e la contingenza. Il suo ascolto innesca meccanismi di autoavveramento della profezia, che conferma se stessa giacché, fin dall’inizio, era espressione di un’aspettativa inespressa. Le paure e le angosce trovano un senso, le inquietudini si placano. Nei fondi del caffè, nelle viscere degli animali o nelle geometrie di volo degli uccelli si materializzano pronostici che rivelano il nostro bisogno di un futuro necessario, scritto fin dall’inizio nel cosmo e nella natura.

Nella precisione dei maya si evidenzia quanto la mantica e la divinazione siano stati per molti aspetti i precursori del calcolo e abbiano contribuito a formare l’ambiente culturale proto-scientifico in cui nacquero, per fini commerciali e di scambio dei beni, la geometria e la scrittura. Da qui prende però avvio l’esplosione di correlazioni arbitrarie, giacché i maya – del tutto legittimamente nel loro quadro di riferimento religioso – associavano poi ad eventi astronomici culminanti il verificarsi di cambiamenti storici epocali nelle loro società e nell’organizzazione del loro universo simbolico. Non pensavano cioè che l’eclissi e l’allineamento dei pianeti fossero fenomeni fisici indipendenti dal loro mondo, ma al contrario sovrapponevano a essi significati intenzionali e teleologici, come se fossero messaggi da un altro mondo, segnali del compimento di un destino già scritto, appunto, nella volta celeste. La fine di un grande ciclo del tempo doveva apparire loro, giustamente, come un evento epocale, ma non esattamente come una «fine del mondo», bensì un’occasione di rigenerazione, l’inizio di un nuovo ciclo del tempo. Era il più colossale «punto e capo» che potessero concepire.

L’attraente non senso del 21 dicembre 2012
L’analogia con il ripetersi delle stagioni e con la rivoluzione della Terra intorno al Sole portò i maya, come innumerevoli altre culture nel mondo, a concepire una visione del tempo di tipo ciclico, con grandi epoche storiche intervallate da cesure nette (e potenzialmente drammatiche), a cui seguivano nuovi inizi. Dunque proiettavano queste correlazioni nel futuro e costruivano un calendario nello stesso modo: sorprendentemente preciso in termini astronomici moderni (con il calcolo dei cicli primari dei giorni, delle lunazioni, dell’anno solare e della precessione degli equinozi), ma carico anche di significati simbolici legati alle loro vicende terrene.

Nel solstizio d’inverno del 2012 inizia dunque il loro quattordicesimo ciclo di calendario. Non esiste alcun documento maya che indichi in questa data l’interruzione dei cicli del tempo, quindi non è la fine del mondo nemmeno nel loro universo simbolico, figuriamoci nel nostro. A confermarlo è giunta la scoperta, annunciata nel maggio 2012 su «Science» [Saturno et al. 2012], di raffinati calcoli astronomici maya scritti sulle pareti delle rovine della città di Xultun, in Guatemala, e risalenti a un’epoca precedente il Codice di Dresda. La numerazione del «lungo computo» a Xuntun va ben oltre la fine del ciclo attuale, proiettandosi verso successive ere del tempo, ancora tutte da esplorare ben oltre la fine del mondo di cui si sono innamorati gli occidentali.

Ciò che conta qui è piuttosto la peculiarità della loro visione del tempo. In altre civiltà fiorite nella fascia equatoriale e tropicale, la divisione in quattro dell’anno aveva minore significato naturalistico (a favore per esempio di distinzioni dicotomiche fra una stagione umida e una stagione secca) e la concezione del tempo aveva cicli differenti. In assenza di fluttuazioni nelle stagioni e nelle ore di luce, la percezione del tempo sarà differente. La versione del calendario cristiano procede invece in modo lineare, preannunciando un epilogo da attendere. Qui la storia erode il tempo, lo consuma costantemente. Nello stesso processo di formazione della concezione scientifica del «tempo profondo» si sono confrontate a lungo visioni basate sulla linearità della freccia del tempo e visioni basate invece sulla ciclicità dei ricorsi storici [Gould 1987]. Ma non sono certamente questi grandi temi di storia delle idee e di antropologia del tempo a occupare, purtroppo, i dibattiti sulla fine del mondo. Tocca occuparsi di tutt’altro.

Ebbene, che cosa può avere a che fare tutto questo, un millennio e mezzo dopo la grande era maya, con noi esseri del XXI secolo e con il 21 dicembre 2012? Analizziamo i fatti. Secondo un’interpretazione esoterica del calendario maya, la data sarebbe fatidica per tre ragioni concomitanti: perché il solstizio d’inverno cade nel loro giorno sacro; perché lo stesso giorno vi sarà un’eclissi totale di Sole (visibile solo nel Pacifico); e perché alcuni mesi prima il pianeta Venere passa dinanzi al Sole in un altro giorno sacro. È un po’ come se, per noi, questi tre eventi indipendenti cadessero tutti di domenica e nello stesso anno solare: un’evenienza del tutto irrilevante. La probabilità che si verifichi una coincidenza del genere è bassa, ma sappiamo che in natura eventi assai improbabili avvengono normalmente. Inoltre, questo solstizio avrebbe un significato particolare perché il Sole al suo sorgere verrà a trovarsi perfettamente allineato alla parte centrale della Via Lattea, quella che vediamo più scura in mezzo a due fasce più illuminate di stelle. Solo che dimentichiamo un piccolo particolare: questo allineamento sta avvenendo dal 1980.

Tutto ciò, dal punto di vista degli esegeti contemporanei. Mettiamo che un sacerdote di una religione consideri la coincidenza astronomica sopra quelle tre domeniche come un fatto eccezionale e pieno di significati occulti. Lo potrebbe fare solo nell’ipotesi in cui la domenica fosse una giornata speciale, in virtù di specifiche, contingenti e culturalmente definite credenze religiose. Ne discende che una data fatidica per gli esegeti dei maya non lo sarebbe affatto per un’altra cultura. Senza considerare, poi, che queste elucubrazioni sono totalmente antropocentriche e persino geocentriche: un osservatore posto su un pianeta extrasolare abitabile attorno alla stella Vega vedrebbe l’intera faccenda in un modo completamente diverso.

L’allineamento di pianeti e il loro passaggio davanti al Sole sono fenomeni di prospettiva, visti dalla Terra. Simili congiunzioni astrali o «convergenze» avrebbero dovuto innescare chissà quali cataclismi secondo gli spericolati interpreti dei maya già nel 1987 e poi nel 2000. In tutti i casi, considerando razionalmente che la suddivisione dei giorni in gruppi di sette e dei secoli e dei millenni in base dieci sono convenzioni arbitrarie che usiamo per suddividere lo scorrere della nostra percezione del tempo, considerando inoltre che da quando esiste il sistema solare le comete incrociano le orbite dei pianeti, gli asteroidi entrano in collisione e i pianeti vengono a trovarsi in allineamenti casuali secondo casuali punti di osservazione, qualsiasi associazione tra simili eventi naturali del tutto spiegabili e altri significati esoterici può essere catalogata, semplicemente, come superstizione.

Anche se talune mode filosofiche hanno indotto a pensare che questa distinzione fosse sintomo di rozzezza intellettuale, tende a persistere una certa differenza tra stati di natura e nostre interpretazioni o definizioni arbitrarie di essi. La flessibilità e l’infinita diversità di significati e di suggestioni che la nostra mente può sovrapporre a una realtà innegabile non implicano che quest’ultima smetta di essere un dato di fatto documentato:

In natura alcune cose semplicemente sono, anche se possono essere analizzate e interpretate in mille modi differenti. Un leone è un leone, e i leoni sono più imparentati con le tigri che con i lombrichi. Il che non esclude l’esistenza di sistemi filosofici che abbiano al centro il legame spirituale o metaforico tra il leone e il lombrico. L’albero evolutivo della vita può essere del tutto ignorato o fattivamente negato, ma non per questo si modificherebbero le genealogie della natura [Gould 1999, 34].

Ci aggrappiamo a regolarità numeriche, con un accanimento interpretativo che è direttamente proporzionale al nostro bisogno di sicurezza. Come scrisse Kant, regna in noi la necessità di pensare che il mondo abbia un significato, che il suo dramma non sia vano ma abbia un epilogo sensato. Isaac Newton era convinto che Dio governasse il mondo «secondo un piano provvidenziale che il filosofo contempla nei fenomeni naturali» [Guicciardini 2011, 104]. Ciò valeva per la storia naturale come per la storia umana. Così, nel tentativo di recuperare l’antica saggezza mosaica, si interessò di cronologia biblica e delle antiche profezie, pur senza finalità predittive e millenaristiche:

Come la natura offre allo sguardo indagatore dell’alchimista, del cosmologo, del fisico, la traccia dell’intervento finalizzante e ordinatore di Dio, così la Storia rivela il Suo intervento provvidenziale. Le profezie infatti, una volta decifrate, non sarebbero altro che descrizioni di eventi storici [ibidem, 108].

La fine del mondo è speranza in un disegno, in un codice già scritto nella storia, da decifrare nel libro delle Scritture o nel gran libro della natura. In quel 21 dicembre 2012 e nell’ansia del suo esito si nasconde allora il nostro rifiuto psicologico dell’ipotesi che, forse, il cosmo non abbia alcun senso né alcuna direzione e che «noi umani abitiamo questo pianeta senza una ragione specifica né uno scopo stabilito dalla natura» [Gould 1999, 44]. Una natura che forse non è in attesa di alcuna redenzione, ma è aggrappata alla sua autoconservazione, alla perpetuazione dell’imperativo di vivere e di trasmettere la propria eredità. Refrattari a convincerci – come invece lo era l’ignoto estensore del Qohelet tra il IV e il III secolo a.C. – che sotto il sole «non è degli agili la corsa, né dei forti la guerra e neppure dei sapienti il pane e degli accorti la ricchezza, e nemmeno degli intelligenti il favore, perché il tempo e il caso raggiungono tutti» (9, 11). Nessuno ha saputo dirlo meglio di Leopardi nelle Operette morali, in quel Dialogo della natura e di un islandese in cui la prima, matrigna e indifferente, apostrofa così il secondo: «Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? … Se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei» [1976, 157].

I mercanti di millenarismo
E fin qui – in merito agli eccessi di significato che attribuiamo a eclissi, coincidenze e allineamenti – sarebbe tutto abbastanza normale. La fine del mondo è una storia semplice, è uno schema generale che sembra dar senso ai capricci del mondo naturale. Ma poi subentra, ben orchestrata, la truffa intenzionale dei mercanti di millenarismo. Qualcuno infatti aggiunge che, essendovi al centro della nostra galassia il buco nero Sagittario A, i maya si accorsero del suo allineamento con il Sole e con la Terra, proprio nel giorno del solstizio invernale del 2012, il che non poteva che avere un significato funesto. È uno di quei ragionamenti così fallaci da contenere un errore argomentativo quasi per ciascuna sillaba: come potevano i maya sapere che cosa fosse un buco nero? Come potevano individuarlo attraverso le osservazioni a occhio nudo? Anche ammesso che lo sapessero, perché la coincidenza con il solstizio dovrebbe essere significativa? E perché tutto ciò dovrebbe portare male? Ma soprattutto, perché l’allineamento del Sole con il centro della galassia (reale solo dal nostro marginale punto di osservazione terrestre) dovrebbe avere un effetto fisico percepibile sulla Terra?

Secondo altri interpreti, l’allineamento dei pianeti giganti Giove e Saturno perturberà nel dicembre 2012 «l’asse polare» del Sole, provocando un’attività eccezionale della nostra stella, con conseguenze disastrose per la Terra. Peccato che i due pianeti non saranno affatto allineati nel 2012, che il Sole non ha un unico asse polare e che, costituendo esso da solo il 98% della massa dell’intero sistema solare, non può essere influenzato in modo significativo dalla forza di gravità dei pianeti che gli orbitano attorno. Tralasciando ora il Sole, anche rispetto alla Terra l’azione gravitazionale di tutti gli altri pianeti messi insieme equivale al 2% di quella lunare: difficile immaginare che il loro (peraltro inesistente) allineamento possa stravolgere la crosta terrestre o invertire il campo magnetico.

Le assurdità fantastronomiche hanno un tasso di proliferazione così elevato da rendere difficile un’analisi razionale affermazione per affermazione, un po’ come capita per il negazionismo in materia climatica o evoluzionistica. L’accecamento ideologico è così tenace che ben presto non serve più rispondere alle provocazioni: vi sarà sempre qualche nuova ipotesi delirante pronta a rimpiazzare le precedenti. Inutile dunque ricordare che il centro della galassia e il piano dell’orbita terrestre non possono trovarsi allineati. Che la crosta terrestre non può spostarsi repentinamente come una glassa sopra la crema. Che il prossimo picco massimo di attività solare, come sanno bene i gestori di reti elettriche, è previsto per la metà del 2013. Che l’impatto gravitazionale del buco nero Sagittario A sulla Terra è pari a un milionesimo di quello del Sole. Che il nostro sistema solare incrocia il piano galattico della Via Lattea ogni 33 milioni di anni e che l’ultima volta è successo circa 3 milioni di anni fa: ne mancano trenta al prossimo.

La truffa prosegue, perché si dice che già in passato, secondo cicli regolari, queste coincidenze astrali coincisero con cataclismi globali e con stravolgimenti del mondo. Il che è risaputo come falso: nell’ultima configurazione simile che si è realizzata, 13 mila anni fa, gli evoluzionisti non riscontrano alcun fenomeno parossistico. Non vi è alcuna traccia nemmeno del paventato ciclo catastrofico di 26 mila anni: stava volgendo al termine l’ultima era glaciale e tutto procedeva come negli ultimi due milioni e mezzo di anni. I menagramo da bestseller apocalittico esoterico non sono ancora soddisfatti e a questo punto si rivolgono disperati, ma invano, al killer per eccellenza: un oggetto misterioso e oscuro che starebbe facendo rotta dritto verso la Terra, con appuntamento fissato per il 21 dicembre 2012. Per alcuni è un pianeta X, il dodicesimo enigmatico pianeta del sistema solare, per altri una stella nana, una cometa, o un asteroide colossale. Il fatto che nessun osservatorio astronomico li abbia mai individuati né catalogati (eppure ormai dovrebbero essere così vicini da vedersi a occhio nudo) viene spiegato ipotizzando orbite talmente ellittiche da essere fisicamente impossibili, oppure ricorrendo a non meglio definite anomalie nella visibilità del cielo. Ma a questo punto possiamo abbandonare caritatevolmente al loro delirio autoreferenziale i sostenitori di queste fantasticherie [per una rassegna critica Cecchi Paone 2011].

Talvolta l’appiglio con la scienza c’è, ma viene subito travisato intenzionalmente, stravolgendo tempi e modi dei processi. Come causa della presunta catastrofe del 2012 si ricorre a improbabili ribaltamenti dei poli magnetici, a oscillazioni dell’asse di rotazione terrestre, a glaciazioni improvvise, ad aumenti dell’eccentricità dell’orbita terrestre. Tutti fenomeni reali, ma che hanno cause geodinamiche e astrofisiche note e richiedono tempi geologici (e non umani) per realizzarsi. Non esistono evidenze di fenomeni repentini in questi processi. I poli magnetici terrestri si sono invertiti l’ultima volta 780 mila anni fa e non sembra essere successo niente di particolarmente drammatico nella storia naturale. Tra un ribaltamento e il successivo possono passare anche 30 milioni di anni e nel frattempo le migrazioni e le variazioni di intensità del campo magnetico si svolgono in millenni. Al momento il polo magnetico settentrionale si sta spostando di circa 41 km all’anno verso la Siberia ed è particolarmente debole, ma nulla lascia presagire che debba rovesciarsi improvvisamente, disobbedendo a uno schema che dura da milioni di anni. Lo stesso vale per l’eccentricità dell’asse di rotazione terrestre, al quale dobbiamo l’alternanza delle stagioni, che varia tra 22,1 e 24,5 gradi di inclinazione rispetto al piano orbitale nell’arco di 41 mila anni, producendo fra l’altro le oscillazioni di fasi glaciali e interglaciali degli ultimi due milioni di anni. Nulla ci porta a pensare che questa astronomica routine debba proprio interrompersi alla fine del 2012.

E in ogni caso, per tornare ai maya, nulla hanno a che fare questi fenomeni con arbitrari cicli astrologici. L’uscita di sicurezza finale, per i mercanti massmediatici del millenarismo, è quella di mutare segno alla data: non più crollo funesto, ma occasione di rinnovamento cosmico e di trasformazione spirituale. Insomma, era solo una metafora. Come valutare coloro che rimestano nel torbido e approfittano della credulità generale per inventare ipotesi inesistenti, scenari falsificati e fantasie esoteriche a buon mercato? Ci propinano queste sciocchezze ridicole persino in prima serata nella televisione pubblica, a spese dei contribuenti, mescolando ripetitivamente le stesse bufale misteriche, la strumentalizzazione dei dati scientifici e lo storpiamento della ragione. Poi cavalcando un’audience ben coltivata e ammansita vendono decine di migliaia di libri sui maya e sulla fine del mondo, dicendo e non dicendo, scimmiottando il linguaggio scientifico, ammiccando e strizzando l’occhio verso chissà quali rivelazioni imminenti. Dopo che la profezia sarà stata smentita, nel bestseller successivo spiegheranno serafici che la fine del mondo era solo un’allegoria, che non si voleva dire quello che molti avevano inteso, e che è tempo di dedicarsi alla prossima superstizione per ingenui.

La freccia del tempo e il ciclo del tempo
I mistificatori non avrebbero alcun successo se non facessero leva su una potente predisposizione cognitiva, ed è su questa che occorre concentrarsi. La catastrofe infatti non rappresenta tanto la paura di un evento puntiforme, localizzato e definitivo, quanto una permanente esigenza di considerare come possibile una rottura della continuità attuale. La fine del mondo è un’ossessione perdurante, che accolliamo di volta in volta a eventi specifici o a coincidenze superstiziose. La somministrazione quasi quotidiana di notizie catastrofiche non crea assuefazione, ma fedeltà. Abbiamo bisogno della catastrofe per una profonda esigenza di serenità psicologica. Lo stravolgimento dell’ordine corrente, per un intervento divino o per l’irruzione di un eroe salvatore o per una congiuntura astrale, serve a mitigare l’ansia che sovviene al pensiero che il mare di incertezza nel quale navighiamo possa non avere fine.

La pressione dell’instabilità si va acuendo, tra baratri economico-finanziari, sgretolamenti di antiche sicurezze, devastazioni ambientali, squilibri planetari. Sarebbe tuttavia insufficiente pensare che il gusto dell’apocalittico sia soltanto un modo per esorcizzare, nello spazio dell’immaginario, l’angoscia del reale. La fine del mondo ha a che fare anche con le nostre filosofie della storia e con le narrazioni che ci consolano, che ci piace pensare. Ci attrae la sensazione che qualcosa come la fine di un ciclo possa azzerare tutto, rompere l’incantesimo dell’incertezza permanente e farci ripartire su nuove basi. Al contempo, ci sfiora la sensazione che possa essere un’illusione, un desiderio costantemente deluso, il lato oscuro della modernità, se è vero che anche nell’Inghilterra della rivoluzione industriale, nella prima metà dell’Ottocento, con le vele del progresso rigonfie, la gente accorreva affascinata ad ammirare i quadri romantici di un pittore apocalittico e tenebroso come John Martin. Nei suoi inquietanti e grossolani scenari, le architetture umane sono minacciate da fiumi di lava, terremoti, inondazioni, e da ogni altro tipo di disastro biblico e di esagerazione in tinta rosso fuoco. Tutto è sull’orlo del crollo, in procinto di diventare rovina, in un caos scenografico esteriore che è specchio di quello interiore.

Da un lato, vogliamo essere rassicurati sul fatto che il tempo abbia una sua forte continuità, che il prima preceda il poi, che vi sia una concatenazione sensata di eventi, e forse persino un miglioramento, un cammino positivo e irreversibile di cambiamento. Dall’altro, se ci affidiamo alla sola e piatta linearità, la storia rischia di diventare una mera sequenza di accadimenti casuali e assurdi, «una dannata cosa dopo l’altra» come la definì Henry Ford. Se però in questo flusso qualcosa si ripete in modo ciclico (il giorno dopo la notte, nuovi nati al posto di chi se ne va), allora forse la storia è più comprensibile e possiamo quasi accettarla. La freccia del tempo e il ciclo del tempo hanno bisogno l’una dell’altro [Gould 1989].

Questa ambivalenza tra continuità e rottura è presente anche nei nostri modi di concepire il cambiamento evolutivo. La gradualità delle trasformazioni ci rassicura sul fatto che quanto è stato faticosamente costruito nel passato – attraverso mutazioni, lotta per la sopravvivenza e tante sofferenze – possa durare ed essere ulteriormente raffinato. Così, nell’accumulo, ci sembra che la storia naturale abbia un senso. Eppure abbiamo bisogno anche della catastrofe, del cataclisma imprevedibile che scompagina le carte, riapre i giochi, ridona speranza a chi era ai margini della storia, rovescia i rapporti di forza, spezza la logica precedente che sembrava invincibile. Un ciclo si compie e un tempo nuovo comincia. Anche l’evoluzione, sotto le spoglie di anonimi scombussolamenti ecologici, ha il suo deus ex machina che ogni tanto acciuffa i perdenti e li toglie dai loro vicoli ciechi.

Capitolo secondo
Disastro (cattive stelle: l’invenzione della calamità «naturale»)
Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro maravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi né fama alcuna; parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi.
G. Leopardi, Cantico del gallo silvestre, 1824

Nella fulminante chiusa leopardiana del Cantico del gallo silvestre non troviamo soltanto pessimismo cosmico. Un giorno l’intero universo, come anche le più meravigliose imprese umane, finirà nel nulla, senza lasciare alcuna traccia di sé: solo un silenzio nudo, e una quiete altissima, riempiranno il buio. Ma può succedere di peggio, e cioè che un destino beffardo sancisca la fine dell’universo prima che chiunque dei suoi abitanti ne abbia carpito il senso, se mai un senso vi fu. L’arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale si dileguerà prima che un qualche sapiente, sperduto in uno dei suoi piccoli mondi, lo abbia compreso e decodificato. Se ne fugge via, l’ipotetico «senso del tutto», prima che qualcuno lo agguanti, e l’interrogativo resterà per sempre senza risposta nello spazio immenso del dopo. Forse è per scongiurare questa precarietà universale interna che cerchiamo nella fine del mondo una logica, un messaggio esterno.

Circa le modalità, i tempi cambiano. I quattro cavalieri dell’Apocalisse biblica irruppero con criterio sociologico: pestilenza, guerra, carestia e morte. I quattro cavalieri dell’apocalisse moderna portano nomi differenti, più naturalistici. Quando pensiamo al male che affligge le nostre esistenze – sotto forma di sofferenza fisica, di ingiustizia, di delitto, di sopraffazione e di morte – siamo tentati di risalire alle sue origini prime. Cerchiamo concatenazioni di cause ed effetti, per capire come tutto cominciò. Oppure lo giustifichiamo dentro un grande disegno storico, concependolo come l’espiazione di una colpa primigenia, di una caduta originaria. Ancor più misteriosamente, lo imputiamo alla libertà umana, concessaci da un Creatore, di poter fare il bene tanto quanto il male, nella nostra condizione di imperfezione. Ci affidiamo al mito, al racconto religioso, e all’immaginario collettivo. Cerchiamo ossessivamente capri espiatori dentro i quali condensarlo, per poi illuderci di averlo espulso. Per non dover contemplare la possibilità leopardiana: che il senso del mondo, se mai ve n’è uno, svanirà insieme al mondo stesso, prima che noi lo si possa afferrare.

La natura non è un’autorità morale
Per questi approcci consolanti al problema del male, vale il rinvio a un passato lontano, a una causa remota che ci distolga dal presente, dall’ordinaria banalità con cui il male si esplica nelle piccole cose. Allo stesso modo, si presuppone che almeno idealmente possa esistere (o possa essere esistita) una condizione libera dal male, che esso sia cioè estirpabile, che lo si possa arginare conquistando spazi di verginità. La sorpresa attonita con cui accogliamo i disastri naturali, in un misto di paura atavica (se ci riguardano) e di anestetica distrazione (se riguardano mete esotiche), si inserisce in questa sensibilità devitalizzata e ambivalente rispetto alla presenza del male, nel mondo umano, in quello naturale e in tutti i loro intrecci. Ma come, proprio ora, proprio qui, proprio a noi? E perché punire, sotto le macerie o annegati, proprio i più fragili, gli indifesi, i bambini?

La natura, che non è un agente intenzionale né un’entità personale ma un campo di fenomeni e di relazioni che ci include e che ha una storia, ovviamente non ascolta queste invocazioni, né si lascia influenzare dalle maledizioni. Ci appelliamo a essa come serbatoio di indicazioni etiche, facendone un’autorità morale. Le assegniamo arbitrariamente valori di «equilibrio», di «armonia», di ordine e pacificazione [Pollo 2008]. Gli stessi aggettivi «naturale», «organico» e «biologico» hanno assunto edificanti connotazioni etiche. Ci piace pensare che la «Natura» sia il luogo della stabilità, la solida roccia sulla quale poggiare i nostri convincimenti, la dimensione universale capace di metterci tutti d’accordo (dal teologo all’ambientalista) in materia di norme morali. Purtroppo, non è così. Come scrive Jean-Pierre Dupuy, dal terremoto di Lisbona del 1755 allo tsunami asiatico del dicembre 2004 è «come se dal male non avessimo imparato niente» [2006, 29].

Il mondo naturale è del tutto indifferente ai nostri interrogativi morali, e proprio per questo ci lascia liberi di elevarli sulla base delle nostre capacità, delle nostre propensioni e dei nostri limiti (tutte caratteristiche peraltro evolutesi nel corso della storia naturale). La sua norma, se proprio vogliamo trovarne una, è quella della diversità delle soluzioni adattative e comportamentali, dell’esplorazione contingente di possibilità. La selezione naturale, come notò Darwin (conscio dei pericoli della sua personalizzazione), non ambisce alla perfezione, ma a fare quel che si può in un contesto ambientale cangiante, con il materiale a disposizione, trovando compromessi tra spinte antagoniste, mirando al qui e ora della sopravvivenza e della riproduzione.

In natura troviamo la più insopportabile crudeltà, il sadismo, la ferocia intraspecifica, l’infanticidio e molti altri «delitti» efferati, accanto a commoventi gesti di cooperazione e di altruismo diffusi in migliaia di specie. La matrice naturale è dunque quella di una radicale ambivalenza morale, o detto altrimenti della totale neutralità etica. Anche se il nostro senso morale, come precondizione abilitante, si è sviluppato in modo continuativo nel corso della nostra storia evolutiva, sembra vano cercare lì, direttamente, la giustificazione specifica per una norma morale o per un giudizio morale.

Dunque il «male» che osserviamo in natura, e che la natura ci infligge, è una nostra proiezione emotiva e cognitiva, non una categoria corretta di analisi dei fenomeni naturali che consideriamo «catastrofici» per noi. Lo dimostra il fatto che ogni asserzione circa la bontà o la malvagità di un fenomeno naturale è sempre relativa al punto di osservazione di una specie: ciò che per alcuni organismi è un disastro quasi sempre è un vantaggio insperato per altri. Da un punto di vista decentrato e quantitativamente ineccepibile, la presenza stessa di Homo sapiens sulla Terra ha rappresentato, almeno negli ultimi 40 mila anni, la fine del mondo, letterale, per centinaia di migliaia di altre specie, che abbiamo estinto intenzionalmente o senza nemmeno accorgercene.

Aprire altre miniere di coltan nella foresta congolese, per estrarre il tantalio che serve per produrre i condensatori dei nostri telefonini (giacché sentiamo l’insopprimibile necessità fisiologica di cambiare i modelli a ogni Natale), significa decretare in pochi anni la fine del mondo dei gorilla di montagna, ridotti ormai a meno di 800 individui selvatici. Anche questa è una fine del mondo, silenziosa e per lo più ignorata. Chissà quali fantasie apocalittiche si staranno facendo quelle pacifiche scimmie antropomorfe vedendo strani cugini bipedi e glabri, armati di fucile (alcuni) e di pala (tutti gli altri), mentre scavano nudi dentro le sabbie nere radioattive per estrarre una polvere metallica, o mentre abbattono alacremente intere regioni di foresta per vendere il legname dei nostri parquet.

Se il male è una categoria della conoscenza umana, se come tale ci appare onnipresente in natura e ne impregna la sostanza, se ogni creatura vivente è sottoposta al dolore, alla malattia e alla morte, se noi stessi siamo figli di quel «male», che ci viene inflitto (per esempio, da virus e batteri) o infliggiamo, la domanda circa le sue presunte origini viene a essere una domanda di pertinenza anche scientifica, e non più esclusivamente filosofica o religiosa. Se il male è già da sempre presente nella logica degli eventi naturali per come li conosciamo – la stessa logica che ci ha portato fin qui – significa che ne siamo figli ma che possiamo ribellarci a esso, lottare contro i suoi effetti. È male ciò che noi associamo all’imperfezione, alla subottimalità e alla neutralità morale della natura, di cui siamo uno dei prodotti. Anche ciò che chiamiamo «male fisico», per distinguerlo da quello morale, è in realtà una nostra proiezione normativa sui fenomeni naturali. In quanto naturale, non vi è nulla di «male» nel terribile mestiere darwiniano che fa un virus dentro il nostro corpo.

Il male percepito discende quindi da un conflitto tra l’indifferenza morale dell’universo, la nostra comprensione di essa come un’ingiustizia crudele e le nostre (evolutivamente recenti) categorie sociali di interpretazione dei comportamenti dei nostri simili. È male l’infrazione di regole di convivenza che ci siamo dati, ma che non sono giuste di per sé in quanto «naturali»: sono giuste perché umane. La natura non è mai stata un’età dell’oro e non conosce la categoria dell’innocenza. E ci sono montagne di scheletri nei nostri armadi di specie ominina cosmopolita invasiva nata in Africa 200 mila anni fa. Di nostro, in quanto sapiens, abbiamo aggiunto semmai il male gratuito, il male stupido, il male pianificato su larga scala con meticolosa sistematicità, il male istituzionalizzato nella guerra, il male che si fa con le migliori intenzioni, nonché una certa crudeltà concettuale: tutti comportamenti che nel resto della natura, dove vige una più spiccia e pragmatica economicità, compaiono assai raramente.

Il paradosso della profezia di sventura
Che cos’è dunque, in quest’ottica di demitizzazione del male, un «disastro naturale»? Come possiamo sottrarlo all’anestetico delle nostre narrazioni consolatorie? Innanzitutto, respingendo come potenzialmente blasfema, cinica e pericolosa l’idea che nel «dis-astro» naturale – la cui etimologia rimanda ancora una volta alla divinazione e all’astrologia in quanto dis-aster, presagio di una cattiva stella – si nasconda la mano di una provvidenza: blasfema perché contraria a ogni concezione accettabile di una divinità buona (come hanno fatto notare molti teologi a proposito della dottrina del «Disegno Intelligente»); cinica per il suo sguardo terribile sulle vittime, che sarebbero parte di un progetto superiore e come tali soffrono giustamente; pericolosa per il germe di fatalismo e di rassegnazione fideistica che dissemina. Sarebbe bene tenersi stretta questa piccola conquista della modernità [Dupuy 2006]: il «male naturale» non è il giusto castigo per un qualche «male morale» e il migliore dei mondi possibili è rimasto sepolto sotto il terremoto di Lisbona del 1755.

L’individuazione delle cause del disastro non è sufficiente a renderlo prevedibile, il che lascia supporre che il determinismo delle leggi di natura trovi in queste circostanze un limite: solo l’incertezza e il calcolo delle probabilità possono rendere intelligibile tale evenienza. Ma soprattutto emerge l’interrogativo circa le responsabilità dei danni effettivi prodotti dal disastro: esclusa la mano di Dio, è ben difficile imputare una colpa alla natura, nella sua apollinea indifferenza verso le sorti umane. Come fece notare Kant, sulla scia di Rousseau, se a Lisbona erano perite migliaia di persone la causa andava ricercata nelle attività umane, e solo in quelle. Costruire case inadeguate e malferme, troppo alte e addossate l’una all’altra, in una zona sismica, significa produrre automaticamente le precondizioni per il disastro. Quando questo si avvererà, come di sicuro succederà in virtù delle nostre conoscenze razionali circa la probabilità, non si tratterà dunque di un «disastro naturale», bensì di un prevedibile «disastro umano», un disastro di imperizia e di miopia. Non è il terremoto a uccidere, ma gli edifici.

Il male si inserisce dunque nello spazio della nostra libertà e delle nostre ragioni. Se non curiamo le pendici di un territorio scosceso in riva al mare, una pioggia particolarmente intensa può trasformarsi in un’alluvione di fango e di detriti: trattasi di un prevedibile disastro umano. Se incassiamo e cementiamo gli argini dei torrenti e poi li infossiamo sotto le strade cittadine senza fare manutenzione, la piena scavalcherà gli ostacoli e irromperà in città, uccidendo innocenti: un prevedibile disastro umano. Se costruiamo case abusive ai piedi di un pendio franoso o in un terreno di sfogo alluvionale, l’unica incertezza è quando avverrà il disastro, non se avverrà. Se in una zona a rischio tsunami costruiamo senza precauzioni sulla spiaggia e non sviluppiamo adeguati sistemi di preallarme, trattasi di un prevedibile disastro umano. Se muoiono studenti universitari sotto le macerie di un edificio costruito con materiali poveri del tutto inadeguati, in una zona ad alto rischio sismico, il disastro non ha alcunché di naturale: è un disastro di umana irresponsabilità, burocratica inefficienza, criminale indifferenza e corruzione.

Potranno poi esserci concause indirette, come per esempio l’inasprimento dei fenomeni meteorologici dovuto al riscaldamento climatico – pur sempre con contributo umano – ma ciò non deve distogliere dalle responsabilità umane dirette relative al disastro specifico. Dare «colpe» alla natura non ha alcun senso, perché uragani, eruzioni, terremoti, siccità, inondazioni, tsunami sono normali manifestazioni della geofisiologia globale. Dal «suo» punto di vista, ammesso che sia legittima l’immedesimazione, questi eventi violenti testimoniano anzi della vitalità e della salute del nostro pianeta, la cui superficie è instabile e il cui clima cambia nel corso del tempo. Per dirla tutta, la nostra stessa specie è figlia, sul lungo periodo, di questa instabilità geofisica [Pievani 2012b].

