LE NOTTI DIFFICILI
Dino Buzzati
Parte seconda
- La torre
- La maga
- Il sosia
- Il logorìo
- Incidenti Stradali
- Boomerang
- Il capo
- Il genio perduto
- Il patito sociale
- La nuvola
- Il medico delle feste
- Storielle d'auto
- Barboni
- La torre
- Eremita
- Cenerentola
- Che accadrà il 12 ottobre?
La torre
Ben di raro ormai raccontava io càpito nella mia città dove non abbiamo più casa. Quando ci vado, sono ospite di una lontana cugina zitella che abita, sola, in un antico malinconico palazzo dalle parti di Mure Pallamaio.
Questo palazzo ha un'ala interna che dà sul giardino, dove a memoria d'uomo nessuno ha mai abitato, neppure nelle lontane stagioni felici. Chissà perché viene chiamata la Torre.
Ora è leggenda familiare che in quelle stanze deserte si aggiri nottetempo un fantasma: una certa mitica contessa Diomira morta in epoca remota dopo una vita di peccati.
Bene, l'ultima volta, tre anni fa, forse ero anche un po' bevuto, fatto è che mi sentivo in forma e ho chiesto a Emilia di farmi dormire in una delle camere stregate.
Lei a ridere: «Cosa ti salta in mente»?
«Da ragazzo» dico io, «non mi sarei certo fidato, ma con l'età certe paure Scompaiono. ~ un capriccio, se vuoi, ma accontentami, ti prego.
Solo mi dispiace del disturbo».
«Se è per questo», lei risponde, «nessun disturbo.
Ce ne sono quattro, nella Torre, di camere da letto e fin dai tempi dei miei bisnonni, sono sempre tenute in ordine coi letti fatti e tutto quanto; unico inconveniente sarà un po' di polvere».
Lei no e io sì, lei no e io sì, alla fine Emilia si decide: «Fa come vuoi, che Dio ti benedica». E lei stessa mi accompagna laggiù, al lume di candele, perché nella Torre non è mai stata messa la luce. Era una grande stanza con mobili impero e qualche antico ritratto che non ricordo; sopra il letto, il fatidico baldacchino.
La cugina se ne va e dopo qualche minuto, nel grande silenzio della casa, sento un passo neI corridòio.
Bussano alla porta. Io dico: "avanti".
E' una vecchietta sorridente vestita di bianco come le infermiere; e sopra un vassoio mi porta una caraffa di acqua e un bicchiere.
«Sono venuta a vedere se il signore ha bisogno di qualche cosa». «No, niente, molto gentile», rispondo «La ringrazio dell'acqua.
E lei: «Come mai l'hanno messa a dormire quaggiù con tante stanze più comode che ci sono nel palazzo»?
«Una mia curiosità. Perché in questa Torre dicono che ci abiti un fantasma e mi piacerebbe di incontrarlo».
La vecchietta scuote la testa: «Non ci pensi neppure, signore! Una volta forse, chissà, ma oggi non sono più tempi da fantasmi. Si immagini poi adesso che qui sotto, all'angolo, hanno costruito un garage. No, no, può stare tranquillo, signore, lei si farà un sonno solo».
E così è stato difatti. Mi sono addormentato quasi subito, mi son svegliato che il sole era già alto.
Mentre mi vesto, però, girando gli occhi, mi accorgo che non ci sono più né il vassoio né la bottiglia né il bicchiere.
Mi vesto, scendo, trovo mia cugina:
«Scusa, sai, si può sapere chi, mentre dormivo, è entrato in stanza a prendere la bottiglia e il bicchiere dell'acqua»?
«Che bottiglia»? fa lei. «Che bicchiere»?
«Ma sì, quelli che ieri sera mi ha portato una gentile vecchietta, per tuo ordine immagino, poco dopo che tu eri andata via».
Lei mi fissa: «Guarda che devi essertelo sognato.
Le mie persone di servizio le conosci.
Qui in casa di vecchiette non ne esistono».
La maga
Mia nonna raccontava, era una donna straordinaria; a soli ventisette anni dirigeva un laboratorio di tessitrici di damaschi, alle porte di Vicenza.
Un giorno una delle ragazze arriva da lei tutta in lacrime. «Cosa è successo, Rita, per agitarti così»? E quella le confessa di aspettare un bambino.
«Ah sì? E chi è stato»? domanda mia nonna.«E' stato Duilio, il nipote del farmacista».
«Lascia fare a me» dice mia nonna.
Chiama tutte le ottanta ragazze, gli spiega il fatto e le prega di aiutare la Rita.
Te le immagini ottanta ragazze, scatenate tutte insieme alle spese di un povero disgraziato? Dopo neanche un mese si fanno le nozze. Dopo sette mesi nasce un bel bambino.
Un matrimonio che sembra riuscito, nei primi tempi tutto bene. Poi lui diventa taciturno e cupo, fa scenate, beve, sta fuori fin tardi alla notte. Però lei citta, come se non si accorgesse di niente.
Senonché una sera, tornato dal lavoro, lui domanda: «Cosa hai preparato per cena»? E lei: «Ho buttato appena adesso gli spaghetti». «Niente spaghetti», fa lui. «stasera di spaghetti non ho voglia. Fammi invece del riso in bianco». Lei dice: «Riso in casa non ce n'è più». E lui: «Allora vai fuori a comperarlo».
Lei esce, starà fuori neanche mezz'ora, quando ritorna il marito è scomparso.
Per tutta la notte lei in piedi ad aspettarlo. Ma neppure il giorno dopo Duilio si fa vedere. Lei chiede in giro, nessuno ne sa niente.
Un giorno, due giorni, l'uomo non si fa vivo. Che sia successa una disgrazia? Dai carabinieri Rita fa denuncia.
Passano ancora giorni su giorni e la moglie si consuma nei pianti.
Finalmente i carabinieri la chiamano:
«Abbiamo appurato che tuo marito è partito il giorno cinque per il Brasile, leggi qui il fonogramma da Genova».
Fuggito dunque, partito per sempre. La Rita non riesce a rassegnarsi, senza un soldo senza un lavoro. Per fortuna c'era mia nonna.
Altri sei mesi e mia nonna va a trovarla.«Niente notizie»? «No, ancora niente». Allora mia nonna:
«Sai cosa facciamo? Qui bisogna interpellare la maga Baù. Su, vestiti, che andiamo».
Vanno da questa vecchia maga vicentina e le raccontano tutta la storia. La maga Baù si concentra, poi dice alla Rita:«Va' di là, ti prego, e da' una occhiata allo specchio».
Nella stanza vicina c'è un grande specchio, e dentro nello specchio la Rita cosa vede? Vede suo marito Duilio sotto una pergola che pacifico e contento sta giocando alle bocce.
La Rita grida: «Duilio mio dove sei?
Io son qui disperata e tu giochi alle bocce»? «Sta' tranquilla», dice la maga Baù, «vedrai che entro due mesi tuo marito ritorna».
E dopo due mesi precisi eccolo infatti che rincasa.
E subito chiede alla moglie, prima ancora di abbracciarla: «Dimmi, Rita, che cosa mi hai fatto»?
«Io? Niente ti ho fatto. Perché»?
«Perché io me ne stavo beato laggiù dalle parti di Pernambuco, avevo trovato un buon lavoro e un giorno sotto una bella pergola stavo giocando alle bocce con degli altri italiani, quando all'improvviso ho sentito una cosa qui nel petto, come un rimorso, un tormento, un fuoco. E da quel momento non ho avuto più pace, non ho pensato altro che a tornare. Si può sapere, Rita, che cosa mi hai fatto?
Si può sapere che cosa mi hai combinato»?
«Io»? rispose lei tranquilla. «Cosa potevo farti io, con l'oceano di mezzo, povera moglie abbandonata»?
E lui: «Cosa mi hai fatto, Rita»?
E lei:«Niente, ti giuro, niente».
Il sosia
Mi ricordo, raccontava di un certo Luigi Bertàn, un bravo giovanotto, di buona famiglia, unico figlio, orfano, fidanzato di una certa Màrion, una delle più belle ragazze di Treviso. Ma questa stupenda creatura muore, che non ha ancora diciott'anni, peritonite o che so io. Ora nessuno può immaginare la disperazione del Bertàn. Si chiude in casa, non vuol più vedere nessuno.
I vecchi amici battono alla porta:
«Gino, fatti almeno vedere, noi tutti si capisce il tuo dolore, ma questa è una esagerazione, tu che eri il più allegro di noi, tu che eri l'anima della compagnia». Ma lui niente, non risponde, non apre, insomma un caso pietoso.
Credere o non credere, per due anni interi così. Finché un giorno due dei vècchi amici riescono, supplicando, a farsi aprire. Lo abbracciano, cercano di consolarlo, era diventato uno scheletro, con una barba lunga così.
«Senti, Gino, hai sofferto abbastanza, non puoi assolutamente continuare, hai il dovere di ritornare alla vita».
Fatto è che, per tirarlo su, gli amici gli combinano una festa in suo onore, invitano un sacco di belle ragazze, champagne, musica, allegria.
E bisognava vederlo, quella sera, Gino Bertàn, sbarbato, col vestito delle grandi occasioni, sembrava diventato un altro, brillante e spiritoso come ai bei tempi.
Ma a un certo punto della festa lui si apparta in un angolo con una bionda e parla, parla, parla, come fanno gli innamorati.
«Chi è quella bionda»? uno domanda.
Rispondono:
«Non so, deve essere forestiera, da queste parti non si è mai vista».
Rispondono: «Pare che sia una amica della Sandra Bortolin». Dicono:
«Comunque, lasciamolo in pace, Dio voglia che questa bionda gli faccia passare le paturnie». Dicono:
«Si vede proprio che è il suo tipo.
Mica per niente, ve ne siete accorti?
ha gli stessi occhi della povera Màrion». «E' vero, è vero, accidenti come le assomiglia».
Per tutta la sera quei due insieme, fino a che la festa si scioglie, erano già passate le ore tre.
Gino accompagnerà la bella in macchina a casa. Escono, lei ha un brivido, si è messo infatti a soffiare il vento.
«Si copra con Questo», fa lui. E le mette sulle spalle il suo pullover.
«Dove l'accompagno, signorina»? «Da quella parte» risponde lei facendo segno. «Ma in che via precisamente»?
«Non importa, non importa, le dirò io dove fermarsi, magari i miei sono ancora svegli ad aspettarmi, non vorrei che ci vedessero insieme».
Vanno, vanno, per le strade deserte.
Ormai sono alla periferia.
«Ecco» fa la ragazza a un certo punto. «Adesso siamo arrivati. No, non si disturbi a scendere. Grazie di tutto. E arrivederci».
«Ma il suo indirizzo? Il suo telefono? Ci potremo rivedere, no»?
Lei, già scesa di macchina, sorride:
«Eh, dovrò pur restituirle il Pullover»! Ora fa un cenno d'addio con la mano, è già scomparsa dietro l'angolo.
Un po frastornato lui riparte, avviandosi in direzione di casa, quando gli viene un dubbio strano:
«Ma dove l'ho accompagnata? Che posto era»?
Torna indietro, ritrova il luogo, svolta l'angolo dove lei è scomparsa.
C'è una strada buia, non si vede niente.
Lui accende i fari. Laggiù in fondo una cancellata.
Si avvicina. Il suo pullover pende da una delle aste di ferro. E' il recinto del cimitero dove Màrion è sepolta.
Il logorìo
Che bella giornata sta per cominciare.
Dalle fessure della tapparella si intravede una luce che dovrebbe essere di sole. Io sono un avvocato sono un pittore sono un computista o cosa del genere, insomma sono uno.
Sono uno in buona salute che sta per cominciare la giornata.
Nella fuoruscita dal sonno stirai il braccio destro signorilmente senza dare importanza alle faccende morali che al mattino ci chiamano con urgenza e rabbia, ci chiamano al lavoro ai maledetti posti di lavoro.
Ma non avevo fatto neppure in tempo a stirare il braccio completamente, che sentii suonare.
Il campanello della porta.
Prima una volta di misura giusta. Poi una seconda volta lunga e stizzosa, forse era una raccomandata, un telegramma, o il lettore del contatore dell'ENEL (e allora pensai alla malinconia dei postini, dei fattorini, dei commessi che corrono qua e là per il mondo portando le cose nostre per tutta la vita loro; e noi manco li conosciamo di nome).
Chi sarà? ci chiedemmo perché, quando suona inaspettato il campanello della porta, tale domanda è istintiva. Ma non vedevo, a dire la verità, la convenienza di una visita tanto mattutina.
Ad ogni modo, comunque.
Erano appena le Otto, avevo un raschino qui nella gola come se il giorno precedente avessi fumato un vulcano. Andato ad aprire, vidi uno con a tracolla una grande busta di pelle nera. Lo schifoso campanello aveva suonato in italiano, aveva fatto drin drin, perciò avevo capito benissimo.
Nel medesimo istante la magnifica sicurezza in me andava a farsi benedire. Il mondo circostante che precipita furiosamente come un Niagara mi aveva aggranfato coi suoi feroci rampini.
Via, ancora una volta, trascinato dalla corrente. E intorno, da una parte e dall'altra, mi scivolavano a precipizio le cose del mondo, le cose che succedono..
Che belle cose infatti succedono tutti i giorni, satellite artificiale nano lanciato da Cape Canaveral, pregiudicato minaccia di gettarsi dal cornicione di una casa, pianoforte usato vendo, Mig a volo radente.
Era appunto, alle ore Otto, il signor lettore controllore dei contatori della luce del gas dei tanti cosi domestici.
Sullo zerbino della soglia stava disteso il giornale del mattino, il portiere ve lo aveva gentilmente deposto a un'ora antelucana.
L'uniforme del signor controllore era lisa ma spazzolatissima.
Passò di volata, sfiorandomi appena appena, un progetto sovietico per il Sud Vietnam, ragazzo uccide la cuginetta giocando con la doppietta del nonno, auto minata esplode con due uomini a bordo, bloccati dallo sciopero duecentomila viaggiatori.
Mi ero proposto una giornata buona, festosa se non
altro, con tutte quelle montagne bianche lontane che avevo intraviste per un attimo dalla finestra della cucina, ricoperte di neve e di sole.
Il signor controllore entrò, aprì lo sportellino, guardò, annotò, salutò, giovane signora milanese aggredita da un bruto a Bogliasco, agente di polizia a Genova aggredito a colpi di scure, indossatrice condannata per un'organizzazione squillo. A ben rivederla, signor controllore della luce.
Di fuori l'ululato di una sirena aumentò, perforò le orecchie, dileguò.
Pompieri, autoambulanza o polizia?
Fuoco, sangue o delitto? Subito dopo, una seconda sirena.
La lametta della barba non tagliava più, mi ero dimenticato di comperarne di nuove, notai sul soffitto del bagno una macchia di umidità, mi ricordai il conto scoperto dell'imbianchino.
Quello del piano di sopra attaccò la radio con Milva a pieno registro.
Behawi Bebawi, Claire porta in tribunale due lettere misteriose, padre e tre figli sotto le macerie.
Infilandomi la camicia, saltò il bottone del colletto (bruciato come al solito il filo dai
superextradetersivi), guarnigione sudvietnamita sopraffatta dai guerriglieri.
Al grande incrocio di piazza della Repubblica mi trovai imbottigliato in un ingorgo, a destra e a sinistra uomini immobili al volante, le facce tutte tese dalla stessa parte con una espressione di ebetudine. Un maniaco ferisce moglie e figlio e si uccide, previsto aggravio fiscale sugli zuccheri. Poi tutti si misero a suonare insieme i clacson, senza scopo, con una di quelle rabbie.
Dalla finestra del mio ufficio, dove il sole non arriva, vedevo gli uffici del vitreo palazzo di fronte, dove il sole non arriva. Al primo, secondo, terzo piano, a tutti i piani, uomini e donne seduti che prendevano in mano dei fogli, che scrivevano sui fogli, che applicavano all'orecchia la cornetta del telefono e aprivano e chiudevano la bocca, poi deponevano la cornetta, poi la riprendevano e la applicavano all'orecchia aprendo e chiudendo la bocca e quanto più ripetevano queste manovre tanto più preoccupato diventava il loro naso, uomini e donne, e così le rughe della fronte e il labbro superiore che si appesantiva a vista d'occhio. Mi resi conto che anch'io stavo seduto, prendevo in mano dei fogli, scrivevo qualcosa sui fogli, sollevavo la cornetta del telefono e così via; e mio malgrado diventavano sempre più preoccupati anche il mio naso, fronte, labbro superiore e tutto quanto.
Ma alzandomi in piedi potevo vedere anche la gente che andava su e giù per la strada, sembrava che tutti cercasserO affannosamente qualche cosa. Che cercavano?
Forse che aiutocontabile analista bancario caporeparto
capocentromeccanografico
capufficiopubblicità capofficina capufficiovendite cercano impiego liberi subito? Forse che magazziniere, offset-operatore, perito
elettrotecnico perito industriale perito chimico perito tessile offronsi?
Offronsi première, ragioniera, ragioniere, segretaria, stenodattilo, traduttrice ventenne ventisettenne ventottenne?
Sedetti dinanzi all'importantissimo che mi aveva mandato a chiamare.
Dissi: «Signor direttore, è neces....».
Suonò il telefono, egli rispose al telefono. Come ebbe finito dissi:
«Signor direttore, è necessario che i...
Volevo dire «io »ma restai a metà.
Il telefono aveva suonato, egli rispose. Come ebbe finito gli dissi:
«Signor direttore, è necessario che io le spieghi. Due anni fa...». Suonò terribilmente il telefono, egli rispose. Scontro coi Mig cinesi, militare USA pugnalato alla schiena, 50.000 lire per vedere la Callas, è mancato all'affetto dei suoi cari dopo lunghe sofferenze il dott. rag. prof.
cav. comm. on. cav. di gr. cr. sen.
conte Socrate de Garibaldis, seminterrati luminosissimi zona Corvetto mutuo fondiario vendonsi. Adesso dovevo telefonare io, ma trovai occupato.