Su questo principio di responsabilità umana si basa il «catastrofismo illuminato» proposto nel 2002, peraltro in modo un po’ confuso e paradossale, dal filosofo sociale francese Jean-Pierre Dupuy. La catastrofe ha infatti uno statuto ambiguo: da una parte, sappiamo calcolare la probabilità della sua evenienza e dunque, sul medio e lungo periodo, essa è certa (basti pensare a una carta del rischio sismico); d’altra parte, la sua occorrenza specifica risulta altamente imprevedibile, non dà necessariamente segnali premonitori, è un accidente casuale che possiamo soltanto attendere trepidanti e timorosi [Dupuy 2011]. Dunque il freddo calcolo della sua probabilità non esclude lo stupore paralizzante e attonito che ci prende quando poi, realmente, accade. Lo sappiamo che verrà, ma ostinatamente non vogliamo crederci. Ci sembra qualcosa di moralmente impossibile, dunque non può esistere, come scrive Primo Levi ne I sommersi e i salvati [1986]. Il destino di Cassandra è segnato: nessuno l’ascolterà. Per non rassegnarci a questa cecità intenzionale, dobbiamo allora essere consapevoli, secondo Dupuy, che la catastrofe ormai impregna la nostra storia, il suo male è divenuto «sistemico» e immanente, può scatenarsi in qualsiasi momento, come se fosse già qui. E sta dunque a noi creare le condizioni – subito, non procrastinabili – per negare l’autodistruzione.

Per farlo, prosegue Dupuy sulla scorta di quanto scriveva Günther Anders, dobbiamo comportarci «come se» ci fosse già stata: piangere oggi i morti di domani, affinché qualcuno senta la responsabilità di falsificare la profezia. Dobbiamo pensare la catastrofe come una fatalità, «al fine di meglio deviarne il corso» [Dupuy 2011, 58]. Si tratta quindi di vivere fino in fondo il paradosso di Cassandra e di tutti i profeti di sventura: da un lato, per essere credibili affermano che la catastrofe è un destino prossimo e inevitabile, scritto nel disegno degli eventi; ma se così fosse davvero, la profezia sarebbe una mera e ininfluente tautologia; dunque l’atto della profezia contempla, dall’altro lato, l’inconfessata possibilità che faccia effetto, che la si possa falsificare, che ci sia nel frattempo una presa di coscienza. Se la catastrofe sarà evitata, nessuno ringrazierà l’allarmista di essersi fatto smentire. Se la catastrofe ci sarà, lo incolperemo di averla autoavverata.

Diciamolo in un altro modo. Se il peggio non avviene, come fortunatamente nella maggioranza dei casi, sarà difficile convincersi che era davvero possibile. Invece, è proprio il fatto che avrebbe potuto realizzarsi a renderlo reale. Solo se ci convinciamo che la catastrofe è possibile, abbiamo una ragione per agire affinché non si realizzi. Ma se le nostre azioni sono efficaci e non si realizza, faticheremo sempre di più a pensare che era davvero possibile e incombente. Viceversa, se si realizzerà nonostante i nostri sforzi, ci consoleremo pensando retrospettivamente che era inevitabile, un destino da accettare fatalisticamente. Improbabile nel primo caso, necessaria nel secondo caso. Caso e destino si compenetrano, come nella tragedia greca che ci ha lasciato appunto la parola kata-strophé.

Tutto ciò incontra un ostacolo cognitivo importante, perché significa che dobbiamo sentirci responsabili, in anticipo, per gli effetti di un evento futuro, certo ma indeterminato, del quale dobbiamo minimizzare i danni. Altrimenti si potrà dire, a posteriori, che la tragedia si poteva evitare, proprio perché prima o poi sapevamo che sarebbe accaduta e in quelle circostanze. Ma l’impegno etico umano richiede prossimità, nello spazio e nel tempo: ci sentiamo responsabili se possiamo percepire gli effetti su chi ci sta vicino e in un lasso temporale accettabile. Assumersi un impegno oggi, che implica rinunce e sacrifici, per ottenere un risultato positivo che sarà goduto da individui di generazioni a venire richiede uno sforzo di astrazione e di lungimiranza non banale [Jonas 2002]. Si tratta di un gesto etico senza reciprocità: le future generazioni non potranno ricambiare, perché noi non ci saremo più. È una capacità etica che può maturare lentamente nella collettività attraverso l’educazione, dato che è sempre più raro trovare statisti in grado di assumersi un onere di questo tipo senza guardare alle successive rielezioni a breve termine.

Un’ulteriore difficoltà è data dal fatto che in questo caso si è responsabili per gli effetti del futuro disastro sia nel caso in cui si operi sconsideratamente, in modo attivo, sia nel caso in cui non si faccia nulla, passivamente. Vi è dunque una colpa di omissione, che vale per tutti coloro che avrebbero potuto agire e non lo hanno fatto. Serve a poco anche l’atteggiamento intuitivo di trovare un capro espiatorio alternativo attorno al quale condensare le colpe: se non è Dio e non è la «Natura», che fa solo il suo mestiere, spesso si passa in terza battuta alla «Tecnica» come grande cattivo della storia, come ipostasi della disumanizzazione artificiale, immaginando che le sue conseguenze non siano più governabili o controllabili. In realtà, addossare la responsabilità a un dominio di strumenti nelle mani di esseri umani sembra davvero una strategia senza sbocco. È vero che essi non sono neutrali perché cambiano il nostro modo di pensare e di agire, e modificano persino la nicchia ecologica in cui è immersa oggi la specie umana, ma in ultima analisi i guasti della «Tecnica» non sono un destino inesorabile da maledire, bensì il frutto specifico di scelte umane, di interessi economici umani, di orgoglio umano, di miopia e opportunismo politico tipicamente umani. La tecnica ci fa pensare diversamente, certo, ma non è un’ipostasi globale alla quale affidare ogni volta il ruolo di alibi perfetto.

Perché una previsione scientifica non è un vaticinio
In questo senso comune contemporaneo della catastrofe, proliferano dunque le ambiguità fra naturale e culturale. Non sono naturali, chiaramente, le catastrofi che derivano direttamente, o come effetti collaterali intelligibili, dalle tecnologie umane (catastrofi prodotte da industrie inquinanti, armi di distruzione di massa, incidenti nucleari, armi batteriologiche, e così via). Ma a ben guardare non sono del tutto «naturali» nemmeno le catastrofi che noi attribuiamo solitamente ad agenti atmosferici o biologici o a fenomeni parossistici come eruzioni vulcaniche, terremoti, uragani, tsunami, inondazioni, dissesto idrogeologico. La responsabilità umana diretta o indiretta, in ciascuna di queste catastrofi, è infatti legata al grado di rischio e di vulnerabilità che noi accettiamo nell’esporci a esse.

L’argomento di Rousseau a proposito del terremoto di Lisbona conserva quindi una sua validità. Si tratta di catastrofi soprattutto sociali, culturali, artificiali, catastrofi di imprudenza, di cattiva politica, di miopia ed egoismo. Catastrofi umane. Soprattutto, catastrofi perfettamente prevedibili sul piano razionale (come lo è costruire interi quartieri alle pendici di un vulcano quiescente e a carattere esplosivo) e tuttavia sofferte come ineluttabili. È un dato di fatto che se le coste dell’oceano Indiano non fossero state private delle barriere coralline e delle foreste di mangrovie lo tsunami del 2004 non avrebbe avuto effetti così devastanti. Il rifiuto di questa evidenza, e delle responsabilità che ne conseguono, risolleva l’«uscita di sicurezza» escatologica: la tragedia, la catarsi, l’apocalisse, la punizione. È colpa di Dio, della natura, del turismo. Gli esempi, nel linguaggio dei commentatori e dei politici, sono numerosi e recenti. Katrina, Haiti, tsunami nell’oceano Indiano, terremoti e inondazioni: la trama interpretativa è sempre impregnata di immaginario fatalistico, apocalittico o punitivo. Non usciamo da questi schemi teleologici.

A farne le spese sono alcuni concetti fondamentali nella scienza come quello di «previsione». Nell’aprile del 2009, come sappiamo, un terremoto catastrofico devastò l’Abruzzo, uccidendo più di trecento persone. Caso inedito a livello internazionale, i sette componenti della Commissione Grandi Rischi di allora sono posti sotto processo, con la grave imputazione di disastro e omicidio colposo plurimo, a causa delle dichiarazioni rassicuranti diffuse durante il prolungato sciame sismico che precedette la scossa principale della notte tra il 5 e il 6 aprile. La posizione degli scienziati è paradossale, perché nel caso in cui avessero lanciato un ordine generalizzato di evacuazione durante i tremori più insistenti, in assenza del susseguente terremoto (come succede nella maggioranza dei casi simili registrati storicamente) avrebbero potuto incorrere nell’accusa opposta di procurato allarme. Ma che cos’è una «predizione» nella scienza e, soprattutto, come possiamo comunicarla al pubblico?

La predizione controllabile è una componente fondamentale del metodo scientifico, perché rende costantemente rivedibili i risultati, ma va maneggiata con cura. La previsione scientifica non è un vaticinio generico, bensì un calcolo suscettibile di verifica o falsificazione a cominciare da conoscenze acquisite. Può essere di tipo deterministico: a partire da una legge generale di copertura e da un insieme di condizioni al contorno, si prevede un fenomeno come un’eclisse di Sole o la forma di una falena notturna del Madagascar a partire dalla struttura di un’orchidea (come fece Darwin nel 1862). Può essere altresì, nella maggior parte dei casi, di tipo probabilistico, quando processi caotici o limiti empirici o la dipendenza da meccanismi subatomici rendono impossibile una previsione deterministica puntuale. È questo il caso dell’energia rilasciata in modo non lineare durante i terremoti, laddove non si hanno ancora gli strumenti, purtroppo, per predizioni di accadimenti specifici. Non per questo, tuttavia, non si possono calcolare precise probabilità di rischio, da regione a regione.

Talvolta si suppone invece che gli scienziati debbano prevedere la specifica occorrenza di un terremoto (notoriamente impossibile con le attuali tecnologie) oppure allertare la popolazione in ogni caso simile (opzione irrealistica per terremoti non eccezionali come quello abruzzese). Probabilmente lo stile di comunicazione della Commissione allora fu davvero maldestro, soprattutto per l’idea, ventilata durante una riunione dai toni molto rassicuranti organizzata alcuni giorni prima a L’Aquila, secondo cui le ripetute scosse avrebbero comportato persino una minore probabilità di un terremoto catastrofico. L’esigenza politica di evitare il panico, con l’improvvido invito a bersi un buon bicchiere di rosso, si rivelò terribilmente sbagliata con il senno di poi. I vecchi del luogo in Abruzzo dicevano che bisogna sempre uscire di casa quando c’è lo sciame sismico. Adesso coloro che preferirono invece fidarsi degli scienziati, rimanendo in casa con le loro famiglie quella notte, hanno tutto il diritto di capire il motivo di quelle rassicurazioni.

Come ha scritto Stephen S. Hall su «Nature», il punto chiave qui è come comunichiamo evidenze scientifiche che non sono basate su certezze deterministiche, ma su livelli di rischio [Hall 2011]. Una pretesa eccessiva di predittività scientifica può anche diventare un modo per sottostimare le responsabilità politiche degli ingenti danni umani e materiali prodotti da un evento sismico non così infrequente nella regione appenninica. Già, perché i geofisici italiani, grazie a una tradizione di ricerca apprezzata a livello internazionale, le loro «previsioni» le avevano fatte: sono raffigurate in mappe di micro-zone a differente rischio sismico su tutto il territorio nazionale, aggiornate e tradotte da decenni in precise raccomandazioni per le istituzioni delle regioni ad alto rischio sismico. Questi modelli, oltre a essere probabilistici, hanno però un limite storico ed evolutivo, perché attestano a posteriori l’esistenza di situazioni critiche: dopo l’inizio dell’attività sismica in Emilia-Romagna nel maggio 2012, le mappe devono essere aggiornate.

La difficoltà di anticipare una scossa specifica attraverso l’analisi di precursori sismici è nota: il livello di acqua nei pozzi, le concentrazioni di gas radon, segnali elettrici nel terreno, l’irrequietezza di alcuni animali sono tutti indizi possibili ma non ancora attendibili perché presenti anche in assenza di terremoti. Tuttavia, questa incertezza viene bilanciata da modelli probabilistici dettagliati e in evoluzione. Si tratta però appunto di calcoli predittivi probabilistici, non di profezie con data e ora. E la probabilità, così cruciale nella scienza più avanzata, è uno dei concetti meno compresi nel dibattito pubblico. Vogliamo tutti certezze, non probabilità.

Le indicazioni basate su probabilità di rischio richiedono poi conseguenti azioni politiche preventive sul lungo periodo, rispetto delle regole, lungimiranza, educazione civica ed etica della prevenzione. È faticoso, meglio cercare attenuanti. Dare la colpa alla natura o alla scienza potrà forse sollevarci, ma rischia di essere un alibi. Nell’incapacità di prevenire, gli scienziati si guarderanno bene dal dare in pasto ai media le loro incertezze e torneremo tutti quanti a maledire qualche divinità capricciosa. Nel frattempo scagioniamo noi stessi, dimenticandoci che quando costruiamo una casa sul pendio franoso di una montagna o sul greto di un fiume stiamo già mettendo le basi per una sicura (e prevedibile) catastrofe.

Supereruzioni e terremoti: il disastro ineluttabile, per cause interne
La categoria del «disastro naturale» è dunque fallace perché attribuisce implicitamente alla natura una connotazione morale negativa, laddove vi è soltanto la sua spassionata e irriverente imprevedibilità. Sarebbe però un errore opposto quello di trovare una colpa umana dappertutto, applicando una sorta di antropocentrismo del senso di colpa, come fece Rousseau rispondendo a Voltaire. La fragilità umana dinanzi ai fenomeni naturali è un dato ineliminabile e ambivalente, che non possiamo rimuovere perché è la condizione stessa entro la quale ci siamo evoluti. L’umanità nella sua storia è sempre stata esposta all’ansia collettiva per eventi che sfuggono al suo controllo: da qui il persistente timore dell’apocalisse anche nella modernità [Hall 2009]. Proviamo allora a guardare adesso negli occhi il nemico, del quale dovremmo imparare a prevedere le mosse in termini di probabilità di una catastrofe. Un tempo si chiamavano «cause di forza maggiore» e ne conosciamo ormai in dettaglio il catalogo [Zebrowski 1997; Alexander 1998; Newson 1998]. Terremoti, tsunami, eruzioni vulcaniche, impatto di un asteroide, iperattività del Sole, esplosione di una supernova vicina, migrazione dei poli: che cosa vi è di reale e naturale in queste minacce e quanto sono giustificabili le simbologie millenaristiche che noi attribuiamo a esse? Viviamo su un pianeta sicuro, o avremmo dovuto sceglierne uno migliore?

A conti fatti i tempi moderni, quelli di cui conserviamo maggiormente memoria, sono passati finora attraverso una fase di relativa calma climatica e geologica. Ma basta allargare lo sguardo per capire che forse siamo stati solo un po’ fortunati. Nel tempo profondo dell’evoluzione, calcolato sui milioni di anni, la Terra ne ha viste di tutti i colori, compresi l’impatto di asteroidi con effetti catastrofici e supereruzioni sconvolgenti per estensione [McGuire 1999]. Non è necessario nemmeno andare così indietro nel passato per trovare traccia di sconvolgimenti geofisici globali per noi quasi inimmaginabili. Senza allarmismi, la fortuna di cui abbiamo goduto di recente dovrebbe spingerci a essere più previdenti circa il futuro.

Anche se spesso lo dimentichiamo, viviamo sulla superficie instabile di uno dei corpi più attivi (per nostra fortuna) del sistema solare. Un sasso cosmico lanciato nello spazio siderale, attorno al quale fluttua un’atmosfera gassosa di pochi chilometri di altezza, visto con occhio disincantato non è propriamente un luogo sicuro. Il calore prodotto incessantemente al suo interno dal decadimento degli elementi radioattivi viene portato in superficie da correnti convettive del mantello, le quali muovono le grandi placche rocciose sulla superficie del pianeta che vanno formandosi lungo le dorsali medio-oceaniche. Le grandi zolle sfregano l’una contro l’altra, si scontrano, si insinuano per subduzione l’una sotto l’altra, generando terremoti (3.000 ogni anno raggiungono il sesto grado della scala Richter), eruzioni (una cinquantina all’anno, con il loro seguito di colonne di cenere, gas vulcanici, fiumi di fango, flussi piroclastici) e catene montuose. Abbiamo capito di cosa può essere capace un terremoto sottomarino vedendo le immagini dello tsunami che nel dicembre 2004 si è abbattuto lungo le coste dell’oceano Indiano e di quello che nel marzo 2011 ha devastato le coste orientali del Giappone.

Benché la biosfera sia più robusta di quanto non sembri, grazie ai suoi sistemi di autoregolazione, basta innalzare leggermente la visuale sui tempi lunghi dell’evoluzione per notare che scossoni terribili e imprevedibili come questi sono all’ordine del giorno. L’incertezza riguarda non il se, ma il quando. In relazione a questo «quando», il punto è se ci faremo trovare preparati oppure, come è facile immaginare, indaffarati in futili questioni interne. A quel punto diremo che una natura idealizzata, nuova autorità morale insediatasi al posto di antiche divinità, si è ribellata alla nostra nequizia e ci ha puniti. Per il bene del tutto, nel migliore dei mondi possibili di Leibniz.

E invece la dinamicità della Terra è un destino paradossale su cui è bene riflettere. Senza di essa, non si sarebbe formato il campo magnetico che ci difende quotidianamente dalle radiazioni dannose e che orienta naviganti e tartarughe. Non vi sarebbero né atmosfera né oceani, ovvero tutto ciò che rende questo pianeta così fertile e ospitale. Tuttavia, è proprio quel dinamismo a rendere la superficie terrestre un posto assai pericoloso, con una crosta in perenne movimento, circa 1.400 terremoti ogni giorno, eruzioni vulcaniche (circa una alla settimana), capricci climatici. Ciò che dona la vita – pioggia, neve, vento, mare – al mutare delle condizioni se la riprende brutalmente.

È un’ambivalenza radicale. Le catastrofi geofisiche globali che possono affacciarsi in ogni momento sugli schermi televisivi sono fenomeni non soltanto frequenti e naturali, ma indispensabili per la nostra evoluzione. Sono l’espressione dei meccanismi basilari di funzionamento di un pianeta che ha 4,6 miliardi di anni. Sono precondizione della nostra esistenza e al contempo causa della nostra precarietà. Come nota Bill McGuire, «la Terra esiste da un tempo abbastanza lungo per garantirci che qualsiasi cosa sia possibile per la natura, essa lo ha già fatto» [2003, 6]. E lo rifarà. In epoca storica, intorno al 1000 a.C. si ritiene che il Medio Oriente e l’Europa sudorientale siano stati devastati da una catena di terremoti correlati. Non nell’arco di poche generazioni, certo, ma tutto lascia supporre che eventi simili si ripeteranno. Gli effetti devastanti sono solitamente regionali e direttamente proporzionali all’incuria nelle costruzioni, ma oggi esistono numerose megalopoli in zone ad alto rischio sismico, con possibili ripercussioni planetarie. Un terremoto di elevatissima intensità, che ci si attende da tempo in California e nell’area di Tokyo, potrebbe infatti incidere pesantemente sulla macchina economica globale.

Le eruzioni vulcaniche, che hanno contribuito a formare l’atmosfera terrestre e a produrre la benigna cappa dell’effetto serra, sono un’altra minaccia costante in tutto il globo. Sono circa 1.500 i vulcani attivi. Oltre alla distruzione attorno a sé, sollevano nella stratosfera ingenti quantità di gas di zolfo che a causa della loro composizione hanno un effetto rinfrescante, dato che riducono la quantità di radiazioni solari che penetrano fino alla superficie terrestre. Un’esplosione vulcanica, avvenuta a Thera nel mar Egeo nel 1500 a.C., cambiò la storia delle civiltà del Mediterraneo. Brevi inverni vulcanici si registrano dopo le maggiori eruzioni esplosive. La cosiddetta «piccola glaciazione», iniziata nel 1450 e prolungatasi fino all’Ottocento, fu prodotta anche da una peculiare combinazione di ridotta attività solare e forte attività vulcanica. L’eruzione del Tambora sull’isola indonesiana di Sumbawa, nel 1815, fu la più grande dei tempi storici, lanciò nella stratosfera duecento milioni di tonnellate di gas sulfurei, fece calare le temperature del pianeta di 0,7 gradi centigradi, rubò all’anno successivo la sua estate e ispirò i tramonti di cenere e zolfo dipinti da J.M. William Turner. Al confronto, l’esplosione del Krakatoa in Indonesia nel 1883 e le più recenti eruzioni del Pinatubo nelle Filippine (1991), del Vulcan e del Tavurvur in Papua Nuova Guinea (1994) e di Montserrat (1997) sono disastri di portata regionale.

Ma può succedere di molto peggio, per magnitudo (cioè quantità di materiale espulso) e intensità (cioè velocità di espulsione). Con una media di due ogni 100 mila anni, la Terra è colpita dalle cosiddette supereruzioni, eventi vulcanici eccezionalmente distruttivi che possono cambiare il clima globale per secoli, senza alcuna possibilità di riparo [Rampino 2002]. L’ultima catastrofe simile, il che rende inquieti, è successa 73.500 anni fa, sull’isola di Sumatra, lasciando una caldera ancora oggi di 100 km. Mentre l’Homo sapiens dall’Africa cominciava a diffondersi in Asia, la supereruzione del Toba provocò un drammatico inverno vulcanico, lanciando in atmosfera quasi 6.000 km cubici di ceneri, sufficienti a seppellire l’intera Europa sotto una coltre di un metro di cenere. Nella stratosfera si diffusero cinque miliardi di tonnellate di acido solforico, la luce del Sole venne ridotta del 90%, le temperature globali scesero di 5-6 gradi e l’inverno vulcanico – secondo quanto raccontano con precisione i ghiacci della Groenlandia – durò sei anni, con strascichi per i secoli successivi.

Solo per poco questa catastrofe non rappresentò per la specie umana la fine del mondo. La fotosintesi crollò rapidamente, interrompendo le catene alimentari, annientando piante e animali, e devastando le nostre risorse primarie. I reperti umani che precedono immediatamente l’eruzione sono sepolti, in India, da quasi un metro di spessore di cenere e occorre attendere migliaia di anni prima di vedere il ritorno di insediamenti di Homo sapiens. Una Pompei su larga scala. Si pensa che la bassissima variabilità genetica umana sia dovuta proprio al passaggio attraverso questi drammatici «colli di bottiglia» evoluzionistici: drastiche riduzioni di popolazione, con impoverimento del pool genetico e successiva ripartenza a partire dai pochi sopravvissuti [Huff et al. 2010]. Il Toba determinò probabilmente non il primo ma l’ultimo collo di bottiglia della nostra storia, dal quale siamo usciti per il rotto della cuffia. In Asia e lungo le coste dell’oceano Indiano gli esseri umani furono spazzati via. Nel resto del Vecchio Mondo, in particolare in Africa, sopravvissero solo coloro che in rifugi particolari – si pensa, sulle coste – riuscirono a resistere al freddo, al buio e alla scarsità di cibo. Si calcola che solo alcune migliaia di esemplari di Homo sapiens siano passati attraverso questa drammatica fase della nostra storia, divenendo poi gli antenati dei sette miliardi di umani attuali. È illuminante scoprire che per alcuni millenni la nostra fu una specie sull’orlo dell’estinzione.

Gli effetti di eruzioni esplosive come questa oggi sarebbero persino più gravi, in società così fittamente popolate e interdipendenti tra loro. Non riusciamo nemmeno a immaginare cosa possa voler dire per noi non avere scorte alimentari per sei anni. Eruzioni colossali come quella del Toba sono avvenute periodicamente anche a Yellowstone, l’ultima 650 mila anni fa e la prossima chissà. Altre tipologie di eruzioni producono effetti climatici globali non attraverso esplosioni gassose, ma a causa di fuoriuscite colossali di basalto fuso, che liberano a loro volta enormi quantità di anidride carbonica in atmosfera. Per fortuna sono più rare (mediamente una ogni dieci milioni di anni), ma in passato hanno cambiato il corso della storia naturale come vedremo nel capitolo quarto.

Vi sono poi eruzioni esplosive in cui la struttura stessa del vulcano collassa e produce crolli laterali devastanti, come nel caso dello scoppio del Mount St. Helens, nello stato di Washington, nel maggio del 1980. Quando queste valanghe gigantesche si abbattono in mare producono onde gigantesche che in passato hanno devastato migliaia di chilometri di coste. Sono registrati tsunami di origine vulcanica, con migliaia di vittime, nel 1792 in Giappone e nel 1888 in Nuova Guinea. Il più grande tsunami di tutti i tempi si ritiene sia avvenuto intorno a 100 mila anni fa nell’oceano Pacifico, causato dal collasso del vulcano Mauna Loa alle Hawaii. I detriti delle barriere coralline furono trovati a trecento metri di altezza sull’arcipelago, mentre le onde schiantatesi dalla parte opposta dell’oceano Pacifico, in Australia, erano alte ancora quindici metri. Facile immaginare la devastazione in tutta l’area pacifica. Memori di queste vicende del tempo profondo, geofisici come Steven Ward e Simon Day guardano oggi con apprensione al pendio occidentale, in bilico sul mare, del vulcano Cumbre Vieja, nell’isola di La Palma alle Canarie. In caso di crollo improvviso, il modello degli tsunami che percorrerebbero a gran velocità l’Atlantico, per poi infrangersi dopo poche ore fino in Brasile, in Irlanda e in Nord America, è impressionante.

Asteroidi e supernove: il disastro ineluttabile, per cause esterne
Siamo dunque costantemente esposti a fenomeni fisici potenzialmente letali, e non soltanto terrestri. Anche l’universo è un posto violento, senza mezze misure. Gli asteroidi e le comete colpiscono normalmente i pianeti del sistema solare, fin dalla loro formazione per accrescimento a partire da frammenti più piccoli. L’effetto di ripulitura degli spazi intermedi prodotto dall’attrazione gravitazionale dei corpi maggiori in formazione non ha impedito infatti che una grande quantità di scorie vaganti minacci di seminare ancora distruzione. Queste meteore sono un pericolo reale anche per la Terra, già colpita duramente nei suoi quattro miliardi di anni di vita. Benché il continuo rinnovamento della superficie terrestre, l’erosione e gli agenti atmosferici abbiano nascosto le cicatrici del passato, oggi grazie ai satelliti artificiali abbiamo individuato i resti di più di 150 crateri da impatto, alcuni di dimensioni considerevoli.

Suscitò una forte impressione, nel luglio del 1994, vedere in diretta la cometa Shoemaker-Levy infrangersi su Giove in un botto cosmico di dimensioni inimmaginabili, con la sequenza dei 21 frammenti che si schiantavano sul gigante gassoso provocando onde di impatto più grandi della Terra tutta intera. Giganteschi pennacchi di gas e polveri si proiettarono verso l’esterno. Per la prima volta l’umanità assistette a uno spettacolo che è già accaduto, e potrebbe ancora accadere, anche sul nostro pianeta. Erano gli anni in cui trovava conferme l’ipotesi dell’impatto di un asteroide come causa per spiegare l’estinzione di massa dei dinosauri. Tanto bastava per creare un nuovo genere catastrofico, suggellato anche da facili pellicole statunitensi come Deep Impact (1998) e Armageddon (1998).

Tra immaginario popolare e reali probabilità, fu così che nacquero anche i primi programmi internazionali per monitorare i rischi da impatto e per capire se dal buio cosmico sta per spuntare di nuovo un bolide diretto verso la Terra. Nel 2012, come ogni anno, abbiamo visto sfrecciare attorno a noi detriti di ogni tipo e dimensione. Alcuni di questi, gli «oggetti Apollo», intersecano l’orbita terrestre e dunque potrebbero un giorno schiantarsi sulla superficie. Ne sono stati identificati finora circa 320, ma è possibile che ve ne siano fino a un migliaio con un diametro di un chilometro. Ne esistono poi decine di migliaia che sono pur sempre preoccupanti ma con dimensioni ridotte: alcune centinaia o decine di metri, come quello che nel 1908 esplose nei cieli di Tunguska in Siberia.

Circa gli effetti – che abbiamo già saggiato nel prologo di questo libro – molto dipende dalle dimensioni, dalla velocità e dal luogo di impatto. Mediamente due volte ogni secolo siamo colpiti da asteroidi di 50 metri o poco più, in grado di radere al suolo una città. Per fortuna (ma fino a un certo punto) due terzi della superficie terrestre sono ricoperti di acqua: in tal caso dovremmo semmai temere, come non improbabili, gli effetti degli tsunami sollevati dalla collisione di una meteora di qualche centinaio di metri (una possibilità su cento nel prossimo secolo).

Si stima che l’asteroide che ha colpito la Terra 65 milioni di anni fa avesse, come abbiamo detto, un diametro all’impatto di circa 10 km. Ma il mondo di allora non era quello iperconnesso di oggi e gli scienziati pensano che anche un oggetto Apollo di un solo chilometro all’impatto potrebbe spazzare via un quarto della popolazione umana mondiale, a causa non solo della collisione ma anche degli effetti economici e geopolitici dell’inverno cosmico prodotto dalle polveri sollevate nella stratosfera [McGuire 2003]. L’impatto climatico e sociale di una simile catastrofe sarebbe inimmaginabile per il mondo come noi lo conosciamo. Ecco perché la soglia del chilometro di diametro è considerata cruciale per una collisione che abbia ripercussioni globali (detto tecnicamente «evento a livello di estinzione») [Bostrom e Ćirković 2008]. Gli scienziati stanno quindi censendo uno per uno tutti gli asteroidi con queste caratteristiche per calcolare le probabilità di collisione.

A dicembre 2012 l’appuntamento è con il grosso asteroide Toutatis, che interseca spesso l’orbita terrestre e ha dimensioni ragguardevoli: quasi 5 km di larghezza e 2,5 di lunghezza. Passerà a una distanza pari a 180 volte quella che separa la Luna dalla Terra. La NASA ha individuato tempo fa l’asteroide Apophis, l’oggetto Apollo più minaccioso perché si avvicinerà alla Terra sia nel 2013 sia nel 2021, per poi sfiorarci nel 2029 a 24 mila km di distanza. Non è escluso che in un passaggio successivo, nel 2036, possa colpirci, con una probabilità stimata in 1 su 250 mila. Ha un diametro di 330 metri circa e potrebbe farci un po’ male: converrà trovare il modo, da qui al 2036, di deviarne la traiettoria in caso di necessità. Altri 13 asteroidi, più piccoli, hanno alcune possibilità di collidere con la Terra in questo secolo, ma le stime delle traiettorie vengono spesso riviste. Gli altri oggetti Apollo con maggiori probabilità di impatto sono meteoriti di pochi metri di diametro, eppure anch’essi individuati e catalogati dai tanti occhi telescopici puntati sulla volta celeste.

Un altro aspetto di questa minaccia è la sua frequenza, unita al tempo di preavviso. Gli asteroidi hanno tutto sommato il vantaggio di avere orbite regolari, quasi circolari e dunque prevedibili. Esistono però comete (cioè corpi vaganti di dimensioni considerevoli, composti di roccia e ghiaccio) con orbite molto irregolari, iperboliche e non periodiche, comparse una sola volta nel cielo visibile, come Lulin nel 2007 ed Elenin nel 2011. Dallo spazio esterno irrompono nel sistema solare e possono creare scompiglio: sono grosse perché ancora poco consumate dal vento solare; sono più veloci e più imprevedibili. Potrebbero essere catturate o deviate dalla forza gravitazionale dei pianeti maggiori del sistema solare e diventare un giorno potenziali minacce. Il preavviso dato dagli strumenti di osservazione e previsione a nostra disposizione potrebbe essere sufficiente nel caso di orbite conosciute (come quella che riporta puntualmente ogni 76 anni la cometa di Halley), ma assai più corto nel caso di comete con orbite paraboliche. Non è poi escluso che vi siano comete, mai avvistate finora, che entrano nel sistema solare con traiettorie impreviste. I presagi di sventura che accompagnano fin dall’antichità questi elusivi corpi celesti potrebbero non essere dunque del tutto ingiustificati.

Non è ancora chiaro se i proiettili cosmici piovano sulla Terra con regolarità (teoria uniformista) oppure seguendo cicli periodici di maggiore intensità (teoria del catastrofismo coerente). Nel primo caso, le probabilità di una collisione «a livello di estinzione» sono generalmente basse (una ogni 50 o più milioni di anni). Nel secondo caso, dipende da quando arriverà il prossimo picco. La Terra attraversa periodicamente zone a maggiore densità di oggetti vaganti e code di comete, facendoci vedere le stelle cadenti in agosto. Un fenomeno simile accade in dicembre, quando la Terra attraversa una zona di detriti, le Tauridi, prodotti dalla frantumazione di una cometa che alcuni pensano sia entrata per l’ultima volta nel sistema solare alla fine dell’era glaciale, intorno a 10 mila anni fa. Secondo gli astronomi Victor Clube e Bill Napier, questo sciame di detriti non è omogeneo: presenta una lunga scia di ammassi di roccia piccoli e un nucleo meno frammentato composto da una cometa residuale di 5 km (Encke) e da alcune decine di asteroidi di grandi dimensioni. Ogni 2.500-3.000 anni, secondo questa ipotesi, la Terra attraverserebbe la parte più consistente e densa delle Tauridi, subendo un bombardamento catastrofico di meteore [Clube e Napier 1990]. Gli amanti della fantarcheologia si sono subito cimentati nel tentativo di spiegare crolli di civiltà e altri stravolgimenti storici alla luce di devastanti impatti dal cielo, ma raramente con successo.

Un pericolo analogo, ma più di lunga durata, potrebbe derivare dal passaggio periodico nella nebulosa di Oort – la regione ricca di comete e pianetini che circonda il sistema solare e che raccoglie i «materiali di scarto» della sua formazione – di corpi di grandi dimensioni, capaci di far precipitare nel nostro sistema planetario piogge ricorrenti di comete e di asteroidi. Le ondate di perturbazione nella nube esterna potrebbero essere causate da piccoli pianeti eccentrici come Sedna, oppure da grandi comete con orbite molto ellittiche, oppure ancora, secondo alcuni astrofisici e paleontologi, da un’ipotetica stella nana compagna del Sole, battezzata inquietantemente «Nemesi», con un’orbita così allungata da farla transitare nelle vicinanze del sistema solare soltanto ogni 26 milioni di anni (un’altra versione del «pianeta X» o «stella X»). Questo ciclo corrisponderebbe, secondo una vecchia stima dei paleontologi americani David Raup e Jack Sepkoski del 1984, a picchi di estinzioni di massa di animali e piante sulla Terra [Raup 1999]. I calcoli tuttavia non corrispondono esattamente e resta il fatto che Nemesi, per quanto lontana, non è mai stata osservata e la sua esistenza non è richiesta da alcun modello teorico (come invece fu per il bosone di Higgs, per intenderci). Secondo il gruppo di Michael R. Rampino alla New York University, la periodicità degli eventi da impatto (e conseguenti estinzioni) sarebbe dovuta invece alle oscillazioni dell’orbita del sistema solare rispetto al piano del disco galattico, con perturbazioni gravitazionali in grado di destabilizzare la nube di Oort ogni 26-30 milioni di anni. Ipotesi speculative a parte, una nana rossa (la Stella di Barnard) dovrebbe transitare nella nube di Oort fra circa 10 mila anni, provocando una presumibile pioggia di oggetti Apollo.

Anche la nostra stella è sotto costante osservazione, perché non brilla sempre nello stesso modo ma con un ciclo di attività di undici anni. È probabile che nei prossimi mesi, avvicinandoci al picco del ciclo dell’attività solare intorno al 2013, vi siano tempeste solari più accentuate del solito, anche maggiori rispetto al picco precedente del 2001 e forse paragonabili ad altre del passato, come quella del 1859. A parte il magnifico spettacolo di aurore boreali e australi viste da luoghi dove solitamente non compaiono, a preoccuparsi dovranno essere tutti coloro che dipendono da reti energetiche e di comunicazione. I danni economici di un’eruzione solare potrebbero essere ingenti per i paesi più avanzati, ma nulla a che vedere con una fine del mondo, neppure passeggera (e comunque non nel 2012).

Brillamenti solari anomali possono però essere provocati dalla caduta sulla nostra stella di asteroidi e comete, un fenomeno già osservato. Un altro timore ricorrente, quando guardiamo dentro lo spazio profondo e ne percepiamo la violenza, è quello dell’esplosione di una supernova che investe la Terra con un’inondazione di raggi gamma letali. Ma le stelle candidate al grande botto finora scoperte sono lontanissime. Per farci male con le loro radiazioni dovrebbero essere in un raggio di alcune decine di anni luce. Dunque non sappiamo se e quando esploderanno, e se anche lo facessero si trovano a distanza di sicurezza. Non sono stati finora osservati lampi di raggi gamma (dovuti al collasso di grandi stelle nei buchi neri o ad altri fenomeni violenti come la fusione di stelle di neutroni) con origine nelle vicinanze: «Non si ha conoscenza di alcuna sorgente nella nostra galassia che sia in grado di minacciare la vita sulla Terra nel futuro prevedibile» [Arnon Dar, in Bostrom e Ćirković 2008, 259]. La più vicina gigante rossa, con un diametro mille volte superiore a quello del Sole, è Betelgeuse, o Alpha Orionis: sembra in effetti sul punto di esplodere ma dista 600 anni luce da noi (quindi potrebbe essere già esplosa negli ultimi 600 anni, ma non abbiamo visto lo spettacolo perché la luce dell’esplosione non è ancora arrivata).

Che una combinazione cosmica di tipo ciclico, associata al calendario maya o ad altre profezie, possa produrre strani comportamenti nel Sole, con tempeste di neutrini che surriscaldano il mantello terrestre e fanno esplodere la crosta, spostando le placche continentali e i poli magnetici, è invece un parto della fantasia fantascientifica (non in gran forma in questo caso) di film apocalittici banali come 2012 di Roland Emmerich (2010), con tanto di improbabili astronavi in stile «arche di Noè» cariche di animali e di un ristretto gruppo cinicamente selezionato di umani privilegiati. Qui la fine del mondo piomba all’improvviso, come la notizia di una malattia mortale, senza colpe specifiche per nessuno, ma con la sequenza di reazioni emotive facilmente immaginabili, dall’incredulità alla rabbia, dalla disperazione alla rassegnazione, dallo scoramento all’ultima lotta estrema contro ogni evidenza.

Lo stesso Emmerich del resto ci aveva abituato a un’altra fine del mondo per cause esterne e ineluttabili, molto amata dalla fantascienza irrealistica: l’attacco alieno in grande stile di Independence Day (1996), respinto grazie alle insospettate risorse di coesione solidale della specie umana, che sotto minaccia globale inizia a comportarsi come un alveare. In questo caso però è talmente evidente il ricorso metaforico a un surrogato di nemico esterno – una volta scomparso l’impero del male sovietico – che non dovremmo classificare questa possibilità di fine del mondo nemmeno nella fantascienza, semmai nell’allegoria del bisogno di avere un avversario davvero cattivo e disgustoso per sentirsi uniti. È significativo, però, che in questi plot fantascientifici l’umanità si fa sempre trovare impreparata (fatta eccezione per qualche Cassandra che predica inascoltata dalla cima di un cucuzzolo) e si arrabatta sul momento per venirne fuori in qualche modo. Questo è ciò che probabilmente accadrà davvero.

Giocare con il clima: il disastro per cause interne, con complicità umane
Fin qui, nulla di abnorme. L’evoluzione della specie umana ha sempre avuto a che fare con le circostanze imprevedibili generate da un contesto geologico ed ecologico instabile. I fattori macroevolutivi sono uno dei motori principali dell’evoluzione in senso lato [Eldredge 2002; Pievani 2006]. Anzi, non saremmo qui se la Terra non avesse sballottato a più riprese le specie ominine tra oscillazioni climatiche, eruzioni catastrofiche, innalzamenti e abbassamenti dei mari. Siamo figli della Great Rift Valley africana, della chiusura dell’istmo di Panama, delle correnti oceaniche, delle alternanze di aridità e fertilità nel Sahara. I capricci geofisici sono l’ambiente d’origine del genere Homo [Pievani 2011] e come abbiamo visto siamo usciti malconci da diversi «colli di bottiglia» evoluzionistici che per poco non ci portavano all’estinzione definitiva.

Quando però l’evoluzione culturale e tecnologica ha permesso a Homo sapiens di contrastare gli elementi, a partire da circa 60 mila anni fa ci siamo diffusi su tutti i continenti (tranne l’Antartide) e a tutte le latitudini, sfidando tempeste e inondazioni, nevi e ghiacci, valanghe, uragani, terremoti ed eruzioni. Non ci siamo più fermati e abbiamo instancabilmente potenziato le nostre capacità di alterare gli ecosistemi, se non addirittura di plasmarli a nostro vantaggio con la domesticazione di piante e animali. Negli ultimi due secoli, la grande cavalcata della rivoluzione industriale ci ha regalato un benessere mai sperimentato prima, ma anche l’immissione di dosi massicce di inquinanti chimici in atmosfera, nelle acque e nel suolo.

Qui ci allontaniamo dunque da una situazione di alacre attesa di eventi geofisici globali i cui effetti non dipendono da noi se non in minima parte, per entrare in una dimensione ben diversa di coevoluzione tra il pianeta e la specie umana. Le più autorevoli istituzioni scientifiche internazionali concordano ormai su tre evidenze sperimentali: il riscaldamento globale esiste; sta accelerando negli ultimi decenni; ed è con alta probabilità dovuto per lo più alle attività umane. Vi possono essere sfumature di consenso sul grado di corroborazione di una o più di queste tesi, ma il problema esiste ed è ormai sempre più spesso alla ribalta dell’opinione pubblica internazionale. I primi dieci anni del nuovo secolo verranno ricordati come il periodo della riscoperta dell’emergenza climatica planetaria, alla quale vengono attribuiti uragani, inondazioni, tsunami, canicole parossistiche, tropicalizzazione del clima in zone temperate, incendi, riscaldamento dei mari, regresso e scomparsa dei ghiacciai. Le solite cassandre, sbuffano gli scettici. L’inizio della fine, secondo i più allarmisti. In mezzo, naturalmente, sta la concretezza di chi non ha per le mani certezze ma conclusioni provvisorie. In mezzo sta un intreccio di fattori eterogenei e non lineari che soltanto lo sviluppo della ricerca scientifica potrà chiarire.

Non esistono quindi al riguardo due scuole di pensiero scientifico paritarie, bensì un consenso generale diffuso circa il carattere almeno in parte antropogenico del riscaldamento recente e una minoranza di dissenzienti sospinti dalle più diverse motivazioni e sponsorizzazioni. È vero che la Terra ha sperimentato in passato le situazioni più estreme, ma l’osservazione cruciale è che da due secoli si è innescata una tendenza che potrebbe cambiare le nostre condizioni di sopravvivenza. Per la biosfera potrebbe essere un solletico, ma per i sette miliardi di Homo sapiens urbanizzati ovunque potrebbe essere invece un serio problema.

Il sistema climatico della Terra è costituito da un insieme intrecciato di meccanismi di elevata complessità. L’energia del Sole irradia la superficie rotante del pianeta. L’atmosfera e le terre emerse scambiano incessantemente energia e acqua con gli oceani. Uragani, tifoni, cicloni e inondazioni tropicali sono manifestazioni di questi cicli di regolazione e se ne contano alcune decine ogni anno. Tuttavia, la Terra è al momento più calda di quanto lo sia stata per il 90% della sua lunga esistenza. La crescita del livello dei mari e l’aumento delle precipitazioni favoriscono inondazioni, alluvioni, frane e straripamenti di fiumi, ovvero le calamità naturali che mietono più vittime in assoluto sulla Terra e interessano ogni anno più di 100 milioni di persone [McGuire 2003].

Misurati in termini di vite umane, gli effetti di queste calamità stanno peggiorando anziché ridursi. Il motivo è semplice: benché le capacità di previsione dei rischi e le nostre conoscenze su questi fenomeni siano migliorate, la vulnerabilità di una larga parte della popolazione umana, sempre più ammassata in grandi agglomerati urbani, ha vanificato ogni prevenzione. Il numero di esseri umani sul pianeta è raddoppiato dal 1960 al 2000, principalmente nei paesi in via di sviluppo, dove sono concentrate purtroppo anche le maggiori probabilità di disastri geofisici e climatici. La fame di terra (e di cemento, dalle nostre parti) ha fatto sì che una quantità crescente di zone a rischio sia oggi abitata e coltivata: bacini di inondazione, declivi scoscesi, regioni costiere esposte. È quindi del tutto probabile che nuove catastrofi umane si verifichino in quelle aree, confermando un dato impressionante riportato da Bill McGuire: fra tutte le vittime di calamità naturali e di degradazione ambientale, il 96% si concentra nei paesi poveri, contribuendo drammaticamente alle diseguaglianze sociali del pianeta. Questa sì, una vera catastrofe.

Tuttavia, oggi si profila per Homo sapiens una condizione ulteriormente inedita: quella di essere per la prima volta concausa dei futuri stravolgimenti naturali sul medio periodo. Il cocktail micidiale prodotto dal combinato composto di effetto serra eccessivo, crescita della popolazione e impoverimento degli ecosistemi è infatti in grado, secondo le stime più accreditate, di accrescere per numero e per intensità i disastri naturali. Si tratta di una progressiva recrudescenza che non ha alcunché di innaturale, ma che sarà favorita dalle attività antropiche. Da circa 10 mila anni è terminata l’ultima glaciazione e non si erano mai registrati aumenti così consistenti e persistenti della temperatura media globale (+ 0,6 gradi nell’ultimo secolo). Le previsioni per i prossimi decenni sono ancora in fase di discussione, ma anche le più ottimistiche contemplano la crescita dei livelli dei mari, a causa dello scioglimento dei ghiacciai montani e artici, e un aggravamento dei fenomeni climatici estremi.

L’immissione in atmosfera (per due secoli!) di anidride carbonica, metano, ossido di diazoto e altri gas serra sta avendo i suoi prevedibili effetti. A essi si aggiungono altri inquinanti come clorofluorocarburi e idrofluorocarburi. Da più di 400 mila anni non si registra una simile presenza di anidride carbonica in atmosfera, e soprattutto non ha precedenti storici recenti la velocità di crescita dei gas immessi. L’effetto serra, che di per sé è garanzia della nostra vita giacché modera le oscillazioni di temperatura sulla superficie del pianeta, è ora sbilanciato verso un progressivo riscaldamento, aiutato in questo periodo dall’aumento dell’attività solare. A causa dell’inerzia intrinseca del sistema climatico, se anche le emissioni di gas serra diminuissero drasticamente da domani mattina, gli effetti della tendenza in corso proseguirebbero per molti decenni ancora. È dunque ingenuo aspettarsi conseguenze immediate da una misera riduzione in percentuale delle emissioni, per poi contestare l’efficacia dei già faticosi e inconcludenti accordi internazionali.

Così come è irresponsabile tentare di smentire il riscaldamento climatico ricorrendo a esempi di inverni particolarmente freddi (climatologia e meteorologia sono due livelli di analisi diversi) o a dati riguardanti singole regioni del globo (ciò che conta sono le medie complessive, che parlano chiaro). Le emissioni antropogeniche di gas serra sono così robuste che stanno controbilanciando, per ora, la tendenza all’abbassamento delle temperature che sarebbe prevista in questa fase climatica di lenta transizione da una fase interglaciale a una futura era glaciale. Stiamo letteralmente giocando con il clima globale, cioè con un sistema che non è sotto il nostro controllo. Per inciso, dovremmo prendere contromisure anche se il forcing climatico non fosse umano, ma soltanto solare o vulcanico, perché in ogni caso ne va della qualità della nostra sopravvivenza su questo pianeta.

Aria e mari sempre più caldi e agitati generano conseguenze ormai ben delineate nei modelli: i venti si rafforzano e i fenomeni meteorologici estremi, come tempeste e inondazioni, aumentano di frequenza, estendendosi a zone dove prima avvenivano raramente; lo scioglimento della calotta artica e l’espansione termica degli oceani innalzano i livelli delle acque (già saliti di oltre 10 cm nel secolo scorso); le fasce costiere più basse (circa il 16% della superficie terrestre, con il 13% della popolazione mondiale) sono minacciate da inondazioni ed erosione; ondate di siccità e di carestia si abbattono su Africa e Asia, a causa della diminuzione delle piogge annuali nelle fasce tropicali ed equatoriale; la stagione primaverile comincia in anticipo, sfasando i tempi di spostamento dei grandi migratori; insetti infestanti invadono le zone temperate; fenomeni climatici come El Niño nel Pacifico orientale aumentano di frequenza; lo scioglimento dei ghiacci e le piogge rendono più instabili le montagne e i vulcani, con più frane e valanghe. È inoltre plausibile che l’intensità (anche se forse non il numero) degli uragani atlantici dipenda dall’aumento della temperatura a livello della superficie marina. Vi è dunque una correlazione robusta tra cambiamento climatico e intensificazione dei disastri naturali [McGuire, Kilburn e Mason 2001]. Tutto ciò rappresenta una riorganizzazione del sistema climatico terrestre piuttosto normale se letta dal punto di vista della biosfera, mentre risulta abnorme se letta dal punto di vista di una specie che ha disseminato sette miliardi di suoi simili ovunque.

Questo è forse il punto più importante: non sarà la fine del mondo in assoluto, dato che la biosfera se l’è già cavata benissimo in altre occasioni di drastico cambiamento, ma è probabile che possa essere appunto «la fine del mondo per come lo conosciamo». Agricoltura, biodiversità, rifornimento di acqua, fertilità dei suoli, estati torride, rischi idrogeologici e costi di intervento sono parametri fondamentali non soltanto per la salute umana, ma anche per l’economia. In tempi di crisi se ne parla poco, ma gli ecosistemi forniscono alle nostre società servizi essenziali, e gratuiti. A ciò si aggiunge l’aggravante della crescente deforestazione, cioè la dissennata distruzione del manto verde che assorbe i gas serra e purifica l’aria. La crisi ambientale è concausa di ulteriori disequilibri economici e sociali, che alimentano conflitti regionali per le risorse e migrazioni. Se i pericoli naturali e i profughi ambientali diventeranno parte normale dell’esistenza umana, vorrà dire che avremo dato in eredità ai nostri figli e nipoti un pianeta meno vivibile e più insicuro. Cresce sempre più il sospetto che, in fin dei conti, la catastrofe siamo noi.

L’effetto «palla di neve»
A qualcuno la fine del mondo piace fredda. Esiste un altro scenario di imprevedibile coevoluzione tra la specie umana e il pianeta che potrebbe condurre, inaspettatamente, all’esito opposto di una glaciazione nell’emisfero settentrionale. Una fine del mondo per congelamento, questa volta. In passato la Terra ha subito forti raffreddamenti globali dovuti al cosiddetto «effetto palla di neve», scoperto alla fine del secolo scorso dal geologo di Harvard Paul Hoffman. Fra 800 e 600 milioni di anni fa l’irraggiamento solare era inferiore del 6% rispetto a oggi e i gas serra erano a livelli molto più bassi. Le estensioni bianche dei ghiacci a partire dai poli crearono in almeno sei occasioni un effetto moltiplicativo perché aumentarono l’albedo del pianeta (cioè la sua capacità di riflettere i raggi del Sole), incrementando ulteriormente il congelamento. Gli oceani e poi i continenti si ghiacciarono. Il pianeta divenne un’unica grande, desolata palla di neve, relegando la vita microbica in poche nicchie isolate, nei fondali e attorno alle sorgenti calde. Si pensa che l’intera superficie terrestre, fino all’equatore, possa essere stata coperta dal ghiaccio per lungo tempo, fino a quando i gas vulcanici non permisero di riscaldare nuovamente la superficie creando le condizioni per l’esplosione degli organismi pluricellulari nel Cambriano [Walker 2003]. Dal più grande disgelo della storia nacque la complessità della vita.

A partire da 10 milioni di anni fa, nonostante l’emissione solare più intensa, apparvero nuovi fenomeni di glaciazione, anche se assai meno drammatici. Si ritiene che la loro origine sia di natura astronomica: la Terra ripercorre infatti una serie di cicli regolari nella forma dell’orbita (ogni 100 mila e 400 mila anni, con il punto di massimo avvicinamento al Sole che si sposta nel calendario) e nell’inclinazione dell’asse di rotazione (che ogni 41 mila anni varia da 22,1 a 24,5 gradi). Queste oscillazioni multiple (neutralizzandosi o incrementandosi) determinano la quantità di radiazione solare che colpisce la superficie terrestre e permettono, a cicli regolari, che le estati alle alte latitudini siano più fresche. Ciò fa sì che le nevi invernali non si sciolgano del tutto, ma si accumulino di anno in anno. La superficie bianca aumenta a sua volta la riflessione dei raggi solari nello spazio e la Terra entra in una fase di raffreddamento grazie a un effetto «palla di neve» di dimensioni ridotte. I ghiacci scendono verso le zone temperate e inizia la glaciazione. Se i gas serra non sono troppo alti, questo balletto astronomico innesca cicli di caldo e freddo della durata di circa 100-120 mila anni.

Tre milioni di anni fa il processo si intensifica e siamo ancora oggi immersi nelle sue oscillazioni, anche se non ce ne accorgiamo a causa della loro lunga durata. Negli ultimi due milioni di anni il genere Homo ha assistito a ben venti glaciazioni, le cui concause sembrano risiedere nelle alterazioni della circolazione atmosferica del pianeta, prodotte anche dall’innalzamento della catena himalayana, e nel cambiamento dello schema globale delle correnti oceaniche atlantiche generato dalla chiusura dell’istmo di Panama. L’ultima glaciazione investe in pieno la giovane specie africana Homo sapiens, iniziando 120 mila anni fa e raggiungendo un picco tra 20 e 15 mila anni fa, finché un poderoso disgelo non riporta la Terra ai suoi tepori intorno a 12 mila anni fa. Ma l’oscillazione non è regolare e per alcuni periodi il ghiaccio torna ad avanzare, a volte anche «solo» per un millennio come durante la Younger Dryas di 11 mila anni fa. Queste ondate minori di «era glaciale», scoperte grazie ai metodi sempre più sofisticati di indagine del paleoclima, hanno sorpreso gli studiosi perché sono molto più rapide di quanto si pensasse. Possono innescarsi in pochi decenni, per cause contingenti come per esempio, 11 mila anni fa, lo svuotamento del lago Agassiz in Nord America e il riversamento di acque dolci e fredde nell’Atlantico. Queste hanno indebolito le correnti calde che dal Golfo del Messico salgono verso l’Artico, abbassando le temperature medie dell’Europa settentrionale anche di 10 gradi. Il clima alle alte latitudini si è raffreddato improvvisamente e i ghiacci sono ridiscesi.

Prima con l’istmo di Panama, ora con l’ondata di acqua fredda nel fiume San Lorenzo: le correnti oceaniche sono sempre più al centro delle indagini sui cambiamenti climatici, del passato e… del futuro. Potrebbe accadere qualcosa di simile, in pochi anni, come immagina Roland Emmerich in un altro suo film catastrofista, The Day After Tomorrow (2004)? Difficile a dirsi, ma di sicuro, se avverrà, si sarà trattato di una catastrofe «naturale» soltanto nei suoi mezzi di realizzazione, non nelle sue cause iniziali. Il sistema di circolazione e la salinità delle correnti dell’Atlantico settentrionale saranno in effetti sottoposti nei prossimi decenni alla pressione inedita dello scioglimento di grandi masse di ghiaccio nel mare Artico e nella calotta della Groenlandia. Dunque l’innesco è dato dal riscaldamento climatico globale. Se questa fondamentale cinghia di trasmissione si incepperà, la colpa non sarà insomma né dei maya né di pianeti allineati, bensì della pervicace incapacità di sottovalutare conseguenze e rischi di nostri comportamenti che portano a lungo andare (ma non sappiamo quanto lungo) a un’alterazione del clima e delle correnti oceaniche.

Secondo il modello dei climatologi americani Alex Hall e Ronald Stouffer, pubblicato su «Nature» e basato su un’estrapolazione di ciò che è già avvenuto negli ultimi periodi glaciali nell’Atlantico [2000], l’acqua dolce e fredda proveniente dall’Artico potrebbe abbassare di alcuni gradi la temperatura in superficie dell’Atlantico settentrionale, indebolendo la Corrente del Golfo, raffreddando le correnti d’aria e portando in Europa il gelo per decenni. Sembra un paradosso ma non lo è, perché stiamo interagendo con un sistema ad elevata complessità, pieno di effetti di retroazione: un riscaldamento globale può generare anche un raffreddamento alle latitudini alte dell’emisfero boreale. Con le nostre perturbazioni di medio periodo e l’immissione di gas serra in eccesso, è come se stessimo facendo pericolosi esperimenti con il clima terrestre. Ciò che avverrà sarà pur sempre «naturale», ma potrebbe essere assai sfavorevole per le nostre abitudini di benessere.

Pandemie della paura
Esiste infine una categoria di nemici microscopici che appena diventano visibili scatenano l’intera gamma delle emozioni apocalittiche. Anch’essi traggono profitto dai nostri comportamenti. Le malattie infettive hanno plasmato la storia umana [McNeill 1977], ma il primo decennio del nuovo millennio è stato caratterizzato da un’inusitata sequenza di allarmi connessi a epidemie (e potenziali pandemie) di varia natura. La cadenza è stata così serrata da creare quasi un effetto di assuefazione. Nel 2000 tutto cominciò con il morbo della «mucca pazza» (la sindrome di Creutzfeldt-Jakob), una variante dell’encefalopatia bovina spongiforme (prodotta dall’incauta somministrazione a questi erbivori di farine animali in allevamenti intensivi) capace di attaccare gli esseri umani dopo un lungo e inquietante periodo di incubazione. Pochi giorni dopo l’11 settembre si diffuse la psicosi delle buste all’antrace, sulle prime interpretate come prodromi di una guerra batteriologica a base di carbonchio e poi rivelatesi invece l’impresa solitaria di un ricercatore militare frustrato e paranoico, morto suicida nel 2008. Nella primavera del 2003 fu la volta della SARS (Severe Acute Respiratory Syndrome), una polmonite asiatica atipica e infettiva, causata da coronavirus, partita dalla Cina e diffusasi poi con alcuni focolai a Toronto. Di nuovo dall’Estremo Oriente venne poi l’aviaria, nell’autunno del 2005, l’influenza H5N1 portata dai volatili e subito equiparata alla micidiale influenza spagnola che nel 1918 falcidiò milioni di persone. Infine, nel maggio 2009, fu il momento dell’influenza A (H1N1), originariamente battezzata «suina» per la sua provenienza dai maiali.

Ciascuna di queste emergenze sanitarie è stata accompagnata da previsioni iniziali molto pessimistiche, diffuse non soltanto da organi di stampa in cerca di notizie sensazionali, ma anche da autorevoli organizzazioni internazionali e da testate autorevoli pronte a diffondere in esclusiva i contenuti di rapporti confidenziali provenienti da varie fonti non sempre disinteressate [Kerbaker 2010]. Avrebbero dovuto essere 136.000 i morti per la mucca pazza secondo le stime di «Nature» e di numerosi esperti britannici, ma i letali prioni dopo alcuni mesi avevano colpito un centinaio di persone (un dramma comunque visti gli effetti della malattia, ma non una pandemia planetaria dato che per il 90% è rimasta in Gran Bretagna). Dopo il terrore iniziale, le buste all’antrace infettarono 21 persone, con cinque decessi, e più nessuna contaminazione dopo poche settimane. La SARS ha colpito circa 8.000 persone, con una mortalità del 10%, e si è spenta dopo tre mesi in Asia e a Toronto, anche se ha condizionato profondamente con le sue quarantene i viaggi aerei e il turismo. L’influenza aviaria, dopo le previsioni iniziali di milioni di contagiati dal pollame infetto, si stima abbia raggiunto in Asia meno di 400 persone, uccidendone 234, e non riuscendo a diffondersi in Europa. Dimensioni analoghe si riscontrano per l’influenza A, che si è diffusa sì in tutto il mondo rapidamente ma con tassi di mortalità inferiori allo 0,02% dei contagiati. A conti fatti, le pandemie influenzali recenti, rientrate dopo pochi mesi, hanno avuto cifre di mortalità equiparabili alle normali influenze stagionali, al netto delle concause dovute ad altre patologie debilitanti. L’aviaria non pare essere riuscita a trasmettersi tra umani.

Tra contagiosità e mortalità effettiva (due parametri ben distinti), il paradosso informativo dell’allarmismo è ben noto. Se le autorità competenti non danno notizie o si mostrano reticenti, si ingenerano sospetti che ben presto alimentano la psicosi collettiva e i deliri da complotto, ingigantendo la minaccia. Se gli organi di informazione e le istituzioni preposte scelgono invece la trasparenza e diffondono tutti gli aggiornamenti su un’epidemia in corso – come ha fatto negli ultimi anni l’Organizzazione Mondiale della Sanità – a causa della rapidità e della capillarità di diffusione delle news a livello mondiale monta rapidamente l’ansia nell’assistere in diretta alle tappe del contagio. L’untore può diventare un maialino d’allevamento, come anche un uccellino morto sul marciapiede. Se, altresì, si opta per una prudente astensione dal giudizio e si manifesta la propria incapacità di previsione, il pubblico percepirà una debolezza negli esperti e si preoccuperà oltremodo. Comunque la si metta il panico collettivo è garantito, e con esso la mancanza di serenità di giudizio.

Non convincono del tutto le risapute argomentazioni che vedono in questa politica dell’allarmismo una precisa strategia di visibilità e di interesse economico. In fondo, un’epidemia può essere un buon affare per alcuni (quelli che producono e commerciano vaccini) e un pessimo affare per altri (produttori e commercianti di carne bovina e di pollame, imprenditori del turismo, fra gli altri). Dunque allo scoppio di un nuovo contagio dovremmo aspettarci che un equilibrato conflitto di interessi economici contrapposti aleggi sui media mondiali: qualcuno avrà interesse a ridimensionare e smorzare ogni allarme per timore di colossali perdite di affari; altri a soffiare sul fuoco con lo stillicidio di stime e di documenti ufficiali. Nel mezzo, per i non addetti ai lavori è difficile districarsi tra le informazioni contraddittorie e farsi un’idea attendibile di quanto stia avvenendo.

Le colpe dei media e degli «analisti» in cerca di visibilità sono note e il campionario delle previsioni sbagliate, tra crisi economica e pandemie, in questi anni si è allargato. Eppure, forse è più plausibile che la spiegazione per questi fenomeni ricorrenti di allarme generalizzato sia il bisogno di individuare un nemico, anche se silenzioso e generico, unito al desiderio un po’ perverso di avere paura per sentirsi vivi e vigili. Tuttavia, tra le opportune analisi sociologiche non deve sfuggire una domanda essenziale: anche se finora ci è andata abbastanza bene, quelle minacce a base di agenti patogeni erano reali?

Ebbene, pur escludendo qualsiasi panico e nonostante la prudenza d’obbligo, la risposta è affermativa. Le armi batteriologiche esistono davvero e sono un grande pasticcio da apprendisti biotecnologici. Il carbonchio è un morbo terribile. La sindrome di Creutzfeldt-Jakob pure. I virus, da veri campioni dell’evoluzione darwiniana, faranno altri salti di specie e nulla esclude che possano sviluppare mutazioni tali da permettere loro di diffondersi da un essere umano a un altro. I cordoni sanitari, le condizioni igieniche e i vaccini sono stati finora un buon argine, ma tutto dipende dalla velocità della prossima evoluzione di queste semplicissime creature letali il cui mestiere è penetrare i nostri sistemi immunitari. È bene tenere alta la sorveglianza epidemiologica. Nonostante le evidenti speculazioni sul terrore, trattare tutto questo come una bufala mediatica, prodotta ad arte da un’internazionale della paura, rischia di essere un atteggiamento imprudente.

Eppure, se diciamo che una determinata situazione (lo scoppio di un’epidemia inedita) è compatibile con scenari diversificati – alcuni rassicuranti (i più probabili) e altri apocalittici (i meno probabili, ma non impossibili in linea teorica) – l’attenzione del pubblico si concentrerà quasi esclusivamente sul corso degli eventi peggiore, quello fatale. Così il virus diventa un’altra espressione della stessa ipocondriaca paura collettiva, e della nostra insopprimibile volontà di sentirci in pericolo. Il mondo sta per finire, siamo terrorizzati: e dunque siamo ancora vivi. La paura della fine del mondo è soltanto una delle possibili manifestazioni della paura dell’ignoto. È il timore reverenziale verso ciò che è certo ma indeterminato, cioè un evento che sappiamo di sicuro avverrà, ma non sapremo mai quando.

Capitolo terzo
Nemesi (comunque sia, è colpa nostra)
Che cosa pensavano gli abitanti dell’isola di Pasqua mentre tagliavano l’ultimo albero?

J. Diamond, Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere, 2005

Per i nativi americani la fine del mondo arrivò via mare, da un punto lontano nell’orizzonte dove nasce il Sole. Sbarcò da navigli imponenti irti di alberi e pennoni, foreste di vele spiegate che sembravano proprio le temibili astronavi di un altro pianeta. La fine del mondo scese sbuffante a cavallo, ornata di pennacchi, bei tessuti e stendardi, armature luccicanti, spade affilate, e crocefissi di ogni foggia. Costruì villaggi malsani, coprì gli ignudi, depredò l’oro, portò schiavitù, avidità e corruzione. Spostò la frontiera ogni volta più in là, perché al contrario per lei il mondo non doveva finire mai. Era furba, vorace e senza scrupoli, la loro fine del mondo. Aveva alleati silenziosi, che straziavano i corpi e decimavano le tribù al loro passaggio: nuove malattie, senza scampo, si diffondevano. Alcuni spiriti degli amerindi lo avevano predetto, o così almeno sembra. In ogni caso non poterono alcunché contro gli sciami di cavallette ben armate.

Il loro mondo era condannato e non sarebbe mai più tornato. Nel caso dei maya, l’impero mesoamericano era già finito tra il IX e il X secolo d.C. sotto i colpi combinati dei mutamenti climatici, della crescita demografica, dei danni ambientali, dello stato di guerra e della mancanza di lungimiranza [Diamond 2005]. Eppure, cinicamente, cominciava un altro mondo, di conquistatori, avventurieri e pionieri. Le culture umane si sono estinte l’un l’altra fin da quando il possesso del territorio è diventato un’esigenza. Talvolta si sono estinte da sole. Tuttavia, è possibile che l’aggressività, l’ingordigia e la miopia umane conducano non un singolo popolo, bensì l’intera umanità, sul ciglio della fine?

Abbiamo fin qui esaminato i disastri ineluttabili esterni, quelli per i quali, quando giungeranno, ci sarà forse ben poco da fare. Poi abbiamo passato in rassegna i disastri per cause ancora «naturali», ma lungamente assecondate dal nostro probabile zampino. Ora è tempo di esaminare i disastri interamente umani, e ciò che ne consegue in termini di sensi di colpa e incomprensioni. Avvengono quando coltiviamo la nemesi nel nostro giardino: le macchine cominciano ad evolvere indipendentemente, diventano ostili e prendono il sopravvento (è il timore che aveva già Samuel Butler riflettendo sarcasticamente sulla teoria darwiniana); malefici nanorobot fuori controllo distruggono ogni cosa; oppure soccombiamo sotto i colpi di guerre e di olocausti nucleari, della sovrappopolazione fuori controllo, dei disastri ambientali prodotti dall’inquinamento, di sconvolgimenti climatici, di pandemie. L’annientamento di sé prima o poi arriva, si tratta di trovare i mezzi necessari. La nostra attitudine a preoccuparci a dismisura per disastri improbabili non dimostra infatti che una catastrofe umana sia necessariamente impossibile.

Nemesi, il disastro per propria mano
Il paradigma de Il dottor Stranamore di Kubrick ha assunto oggi un valore generale nella cultura. La scienza e la tecnologia – nelle mani di visionari o criminali – deragliano e ci portano dritti alla catastrofe, sotto forma di una guerra o di un incidente nucleare, di robot impazziti, di perfide intelligenze artificiali che prendono il sopravvento, di esperimenti genetici fuori controllo, di insidiose nanotecnologie militari che ci penetrano nella pelle. Gli astrofisici che nel 1984 su «Nature» ipotizzarono l’esistenza di una stella compagna del Sole, responsabile delle perturbazioni gravitazionali nella nube di Oort che ciclicamente farebbero piovere comete sui pianeti interni seminando distruzione, scrissero:

Se e quando la stella compagna sarà trovata, noi suggeriamo di chiamarla Nemesi, dal nome della dea greca che senza posa persegue chi è eccessivamente ricco, orgoglioso e potente. Temiamo che, nel caso in cui la stella non venisse trovata, questo articolo sarà la nostra nemesi [Davis, Hut e Muller 1984, 717].