Rapina di 70 milioni a un giornale del Minnesota. Un Milan troppo nervoso, hanno tutti le gambe che tremano.
Strangola la moglie che dorme un manovale geloso. Provai a telefonare ma trovai occupato occupato occupato.
Quando uscii per rincasare, la mia macchinetta che mi aspettava all'angolo pareva l'omino che vende i pianeti della fortuna, tanto l'avevano costellata di multe.
Johnson riafferma la decisione di mantenere il. Saragat riafferma l'impegno dello Stato per. Spaccatore con martello assalta un'oreficeria.
Distributori automatici chewingum strisce palline vendonsi nuovi usati.
Messa all'asta l'auto usata dal Papa a Bombay. Disagio fra i socialisti.
FermentO tra i cattolici francesi. Ma per tutta la lunga strada del ritorno sempre un camion gigantesco che mi sbarrava la via.
A casa, Maria mi chiese gentilmente
«Mi vai a prendere una cocacòla»?
Andai. Ma in cucina, dinanzi al frigidaire, trovai una lunga coda in attesa. Dovetti mettermi in fondo benché fossi il padrone. Qualche donna ridacchiava. Ogni volta che l'ispettore generalissimo preposto alla distribuzione, dopo avere a lungo esaminati i documenti, apriva il portello del frigidaire, avidamente sbirciavo se rimanessero abbastanza bottigliette. C'era nella coda un signore grassO e pesante che a un certo punto si sentì male; per rianimarlo, io e un altro lo trascinammo vicino alla finestra affinché respirasse aria fresca; e così perdemmo il nostro posto nella coda. Intanto si mise a piovere.
Impermeabile e ombrello li avevo dimenticati di là, nell'armadio della camera da letto. Avevo freddo.
Sequestrati dal Fisco i gioielli della Lollobrigida, bimbo di sei anni rapìto e ucciso, lasciato dall'amante la uccide poi si pianta il coltello nel cuore, fuori passò la sirena dellla polizia, subito dopo la sirena dei pompieri, subito dopo il dlin dlin di un pretino che andava a portare il supremo viatico. Svelata l'età di Claire Bebaw: lei arrossisce.
Era tardi, suonò il telefono, era uno che aveva sbagliato. Suonò il telefono, era Sergio il vecchio amico che soffriva la depressione della sera e sentiva il bisogno di parlare parlare. Quando egli finì, ero stanco, mi avviai alla camera da letto.
Non potèi procedere: le automobili, in sosta autorizzata e no, formavano, su tre strati, alte muraglie ai lati del corridòio; e ne veniva una vibrazione metallica, anch'esSe tremavano per la paura di essere multate, processate, portate via, distrutte. Sventato un complotto contro Fidel Castro, fucilata la greca che uccise quattro familiari col veleno, si fa decapitare da una sega meccanica, 40enne industriale sposerebbe bella 25~28enne bustaia disposta collaborare corsetteria, allarme in città per una serie di boati.
Incidenti stradali
«Dimmi, professore, di là dal cancelletto cosa c'è»?
«Di là dal cancelletto c'è qualcosa che è' meglio non sapere».
«E dietro l'angolo che c'è»?
«Dietro l'angolo ci sono i dispiaceri.
In fila, uno dopo l'altro,
aspettano, qualcuno passerà. Chi dunque di voi vuole passare»?
«E di là dalla siepe cosa c'è»?
«Di là dalla siepe c'è la strada, sassi e polvere~ Polvere e sassi oppure anche bitume, asfalto, con tutta la segnaletica prescritta dalla legge.
E ai lati i paracarri che dicono al viandante: ecco venti metri son passati. poi altri venti metri, polvere e sassi e asfalto che scottano, al sole, e non è mai finita, la strada vola, scavalca i boschi e le montagne, la vediamo sparire laggiù in fondo.
Dove vi porterà»?
«Sì, sì, professore, raccontaci le storie della lunga strada, chissà quante ne ha viste, chissà quanti hanno camminato sulla polvere, sui sassi e sul bitume, e correvano magari, da tanto avevano premura~ per arrivare.
Dove? Dove? Raccontaci le storie».
«Vi racconterò, ragazzi, quella del sorpasso sfortunato. Dunque c'era una seicento che ha voluto sorpassare un carro fermo mentre dall'altra parte arrivava un autocarro. Che cosa abbia esattamente combinato non si sa. Erano in cinque sulla macchina, pare che fossero tutti dai trenta ai quarant'anni, si parla di una bionda bellissima Coi capelli lunghi giù per le spalle. fatto e che col camion ce l'hanno fatta, ma proprio all'ultimo momento, per la fretta di tornare a destra, col paraurti posteriore toccano una ruota del carro, e l'hanno sfiorata appena appena, proprio una cosa da niente ma voi sapete come sono leggère quelle macchine, forse anche l'asfalto era bagnato, insomma cominciano a sbandare, di qua e di là, in fondo niente di tremendo perché~ passato il camion, non stava arrivando nessun altro e la strada era completamente vuota. Hanno sterzato malamente?
hanno frenato? Chi lo sa. La macchina, senza rovine, stava quasi per fermarsi, quando deve aver preso dentro in una buca, in una sporgenza, vallo a sapere. Si sbanda e si rovescia su un fianco. Ma senza sconquasso~ piano piano, che nessuno poteva farsi un gran male. Però queste cose non si sa mai come finiscono.
Nella caduta qualcosa deve essere successo perché il serbatoio della benzina esplode, l'intera macchina diventa una torcia.
I cinque dentro si mettono a urlare, tentano di aprire lo sportello, ma lo sportello si è inchiodato. Arrivano i contadini del carro, arrivano i camionisti di un camion, arrivanO i camionisti di un altro camion. Era inverno, stava scendendo il buio. Ma chi può avvicinarsi alle fiamme? Un camionista ci si prova due volte, nascondendo la faccia sotto una coperta, ma non riesce che a scottarsi le mani.
E i cinque, là dentro, sono vivi, giovani, intatti e vivi, e impazziscono all'idea di morire così stupidamente, come topi.
«Aiuto, aiuto»! gridano «Venite ad aprirci! presto, presto! tirateci fuori»
I contadini del carro e i camionisti dei camion ci si provano ma è impossibile neppure avvicinarsi.
Si vedono i vestiti dei cinque che diventano neri, si vedono i capelli della bionda bruciare come la paglia.
"Venite ad aprirci, vigliacchi"! urlano.
"Maledetti, maledetti! non lasciateci morire così"! Ho conosciuto uno di quei camionisti, mi ha detto di aver fatto tre guerre, di averne passate di tutti i colori, di non avere però visto mai una cosa così orrenda come quella macchina con dentro cinque giovani che si contorcevano nella morte maledicendo il mondo.
"Porci maledetti schifosi" urlavano, specialmente la donna:
"Morirete di cancro, i vostri bambini creperanno." Poi le parole si sono confuse in un solo ululato che è diventato rantolo e poi basta.
Questione di secondi. Perfino le ossa si sono bruciate, perfino la targa, chi fossero quei cinque non lo si è mai saputo. Però quel camionista dice che alla fine, - ma la macchina era ancora avvolta dalle fiamme, - alla fine lui ha visto arrivare dalla campagna intorno sei~sette tipi neri che sembravano dei ballerini, me li ha descritti proprio così, e portavano delle lunghe code. Be', questi qui sono passati attraverso le fiamme e hanno tirato fuori da quei mostri, perché erano diventati dei veri mostri e lui il camionista mi ha detto che erano le anime. E quei tipi neri erano i diavoli che li portavano giù all'inferno. Ma chissà poi se quest'ultimo particolare è vero.
«Professore, è molto bello sentirti raccontare le storie della grande strada. Su, da bravo, raccontacene un'altra».
«Bene, allora vi racconterò quella della giovinezza.
Era in America una serata di maggio, il maggio scorso anzi. Cinque studenti, tre ragazzi e due ragazze, e al volante un certo Danilo, gli altri non so che nome avessero. E questo Danilo era figlio di ricchi industriali, era un ragazzo bellissimo, a scuola era sempre stato il primo della classe, negli sport vinceva tutte le gare, era una specie di piccolo dio e perciò gli altri ragazzi lo odiavano. Quella sera correvano in macchina solo a scopo di giovinezza, Probabilmente sarebbero andati a fare l'amore. Le due ragazzine erano delle tipe selvagge e decise a tutto, e a un certo punto una delle due dice a quel Danilo: "Senti, Coso, sei capace di andare addosso alle macchine che ci vengono incontro e poi scartare all'ultimo momento? Noi lo chiamiamo il gioco del colombo, anche i colombi per la strada sembra che debbano restare sotto e invece schizzano via all'ultimo momento.
Sei capace, Coso"? "Prima di tutto io non mi chiamo Coso", risponde lui "e poi a quel gioco che dici tu ci so fare benissimo solo che a me non mi va perché tu sai quello che fai tu ma non sai quello che passa per il cervello di quell'altro che ti viene incontro e magari all'ultimo momento anche lui scarta dalla stessa parte e allora succede una pizza". "Se uno è capace ma poi non si fida è come se non fosse capace" fa uno dei ragazzi.
"Certo bisogna avere un po' di fegato"
dice l'altro. Insomma cominciano a sfrucugliarlo, anzi continuano per chilometri e chilometri finché lui perde la pazienza e dice: "Bene, statemi bene a sentire, ragazzini. Li vedete quei due fari che vengono avanti, dal colore azzurro? deve essere una Continental dell'ultimo tipo, un affare bello stagno? Io adesso ci vado incontro e quando sono proprio sotto, statemi bene a sentire, io non scarto un bel niente, io ci vado dentro in pieno a tutta velocità così vediamo che cosa succede. Rendo l'idea? "Tu Coso sei il solito sbruffòne" risponde una delle ragazzine yè yè. "tu mi fai semplicemente ridere, mai e poi mai sarai capace di una cosa simile". "Ah no"? Intanto, a quella velocità altissima, i due fari azzurri si erano avvicinati, non mancavano più che due-trecento metri. "Ah no"? ripete il bel Danilo. Solo all'ultimo momento, all'ultimissimo, i quattro compagni capiscono l'orrendo scherzo e si mettono a urlare. Nella macchina dei fari azzurri ci sono stati tre morti; nella macchina degli studenti se ne è salvato soltanto uno: quello che poi ha raccontato».
«Ah, è magnifico, professore, ascoltare da te queste bellissime storie della grande strada. Su, da bravo, è ancora presto, perché non ce ne racconti un'altra»?
«Bene, allora vi racconterò quella dell'amore materno. Dunque c'era, anzi c'è ancora adesso, una vecchia mamma che da più di vent'anni aspetta il figlio che torni dalla Russia. Il figlio era scomparso durante la grande ritirata, qualcuno dice che l'avevano fatto prigionierO~ però niente di sicuro. Ma voi sapete che cos'è la speranza di una mamma. Un bull-dozer, di quelli che sfondano le montagne, è una formica al paragone. Bene, dopo vent'anni quella vecchia signora aspetta ancora e siccome lei abita alla periferia della città, sulla grande strada che viene dal nord, lei sta tutto il giorno alla finestra a guardare giù le auto e i camion che arrivano dal nord, su uno di questi potrebbe esserci suo figlio. E a ogni macchina che compare all'orizzonte e si avvicina, il suo cuore comincia a muoversi e siccome è un continuo passaggio, lei è continuamente in palpiti, non ha un minuto di requie e tutto questo è tremendo, però è anche la sola carica che la tiene in vita.
Ma proprio sotto la sua casa, che è una grande casa di dieci piani, proprio di sotto c'è un crocicchio famigerato per i terribili scontri che succedono. O che ci sia indisciplina, o che i semafori non siano combinati bene, o che si tratti di uno di quegli incroci stregati dove segnalazioni, vigili e controlli non servono perché agisce una maledizione misteriosa, fatto è che non passa giorno senza uno di quegli atroci schianti.
La vecchia signora è alla finestra e vede. E se a bordo di una delle due macchine c'era suo figlio che tornava dalla Russia? Col cuore in gola, si precipita in istrada, corre a vedere chi sono i morti e i feriti. Che sollievo, ogni volta. Su quella macchina il suo figliolo non c'è mai.
Che fortuna! La vecchia signora si fa il segno della croce, si guarda intorno, raggiante: <`Dio sia benedetto, Dio sia ringraziato". In quei momenti è una donna felice.
Ancora una volta, quasi per un miracolo, suo figlio è salvo.
Naturalmente tutti pensano che sia pazza».
«Grazie professore, anche questa è stata abbastanza bella. Ma non è ancora tardi, sai. Su, su, da bravo, raccontaci ancora una piccola storia della grande strada».
«Bè, ragazzi allora vi dirò quella dei lupi. Ecco qui:
c'è un bosco nero dove la strada passa e nel bosco vivono i lupi, i quali hanno eternamente fame e senza fame sarebbero buoni e mansueti, ma la voglia di mangiare è grande e allora i lupi, nell'ombra, nascosti dietro i tronchi, stanno in agguato perché un giorno o l'altro l'imperatore passerà e loro hanno deciso di assaltarlo.
L'imperatore viaggia con cavalli e stendardi, la sua carrozza è d'oro, i trombettieri, caracollando, suonano le trombe e dietro vengono i carri con le vettovaglie, carne, prosciutto, faraone, mortadella di Modena, ostriche di Ostenda, torte, pasticcini di ogni genere...»
Boomerang
Dopo giorni di tensione, il governo provvisorio della Ladogia, presieduto dal generale Gik, ha accettato la proposta americana di una commissione d'inchiesta internazionale per stabilire le responsabilità dell'eccidio di Hemanga.
Al termine della seduta del Consiglio supremo militare riunito d'urgenza, il presidente degli Stati Uniti d'America ha fatto una dichiarazione distensiva assicurando che, nell'interesse della pace, nessun contingente americano sarà inviato in Ladogia. L'atmosfera nel sud-est asiatico sembra così rasserenarsi.
Top secret. Per garantire il controllo di quello scacchiere territoriale, dopo le decisioni del presidente, il Pentagono ha disposto un nuovo piano di ispezioni aeree in profondità denominato "Occhio lungo" per mezzo di apparecchi da altissima quota U99, i quali, partendo da basi statunitensi in Anatolia, sorvoleranno la Ladogia settentrionale spingendosi pure nei prossimi territori della Cina, ciò allo scopo di identificare gli eventuali apprestamenti e
concentramenti militari.
Data l'importanzàdel piano "Occhio lungo", è stato inviato in Turchia il generale Fred G. Lenox Simmon,.
considerato il massimo specialista della ricognizione strategica.
Egli assumerà la direzione dei voli esplorativi a lungo raggio, partecipandovi forse personalmente. Si è ritenuto opportuno che egli si rechi in Turchia in incognito, come turista, accompagnato dalla moglie, sotto falso nome: allo scopo di evitare facili illazioni da parte degli osservatori stranieri.
Prima di raggiungere la Turchia, il generale Lenox Simmon, con passaporto intestato a Eduard L. Shalheim, farà un giro, appunto turistico, in Persia, Pakistan, India e Giappone.
Sulla via del ritorno, la sua sosta in Turchia potrebbe passare, almeno ufficialmente, inosservata.
Nell'atrio dell'Hotel Intercontinental di Caraci, mentre attendeva l'auto che lo portasse all'aeroporto, dove sarebbe decollato alla volta di Istanbul, il generale Lenox Simmon è stato riconosciuto, nonostante i baffi lasciati crescere, dal colonnello Getsiari, già addetto militare all'ambasciata turca di Washington.
Venuto meno l'incognito, su cui per verità il generale americano faceva un assegnamento molto relativo, è stato impossibile a Lenox Simmon, una volta arrivato in Turchia, sottrarsi agli inviti di prammatica.
Tra l'altro il generale Lenox Simmon è stato invitato dal premier turco nella sua villa a poca distanza da Ankara.
Si è stabilito tra i due un rapporto di simpatia. E il generale americano ne ha approfittato per sollecitare dal governo turco il permesso - già negato con la giustificazione di una epidemia di vaiolo nella zona -
per certe ricerche archeologiche progettate dal professore Alpha Lenox Simmon, fratello del generale, insegnante all'Università di Mirabilis, Wisconsin. Il premier turco ha assicurato il placet.
Ricevuta la buona notizia,
l'archeologo Alpha Lenox Simmon ha immediatamente ~accelerato i preparativi della spedizione, già portati a buon punto.
Durante questi preparativi, una pesante cassa di apparecchi scientifici, che stava per essere caricata sul camion, è scivolata giù dalla breve scalinata all'ingresso dell'istituto di archeologia dell'Università di Mirabilis, Wisconsìn.
Nel tentativo di trattenerla, il professor Stephy H.
Drummond, braccio destro
dell'archeologo Lenox Simmon, è scivolato in malo modo, fratturandosi la tibia.
Al posto del professore Drummond, impossibilitato a partire, è stato designato il professore Jonatahan G.
Descalzo, il quale sarà accompagnato dalla moglie Lenore, assistente alla medesima facoltà.
Approfittando della lunga assenza del figlio, la madre del professore Descalzo, signora Maria Paturzi, ha deciso di realizzare finalmente il progetto di un viaggio in Italia per salutare, dopo tanti anni, il fratello maggiore Carmine, proprietario di un piccolo albergo sulla costa calabra.
Per festeggiare l'inaspettato arrivo della sorella, Carmine Paturzi ha imbandito, nel suo albergo, un pranzo, invitando gli amici e i maggiorenti.
Tra gli invitati era il dottor Mario Lumani, già medico condotto della contrada, persona colta ed amabile, tuttavia afflitta dal vizio del bere.
Da oltre sei mesi il dottor Lumani era riuscito a imporsi una disciplina con ferrea esclusione dell'alcool.