In effetti, finora nessuno l’ha vista. Forse però Nemesi non è una fantomatica gemella minore del Sole, ora in allontanamento ma fra qualche milione di anni in procinto di tornare con il suo carico di morte che piove dal cielo. Nemesi potrebbe essere un’invenzione tutta terrena, una torsione del progresso, la serpe in seno, insomma una ben più veloce fine del mondo per implosione umana.

La perdita del controllo della cosiddetta «tecnoscienza», asservita al potere del grande capitale internazionale o di classi politiche senza scrupoli, è da tempo uno dei nostri più acclamati scenari per la fine del mondo. È diventata l’espressione contemporanea dell’ossessione di Rousseau per le colpe umane, e solo umane, di tutti i disastri. Le industrie avvelenano il mondo, mirando solo ai profitti dei nuovi «Signori delle Città». L’ideologia tecnoscientifica ci disumanizza, acuisce le diseguaglianze e ambisce a sostituire le religioni rivelate con il suo falso mito del progresso infinito e della panacea per ogni male. Qui la specie umana disobbedisce dunque non solo alla natura, ma a Dio: infrange un ordine naturale e divino al contempo, lasciandosi incantare dal dono ambivalente della tecnica. Questo è il disastro prometeico, il disastro come úbris, superamento arrogante dei propri limiti, prepotenza insolente e oltraggio, sfida agli dei in virtù delle proprie capacità di preveggenza («pro-meteo» è colui che vede nel futuro, il pre-vidente).

In questa chiave di lettura scontata e fortunatissima – appannaggio di culture storicamente diverse tra loro come l’ambientalismo radicale e molteplici dottrine religiose – possono rientrare rischi molto differenti, reali o apparenti, probabili o fantasiosi, ma tutti prodotti da ciò che pensiamo sia un’inevitabile deriva di tecnologie che non rispettano gli equilibri naturali e il principio di precauzione: incidenti nucleari terribili come Cernobyl o Fukushima, frutto di imperizia umana; le fuoriuscite di petrolio dalle piattaforme, disastri tecnologici figli di un’imperdonabile ingordigia globale; l’epidemia della mucca pazza; i ventilati danni alla salute prodotti dalle biotecnologie asservite alle multinazionali; automi sempre più indipendenti che, come novelli Golem non più confinati nelle buie stradine del ghetto di Praga, escono allo scoperto, aspirano all’umanità e alfine ci soppiantano. In un patto faustiano con la tecnica, in cambio della conoscenza e del potere di trasformare il mondo abbiamo venduto i valori fondanti della nostra anima. Inquieti e insoddisfatti, siamo usciti dal solco della tradizione, abbiamo sognato a occhi aperti, e così oltrepassando il limite abbiamo posto le condizioni per la nostra rovina.

Questa icona della modernità fu esemplificata mirabilmente nel 1818 nello scenario gotico del dottor Frankenstein di Mary Shelley («ovvero il Prometeo moderno»), un’opera influenzata peraltro dagli esperimenti protoevoluzionistici di Erasmus Darwin, il nonno di Charles. Esso ha cessato da tempo di essere considerato per ciò che è – appunto un mito, un condensato ambiguo di desideri e di paure – ed è divenuto un presupposto argomentativo preso alla lettera da schiere di filosofi, che lo trattano come un dato di fatto e su questo basano le loro analisi della contemporaneità. Dentro questo mito fondativo riusciamo persino a convincerci che in un esperimento di fisica delle alte energie si stia per generare un buco nero che inghiottirà la Terra. Così dall’icona di Frankenstein si passa senza soluzione di continuità alle fantomatiche «fragole-pesce» transgeniche, ai trapianti e alle protesi che ci trasformeranno presto in cyborg perturbanti, agli obbrobri della chirurgia estetica di massa, ai cloni e agli avatar digitali, alla «cellula artificiale» prodotta nei laboratori di biologia sintetica. Tutti prodromi della fine, oltrepassamenti di limiti non meglio definiti. Questa strada ci porterà alla perdita del controllo sulle nostre creature biotecnologiche, in una riproposizione quasi letterale del peccato originale.

Il luogo comune del mito prometeico come minaccia incombente si alimenta di invenzioni letterarie che non hanno alcun riscontro in statistiche reali, ma solo in casi parossistici ed emblematici. La luce sinistra dei funghi atomici illumina quasi sempre queste tesi. Così leggiamo che non vi può essere scienza che non sia di per sé asservita alla tecnica, che lo scienziato è un analfabeta morale, un miope indagatore di microsettori specializzati, asservito agli interessi particolari dei suoi finanziatori, agente intenzionale o inconsapevole della prossima fine del mondo:

la deriva della scienza contemporanea verso la miniaturizzazione e l’estrema piccolezza, verso il DNA e verso il microchip, va di pari passo con la miopia strategica e culturale dello scienziato, con l’angustia della sua specializzazione, che non gli permette più alcuna visione d’insieme che non sia, quando va bene, una generica e superficiale adesione ai valori condivisi della società in cui vive [Tagliapietra 2010, 136].

Ecco il presupposto implicito: nella scienza troviamo solo informazioni (per di più provvisorie), solo strumenti tecnici, non certo pensiero, non saggezza. Ne discende l’inevitabile miopia strategica e culturale dello scienziato. Da costui possiamo aspettarci, quando va bene, che sia un conformista morale. Diversamente, sarà un apprendista stregone in mano alle forze ostili. Il mito prometeico si trasforma dunque in mito apocalittico e in distopia perché questa analisi filosofica dominante ha già incorporata in sé, anche quando non la esplicita, la condanna morale e religiosa per la rottura di antichi «equilibri naturali» (anch’essi, peraltro, inesistenti) che non erano altro che metafora del disegno divino. Se la scienza non ha pensiero va posta sotto la tutela di altri saperi, prima che ci porti alla fine del mondo.

Homo sapiens Stranamore
È difficile uscire dalla struggente nostalgia per fondamenti del passato che la scienza avrebbe messo in discussione. Per farlo, bisogna andare controcorrente. Per non fare di Prometeo un cavaliere dell’apocalisse, e neppure un romantico eroe di liberazione, occorrerebbe intraprendere la più ardua strada di una rigorosa analisi filosofica che, partendo da dati di realtà, sappia individuare le profonde ambiguità insite nei rapporti tra la specie umana, i suoi strumenti tecnologici e l’ambiente esterno. Bisognerebbe liberare l’analisi della tecnica da incrostazioni filosofiche tenaci che vedono in essa lo sprigionarsi di potenze mefistofeliche, di megamacchine da incubo, di ateismi senza amore che rubano agli umani ogni sensibilità, attraverso la riduzione a numero e quantità, astrazione e serialità. Capire, insomma, se può esistere un’analisi critica, non nichilistica, dello spauracchio della tecnica.

La prima incrostazione – così ripetuta da sembrarci ormai acquisita per assuefazione – è quella secondo cui l’impresa scientifica sarebbe ancora oggi imbrigliata in un’ingenua e ottocentesca nozione di progresso infinito, che rimuove il pensiero della fine affidando alle prestazioni della tecnica le ambizioni di immortalità. Non è così: nei risultati più recenti della ricerca scientifica è insita semmai la messa in discussione che il futuro sia già scritto in un disegno, in uno scopo finale da perseguire. Anche se esistono «futurologi» di successo che vedono nella tecnologia la nuova divinità salvifica, le scienze reali, in particolare quelle che studiano l’evoluzione, sono molto vicine piuttosto all’idea che il futuro sia indomabile, proprio come lo è stato il passato con le sue molteplici possibilità, e che dunque il nostro compito sia quello di esplorarlo senza pregiudiziali. Il futuro, in quanto modificabile, rientra insomma nelle responsabilità umane.

La seconda incrostazione è un retaggio della squalificante definizione dello scienziato come mero funzionario della tecnica. Si suppone con ciò che la ricerca disinteressata sia un miraggio, negando così una sterminata casistica di episodi reali che costituiscono la storia delle scienze. Si sentenzia, con gravità ben impostata, che lo scienziato si illude di dominare la tecnica, essendone invece irrimediabilmente schiavo, ma così si banalizza oltremodo una relazione biunivoca – quella tra ricerca pura e applicata – che va indagata con attenzione. La cosiddetta «età della tecnica», che soffre di una totale mancanza di rigore nella sua definizione, è un impasto di manipolazione, di dominio, di utilitarismo, di emancipazione, di conquiste sociali, di benessere. Come si può districare questa matassa storica tagliandola via di netto con categorie filosofiche univoche che risalgono al dibattito sul fordismo? Non vi è forse in questa ambivalenza un tratto autenticamente umano, tale da umanizzare di fatto la tecnica, nei suoi drammi e nei suoi trionfi?

La terza incrostazione è la più sottile, perché dà per scontata un’inversione dei termini che non sussiste. Non vi è alcuna evidenza inoppugnabile del fatto che la specie umana, a causa del dominio della tecnica, sia diventata da soggetto a oggetto, da fine in sé dell’azione etica a strumento manipolabile. E che viceversa la tecnica da strumento sia diventata scopo primario. Questo avviene semmai quando la tecnica stessa è asservita a progetti ideologici e totalizzanti. Chi demonizza la tecnica lo fa spesso perché le attribuisce l’ambizione di produrre sicurezze e verità incontrovertibili, il che non sta nei fatti. Altrettanto mitologica è la narrazione antimoderna dell’automatismo delle macchine, le quali una volta create dall’uomo acquisterebbero vita propria: nemmeno il più avanzato robot umanoide del XXI secolo ha ancora minimamente manifestato queste caratteristiche di autonomia. Né pare credibile il rimando, contrappositivo, a nostalgiche e irrealistiche fughe nella «naturalità» integrale e nel biologico. L’impasto di biologico e culturale, di naturale e artificiale che costituisce la condizione umana dalla rivoluzione paleolitica in poi è il dato antropologico primario, e ambivalente, da cui partire.

Dunque non vi è nulla di più lontano, rispetto all’atteggiamento genuinamente scientifico, della melanconia di chi si sente frustrato perché non può trasformare il mondo come vorrebbe. La scienza non promette paradisi di sicurezza, in sostituzione della politica. Al contrario, valorizza la gioia della scoperta, l’aprirsi all’inaspettato, il sentirsi pienamente umani in quanto esploratori, in mezzo a una costitutiva insicurezza con la quale fare i conti. Valorizza l’etica adulta della competenza, anche settoriale, e del rispetto per il lavoro degli altri. Coltiva il desiderio di andare ancor più in là nelle conoscenze, indefinitamente, per dare un senso emancipante alla propria vita, senza escludere che altri possano darne un altro. Se è sete di immortalità, è una legittima sete di idee e di innovazioni che superino le vite individuali. Se è perenne insoddisfazione, lo è in virtù di una legittima fame di novità, di conquiste tecnologiche utili, di costanti revisioni dei presupposti precedenti.

Si dice che la tecnica voglia farci vivere per forza in eterno. Potremmo però intenderla, più sobriamente, come un esercizio di creatività e di inventività umana per rendere il nostro passaggio terreno meno doloroso. E se questo significa sfidare il dolore – e anche, provvisoriamente, la morte – non si capisce perché debba automaticamente essere inteso come un’offesa insana nei confronti dei limiti naturali umani. Noi non saremmo ciò che siamo se non avessimo costantemente sfidato i nostri limiti e sarebbe ipocrita non riconoscerci come ribelli. Prima di bombardare un atomo con i neutroni nessuno sapeva che cosa ci stesse dentro ed è ingeneroso concludere che già da quel momento la fisica aveva commesso il suo «peccato originale». La curiosità è un diritto umano fondamentale, e con quegli stessi strumenti, applicati alla diagnostica, sono state salvate innumerevoli vite. Così come è un diritto umano fondamentale cercare di sconfiggere il dolore ed evitare l’ingiusta e prematura scomparsa dei nostri simili. Sarebbe bene diffidare di chi troppo insistentemente denuncia la nostra incapacità, in quanto esseri ipertroficamente razionali, di accettare seriamente il carattere definitivo della morte, salvo poi consegnarci alle sirene consolatorie dell’irrazionalismo. La condizione di Prometeo è insomma tragica, ambivalente, irrisolta, e per questo attuale. Non è un monito morale, e nemmeno un destino. Non merita né demonizzazioni né assoluzioni. È una ferita aperta, una scommessa lanciata.

Il vero deragliamento della scienza e della tecnica avviene semmai quando alcuni loro entusiasti sostenitori pensano di poterne fare strumento per addomesticare il futuro, per immaginare velleitarie condizioni «trans-umane», discontinuità epocali e altre tecno-profezie in attesa di smentita. Purtroppo o per fortuna, alla fine dell’umano ci sarà qualcos’altro di umano. Qui però il problema non è la tecnica in sé, ma la nostra attrazione per le teleologie, per i grandi sistemi escatologici. Il tecno-millenarismo della società dell’informazione non è meno irrazionale dei fanatici dell’apocalisse medioevali [McEwan 2008]. La tecnologia non sembra infatti aver scalfito minimamente le nostre attitudini più antiscientifiche: per verificarlo basta accendere il palmare o navigare su internet e assistere alla sfrenata esibizione in massa di guaritori, veggenti, uomini che sussurrano agli angeli custodi e fanno piangere la gente a pagamento in TV, impostori convinti di fare «controinformazione», cartomanti, maghi, astrologi, sedicenti psicologi che riscoprono (a tariffa variabile) i consigli della nonna.

Inoltre, la retorica della tecnoscienza rischia di diventare un grande alibi. Nella cerchia dei paesi governati democraticamente, la sfera delle decisioni e della difesa del bene comune non spetta a tecnici e a scienziati tanto quanto non spetta ad alcuna categoria elitaria particolare: spetta a rappresentanti eletti, che sono responsabili delle loro azioni e sottoposti a vincoli e controlli. Dunque sarebbe meglio rivolgere la nostra attenzione, anziché al moloch della Tecnica, alla politica, ai suoi legami con il mondo economico, al suo primato decisionale, ai suoi strumenti di azione (il diritto, la bioetica, la partecipazione deliberativa dei cittadini), alla sua necessaria rifondazione culturale, alle condizioni materiali e cognitive di libertà e di uguaglianza che rendono effettiva, e non solo formale, la democrazia. Se c’è un limite nella tecnica, è quello di essere troppo umana, non di esserlo troppo poco.

E se il più grande bioterrorista fosse la natura?
I limiti della scienza e della tecnica sono dunque gli stessi di ogni altra forma di attività umana socialmente responsabile e coincidono con la finitezza delle capacità umane. Il vero problema è capire in che modo la specie umana sarà capace di gestire le crescenti, e ambivalenti, possibilità offerte dalle tecnologie. Secondo Martin J. Rees, astronomo di Sua Maestà e titolare della cattedra di Newton a Cambridge, il secolo in corso sarà decisivo perché il terrore fondamentalista, gli errori umani e i disastri ambientali potranno per la prima volta avvicinare la specie umana alla sua «ora finale» [Rees 2003]. A suo avviso una catastrofe biologica ucciderà un milione di persone entro il 2020 ed è pronto a scommettere (ma nessuno per ora ha raccolto il guanto della sfida). La diffusione di bombe sporche nell’attuale disordine mondiale e il loro possibile utilizzo locale a fini terroristici hanno indotto gli scienziati del «Bulletin of Atomic Scientists» a spostare le lancette dell’orologio della precarietà mondiale di nuovo verso la mezzanotte. Non succedeva dal 1989.

È dunque un problema di sostenibilità e di moltiplicazione dei mezzi di potenziale (e talvolta non intenzionale) autodistruzione. Secondo il Premio Nobel per la fisica Franz Wilczek, le tecnologie del futuro, in particolare robot autonomi e organismi artificiali, contengono i germi di possibili accelerazioni incontrollate (runaway technologies) e dunque richiedono vigilanza e sempre nuova ricerca [Wilczek, in Bostrom e Ćirković 2008]. Talvolta, si può anche decidere di fermarsi, come mostra la riduzione (ancora insufficiente, ma stabile) degli arsenali nucleari nel mondo. Saranno necessarie tecniche sociali specifiche che sappiano affrontare con saggezza contesti in cui convivono interessi e valori etici contraddittori: il diritto in evoluzione, il governo delle decisioni pubbliche, una bioetica all’altezza.

I casi più emblematici in tal senso provengono dalle nuove tecnologie genetiche. Come hanno scritto recentemente Helga Nowotny e Giuseppe Testa, lo «sguardo molecolare» sta cambiando le nostre vite, e c’è un intero futuro da ripensare [2012]. Se nel dibattito pubblico confondiamo un clone con un gemello, o condanniamo la fecondazione eterologa in vitro quasi fosse un tradimento coniugale, è perché l’essenza genetica è diventata per noi molto più importante dell’ambiente di sviluppo, naturale e sociale, di un individuo. I geni, invisibili molecole della vita, sono stati messi a nudo. L’immagine lineare del DNA, icona di casualità e destino, di speranza e condanna al contempo, ha permeato la società.

Così svelandosi, queste entità microscopiche si sono trasferite in altri ambiti del discorso sociale, dalla pubblicità alla cosmesi. Hanno smesso di essere soltanto frammenti materiali di un complesso continuo di interazioni da cui scaturisce la vita, per divenire agenti intenzionali, essenze senza tempo, attori determinanti e inquietanti. Il risultato è che i geni, trasfigurati in essenze senza contesto, appaiono più potenti di quanto sono. Alla fine, qualsiasi interferenza tecnologica in questa sorta di «oracolo interno» viene percepita come una minaccia. La paura genera resistenze irrazionali e così ci rifugiamo nella finzione di una naturalità ideale, come se la natura fosse buona di per sé.

Mentre un tempo la dissezione era materia per il teatro anatomico, nei prossimi anni schiere di genomi saranno squadernate su web all’insegna della trasparenza e potremo navigare al loro interno con Google in cerca di mutazioni e predisposizioni. Ma alla chiarezza crescente dell’osservazione scientifica che penetra nei recessi della vita non sembra corrispondere una chiarezza decisionale: i valori e gli interessi si scontrano, nuove forme di vita irrompono nella società, concetti classici come uguaglianza e dignità sono rimessi in discussione. Ciò accade, notano giustamente Nowotny e Testa, perché comprendere un sistema biologico significa modificarlo, perturbarlo, intervenire attivamente al suo interno. E viceversa: manipolarlo, scomporlo e ricomporlo è il solo modo per scoprirne aspetti prima nascosti e per trarre nuove applicazioni. La scienza non è più, se mai lo è stata, un neutrale sguardo da nessun luogo. Noi conosciamo perché interferiamo con il sistema osservato, poniamo domande alla natura, non certo mettendoci passivamente in ascolto di quanto essa ha da dirci.

La privatizzazione dei dati biologici, il progetto di screening genetico di massa degli islandesi, la biologia sintetica, cioè l’ingegnerizzazione della materia vivente al fine di produrre «sistemi biologici artificiali» (che non è più un ossimoro), sono tutti esempi di grandi sfide bioetiche future. Tra nuove possibilità scientifiche, inedite scelte di vita e istituzioni da ripensare, l’etica e la politica saranno sempre più chiamate a far convivere una pluralità di valori eterogenei. In fondo le biotecnologie sono ulteriori esplorazioni dei limiti e delle possibilità umane, che richiederanno saggezza e solidità sociale. Discontinuità forti e nascenti diritti (come quello di procreare dopo la propria morte) si mescolano così alla continuità di antiche pratiche, cominciate con la domesticazione di piante e animali. L’evoluzione della natura umana (biologica e culturale) prosegue con altri mezzi.

Questa dialettica fra continuità e rottura si nota in altri esempi recenti di dilemmi biotecnologici con il sapore della fine del mondo. Lo abbiamo visto in innumerevoli plot catastrofisti: virus letali fabbricati o modificati in laboratorio, da gruppi di ricerca pagati da superpotenze in conflitto, vengono sottratti ai protocolli di sicurezza e cadono nelle mani di terroristi; una pandemia terribile, scatenata dall’imperizia, decima l’umanità. Più realisticamente, le ricerche finalizzate a neutralizzare virus presenti in natura (cercando di individuarne la sequenza genetica e di anticipare in laboratorio le strategie di diffusione) portano alla scoperta di possibili mutazioni, non presenti in natura, che renderebbero un virus assai più pericoloso, per esempio passando da una trasmissione solo attraverso i liquidi corporei a una trasmissione per via aerea. Immaginiamoci quali danni potrebbe causare un supervirus Ebola a trasmissione aerobica, capace di diffondersi con uno starnuto o un colpo di tosse. Manipolando a fini di prevenzione otteniamo così informazioni delicate che potrebbero essere adoperate per bioterrorismo: è il paradosso bioetico dei prossimi anni, inscritto nell’ambivalenza radicale dell’agire umano.

Le informazioni per costruire un possibile supervirus letale del futuro sono le stesse che ci permettono di arginare le pandemie reali del presente con i vaccini: nella stessa conoscenza c’è un bene e un male potenziale. Nel dicembre 2011 le autorità federali degli Stati Uniti hanno chiesto alle riviste scientifiche «Nature» e «Science» di non pubblicare i dettagli della sequenza di un virus mutante dell’aviaria capace di trasmettersi facilmente tra i mammiferi e messo a punto in un laboratorio olandese e in uno statunitense. Si è instaurato in questo modo un conflitto tra le insopprimibili esigenze di trasparenza e di condivisione delle conoscenze scientifiche acquisite, da una parte, e l’altrettanto importante bisogno di garantire la sicurezza dei cittadini, dall’altra. Viene prima il dovere di informare o la biosicurezza? Chi decide che cosa rendere noto e con quali criteri? È meglio risuscitare il virus della spagnola in laboratorio, per non trovarsi impreparati se dovesse ricomparire in natura, o non farlo per paura del bioterrorismo?

Non che il segreto militare o il segreto di stato siano mai stati una solida garanzia, ma è chiaro che la diffusione indiscriminata di informazioni potenzialmente pericolose potrebbe essere evitata o circoscritta, o se non altro regolamentata. È peraltro ipocrita che le nazioni più impegnate da decenni nella ricerca sulle armi batteriologiche mostrino oggi preoccupazione per la disseminazione di informazioni che potrebbero favorire i bioterroristi, avendo creato esse stesse le tecnologie e le condizioni perché accadesse. Del resto, non sembra rassicurante nemmeno l’argomento – addotto da uno degli scopritori del virus mutante dell’aviaria, il virologo Ron Fouchier dell’Erasmus Medical Center di Rotterdam – secondo cui in pochi al mondo avrebbero al momento le tecnologie, le strutture e i fondi per produrre poi realmente questi virus ingegnerizzati. Una volta che tutti sapranno come si fa, è possibile che qualche malintenzionato voglia provarci. Tuttavia, come ha scritto Mark Honigsbaum su «The Guardian», «il più grande bioterrorista è la natura». Se un virus influenzale come quello dell’aviaria dovesse mutare inaspettatamente, è bene giocare d’anticipo e farsi trovare pronti.

Noi i devastatori, noi i salvatori?
Lo scandalo dell’ingiustizia e della disuguaglianza su scala globale è la premessa di ogni questione ambientale. Milioni di bambini potrebbero essere salvati da atroci sofferenze, ogni giorno, semplicemente diffondendo nei loro paesi le vaccinazioni più elementari. La fine del mondo per propria mano ha a che fare anche con il limite oggettivo della finitudine del nostro pianeta: le risorse e le materie prime non rinnovabili sono in quantità finita e non possono essere sfruttate indefinitamente per la produzione e la crescita economica. Allo stesso tempo, l’impatto umano ha un limite di tollerabilità sugli ecosistemi oltre il quale bisogna aspettarsi che il sistema terrestre produca reazioni e riorganizzazioni che non necessariamente garantirebbero le stesse condizioni di vivibilità per la specie umana. Esiste un confine oggettivo oltre il quale la pressione produttiva e riproduttiva umana non è sostenibile, e ci si divide sull’eventualità che sia stato già raggiunto oppure no. Queste sono le premesse della finitudine evoluzionistica oggettiva.

Da un piccolo gruppo di 25 mila pionieri in Corno d’Africa siamo diventati sette miliardi sparsi ovunque. Le proiezioni demografiche sembrano convergere verso un picco di espansione intorno a nove miliardi di individui, tra il 2050 e il 2070, dopo il quale ci sarà una stabilizzazione o una lieve flessione della popolazione mondiale. Saremo sempre tantissimi, ma non più di un certo limite fisiologico. La biosfera sarà comunque sottoposta a pressioni fortissime, per sfamare una tale quantità di nostri simili, ma secondo alcuni scienziati sarà il divario intergenerazionale a creare i maggiori problemi. Il picco popolazionale unito all’innalzamento dell’aspettativa di vita produrrà un «futuro grigio», con la metà della popolazione, si stima, sopra i 60 anni. I grandi problemi ecologici del futuro saranno affrontati da moltitudini con i capelli bianchi.

Con l’ambientalismo romantico della wilderness ottocentesca e quello più cupo novecentesco, la catastrofe assume dunque le vesti della Nemesi, della punizione superiore per la nostra incapacità di rispettare le soglie che ci sono date. Occorrono – si dice – limiti alla crescita, conversioni ideologiche, cambiamenti di costumi, interventi radicali e rigidi principi di precauzione, se non vogliamo correre dritti verso il disastro. Anche questa però è a suo modo una catastrofe rimandata, costantemente annunciata, proiettata in un futuro variabile. Le previsioni allarmistiche di «verità scomode» non sono più appannaggio di millenaristi o capi religiosi, ma di scienziati, uomini politici e intellettuali laici.

A ben vedere, però, dall’invenzione della domesticazione di piante e animali la specie umana è sempre stata tendenzialmente «insostenibile» e la Terra, come abbiamo visto nel capitolo precedente, ne ha già viste di tutti i colori. Tale constatazione di fatto non rappresenta un alibi per un vano scetticismo ambientale o per un negazionismo irresponsabile, bensì rivela come paradossalmente anche questa accezione ecologista della catastrofe sia al suo cuore antropocentrica (nostra è la colpa del disastro e da noi ora dipende uscirne) e sia per noi cognitivamente attraente, o quasi psicologicamente consolante. Nel bene come nel male, siamo noi i padroni della situazione, i nocchieri del pianeta, il quale, dopo essere stato minacciato e turbato da noi, sempre da noi attende ora di essere eroicamente salvato. Accorgerci della Nemesi incombente ci fa sentire migliori. Permane insomma anche in questo caso un valore edificante della catastrofe, della minacciata fine del mondo.

Se le sorti di madre natura sono nelle nostre mani, allora siamo davvero importanti. Eppure non si direbbe che la biosfera sia un sistema così fragile. Non ci piace ammetterlo, ma la vita continuerebbe comunque, anche dopo la peggiore catastrofe nucleare generabile dalla follia umana. L’imperativo ecologico, «salvare il pianeta», forse può essere declinato più umilmente nel senso di salvare le condizioni di possibilità per la nostra sopravvivenza come specie umana e per quella dei nostri compagni di viaggio in questo scorcio di evoluzione. La necessaria, e per ora disattesa, «coscienza globale» circa la fragilità del nostro destino è un tema filosofico che dovrebbe ricevere più attenzione.

Persino nell’ecologismo meglio intenzionato sembrano allora nascondersi le perversioni indotte dal senso di colpa e le tentazioni contrapposte dell’autoflagellazione e dell’autoesaltazione. Siamo immersi in un lacerante doppio vincolo. Il paradosso è lampante: dovremmo consumare di più per «far girare l’economia», per «rilanciare la crescita», per dare sviluppo; ma consumando di più, e in questo modo dissennato, sappiamo che corriamo dritti verso la crisi ambientale, come innumerevoli segnali inascoltati ci indicano da decenni. Si ha così l’impressione di essersi costruiti addosso una gabbia: il nostro unico, indiscusso – imperfetto ma insostituibile (così si dice) – modello di sviluppo economico-finanziario ci nutre e insieme stringe il cappio attorno al collo, lasciando dietro di sé una scia di ineguaglianze.

Da qui, per reazione, una filosofia della catastrofe che scatta in avanti e propone uno stravolgimento concettuale ed etico: dobbiamo decrescere, emanciparci radicalmente da questa concezione fuorviante di crescita cumulativa e quantitativa, dal delirio della crescita per la crescita. Torna sotto traccia l’auspicio di Friedrich Hölderlin («Ma là dove c’è il pericolo, cresce / anche ciò che salva» – Patmos, vv. 3-4): la specie umana saprà reagire e cambiare solo dinanzi al pericolo estremo, sulla soglia di quel baratro che ormai è all’orizzonte. Ad estremo pericolo, soluzioni estreme, per una conversione finale all’urgenza di inceppare questo sviluppo e sostituirlo con un altro, più umano e qualitativo. Ecco di nuovo trapelare, sotto altre spoglie, una riconversione seppur laica delle menti, una catarsi politica, una Nemesi minacciata e un’escatologia salvifica per via terrena. Ma è una filosofia della catastrofe intrinsecamente punitiva, neoreligiosa, edificante. Siamo stati arroganti, abbiamo oltrepassato i nostri limiti a causa dello strapotere della tecnoscienza e ora è giunto il momento di fermarsi.

Vi è naturalmente molto di vero in questa denuncia e in questo invito alla smobilitazione, a una saggia frugalità. Ma come convinceremo «gli altri», quelli che finora ci hanno visto correre in avanti e che adesso galoppano a ritmi di crescita vertiginosi per raggiungerci, a darsi una calmata per non consumare il pianeta come formiche? Con quale diritto noi occidentali ora inventiamo ed esportiamo la cultura della decrescita, giusta per molti aspetti, dopo aver alimentato per alcuni secoli la nostra crescita con le risorse degli altri? Non esiste alcun argomento valido per impedire, a chi desidera il nostro tipo di sviluppo, un cammino analogamente insostenibile. Rischiamo altrimenti di trasformare l’ambientalismo in un lusso per ricchi. Se le risorse del pianeta sono in quantità finita e una crescita illimitata è insostenibile, la decisione su quali modelli di sviluppo intraprendere, che siano plurali ed ecosostenibili, spetta a tutti. Ma questo scatto decisionale internazionale è irrealistico dinanzi agli egoismi nazionali, alle intollerabili diseguaglianze sociali ed economiche che affliggono il pianeta, al rifiuto di politiche di redistribuzione delle ricchezze. Il ricorrente fallimento delle più recenti assise internazionali sul cambiamento climatico, tra veti incrociati e compromessi estenuanti e vanificanti, ne è la riprova.

Forse anziché una decrescita «felice», potremmo intanto ipotizzare una riduzione dell’infelicità dei due terzi del pianeta che vivono nell’indigenza, prospettando insieme a loro una crescita più intelligente e più equa. Potremmo anche capire meglio cosa intendiamo per felicità e benessere di un paese, considerando anche parametri sociali e culturali, il vivere bene insieme in un tessuto di relazioni sociali. Anziché accarezzare nostalgie di tempi perduti e di inesistenti età dell’oro, potremmo insegnare fin dai primi anni di scuola che l’innovazione scientifica e tecnologica è il segreto cruciale per individuare modalità più sostenibili e avanzate di sfruttamento delle risorse primarie, di utilizzo di energie rinnovabili, di produzione e distribuzione del cibo, di smaltimento dei rifiuti, di riduzione delle emissioni di gas serra, di salvaguardia del territorio e del paesaggio, di conservazione della biodiversità. Non vi è per esempio alcuna insuperabile contrapposizione di principio tra lo sviluppo della ricerca biotecnologica e la difesa dei prodotti locali e delle culture tradizionali.

Oggi molti studiosi cominciano a esplorare un approccio che potremmo definire «ambientalismo scientifico», cioè un’analisi del futuro del pianeta che sia rigorosamente ancorata a evidenze scientifiche verificabili, quantificabili e precise, che sia in grado di soppesare sempre i rischi e le opportunità, di proporre priorità e soluzioni pragmatiche, che faccia ricorso ai modelli più realistici e fondati. Un approccio non presuntuosamente neutrale, ma nemmeno velleitariamente salvifico: un ambientalismo eticamente motivato e consapevole dei gravi rischi ecologici e antropologici che stiamo correndo, che non scade però nell’ostilità verso la scienza e le tecnologie ma si affida a esse, criticamente, come a strumenti indispensabili per trovare soluzioni innovative. Se scienza e tecnologia sono state e sono senza dubbio una parte del problema, soprattutto se sviluppate privatamente, esse rappresentano anche una parte indispensabile della soluzione.

Andare ostinatamente incontro alla catastrofe
L’umana è da sempre una specie perturbatrice, una specie che migra, si adatta e si sposta, altera gli ambienti attorno a sé, vince gli ostacoli esterni grazie alla cultura, agli strumenti, a protesi di ogni tipo. Come tale è una specie che ha inciso fortemente, fin dall’uscita dall’Africa tra 120 e 60 mila anni fa, sulle reti ecosistemiche con le quali interagiva. Ma questa non è una giustificazione. I cambiamenti che la Terra si trova oggi ad affrontare, e che in futuro dovrà assorbire sempre più, sono infatti anche molto diversi da quelli avvenuti nel passato: per scala, per intensità e per velocità. Nella profondità del tempo geologico le condizioni dell’atmosfera, degli oceani, della biosfera e di tutto il pianeta in generale hanno seguito cicli naturali misurabili in milioni o in centinaia di migliaia di anni, mentre ora le attività umane rappresentano una significativa forza conduttrice e acceleratrice dei cambiamenti globali. Le tendenze sul lungo periodo vengono sconvolte da dinamiche che si cominciano a misurare in secoli e in decenni, anziché in millenni. Due scale temporali diverse si stanno scontrando.

La rimozione della fine del mondo come possibilità reale (e non solo rituale) si manifesta soprattutto nella nostra incapacità di ascoltare i segnali premonitori. A volte la megalomania è rassicurante, se presa a una certa distanza. I presidenti americani non credono per niente alla fine del mondo, se è vero che progettano (ora con qualche ripensamento) di trasportare via terra nel deserto del Nevada quasi 80 mila tonnellate di scorie radioattive e di concentrarle nel cuore roccioso di Yucca Mountain, a un centinaio di miglia da Las Vegas. Lì prevedono che stiano al sicuro per i prossimi 10 mila anni, senza infiltrazioni né smottamenti che possano rimetterle in circolo. L’operazione di accumulo dovrebbe durare per tutto il secolo corrente e fa ben sperare sulla fiducia degli esperti nella stabilità (almeno geologica) del mondo, o se non altro del Nevada. Si pongono però problemi inediti, di natura linguistica o glottocronologica: «come dovrà essere scritto il cartello “pericolo di morte” perché venga compreso dai nipoti dei nostri pronipoti?» [D’Agata 2010, 1]. Come diremo «stoccaggio» nel lontano discendente di ciò che fu l’inglese?

All’opposto, anche un eccesso di scrupolo rischia di essere inutile. Il principio di precauzione può diventare paralizzante perché si scontra con due ostacoli seri. Il primo è la congenita ignoranza circa gli effetti collaterali potenziali delle nostre azioni, le quali, appena compiute, finiscono in un’ecologia più grande di noi. Il secondo è la nostra incapacità di immaginare davvero, fino in fondo, le conseguenze minacciose di ciò che pure sappiamo. Preso alla lettera, impedirebbe ogni innovazione. Gli opposti si avvicinano. Da una parte, l’inazione e l’omissione sfrontata non ci salveranno di certo. Dall’altra, un po’ paradossalmente, persino l’ambizione di ergersi a salvatori di questo pianeta sembra nascondere un eccesso di sicurezza, la presunzione cioè di poter controllare l’andamento del sistema. E se la salvezza del pianeta non fosse mai stata nelle nostre mani? Nonostante l’efficacia crescente delle umane tecniche, è chiaro che il mondo fisico continua a sfuggire al nostro dominio. Meglio forse esplorare nuove possibilità caso per caso, con prudenza e creatività, senza assunzioni troppo impegnative, per sottrarsi sia agli eccessi di colpevolizzazione (che in quanto eccessi finiscono per assolvere tutti) sia agli eccessi di responsabilizzazione.

Gli studi comparativi più recenti di archeologia, paleoecologia e storia hanno mostrato quanto siano stati numerosi in passato i casi di culture e civiltà umane che sono andate incontro al crollo seguendo ostinatamente alcuni comportamenti controproducenti e ben riconoscibili: sfruttamento crescente delle risorse; adattamenti relativamente soddisfacenti rispetto al primo impatto ambientale; occultamento dei segnali critici e intensificazione dello sfruttamento; crescita eccessiva della popolazione; sviamento dell’attenzione verso nemici esterni; accumulo di tensioni e crollo improvviso a causa di crisi ambientali; collasso rapido per implosione o esplosione del reticolo sociale e delle condizioni di sopravvivenza [Diamond 2005]. I mutamenti climatici, la presenza di nemici esterni, la dipendenza commerciale da altre società e i modi culturali diversi di reagire alla crisi sono fattori concomitanti che si sommano al danno ambientale.

Dalla colonia norvegese della Groenlandia all’isola di Pasqua, dagli anasazi agli stessi maya, spesso le scelte dei responsabili appaiono (a posteriori) sistematicamente volte all’esito catastrofico, con l’incapacità di tener conto dei problemi a lungo termine e la perseveranza nell’errore. O per mancata percezione del problema o per egoistici conflitti di interesse, si è andati incontro alla catastrofe pervicacemente, come imbrigliati da una logica distruttiva interna, anche quando il processo non aveva ancora imboccato un crinale irreversibile. Così l’ecocidio è diventato in molti casi un suicidio, nonostante i segnali premonitori: distruzione dell’habitat, erosione del suolo, consumo delle risorse idriche, eccesso di caccia e pesca, specie invasive, crescita della popolazione, pratiche agricole insostenibili, cicli di carestia, impatto ecologico crescente.

La lista ha qualcosa di familiare. Queste autoestinzioni di piccole culture e grandi civiltà del passato possono essere un modello possibile per l’ingorda specie umana nella sua interezza? «I turisti del futuro osserveranno attoniti i mastodonti arrugginiti dei grattacieli di New York, proprio come noi oggi ammiriamo le rovine delle città maya, sepolte da rigogliosa vegetazione?» [ibidem, 8]. Il parallelo è ardito, ma la domanda legittima. Non possiamo infatti nasconderci che Homo sapiens ha inaugurato recentemente alcuni inediti mostruosi. È la prima forma vivente capace di pianificare a tavolino il genocidio e la pulizia etnica, usando il meglio delle sue capacità organizzative e tecniche. È la prima creatura capace di annientare gran parte della vita (ma non tutta, comunque) schiacciando un bottone nucleare. In chiave evoluzionistica, l’assassinio di massa – su larga scala, intenzionale e programmato – è diventato tristemente parte della dotazione «naturale» della specie umana. Indipendentemente dal grado di banalità di questo male e dalle sue spiegazioni causali, ora è impossibile tornare indietro: ne siamo stati capaci, potremmo rifarlo. In quanto tali, siamo in condizione di ripetere quelle follie autodistruttive e, come scrisse Günther Anders nel pieno della vacillante «pace nucleare», da Hiroshima in poi inizia l’età della dilazione: possiamo soltanto rinviare – si spera indefinitamente – l’apocalisse che si è resa già possibile.

Dunque la deriva dei polinesiani dell’isola di Pasqua – dal disboscamento completo alla guerra civile – è lo stesso tipo di esperimento che oggi stiamo conducendo con l’intero pianeta, con le aggravanti del riscaldamento climatico e dell’inquinamento industriale, come paventa Diamond? Il messaggio potrebbe contenere qualcosa di reale, o essere soltanto un’altra analogia esageratamente minacciosa. Esistono infatti casi virtuosi come quelli dell’Islanda, di Tikopia e degli Inuit, descritti proprio da Diamond attraverso il suo efficace metodo di comparazione tra «esperimenti naturali di storia» (passata e recente) che differiscono relativamente a una certa variabile ambientale o culturale in esame [Diamond e Robinson 2011]. Il tema del collasso ci avvicina però a una rivelazione importante: la fine, nella storia delle civiltà umane, è sempre stata presente. «Amministrare le risorse ambientali per un tempo prolungato è sempre stato un compito difficile», per i contemporanei come per i popoli del passato, che non erano né rozzi primitivi né saggi abitanti dell’età dell’oro [Diamond 2005, 12]. È difficile per i gruppi umani non cadere nello sfruttamento eccessivo, perché all’inizio le risorse sembrano inesauribili, i primi segni di sofferenza dell’ecosistema possono essere interpretati come fluttuazioni occasionali, e soprattutto è socialmente complicato trovare un accordo per moderare le proprie aspettative. Insomma, è già successo e non è finita bene.

Secondo i filosofi del linguaggio Antonino Pennisi e Alessandra Falzone, la minaccia incombente di un’implosione della convivenza umana sarebbe talmente connaturata all’evoluzione dell’uomo da essere imputabile al fatto che la nostra specie – imprigionata dall’esterno nel suo pianeta e dall’interno nella sua camicia di forza linguistico-tecnologica – non può più occupare nuovi spazi ecologici, né dare origine a specie discendenti, ritualizza di meno l’aggressività intraspecifica, mentre in compenso si frammenta in una moltitudine incattivita di «pseudo-speciazioni» culturali e linguistiche esacerbate dalla crescita popolazionale e dai conflitti per le risorse. È «il prezzo del linguaggio», la scoperta dell’irrimediabile finitudine della specie parlante, condannata alla semantica e alla sintassi, e dunque anche alla manipolazione strumentale tanto di oggetti quanto di credenze: «l’anomalia ecologica e la diversità mentale umane sono due facce di una stessa medaglia» [Pennisi e Falzone 2010, 20]. In effetti, alcuni oggi sospettano che proprio il linguaggio articolato sia stato «l’arma segreta» dell’ultima ondata di espansione di Homo sapiens fuori dall’Africa [Pievani 2012c].

In queste idee di un’accelerazione involutiva, o persino suicida, riecheggia il sarcastico «paradosso di Fermi» o «problema del grande silenzio» [Webb 2004]. Se il Sole e la Terra non godono di uno statuto speciale nell’universo, se il cosmo pullula di pianeti extrasolari simili al nostro, se il loro numero è così alto da sfidare ogni improbabilità di formazione di strutture viventi, se dunque la vita può esistere in molti altrove, se una parte di questa, statisticamente, sarà più intelligente di noi, e quindi con capacità di movimento e di comunicazione persino inimmaginabili, perché non vengono a trovarci? L’ironia del grande fisico italiano in visita a Los Alamos era legata all’ennesima notizia di un avvistamento di oggetti volanti non identificati sui cieli di Manhattan o del New Mexico nel secondo dopoguerra: se il cosmo brulica di alieni incuriositi, dove sono tutti quanti? Oggi sappiamo che la risposta più plausibile risiede nelle enormi distanze di anni luce, nei vincoli fisici inaggirabili e nelle contingenze evolutive che ci accomunano a ogni presunta specie extraterrestre intelligente e che rendono l’eventuale contatto estremamente difficile.

Non sono mancate, tuttavia, soluzioni più inquietanti al paradosso. Una delle risposte più pessimiste ipotizza che tali civiltà esistano o siano esistite davvero, e che tuttavia non siano mai in grado di raggiungerci perché ciò implicherebbe uno sviluppo enorme delle loro capacità intellettive e tecnologiche, ma nella realtà – questo è il punto – nessuna di esse riuscirebbe ad accedere a questo stadio elevato di progresso perché ogni volta si autoestingue prima. In altri termini, a un certo punto la loro evoluzione culturale inciampa e diventa insostenibile. Viene interrotta da una catastrofe oppure implode su se stessa e impedisce di raggiungere il livello di avanzamento necessario per intraprendere voli o comunicazioni interstellari. Le civiltà intelligenti, insomma, avrebbero una durata limitata: come ogni specie, nascono, si trasformano e prima o poi scompaiono. Un alieno così evoluto da venirci a trovare è un alieno estinto.

Un momento o l’altro viene il punto in cui tutte le specie che nell’universo si autodefiniscono sapiens capiscono di non esserlo state abbastanza, o di esserlo state troppo. Del resto, come hanno notato spesso gli evoluzionisti, il «progresso» di una specie si misura sempre a posteriori: nel senso che di solito lo misura qualcun altro, dopo che la specie si è estinta. È interessante che anche nell’immaginario fantascientifico più recente si dia per scontata l’ineluttabile logica interna della catastrofe umana sul pianeta, al punto che l’unica via di salvezza è spesso affidata alla fuga su altri pianeti. Non mentale questa volta bensì fisica, ma pur sempre una fuga dalla catastrofe. Inseguiti dallo sdegno della Nemesi per le ingiustizie commesse, ci dilegueremo e ci diffonderemo su altri sistemi e in altre galassie, sfruttando i loro pianeti «Pandora» ancora ecologicamente sapienti, spargendo un seme nello Spazio prima che il nostro mondo diventi del tutto inospitale. Se poi tutto ciò sarà un bene o meno per le altre galassie è un’altra questione.

Capitolo quarto
Estinzione (siamo i figli della fine del mondo degli altri)
Leibniz non mi insegna attraverso quali invisibili nodi, nel più ordinato dei possibili universi, un disordine eterno, un caos di infelicità, mescola i nostri vani piaceri ai reali dolori, né perché l’innocente, alla stregua del colpevole, subisce in egual modo questo male inevitabile. Non concepisco neppure come tutto sarebbe bene: sono come un medico, ahimè, non ne so niente.

Voltaire, Poema sul disastro di Lisbona, 1756

«L’estinzione delle specie non sorprende più dell’estinzione del singolo», scrive Darwin sul piccolo taccuino rosso che lo accompagna fra le onde dell’Atlantico mentre il Beagle volge verso casa [Darwin 2008]. In effetti – rimugina il futuro evoluzionista – se le specie fossero davvero il prodotto di «creazioni speciali», perché scomparirebbero sbriciolandosi in fossili consunti, dall’aspetto arcaico eppur simili ad animali tuttora esistenti? Se invece interpretiamo le specie come entità collettive ma discrete – come un organismo è un collettivo ben organizzato di cellule – allora in quanto «individui», nota Darwin rifacendosi in parte alle idee del geologo italiano Giambattista Brocchi, esse avranno una nascita (speciazione), uno sviluppo (trasmutazione), una morte (estinzione), e se tutto va bene qualche discendente.

La rimozione del catastrofismo
Il tema della «fine delle specie» transitava così dall’area semantica della punizione divina e del diluvio universale a quella di un ciclo evolutivo del tutto naturale. Come i polipi estroflessi in cima a una barriera corallina, le variegate forme di vita attuali giacciono inconsapevolmente sopra una montagna di scheletri calcarei del passato. Ma se il «corallo della vita» di Darwin è una geniale intuizione descrittiva, per giungere a risolvere i rebus dell’estinzione ancora molte scoperte dovevano far capolino, inclusa un’inaspettata rivisitazione scientifica delle «catastrofi» che al naturalista di Down House non sarebbe piaciuta per niente. Egli infatti aderì, dopo alcune titubanze iniziali, al metodo «uniformitarista» dell’influente geologo inglese Charles Lyell, autore di quei Principles of Geology che erano stati lettura decisiva durante il viaggio. Per spiegare la storia della Terra, mai ricorrere a leggi, a cause o a meccanismi «speciali» che non siano in azione anche nel presente e in quanto tali osservabili oggi, aveva ammonito Lyell.

Questa visione, detta anche «attualismo», era in aperto contrasto con la scuola francese del grande anatomista e geologo George Cuvier, che dal 1795 aveva stupito il mondo scientifico con le sue accurate monografie di anatomia comparata sui mammut siberiani, sul mastodonte, sul Megatherium (il bradipo gigante terricolo sudamericano) e su altri grandi mammiferi estinti. Il tempo profondo cominciava allora a dare segni di sé, recando un messaggio inequivocabile: l’estinzione non è un errore del Grande Progettista, ma un fenomeno reale e naturale. Due decenni più tardi saranno scoperti anche i primi «grandi rettili» estinti, poi battezzati nel 1842 «terribili sauri» (Dinosauria) da Richard Owen, omologo inglese di Cuvier. Si trattava del primo gruppo interamente distinto di animali estinti che sembravano non aver lasciato alcun discendente anatomicamente riconoscibile.

Cuvier aderiva a una visione non certo nuova in campo naturalistico, dato che almeno dal XVII secolo si discuteva di grandi catastrofi del passato [Hallam 1983; Gould 1994b]. Nel 1696 William Whiston, successore di Newton sulla cattedra lucasiana di Cambridge e non meno eretico dell’illustre predecessore, aveva attribuito alle comete il potere di condizionare di tanto in tanto la storia naturale e umana nei suoi momenti topici, dalla creazione del mondo fino alla sua conflagrazione catastrofica finale. Nei primi anni dell’Ottocento Cuvier aveva portato alla luce splendide sequenze di fossili nel bacino della Senna, in particolare dell’Eocene e del Miocene. Notò così che gli scheletri di molte forme estinte erano distribuiti lungo una sequenza stratigrafica non continua. Le faune erano riconoscibili in base alla loro composizione, duravano per un certo periodo e poi finivano, lasciando il posto a strati più sottili pieni di conchiglie marine. Poi di nuovo cominciava un’altra fauna terrestre. Cuvier pensò che questa alternanza fosse dovuta a improvvise «rivoluzioni», cioè catastrofiche inondazioni che distruggevano un mondo e ne preparavano un altro. Nel 1812 pubblicò la prima di varie edizioni del Discours préliminaire alle sue osservazioni sui fossili, manifesto del catastrofismo ottocentesco. Una sequenza di drammatici diluvi (ultimo dei quali quello biblico, alla fine dell’era glaciale) aveva scandito la storia naturale degli animali.

L’idea era quindi che nel passato geologico avessero agito forze inusitate e violente, di un ordine di grandezza incomparabile rispetto a quello dei processi attuali. Altri catastrofisti concentrarono le loro attenzioni non sull’acqua ma sul fuoco, cioè sulle eruzioni vulcaniche, ma il principio era lo stesso. In radicale opposizione rispetto a questa letteratura continentale, Lyell era convinto che nulla di tutto ciò fosse ipotizzabile da parte di un buon geologo: solo processi osservabili oggi potevano essere evocati come spiegazione del passato e i gruppi di piante e animali erano da considerarsi virtualmente eterni, potendo riapparire ciclicamente di epoca in epoca. Benché le osservazioni di Cuvier fossero molto precise, e in Lyell viceversa non mancassero insensatezze teoriche (come appunto l’«eterno ritorno» dell’ittiosauro), la posizione di quest’ultimo prevalse largamente anche grazie alla sua retorica affilata. Dal 1832 la tendenza dominante di geologi e paleontologi fu quella di privilegiare – secondo un ragionevole «principio di semplicità» degli agenti di cambiamento – meccanismi graduali il cui corso fosse prevedibile anziché processi ritenuti non necessari e non padroneggiabili alla luce delle conoscenze sui tempi presenti. A maggior ragione, erano da preferirsi di gran lunga cause endogene (interne alla Terra) e non esogene. Ne andava della razionalità scientifica e della credibilità della categoria.

La filosofia anticatastrofista di Lyell era un misto di buon senso empirista, di generalizzazioni non necessarie e di arte del foro [Gould 1989]. Il tempo profondo doveva essere indagato presupponendo: l’uniformità delle leggi di natura; l’uniformità dei processi geologici; l’uniformità dei ritmi di cambiamento (sempre graduali); e l’uniformità di stato della Terra, cioè un equilibrio dinamico di processi ciclici, eternamente ripetuti, senza alcuna progressione lineare. Sui primi due assunti anche Cuvier sarebbe stato d’accordo, mentre il terzo e il quarto non discendevano logicamente dalle premesse, essendo affermazioni di principio non fondate su dati. Anzi, la strana idea che nella storia naturale non vi fosse un ordine irreversibile di comparsa di nuove forme era già ampiamente smentita dai fossili e fu demolita da Darwin (il quale, tuttavia, fin dai Taccuini giovanili fu un fervente anticatastrofista). Nonostante le sue debolezze, il manifesto attualista di Lyell acquisì un potere duraturo e divenne lo statuto normativo valido per un secolo e mezzo, generando una persistente riluttanza nell’accettare la realtà delle estinzioni su larga scala.

Perfino autorevoli geologi che avevano intuito l’esistenza delle catastrofi passate, come lo scozzese Roderick Murchison, dovettero fare marcia indietro e accettare l’uniformitarismo come principio paradigmatico. Secondo questa interpretazione tradizionale, le estinzioni maggiori sarebbero state causate da fattori climatici, o affini, la cui azione si sarebbe dispiegata cumulativamente nell’ordine dei milioni di anni. Nell’Origine delle specie, Darwin aderisce al gradualismo di Lyell e imputa «lo sterminio apparentemente improvviso di intere famiglie o ordini» all’imperfezione della documentazione fossile: in pratica, le estinzioni su vasta scala sarebbero un’illusione prospettica dovuta ai lunghi intervalli di tempo nascosti come lacune nelle formazioni geologiche. In questi buchi senza reperti doveva esserci stato, secondo Darwin, un lento accumulo di numerose estinzioni minori, che per ora non si vedono ma che emergeranno da future ricerche. Era così convinto di questa predizione da ritenerla essenziale per l’intera sua teoria, ma si sbagliava [Pievani 2012a].

A sostegno di questa interpretazione gradualista ci fu per molti anni il fatto che i sostenitori di ogni altra spiegazione, centrata su cause «catastrofiche» e improvvise, non erano in grado di esibire valide prove empiriche a conferma e venivano considerati dalla comunità scientifica come poco più che bizzarri eterodossi, se non addirittura ciarlatani. Non aiutò il fatto che molti catastrofisti – come Louis Agassiz e la sua teoria della glaciazione quale causa delle estinzioni del tardo Pleistocene, o più tardi Otto H. Schindewolf e la sua congettura sull’esplosione di supernove – fossero antidarwiniani e sostenitori di visioni finalistiche e ortogenetiche della storia naturale ben presto soppiantate dagli sviluppi della teoria neodarwiniana. Per tutte queste ragioni, la parola «catastrofismo» fu a lungo sinonimo di scarsa scientificità. Ma la fine del Novecento sarà prodiga di sorprese.

Estinti, zombie e redivivi
Le evidenze circa la realtà e la magnitudine dell’estinzione sono oggi molto più dettagliate. Nella fluidità ininterrotta delle trasformazioni e delle discendenze evolutive, la morte di una specie è un fenomeno non soltanto inevitabile, ma necessario: è l’altro lato dell’evoluzione. Secondo alcuni paleontologi, come David Raup dell’Università di Chicago, uno dei massimi esperti mondiali di estinzioni, più del 99% di tutte le forme vissute sul pianeta sarebbe già sprofondato irreversibilmente nell’oceano del tempo profondo. Le specie sono entità effimere su scala geologica e una durata superiore ai dieci milioni di anni è da considerarsi un’eventualità rara. L’estinzione, come notò l’evoluzionista Leigh M. Van Valen, rientra nell’«economia della natura», insieme alle espansioni adattative e alla normale selezione ambientale. Se per assurdo l’estinzione non si verificasse mai, il cespuglio genealogico delle famiglie animali e vegetali assumerebbe ben presto le sembianze di un «salice» aggrovigliato, al limite di saturazione per la ramificazione incontrollata di forme viventi divergenti.

L’estinzione è senza ritorno e cancella per sempre una combinazione unica di geni, una struttura morfologica peculiare e il suo patrimonio di soluzioni adattative. Il processo è dovuto a una molteplicità di cause interne ed esterne che mettono in crisi le capacità di sopravvivenza e di riproduzione delle specie: la perdita di diversità genetica le rende vulnerabili; il deterioramento dell’habitat innesca la riduzione e la frammentazione delle popolazioni; o ancora, intervengono cambiamenti troppo rapidi nelle condizioni ambientali, epidemie, competizioni con altre specie sopraggiunte. Il processo può anche avvenire per coestinzione, cioè per gli effetti collaterali della scomparsa di altre specie, ad esempio della propria preda preferita, dell’impollinatore esclusivo, dell’ospite per un parassita. Se una specie ricopriva un ruolo cruciale nel mantenimento della struttura di una comunità ecologica, la sua estinzione potrà innescarne altre, a catena, in una dinamica difficilmente prevedibile.

Altrettanto diversificate sono le strategie di resistenza che le specie oppongono alla minaccia di estinzione: dall’accelerazione del tasso di mutazioni in casi di stress ambientale fino all’inseguimento dell’habitat prediletto. Se però le perturbazioni esterne sono troppo veloci rispetto ai ritmi biologici, se la distribuzione geografica non è ampia e il grado di specializzazione adattativa è elevato (il che solitamente non è una buona idea per sfuggire alle imprevedibilità ambientali), l’estinzione è probabile. Come la Regina Rossa di Lewis Carroll in Attraverso lo specchio, le specie devono correre veloce (vedi: saper mutare) per stare al passo con il mondo che corre attorno a loro.

In realtà, capire se e quando una specie si è estinta non è immediato. Per la scienza è arduo dimostrare che qualcosa non esiste, a maggior ragione quando l’oggetto che non esisterebbe più – la specie biologica – non sempre presenta confini chiaramente definibili. Inoltre, quelle del passato potrebbero essere «pseudoestinzioni»: una specie ci sembra scomparsa, ma in realtà è stata sostituita lentamente da una specie discendente meglio adattata, da una sotto-specie o da una specie sorella. Quanto all’oggi, dobbiamo essere sicuri che gli ultimi individui che conosciamo di una popolazione siano proprio i soli, e non vi siano altri ceppi sconosciuti fuori dai giardini zoologici e dalle riserve. L’estinzione vera e propria è solitamente preceduta da una fase di «estinzione funzionale», quando cioè gli individui rimasti sono così pochi e radi – magari già tutti in cattività – da non aver più le forze riproduttive per far ripartire il motore dell’evoluzione. Stabilire però se il punto di non ritorno sia stato superato o meno è, di nuovo, un compito difficile.

Se una specie fosse rappresentata soltanto in un museo da fossili vecchi di decine di milioni di anni, dopo i quali non si trova più niente nelle stratigrafie, potremmo concludere che è inesorabilmente estinta, ma rischieremmo persino in questo caso clamorose smentite, a causa delle inevitabili lacune che persistono nella documentazione fossile. I «taxa di Lazzaro» sono forme che scompaiono dal record fossile per poi riapparire (non miracolosamente) in epoche successive. Il nome «Lazarus taxa» affibbiato a questi redivivi (nella fattispecie, dal paleontologo David Jablonski) è riferito al paradigma del resuscitato evangelico, della cui nuova vita terrena però sappiamo pochissimo, quasi fosse il custode di un segreto inconfessabile e spaventoso. In certi frangenti può trattarsi di una specie che assomiglia alla precedente per convergenza adattativa ma non è imparentata con essa (in tal caso si è scelto il nome, assai meno evangelico, di «Elvis taxa», in onore delle infinite cover di Elvis Presley), oppure si tratta di un artefatto della documentazione o di una distorsione accidentale della sedimentazione, come quando un fossile viene trascinato via dalla sua sede originaria e si deposita in strati più giovani (e qui si scomoda l’ardita analogia di «Zombie taxa»). Tuttavia, per la gioia dei «criptozoologi», vi sono casi di piante e animali che riemergono effettivamente dai tempi geologici e scopriamo essere presenti ancora oggi in habitat remoti non esplorati a dovere.

Già Darwin nell’Origine delle specie ammetteva l’esistenza di forme di vita eccezionalmente stabili, o «fossili viventi», una categoria oggi dibattuta. Oltre a squali, scarafaggi e limuli, celebre è il caso del celacanto, un pesce osseo di profondità dato per estinto al termine del Cretaceo, coevo quindi dei dinosauri, e impigliatosi in una rete di attoniti pescatori sudafricani negli anni Trenta del secolo scorso. Anche se le due specie riscoperte in anni recenti sono diverse dai molti celacantiformi del Cretaceo, e dunque non sono propriamente «fossili viventi», il celacanto ha evidenziato che nemmeno l’assenza di fossili per 65 milioni di anni è una prova sufficiente per decretare la fine di un genere: si può dire semmai che una specie risulta estinta in un certo periodo storico.

Qualcosa non torna al tramonto del Cretaceo
Nelle situazioni discusse finora l’estinzione riguarda specie singole, o al massimo due o più specie legate fra loro da uno stretto rapporto di coevoluzione, come quando la scomparsa di un’orchidea porta con sé quella dell’insetto che era solito visitare solo lei. Tutte insieme, queste timide dipartite rappresentano quelle che gli evoluzionisti chiamano «estinzioni di sfondo», cioè il normale gioco darwiniano di avvicendamenti che si consuma nell’arena ecologica. Questi esempi mostrano che le specie, nonostante i contorni a volte sfumati, hanno tutto sommato una loro individualità, come scriveva il giovane Darwin, «punteggiata» da un inizio e da una fine.

Ma i turnover dell’evoluzione possono avere tempi e ripercussioni di ben più drammatico tenore. Esistono infatti estinzioni, meno frequenti, con caratteristiche del tutto diverse. Le «estinzioni di massa» sono ecatombi globali sotto il cui impeto cadono intere classi della tassonomia terrestre [Bambach 2006]. Per comprenderle bisogna coinvolgere paleontologia, geologia, biologia, genetica, ecologia, fisica, astrofisica: una grande impresa interdisciplinare [Glen 1994; MacPhee 1999]. La paleontologia, anche prima di Cuvier, era al corrente dell’esistenza di avvenimenti catastrofici passati, tanto da utilizzarli come spartiacque fondamentali fra le principali ere del tempo geologico e fra i corrispettivi biota: l’estinzione della fine del Permiano (circa 251 milioni di anni fa) segna la soglia fra Paleozoico e Mesozoico; l’estinzione della fine del Cretaceo (65 milioni di anni fa), che spazzò via il 38% dei generi di animali marini (oltre ai dinosauri), segna il passaggio dal Mesozoico al Cenozoico [Raup 1994]. Tuttavia, la magnitudine e l’incidenza evolutiva delle estinzioni di massa sono state a lungo sottovalutate perché rappresentavano una minaccia per l’immagine gradualista della storia naturale. Furono quindi assorbite per più di un secolo, dopo Darwin e Lyell, come «anomalie» periferiche i cui meccanismi evolutivi dovevano sempre e comunque essere ricondotti a quelli dei tempi normali. Thomas H. Huxley, per esempio, scrisse molto di dinosauri, ma non affrontò mai per esteso il tema della loro scomparsa, quasi fosse la rimozione di un tema scomodo.

Si sostenne l’esistenza di una continuità sostanziale attraverso l’estinzione: si pensò, in altri termini, che l’estinzione di massa fosse solo un’accelerazione temporanea del ritmo dettato dalla pressione selettiva, senza soluzioni di continuità fra le specie antecedenti all’estinzione e le specie successive. La ricerca di antenati vissuti prima dell’estinzione e di «precursori» delle forme moderne, anche se talvolta frustrata dalle evidenze osservative, fu sospinta per decenni da questa strategia di riduzione del fenomeno alla «normale» gradualità del cambiamento. Si volle mostrare che, fatte le debite proporzioni, l’incidenza numerica delle estinzioni di massa non era sufficiente per considerarle episodi eccezionali. Si presuppose così l’esistenza di lunghi periodi di declino e di lenta «preparazione» all’estinzione.

Queste strategie difensive avevano il fiato corto. Sotto i colpi di nuove scoperte, a metà degli anni Ottanta del secolo scorso gli esperti dovettero ammettere che le estinzioni di massa erano effettivamente fratture irreversibili dell’evoluzione, non i culmini di tendenze evolutive consolidatesi in precedenza. Si appurò che questi deragliamenti dal binario dell’evoluzione normale erano stati infatti più frequenti, più rapidi, più profondi (per numero di individui eliminati) e più insoliti (per gli effetti rispetto al quadro che si ha in tempi normali) di quanto si fosse sospettato. Si capì che erano eventi particolari, da comprendere in una logica di evoluzione su larga scala [Gould 1987].

Un contributo dirimente per questo cambio di prospettiva giunse dalle scoperte sull’estinzione dei dinosauri e dal loro successo mediatico. Dalla fine degli anni Settanta si cominciò a capire che l’estinzione del Cretaceo non riguardava soltanto i dinosauri: si trattò infatti di un’estinzione su vasta scala che portò, fra l’altro, alla scomparsa di quasi la metà delle classi di organismi marini esistenti [Powell 1998]. Questa evidenza liberò il campo da una moltitudine di ipotesi sulla presunta inadeguatezza biologica dei dinosauri. Vuoi per la lentezza e il gigantismo, vuoi per la pesantezza nei movimenti, vuoi per un fenomeno di sterilità collettiva, vuoi per lo scarso volume cerebrale, la ricerca sull’estinzione dei dinosauri si era dispersa in una selva di deduzioni sulla debolezza evolutiva e sulla «predestinazione» all’estinzione, quasi si fosse trattato di una senescenza naturale. Il paleontologo Michael Benton ha contato più di cento ipotesi sull’estinzione dei dinosauri proposte dal 1920 al 1990 e apparse su riviste scientifiche accreditate [Benton 2003]. Le ha divise per categorie: 26 per cause biotiche (compresa la tendenza psicotica al suicidio); 6 per senilità naturale; 6 per interazioni biotiche (compresi la competizione con i mammiferi e l’avvelenamento da metano dell’atmosfera a causa dei gas prodotti dal loro intestino); 11 per cambiamenti nella flora (compreso l’avvelenamento per opera delle angiosperme); 12 per cambiamenti climatici; 7 per cambiamenti atmosferici; 12 per cambiamenti oceanici e topografici; 5 per catastrofi endogene; 15 per fattori esogeni (dai raggi cosmici agli asteroidi).

La dimensione planetaria e trasversale dell’estinzione del Cretaceo impose la ricerca di una teoria generale che la spiegasse nella sua dinamica globale. Fu così indebolita anche l’idea secondo cui i dinosauri sarebbero scomparsi a causa della crescente competizione con i mammiferi, piccoli e agili, pelosi e a sangue caldo, in grado di saccheggiare le loro uova succose. Le ricerche dei paleontologi sui resti ben conservati della fauna giurassica, rinvenuti negli ultimi trent’anni in Europa, Asia e America settentrionale, hanno tolto ulteriore attendibilità all’ipotesi della competizione. Robert T. Bakker, della Harvard University, fra i maggiori esperti nel campo, insieme ai paleontologi dell’American Museum of Natural History di New York fu tra i primi a convincersi che i dinosauri erano da considerare un nuovo gruppo di animali omeotermi i quali, da un loro sottoinsieme, avevano dato origine alla classe degli uccelli. Ma quella volta scomparvero anche i grandi rettili marini (plesiosauri e mosasauri), gli pterosauri volanti, vasti gruppi di molluschi, le ammoniti, tantissimi foraminiferi, molti uccelli e mammiferi. Non vi fu una lenta transizione dal dominio dei dinosauri al dominio dei mammiferi. Doveva essere successo qualcosa alla scala della biosfera, non di particolari specie.

I paleontologi convennero presto su una considerazione relativa alla «salute» della Terra verso la fine del Cretaceo. Alcuni eventi geologici planetari erano senza dubbio in correlazione con l’estinzione. Il livello del mare calò costantemente nella seconda metà del Cretaceo, prosciugando le piattaforme continentali di quegli spazi marini a fondale basso in cui si concentrava la maggior parte degli invertebrati marini [Ward 1994]. Il clima più freddo portò quindi a un declino parallelo dei dinosauri, che all’epoca dell’estinzione non erano al massimo della loro diversificazione, anzi avevano già subito una riduzione delle specie, e di molti invertebrati marini di acqua bassa. La fase saliente della biosfera appena prima dell’estinzione planetaria sarebbe stata dunque quella tipica di una sofferenza ecologica generalizzata. Si trattava probabilmente di una fase «critica» in cui molti gruppi, per cause di tipo climatico o biologico, mostravano una certa vulnerabilità adattativa ed erano già stati indeboliti da «un primo colpo» inferto alla diversità originaria e alle dimensioni delle popolazioni [Eldredge 1995].

Eppure, doveva essere successo qualcosa di molto più drammatico per dare il «colpo di grazia» a questi generi in difficoltà e per annientare in poco tempo una percentuale così alta del plancton oceanico (non direttamente danneggiato dall’abbassamento del livello dei mari). Furono sterminati interi gruppi di organismi, in tutti gli habitat naturali e non solo sui continenti raffreddati. E il tutto in un «istante» del tempo geologico. Anche il lento declino delle ammoniti prima della catastrofe è stato ridimensionato. Serviva allora una causa scatenante, rapida e valida su scala globale. In altre parole una causa «eccezionale», quella che molti geologi sulla scorta di Lyell avevano rifiutato di vedere per decenni.