In casa Paturzi egli però non ha potuto resistere alla occasionale tentazione e verso le due dopo mezzanotte ha preso commiato dalla compagnia, completamente ubriaco Incamminatosi da solo sulla sua vecchia 1100 per la strada di Amantèa, il dottor Lumani, imboccata la breve diramazione che conduce alla sua casa in riva al mare, ha intravisto alla luce dei fari un oggetto biancastro.
Credendo trattarsi di un foglio di carta, egli non ha spostato il volante, passandoci sopra. Il lieve sobbalzo della macchina gli ha però fatto capire che non era un pezzo di carta.
Benché incerto nei movimenti e nel pensiero per i troppi liquori, il dottor Lumani ha fermato la macchina ed è sceso a vedere.
Egli ha trovato sulla strada un piccolo cane bastardo che palpitava ancora nei sussulti dell'agonia.
Maledicendo se stesso, il dottor Lumani è risalito in macchina e ha raggiunto la propria abitazione.
Il cane è morto e giace disteso sul fianco destro della strada non asfaltata, nel buio della notte.
Nessuno è passato~ nelle successive ore notturne, su quella strada, nessuno lo ha visto.
Ma. Ma alle sette del mattino il pittore Peter i-lobboch, ungherese, detto il "pittore Kon-Tiki" per aver compiuto varie difficili navigazioni, da solo, con un minuscolo scafo, approderà su quella costa, assicurando la barca con un cavo a un pietrone della riva.
Avendo scorto un ruscello salirà la erta ripa in cerca di acqua.
Sbucato sul ciglio della strada che mena alla casa del dottor Lumani, si troverà dinanzi il piccolo cane morto.
La cui espressione crudelmente patetica lo colpirà profondamente, tanto che si fermerà a ritrarre la bestia col suo pennello.
Assorbito dall'appassionante lavoro, non si accorgerà che da ponente sta avanzando un nembo scuro, di bufera.
Un improvviso violento colpo di vento investirà la costa occidentale calabra, sospingendo la barca del pittore Hobboch contro gli scogli; e lo scafo ne resterà danneggiato.
Nell'impossibilità di proseguire in barca, il pittore riparerà
nell'albergo di Carmine Paturzi.
Ivi conoscerà la ancora piacente signora Descalzo e, corrisposto nella simpatia, le farà il ritratto, per la prima volta nella vita considerando l'opportunità di sposarsi.
Richiesta di matrimonio, la signora Maria Descalzo Paturzi, vedova, si sentirà oltremodo lusingata ma, pri ma di decidere, scriverà al figlio Jonatahan~ tuttora in Anatolia, chiedendogli consiglio.
Il professore Descalzo, conoscendo il carattere fantasioso, impulsivo e volubile della madre, chiederà al proprio capo, l'archeologO Lenox Simmon, una breve licenza per recarsi in Italia.
Avendo il Lenox Simmon acconsentito, il Descalzo partirà verso sera dalla zona degli scavi a bordo di una jeep, ripromettendosi di raggiungere Ankara, distante oltre 180 chilometri, prima dell'alba. Lascerà poi la jeep all'aeroporto, per rilevarla al ritorno dall'Italia.
Dopo circa mezz'ora di viaggio, avendo il Descalzo percorso non più di diciassette chilometri data la strada impervia, un aereo U99, di ritorno da una di quelle ispezioni lontanissime su terre proibite~ scaricherà un serbatoio supplementare di benzina.
Il serbatoio vuoto, precipitando dall'altezza di 23.000 metri, piomberà sul cofano della Jeep, sfondandone il coperchio e scassando il carburatore.
Incapace di rimediare al guasto, il professore Descalzo lascerà la macchina, incamminandosi a ritroso verso l'accampamento della spedizione, non esistendo nelle vicinanze alcun centro abitato. Egli pensa, in tre o quattro ore, di poter raggiungere i compagni.
Dopo appena tre ore, il Descalzo raggiungerà la spedizione. Data l'ora,
- le una e tre quarti, - stupirà di scorgere una tenda ancora illuminata.
Con un vago sospetto, anziché chiamare, si avvicinerà in silenzio.
E, raggiunta la tenda illuminata, udirà voci strane.
Dischiuso energicamente un lembo della tenda, il professore scoprirà il capospedizione Lenox Simmon e la propria moglie Lenore teneramente abbracciati. Tratta di tasca la pistola, sparerà, uccidendo l'archeologo.
La notizia dell'omicidio, diffusa dalle agenzie, sarà captata per radio dal fratello della vittima, sospeso a 24.000 metri sopra territori proibiti, durante uno dei previsti voli di ricognizione strategica.
Sconvolto dalla notizia, il generale Fred G. Lenox Simmon deciderà di abbreviare la rotta di ritorno, tagliando una buona fetta di Cina anziché seguire il consueto itinerario prudenziale.
Due caccia Sakka della Cina avvisterannO e attaccheranno l'aereo del generale costringendolo a un atterraggio. Il generale sarà fatto prigioniero.
Il caso farà scalpore e il governo di Pechino inoltrerà formale protesta.
Sobillati da agenti comunisti, gli aderenti al partito nella Gikks, fautori del generale Gik, insceneranno nella capitale Kahò violente manifestazioni antiamericane.
La legazione degli Stati Uniti verrà assediata dai dimostranti. Colto da panico, un telescriventista della legazione aprirà il fuoco con un fucile mitragliatore uccidendo sei uomini e una donna.
Esasperata, la folla assalirà la legazione americana, invadendola e massacrando quanti vi si trovano.
Nello stesso tempo altre turbe esaltate daranno la caccia ai cittadini americani residenti a Kahò.
Sessanta morti americani, trecento feriti.
Il presidente degli Stati Uniti darà ordine alle forze dislocate nei
"ricettivi strategici" di intervenire nella Ladogia per evitare nuovi eccìdi.
A sua volta, il governo cinese annuncerà l'invio di una grossa formazione di "volontari".
Una battaglia verrà impegnata ai confini della Ladogia tra le forze governative sostenute dagli americani e le formazioni ribelli sostenute dai cinesi.
Si annuncerà che il presidente degli Stati Uniti sta per decidere l'applicazione O meno dell"' esecutivo 9000"; il quale comporta l'uso di proiettili nucleari.
Nell'attesa, un aereo coi contrassegni dell'armata ribelle ma di evidente cittadinanza cinese, scaricherà sulla base aerea di Hemerè, in mano americana, una bomba nucleare, la quale, benché di fabbricazione difettosa, farà ottantacinque morti e circa quattrocento feriti.
Cinque ordigni termonucleari americani, a titolo di rappresaglia, saranno fatti esplodere, nelle località prefissate.
Così, a motivo di un cagnolino randagio, sarà scatenata la prima guerra atomica universale.
Moderni mostri
Una volta esistevano la sfinge, l'ippogrifo, l'echidna, il cinghiale caledonio, il tritone, il babau, il gatto mammone, il basilisco. Oggi non esistono più. Tuttavia anche a noi è dato incontrare, di quando in quando, fenomeni molto strani e mostruosi. Per esempio:
La lepre gigante è stata avvistata, a quanto sembra, l'autunno scorso, nell'alto Alpago, provincia di Belluno. Non erano tanto le dimensioni a suscitare meraviglia, perché l'animale non supererebbe~ stimato a vista, il metro e mezzo di lunghezza, quanto la capacità di assumere la posizione eretta, poggiato sulle zampe posteriori e soprattutto il fatto che il leprone imbracciava un minuscolo schioppo a due canne. Tre soli cacciatori, del resto assai attendibili, hanno incontrato la bestiaccia e, sbalorditi, non si sono azzardati a spararle; né onestamente gli si può dare torto. Ma grandi sono stati lo scandalo e la indignazione negli ambienti venatori, i quali giudicano sleale, anzi delittuoso, l'atteggiamento così minacciosamente contestatorio assunto dalla lepre gigante. Ché, se l'esempio si diffondesse, e anche le marmotte, i conìgli selvatici, le volpi, i ricci, i ghiri, le pernici, le quaglie e gli altri volatili stanziali o di passo, si mettessero a girare armati, sia pure a solo scopo di legittima difesa, il mondo si troverebbe sovvertito, e dove finirebbe la sovranità dell'uomo?
Il capo
E' dirigente di una grande industria, ha passato i sessant'anni, ogni mattina si alza alle sei, estate e inverno, alle sette è già in fabbrica dove rimane fino alle otto di sera e oltre. Anche la domenica va a lavorare, pur se lo stabilimento e gli uffici sono deserti; ma un'ora più tardi, ciò che egli considera quasi un vizio. E' per eccellenza un uomo serio, ride raramente, non ride mai.
D'estate si concede, ma non sempre, una settimana di vacanza nella villa sul lago. Non conosce debolezze di alcun genere~ non fuma, non prende caffè, non beve alcoolici, non legge romanzi. Non tollera debolezze neppure negli altri. Si crede importante. E' importante. E' importantissimo. Dice cose importanti. Ha amici importanti. Fa solo telefonate importanti. Anche i suoi scherzi in famiglia sono molto importanti. Si crede indispensabile. E' indispensabile. I funerali seguiranno domani alle ore 14.30, partendo dall'abitazione dell'estinto.
E' dirigente di una grande industria, ha passato i sessant'anni, ogni mattina si alza alle sei, estate e inverno, alle sette è già in fabbrica dove rimane fino alle otto di sera e oltre. Anche la domenica va a lavorare, pur se lo stabilimento e gli uffici sono deserti; ma un'ora più tardi, ciò che egli considera quasi un vizio. E' per eccellenza un uomo serio, ride raramente, non ride mai.
D'estate si concede, ma non sempre, una settimana di vacanza nella villa sul lago. Non conosce debolezze di alcun genere~ non fuma, non prende caffè, non beve alcoolici, non legge romanzi. Non tollera debolezze neppure negli altri. Si crede importante. E' importante. E' importantissimo. Dice cose importanti. Ha amici importanti. Fa solo telefonate importanti. Anche i suoi scherzi in famiglia sono molto importanti. Si crede indispensabile. E' indispensabile. I funerali seguiranno domani alle ore 14.30, partendo dall'abitazione dell'estinto.
Il genio perduto
Se tra le migliaia di animali che vengono giornalmente tratti al macello, si trovasse un maiale, o un vitello, dotato di intelligenza mostruosa, pari, se non superiore, a quella di Platone, di Leonardo da Vinci, di Einstein, come potrebbe rivelarla a noi, e così salvarsi? Come potremmo noi esserne informati? Tenuto prigioniero nella stalla fin dalla nascita, sprovvisto completamente di addestramento e di istruzione, non ha avuto la sensibilità di apprendere neppure i rudimenti della nostra lingua, così da poter eventualmente imitarla con grugniti, muggiti, o altro. Né i rozzi uomini preposti al suo allevamento dapprima, quindi al suo trasporto, infine alla sua uccisione, sono in grado di avvertire quei minimi segni (battiti regolari con le zampe, lamenti ritmati, gesti di supplica) con cui il geniale quadrupede forse ha chiesto e chiede mercè. Meravigliose luci della natura che, se scoperte e curate, potrebbero arricchire e forse salvare il mondo, vanno così miseramente e brutalmente distrutte.
Il patito sociale
E' una creatura spiritualmente eletta.
Ama l'umanità conculcata e sofferente, partecipa con dedizione ai suoi dolori.
Egli non è stato conculcato, anzi, la fortuna è stata prodiga con lui, per aspetto fisico, salute, censo, posizione sociale. Ciò, intendiamoci, accresce il suo merito. Di notte stenta a prendere sonno, oppure si risveglia di oprassalto> oppresso appunto da quel pensiero filantropico: le afflizioni del popolo angustiato dalle ingiustizie. A motivo di questo grande amore, egli è costretto a odiare intensamente. E mentre ciò che ama è una massa indifferenziata e senza volto, ciò che egli odia sono invece delle persone precise, con nome e cognome, secondo lui complici, consapevoli o no, delle predette ingiustizie: amici, vicini di casa, colleghi, specialmente colleghi di successo. L'odio, si intende, è tanto più intollerante e velenoso quanto più egli è conscio della nobiltà dei propri sentimenti; e diventa il suo precipuo interesse quotidiano, consolazione, sostegno e scopo della vita. Tutto a causa del cosiddetto peccato originale che, salvo interventi contrari della grazia, porta l'uomo ineluttabilmente al male e alla perfidia, anche se si tratta di un uomo così altruista e moralmente elevato.
Il sapone magico
Un pubblicitario di talento, incaricato di pianificare una campagna promozionale per un nuovo tipo di sapone, propose, anziché i consueti imbonimenti iperbolici che possono colpire il pubblico ma non essere creduti per la stessa loro esagerazione, il seguente slogan: uno, su diecimila saponi X, procura un fascino irresistibile.
(Dopodiché si spiegava come il sapone magico fosse contraddistinto da uno speciale piccolo bollo d'oro). Bene.
La stessa discrezione dell'annunzio lo rendeva plausibile. La gente infatti ci ha creduto, questa fede, irraggiantesi da migliaia e migliaia di sconosciuti, convergeva su quelle pochissime saponette col bollìno, e le saponette acquistavano un reale potere. Una di esse fu comperata per puro caso da una ragazza che faceva servizio a ore in casa di una mia cugina. Non si poteva dire brutta, ma scialba e insignificante sì; inoltre aveva un curioso naso sottile a punta che la faceva assomigliare a un fenicottero. Quell'acquisto fortunato fece naturalmente le spese di una quantità di chiacchiere divertite. In un minuscolo ambiente, la giovane cameriera diventò per qualche tempo un personaggio. E, fosse una reale virtù arcana della saponetta, fosse la invincibile forza della suggestione, nel giro di un mese la squallida servetta si trasformò in un fiore delizioso.
Oggi è una delle fotomodelle più pagate di Parigi.
La nuvola
La sera del 28 aprile, - per motivi di ordine pubblico in Francia si è preferito insabbiare la notizia -
sopra la modesta elevazione del Monte Gimont (Alta Marna), non lungi da Colombey-les-Deux-Eglises, fu osservata una grande nube che raffigurava, con inconfondibile precisione~ la testa del generale De Gaulle, quel giorno stesso ritiratosi per sempre dalla scena politica e trasferitosi alla celebre sua residenza di campagna.
Il sopraggiungere del buio impedì registrazioni fotografiche e ulteriori osservazioni sul decorso del fenomeno.
D'altra parte, poche persone notarono il singolare spettacolo, poiché la stragrande maggioranza degli uomini tiene gli sguardi fissi alla terra e non al cielo. Si sarebbe potuto pensare a un caso di autosuggestione, se all'indomani, sopra una delle ultime propaggini meridionali dei Vosgi, la nuvola De Gaulle non fosse ricomparsa verso le undici del mattino: per circa dieci minuti la somiglianza fu perfetta, poi le sembianze si dissolsero. L'espressione era solenne e malinconica, ma dolce; nessun cipiglio militaresco, nessuna caparbia smania di rivincita. Ecco: quasi che il generale volesse compiere un'ultima ispezione alla sua patria, lo straordinario ammasso di vapori si è riprodotto successivamente in varie contrade francesi: per esempio, sulle Montagnes du Lomont (Besançon), sul Puy de Dome (Clermont Ferrand), sul Signal de Sauvagnac (Limoges).
La eminente nube ha continuato il suo
" tour » anche dopo la partenza di De Gaulle per l'Irlanda. Gli ultimi avvistamenti provengono dall'Ile-de-Re e da una zona di mare circa ottanta miglia a nord-ovest di Brest.
Qui il generale indossava il berretto e si vedeva anche una mano che salutava militarmente. Come se fosse l'estremo addio prima del definitivo
trasferimento nel mito.
Delicatezza
In un certo paese la pena di morte viene somministrata con grande delicatezza. Ecco un esempio: Una volta divenuta esecutiva la sentenza, prima che gli sia comunicata la data della esecuzione, il reo, -
supponiamo si chiami Ernesto Troll, tappezziere, uxoricìda con veleno, -
viene condotto, senza manette, alla direzione delle carceri.
Qui lo si fa accomodare nello studio del direttore, in una comoda poltrona.
Gli offrono sigarette, caffè, caramelle, quindi gli inservienti escono, lasciando soli il direttore e il condannato.
Il direttore comincia a parlare:
«Dunque, signor Troll, lei è stato condannato a morte. È però mio dovere rassicurarla. Avvertirla cioè come, in un certo senso, si tratti di una condanna più che altro teorica».
«Teorica?
«Teorica, sì. Perché la morte in realtà non esiste».
«Come sarebbe a dire non esiste»?
«Non esiste, voglio dire, come pena, come castigo, come fatto tragico, motivo di paura e di angoscia. Sul tema, regnano nel mondo pregiudizi insensati. Lasciamo pure da parte la sofferenza fisica che, per lo meno nel suo caso, signor Troll, è fuori discussione, data la perfezione dei nostri impianti» e abbozza un sorrisetto diplomatico. «Io parlo del dolore morale, ingiustamente temuto, come spero di poterle dimostrare.
«Vediamo un po': perché l'uomo ha paura di morire? La risposta è fin troppo semplice. L'uomo ha paura perché, dopo morto, non potrà più vivere, cioè fare, vedere, ascoltare, eccetera, tutte le cose che faceva in vita. E ciò gli dispiacerebbe immensamente. Ma per, poter provar dolore è necessario, conditio sine qua non, essere vivi. Quindi chi è morto non soffre più, non può avere neppure rimpianti, nostalgie e afflizioni del genere. In parole povere, una volta avvenuto il decesso, l'uomo non può dolersi di essere morto. Morale: l'aspetto negativo della morte, che generalmente incute tanto terrore, è una stolta illusione».
Ribatte il signor Troll: «Lei ha un bel dire, signor direttore. Ma il brutto della morte non è soltanto il non poter più fare le cose che si facevano da vivi. C'è anche il dispiacere di lasciare per sempre tante persone care».
«Bravo! Anche questo dispiacere, ragazzo mio, lei non potrà più provarlo, appunto perché sarà morto.
«E poi, signor direttore, chi le dice che dopo la morte non ci sia più niente»?