La morale del dinosauro
Fu in questo contesto già eccitato che alcuni ricercatori della Facoltà di Fisica di Berkeley, guidati dal Premio Nobel per la Fisica del 1968 Luis W. Alvarez e dal figlio geologo Walter, fecero nel 1979 una scoperta destinata a sollevare un vespaio [Alvarez et al. 1980]. Erano impegnati in ricerche del tutto indipendenti dal tema delle estinzioni di massa: misurare la quantità di iridio – un metallo del gruppo del platino presente in piccole percentuali sulla superficie terrestre – depositatosi nelle varie ere del pianeta, al fine di poter trovare un metodo assoluto di calcolo della velocità di deposizione dei sedimenti. Un metallo raro che si accumula in modo regolare può infatti permettere di calcolare a quanto tempo corrisponde uno strato di sedimento: valori bassi denotano una rapida deposizione, valori alti una deposizione lenta. Ma i cacciatori di iridio, per la ben nota serendipità della scoperta scientifica, si imbatterono in un dato anomalo riguardante tutt’altro.

Grazie a un nuovo rivelatore di iridio, osservarono che la quantità del metallo depositatosi in un sottilissimo strato alla fine del Cretaceo, 65 milioni di anni fa, era di trenta volte superiore al livello normale, una concentrazione inspiegabile. Secondo gli accurati rilevamenti geochimici svolti in collaborazione con Frank Asaro e Helen Michael, gli altri metalli misurati in zone diverse della superficie terrestre presentavano invece un comportamento normale. L’iridio, trovato originariamente nelle conformazioni a est della cittadina umbra di Gubbio e poi a Stevns Klint in Danimarca, fu successivamente rinvenuto, nelle medesime quantità e agli stessi livelli stratigrafici, in rocce del Nord America e dell’Atlantico. Era dunque un dato planetario, riscontrabile negli ambienti più diversi. Che cosa aveva fatto piovere tutto quell’iridio sulla Terra, proprio 65 milioni di anni fa? C’era una relazione tra quell’iridio e l’estinzione di massa avvenuta nello stesso periodo?

La prima spiegazione fu cercata nei ritmi insolitamente lenti di deposizione per quello strato, i quali però ben difficilmente potevano giustificare concentrazioni di trenta volte superiori al normale e uniformi in tutto il mondo. In mancanza di altro, si passò a spiegazioni esogene, dapprima pensando all’esplosione di una supernova vicina. In un secondo tempo, dopo accurate ricerche sulla quantità di iridio presente negli oggetti vaganti del sistema solare, gli Alvarez e il loro gruppo conclusero che l’iridio era stato distribuito sulla Terra da un asteroide di grandi dimensioni (circa dieci chilometri di diametro), il cui impatto sul suolo avrebbe creato un cratere di 100-150 chilometri di diametro, inondando per più di un anno l’atmosfera di polveri contenenti la quantità di iridio prevista. Era il modello più plausibile. Il titolo dell’articolo su «Science» non lasciava dubbi e conteneva una parola quasi scandalosa per l’epoca: «una causa extraterrestre per l’estinzione fra Cretaceo e Terziario. Risultati sperimentali e implicazioni teoriche» [ibidem, 1095, corsivo nostro].

La teoria venne accolta dalla comunità dei paleontologi e dei geologi con profondo scetticismo, al limite della ridicolizzazione. Il dibattito trascese ben presto i limiti dell’ipotesi specifica e delle riviste specializzate, tramutandosi in un aspro scontro interdisciplinare [Clemens 1986]. Come si permettevano, un fisico delle particelle e i suoi colleghi, di invadere il campo dei paleontologi in questo modo, rivendicando arrogantemente il loro metodo sperimentale e rispolverando per giunta vecchie idee catastrofiste? La resistenza all’idea che nel passato geologico vi fossero state crisi più gravi del normale e prodotte da cause esogene fu fortissima, benché fosse passato un secolo e mezzo dalle prescrizioni metodologiche uniformitariste di Lyell e benché fosse ormai nota ai geologi la presenza sulla Terra di numerosi crateri da impatto. I primi a essere studiati erano stati il Meteor Crater in Arizona, il Ries Crater in Baviera (dal geologo e astrofisico Gene Shoemaker, lo stesso della cometa che impattò su Giove nel 1994) e l’area dell’esplosione di Tunguska in Siberia.

Mentre il polverone mediatico si diradava, a conferma della teoria dell’impatto extraterrestre giunsero altri rilevamenti geologici sul periodo del tardo Cretaceo corrispondente all’estinzione: isotopi rari, sferule vetrose prodotte da fusione improvvisa e frammenti di silice presenti solo ad alte pressioni (fra cui forme insolite di quarzo, la stishovite, la coesite e la suevite) furono interpretati come ulteriori «tracce» della collisione [Hsu 1993]. Inoltre, questi materiali non erano tipici di eruzioni vulcaniche e potevano essere attribuiti solo alle forti pressioni di un impatto. Mancava però la prova regina: il cratere dell’apocalisse. Alan Hildebrand, mentre era sulle tracce di antichi tsunami, notò che nei Caraibi le onde erano state particolarmente devastanti in quel periodo e che provenivano tutte da un punto preciso. Dopo dieci anni di roventi polemiche, nel 1991 fu individuato a Chicxulub, nella penisola messicana dello Yucatán (la terra dei maya!), un’enorme struttura circolare con tre anelli, già osservata dai geologi delle compagnie petrolifere, che corrispondeva esattamente per età e dimensioni alla ferita inferta dall’asteroide che segnò la fine del Cretaceo [Hildebrand et al. 1991; Frankel 1999]. I rilievi fatti sui materiali provenienti dalle trivellazioni confermarono la presenza di suevite e di altri materiali da impatto datati esattamente a 65 milioni di anni fa. Era stata trovata la pistola fumante.

Fu così che lo scenario catastrofico irruppe su giornali e TV, trasformando dinosauri e asteroidi in conoscenza comune. Dai calcoli degli Alvarez l’oscuramento del pianeta avrebbe interrotto la fotosintesi per circa dieci anni, portando all’estinzione il plancton fotosintetico oceanico, il cui ciclo vitale si completa in alcune settimane, e al crollo la catena alimentare dei mari. Il sistema trofico terrestre avrebbe subito il medesimo destino, con l’estinzione progressiva dei dinosauri erbivori e la conseguente interruzione della catena alimentare dei carnivori. Solo le grandi piante terrestri, i cui semi possono avere lunghi periodi di quiescenza nel sottosuolo, e i piccoli «ratti del Mesozoico», grazie alle esigenze alimentari più modeste e alla flessibilità nella regolazione della temperatura corporea, pur decimati anch’essi sarebbero sopravvissuti dopo l’oscuramento. Al termine della catastrofe, la cui descrizione ci ha introdotti al prologo di questo libro, meno della metà dei viventi vide l’alba di un mondo nuovo [Alvarez 1998].

Curiosamente, l’astrofisico e grande scrittore di scienza Carl Sagan fu ispirato, insieme ad alcuni colleghi, alla costruzione di un modello delle conseguenze climatiche di una guerra atomica proprio da una conferenza di Alvarez del 1982 in cui il fisico di Berkeley confrontò i dati sull’impatto dell’asteroide con gli effetti dell’esplosione incrociata di ordigni termonucleari in Europa, America settentrionale e Unione Sovietica. L’immissione di polveri e veleni nell’atmosfera e l’abbassamento della temperatura planetaria sarebbero stati equivalenti nei due casi, con un lento recupero a partire dai sopravvissuti (soprattutto insetti e felci) che invadono tutto. Un dato su cui occorreva meditare, anche se Sagan era convinto che la fine del mondo sarebbe giunta a causa dell’estinzione dei microrganismi invisibili che garantiscono la salute della biosfera.

La teoria di Alvarez ha dunque superato le polemiche ed è oggi accettata con il consenso prevalente della comunità scientifica, anche se vi sono ancora punti oscuri relativi alla dinamica di sopravvivenza dei gruppi sopravvissuti [per un aggiornamento su «Science»: Schulte 2010]. Essa non solo riabilita le teorie «catastrofiste» garantendo a una di esse la credibilità offerta da prove empiriche di rilievo, ma conferma anche l’impossibilità di ricondurre le estinzioni di massa a una sommatoria di fenomeni minori. Si tratta invece di eventi generalizzati, profondi e su vasta scala, innescati (forse in periodi già critici) da sconvolgimenti improvvisi non riconducibili necessariamente all’azione di agenti graduali.

A dire il vero per alcuni anni resistette un secondo modello, endogeno, dell’innalzamento dei valori di iridio per la fine del Cretaceo: il geologo parigino Vincent E. Courtillot e altri ritennero che la causa del fenomeno, e quindi il «colpo di grazia» a dinosauri e invertebrati marini, fosse da ricondurre all’esplosione simultanea e catastrofica di una certa quantità di vulcani (nelle cui polveri sono contenute percentuali di iridio non ancora depositatosi negli strati più profondi del pianeta) [Courtillot e Allègre 1999; de Boer e Sanders 2002]. In effetti intorno a 65 milioni di anni (e per la durata di un milione di anni!) vi fu una grande eruzione con flussi di basalto, nei Deccan Traps dell’India nordoccidentale: una possibile concausa per l’estinzione di massa. Questi fiumi giganteschi di basalto fuso liberano nell’aria grandi quantità di anidride carbonica e anidride solforosa, cambiando la composizione dell’atmosfera per secoli e producendo prolungati riscaldamenti climatici da effetto serra alternati a raffreddamenti. I dati più recenti sul quarzo da shock e sulla composizione chimica delle sferule vetrose sembrano però più conformi al modello dell’impatto. In ogni caso, che sia in parte vulcanica o meno, catastrofe resta.

L’impatto di un asteroide sulla Terra rimane dunque l’indiziato primario, anche se forse non l’unico, per l’innesco della catastrofe che separa il Cretaceo dal Terziario, 65 milioni di anni fa, e che porta all’estinzione metà dell’intera vita marina, stermina un terzo dei mammiferi e molte altre famiglie intere, fra le quali quasi tutti i dinosauri (esclusi gli antenati degli uccelli attuali). È ironico scoprire che i dinosauri, a loro volta, erano figli della riduzione drastica dei rincosauri, la famiglia dominante di rettili del Triassico [Ward 1994; Benton 2003]. Gli estinti furono un tempo i «sopravvissuti» e la ruota della fortuna continua a girare.

La sopravvivenza del più fortunato (e forse del più flessibile)
A lungo fraintese come lacune della documentazione fossile, che si presumeva dovesse sempre rispettare un accumulo lento e graduale di mutamenti, le estinzioni di massa sono dunque ritenute oggi processi reali e di grande impatto nella storia naturale [Jablonski 2001]. La fine del mondo c’è già stata, molte volte, ed è anche grazie a queste deviazioni della storia che noi siamo qui, ora, a scriverne. Come incendi nella foresta che spazzano via il sottobosco vecchio e liberano spazio per future diversificazioni, queste ecatombi repentine di specie hanno rimodellato a più riprese la composizione della biodiversità terrestre, tracciando le cesure più profonde del calendario delle ere geologiche.

Si tratta di fenomeni peculiari la cui dinamica è distinta sia dalle estinzioni di sfondo (che hanno un tasso medio di 2-4 famiglie tassonomiche scomparse ogni milione di anni) sia dalle estinzioni regionali, come se la «normale amministrazione» dell’evoluzione – variazione, selezione naturale, deriva genetica – non fosse semplicemente accelerata ma temporaneamente soverchiata. Le estinzioni di massa infatti non sopraggiungono necessariamente al termine di lunghi periodi di preparazione, sprigionano la loro potenza distruttiva in tempi relativamente brevi su scala geologica (con un tasso medio di 19-20 famiglie estinte per milione di anni), colpiscono in modo globale e trasversale tutte le classi e gli ordini, ripercuotendosi poi su percentuali altissime di specie scomparse. Questo scenario ha indotto Raup e altri scienziati a domandarsi se l’estinzione di massa sia allora un problema di «cattivi geni», di «cattiva sorte» o di entrambi.

Le estinzioni di massa si stagliano come punti di singolarità nel corso dell’evoluzione, allo stesso modo in cui un uragano è un fenomeno atmosferico diverso da una violenta tempesta (pur essendo entrambi del tutto comprensibili scientificamente). La «curva delle uccisioni» mostra che l’evoluzione è data da lunghi periodi di stabilità «normale», in cui il ritmo di sfondo delle estinzioni si mantiene uniforme, interrotto da brevi eventi di estinzione parossistica. Anche se la differenza è solo quantitativa (misurabile statisticamente con il «tempo di attesa» che separa dall’occorrenza successiva, come per i terremoti, le inondazioni e altri eventi singolari), i secondi non paiono riconducibili ai processi evolutivi conosciuti per i tempi di normalità.

Il carattere insolito di questi fenomeni è accresciuto dal fatto che i sopravvissuti non sembrano essere automaticamente quelli più adatti alle condizioni precedenti: è come se una folata di vento scompaginasse le carte del gioco ecologico, sconvolgendo il quadro delle pressioni selettive preesistenti. Per alcune specie dominanti l’estinzione di massa è un’amara sorpresa. Per altre già in declino è un colpo di grazia. Per altre ancora, rimaste fino ad allora in un cantuccio del palcoscenico della storia naturale, è l’equivalente di una vincita alla lotteria: infiniti spazi vuoti si aprono sotto i loro piedi. Vi sono, certo, ragioni per cui alcuni reagiscono meglio di altri allo stravolgimento ambientale, ma le liste dei sommersi e dei salvati contengono forti dosi di contingenza storica. Non di pura casualità senza senso, ma di ricca contingenza storica: una combinazione di vincoli precedenti, regolarità sottese, eventi singolari [Gould 1984]. E soprattutto, cade il presupposto secondo cui «estinto» debba per forza significare «inadeguato».

L’estinzione di massa non è quindi necessariamente dovuta a inferiorità competitiva. Avere escogitato buone soluzioni adattative per i problemi dei «tempi normali» non aiuta insomma a passare indenni attraverso un’estinzione di massa. Non ci sono segni di maggiore resistenza all’estinzione di massa in base alle dimensioni corporee, a specifici adattamenti ecologici, alla latitudine in cui si vive (essere già abituati al freddo non serve, pare). Tuttavia, avere una dieta diversificata, un minor bisogno di cibo e di ossigeno, abitudini generaliste e una certa flessibilità adattativa senz’altro aiuta nel cavarsela in questi momenti di terrore. Per i super-specialisti, invece, è difficile uscirne se il loro ambiente scompare. Anche la vastità e l’eterogeneità della distribuzione geografica sono proprietà che rimangono utili nei tempi speciali della mattanza evolutiva. Inoltre, se i sopravvissuti sono tali in virtù di una qualche ragione evolutiva – un comportamento o una struttura utile – è possibile che quella struttura e quel comportamento siano del tutto indipendenti dalla funzione originaria per cui si sono formati in tempi normali. Esistono quindi differenti gradi di esposizione all’estinzione.

Il mondo nuovo, vuoto e aperto alla novità evolutiva, in cui si trovano catapultati gli organismi sopravvissuti, stravolge infatti le relazioni funzionali fra nicchia ecologica e morfologia. Ricombina le regole di sopravvivenza favorendo strutture e comportamenti la cui origine potrebbe essere del tutto estrinseca rispetto all’utilizzazione nel nuovo ambiente. È persino possibile che i caratteri migliori che avevano favorito il successo di una specie si rovescino, dopo il cambiamento di regole, in caratteri controproducenti, trascinando la specie all’estinzione. Viceversa, caratteri superflui o secondari sviluppati in tempi normali per vie «traverse» (per esempio come sviluppi collaterali di un adattamento specifico) possono rivelarsi all’occasione ottimi strumenti per resistere e proliferare nel nuovo ambiente.

La sopravvivenza dei mammiferi alla catastrofe esogena del Cretaceo potrebbe per esempio avere qualche legame causale con le piccole dimensioni e con la regolazione termica, cioè tratti morfologici e strutturali indipendenti dalle nuove regole della biosfera terrestre dopo l’impatto. Una volta passata la nottata del Cretaceo, i mammiferi aumentarono di dimensioni, occuparono le nicchie ecologiche libere e si diversificarono per milioni di anni in una delle più spettacolari radiazioni adattative della storia naturale (senza la quale, noi primati di grossa taglia non esisteremmo). Ma gli accidenti fortunati della contingenza storica riguardano tutti. Le diatomee – piante unicellulari del plancton marino – per far fronte alle periodiche fluttuazioni delle sostanze nutritive disponibili (che salgono in superficie da acque profonde in alcune zone e in certi periodi dell’anno) hanno sviluppato un meccanismo di «quiescenza» e di sospensione del metabolismo. In assenza di cibo esse scendono in profondità come spore, bloccando ogni attività alimentare e riproduttiva, fino alla successiva risalita del nutrimento. Una strategia acquisita per i tempi normali si trasforma nella migliore forma di sopravvivenza durante il lungo inverno buio generato dalla collisione con la cometa e decreterà la fortuna di questi esseri.

Quella volta che la vita per un pelo non finì
I dinosauri non furono in ogni caso i protagonisti della peggiore estinzione di massa. Le stime dell’estinzione del Permiano, avvenuta intorno a 251 milioni di anni fa, avanzate da David Raup e dal suo team di Chicago sono impressionanti. Raup considerò il comportamento di un’«area tassonomica media» (quella degli echinoidi, i ricci di mare) e calcolò che per determinare la scomparsa del 52% delle famiglie è necessaria mediamente l’estinzione del 96% delle specie, una cifra altissima. Il termine «area» deriva dal fatto che Raup considerò per comodità l’estinzione come puramente casuale, come una decimazione che colpisce alla cieca entro un’«area di tiro»: il calcolo del 96% è all’eccesso perché l’estinzione reale non è puramente casuale [Raup 1994]. Quando la morte colpisce quasi a casaccio, il tasso di estinzione aumenta quanto più si scende nella scala tassonomica. Un’estinzione con una media del 96% difficilmente può avere una solida logica di selettività. È una catastrofe su scala così generale da non poter favorire alcuna specie sopravvissuta in particolare e tale da non lasciare spazio all’individuazione di ragioni particolari per cui alcune specie si salvarono e la maggioranza no. Anche se la stima di Raup fosse all’eccesso (come alcuni sospettano, stime più prudenti parlano dell’80-85%, il che non modifica l’interpretazione dell’estinzione come di una decimazione assai severa) dobbiamo introdurre nella nostra immagine delle estinzioni una componente rilevante di non linearità rispetto ai periodi di trasformazione «fisiologica».

Quanto alla durata delle estinzioni, anche se i dati paleontologici a disposizione non permettono conclusioni certe, è possibile ipotizzare che esse siano effettivamente «episodi» evolutivi di notevole rapidità. Che siano eventi improvvisi e del tutto isolati, come pensano alcuni, oppure preceduti da una gradualità di declino delle specie, come ritengono altri, è chiaro che lo schema dell’estinzione di massa ha una sua indipendenza. È un nuovo fattore evoluzionistico su larga scala: cambiano le condizioni complessive e la fine di molti diventa un nuovo inizio per i pochi sopravvissuti.

Nell’estinzione che chiude il Permiano, secondo il suo massimo esperto, il paleontologo dell’Università di Bristol Michael Benton, la vita è andata piuttosto vicina alla sua fine planetaria e definitiva: per un pelo non è finito tutto [Benton 2003]. Per la sua spiegazione, negli ultimi anni si confrontano due modelli rivali: massicce eruzioni vulcaniche su larga scala, capaci di produrre migliaia di chilometri cubici di lava e di avvelenare l’atmosfera; oppure nuovamente un impatto letale, di cui il team di Luann Becker ha scorto traccia in alcuni rilevamenti del 2001, con un asteroide di 6-12 km di diametro che avrebbe innescato a catena uno stravolgimento globale (ma i dati sono ancora dibattuti). Secondo le ultime evidenze, qui l’indiziato prediletto sembra proprio risiedere nelle eruzioni vulcaniche con emissione di flussi di basalto, colossali masse di magma poco viscoso che vanno a coprire intere regioni. Se ne trovano i segni in India, Sudafrica, America nordoccidentale, Scozia nordoccidentale. La più estesa di tutte è stata scoperta in Siberia e si ritiene sia avvenuta proprio 251 milioni di anni fa, su un’area pari a quella della Comunità Europea, in coincidenza appunto con la più severa estinzione di massa di tutti i tempi. È l’episodio vulcanico più maestoso avvenuto sulla terraferma negli ultimi 600 milioni di anni.

Confrontata con l’estinzione dei dinosauri, quella di fine Permiano è un’ecatombe quasi inimmaginabile: la madre di tutte le estinzioni di massa. Se alla fine del Cretaceo la metà dei viventi comunque sopravvisse, qui non più del 10% delle specie riuscì a cavarsela. Da questa piccola percentuale di fondatori si ricostituì tutta la biodiversità terrestre, in un faticoso e lento processo di recupero che richiese milioni di anni, forse addirittura 100 milioni di anni secondo Benton. L’albero della vita subì una potatura radicale, che per poco non lo fece seccare del tutto. Il 90% dei rami fu reciso, in tutti gli ambienti e in tutti i domini del vivente: animali, piante, microrganismi, per mare e per terra. I trilobiti, già declinanti da lungo tempo nel Permiano, sparirono.

La scena postapocalittica descritta dai paleontologi è scioccante: una Terra fredda e inospitale, un mondo avvelenato e desolato, con i pochi sopravvissuti che vagano in paesaggi strani e vuoti. Sopravvissero poche specie di diapsidi, i rettili antenati di coccodrilli, lucertole, serpenti e uccelli. L’era dei sinapsidi – i rettili (antenati dei mammiferi odierni) che prima si erano diversificati per dimensioni, forme e comportamenti con grande successo – fu spazzata via. In uno dei loro gruppi dominanti, i dicynodonti – grossi erbivori diffusi ovunque – sopravvisse soltanto una specie, di medie dimensioni, il Lystrosaurus. Non aveva superpoteri, non era il più veloce né il più intelligente: era un rettile mammaliano ordinario, senza adattamenti speciali. Non aveva certo il muso del prescelto. Forse fu soltanto fortunato, oppure la sua buona stella fu proprio quella di essere un normale generalista. Ai cataclismi dell’evoluzione non sopravvive chi si era preparato: sopravvive chi ha meno pretese.

Da questo singolo antidiluviano e da non più di altre due o tre specie di tetrapodi ripartì il motore dell’evoluzione, diversificando nuovamente i rettili del Triassico. Fu un collo di bottiglia estremo. Ma nel rinascimento rettiliano i rapporti di forza erano cambiati: i diapsidi, poco rappresentati nel Permiano, furono più lesti nel recupero e divennero i carnivori dominanti. Nel tardo Triassico daranno origine ai dinosauri. L’estinzione di massa ha quindi deviato irreversibilmente il corso della storia naturale, ribaltando i destini. I mammiferi, piccoli discendenti dei precedenti dominatori sinapsidi (e del fortunato Lystrosaurus!), erano già presenti, ma avranno la loro grande occasione soltanto dopo 165 milioni di anni di prevalenza dei dinosauri in ogni nicchia ecologica [ibidem]. Vi fu quindi una sorta di danza tra sinapsidi (nel Permiano), diapsidi (dal Triassico al Cretaceo), e di nuovo sinapsidi dal Terziario in avanti, sotto forma dei loro discendenti mammiferi. Un balletto delle sorti cadenzato da due estinzioni di massa. Qualcosa di assai profondo ci lega insomma ai ratti del Mesozoico, che videro arrivare il bolide e lo scansarono, e al povero Lystrosauro, che non aveva niente di speciale e al quale nessuno avrebbe dato un soldo.

La tempesta perfetta
Cuvier aveva torto a pensare che tutte le «rivoluzioni» del passato fossero dovute ad avanzamenti e ritirate dei mari, ma colse nel segno quando notò che le sequenze stratigrafiche sono spesso interrotte da episodi drammatici che comportano un turnover profondo di specie. Il ruolo del killer imprevisto viene oggi di volta in volta attribuito dagli studiosi a una molteplicità di cause, esogene ed endogene. Il colpevole deve essere così potente da raggiungere con i suoi tentacoli ogni tipo di ambiente terrestre, dalle cime delle montagne alle profondità oceaniche. Deve saper diffondere i suoi veleni ovunque, alterare le percentuali di ossigeno in atmosfera e in mare, perturbare il clima planetario. È poco plausibile che tutto ciò avvenga senza cause esterne, ma per un collasso dell’intero sistema ecologico dovuto a dinamiche interne, come in una transizione di fase «rivoluzionaria» in un sistema non lineare e autorganizzato [come suggerito da Bak 1996]. Al di fuori delle simulazioni, non vi sono evidenze osservative al riguardo [Raup 1999].

Per almeno due estinzioni di massa esiste un’associazione con grandi impatti, sebbene con prove meno circostanziate per quella di fine Permiano. Questo ha fatto supporre che possa esistere una certa regolarità periodica negli impatti, legata come abbiamo visto nel capitolo secondo a cicli astronomici (a quando il prossimo?). Come scrisse Raup, forse «un grande orologio nel cielo sta controllando i destini biologici sulla Terra» [ibidem, 18]. Il ciclo di 26 milioni di anni resta però un’evidenza ancora molto controversa sul piano statistico. Anche se queste suggestive ipotesi su «stelle della morte» e perturbazioni gravitazionali rimangono molto speculative, è interessante che oggi per la prima volta l’evoluzione della vita sulla Terra venga associata al nostro ambiente cosmico. In agguato c’è però il rischio di una «moda scientifica»: il successo mediatico dello scenario dell’impatto ha fatto passare queste idee catastrofiste dal Purgatorio delle ipotesi azzardate al Paradiso della spiegazione privilegiata, buona per tutti i disastri del passato (e forse del futuro) anche in assenza di evidenze forti [Carlisle 1995; Verschuur 1996; Powell 1998].

Seconda causa principale restano le eruzioni vulcaniche di basalto fuso, in particolare per l’estinzione maggiore, alla fine del Permiano. Le sostanze nocive e la polvere immesse in atmosfera in quantità enormi furono con ogni probabilità in grado di mietere la più alta percentuale di vittime mai registrata. Anidride carbonica e anidride solforosa, con effetti antagonistici di riscaldamento e di raffreddamento, fecero impazzire il clima e il collasso ambientale prolungò i suoi effetti per migliaia di anni. In altri casi la catastrofe è attribuita: alla deriva e alla riaggregazione dei continenti, che estendono e riducono le acque basse oppure uniscono le faune di due regioni; alle fluttuazioni climatiche; alle modificazioni nelle correnti oceaniche; all’innalzamento e abbassamento dei livelli dei mari [Ward 2000]. Secondo Niles Eldredge la causa primaria delle estinzioni di massa potrebbe essere invece l’abbassamento della temperatura planetaria [1995; 2000], che si accompagna alla riduzione degli habitat e dunque al numero di specie sostenibili. Il cambiamento di clima disgrega gli habitat originari, innescando le normali estinzioni di sfondo ed esponendo l’ecosistema alle fluttuazioni improvvise delle estinzioni in massa.

Il tema della vulnerabilità all’estinzione in alcuni periodi particolari della vita della Terra sta guadagnando consensi oggi. Alcuni paleontologi hanno preferito alla ricerca di un’unica causa per tutte le dinamiche di estinzione di massa l’individuazione di una molteplicità di cause specifiche (e talvolta concomitanti): riduzioni di habitat, impatti extraterrestri, raffreddamenti globali [Ward 2000; Archibald et al. 2010]. Secondo i modelli più recenti [Arens e West 2008; Brook, Sodhi e Bradshaw 2008], un’estinzione di massa può avvenire soltanto quando si instaura una sinergia tra eventi inusuali, come in una tempesta perfetta. In particolare, si sommano dinamiche climatiche rare, alterazioni nella composizione dell’atmosfera e stress ecologici di intensità anormale, con effetti di retroazione tra un fattore e l’altro. La pompa dell’estinzione comincia a funzionare in molte linee di discendenza diverse e a quel punto basta un innesco contingente, come un impatto o una serie di eruzioni, per scatenare la crisi globale.

Qualunque siano le cause specifiche di ciascuna tempesta perfetta, le estinzioni di massa sono oggi considerate un nuovo «pattern», cioè uno schema riconoscibile di eventi storici ripetuti, tipico dell’evoluzione su larga scala, compatibile con gli altri fattori evolutivi [Pievani 2006]. Secondo Stephen J. Gould, uno dei paleontologi che per primi negli anni Ottanta del secolo scorso colsero l’importanza di questi studi, la realtà dell’estinzione di massa cambia profondamente la visione della storia della vita, perché non sembra esservi in essa alcun vettore di progresso direzionale e cumulativo. L’evoluzione prorompe talvolta in enormi colpi di singhiozzo. Sconvolgimenti ecologici di varia natura spezzano l’andamento normale dell’evoluzione e cambiano le regole del gioco evolutivo [Gould 1990; 2003]. Commentando con gusto l’«affare Nemesi» e il suo successo mediatico, Gould chiese ai proponenti di cambiare nome alla stella che non c’è. La Nemesi greca, come abbiamo visto, è la personificazione della collera giusta, dell’ira che colpisce in modo mirato. Nemesi lavora per un obiettivo definito, e punisce. È indignazione per ingiustizie commesse, per eccessi biasimevoli, è l’antenata della giustizia distributiva. Le estinzioni di massa, al contrario, non hanno cause prevedibili e deterministiche che si abbattono su coloro che se lo meritano. Non sono dirette verso qualcuno in particolare, e non sono giuste. Non vendicano alcunché. Gli effetti di decimazione sono trasversali e neutrali, generando a loro volta le condizioni per nuove trasformazioni. Il loro nume tutelare dovrebbe piuttosto essere Śiva, notò Gould, il volto serafico della distruzione secondo gli Hindu, «che forma una triade indissolubile con Brahmã, il creatore, e Vişņu, il conservatore» [Gould 1987, 360].

Si tratta, secondo Michael Benton, di una vera e propria riscoperta scientifica del catastrofismo ottocentesco: le estinzioni di massa sono eventi reali, non effetti illusori della mancanza di dati. Ma il «neocatastrofismo» – termine coniato da Otto Schindewolf nel 1963 – si avvale ora delle più avanzate metodologie di ricerca e ha perso ogni connotazione antidarwiniana [Benton 2003]. Questi eventi su larga scala sono infatti da considerare come una forza aggiuntiva rispetto ai fattori darwiniani di cambiamento. L’energia distruttiva della catastrofe si trasforma presto in rigenerazione. La ricolonizzazione delle nicchie lasciate libere da queste apocalissi genera episodi di «radiazione» di nuove forme a partire dai pochi sopravvissuti, come se il respiro lungo dell’evoluzione consistesse nell’avvicendarsi di estinzioni e di diversificazioni. Se la distruzione non è stata eccessiva (come quella di fine Permiano), la situazione comune ai periodi successivi alle grandi decimazioni sembra essere quella di un’inusitata libertà di movimento per i sopravvissuti: alcuni sistemi organici sono liberi di sperimentare in modo inedito nuove soluzioni vitali, nuovi comportamenti, nuove morfologie [Gould 1994c].

Qui la catastrofe allora non è né catarsi, né apocalisse, né nemesi: è rigenerazione. È interruzione reale del flusso normale del cambiamento evolutivo, dovuta al sommarsi di eventi contingenti spesso del tutto indipendenti dagli specifici effetti che avranno sulle specie. Uno stravolgimento improvviso delle regole del gioco modifica gli equilibri ecosistemici, i rapporti di forza e i gradi di fitness delle specie, rivoluzionando le faune attraverso grandi falcidie trasversali, turnover di specie e nuove diversificazioni a partire dai pochi fortunati sopravvissuti. Il potere causale del singolo evento devia la traiettoria della storia su un binario che non è né più né meno probabile di altri che erano egualmente possibili, ma non sono stati esplorati dagli eventi reali. Beninteso, non si consegna la storia al puro caso, ma al convergere contingente di flussi causali indipendenti, i cui nessi sono pienamente ricostruibili a posteriori ma non prevedibili a priori. In questa necessità solo a posteriori si ha dunque, sul piano filosofico, una rottura forte con le escatologie classiche e con i loro contenuti consolanti: la storia naturale non ha una necessità intrinseca né un fine ultimo. Da un certo punto di vista, è una lunga sequenza di ecatombi. Non sembra esservi alcuna redenzione nella storia, ma un’esplorazione incessante di possibilità, a termine.

È in questa chiave di lettura che spicca il ruolo paradossale della specie umana, oggi, rispetto alle estinzioni di massa del passato. Il fatto che le catastrofi appartengano alla continuità del nostro tempo profondo, e che periodicamente si siano manifestate come perturbazioni improvvise del normale assetto evolutivo, non significa sminuirne l’importanza simbolica né ricomprenderle nelle presunte regolarità asettiche della razionalità scientifica. Al contrario, possiamo trarre da questa evidenza scientifica un’importante implicazione filosofica: la fine del mondo è la nostra stessa storia. Siamo i figli della fine del mondo degli altri e il succedersi di imprevedibili cambiamenti catastrofici ha segnato da sempre la presenza della vita sulla Terra. Abbiamo saputo farne tesoro rispetto ai nostri rapporti attuali con la biosfera? Per nulla.

Una specie catastrofica
In definitiva le caratteristiche salienti di queste morie – cinque delle quali svettano su tutte le altre per intensità (le cosiddette «Big Five») – sono il tasso abnorme di estinzione di famiglie e di specie in unità di tempo, la relativa velocità (da pochi millenni a 10 milioni di anni per l’intero processo [Lawton e May 1995]) e il regime non strettamente selettivo. Oltre a quelle di fine Permiano e di fine Cretaceo, ve ne sono state altre tre alla fine dell’Ordoviciano, del Devoniano e del Triassico. Si tratta pertanto di una classe separata di fenomeni evolutivi su larga scala. Riguardano tutti, colpiscono a casaccio, non ci si può nascondere, non esistono rifugi. È natura infuriata, allo stato puro. Come amava ricordare Stephen J. Gould commentando i lavori di Raup, noi non saremmo qui se l’estinzione fosse un gioco totalmente leale [Gould 1994a]. I biologi si sono allora cimentati in un esercizio dai risultati sorprendenti: utilizzare queste nuove conoscenze sul passato per calcolare ritmi e conseguenze delle estinzioni indotte dalle attività umane negli ultimi secoli e millenni [Ward 1994].