«L'aspettavo al varco, signor Troll.
Una obiezione più che giustificata.
Appunto qui veniamo al nocciolo del problema».
«La ascolto, signor direttore».
«Bene. Eèvidente che i casi sono due: o dopo la morte c'è una seconda vita purchessìa, oppure dopo la morte non c'è niente. Chiaro, direi, elementare. Ora facciamo l'ipotesi che lei...
«Ma, veramente io...
«Solo una ipotesi, ripeto, la quale non pregiudica quelle che possono essere le sue convinzioni personali.
Supponiamo Cioè che lei, signor Troll, non creda nell'aldilà. In questo caso, se lei trova una seconda vita, avrà una bellissima sorpresa, a tutto suo vantaggio; e non avrà motivo di lamentarsi. Ovvio che il rimpianto delle persone care dovute abbandonare sarà di gran lunga attenuato dalla certezza che anch'esse, un giorno o l'altro, potranno raggiungerla. In più c'è il conforto di ritrovare, di là, congiunti ed amici già scomparsi in precedenza».
«Beh, adagio coi congiunti...»
«Ah, mi scusi...» fa il direttore che si è dimenticato di avere a che fare con un uxoricìda. «Comunque, fin qui mi sembra che non ci possano essere obiezioni. Adesso consideriamo l'altra eventualità. Che cioè dall'altra parte non ci sia nulla. Ma proprio perché non c'è nulla, e il nulla implica che anche lei non esista più, lei non ha la possibilità di rendersene conto, come abbiamo già visto. Insomma, nessun dispiacere.
Ecco perché la consueta disperazione di quelli che non hanno fede è priva di qualsiasi serio costrutto».
«Io però, signor direttore, non è che sia così scettico. Io ho anzi la sensazione che...»
«Benissimo. Consideriamo ora l'uomo che crede nell'aldilà. Intanto è logico che, proprio a motivo ditale persuasione~ egli affronti la morte con una serenità notevole. Orsù, seguiamolo nell'atto di varcare il famoso confine. Egli avanza, è passato, si guarda intorno, si accorge di esistere ancora, in forma completamente diversa magari, ma di esistere. La sua fiducia è stata ricompensata, si sente consolato, e, spoglio di ogni peso materiale, può anche darsi trovi la felicità inutilmente cercata sulla terra.
«Ed eccoci per la seconda volta di fronte alla ipotesi negativa. L'uomo che crede nell'aldilà muore e di là non c'è niente. Ma ciononostante il conto torna; egli non viene, per così dire, frodato di nulla, non c'è stato tempo e modo per la delusione. Ragione per cui, sono con lei, caro signor Troll: la fede, comunque, sarà sempre un ottimo affare».
«Una scommessa a colpo sicuro, no»?
«Vedo che abbiamo letto Pascal. Me ne compiaccio.
Ma per chiarirle ancor meglio le idee perché non facciamo una prova»?
«Una prova come»?
«Una specie di rappresentazione simbolica, una finzione quasi teatrale, una esemplificazione plastica, una specie di gioco.
«E io, che cosa dovrei fare»?
Il direttore preme il pulsante del citofono. Dall'apparecchio una voce gracchia: «Comandi, signor direttore».
«Mandatemi subito la Fiorella».
Il condannato è inquieto: «Signor direttore, mi sembra di aver diritto di sapere: in che cosa consiste questa rappresentazione? Spero che non si tratti di uno scherzo».
«Macché scherzo. Lo scopo è di tranquillizzarla. Finora abbiamo fatto soltanto delle parole. E le parole contano quello che contano, io il primo a riconoscerlo.
Questo, che adesso faremo, è un esperimento pratico.
Pensi ai voli spaziali. Prima del lancio, i cosmonauti vengono chiusi nella capsula perché si rendano conto, si abituino, prendano confidenza con l'ambiente. Ma la capsula non parte, non c'è pericolo di sorta. Così lei.
Questa prova, le ripeto, le schiarirà le idee sulla sua vera situazione.
Dopo, le assicuro, si sentirà molto meglio. Lei non ha che da... Ah, ecco qui la nostra brava Fiorella».
Eèntrata una ragazza sui vent'anni, splendida e procàce, con gonne cortissime e generosa scollatura. Una immagine addirittura incredibile nel carcere della morte.
«Ritengo superflue le presentazioni»
osserva il direttore rivoltO al condannato. «La nostra fiorella è esperta di queste piccole finzioni sceniche. La nostra fiorella, nel nostro caso, simboleggia, anzi si può dire incarna la seconda vita. E
appunto perciò adesso sì ritira... A ben vederci, Fiorella...»
La ragazza esce non senza aver rivolto al condannato uno sfrontato sorriso, e perfino strizzato l'occhio.
Direttore e reo sono di nuovo soli.
«E questa Fiorella»? chiede il signor Troll facendo un gesto oltremodo espressivo.
Il direttore ride: «Ma sì, ma sì, naturalmente, se è il caso... Lei adesso capirà come la cosa è semplice.
Vede quella porta? Lei non ha che da aprirla e passare di là, nell'altra stanza. Ora può darsi che di là ci sia buio; e il buio significherebbe il nulla. Ma può anche darsi che di là ci sia Fiorella che l'aspetta... Non è una allegorìa ben trovata?
«Ma dico, se trovo il buio, io...»?
«Lei niente, caro signor Troll. In questo caso, visto che non c'è niente, lei buono buono ritorna qui nel mio ufficio... Tutto qui. Elementare, no?
Ora penso che di là tutto sia già pronto».
«E chi decide? Voglio dire chi stabilisce se far buio o farmi trovare la ragazza? Lo decide lei, signor direttore»?
«Assolutamente no. È la ragazza che decide. E la Fiorella è la creatura più imprevedibile di questo mondo.
Insomma, coraggio. Vogliamo provare»?
A passi non molto sicuri il condannato si alza, si avvicina alla porta, con precauzione irnpugna la maniglia, la gira lentamente, spinge con estrema cautela il battente, intravede una lama di luce, uno spiraglio, un risplendere roseo di carni.
In questo preciso istante, da una minuscola feritoia ben mascherata aperta in una parete dello studio, un tiratore scelto fulmina il signor Troll con un colpo alla nuca.
Il medico delle feste
Non è poi tanto semplice fare il medico delle feste.
Intanto ci chiamano nelle ore più sgangherate della notte. Alzarsi, vestirsi, mettersi in cammino al buio, magari col gelo, i briganti, la pioggia. Di giorno, quando i cristiani lavorano, mai. Quasi mai.
Una volta infatti, saranno sei anni fa, mi hanno chiamato alle due del pomeriggio. Era per una festa lontana.
Su, in Val di Genova, sotto i ghiacciai. Molto lontana. Una festa di cacciatori d'orsi, nel casino di caccia del conte Essàlide. Con la moto io arrivo che già sta calando la sera.
Cosa succede? Chiedo. Due si erano messi a litigare di politica, si erano presi a pugni. Ma adesso tutto era ormai appianato. Bel gusto fare tanta strada per niente, col cuore in gola.
«Be'» dice Essàlide «non se la prenda, dottore, anche se ha fatto il viaggio per niente, resti qui a mangiare con noi». Allora sono rimasto, benché i cacciatori non mi siano mai piaciuti; a chi possono piacere gli assassini?
Per fortuna, ci si era appena seduti a tavola, che quei due hanno
ricominciato ad altercare, e questa volta anche gli altri si sono messi di mezzo, in pochi minuti è stato l'inferno. Il conte Essàlide mi guardava con occhi imploranti che dicevano: "Dottore, dottore, tocca a lei levarmi da questo guaio". Al che, io ho avuto un lampo di genio, -
all'università un caso del genere non si era mai studiato, - e mi sono messo a gridare: «Al fuoco! al fuoco! Si salvi chi può»! Nello stesso tempo, per dare verosimiglianza alla cosa, ho appiccato un incendio che in meno di un'ora ha distrutto l'intero casino di caccia e bruciate vive diciannove persone (cacciatori); con piena soddisfazione dell'ospite, il quale era ampiamente assicurato.
Ma di solito noi medici delle feste lavoriamo di notte, fino alle ore piccole, fino a giorno inoltrato. Si galoppa nel buio con le nostre motociclette potenti perché nessuno della specialità, - e ignoro il motivo,
- adopera l'automobile. Per esempio al palazzotto dei Drusi, sposi giovani e brillanti, desiderosi di successi sociali. Hanno commesso lo sbaglio dell'inesperienza, per dare lustro alla loro prima festa hanno invitato il fior fiore della città, personaggi d'altissimo livello, molto più importanti di loro; i quali leoni e tigri naturalmente si divertono a snobbare la giovane coppia che per di più ha l'imperdonabile colpa di essere molto bella. Insomma: come se i due manco esistessero, se non per pagare il banchetto, le musiche, i regali, i preziosi vini. Lui, l'avvocato Drusi, mi aspetta sulla soglia coi capelli scompigliati dal vento. E io: «Dal tono della telefonata ho già intuìto la situazione. Sai, il fiuto clinico. Ora sta su allegro, guarda chi sta arrivando». Giusto dietro di me cammina infatti un pullman notturno di lusso con i valletti e le bandiere e ne discendono re regine principi principesse cantanti e calciatori di massimo rango, ed è per questo che le mie prestazioni talora costano così care.
Cosicché i signori dentro, che si davano tante arie, restano stesi piatti dai nuovi arrivati. E la festa procede a un trionfo meraviglioso.
Oppure mi chiama verso la una di notte il vecchio amico Giorgio Califano, protettore delle arti. ha dato una festa in onore di Puta Legrenzi, l'attricetta, suo ultimo grande amore.
Appena arrivo, capisco che il nome della bellissima in realtà ha due t, la proterva ragazzina si diverte a fare impazzire di gelosia il facoltoso, ma io devo far finta di non capire. «Ciao Giorgio» gli dico
«che succede»? «Ti giuro che per me è un mistero» risponde. «Ho radunato qui tutta la meglio canaglia della città, eppure la serata langue, guardala un poco se non è completamente sgonfia e marcia». Io guardo ma non è vero niente, mi sembra anzi una notte riuscitissima, le donne quasi tutte giovani~ con spiccata personalità carnale, anche gli uomini cotti al punto giustO e scatenati. «E poi lei, la Putina, se ne è andata» aggiunge lui come se fosse un particolare trascurabile. «Se ne è andata perché»? «E' chiaro. Perché ne aveva piene le scatole». Ma io l'ho già intravista, la squinzia, in un ridotto del giardino~ dietro una piramide di bosso, che si lascia tampinare da uno. Tutt'intorno, musica, allegria, spensieratezza, delirio. E lui mi dice «Allora, dottore, me la puoi aggiustare o no la serata»? «Se ne sta su bella dritta da sola, la serata, meglio di così non si potrebbe. Sei tu che non funzioni, dentro. Tu, saresti da aggiustare. Ma io sono soltanto un medico delle feste.
Ci vuol altro, per un cuore malconcio come il tuo. Neppure Barnard. Neppure il gran penitenziere delle coscienze universali. Soltanto il tempo, quello con la clessidra e la barba bianca.
Ma in questi casi, lui che di regola viaggia come il vento, diventa una lumaca. Ciao».
Il cliente più di soddisfazione è una cliente, la Leontina Delhorne, sulle cui fragili spalle una vedovanza e due divorzi hanno depositato chi dice una quarantina~ chi una cinquantina di miliardi. Spiritosa, vivacissima, snob, e meravigliosamente infelice come riescono ad esserlo soltanto i miliardari, non ha un ubi consistam, condannata a passare senza tregua da una città all'altra, da un continente all'altro, restar ferma tre giorni in un posto per lei significando la morte civile. Perciò, quando dà una festa, mette in azione il suo treno privato composto di una vettura salone da ballo, una vettura comfort con ristorante, bagni, sala di ginnastica, e una vettura alcova per chi sente il bisogno di appartarsi. E via, per due, tre, quattro giorni, anche attraverso le frontiere, senza fermarsi mai, il che è una disperazione per i tecnici che devono organizzare i percorsi e gli orari.
In quanto a me, Leontina mi vuole a bordo appunto per il terrore di eventuali fermate. E' successo una sola volta, alla periferia di Zagabria~ per un guasto alla linea dovuto ad alluvione. Per radio ci hanno avvertito che dovevamo pazientare dalle quattro alle cinque ore. Erano le tre di notte. Subito Leontina è entrata in crisi, aggrappandosi alle mie spalle. Io ho chiesto mezz'ora di tempo. Per fortuna in quei paraggi disponevo di qualche buon
addentellato. Già Leontina stava per entrare in convulsioni quando dal buio circostante, ben istruita da me, è emersa una banda di hippies, armati di pugnali e pistole. In men che non si dica sono balzati sul treno, hanno spogliato i viaggiatori fin dell'ultima lira o catenina d'oro, abusando, si intende, di tutte le presenti, compresa Leontina. La quale ha concepito per me una eterna gratitudine.
Di norma, purtroppo, noi medici delle feste possiamo fare poco. Ecco la fatidica chiamata verso le due, quando la vitalità dell'uomo tocca il limite più basso. Ecco la palazzina, ecco il giardino privato, ecco il ritmo convulso della musica nella tepida notte di giugno. I padroni di casa, desolati. Si accorgono che la festa ha cominciato a perdere colpi, troppe coppie si sono appartate negli stanzini e nei corridoi, il complesso beat è ormai slombato, almeno una decina di ospiti se l'è filata all'inglese, e si avverte prossima~ nell'aria, la triste ora dei ringraziamenti e degli addii.
Il dovere del medico è di dare coraggio al malato. Io sento il polso, ausculto, mi tengo benevolmente sulle generali: «Non mi sembra, cara signora, che ci sia da preoccuparsi. Gli ospiti hanno un'aria vispa, sembrano divertirsi da pazzi. Il fatto che qualcuno giaccia per terra o sui divani, mi creda, è un sintomo confortante anziché no».
Ma dalla cima di un platano l'upupa manda il suo richiamo e dalle incalcolabili lontananze della pianura giunge un lungo lamentoso fischio di treno; il quale è segno fatàle. Che posso fare? Attizzare i musicanti con un esborso, polverizzare qua e là con lo spray un infuso drogato? Si potrebbe, certo, ma con che profitto?
Ahimè, il tempo all'improvviso si è messo a correre a precipizio. Il disfacimento si accelera. Che posso fare? Pallida, la padrona di casa mi fa un gesto con la mano, per dire: Birichino, ti rifiuti dunque di aiutarmi? Non oso risponderle. Da quella parte, dietro gli alberi, se si osserva con attenzione, il cielo non è più nero come pochi minuti fa. E un soffio d'aria gelida ha fatto ondeggiare un poco le foglie.
Rombano, di là delle siepi, le auto che si mettono in moto per rincasare.
La grande tavola del buffet devastata e deserta, l'ultimo cameriere sparito.
Solo quattro spettri si ostinano a scuotersi e divincolarsi nello shake sotto il palco della musica ormai al lumicino.
Che possO fare? Del mio imbarazzo si rende conto anche la padrona di casa, in piedi accanto a me sul ciglio della scalinata a salutare gli amici. A questo punto! si ode un rotolìO da strade remote, come un affanno, che, sale. Nel cono di luce delle lampade si sparpagliano, ancora incerti, i primi fiocchi di neve.
«Però» dice con una strana voce «è stata una bellissima festa. Vero»?
«sì. Una festa indimenticabile».
«Penso non ce ne saranno molte altre, come questa».
Mi guardo intorno. «Lo penso anch'io», rispondo.
L'ultimo ospite partito. Scomparso anche il padrone di casa. I domestici spengono le luci. Bicchieri per terra, pasticcini per terra, sigari, cicche, disordine, sporco, l'indomani, la vacuità del domani, la stanchezza, la nausea.
Adesso è veramente sola. Visibile alla prima gelida luce del giorno.
Una bellissima festa. Ma da laggiù in fondo si avvicina un garrulo suono di campanella. Attraverso le fronde si intravede qualcosa di bianco che si muove, qualcosa di rosso: come una cotta sacerdotale, per esempio, come un ombrello di broccato cremisi.
~ un piccolo regalo per lei?
Storielle d'auto
Che curiosa impressione mi fa (certe sere tra amici, discorsi abbandonati a ruota libera, stupidi forse), sentir parlare di automobili come se fossero semplicemente automobili, marca tipo cilindrata ripresa tenuta di strada freni prestazioni velocistiche eccetera, che noia, come se fossero cose, macchinismi, e non altro.
Invece.
Maschio o femmina?
Da noi si dice auto, femminile, in francese pure è donna, però è maschio in Germania, idem nel vasto comprensorio inglese. La nostrana femminilità dipende, mi puniscano i filologi se sbaglio, dal fatto che automobile è aggettivo riferito a "macchina" o
"vettura", poi sostantivato. Ma se da noi si facesse un referendum popolare il risultato riuscirebbe incerto. Gli italiani la (o lo) vedono maschio per la forza dirompente nella ripresa e nei sorpassi, per il maschile divoramento dei chilometri, per l'ascendente - discendente ormai -
esercitato sulle ragazzine sprovvedute quando si pilota una (uno?) spavalda super. Però donna quando lui preme il piede destro a destra, e la sente sottomessa e schiava facendola rimbalzare, sulle curve, dalla quarta in terza dalla terza in quarta bruscamente, e lei si assoggetta e gode (almeno sembra) e si dona con elasticità in tutte le sue risorse viscerali, così, per fargli piacere.
Cabala del CK
Poco nota ancora al grande pubblico, -
e finora non sostenuta da una seria documentazione statistica, - è stata elaborata la teoria che certe percorrenze, contrassegnate da particolari numeri, sono negative al guidatore. Esempio elementare: "punte"
di massima pericolosità si avrebbero in corrispondenza ai cosiddetti numeri omogenei segnati dal contachilometri (CK), come 1111, 11111, 2222, 22222 e così via; mentre alcuni, ingenui, amano veder comparire al finestrino del cruscotto quelle cifre tutte uguali. Questo l'abc della dottrina.