L’ultimo virgulto del genere Homo ha infatti esibito attitudini intrusive assai precoci: quando i primi cacciatori paleolitici fecero il loro ingresso a ondate successive nei «nuovi mondi» (le Americhe, l’Australia, le isole del Pacifico) è ormai appurato – anche se permangono dubbi sul possibile ruolo concomitante del clima – che portarono all’estinzione rapida gran parte dei mammiferi di grossa taglia e degli uccelli inetti al volo che vi abitavano [Cavalli Sforza e Pievani 2011]. Curiosamente, lo avevano già notato alcuni anticatastrofisti come Lyell e Owen, convinti che lo sterminio di questi animali in Australia fosse certamente da imputare all’uomo, unico vero produttore «innaturale» di catastrofi. Altro che armonie primordiali fra uomo e natura, quindi: la linea di avanzamento degli Homo sapiens, fino alle ultime fasi della deglaciazione di 12 mila anni fa, coincide con l’estinzione di massa delle megafaune [Martin e Klein 1984; Diamond 1998; Koch e Barnosky 2006].

Lo sterminio è avvenuto sia direttamente, attraverso la caccia, sia indirettamente, attraverso le modificazioni ambientali introdotte dagli umani (in particolare l’uso degli incendi per liberare territorio). Abbiamo divorato fino agli ultimi esemplari decine di specie di mastodonti americani, che non erano preparati a difendersi da un predatore bipede armato di punte e lance: bradipi giganti terricoli, enormi orsi dal muso schiacciato, leoni imponenti, castori giganti, mammut lanosi, tigri dai denti a sciabola, cammelli, tapiri [Weisman 2008]. Lo stesso massacro venne consumato a spese dei grandi marsupiali australiani e degli imponenti uccelli atteri delle isole. Ma fu solo l’inizio di una lunga cronaca di distruzione. Ogni volta che Homo sapiens è arrivato da qualche parte, per qualcun altro è suonata la campana.

Con l’uomo le regole del gioco cambiano, poiché si instaura nella storia naturale un’inedita asimmetria: noi siamo capaci di distruggere in un attimo ciò che la natura ha impiegato millenni per costruire. L’introduzione dell’agricoltura e dell’allevamento, cioè della capacità di far produrre agli ecosistemi un’eccedenza inusitata di beni accumulabili, a partire da almeno cinque regioni d’origine sparse su tutti i continenti accelera i processi di estinzione, insieme all’urbanizzazione e alla conseguente crescita della popolazione umana. Siamo una «specie prepotente» [Cavalli Sforza 2010]: prima le esplorazioni condotte da piccole bande di cacciatori raccoglitori, poi le espansioni di agricoltori e pastori, e dopo ancora le ondate migratorie in epoche storiche; una marcia inarrestabile di colonizzazione degli spazi dovuta alla straordinaria capacità di adattamento, biologico e culturale, che ha condotto una specie sola «a una predominanza sulle altre specie, sulla natura, e infine dell’uomo sull’uomo» [ibidem, 119]. Il resto è storia recente, storia di trasporti e navigazioni, di rivoluzioni tecnologiche e industriali, di paesaggi modellati e di «natura addomesticata» [Kareiva et al. 2007]. Il conto finale è impressionante: dalla rivoluzione agricola al XXI secolo il ritmo delle decimazioni causate da Homo sapiens, erede fortunato di passate catastrofi, è superiore a quello delle peggiori estinzioni di massa del tempo geologico. Richard Leakey e Roger Lewin nel 1995 la battezzarono, appunto, «la Sesta Estinzione», (poco) degna prosecuzione delle Big Five. Questa volta l’asteroide (o se preferite il fiume di basalto fuso) siamo noi.

I conteggi variano fra ottimisti e pessimisti, ma da Harvard Edward O. Wilson, entomologo e fra i massimi esperti di biodiversità, ipotizza che la presenza umana negli ultimi dodici millenni produca in media l’estinzione di una specie ogni venti minuti, senza considerare che probabilmente conosciamo solo una piccola parte della diversità terrestre (soprattutto nelle vastità tassonomiche degli insetti e dei microrganismi) e che dunque stiamo eliminando a casaccio una moltitudine di specie che nemmeno abbiamo classificato [Wilson 2004]. Secondo molti suoi colleghi, come Niles Eldredge e Norman Myers, questo non è catastrofismo ma realismo: un succedersi di «estinzioni centinelane», dal nome della catena montuosa occidentale delle Ande ecuadoriane (Centinela) dove si registrò in soli otto anni l’estinzione di migliaia di specie endemiche (un intero «hot spot» di biodiversità) a causa della conversione della foresta in terreni agricoli [Eldredge 1995; 2000; Myers e Knoll 2001].

Le cause della sesta estinzione di massa sono note. È un micidiale cocktail di cinque fattori concomitanti: la frammentazione degli habitat, principalmente a causa della deforestazione e della trasformazione in pascoli e coltivazioni intensive; la disseminazione di specie invasive, capaci da sole di causare microestinzioni di massa su intere regioni oltre che su isole e arcipelaghi; la crescita della popolazione umana e dei macroagglomerati urbani; l’inquinamento industriale dell’aria, dell’acqua e dei suoli; lo sfruttamento eccessivo delle risorse biologiche attraverso la caccia e la pesca [Wilson 2009]. Non è l’applicazione di ciascuna di queste pessime pratiche, presa singolarmente, la causa dell’estinzione di massa della biodiversità, ma il convergere di tutte e cinque con effetti di retroazione e di moltiplicazione. I lentissimi tempi biologici di recupero degli ecosistemi sono incompatibili con la rapidità tecnologica di queste devastazioni. La specie umana può essere considerata oggi, a tutti gli effetti, come «la più grande forza evolutiva globale» [Palumbi 2001].

Le catastrofiche estinzioni del passato, i loro effetti di impoverimento degli ecosistemi e i faticosi processi di recupero hanno quindi qualcosa da raccontarci, sorprendentemente, anche sul presente e sul futuro di Homo sapiens. Dobbiamo aggiungere una nuova categoria di estinzione di massa: l’estinzione antropica. Con la scomparsa di migliaia di specie ogni anno, gli ecosistemi sono meno efficienti nel garantire i loro servigi gratuiti, come la purificazione dell’acqua e il mantenimento dei suoli. La diversità degli individui e delle specie è infatti il combustibile fondamentale dell’evoluzione, la sua materia prima, e un’assicurazione gratuita contro le avversità. Stiamo perdendo ciò che conta di più [Novacek 2001]. Se questi misfatti ambientali (come la distruzione di una foresta primigenia) avvengono sulla terraferma possiamo se non altro documentarli più facilmente, mentre è più difficile percepire l’eguale devastazione che sta interessando la biodiversità marina [Rasotto 2012].

Nel marzo 2011 la rivista «Nature» così titolava un suo articolo: «La sesta estinzione di massa è già arrivata?». Un team internazionale di studiosi ha aggiornato le stime sulle estinzioni in corso negli ultimi millenni, integrando nuovi dati paleontologici e filogenetici, ed è giunto a conclusioni preoccupanti. Al netto di tutte le difficoltà di computo delle specie, intendendo per «estinzione di massa» la perdita di almeno tre quarti della biodiversità terrestre in un breve intervallo geologico, i tassi di estinzione degli ultimi millenni superano di gran lunga quelli registrati nella documentazione fossile per le cinque maggiori estinzioni degli ultimi 540 milioni di anni [Barnosky et al. 2011]. Un bel record: altro che asteroide, noi sappiamo fare di meglio. Con questo ritmo di estinzione, dovremmo arrivare agli stessi effetti paleontologici di un’estinzione di massa in pochi secoli. La sesta ecatombe non è ancora arrivata, ma ci stiamo incamminando rapidamente sulla giusta strada. La traiettoria è proprio quella.

Non sappiamo quindi se il mondo finirà, ma possiamo ipotizzare che, qualora dovesse succedere, la fine riguarderà un mondo più omogeneo e piatto di quello attuale. Come per le estinzioni di massa, anche la specie umana sta cambiando le regole della selezione. Le specie più vulnerabili sono infatti quelle che hanno habitat più specialistici e ristretti, con maggiori dimensioni corporee, minori capacità di spostamento e plasticità adattativa. Ne deriva che con questo trend di estinzione e di frammentazione degli habitat in futuro saranno grandemente favorite specie più opportuniste, più piccole e capaci di convivere con una presenza umana ubiquitaria. Possiamo prevedere dunque un irresistibile e sproporzionato successo di parassiti, erbe infestanti, ratti, cornacchie, gabbiani, scarafaggi e altri insetti. Dipende dai gusti, ma qualcosa ci fa pensare che rimpiangeremo i suoni, i colori e gli odori di una foresta che si risveglia all’alba. È come se la «biofilia» ipotizzata da Edward O. Wilson [1985], cioè l’attitudine istintiva a sentire una comunanza evolutiva con la natura, volesse ora farci pagare il prezzo del nostro tradimento, del nostro crescente distacco dalla concreta materialità degli ecosistemi.

Si noti che per prudenza in questi calcoli non sono ancora quantificati gli effetti del riscaldamento climatico, i quali tuttavia cominciano a ricevere conferme significative: essi modificano le estensioni degli areali di alcune specie, che si vanno a sovrapporre a quelli di altre, e mettono ancor più in difficoltà gli organismi che non hanno margini di flessibilità per reagire ai cambiamenti di temperatura. Inoltre, come ha evidenziato sui Proceedings della Royal Society un team di ricercatori guidato da naturalisti italiani [Saino et al. 2010], gli sfasamenti nei tempi di migrazione e di riproduzione indotti dall’anticipo della stagione primaverile causano un preoccupante declino demografico dei migratori a lungo raggio, che arrivano nei luoghi di nidificazione con crescente ritardo rispetto a chi proviene da regioni più vicine.

I conti tornano, perché le tre condizioni sinergiche previste dai modelli più avanzati sulle estinzioni di massa – dinamiche climatiche inusuali, composizione dell’atmosfera alterata, stress ecologico multiplo e di intensità abnorme – ci sono proprio tutte. È la tempesta perfetta, questa volta creata da noi. Forse non servirà nemmeno un asteroide o un’eruzione come colpo di grazia, perché secondo «Science» senza interventi robusti e concertati di mitigazione dei danni gli scenari di crollo della biodiversità globale per il XXI secolo sono già tetri [Pereira et al. 2010]. Ma l’ironia della storia è che gli sforzi potrebbero non bastare comunque. Secondo una stima apparsa sempre su «Science» nel 2010 [Butchart et al. 2010] circa gli esiti degli interventi raccomandati nel 2002 dalla Convenzione delle Nazioni Unite sulla Diversità Biologica, le iniziative locali di conservazione si stanno moltiplicando e hanno successo, eppure ciò non è sufficiente per invertire le tendenze generali di distruzione degli habitat e di estinzione. Il confronto è disarmante: gli indicatori generali riguardanti le iniziative di salvaguardia ambientale nel mondo sono moderatamente positivi (ci stiamo impegnando); quelli riguardanti la salute degli ecosistemi restano tutti fortemente negativi (quindi non se ne vedono gli effetti). Come se la presenza umana, per dimensioni e impatto, fosse diventata di per sé insostenibile per la biosfera, e le attuali strategie di riduzione del danno fossero soltanto palliativi.

Come ha scritto Martin J. Rees, «stiamo distruggendo il libro della vita prima di averlo letto» [Bostrom eĆĆirković 2008, ix]. Potrebbe allora essere utile ricordare che la nostra specie non ha certo conquistato l’indipendenza dal mondo naturale e che la fine delle altre specie – e dei servizi ecosistemici vitali dai quali dipende il nostro benessere, soprattutto grazie ai microrganismi – rappresenta un serio pericolo per la nostra sopravvivenza [Eldredge e Pievani 2010]. Un’altra evidenza risulta piuttosto sgradevole per il narcisismo antropocentrico: se anche fossimo così miopi da mettere a repentaglio le condizioni della nostra permanenza sul pianeta e segassimo da soli il ramoscello del cespuglio evolutivo delle scimmie antropomorfe sul quale siamo appollaiati, i modelli scientifici ci dicono che la vita andrebbe avanti comunque sotto altre forme. Anzi, dopo la nostra dipartita l’evoluzione si riprenderebbe ciò che le spetta e sboccerebbe una cornucopia di nuove sperimentazioni di vita, proprio come dopo ogni estinzione di massa. La nostra fine, tanto più stupida quanto più ci definiamo sapiens, sarebbe soltanto un altro inizio.
Capitolo quinto
Apocalisse (che fare dopo che il mondo, anche questa volta, non sarà finito)
In quei primi anni le strade erano affollate di profughi imbacuccati dalla testa ai piedi. Protetti da maschere e occhialoni, seduti fra gli stracci sul bordo della strada come aviatori in rovina. Carriole piene di cianfrusaglie. Carri e carretti al seguito. Gli occhi spiritati in mezzo al cranio. Gusci di uomini senza fede che avanzavano barcollanti sul selciato come nomadi in una terra febbricitante. La rivelazione finale della fragilità di ogni cosa. Vecchie e spinose questioni si erano risolte in tenebre e nulla. L’ultimo esemplare di una data cosa si porta con sé la categoria. Spegne la luce e scompare. Guardati intorno. Mai è un sacco di tempo. Ma il bambino la sapeva lunga. E sapeva che mai è l’assenza di qualsiasi tempo.

C. McCarthy, La strada, 2006

Se esiste l’inferno, c’è da sperare che non sia abitato da studiosi di esoterismo ed esperti dell’occulto, perché sono di una noia mortale. I cerchi nel grano sono gli stessi da decenni. Così pure la ricerca del Santo Graal, le avventure dei templari, i rapimenti alieni, le scie chimiche, i sogni premonitori, i mostri nascosti nei laghi e, va da sé, la fine del mondo imminente prevista da ignare civiltà del passato. Da una parte i misteri affascinanti della scienza, dall’altra il mistero ripetitivo dell’umana paranoia. Ma di fine del mondo si può e si deve discutere anche scientificamente e filosoficamente. La velocità di rotazione della Terra sta diminuendo, quindi il nostro pianeta potrebbe subire una lentissima morte geologica, dovuta all’indebolimento della geodinamo interna che genera il campo magnetico terrestre. Giorni lunghissimi si alterneranno a notti interminabili, finché lo scudo magnetico non si spegnerà. Il mondo finirà poi per certo fra cinque miliardi di anni circa, quando il Sole si espanderà fino ad inghiottirci nella sua bolla infuocata. Ma forse già prima la nostra galassia avrà iniziato a scontrarsi con quella di Andromeda, in una meravigliosa danza stellare che durerà milioni di anni e alla quale nessun umano, forse, potrà assistere.

Se a quel punto non avremo trovato un modo per rifugiarci in altri sistemi solari, contaminandoli con la nostra stirpe di bipedi inventori, per l’umanità la storia sarà finita. Ben prima tuttavia potremmo aver trovato già da noi stessi il modo di interrompere l’esperimento naturale terrestre chiamato Homo sapiens. Per propria mano o con il contributo di catastrofi geofisiche, la nostra specie, figlia di ripetute ecatombi del passato, potrebbe non riuscire ad assistere al botto finale. Del resto, come scriveva magnificamente Erwin Schrödinger in Che cos’è la vita?, la fine è inscritta nella ragione più profonda di ogni processo vitale [1995]. La vita è un delicato tentativo, a termine, di resistere alla tendenza universale verso il disordine crescente. In questo flusso incessante, dobbiamo prima o poi restituire all’universo l’ordine strutturale che abbiamo assorbito e prodotto.

Contro l’argomento del giorno del giudizio
Come prevedere, allora, il momento in cui si realizzerà questo evento sicuro? La fine fa parte del futuro remoto o è un «destino prossimo», come ha argomentato il filosofo canadese John Leslie? Un modo possibile, per quanto speculativo, di calcolare la vicinanza della fine del mondo si basa sulla probabilità. Un cosmologo di Cambridge, Brandon Carter, formulò nei primi anni Ottanta del secolo scorso una celebre tesi pessimistica chiamata «argomento del giorno del giudizio». Se immaginiamo che la specie umana sopravviva e si riproduca per altri milioni di anni, dobbiamo dedurne che noi, vivi nel 2012, facciamo parte di una frazione infinitesima di popolazione umana che sta assistendo alle primissime fasi dell’infanzia di Homo sapiens. Questo, da un punto di vista meramente statistico, è altamente improbabile, anche senza considerare tutti i pericoli che stiamo correndo o nei quali potremmo improvvidamente infilarci. Ci troveremmo infatti nel primo millesimo o centomillesimo della popolazione umana di tutti i tempi. Ma noi adesso siamo dentro il 7% di tutta la popolazione umana di tutti i tempi, considerando che siamo sette miliardi su un totale stimato di 100 miliardi di esseri umani vissuti dall’inizio della nostra storia di specie. È quindi assai più probabile che il numero totale di umani di tutti i tempi non sarà di molto superiore a questi 100 miliardi (altrimenti torneremmo nel caso precedente, cioè nell’eventualità altamente improbabile di trovarci ora nel primo millesimo della popolazione umana di tutti i tempi). Di conseguenza, la fine del mondo non è lontana.

Diciamolo in un altro modo. Se la specie umana si estinguerà tra poco, significa che noi adesso siamo in una fetta pari al 7% di tutti gli umani di tutti i tempi (maggiore probabilità). Se la specie umana si estinguerà fra tanto tempo e nasceranno molti miliardi di nuovi individui, significa che noi adesso siamo in una fetta infinitesimale di tutti gli umani di tutti i tempi (minore probabilità). La seconda sarebbe una condizione eccezionale, mentre la prima sarebbe piuttosto ordinaria. Secondo Carter e Leslie, un ragionamento scientifico deve preferire la prima opzione, per non ipotizzare scenari improbabili quando ne esiste uno più probabile [Leslie 1996]. Dunque, gli umani sarebbero in procinto di estinguersi. E se anche non fosse così, aggiungono i due, un pizzico di pessimismo in più non potrà che aiutare nell’essere più vigili a fronte dei rischi che corriamo.

Il Doomsday Argument, con la sua inferenza probabilistica circa l’imminenza della fine, riecheggia sinistramente il paradosso di Fermi che abbiamo incontrato nel capitolo terzo: le civiltà extraterrestri più avanzate non vengono a contattarci perché forse nel loro ultimo quarto d’ora di progresso, prima di riuscire a espandersi nella galassia, implodono su se stesse. Il ragionamento illumina anche un altro aspetto della fine del mondo che secondo alcuni psicologi spiega la sua attrattiva popolare: far parte dell’ultimo spicchio di umanità ci fa sentire importanti. Significa che viviamo in un’epoca speciale, nel bel mezzo di un’accelerazione storica che rimarrà negli annali in quanto ultima folle corsa. Come quando si dice di qualcosa o di qualcuno che è «la fine del mondo». Come quando il nec plus ultra delle colonne d’Ercole diventa il «non plus ultra», estremo limite della perfezione. Dall’atomo al genoma, le potenzialità tecnologiche crescono insieme ai pericoli, e la suspense aumenta. Noi siamo qui, proprio adesso, al massimo, nel momento che conta, al centro dell’universo. Non ci sarà di grande aiuto, perché in assenza di posteri non potremo dire a nessuno davanti al camino «noi c’eravamo», ma ciò nonostante una sottile vanità ci consola nel credere di aver partecipato al momento cruciale del destino dell’umanità. L’unico problema è che lo hanno pensato in tanti anche in passato, di essere come surfisti sulla cresta dell’ultima onda, e invece siamo ancora qui.

L’impianto del ragionamento non sembra solidissimo, nonostante la sua fortuna. L’argomento, nella versione più recente di Leslie [2010], si basa su un dato storico contingente, ovvero l’esplosione popolazionale dell’ultimo secolo, e su un’assunzione del tutto speculativa, ovvero che la specie umana sarà in grado di colonizzare la galassia entro i prossimi due secoli. Nel mezzo, il filosofo inserisce le probabilità, altrettanto arbitrarie, dell’estinzione umana per varie cause, alcune delle quali piuttosto fantasiose: guerre batteriologiche; esiti imprevisti di esperimenti alle alte energie; presunti effetti moltiplicativi improvvisi nella biosfera intesa come «sistema complesso»; virus informatici; nanomacchine che si autoriproducono; bolle di universi paralleli in espansione; annichilazione da parte di extraterrestri; e persino l’eccesso di relativismo etico. A tutti questi rischi si aggiungerebbe l’argomento del giorno del giudizio. A conti fatti Leslie resta ottimista: ne discenderebbe infatti, nonostante tutto, una probabilità del 70% di sopravvivere nei prossimi cinque secoli, in tempo per produrre le tecnologie necessarie per il salto verso altri mondi. Questo uso disinvolto del calcolo delle probabilità e della futurologia si addice però a una sceneggiatura cinematografica più che al rigore filosofico.

Alcuni dettagli tecnici dell’argomento presuppongono, inoltre, un forte (e poco plausibile) determinismo a proposito dell’orologio popolazionale umano. Ripetiamo il ragionamento con una metafora. A un osservatore viene chiesto di estrarre da un’urna un biglietto sul quale è scritto un nome di persona. L’osservatore non sa quanti biglietti sono contenuti nell’urna. Pesca il biglietto e scopre di aver estratto proprio il suo nome. Gli viene a questo punto spiegato che ci sono due possibilità: o l’urna contiene 100 mila biglietti (e dunque è stato fortunatissimo) o l’urna contiene 10 biglietti (in tal caso le probabilità di estrarre il proprio nome erano del 10%). Quale delle due ipotesi l’osservatore riterrà più razionale, il colpo di fortuna eccezionale o la presenza di 10 biglietti soltanto? Naturalmente, la seconda. Lo stesso vale per la nostra posizione attuale rispetto all’intero ammontare degli umani.

Detto così, sembra convincente (e in effetti ha resistito a molti controargomenti), ma il Doomsday Argument è strettamente speculativo, non genera alcuna stima di rischio reale e ha ricevuto affilate critiche. Dal fatto che finora sono vissuti relativamente «tanti» esseri umani (si è detto non più di 100 miliardi, a spanne) non si può dedurre la quantità totale di umani che vivranno da qui alla fine dei tempi. In assenza di questo incalcolabile totale non è realistica alcuna stima di vita della nostra specie. Stiamo giocando con numeri che non hanno alcuna determinazione. Se in una lotteria non sapete quanti biglietti sono stati venduti e viene estratto proprio il vostro, sarete indotti a pensare che nell’urna non ce n’erano moltissimi, d’accordo, ma nulla può escludere che siate stati davvero fortunati. Anche l’andamento apparentemente esponenziale delle innovazioni tecnologiche e culturali umane è un’arma a doppio taglio: visto quello che siamo riusciti a escogitare finora, è in effetti improbabile che questa accelerazione possa durare troppo a lungo e forse siamo già a buon punto nella parabola di crescita di una civiltà (quindi la fine non sarebbe lontana); tuttavia, proprio in quella curva logaritmica risiede l’alta imprevedibilità dell’evoluzione culturale umana, e dunque anche le possibili ragioni della sopravvivenza a lungo termine. Un Homo sapiens di Cro-Magnon nell’Europa paleolitica avrebbe potuto giungere alle stesse pessimistiche conclusioni applicando le stime di Carter, ma si sarebbe sbagliato di grosso visto che aveva davanti a sé almeno altri 30 mila anni di evoluzione umana.

Nei calcoli andrebbero poi considerate le differenti tipologie di «fine del mondo», le imperscrutabili scoperte future dell’umanità, il carattere indeterministico della storia, nonché il grado di improbabilità che un evento drammatico possa estinguere in un colpo solo ben sette miliardi di persone. La perdita di centinaia di milioni di esseri umani e persino lo stallo o l’involuzione della nostra civiltà tecnologica, per quanto eventi terribili e traumatici, non sarebbero infatti «la fine del mondo», ma crisi globali dalle quali potremmo lentamente risollevarci.

Secondo Bill McGuire [2003] la locuzione «fine del mondo» è da intendersi in quattro modi: 1) la totale distruzione del pianeta Terra e di tutti i suoi abitanti (sicuramente fra cinque miliardi di anni); 2) la distruzione di cui sopra, ma non quella dell’umanità, rifugiatasi nel frattempo altrove (ipotesi di scuola, del tutto irrealistica al momento, nonostante la scoperta di centinaia di pianeti extrasolari, alcuni dei quali abitabili); 3) il rovescio, cioè la fine completa dell’umanità ma non del pianeta né della sua biodiversità (ipotesi assai meno irrealistica, anche se improbabile; è lo scenario risultante per esempio da un conflitto nucleare generalizzato); 4) la «fine del mondo per come lo conosciamo», cioè una crisi gravissima che annienta un gran numero di persone, frantuma l’economia e ci riporta indietro di secoli, obbligandoci a una lenta e faticosa rinascita dalle macerie (uno scenario compatibile, secondo McGuire, con eventi geofisici globali che già sono avvenuti in passato e che certamente avverranno in futuro). La trattazione fin qui esposta si è occupata soltanto dei casi terzo (di norma) e quarto (come caso limite), cioè di un’accezione tutto sommato relativa di «fine del mondo». Come ha ammesso Leslie [2010], l’argomento del giorno del giudizio resta valido soltanto come «ammonimento probabilistico» a non essere troppo acriticamente fiduciosi circa la lunga durata dell’umanità, ma per questo forse non serviva scomodare il calcolo bayesiano.

La fine è sempre relativa
La catastrofe dunque impregna la nostra storia e la nostra stessa natura. Ne siamo parte e ne siamo figli, ma la sua determinazione ci sfugge. Questo ci urta, perché non fa altro che richiamare la nostra finitudine, la nostra marginalità. Il fascino della catastrofe deriva certamente anche da una sublimazione di questa paura. Noi moriremo, e prima o poi tutto morirà. La fine globale si riverbera su quella individuale e su quella della nostra comunità, e viceversa. Un tempo «la fine del mondo era altrettanto ineluttabile e certa come la propria stessa fine» [Flori 2010, 9]. Giocare oggi con la catastrofe significa invece dissimulare e rinviare ad altri – e a una dimensione troppo generale e troppo indefinita per fare male per davvero – il non senso scandaloso e inaccettabile della nostra fine individuale. Come ha scritto giustamente Ian McEwan, l’accelerazione di cambiamenti sempre più imprevedibili sortisce l’effetto psicologico di comprimere il futuro, tanto che non riusciamo più a immaginare come sarà il mondo tra pochi decenni. Questo meccanismo ansiogeno crea una relazione angosciosa con il tempo e fioriscono i millenarismi più irrazionali [McEwan 2008]. Così nell’immaginario popolare, consolante e salvifico, imponiamo a noi stessi che vi sia sempre un «dopo la catastrofe», un nuovo inizio umano dopo la prossima fine del mondo, per illuderci che almeno quella dissoluzione non sarà irreversibile e irrimediabile ma anzi porterà alla luce una nuova stirpe di esseri umani.

Per Immanuel Kant, che scrisse a proposito di questo in un piccolo saggio della vecchiaia, La fine di tutte le cose [2006], la congiunzione dei due pensieri della fine (individuale e collettiva) porterebbe la ragione umana sull’orlo di un abisso senza ritorno, a causa di un paradosso insanabile legato al tempo: il pensiero ha intrinsecamente bisogno del tempo per svolgersi e la fine stessa del tempo lo ammutolirebbe. La fine assoluta è uno scacco per il linguaggio e per ogni concettualizzazione e non è confrontabile con quella di un essere individuale e fenomenico che muore e trapassa in un ordine ultramondano del tempo, che è pur sempre tempo sotto altra forma, tempo che si protrae all’infinito. La fine assoluta è dunque impossibile da pensare per noi, in quanto al di fuori delle nostre capacità di concettualizzazione. Dinanzi a quell’istante abissale in cui il finire stesso smetterà di finire e un’estrema unità di tempo naufragherà nella fine del tempo, ogni logica incontra aporie insanabili, giacché, per esempio, «l’inizio» di un mondo atemporale è una contraddizione. La fine, quella vera, è impensabile. Ponendosi essa al di fuori del tempo, possiamo solo descriverla per metafore e allusioni.

Non resterebbe dunque che affidarsi ad altre possibilità ed energie della mente: all’immaginazione in Kant, verso una dimensione ulteriore che percepisca il carattere sublime della fine e torni a dare un senso e uno scopo al mondo; all’incantesimo del mito in Platone, soglia narrativa dove ogni concetto fallisce; o forse a una sensibilità teologica per le cose ultime [Tagliapietra 2010]. Ebbene, non è di questa fine assoluta, o noumenica, che abbiamo parlato fin qui. Essa anzi appare come una concezione fortemente antropocentrica, laddove associa la fine del pensiero e del linguaggio (contingenti evenienze dell’evoluzione terrestre) alla fine di tutto quanto, la fine assoluta e impensabile di Kant. Ma la fine dell’umanità, per quanto importante, non sarà la fine del mondo. Persino quando pensiamo alla nostra fine come specie, rischiamo di darci troppa importanza.

La fine di tutte le cose prese singolarmente, nel loro tragitto storico (compreso il nostro intero pianeta), è ben diversa dalla fine di tutte le cose prese insieme. Una fine «assoluta» di questo tipo è oggi associabile soltanto a un ipotetico termine dell’intero universo, ammesso che finirà e che esso corrisponda a tutto ciò che esiste, senza alcunché al di fuori di esso. Evidentemente, si tratta di una questione che trascende al momento sia le nostre facoltà razionali sia quelle immaginative, e non è certo l’oggetto quotidiano delle nostre ossessioni riguardo alla fine del mondo.

Ogni altra accezione di fine del mondo è altresì pensabile, in quanto relativa, purché si rinunci all’idea che la nostra dipartita porti con sé la scomparsa di ogni «senso» e di ogni conoscenza. Se il mondo non ha alcuno scopo morale, se la fine non è un fine, allora la fine del mondo è una possibilità concepibile senza alcun bisogno di ricorrere a dimensioni «ulteriori» dell’esperienza umana. Anzi, se ogni fine è relativa significa che ogni fine sarà un nuovo inizio per altri: una buona ragione per sperare, dunque, che ai margini della catastrofe emerga il nuovo, come è sempre successo finora.

Il raggiungimento di questa consapevolezza non è affatto una sconfitta, non richiede risorse supplementari e non ci lascia necessariamente nelle secche del non senso. Non corrisponde affatto alla baldanzosa adesione a ingenue concezioni del progresso umano, perché accetta sia la radicale contingenza della presenza umana su questo pianeta sia la straordinaria capacità di innovazione e di esplorazione di possibilità esibita finora dall’evoluzione. È dunque, al contrario, una forma di saggezza emancipatoria che rinunzia alla consolazione di oscure icone metafisiche della fine e fonda un’etica della finitudine che rielabora le più recenti scoperte scientifiche riguardanti la nostra storia naturale. Non è disperazione, ma contemplazione del forse insensato spettacolo al quale prendiamo parte, pur sempre orgogliosi di averne preso coscienza in autonomia.

L’apocalisse come rivelazione non risponde al problema del male, non lo spiega né lo giustifica: rinvia al suo misterioso inizio e salda i conti. È il «corso morale del mondo» a produrre la nostra idea della fine di tutte le cose, scriveva Kant, non la percezione della finitudine fisica di tutto ciò che esiste. È l’evidente insensatezza del male, esperita nel corso del tempo, a spingerci a cercare nell’apocalisse un supremo giudizio morale che separi gli empi dai giusti, che veda la tanto attesa lotta finale tra il secondo avvento del messia e l’anticristo come agente terreno del maligno. Eppure, l’apocalisse stessa è popolata di bestie orrende e di mostri, di sofferenze e crudeltà, di vendette e supplizi, un’apoteosi di violenza e di strazio. Ripara il male con il male, e rinvia così senza soluzioni all’inizio, al perché è cominciato il male. È possibile associare all’apocalisse, scientificamente definita, una «rivelazione» alternativa a questa, che non sia né irrazionalmente misterica né nichilistica?

Un’apocalisse dai mille sensi
Il bisogno umano di riempire questa insensatezza rivelatrice con significati rassicuranti è alla base delle molteplici e contraddittorie interpretazioni dell’apocalisse. Su questa esigenza di nutrire speranze e di vederle radicate nella dialettica tra la freccia del tempo (la storia ha una sua continuità lineare che si riflette sul presente) e il ciclo del tempo (la storia di un’epoca giunge a compimento e inizia un nuovo mondo) si innesta, soprattutto nell’immaginario ebraico-cristiano, una potente credenza che sovrappone alla catastrofe un secondo livello fondamentale di significato. Se il nostro mondo, per come lo conosciamo, finirà e verrà sostituito da un altro, nel momento del trapasso si rivelerà finalmente un’aspettativa di giustizia, un’espiazione collettiva.

Crolla un mondo impregnato di storture irrimediabili, e uno nuovo viene edificato. Le mura della città viziosa crollano. La catastrofe diventa catarsi collettiva, purificazione attraverso la distruzione. L’apocalisse appare come dispiegamento finale di una potenza ultramondana, come disvelamento, il rendere visibile un piano ultraterreno che già dall’inizio impregnava la storia. L’apocalisse è quindi una condizione interna alla storia, non soltanto la sua conclusione. Un olocausto inghiottirà la Terra e i mali saranno così espiati, mentre i giusti sopravvivranno e raggiungeranno una dimensione di felicità e di beatitudine. Il tempo in cui siamo immersi finirà. Malvagi e imbecilli spariranno. Le nostre imperfezioni saranno redente. Un altro tempo, ora purificato, comincerà. È così forte questa speranza umana di giustizia, se non in questo in un altro regno, che la fine del mondo, intesa come conclusione rivelatrice, ci appare sempre come imminente. Una continua imminenza.

Il potere di suggestione dell’apocalisse deriva non dalla cosa in sé, ma dalla sua attesa, dal suo indefinito rimando, dal suo star sempre per accadere, appartenendo essa, si dice, a una scala del tempo incommensurabile rispetto a quella umana. Gli innumerevoli fallimenti nelle previsioni della fine del mondo non hanno affatto affievolito la sua attesa né estinto il movimento d’opinione millenarista che resta sotto traccia nelle nostre società. Se non si avvera questa volta, è solo rimandata. Le razionalizzazioni a posteriori sono ben note: sarà stato sbagliato il calcolo; oppure l’interpretazione di un testo profetico non deve essere letterale bensì metaforica. Ciò che conta qui non è l’evento, ma la sua interminabile annunciazione, l’esigenza psicologica di mettere ordine al tempo.