Gli astrologhi sono intervenuti con molte sottili implicazioni. Se uno, poniamo~ è nato il 7 maggio 1932 farà bene a stare attento quando il cruscotto sta per segnare 7532, o 75932. Se uno ha compiuto 47 anni, usi la maggiore circospezione quando compaiono i multipli della cifra: ogni 47 chilometri dovrebbe procedere con le orecchie alzate.
Subentrano le manie: rallentare al massimo e avanzare col fiato sospeso quando sta per scattare il quadrato, o il cubo, della propria età. Entrano in gioco, naturalmente, anche le persone a bordo. C'è chi, prima di invitare un amico o conoscente a prender posto, si informa dei suoi dati anagrafici ed esegue i relativi computi col regolo calcolatore. I "puri" della scuola sono pervenuti a una casistica talmente vasta e raffinata da coprire praticamente quasi tutti i numeri dal 2 all'infinito. Dopodiché hanno venduto la macchina, viaggiano in treno, in città si spostano a piedi, e stanno sempre meglio di salute.
Sensibilità dei semafori
Avrete notato, negli incroci dove passate normalmente, come di volta in volta vari il comportamento dei semafori. Candidamente, i preposti al traffico cittadino sono convinti che quegli ordigni luminosi obbediscano alle pure e semplici leggi fisiche e meccanicamente eseguano gli ordini ricevuti: cosicché, se regolati a tenere acceso il verde per quindici secondi, ogni volta quindici secondi saranno. Illusi. I semafori sono spesso dotati di una sensibilità arcana, affatto ignota a chi li fabbrica; e avvertono a distanza, nelle cateratte di macchine che convergono su di loro, se c'è qualche caso interessante.
L'automobilista ansioso, in ritardo, preoccupato di far presto e di non perdere un secondo, è la vittima favorita. Quanto più lui ha fretta, tanto più il semaforo è maligno e, a costo di trasgredire le più elementari norme di disciplina, anticipa fulmineamente lo scatto del rosso così da sbarrargli la strada. Dopodiché prolunga con scandaloso arbitrio la durata del "no" fino a due, tre volte la dose normale. L'automobilista impreca, digrigna i denti e alle volte impazzisce.
Mimetismo
Altro fenomeno non abbastanza studiato dalle case costruttrici, le quali forse potrebbero arrivare a controllarlo, stimolandolo o frenandolo a seconda dei casi: l'auto, in genere, tende ad imitare chi la guida, e ad
assomigliargli anche fisicamente. Non bastano certo pochi chilometri di frequentazione. Soltanto dopo qualche settimana la macchina comincia ad adeguarsi, assumendo anche
nell'aspetto virtù o difetti del pilota. Cosicché capita di capire subito, guardando una vettura che ci precede, indipendentemente dalla sua velocità, proprio per l'espressione complessiva, che il guidatore è un tipo pigro, lento nei riflessi, tardo a rimettersi in moto, amante della buona tavola, incerto nelle situazioni urgenti e spinose. All'inverso, dalla grinta che assume - e magari si tratta della stessa marca, dello stesso modello, dello stesso colore, - si riconosce l'auto che è nelle mani di uno dei tanti bulli spadroneggianti, -
adesso meno di una volta, per fortuna
- sulle strade d'Italia.
Solitudine!
L'esasperazione nevrastenica del furibondo scatenamento del traffico intorno, quella rabbiosa macina, catastrofico incombere di selvaggi camion bestioni stritolatori, alle spalle incalzati da feroci occhiaie ammiccanti. Via, via, basta con questo inferno. Alla periferia, alla campagna, all'aria pura, al silenzio.
Non basta. Centinaia, migliaia di chilometri, e ancora imperversano le belve.
Via, via, ai limiti del mondo abitato.
Più avanti ancora.
Sì, nel deserto di sabbia piatto e incontaminato, dove dall'epoca della creazione non è mai passata anima viva.
Liberazione. A perdita d'occhio non vedere neanche un topino delle piramidi. Non c'è più bisogno, grazie a Dio, di specchio retrovisore.
Finalmente lui, o lei, si ferma.
Che solitudine, che pace. Con un sospiro di indicibile sollievo apre la portiera per discendere. Un ciclista, che procede nello stesso senso, va a sbatterci contro malamente.
Barboni
Nottetempo i camposanti delle macchine, nei prati incolti di là del casello del dazio, non hanno bisogno di custode, si sa. Chi ruberebbe? Neppure il ladro più disperato risponderebbe a simile offerta di lavoro, neanche se morto di fame.
Perché di notte, quei ruderi, carcasse, defunti carrozzoni senza più ruote né motori, si risvegliano, ed è raro che non vengano a lite. Quasi sempre, anzi, scendono alle vie di fatto. Non c'è peggior dolore... Ultima consolazione infatti, prima del definitivo obbrobrio e annientamento, essi raccontano ai compagni di sventura i propri anni felici. E nel rimpianto cocentissimo ciascuno si esalta inventando fasti e glorie inverosimili, padroni altolocati e famosi, viaggi alla Terra del Fuoco, crociere a velocità supersoniche.
Gli altri allora lo sbeffeggiano, lui risponde, si scontrano, schianti penosi di lamiere si spandono per la squallida e deserta contrada.
Mi ricordo, una dozzina di anni fa, in un prato in fondo a viale Fulvio Testi, dove portavo a far correre i cani, di avere conosciuto un vecchio
"clochard" ancora ben portante. Come gli rivolsi la parola, subito cominciò a raccontarmi che sua madre, ricchissima, era stata regina di Niguarda e girava con una carrozza d'argento; poi erano arrivati i tedeschi (sic) e la famiglia aveva perso fin l'ultimo centesimo. Sua mamma, aggiungeva, era famosa in tutta la Lombardia. A questo punto due altri barboni seduti sull'erba un po'
discosti hanno cominciato a ridere e a emettere lunghi fischi da mandriano.
Al che lui, rosso di rabbia, gli si è gettato contro. Erano tutti e tre oltre i cinquanta. Eppure non ho mai visto in vita mia darsene tante.
Fantasma del passato
Che fine è toccata alla famosa macchina blu elettrico, decapottabile, a due posti, che abbiamo avuto tanti anni fa, che abbiamo desiderata, comperata, amata, coccolata, vezzeggiata, e poi crudelmente abbandonata per prenderne un'altra più giovane e più bella? Ogni volta si ha l'illusione di un vincolo profondo, come tra vecchi amici, destinato a durare per sempre, e il pensiero rifugge dal momento, che pur si sa presto o tardi inevitabile, in cui ce ne dovremo sbarazzare. Poi, con rapidità imprevista, il momento viene, si vuotano i ripostigli del cruscotto, si accompagna la infelice dal rivenditore e la temuta lacerazione sentimentale non avviene, per noi è oramai una cosa morta, sulla soglia non ci voltiamo neppure indietro per un'ultima occhiata d'addio. E le avevamo voluto tanto bene! Che fine avrà fatto? Nelle mani di un negriero che l'ha sfruttata brutalmente portandola anzitempo al cimitero? O di un signore d'alto sentire che l'ha rimessa a nuovo, anzi arricchita di ogni possibile belluria, cosicché oggi è annotata nel Gotha dell'antiquariato internazionale? No, non era tipo tanto chic da poter sedurre un esteta. Sarà discesa di parallelo in parallelo, come capita, fino al profondo polveroso sud, e qui avrà goduto una sorta di seconda amara giovinezza.
Poi anche lei
Troppo tempo è passato. Non ne rimarrà neanche una fetta di lamiera. Eppure, di quando in quando, là dove si addensano le folle, ai grandi quadrivi, ai terminali d'autostrada, sui viadotti babelici, ci par di intravederla, un po' sbrindellata ed acciaccata, però sempre di colore blu, sempre snella, col suo bel musetto impertinente.
Ah, il rimorso. Come avvicinarsi, come chiamarla? Ma è già sparita. Un'ombra.
La torre
Al tempo delle grandi invasioni, un giovane e ricco cittadino, di nome Giuseppe Godrin, si costruì, ai limiti settentrionali della città, una altissima torre, con una camera in cima, dove trascorrere la maggior parte delle giornate.
Di lassù poteva dominare per lungo tratto la strada che portava al nord, in direzione delle montagne dove passava il confine.
Molti popoli bellicosi e nomadi scorrazzavano allora per il mondo, portando la guerra~ i massacri e la distruzione. Ma temuta più di tutti era l'orda dei Saturni, contro i quali nessun esercito regolare, schierato in difesa della patria~ aveva mai resistito.
Ebbene, il Godrin fin da ragazzo era assillato da questa paura e si era fatta costruire la torre appunto per poter essere il primo a dare l'allarme.
L'arma più pericolosa dei Saturni era infatti la sorpresa. Essi piombavano sulle città inavvertiti, al galoppo sfrenato. E pure le milizie più valorose non facevano in tempo a serrare i ranghi. In quanto alle mura di cinta, erano maestri, quei barbari, nello scalarle, per alte e lisce che fossero.
Grazie alla visibilità che si godeva dalla sommità della sua torre, il Godrin non solo sarebbe stato il primo a segnalare tempestivamente l'incursione, ma avrebbe potuto prepararsi a combattere, - così diceva,
- con grande anticipo su tutti gli altri. Aveva a questo scopo acquistato una grande quantità di armature, spade, lance, schioppi e colubrine. E
nel cortile sottostante alla torre, tre volte alla settimana, faceva esercitare i numerosi famigli all'uso delle armi.
La gente, quando l'edificazione della torre fu a buon punto e
l'incastellatura del cantiere già sovrastava tutti gli edifici della città, cominciò a sussurrare che il Godrin fosse un poco tocco. Da oltre un secolo i barbari invasori non si erano più fatti vivi. I Saturni, poi, erano una storia della notte dei tempi, piuttosto leggendaria, ed era probabile~ secondo il parere di molti, che non esistessero più.
Non mancavano poi i maligni: il Godrin non si era fatta la torre per poter essere il primo alla battaglia, ma per avere tutto il tempo necessario a nascondersi.
E insinuavano ch'egli si fosse costruito, nel sottosuolo della torre, un rifugio inespugnabile, con provviste d'acqua e di cibi sufficienti per un assedio di parecchi anni.
Nessuno però seppe darne la prova.
Con l'andar del tempo, tuttavia, non vi si fece più caso e i pettegolezzi cessarono. Era un periodo di pace, la città godeva una vita prosperosa e tranquilla. Il Godrin, che apparteneva a una delle famiglie più in vista, partecipava di quando in quando ai trattenimenti e alle feste della bella società, ma per lo più conduceva una esistenza ritirata, non cessando di scrutare dal suo osservatorio, con un potente cannocchiale, la strada del nord: da cui non scendevano che pacifiche vetture, carriaggi di merci, greggi di pecore e solitari viandanti.
Alla sera poi, quando calavano le tenebre e le osservazioni dovevano essere interrotte, il Godrin, prima di coricarsi, scendeva a una vicina locanda, trattenendosi a bere un'acquavite e ad ascoltare i racconti dei viaggiatori di passaggio.
Così passarono gli anni con velocità spaventosa e il Godrin un giorno si trovò ad essere un vecchio, e per risalire i quattrocentotrentotto ripidi gradini della sua torre dovette per la prima volta farsi aiutare dai servitori.
Con le forze, gli era venuto meno anche lo spirito di intraprendenza, anche le speranze giovanili, perfino le vecchie paure. Passavano giornate intere senza ch'egli neppure si avvicinasse al cannocchiale, puntato da immemorabile tempo sulla strada del nord.
Ma una sera, mentre da un angolo della locanda tendeva le orecchie a un forestiero, mercante di cavalli, che raccontava meravigliose storie di paesi stranieri, ebbe un soprassalto.
Perché quello a un certo punto disse:
«.... sì, mi ricordo, ero ancora ragazzetto, proprio l'anno che i Saturni sono arrivati qui da voi».
Il Godrin non interloquiva mai, ma stavolta fu più forte di lui: «Scusi, signore», chiese «ma come ha detto»?
L'altro si voltò, stupito: «Ma sì, l'anno che c'è stata l'invasione dei Saturni». E riprese senz'altro il suo racconto.
Troppo sorpreso era il Godrin per avere il coraggio di insistere nelle interrogazioni. D'altra parte, perché dare importanza a un fanfarone di passaggio? Certo aveva parlato a vanvera, facendo una ridicola confusione di date e di nomi.
Un filo di dubbio però gli rimase: come mai, sentendo ricordare una mai avvenuta invasione dei Saturni, gli ascoltatori, tutta gente del luogo che lui conosceva bene di vista, non avevano fiatato?
Così, nei giorni successivi, facendo finta di niente, andò saggiando il terreno qua e là, fermandosi a chiacchierare del più e del meno con lo speziale, col negoziante di sigari, col libraio; come non faceva quasi mai.
Non domande precise, piuttosto allusìvi accenni buttati là quasi per caso. Da cui non ricavò lumi né in un senso né in un altro.
Si risolse allora a visitare Antonio Kalbach, suo vecchissimo professore di greco e di latino, personaggio assai venerato in città per la sapienza e la saggezza, tenuto quasi in fama di oracolo, e consultato, nei momenti più gravi, dagli stessi reggitori dello stato. Da quando aveva finito gli studi, il Godrin non gli aveva mai parlato. E da qualche tempo non lo incontrava più, segno che il valentuomo, agli estremi dell'età, non era più in condizione di muoversi.
Il vegliardo accolse il Godrin con benevolenza. Non sembrò stupirsi della richiesta, si sarebbe detto anzi fosse già al corrente di tutto.
«Tu non sei mai venuto a trovare il tuo antico professore», gli disse,
«eppure io ti ho sempre voluto bene ugualmente. E ti ho anche seguìto da lontano. Povero figliolo mio! Sì, i Saturni sono venuti, per cui tu ti sei dato tanta pena. Sono venuti, sono passati, se ne sono andati».
«Ma, professore, qui in città da almeno sessantacin que anni, da quando io sono nato...
«I Saturni sono venuti», continuò imperterrito il venerando, «e tu, povero figliolo mio, lassù in cima alla tua inutile torre, non ti sei accorto di niente».
«Li avrei pur visti arrivare dalla strada del nord»!
«Non sono venuti dalla strada del nord, e neppure da quella del sud.
Sono usciti in silenzio da sottoterra, hanno saccheggiato, hanno devastato. E
tu, povero figliolo mio, nel tuo onorevolissimo egoismo, non ti sei accorto di niente»!
«comunque me la sono scapolata, no»?
fece il Godrin, un poco piccato. «I Saturni sono venuti, hanno saccheggiato, sono ripartiti. Ma altri sono venuti ancora. Altri Saturni vengono ancora ogni giorno, assaltano, saccheggiano, devastano e ripartono.
Non impazzano con la cavalleria per le strade e le piazze, essi lavorano dentro ciascuno di noi, e fanno strage, se non stiamo più che attenti...»
«Ma io...»
«Ma tu niente. Hanno assalito anche te, hanno devastato anche te, e tu non te ne sei accorto perché guardavi da un'altra parte, a quella stupida strada del nord.
E adesso sei quasi vecchio, povero figliolo mio. E così hai buttato via la tua vita».
Il buon nome
Il conte Attilio Fossadoro, di 74
anni, presidente di sezione di Corte d'appello in pensione, signore oltremodo corpulento, una notte si sentì male forse per avere trasmodato nel mangiare e nel bere.
«Mi sento un po' pesante» disse nell'atto di coricarsi.
«Sfido io», fece la moglie Eloìsa.
«Ci voleva poco a prevederlo. Peggio di un bambino!
L'emerito magistrato si abbandonò di schianto sul letto, supino, a bocca aperta, e non rispondeva più a nessuno.
Era un sonno di piombo dovuto al Barolo o si trattava di un malore?
Anfanava. Lo chiamarono, lo scossero, gli spruzzarono dell'acqua sulla faccia. Niente.
Allora si pensò al peggio. La signora Eloìsa telefonò al medico curante dottor Albrizzi.
A mezzanotte e mezzo il dottore arrivò. Vide, eseguì le auscultazioni, parve rimanere in forse, assunse quell'atteggiamento soave e diplomatico che nei medici non lascia presagire nulla di buono.
In un salottino contiguo, il dottore, donna Eloìsa e i due figli Ennio e Martina, mandati subito a chiamare, confabularono a bassa voce.
La congiuntura si profilava minacciosa. Fu deciso di ricorrere al massimo luminare, al vecchio clinico di celebrità internazionale.
A ottantatré anni suonati, il professore Sergio Leprani era sempre il più autorevole; e di riflesso il più caro.
Non era però una spesaccia che potesse spaventare i Fossadoro.
«Chiamarlo quando? Ma subito»!
intimò donna Eloìsa.
«No, no, a quest'ora non si muove garantito, togliamocelo dalla mente»!
«Per il conte Fossadoro si muoverà, e come! Vuole scommetterci, caro Albrizzi»?
Telefonò infatti, in tono così robusto da sconvolgere le ferree consuetudini del Maestro.
Il quale giunse al palazzo verso le ore due, accompagnato, anzi sostenuto, dal primo dei suoi assistenti, il professore Giuseppe Marasca.
Come il sommo entrò nella camera, il letargo del Fossadoro sembrava essersi fatto ancora più greve; e l'ansimare più stentato.
Sedette ai piedi del letto e lasciò fare al Marasca e all'Albrizzi, i quali gli comunicavano via via i dati: anamnesi, temperatura, cuore, pressione, riflessi, eccetera.
Impassibile, le palpebre abbassate a scopo di concentrazione mentale (o il sonno aveva avuto la meglio?) il Leprani ascoltava senza fare una piega.
Alla fine il Marasca gli si chinò a un orecchio chiamandolo «Maestro»! con uno scoppio di voce sorprendente in quel luogo, in quella circostanza e in quell'ora.
Leprani si riscosse e i tre medici chiesero di poter rimanere soli.