«Apocalisse» deriva dal verbo greco classico apokalùpto, che significa svelare, scoprire, portare alla luce qualcosa di nascosto, ma anche, nel greco della traduzione biblica, apertura dello sguardo, un educare alla visione per poter alfine contemplare la nuda verità. Tutti noi conosciamo la versione cristiana di questo mito – prima nel Libro di Daniele nel Vecchio Testamento, ripreso poi nell’Apocalisse di Giovanni – ma si tratta di uno schema interpretativo della storia di portata ben più generale e transculturale. Apocalisse è visione, apparizione della verità nello sciogliersi drammatico dei vincoli terreni. Nell’accezione «catastrofica» cogliamo dunque solo una parte del significato originario dell’ultimo libro della Bibbia:

Nella nostra epoca, l’Apocalisse, in assoluto il testo biblico più rappresentato nel corso della storia dell’arte occidentale, dalle multicolori miniature mozarabiche ai portali delle cattedrali gotiche, dall’Apocalypsis cum figuris di Dürer ai vetri colorati di Kandinsky, sembra aver trovato una forma artistica in grado di tradurre senza residui quella caratteristica di pura visionarietà, di continua iperbole visiva… che l’ultimo libro della Scrittura possedeva sin dall’inizio [Tagliapietra 2010, 43].

L’apocalisse non è quindi soltanto una fatalistica profezia di sventura, già scritta fin dall’inizio in un ciclo astrale, bensì l’irruzione di un nuovo ordine del mondo, di un tempo nuovo. È il compimento rivoluzionario di un futuro utopico, non-luogo e fuori dal tempo. Il senso della storia si «mette in chiaro» (apokálupsis). Il suo potenziale effetto etico è evidente: se la fine è sempre vicina, costantemente imminente, e un’epoca felice si approssima, non serve più rispondere colpo su colpo alle ingiustizie, perché il malvagio ha i giorni contati comunque. Inutile accumulare beni mondani, se ciò che sarà valutato, fra poco, è la virtù dei comportamenti.

Ma non serve nemmeno più rispettare gerarchie sociali e tradizioni radicate, perché il «tempo normale» sta per finire e un nuovo ordine verrà instaurato. Occorre predisporsi e prepararsi al nascente ciclo del tempo, attendendo la liberazione finale con spirito ascetico e rigore morale. Si possono anche sopportare con entusiasmo persecuzioni e torture, nella convinzione di avere questa destinazione prossima. Un popolo senza speranza può ribellarsi contro i suoi dominatori, sacrificandosi ora ma prefigurando una riscossa nell’aldilà. Dunque l’apocalisse, come testimonia la secolare ostilità sia di re e principi sia delle gerarchie religiose consolidate verso i movimenti millenaristi radicali, è un’insidia per ogni potere costituito, è una destabilizzante aspettativa di giustizia e di riscatto fatta propria da oppressi e diseredati di ogni epoca. Il successo di movimenti rivoluzionari con ascendenze apocalittiche, persino nell’Inghilterra vittoriana dove viveva Charles Darwin, è sempre stato alto nei momenti di instabilità sociale.

I roghi e le torture di eretici millenaristi punteggiano la storia moderna. Si tratta di una forma di irrazionalismo potenzialmente sovversiva, contro la quale il potere temporale delle istituzioni religiose deve trovare strategie di disinnesco e di razionalizzazione, spesso ancor più contraddittorie e illogiche delle profezie apocalittiche stesse. Si dirà quindi che il testo rivelato descrive periodi temporali remoti e trascendenti rispetto a quelli umani («davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo», dice San Pietro nella seconda lettera – 2 Pietro 3, 8), benché fossero indicate scadenze e date precise; che la nuova era di giurisdizione divina in realtà è già cominciata e che i suoi rappresentanti terreni sono, guarda caso, i titolari della chiesa vigente; che i millenni biblici sono da intendersi allegoricamente o come stati spirituali della propria esperienza di comunione mistica con la divinità. Insomma, meglio non farlo finire troppo presto, il mondo, se si vogliono preservare i propri privilegi mondani.

Anche se l’aspettativa millenarista viene puntualmente delusa, e la vita di sempre continua, non è detto che vada persa pure l’ambizione di rinnovamento e di riforma delle consuetudini sociali che in essa si era nutrita. Anzi, le energie insoddisfatte potrebbero proprio rivolgersi contro le consuetudini del presente, spezzando antichi vincoli e liberando le coscienze. In attesa della prossima scadenza tecno-apocalittica, si può tentare di modificare se non altro l’ordine costituito. All’opposto, può anche avvenire in altri casi, come notò Max Weber, che il millenarismo sia funzionale alla resistenza al cambiamento: i gruppi sociali rimasti esclusi dal rinnovamento o timorosi di perdere antichi privilegi gerarchici ricorrono all’immaginario apocalittico per reagire contro le nuove aperture, bollandole come segni premonitori dell’imminente catastrofe. E hanno ragione, perché la fine del loro mondo sociale è vicina. Tra reazionari e luddisti, ciascuno si cuce addosso la propria «apocalisse», la propria rivelazione figlia dei tempi e delle gerarchie sociali.

Lo scenario apocalittico può anche diventare l’innesco per una rivelazione tutta personale, per un romanzo di formazione, come in Fino alla fine del mondo (1991) di Wim Wenders, dove nell’imminenza di una possibile catastrofe (la caduta di un satellite nucleare, simbolicamente allo scadere del millennio, come una cometa in versione tecnologica) i tre protagonisti danzano da un luogo all’altro in un viaggio metamorfico che li porterà ai confini estremi del mondo, nel deserto australiano, a ritrovare se stessi attraverso un racconto condiviso. L’apocalisse qui recupera la sua accezione costruttiva e positiva. Ha creato un mondo nuovo, nelle loro relazioni. È stata rivelativa, nel senso che ha fatto vedere loro ciò che prima non vedevano. Nel vuoto ascetico del deserto australiano, percorso dalle vie dei canti degli aborigeni, i protagonisti abbandonano le false e soffocanti immagini del mondo per imparare a vedere davvero. Riescono finalmente a prendersi cura dell’altro, a chinarsi e offrirsi. Sono stati capaci di arrivare fino alla fine del mondo, a quell’attimo sospeso in cui tutti i congegni elettromagnetici della Terra si fermano (a causa dell’esplosione del satellite in orbita), e di salvarsi.

L’apocalisse può dunque significare un cambiamento nello sguardo, un modo nuovo di vedere le cose, già peraltro nel testo evangelico originario, l’Apocalisse di Giovanni, libro di visioni profetiche. L’apocalisse non distrugge ma illumina di luce nuova, fa emergere ciò che non era visto: maledicendo il male, essa «svela» un nocciolo di «verità», il cui senso etimologico in greco classico è affine, in quanto aletheia, di-svelamento [Tagliapietra 2010]. Come tale la fine del mondo acquisisce intrinsecamente una finalità morale, trasognata nelle immagini potenti di un veggente. Può presentarsi nell’accezione laica di Wenders: un’apocalisse senza giudizio, la cui verità risiede nelle capacità di cura dei protagonisti, rinati all’ascolto dell’altro e alla capacità di vedere davvero. O può invece aprirsi a una dimensione ulteriore, a un aldilà della storia, a un’epifania trascendente. In un caso e nell’altro, l’incontro estatico e stupefacente con la fine del mondo restituisce, a chi è capace di accoglierlo, un effetto di redenzione e di purificazione. Ma non è dipeso dal singolo: un angelo della storia, da fuori, ha portato il messaggio, ha aperto gli occhi.

Una rivelazione alternativa: il mondo senza di noi
Come possiamo liberare la fine del mondo da queste interpretazioni edificanti, restituendola alla sua nuda possibilità, alla sua evidenza storica passata e presente? Riconoscendo, innanzitutto, che la fine del mondo degli altri è stata la condizione indispensabile per la nostra esistenza come specie umana. E aggiungendo, in secondo luogo, che ora siamo noi a infliggere la fine del mondo al resto del vivente (ma non a tutto), mettendo così a repentaglio anche la nostra sopravvivenza. Se questa volta il meteorite distruttivo siamo noi, l’impegno ecologico per scongiurare la catastrofe diventa in primo luogo una decisione umana autonoma per salvaguardare la nostra e l’altrui sopravvivenza, nella consapevolezza però che nemmeno questa sarà una decisione ultimativa, poiché la vita e la storia naturale proseguiranno comunque in altre forme.

Il tono apocalittico di chi denuncia l’imminente collasso ecologico del pianeta rischia anch’esso, paradossalmente, di sopravvalutare la variabile umana. Sembra quasi che la storia della Terra, non più soggetta ai dettami degli astri, sia oggi passata interamente nelle mani della specie umana e dipenda dalla maggiore o minore saggezza dei suoi comportamenti. Ciò è vero, naturalmente, ma solo nei limiti in cui concepiamo le dinamiche di autoregolazione della biosfera in riferimento alla nostra sopravvivenza e al nostro benessere. L’ironia della faccenda sta nel fatto che sì l’asteroide della sesta estinzione siamo noi, ma non è affatto scontato che si possa porvi rimedio, nemmeno ingaggiando le nostre più eccellenti risorse di consapevolezza e di impegno militante. Le estinzioni, come molti altri tipi di danni da noi inferti agli ecosistemi, sono irreversibili e il pianeta è un sistema che cambia incessantemente: non sta ad aspettarci. È dunque possibile che le nostre insistenti attività di perturbamento dei suoi cicli di autoregolazione – dalla composizione dell’atmosfera alle correnti oceaniche – conducano prima o poi a nuovi cambiamenti, i quali saranno «normali» dal punto di vista del pianeta e «catastrofici» per noi.

Quest’ultima considerazione, che discende serenamente dalle nostre conoscenze evoluzionistiche, viene spesso fraintesa come se fosse un invito al cinismo o alla sottovalutazione del pericolo, ma è esattamente il contrario, sia sul piano filosofico sia sul piano etico. Se l’immissione di anidride carbonica in atmosfera non ha precedenti negli ultimi 400 mila anni, poco importa che questo lasso di tempo sia un battito di ciglia del tempo geologico: ciò che conta è che questo andamento, le cui cause antropiche sono assodate, è incompatibile con la salvaguardia del mondo umano per come lo conosciamo oggi. Dunque vi sono le condizioni per una fine del mondo umano per come lo conosciamo. Se non vogliamo esporre i nostri figli e le generazioni future a rischi inenarrabili e a un peggioramento serio delle condizioni di sopravvivenza, è nostro dovere fare qualcosa, e subito. Si tratta di un dovere antropologico alla lungimiranza.

Ciò che maggiormente ci affligge, infatti, è la miopia, altra eredità pericolosa di una specie abituata a valutare la sopravvivenza nel qui e ora del giorno per giorno. Se la fine del mondo per come lo conosciamo è imprevedibile, e se ciò che verrà dopo minaccia di non essere altrettanto gradevole, dovremmo in teoria fare di tutto per muoverci per tempo, anticipando potenziali disastri. Ma non lo facciamo quasi mai. Non è questa la nostra procedura d’azione abituale. Interveniamo tardi, solo quando il pericolo è prossimo e palese, solo quando ormai troppe inutili sofferenze si sono consumate. Preferiamo abbindolarci con le predizioni vaghe e di lungo periodo, e poi disperarci per le perfidie del «caso» o del «destino» (a seconda), mentre avremmo a disposizione strumenti che potrebbero scongiurare l’avverarsi di catastrofi reali e imminenti, siano esse carestie o dissesti idrogeologici. Preferiamo i vaticini alla prevenzione, perché i primi non costano niente (giusto un pizzico di fatalismo) mentre la seconda richiede sacrifici, lungimiranza e impegno. In una parola, richiede responsabilità.

Proprio perché la Terra ne ha viste di tutti i colori, dunque, capiamo che l’intera dinamica non è sotto il nostro controllo, che in qualità di distruttori patentati non possiamo ora candidarci a salvatori di alcunché, che sarebbe folle aspettare fino a quando il pericolo sarà evidente a tutti (persino ai negazionisti), che l’impegno per la difesa dell’ambiente e del clima che hanno garantito la nostra evoluzione è un imperativo etico centrale. In sostanza, ciò che impariamo dalla storia antica della Terra e dall’evoluzione umana è che l’ambientalismo del futuro sarà la forma più alta di umanesimo: un umanesimo scientifico, perché dovrà in massimo grado fare tesoro della ricerca scientifica e tecnologica, quella stessa ricerca che in modo ambivalente abbiamo usato anche per la distruzione. Dovremo resistere nonostante i presagi funesti, e tuttavia ascoltarli, non invece rimuoverli fino a quando sarà troppo tardi. Il fatto che sia davvero l’intelligenza a renderci unici è ancora da dimostrare, fino a prova contraria, e dipende da quanto a lungo saremo capaci di gestire con saggezza la nostra presenza sul pianeta.

Un «esperimento creativo» può spiegare il concetto meglio di qualsiasi teoria. «Immaginiamo che il peggio sia accaduto», propone il giornalista scientifico Alan Weisman nell’avvincente Il mondo senza di noi. Immaginiamo «un mondo in cui tutti noi, e solo noi, scompariamo all’improvviso» [2008, 6], ma non a causa di una catastrofe, non in uno scenario postapocalittico di sopravvissuti come ne La strada di Cormac McCarthy. Qui succede domani, silenziosamente, per ragioni imprecisate, proprio come riferisce il folletto allo gnomo nel dialogo leopardiano del nostro prologo. Ebbene, quanto ci metterebbe la natura a riprendersi ciò che è suo? E il clima a tornare ai suoi cicli preindustriali? Che cosa resterebbe delle nostre gloriose architetture, di grattacieli e cattedrali, di sostanze plastiche e rifiuti tossici?

La rivelazione è illuminante e ha in prima battuta il sapore di un enorme sollievo, come di una soffocante pressione che si allenta. Secondo i modelli più recenti, la Terra dopo la scomparsa della specie umana vivrebbe una rapida e rigogliosa rinascita di forme di vita, di nuovi adattamenti, di lussureggianti diversificazioni. In pochi mesi e anni il volto del pianeta rifiorirebbe. Nuove meravigliose sperimentazioni evolutive si diffonderebbero ovunque, con esiti imprevedibili e inimmaginabili, senza purtroppo alcun naturalista in grado di osservarli:

Ci saranno un bel po’ di sorprese. Diciamocelo: chi avrebbe potuto immaginarsi l’esistenza delle tartarughe? Chi avrebbe mai pensato che un organismo si rivoltasse come un guanto tirando la cintura scapolare dentro la gabbia toracica in modo da formare un carapace? Se le tartarughe non esistessero, nessun biologo dei vertebrati ne avrebbe potuto postulare l’esistenza: si sarebbe fatto ridere dietro. L’unica vera previsione che si può fare è che la vita andrà avanti. E che sarà interessante [Doug Erwin, cit. in Weisman 2008, 280].

Interessante sì, ma non per noi. Dopo poche settimane le case iniziano a disfarsi, corrose da muffe e liquami, mangiate dai funghi. L’acqua penetra ovunque, nelle cantine, nelle gallerie metropolitane e nei tunnel ferroviari. Le tubature scoppiano, i vetri si rompono, le condutture si ossidano. Il legno marcisce. La ruggine e il sale corrodono palazzi, ponti e infrastrutture. Il ghiaccio e gli sbalzi di temperatura spezzano la resistenza delle giunture, crepano l’asfalto e il cemento. Il manto stradale esplode. Muschi, erbacce e piante infestanti ricoprono le città. Ogni prodotto della civiltà viene eroso velocemente. I detriti macerati e il limo creano un terriccio ospitale per nuovi boschi e foreste che coprono ogni antico insediamento umano. Gli edifici collassano. Le dighe saltano. Incendi devastanti ripuliscono il secco. Venti e uragani spazzano ciò che resta. Gli uccelli nidificano sulle rovine. I carnivori gironzolano per le vie. Giungle e paludi tornano ad avanzare. Le zanzare dominano indisturbate. Le coste vengono inondate. I ghiacciai triturano ogni residua maceria al loro passaggio. Gli animali domestici vengono predati senza pietà, a meno che non riescano a inselvatichirsi prima. Le colture si disperdono e le varietà di piante coltivate tornano a incrociarsi liberamente.

La corrosione dissemina veleni facendoli fuoriuscire dai serbatoi petroliferi, dagli impianti chimici, dalle centrali. Metalli pesanti e tossine industriali entrano in circolo e vengono lentamente smaltiti. Resistono un po’ di più l’alluminio, l’acciaio inossidabile e la ghisa. Ancora più a lungo la ceramica e il bronzo. In alcuni millenni vengono metabolizzati pesticidi, plastiche e isolanti. La biodegradazione riguarda prima o poi ogni materiale sintetico umano. Dopo 100 mila anni l’anidride carbonica in atmosfera torna finalmente a livelli pre-umani. Dopo 250 mila anni decadono anche gli elementi radioattivi sfuggiti dalle viscere degli arsenali nucleari. Ironicamente, le ultime tracce umane a resistere saranno ancora quelle costruite con blocchi di pietra.

Alla fine, di noi resteranno soltanto le onde radio diffuse nel cosmo, con l’eco di immagini e voci riguardanti pochi decenni di storia umana recente. È allarmante pensare che dopo tutto il fragore plurisecolare di eserciti, imperi e conquiste, della specie umana rimangano soltanto i contenuti radiotelevisivi. Gli alieni che attoniti capteranno questi segnali penseranno senz’altro a una relazione causale tra la qualità delle nostre ultime trasmissioni televisive e l’estinzione successiva. Dopo un’era geologica il ricordo umano sarà un fossile sbrecciato e consunto:

Nessuna lapide segnalerà queste tombe, solo le radici dei pioppi americani, dei salici e delle palme si accorgeranno di tanto in tanto della loro presenza. Poi, milioni di anni più tardi, quando le vecchie montagne si saranno consumate e ne saranno sorte di nuove, i giovani torrenti scaveranno nuovi canyon attraverso i sedimenti, rivelando ciò che, per breve tempo, era esistito [ibidem, 23].

Per molti si tratta di uno scenario triste e desolato, ma dipende dall’ottica più o meno antropocentrica che adottiamo. Dal punto di vista del pianeta e dell’evoluzione, è un messaggio di grande speranza. Perdendo una sola specie di mammifero, la vita ricomincerebbe più rigogliosa che mai, coprendo le nostre rovine. Naturalmente il messaggio non è che l’estinzione umana non sarebbe una tragedia. Al contrario, sarebbe una tragedia assurda perché conoscevamo i rischi e forse avremmo potuto evitarla. Ma è pur vero che l’evenienza in sé non avrebbe alcunché di eccezionale: siamo una specie finita, come tutte le altre, e nessuno sentirebbe la nostra mancanza. Sapere come sarà la Terra dopo di noi ci restituisce quindi un impegno etico: «Dal momento che ci stiamo lasciando andare all’immaginazione, perché non sognare che la natura possa prosperare pure senza la nostra dipartita?» [ibidem, 8]. Nell’epilogo de Il bambino che sognava la fine del mondo, Antonio Scurati riprende questo scenario postumo – come un’angosciante ninnananna con il suo ritmo naturale di dissoluzione – per rivendicare, in contrasto, l’infinita tenerezza di essere vissuti: «E non piangere, bambino, non piangere. Non hai nulla da temere dal futuro. La fine è già arrivata. Tanto tempo fa» [2009, 310].

Non siamo indispensabili. La Terra se la caverebbe egregiamente senza di noi. La storia naturale non doveva necessariamente portare alla nostra presenza, la quale si rivela per di più transitoria: un fugace intervallo di consapevolezza, linguisticamente mediata, tra un prima e un poi, sterminatamente lunghi, trascorsi senza parole. In tanti sono stati accusati di empietà per averlo intuito troppo in anticipo. «La natura del mondo non è stata per nulla disposta / dal volere divino per noi: di così grande difetto essa è dotata», scrive Lucrezio nel quinto libro del De Rerum Natura, e poco oltre conclude: «Perciò, quando vedo le membra / grandissime e parti del mondo consumarsi e rinascere, / concludo che anche il cielo e la terra ebbero parimenti / qualche tempo primordiale e subiranno distruzione» (vv. 195-246). Lo sbandamento prodotto da questa riflessione dissonante si accompagna alla denigrazione da parte di tutti gli agguerriti addomesticatori della storia. A costo di qualche immeritata imputazione ci si sente ciò nonostante desiderosi di un mondo nuovo, di una cosmogonia meno rassicurante ma più sincera e liberatoria, come il commovente mugnaio cinquecentesco Menocchio riportato alla luce da Carlo Ginzburg ne Il formaggio e i vermi [1976].

La sensazione straniante di trovarsi dentro un tempo più grande, un «megatempo» vertiginoso che fagocita le piccole illusioni del progresso umano – quell’insensata onnipotenza che distrugge il paesaggio, aggredisce la diversità e cementifica il poco che resta – è stata descritta magistralmente da Andrea Zanzotto. È «il trauma forse più forte che l’uomo abbia dovuto soffrire», nota il poeta, cioè «passare dalla storia alla geologia e tentare di armonizzare il tempo storico con il tempo biologico e, appunto, con quello geologico e cosmologico» [2009, 60]. Quando ci si trova davanti alla scoperta che le poche migliaia di anni delle nostre civiltà mediterranee sono brevi parentesi sperdute nelle ere geologiche, «si scivola in uno smarrimento totale, in un gorgo di contraddizioni» [ibidem, 61]. È difficile trovare un senso in una

evoluzione che procede a scatti e a caso, senza alcun piano prestabilito, senza un fine predisposto da un dio creatore. Ecco perché credo che non si sia mai superato lo shock – più o meno inconscio – del passaggio dal tempo storico tradizionale a quello del tempo che potremmo dire, convenzionalmente, geologico. Soltanto oggi si comincia a scrivere una storia che tiene conto del passato remotissimo, citando le varie estinzioni e collegandole alle diverse fasi dello sviluppo delle specie sul pianeta [ibidem].

Con tragico ottimismo
Come possiamo reagire allo stordimento temporale dato dalla contingenza geologica umana, dalla scoperta di come sarebbe ricco il mondo senza di noi, dall’evidenza che non saremmo qui senza la fine del mondo degli altri? Restituendo al mittente tutte le puerili accuse di amoralità e facendo leva su ciò che abbiamo, sull’unicità umana e sulle sue risorse, sulla libertà etica che ci permette di andare in controtendenza rispetto al gorgo dei milioni di anni. Apprendere dalla catastrofe significa far tesoro della sequenza favorevole di biforcazioni che ci hanno portato fin qui per prolungare il più possibile l’interessante esperimento evolutivo chiamato Homo sapiens, e per lasciare in eredità ai nostri discendenti un pianeta più vivibile per noi e per tutti gli esseri viventi che lo abitano. Nella consapevolezza che ci saranno sempre nuove storie dopo qualsiasi evento che noi decreteremo come «fine della storia».

Si potrebbe così esplorare una pedagogia del cambiamento fondata sulla percezione spiazzante e liberatrice, finalmente, del tempo profondo della nostra storia, della radicale contingenza del nostro destino. Un’etica delle catastrofi basata sull’umiltà antropologica di sentirsi parte di un sistema all’interno del quale non eravamo e non siamo necessari, ma solo esito ultimo di una storia avvolgente che avrebbe potuto benissimo prendere altre direzioni. Questa percezione della complessità evolutiva è un valore, una scommessa di libertà e di responsabilità che dovremmo trasferire come insegnamento dall’evoluzione biologica a quella culturale [Euli 2007]. Siamo preziosi proprio perché esito di una concatenazione di eventi che avrebbero potuto andare diversamente. Ciò accresce, ora, le nostre responsabilità per il futuro, perché non possiamo più appaltarle a un architetto della storia.

Per smentire ogni «argomento del giorno del giudizio», non serve dunque rifugiarsi in escatologie salvifiche, ma cogliere il valore della contingenza storica e del suo contenuto di imprevedibilità intrinseca, in negativo come in positivo. Un buon punto di partenza potrebbe essere quello di accettare la fragilità e la provvisorietà delle nostre conoscenze sul mondo. La cruda realtà è che non abbiamo minimamente gli elementi per sapere se il mondo finirà, e quando. È già difficile fare qualche proiezione sensata su ciò che accadrà nei prossimi decenni, benché la futurologia sia uno dei nostri sport preferiti. Il futuro è indomabile, almeno quanto lo è stato il nostro imprevedibile passato. Ed è indomabile per la semplice ragione che non sappiamo quale, fra le infinite nostre minuscole azioni, sarà capace di influenzarlo oppure no. Gesta altisonanti forse non lasceranno traccia, mentre azioni apparentemente insignificanti potranno fare la differenza. L’esistenza stessa di una predizione sul futuro, le cui suggestioni si stampano nel nostro immaginario, implica una leggera perturbazione del futuro reale, che non sarà più come prima.

Su considerazioni simili si fonda quello che Stephen J. Gould definiva «tragico ottimismo» [Gould 1999, 29]. Tragico, perché diveniamo consapevoli della nostra irredimibile finitudine, individuale e collettiva. Tragico, perché accettiamo di non poter dominare il processo, noi che siamo figli contingenti di alcuni dettagli fortunati dell’evoluzione della Terra. Tragico, perché con le parole di Leopardi nello Zibaldone sappiamo che il nostro giardino è un instancabile brulicare di mascelle. Ma pur sempre ottimismo, perché lo abbiamo capito e abbiamo le conoscenze e le possibilità pratiche per cambiare in meglio, se lo vogliamo, il mondo che abbiamo avuto in consegna. Esito di una storia naturale senza progetto, di cui non sappiamo prevedere la fine, Homo sapiens può gettare dentro il futuro le sue intenzioni e i suoi progetti, senza garanzie di successo ma con qualche ragionevole speranza. Può cioè decidere in libertà di riflettere sulla vita, anziché sulla morte: «Nulla v’è su cui l’uomo libero mediti meno che sulla morte; e la sua saggezza sta appunto nel meditare non sulla morte, ma sulla vita» (Spinoza, Etica, IV, 67).

Vi sono almeno tre ragioni evoluzionistiche di ottimismo. La prima risiede proprio nell’imprevedibilità, che vale anche per le prognosi infauste. Non esistono conferme sperimentali di tendenze macroevolutive «prevedibili» che metterebbero in relazione alcune caratteristiche delle specie con la loro longevità e con la prossimità o probabilità di estinzione. Tali correlazioni riguardano solitamente l’eccesso di specializzazione etologica ed ecologica, il tasso di speciazione nelle famiglie e nei generi, il grado di «complessità» (ammesso che se ne indichi una formulazione misurabile e comparabile), la taglia e il ritmo di sviluppo. Si tratta, tuttavia, di modelli semplificati che oltre ad avere spesso un carattere speculativo (e un soverchiante numero di eccezioni) sembrano talvolta in contraddizione con il carattere ampiamente non progressivo e altresì irregolarmente ramificato delle filogenesi più avanzate che oggi si possono ricostruire. Se gli eventi evolutivi non hanno una direzione, anche tempi e modi dell’estinzione appartengono al dominio della contingenza storica.

La seconda ragione è legata al fatto che siamo una specie giovane e piena di potenzialità, capace finora di stabilire un’anomalia ecologica senza precedenti e un assetto comportamentale inedito, cambiando persino le regole del gioco evolutivo in virtù dei propri riadattamenti ingegnosi. Nulla esclude che queste potenzialità delle nostre facoltà cognitive specie-specifiche non potranno essere in grado in futuro di rimediare alla minaccia incombente di un’implosione della convivenza umana.

La terza ragione è data dalla flessibilità adattativa. Per fare un esempio, l’allungamento neotenico del periodo di crescita e di apprendistato è stato molto rischioso per la nostra specie, esposta a lunghi anni di fragilità e di dipendenza dei cuccioli. Eppure questo apparente «disadattamento» deve aver messo sulla bilancia della selezione naturale ben più ponderosi vantaggi, in termini di apprendimento sociale e di trasmissione culturale. Nell’equilibrio instabile di costi e benefici, l’evoluzione trova di volta in volta compromessi onorevoli con il materiale a disposizione e con la storia pregressa. Certo, fino a prova contraria, cioè fino all’esito prima o poi inevitabile dell’estinzione. Ma nel frattempo chissà quali altre invenzioni sapremo estrarre dal cilindro.

Vi è poi una considerazione aggiuntiva a favore di un ottimismo nonostante tutto. Guardare in faccia la contingenza crudele e insensata della nostra sorte, come scriveva Voltaire a proposito del terremoto di Lisbona, è l’atteggiamento in ultima analisi più «compassionevole». Quando contempliamo come intrepidi spettatori i naufragi altrui, scrive nel Poème sur le désastre de Lisbonne, cerchiamo in tutta pace le cause, incolpiamo la natura o Dio, ci rifugiamo nell’idea contraddittoria del migliore dei mondi possibili, oppure ci consoliamo pensando che è tutta responsabilità dell’uomo, con la segreta speranza che forse un giorno un qualche «uomo nuovo» saprà risollevarci e farci tornare a una nostalgica naturalità. È solo quando sentiamo davvero vicini i colpi della sorte nemica, quando guardiamo dentro la voragine del nonsenso che diventiamo più umani e piangiamo insieme, patiamo insieme. Crollate le giustificazioni escatologiche e le finte consolazioni, il nostro essere esposti tutti insieme alla contingenza della fine del mondo ci fa ritrovare le basi del sentimento morale: la simpatia darwiniana, la compassione volterriana, la ginestra leopardiana, il condividere un percorso accidentato e incerto, consapevoli della nostra finitudine come individui e come specie. Da una fragilità, le basi per uno scatto di dignità, per un tragico ottimismo, per un’etica della finitezza.

La fine del mondo, per un apocalittico scettico, non significa quindi consegnarsi al nichilismo, a filosofie ciniche e antiumanistiche, a un relativismo rinunciatario e conformista. Al contrario, significa proporre un’etica solidaristica rivolta al futuro, un’etica laica basata sull’umiltà evoluzionistica e al contempo sulla consapevolezza di essere una novità evolutiva senza precedenti, nel bene e nel male. L’evoluzione è un processo continuativo e il futuro dipende anche dalle nostre scelte adesso. Dato che nessuno verrà a salvarci, ne usciremo con «l’invincibile impulso alla curiosità, vero marchio dell’indipendenza mentale» [McEwan 2008]. Alla luce del vastissimo numero di individui e dell’indubbia adattabilità umana, è piuttosto improbabile che un evento naturale o una sciagura umana siano in grado di estinguere l’intera umanità e di interrompere il nostro esperimento evolutivo una volta per tutte, né il 21 dicembre 2012 né a breve termine. In questo (e nell’imprevedibilità della storia) possiamo trovare un minimo sollievo, ma non certo di tipo morale. La contabilità delle ipotetiche vittime future è macabra e inutile. Come recita il Talmud, salvare una sola vita significa salvare il mondo.

Il fatto che siamo riusciti a non estinguerci finora non è purtroppo un argomento a favore della probabilità della nostra sopravvivenza a venire. Ciò che dobbiamo temere non è un’apocalisse, ma che il futuro lasciato ai nostri discendenti sia peggiore del presente: più monotono, più povero, più conflittuale. Dopo una cavalcata di qualche secolo, e qualche inciampo, la fiducia nel progresso potrebbe indebolirsi. Il fatto stesso che emerga, oggi, il tema della responsabilità verso le generazioni future significa che non siamo più così sicuri che esse avranno uno standard di vita migliore, benché possano fare tesoro delle nostre esperienze e dei nostri errori. Per venirne fuori dovremo rivolgerci sempre più alla scienza, all’immaginazione e alla saggezza morale, linguaggi universali e unificanti della creatività umana. Saranno più i problemi che la tecnologia saprà risolvere o quelli che creerà? Nessuno lo può sapere. Di certo però il futuro, benché non sia ancora, è reale e rivendica una giustizia intergenerazionale, un altruismo verso i nostri discendenti. Dalle culture amerinde e dai loro lunghi cicli temporali potremmo imparare, anziché i calcoli sulla fine del mondo per creduloni occidentali, una saggia inversione: la Terra non è nostra proprietà, ma ci è data in prestito dai nostri figli. Ne discende una consapevolezza non ancora prevista nei nostri codici: togliere futuro a chi verrà è un crimine contro l’umanità.

Ora che il mondo non è finito, nemmeno questa volta, è tempo di congedarsi. All’estremo limite del racconto, la piccola rivelazione dell’umana contingenza non può essere descritta meglio che nelle parole di una poetessa, Wisława Szymborska. Nel guardaroba della natura c’è un mucchio di costumi, scrive. Potevamo essere qualcun altro, uno nato sotto una cattiva stella, buona per altri. La sorte, finora, ci è stata benigna: se ne faccia tesoro. Nella moltitudine di quel che avremmo potuto essere e non siamo, è lecito persino gioire.

Nella moltitudine
Sono quella che sono.

Un caso inconcepibile
come ogni caso.

In fondo avrei potuto avere
altri antenati.

E così avrei preso il volo
da un altro nido,
così da sotto un altro tronco
sarei strisciata fuori in squame.

Nel guardaroba della natura
c’è un mucchio di costumi:
ragno, gabbiano, topo di campagna.

Ognuno va subito a pennello
e docilmente è indossato
finché non si consuma.

Anch’io non ho scelto,
ma non mi lamento.

Potevo essere qualcuno
molto meno a parte.

Qualcuno d’un formicaio, banco, sciame ronzante,
una scheggia di paesaggio sbattuta dal vento.

Qualcuno molto meno fortunato,
allevato per farne una pelliccia,
per il pranzo della festa,
qualcosa che nuota sotto un vetrino.

Un albero conficcato nella terra,
a cui si avvicina un incendio.

Un filo d’erba calpestato
dal corso di incomprensibili eventi.

Uno nato sotto una cattiva stella,
buona per altri.

E se nella gente destassi spavento,
o solo avversione,
o solo pietà?

Se al mondo fossi venuta
nella tribù sbagliata
e avessi tutte le strade precluse?

La sorte, finora,
mi è stata benigna.

Poteva non essermi dato
il ricordo dei momenti lieti.

Poteva essermi tolta
l’inclinazione a confrontare.

Potevo essere me stessa – ma senza stupore,
e ciò vorrebbe dire
qualcuno di totalmente diverso.

Wisława Szymborska, La gioia di scrivere