Ma il consulto non durò più di tre minuti. Dopodiché alla contessa che gli chiedeva ansiosamente:«E allora, Maestro»? Leprani rispose: «Signora mia, un minimo di pazienza! Saprà tutto a tempo debito, dal suo medico curante».
E traballando si infilò nell'ascensore.
L'Albrizzi, in compenso, non fece tanto il prezioso.
Con le dovute cautele comunicò senz'altro il perentorio responso del grande: embolo cerebrale, prognosi infausta, nessuna speranza, al massimo ancora una settimana di vita.
Quale non fu la stupefazione dell'Albrizzi il mattino dopo quando si ripresentò a palazzo Fossadoro per avere notizie.
Ida, la governante, gli aprì la porta con un sorriso radioso:
«Tutto bene, dottore, tutto benone!
L'avevo sospettato fin dal primo momento, io, ma potevo forse parlare alla presenza di quei professoroni?
Una solenne bevuta, nient'altro.
In quel momento comparve, gioviale, anche lui, il moribondo.
«Grazie, sa, caro Albrizzi, di tutto il disturbo che stanotte si è preso per me. Mi dispiace proprio... Lo so, lo so, non sono cose che si dovrebbero fare. alla mia età».
«Ma come sta? Come si sente in piedi»?
«Be', la testa un po' vaga, questo sì. Per il resto, proprio niente male.
In questi casi non c'è rimedio che valga una bella dormita.
Stupefazione. Ma anche scandalo. Come il Marasca, primo assistente del Maestro, seppe dall'Albrizzi la
"resurrezione" del Fossadoro, andò su tutte le furie:
è assurdo! ~ inaudito! Il professor Leprani non sbaglia mai, non può sbagliare! Ma ti rendi conto, Albrizzi, di quello che può succedere?
Gliene è andata già
buca una, al Maestro, il mese scorso e se non gli è venuto l'infarto è stato un miracolo. Sei giorni a letto, ha dovuto restare. Un secondo smacco sarebbe fatàle. Lo capisci? Dopo tutto, bestia anche tu a non aver capìto ch'era soltanto una sbronza».
«E tu? E tu, allora»?
«Io, un dubbio, giuro, l'ho avuto. Ma provaci tu a contraddirlo, il Maestro, lo sai che razza di temperamento.
E ormai lui lo ha già dato pubblicamente per cadavere, il Fossadoro».
«Accidenti. E che cosa si può fare»?
«Senti, al Maestro credo che siano dovuti tutti i riguardi possibili, mi capisci? proprio tutti i riguardi!
Andrò io stesso a parlare con la contessa»!
«Per dirle cosa»?
«Lascia fare a me. Niente paura.
Sistemerò le cose per il meglio».
Il Marasca, intrepido arrampicatore universitario, parlò chiaro a donna Eloìsa:
«Qui sta succedendo una cosa gravissima, il professor Leprani ha sentenziato un esito mortale a breve termine e il paziente se ne va in giro per la casa come se niente fosse. Non sarà mica uscito, per caso...»
«Ma, veramente...»
«Domeneddìo, che disastro. Il prestigio di un clinico sommo, invidiatoci dall'estero, messo a repentaglio così!
Non possiamo permetterlo assolutamente».
«Mi dia lei un consiglio, professore».
«Intanto, per prima cosa, persuadere il conte a mettersi a letto, fargli capire che è ammalato, gravemente ammalato».
«Ma se lui si sente bene»!
«No, contessa, questa obiezione da lei non me l'aspettavo. Non si rende conto della delicatezza della situazione? Una vita spesa per la umanità sofferente, una fama conquistata col diuturno lavoro di tanti anni, dovrebbero essere trascinate nel fango»?
«Ma non sarebbe logico che lei parlasse a mio marito»?
«Dio me ne guardi. A quell'età si è così attaccati alla vita... E poi, voglia considerare, mi permetta, anche il buon nome di casa Fossadoro... Se si venisse a sapere la verità, se l'integerrimo magistrato, di illustre famiglia patrizia, diventasse lo zimbello della piazza... Un ubriacone senza freni»!
«Professore, non le permetto...
«Scusi, contessa, ma non è più il caso di fare complimenti. Il professor Leprani deve essere salvato ad ogni costo».
«E cosa dovrebbe fare mio marito?
Scomparire? Togliersi la vita»?
«Questo è affar vostro, contessa. Da parte mia le ripeto: Leprani non sbaglia mai, neanche stavolta può essersi sbagliato... Che diamine, un minimo di riguardo per tanto scienziato!
«Io non so, professore, non capisco...
Personalmente non ho nulla in contrario a mettermi nelle sue mani...
«Brava, contessa. Come del resto me l'aspettavo, con stato in lei un alto concetto della rispettabilità della casata, del decoro sociale... In fondo sarà una cosa semplice...
Somministrare, ad esempio, i cibi adatti... Il conte suo marito, eh, eh, non si farà pregare...
«E la conclusione sarebbe»?
«Il professore Leprani non può essere smentito da chicchessia. ha detto una settimana. Tiriamogli pure il collo, alla sua diagnosi. Vede che in fondo anch'io sono comprensivo. Ma entro quindici giorni, i funerali».
La macchina dell'onore accademico si mise ben presto in moto.
Leprani chiedeva al primo assistente:
«E allora, notizie del vecchio conte?
Sta tirando regolarmente le cuoia»?
E l'assistente: «Lei ha già parlato Maestro.
Tutto secondo le previsioni. Ormai più di là che di qua».
A palazzo Fossadoro, dove il conte coi più ingegnosi pretesti (il freddo, il vento, la umidità, lo smog, un principio di raffreddore) veniva tenuto rinchiuso, urgevano le telefonate di circostanza. La diagnosi di Leprani aveva già fatto il giro della città.
Telefonavano le pompe funebri per la scelta della bara, la preparazione della salma e gli addobbi di rito; il medico comunale per il certificato di morte; il parroco, impaziente di somministrare l'estrema unzione; l'Istituto degli orfanelli per la rappresentanza ai funerali; il fioraio per le corone. E lui, il conte, sempre sano come un grillo.
Al quattordicesimo giorno il professor Leprani cominciò a dar segni di agitazione. «Il terribile vecchio»
domandava «ancora non si è deciso»?
Fu necessaria una iniezione ipotensoria.
Col sangue agli occhi, nel pomeriggio, il professor Marasca si presentò al palazzo Fossadoro accompagnato da due giovani assistenti travestiti da cuochi; e prese possesso della cucina.
Alla sera, grande pranzo familiare per l'onomastico di una nipotina. Tra gli invitati, anche l'implacabile Marasca.
Lavoro, per la verità, eseguito a regola d'arte. Emozione e disturbo ridotti al minimo. Come, al dessert, inghiottì il primo boccone di torta, il conte Attilio Fossadoro restò stecchito, con ancora sulle labbra il beato sorriso di poco prima.
Subito il Marasca telefonò al luminare
«Ancora una volta congratulazioni, Maestro. Or ora il conte ha cessato di vivere».
L'eremita
Nella assolata Tebaide viveva un eremita, di nome Floriano, che di santità non ne aveva mai abbastanza.
In fatto di ascetismo, digiuni, frugalità, rinunce e sacrifici fisici era il primo della classe. Si era ridotto a pelle e ossa. Ciononostante aveva sempre paura di non essere nella grazia di Dio. Tra l'altro lo angustiava il fatto che, a cinquanta anni suonati, un miracolo che fosse un miracolo non era mai riuscito a combinarlo.
Mentre i colleghi, per esempio Ermogene, Calibrio, Euneo, TersagOra, Columetta e Fedo ne potevano enumerare per lo meno una mezza dozzina a testa.
Ora accadde che un giorno fu annunciato l'arrivo, da Roma, di un frate sapientissimo e gran confessore, che faceva il giro dei principali centri monastici della cristianità a spargere la semente del Signore.
Lo si vide comparire al volante di una biposto scoperta e fumava sigarette
«Gitanes» in continuazione ciò che sorprese i pii abitatori di quelle selvatiche spelonche.
Ma le credenziali di cui era munito fugarono ogni perplessità.
Fra BasiliO eresse una su~a tenda a strisce bianche e rosse ai piedi della rupe più alta e cominciò a ricevere i penitenti. Il primo fu Floriano.
Il frate era quanto mai simpatico e gioviale. Non volle assolutamente che Floriano si inginocchiasse, lo costrinse anzi a sedere in una poltroncina di tela pieghevole di tipo sahariano, invitandolo a confidarsi. E
Floriano gli spiegò quale rovello lo tormentasse, nonostante le penitenze sostenute. L'altro, seduto anche lui, lo ascoltava sorridendo e ogni tanto scuoteva il capo.
Come Floriano ebbe finito, l'altro gli domandò:
«Fisso o vagante»?
«Vagante» rispose Floriano con una sfumatura di fierezza.
C'era, infatti, nella Tebaide, una grande differenza tra gli eremiti fissi, che si erano scelti una grotta e da quella non si muovevano, e gli eremiti che invece non avevano stabile dimora, non trascorrevano mai due notti consecutive nel medesimo sito ma si spostavano da una rupe all'altra, sistemandosi in grotte vergini, prive delle più elementari comodità e frequentate spessO da piccole fiere, pipistrelli e serpenti. La vita di questa seconda categoria era ovviamente assai più disagiata e pericolosa.
«E di che ti cibi»?
«Esclusivamente locuste.
«Fresche O disseccate?
«Disseccate».
«Miele, proprio niente»?
«Non ne conosco il sapore» rispose Floriano.
«E usi flagellarti»?
Floriano scostò un lembo del sudicio telone che gli serviva da mantello e gli mostrò la schiena, magrissima, tutta solcata da strisce purpuree.
«Bene» fu il commento del frate che non abbandonava per un istante il suo sorriso, appena appena malizioso.
Quindi si schiarì la voce e cominciò a parlare:
«Il tuo caso è chiarissimo, venerabile eremita. Se tu non avverti, come vorresti, la presenza di Dio in te, il motivo è uno solo: tu, Floriano, sei troppo orgoglioso».
«Orgoglioso io»? fece l'altro stupefatto. «Orgoglioso io che giro scalzo, coperto da una ispida e dura tela, che mi nutro di nauseabondi insetti, che ho per giaciglio notturno gli escrementi degli sciacalli, dei gufi e delle bisce»?
«Per l'appunto, venerabile floriano: quanto piu tu mortifichi e castighi il tuo corpo, tanto più ti senti virtuoso e meritevole di Dio. Se le tue viscere gemono~ se le tue membra
intristiscono, il tuo spirito in compenso si eleva e si espande. E
questo si chiama orgoglio».
«Signore mio»! esclamò, nel suo candore, l'anacoreta sbigottito. «E
che diamine mi resta a fare»?
«facile è umiliare la materia»
declamò fra Basilio che in verità aveva una magnifica faccia di salute.
«Di gran lunga più difficile e meritorio è umiliare l'animo e farlo soffrire, così da guadagnare la misericordia divina».
«È vero, è vero»! fece Floriano che all'improvviso scopriva orizzonti mai concepiti. «E' lo spirito che bisogna castigare, è lo spirito che deve patire»!
«Vedo che mi segui» disse il grande confessore venuto da Roma. «Orbene, dimmi, quale è per l'animo nostro la condizione più dolorosa, più umiliante»?
«Non c'è dubbio, padre mio: nessun maggior dolore che trovarsi in peccato mortale».
«L'hai detto, nobile Floriano.
Solamente il peccato potrà procurarti la necessaria umiliazione; e quanto più infami saranno i tuoi peccati, tanto più acerba sarà l'afflizione dell'animo».
«Ma è orribile»! disse Floriano spaventato.
«Certo è aspra la via che porta alla santità» approvò il frate. «Tu pensavi forse che due frustatine bastassero? Altra, e ben più esosa, è la sofferenza che fa guadagnare il paradiso.
«E come devo fare»?
«Semplice. Obbedire agli stimoli del maligno- Tu, per esempio, vieni mai colto dall'invidia?
«Purtroppo, padre. Quando mi annunciano che un mio collega ha compiuto un nuovo miracolo, sento come un morso nel Cuore. Ma finora, grazie a Dio, l'ho sempre dominato».
«Male, male, venerabile Floriano. Da oggi invece dovrai abbandonarti a questo tristo sentimento, e sprofondarvi. Ancora: quando una bella penitente viene a confessarsi, ti accade di desiderarla»?
«Terribilmente, padre. Ma finora, grazie a Dio, sono sempre riuscito a dominarmi».
«Male, male, venerabile Floriano. Le tentazioni ti sono mandate dal Cielo appunto perché tu te ne lasci travolgere, e ti immerga nel fango, e da questa abiezione tragga lacrime amare».
L'eremita uscì dalla tenda di fra Basilio completamente sconvolto.
Dunque lui aveva sbagliato tutto.
Dunque lui, e i suoi amici della Tebaide, erano degli ingenui provinciali che non avevano capito niente dei sommi misteri. Più ci pensava~ più si rendeva conto che il grande confessore aveva ragione. Altro che masticare cavallette. Superare la nausea del peccato~ ecco la vera prova, ecco il sistema più energico per castigarsi, umiliarsi, patire~
ecco la suprema offerta d'amore all'Onnipotente.
E con lo stesso metodico zelo con cui fino allora aveva punito il proprio corpo, l'eremita cominciò a torturare il proprio animo, peccando. E per avere sempre più lancinanti rimorsi, per realizzare sempre più brucianti angosce, escogitava le azioni più basse e spregevoli. Calunniava i compagni di eremitaggio, rubava dalle cassette delle elemosine, fornicava nottetempo con le peripatetiche del deserto, arrivò perfino a diramare giornalmente ignobili lettere anonime, approfittando delle confessioni ricevute, denunciando ai mariti le mogli adultere, alle spose i mariti infedeli, ai padroni i servi disonesti, ai genitori le figlie viziose. Questa, delle lettere anonime, gli sembrava, giustamente l'azione più sudicia. E in corrispondenza, l'animo suo, buono, ne dolorava immensamente.
Intanto, nella sua ingenuità, gli accadeva di pensare:
come è storto il mondo: si disprezzano e si puniscono i ladri, i traditori, gli strozzini, gli sfruttatori, gli omicidi, e magari si tratta di persone buonissime, di galantuomini sopraffatti da tentazioni più forti di loro, e per questo infelici. Commiserarli, non perseguitarli si dovrebbe, non mandarli alle galere ma coprirli di consolazioni e di onori. Godeva una tale fama di santità, l'eremita Floriano, che le sue nefandezze poterono protrarsi a lungo senza che nessuno ne sospettasse l'autore. Senonché una giovane sposa, per colpa sua sorpresa in flagrante dal marito e ripudiata con pubblica ignominia, giurò a se stessa di scoprire il delatore: sapeva di aver sempre fatto le cose per benino, sapeva anche che al mondo uno solo poteva essere a conoscenza della sua tresca: l'eremita da cui andava a confessarsi. Riuscì quindi ad avere la lettera anonima ricevuta dal marito, riuscì a procurarsi un foglio su cui Floriano, anni addietro, aveva scritto un inno sacro. Fatto il confronto, si convinse. E denunciò il fatto ai magistrati.
Siccome nel Paese vigevano leggi di alta civiltà, le lettere anonime venivano punite con la pena di morte mediante decapitazione. Le prove, nel caso, erano fin troppo evidenti. Un drappello di guardie galoppò alla Tebaide e trasse l'eremita prigioniero.
Al processo~ appunto per esasperare la propria abiezione e dal malfatto ricavare la mortificazione peggiore, Floriano confessò non soltanto di avere scritto la lettera incriminata ma anche tutti gli altri misfatti. Il giorno che il tribunale pronunciò la condanna a morte, il suo cuore, divorato dalla consapevolezza del male compiuto, era come una colomba bianca allo spiedo, sventrata e trapassata da parte a parte; e la disperazione era tale che per la prima volta egli osò pensare di essersi, così, guadagnato veramente il paradiso.
Solo quando, denudato e fustigato a sangue, tra le contumelie della plebaglia scatenata, egli fu tratto al patibolo e, sospinto sul palco, si guardò intorno in una sorta di smarrito rapimento, e ai piedi del palco scorse fra Basilio che lo guardava sogghignando, solo allora finalmente intuì lo spaventoso tranello in cui lo avevano fatto cadere: il grande confessore non era altri che il demonio, il quale adesso avrebbe colto la sua anima disonorata.
Al pensiero, l'ambascia fu più forte di lui e il povero eremita scoppiò in un pianto selvaggio. Naturalmente la gente intorno credette che fosse soltanto vigliacca paura di morire.
Ma stavano già calando sulla piazza le prime ombre della sera. E in quel crepuscolo violetto, allorché la mannàia del boia fu vibrata, intorno alla testa dell'anacoreta che cadeva nel cesto predisposto, fu vista da tutti, distintamente, un'aureola lucente.
Allora colui che si era fatto passare per fra Basilic fuggì, aprendosi a forza un varco tra la folla. Era riuscito nell'impresa mai compiuta prima nella storia del mondo, nell'impresa, per un diavolo, la più disonorevole e assurda fra tutte: quella di portare un uomo alla gloria di Dio a forza di immondi peccati.
«Accidenti», imprecava «è proprio vero: infinite sono le vie del Signore».
Cenerentola
Licia e Micia, gemelle, sette anni, fecero uno scherzo alla sorellastra Cenerentola, che aveva due anni di più.
«Perché non vieni anche tu alla festa, Rentolina»?
diceva Licia.
«Ma sì, perché non vieni anche tu»?
diceva Micia.
Licia e Micia erano due creature deliziose, cariche di vitamine e di superiorità. Cenerentola era meschina, più piccola di loro, una gambetta intristita da polio, e perciò zoppicava.
Cenerentola rispose: «Che ridicolo.
Io non posso.
Io lo so: è una gara di bellezza. Voi due sì, ci credo. Voi due siete belle.
Io sono una minorata».
Disse "minorata" in modo curioso, pieno di misteriosa gravità. Si trattava, infatti, in occasione della Mezza Quaresima, di un concorso di bellezza infantile a favore dei terrazzani dell'Afganistan affetti dalla febbre ricorrente.
Disse Licia: «Non dire sciocchezze, Rentolina. Che importa se zoppichi un poco»?
Disse Micia: «Che cosa importa, Rentolina, basta che tu cammini adagio, nessuno si accorge di niente.
L'importante è la faccia, no»?
Le due piccole gemelle erano molto sviluppate mentalmente, tenuto conto dell'età, compreso il peccato originale.
«E tu, Rentolina, hai una faccia proprio mica male» disse Licia.
Micia fece eco: «Proprio mica male, sicuro. Sai cosa diceva ieri, la signora Cernuschi»?
Cenerentola: «Cosa diceva»?
«Diceva che tu hai un visetto molto spiritoso, proprio così diceva. Diceva che noi due siamo due belle bambine ma tu hai un visetto più spiritoso».
La festa era stata indetta per il sabato di Mezza Quaresima nel padiglione della Mostra retrospettiva del Liberty, eretto nel Parco municipale in stile danese principio di secolo, tutto di finto legno.
Cenerentola pensò: "Come mai queste due pestilenze sono oggi così gentili?
Che cosa sarà successo»? Ma disse seria: «Una bambina minorata non va a una gara di bellezza. Voi due siete piccole e non potete ancora capire certe cose».
Intervenne la mamma, signora Elvira Ravizza, sporgendo il labbro inferiore in quel suo modo caratteristico:
«Cosa ti metti in mente, Rentolina?
Licia e Micia hanno ragione. Certo che tu devi andare alla festa».
«E che vestito metto»? chiese Cenerentola guardandola con espressione mista di speranza e di paura.
«Puoi mettere il vestito che ti ho fatto fare per il compleanno. E' un capo magnifico. Con quello che è costato»!
Cenerentola pensò: "Forse io le ho giudicate male, forse sono più buone di quello che pensavo. In fondo, forse, mi vogliono bene". Si alzò dalla sedia.
Passando dinanzi allo specchio gettò un'occhiata. Arrossì. Un viso spiritoso? Sì, sì, era vero. Peccato quel nasetto così lungo. Pomeriggio di marzo. Il sole entrava attraverso le tende di mussola.
Anche le automobili, fuori, mandavano un rumore di primavera. Nel cielo passarono alla rinfusa nuvole di forme strane, accartocciandosi. Ma nessuno, nella città, guardava in su, nessuno le vide.
Il padiglione in finto legno della Mostra del Liberty ha una grande sala centrale. Nel mezzo, da una parte all'altra, una passerella soprelevata.
Ai lati, la folla di signore e di bambini, seduti e in piedi, l'attesa, l'eccitazione della festa. La giuria siede al termine della pedana: dame altolocate, personalità della cultura, dell'arte, del giornalismo. I fotografi scattano flashes a mitraglia.
Ogni volta che una bambina compare all'inizio della passerella, l'orchestrina manda uno squillo d'attenti, gli applausi scrosciano, i volti si illuminano di sorrisi pieni di benignità. Come è facile sentirsi buoni di fronte a tanta innocenza. Non sono commoventi? Con inverosimile civetteria ripetono le mosse, gli ancheggiamenti, le smorfiette, le malizie corporali imparate alla televisione. Licia e Micia, in calzamaglia a strisce verdi e gialle, avanzano insieme. Un signore coi baffi si alza in piedi gridando «brave»!
tanta è la provocazione.
Ma il ritmo della sfilata ha una pausa.
Ci deve essere stato un intoppo, una esitazione, si nota un nervoso movimento, laggiù, all'inizio della passerella.
Finalmente Cenerentola compare.
Indossa un vestitino di lana bianca con due bande verticali azzurre, senza maniche e senza cintura, le calze bianche, le scarpette nere di vernice, i capelli bruni sciolti sulle spalle.
Lo squillo dell'attenti
dall'orchestra. Adagio, Cenerentola!
Fa un passo, due passi, pallidissima, con uno sforzo di sorriso. L'applauso di saluto arretra, sfaldandosi in magri battimani sbigottiti, qua e là.
La bambina si ferma, benché la musica cerchi di incoraggiarla. Le denutrite piccole braccia nude hanno un tremito.
Poi una voce infantile: «Oh, ecco la zoppetta»!
Altri due passi lentamente. Si fa un maledetto silenzio, nonostante l'orchestra. Adesso sono in tre, quattro, cinque che gridano insieme:
«Dài, dà, zoppetta»!
Chi si è messo a ridere per primo? Un bambino o una mamma? E' stata Licia? O
le due gemelle insieme? O il demonio, in una delle prime file, travestito da bonario paterfamilias?
«Dài, dài! Coraggio zoppetta»!
Adesso sono in trenta quaranta a gridare. E ridono, ridono, che scherzo spiritoso, che buffissimo. Deliziosa è la voluttà del male altrui quando si è in tanti e ci si sente compagni nel contagio. Anche se è in gioco una bambina con una gamba rattrappita.
Diamine, si è qui alla festa per divertirsi, no? Perché non ride anche lei? Però, dico, sua mamma non ha proprio un briciolo di cervello?
L'intera sala zeppa di gente è una sola selvaggia risata.
E che cosa le prende adesso, a quella stupidella? Rentolina ha ripreso la marcia sulla passerella, non più lentamente. Ora zampetta con precipitazione, i piedi fanno tic toc, in diseguale scalpitìo, comici più che mai.
Poi tende le braccia davanti, come cercando un appoggio, una salvezza, un pietoso abbraccio che non esiste. E si mette a correre. Correre? Uno sconnesso scalpitìo nella
disperazione, tra l'ilarità generale, frenetica.
A due metri dal termine della passerella, inciampa, stramazzando a capofitto nella buca. Fragile tonfo.
Ossicini teneri e dolenti.
In quel momento preciso, - e nessun tecnico ha mai saputo spiegare il perché, - dalla base del padiglione, per l'intero perimetro, il fuoco divampò.
Il finto legno delle strutture in realtà era vero legno; ciò per l'economia. Fu un rogo.
Era già calata la sera. Il parco venne illuminato a giorno dal mostruoso falò. E il cielo caliginoso sopra la città divenne un baldacchino di porpora.
L'ingresso al padiglione, sospeso su di un sistema di piloni, era costituito da un'ampia scalinata, anch'essa di cosiddetto finto legno, che si apriva sinuosamente a ventaglio appunto in stile Liberty.
Giù per questa scalinata, attraverso la crepitante barriera di fuoco dietro la quale la folla si contorceva con urla orrende invocando un impossibile soccorso, il sergente Onofrio Crescini dei vigili del fuoco, uno dei primi accorsi, giura di avere visto scendere una bambina con un vestito bianco a bande verticali azzurre e le calze pure bianche. Sembrava assolutamente tranquilla, dice, come se le vampe non la toccassero.
Il sergente racconta pure che la bambina aveva grandi occhi neri e, mentre scendeva adagio giù per gli scalini, guardò intensamente lui, Crescini.
Incurante del pericolo, egli si gettò in suo aiuto.
Come le fu dappresso, all'inizio della scala in fiamme, fece per afferrarla.
Ma l'immagine svanì. E le mani del Crescini annasparono nell'aria.
Nel medesimo istante, con uno spaventoso boato nel quale si confondevano gli spasimi umani e lo schianto delle cose, il padiglione giustamente sprofondò.
Che accadrà il 12 ottobre?
Tardo pomeriggio del prossimo 12 ottobre in Val Serà (Carnia).
Il cielo sarà coperto, un gelido vento scenderà dalle montagne. Il sole sarà tramontato o starà per tramontare, infatti la luce del giorno dileguerà rapidamente.
Le campane del piccolo paese di Strut avranno già suonato per il vespro.
Una grande pace regnerà sulla campagna, rare le automobili sulla provinciale, muti i cani dei casolari.
In silenzio passeranno anche gli ultimi gruppi di corvi diretti ai loro nidi, sulle piante in riva al fiume.
Nella vecchia casa di famiglia in cima a una collinetta boscosa, il professore di storia del diritto italiano Luigi Splitteri, 43 anni, ancora in vacanza estiva, avrà acceso il fuoco nel caminetto e, seduto in poltrona, starà consultando un grosso libro rilegato, probabilmente una enciclopedia o una raccolta di rivista giuridica.
Una tardiva mosca, con la appiccicosa e probabilmente disperata insistenza delle mosche che si sentono prossime a morire a motivo dell'inverno sopraggiungente, continuerà a posarsi sulla fronte, sul naso e sulle mani del professore, il quale ogni volta la scaccerà con un rapido gesto di stizza, quasi istintivo.
Continuando la persecuzione, lo Splitteri, deposto il volume, prenderà un giornale e lo arrotolerà a formare una specie di asta, con cui ammazzare la mosca.
Riprenderà quindi sulle ginocchia il volume, nella destra stringendo il giornale arrotolato, pronto a colpire.
Contrariamente a quanto ritengono gli scienziati, non è che la struttura degli atomi componenti la materia assomigli vagamente a un sistema planetario: ogni atomo in realtà è un sistema planetario~ rispetto a noi infinitamente piccolo~ con un sole, i pianeti che gli girano intorno ed eventualmente vari satelliti.
Proprio all'ultima estremità della seconda zampa destra della mosca che starà tormentando il professore~ c'è un atomo il cui sistema solare comprende un pianeta abitato da esseri identici a noi.
Anche il pianeta su cui vive il professore Splitteri potrebbe appartenere a un sistema solare costituente un atomo della zampa di una mosca in un universo di grado superiore.
A sua volta, il pianeta dove vive questa seconda ipotetica mosca, -
grande evidentemente come miliardi di galassie, - potrebbe far parte di un sistema solare costituente un atomo della zampa di una terza mosca di un ulteriore universo.
Come possiamo escluderlo? Di mosca in mosca, per così dire, ci si può smarrire ~ di universi sempre più giganteschi, la dimensione dei quali è tanto grande da non poter essere espressa non dico da cifre ma neppure da formule umane.
Ma torniamo nella sala di soggiorno della vecchia casa dove il professore Splitteri sarà disturbato dalla mosca d'autunno. In questa stanza si avvererà un avvenimento senza precedenti non solo nella storia del mondo ma nella storia del cosmo universale. E staranno per decidersi eventi di incalcolabile importanza.
Molti scienziati, sulla base di considerazioni statistiche, ritengono che esistano, nell'universo, centinaia o per lo meno decine di migliaia di pianeti abitati da esseri uguali o simili all'uomo.
Ciò non è vero. Il pensare che, se si verificano condizioni ambientali uguali a quelle che videro prodursi la razza umana, debba presto o tardi venire alla luce una creatura come noi, è puerile ingenuità. Condizioni di quel genere possono determinarsi milioni di volte senza che per questo debba comparire l'uomo. Nasceranno i battèri, le amebe, i tardigradi, i celenterati, gli insetti, i rettili, i mammiferi, le balene, gli elefanti, i cavalli, le scimmie parlanti, perfino i cani boxer che sono tra le invenzioni più felici del creato.
Ma l'uomo no.
L'uomo infatti è una imprevista anomalìa verificatasi nel corso del processo evolutivo della vita, non il risultato a cui l'evoluzione doveva necessariamente portare.
E' mai concepibile infatti che l'officina della natura mettesse determinatamente in circolazione un animale nello stesso tempo debole, intelligentissimo e mortale cioè inevitabilmente infelice? Fu una specie di sbaglio, un caso quasi inverosimile che ragionevolmente non ha motivo di ripetersi in nessuno dei pianeti, - ce ne sono forse miliardi di miliardi di miliardi, - i quali presentano condizioni ambientali uguali alla Terra.
Eppure il fenomeno-uomo, per quanto sia difficile a credersi, si è verificato una seconda volta.
Vale a dire che nell'universo degli universi esiste non uno bensì due pianeti, dalle medesime
caratteristiche morfologiche, abitati dall'uomo.
Il primo è quello dove vive il professore Splitteri.
L'altro, infinitamente più piccolo, è quello che gira nell'atomo
all'estremità della seconda zampa destra della mosca che sta tormentando il detto professore.
E' intuitivo che nel primo pianeta, che chiameremo convenzionalmente A, il tempo corre con ritmo di gran lunga più lento che nel secondo microscopico pianeta, che chiameremo Z. Parimenti il corso della vita di un paramecio è molto più veloce che non quello di un elefante. Nel tempo, poniamo, impiegato dal professore Splitteri per accendere una sigaretta, sul pianeta Z
trascorrono intere giornate e forse mesi. Eppure, per una combinazione tanto singolare da far pensare a un intervento divino, la comparsa e la evoluzione della umanità sul pianeta Z, quello piccolissimo, dove il tempo vola a precipizio, si compiono in modo da poter coincidere con l'evoluzione del pianeta A precisamente la sera del prossimo 12 ottobre in quel di Strut.
Si resta davvero perplessi, per la tentazione di non credere, di fronte a due coincidenze così favolose: la prima per la presenza nello stesso punto dell'universo, cioè la casa Splitteri a Strut, dei due soli pianeti abitati dall'uomo che esistano nell'intero universo; la seconda per la contemporaneità del grado di evoluzione delle due umanità la sera del prossimo 12 ottobre.
Vale a dire che sia sul pianeta A sia sul pianeta Z in quel momento gli uomini hanno raggiunto il medesimo livello di progresso e si occupano delle medesime cose: il pericolo atomico, i tentativi spaziali, la lotta contro la fame, il movimento
"beat". Sia su A sia su Z, trionfo dei capelloni.
Non solo: la sera del 12 ottobre anche sul pianeta Z - quello contenuto nell'atomo della zampa di mosca, -
ci saranno un professore di nome Splitteri seduto accanto al fuoco in una casa di campagna presso un paese chiamato Strut, e magari anche una mosca che lo infastidirà (in nessun atomo di questa mosca, tuttavia, ci sarà un pianeta abitato da animali come noi perché le umanità sono soltanto due nell'intero universo).
Naturalmente, data la diversa velocità nel flusso del tempo, quando il professore avrà finito di consultare il suo libro può darsi che gli abitanti del pianeta Z abbiano già raggiunto coi loro razzi il loro satellite, risolto il problema della fame, trovato il rimedio contro i tumori. Insomma è probabile che l'umanità Z, la quale corre più svelta, terminerà il suo ciclo molto prima di quella A. Ciò, a meno di imprevisti.
Intanto la mosca, che nella zampina porta il pianeta Z carico di "homines sapientes", si sarà posata su un ginocchio del professore, il quale l'avvisterà subito e lentamente alzerà il giornale per ammazzarla. Quando l'avrà ammazzata, dato che è un maniaco della pulizia, prenderà delicatamente la vittima per le alucce e la butterà nel fuoco purificatore.
A questo punto tutti voi intenderete, immagino, l'estrema importanza dell'episodio, a prima vista di scarso rilievo.
Il problema è questo: io che scrivo e voi che leggete apparteniamo all'umanità A oppure all'umanità Z?
Siamo cioè dei colleghi del professore Splitteri (il primo che abbiamo considerato), o viviamo invece nell'interno della zampa della mosca persecutrice?
Non è una questione indifferente. Nel primo caso, la nostra sorte non verrebbe affatto modificata. Nel secondo caso, al contrario, la mosca morta cadendo tra le braci ardenti, violente perturbazioni avverranno nell'intimità della materia che la compone. ~ probabile che cataclismi siderali sconvolgano l'interno degli atomi, con la distruzione fulminea dell'intero secondo genere umano.
E quindi di noi stessi, se per caso ne facciamo parte.
Il dilemma è grave. Eppure non possiamo risolverlo.
Ci è rigorosamente negato di capire se viviamo in un mondo o nell'altro. Per saperlo, dobbiamo aspettare il 12 ottobre
Se tra le migliaia di animali che vengono giornalmente tratti al macello, si trovasse un maiale, o un vitello, dotato di intelligenza mostruosa, pari, se non superiore, a quella di Platone, di Leonardo da Vinci, di Einstein, come potrebbe rivelarla a noi, e così salvarsi? Come potremmo noi esserne informati? Tenuto prigioniero nella stalla fin dalla nascita, sprovvisto completamente di addestramento e di istruzione, non ha avuto la sensibilità di apprendere neppure i rudimenti della nostra lingua, così da poter eventualmente imitarla con grugniti, muggiti, o altro. Né i rozzi uomini preposti al suo allevamento dapprima, quindi al suo trasporto, infine alla sua uccisione, sono in grado di avvertire quei minimi segni (battiti regolari con le zampe, lamenti ritmati, gesti di supplica) con cui il geniale quadrupede forse ha chiesto e chiede mercè. Meravigliose luci della natura che, se scoperte e curate, potrebbero arricchire e forse salvare il mondo, vanno così miseramente e brutalmente distrutte.
Il patito sociale
E' una creatura spiritualmente eletta.
Ama l'umanità conculcata e sofferente, partecipa con dedizione ai suoi dolori.
Egli non è stato conculcato, anzi, la fortuna è stata prodiga con lui, per aspetto fisico, salute, censo, posizione sociale. Ciò, intendiamoci, accresce il suo merito. Di notte stenta a prendere sonno, oppure si risveglia di oprassalto> oppresso appunto da quel pensiero filantropico: le afflizioni del popolo angustiato dalle ingiustizie. A motivo di questo grande amore, egli è costretto a odiare intensamente. E mentre ciò che ama è una massa indifferenziata e senza volto, ciò che egli odia sono invece delle persone precise, con nome e cognome, secondo lui complici, consapevoli o no, delle predette ingiustizie: amici, vicini di casa, colleghi, specialmente colleghi di successo. L'odio, si intende, è tanto più intollerante e velenoso quanto più egli è conscio della nobiltà dei propri sentimenti; e diventa il suo precipuo interesse quotidiano, consolazione, sostegno e scopo della vita. Tutto a causa del cosiddetto peccato originale che, salvo interventi contrari della grazia, porta l'uomo ineluttabilmente al male e alla perfidia, anche se si tratta di un uomo così altruista e moralmente elevato.
Il sapone magico
Un pubblicitario di talento, incaricato di pianificare una campagna promozionale per un nuovo tipo di sapone, propose, anziché i consueti imbonimenti iperbolici che possono colpire il pubblico ma non essere creduti per la stessa loro esagerazione, il seguente slogan: uno, su diecimila saponi X, procura un fascino irresistibile.
(Dopodiché si spiegava come il sapone magico fosse contraddistinto da uno speciale piccolo bollo d'oro). Bene.
La stessa discrezione dell'annunzio lo rendeva plausibile. La gente infatti ci ha creduto, questa fede, irraggiantesi da migliaia e migliaia di sconosciuti, convergeva su quelle pochissime saponette col bollìno, e le saponette acquistavano un reale potere. Una di esse fu comperata per puro caso da una ragazza che faceva servizio a ore in casa di una mia cugina. Non si poteva dire brutta, ma scialba e insignificante sì; inoltre aveva un curioso naso sottile a punta che la faceva assomigliare a un fenicottero. Quell'acquisto fortunato fece naturalmente le spese di una quantità di chiacchiere divertite. In un minuscolo ambiente, la giovane cameriera diventò per qualche tempo un personaggio. E, fosse una reale virtù arcana della saponetta, fosse la invincibile forza della suggestione, nel giro di un mese la squallida servetta si trasformò in un fiore delizioso.
Oggi è una delle fotomodelle più pagate di Parigi.
La nuvola
La sera del 28 aprile, - per motivi di ordine pubblico in Francia si è preferito insabbiare la notizia -
sopra la modesta elevazione del Monte Gimont (Alta Marna), non lungi da Colombey-les-Deux-Eglises, fu osservata una grande nube che raffigurava, con inconfondibile precisione~ la testa del generale De Gaulle, quel giorno stesso ritiratosi per sempre dalla scena politica e trasferitosi alla celebre sua residenza di campagna.
Il sopraggiungere del buio impedì registrazioni fotografiche e ulteriori osservazioni sul decorso del fenomeno.
D'altra parte, poche persone notarono il singolare spettacolo, poiché la stragrande maggioranza degli uomini tiene gli sguardi fissi alla terra e non al cielo. Si sarebbe potuto pensare a un caso di autosuggestione, se all'indomani, sopra una delle ultime propaggini meridionali dei Vosgi, la nuvola De Gaulle non fosse ricomparsa verso le undici del mattino: per circa dieci minuti la somiglianza fu perfetta, poi le sembianze si dissolsero. L'espressione era solenne e malinconica, ma dolce; nessun cipiglio militaresco, nessuna caparbia smania di rivincita. Ecco: quasi che il generale volesse compiere un'ultima ispezione alla sua patria, lo straordinario ammasso di vapori si è riprodotto successivamente in varie contrade francesi: per esempio, sulle Montagnes du Lomont (Besançon), sul Puy de Dome (Clermont Ferrand), sul Signal de Sauvagnac (Limoges).
La eminente nube ha continuato il suo
" tour » anche dopo la partenza di De Gaulle per l'Irlanda. Gli ultimi avvistamenti provengono dall'Ile-de-Re e da una zona di mare circa ottanta miglia a nord-ovest di Brest.
Qui il generale indossava il berretto e si vedeva anche una mano che salutava militarmente. Come se fosse l'estremo addio prima del definitivo
trasferimento nel mito.
Delicatezza
In un certo paese la pena di morte viene somministrata con grande delicatezza. Ecco un esempio: Una volta divenuta esecutiva la sentenza, prima che gli sia comunicata la data della esecuzione, il reo, -
supponiamo si chiami Ernesto Troll, tappezziere, uxoricìda con veleno, -
viene condotto, senza manette, alla direzione delle carceri.
Qui lo si fa accomodare nello studio del direttore, in una comoda poltrona.
Gli offrono sigarette, caffè, caramelle, quindi gli inservienti escono, lasciando soli il direttore e il condannato.
Il direttore comincia a parlare:
«Dunque, signor Troll, lei è stato condannato a morte. È però mio dovere rassicurarla. Avvertirla cioè come, in un certo senso, si tratti di una condanna più che altro teorica».
«Teorica?
«Teorica, sì. Perché la morte in realtà non esiste».
«Come sarebbe a dire non esiste»?
«Non esiste, voglio dire, come pena, come castigo, come fatto tragico, motivo di paura e di angoscia. Sul tema, regnano nel mondo pregiudizi insensati. Lasciamo pure da parte la sofferenza fisica che, per lo meno nel suo caso, signor Troll, è fuori discussione, data la perfezione dei nostri impianti» e abbozza un sorrisetto diplomatico. «Io parlo del dolore morale, ingiustamente temuto, come spero di poterle dimostrare.
«Vediamo un po': perché l'uomo ha paura di morire? La risposta è fin troppo semplice. L'uomo ha paura perché, dopo morto, non potrà più vivere, cioè fare, vedere, ascoltare, eccetera, tutte le cose che faceva in vita. E ciò gli dispiacerebbe immensamente. Ma per, poter provar dolore è necessario, conditio sine qua non, essere vivi. Quindi chi è morto non soffre più, non può avere neppure rimpianti, nostalgie e afflizioni del genere. In parole povere, una volta avvenuto il decesso, l'uomo non può dolersi di essere morto. Morale: l'aspetto negativo della morte, che generalmente incute tanto terrore, è una stolta illusione».
Ribatte il signor Troll: «Lei ha un bel dire, signor direttore. Ma il brutto della morte non è soltanto il non poter più fare le cose che si facevano da vivi. C'è anche il dispiacere di lasciare per sempre tante persone care».
«Bravo! Anche questo dispiacere, ragazzo mio, lei non potrà più provarlo, appunto perché sarà morto.
«E poi, signor direttore, chi le dice che dopo la morte non ci sia più niente»?
«L'aspettavo al varco, signor Troll.
Una obiezione più che giustificata.
Appunto qui veniamo al nocciolo del problema».
«La ascolto, signor direttore».
«Bene. Eèvidente che i casi sono due: o dopo la morte c'è una seconda vita purchessìa, oppure dopo la morte non c'è niente. Chiaro, direi, elementare. Ora facciamo l'ipotesi che lei...
«Ma, veramente io...
«Solo una ipotesi, ripeto, la quale non pregiudica quelle che possono essere le sue convinzioni personali.
Supponiamo Cioè che lei, signor Troll, non creda nell'aldilà. In questo caso, se lei trova una seconda vita, avrà una bellissima sorpresa, a tutto suo vantaggio; e non avrà motivo di lamentarsi. Ovvio che il rimpianto delle persone care dovute abbandonare sarà di gran lunga attenuato dalla certezza che anch'esse, un giorno o l'altro, potranno raggiungerla. In più c'è il conforto di ritrovare, di là, congiunti ed amici già scomparsi in precedenza».
«Beh, adagio coi congiunti...»
«Ah, mi scusi...» fa il direttore che si è dimenticato di avere a che fare con un uxoricìda. «Comunque, fin qui mi sembra che non ci possano essere obiezioni. Adesso consideriamo l'altra eventualità. Che cioè dall'altra parte non ci sia nulla. Ma proprio perché non c'è nulla, e il nulla implica che anche lei non esista più, lei non ha la possibilità di rendersene conto, come abbiamo già visto. Insomma, nessun dispiacere.
Ecco perché la consueta disperazione di quelli che non hanno fede è priva di qualsiasi serio costrutto».
«Io però, signor direttore, non è che sia così scettico. Io ho anzi la sensazione che...»
«Benissimo. Consideriamo ora l'uomo che crede nell'aldilà. Intanto è logico che, proprio a motivo ditale persuasione~ egli affronti la morte con una serenità notevole. Orsù, seguiamolo nell'atto di varcare il famoso confine. Egli avanza, è passato, si guarda intorno, si accorge di esistere ancora, in forma completamente diversa magari, ma di esistere. La sua fiducia è stata ricompensata, si sente consolato, e, spoglio di ogni peso materiale, può anche darsi trovi la felicità inutilmente cercata sulla terra.
«Ed eccoci per la seconda volta di fronte alla ipotesi negativa. L'uomo che crede nell'aldilà muore e di là non c'è niente. Ma ciononostante il conto torna; egli non viene, per così dire, frodato di nulla, non c'è stato tempo e modo per la delusione. Ragione per cui, sono con lei, caro signor Troll: la fede, comunque, sarà sempre un ottimo affare».
«Una scommessa a colpo sicuro, no»?
«Vedo che abbiamo letto Pascal. Me ne compiaccio.
Ma per chiarirle ancor meglio le idee perché non facciamo una prova»?
«Una prova come»?
«Una specie di rappresentazione simbolica, una finzione quasi teatrale, una esemplificazione plastica, una specie di gioco.
«E io, che cosa dovrei fare»?
Il direttore preme il pulsante del citofono. Dall'apparecchio una voce gracchia: «Comandi, signor direttore».
«Mandatemi subito la Fiorella».
Il condannato è inquieto: «Signor direttore, mi sembra di aver diritto di sapere: in che cosa consiste questa rappresentazione? Spero che non si tratti di uno scherzo».
«Macché scherzo. Lo scopo è di tranquillizzarla. Finora abbiamo fatto soltanto delle parole. E le parole contano quello che contano, io il primo a riconoscerlo.
Questo, che adesso faremo, è un esperimento pratico.
Pensi ai voli spaziali. Prima del lancio, i cosmonauti vengono chiusi nella capsula perché si rendano conto, si abituino, prendano confidenza con l'ambiente. Ma la capsula non parte, non c'è pericolo di sorta. Così lei.
Questa prova, le ripeto, le schiarirà le idee sulla sua vera situazione.
Dopo, le assicuro, si sentirà molto meglio. Lei non ha che da... Ah, ecco qui la nostra brava Fiorella».
Eèntrata una ragazza sui vent'anni, splendida e procàce, con gonne cortissime e generosa scollatura. Una immagine addirittura incredibile nel carcere della morte.
«Ritengo superflue le presentazioni»
osserva il direttore rivoltO al condannato. «La nostra fiorella è esperta di queste piccole finzioni sceniche. La nostra fiorella, nel nostro caso, simboleggia, anzi si può dire incarna la seconda vita. E
appunto perciò adesso sì ritira... A ben vederci, Fiorella...»
La ragazza esce non senza aver rivolto al condannato uno sfrontato sorriso, e perfino strizzato l'occhio.
Direttore e reo sono di nuovo soli.
«E questa Fiorella»? chiede il signor Troll facendo un gesto oltremodo espressivo.
Il direttore ride: «Ma sì, ma sì, naturalmente, se è il caso... Lei adesso capirà come la cosa è semplice.
Vede quella porta? Lei non ha che da aprirla e passare di là, nell'altra stanza. Ora può darsi che di là ci sia buio; e il buio significherebbe il nulla. Ma può anche darsi che di là ci sia Fiorella che l'aspetta... Non è una allegorìa ben trovata?
«Ma dico, se trovo il buio, io...»?
«Lei niente, caro signor Troll. In questo caso, visto che non c'è niente, lei buono buono ritorna qui nel mio ufficio... Tutto qui. Elementare, no?
Ora penso che di là tutto sia già pronto».
«E chi decide? Voglio dire chi stabilisce se far buio o farmi trovare la ragazza? Lo decide lei, signor direttore»?
«Assolutamente no. È la ragazza che decide. E la Fiorella è la creatura più imprevedibile di questo mondo.
Insomma, coraggio. Vogliamo provare»?
A passi non molto sicuri il condannato si alza, si avvicina alla porta, con precauzione irnpugna la maniglia, la gira lentamente, spinge con estrema cautela il battente, intravede una lama di luce, uno spiraglio, un risplendere roseo di carni.
In questo preciso istante, da una minuscola feritoia ben mascherata aperta in una parete dello studio, un tiratore scelto fulmina il signor Troll con un colpo alla nuca.
Il medico delle feste
Non è poi tanto semplice fare il medico delle feste.
Intanto ci chiamano nelle ore più sgangherate della notte. Alzarsi, vestirsi, mettersi in cammino al buio, magari col gelo, i briganti, la pioggia. Di giorno, quando i cristiani lavorano, mai. Quasi mai.
Una volta infatti, saranno sei anni fa, mi hanno chiamato alle due del pomeriggio. Era per una festa lontana.
Su, in Val di Genova, sotto i ghiacciai. Molto lontana. Una festa di cacciatori d'orsi, nel casino di caccia del conte Essàlide. Con la moto io arrivo che già sta calando la sera.
Cosa succede? Chiedo. Due si erano messi a litigare di politica, si erano presi a pugni. Ma adesso tutto era ormai appianato. Bel gusto fare tanta strada per niente, col cuore in gola.
«Be'» dice Essàlide «non se la prenda, dottore, anche se ha fatto il viaggio per niente, resti qui a mangiare con noi». Allora sono rimasto, benché i cacciatori non mi siano mai piaciuti; a chi possono piacere gli assassini?
Per fortuna, ci si era appena seduti a tavola, che quei due hanno
ricominciato ad altercare, e questa volta anche gli altri si sono messi di mezzo, in pochi minuti è stato l'inferno. Il conte Essàlide mi guardava con occhi imploranti che dicevano: "Dottore, dottore, tocca a lei levarmi da questo guaio". Al che, io ho avuto un lampo di genio, -
all'università un caso del genere non si era mai studiato, - e mi sono messo a gridare: «Al fuoco! al fuoco! Si salvi chi può»! Nello stesso tempo, per dare verosimiglianza alla cosa, ho appiccato un incendio che in meno di un'ora ha distrutto l'intero casino di caccia e bruciate vive diciannove persone (cacciatori); con piena soddisfazione dell'ospite, il quale era ampiamente assicurato.
Ma di solito noi medici delle feste lavoriamo di notte, fino alle ore piccole, fino a giorno inoltrato. Si galoppa nel buio con le nostre motociclette potenti perché nessuno della specialità, - e ignoro il motivo,
- adopera l'automobile. Per esempio al palazzotto dei Drusi, sposi giovani e brillanti, desiderosi di successi sociali. Hanno commesso lo sbaglio dell'inesperienza, per dare lustro alla loro prima festa hanno invitato il fior fiore della città, personaggi d'altissimo livello, molto più importanti di loro; i quali leoni e tigri naturalmente si divertono a snobbare la giovane coppia che per di più ha l'imperdonabile colpa di essere molto bella. Insomma: come se i due manco esistessero, se non per pagare il banchetto, le musiche, i regali, i preziosi vini. Lui, l'avvocato Drusi, mi aspetta sulla soglia coi capelli scompigliati dal vento. E io: «Dal tono della telefonata ho già intuìto la situazione. Sai, il fiuto clinico. Ora sta su allegro, guarda chi sta arrivando». Giusto dietro di me cammina infatti un pullman notturno di lusso con i valletti e le bandiere e ne discendono re regine principi principesse cantanti e calciatori di massimo rango, ed è per questo che le mie prestazioni talora costano così care.
Cosicché i signori dentro, che si davano tante arie, restano stesi piatti dai nuovi arrivati. E la festa procede a un trionfo meraviglioso.
Oppure mi chiama verso la una di notte il vecchio amico Giorgio Califano, protettore delle arti. ha dato una festa in onore di Puta Legrenzi, l'attricetta, suo ultimo grande amore.
Appena arrivo, capisco che il nome della bellissima in realtà ha due t, la proterva ragazzina si diverte a fare impazzire di gelosia il facoltoso, ma io devo far finta di non capire. «Ciao Giorgio» gli dico
«che succede»? «Ti giuro che per me è un mistero» risponde. «Ho radunato qui tutta la meglio canaglia della città, eppure la serata langue, guardala un poco se non è completamente sgonfia e marcia». Io guardo ma non è vero niente, mi sembra anzi una notte riuscitissima, le donne quasi tutte giovani~ con spiccata personalità carnale, anche gli uomini cotti al punto giustO e scatenati. «E poi lei, la Putina, se ne è andata» aggiunge lui come se fosse un particolare trascurabile. «Se ne è andata perché»? «E' chiaro. Perché ne aveva piene le scatole». Ma io l'ho già intravista, la squinzia, in un ridotto del giardino~ dietro una piramide di bosso, che si lascia tampinare da uno. Tutt'intorno, musica, allegria, spensieratezza, delirio. E lui mi dice «Allora, dottore, me la puoi aggiustare o no la serata»? «Se ne sta su bella dritta da sola, la serata, meglio di così non si potrebbe. Sei tu che non funzioni, dentro. Tu, saresti da aggiustare. Ma io sono soltanto un medico delle feste.
Ci vuol altro, per un cuore malconcio come il tuo. Neppure Barnard. Neppure il gran penitenziere delle coscienze universali. Soltanto il tempo, quello con la clessidra e la barba bianca.
Ma in questi casi, lui che di regola viaggia come il vento, diventa una lumaca. Ciao».
Il cliente più di soddisfazione è una cliente, la Leontina Delhorne, sulle cui fragili spalle una vedovanza e due divorzi hanno depositato chi dice una quarantina~ chi una cinquantina di miliardi. Spiritosa, vivacissima, snob, e meravigliosamente infelice come riescono ad esserlo soltanto i miliardari, non ha un ubi consistam, condannata a passare senza tregua da una città all'altra, da un continente all'altro, restar ferma tre giorni in un posto per lei significando la morte civile. Perciò, quando dà una festa, mette in azione il suo treno privato composto di una vettura salone da ballo, una vettura comfort con ristorante, bagni, sala di ginnastica, e una vettura alcova per chi sente il bisogno di appartarsi. E via, per due, tre, quattro giorni, anche attraverso le frontiere, senza fermarsi mai, il che è una disperazione per i tecnici che devono organizzare i percorsi e gli orari.
In quanto a me, Leontina mi vuole a bordo appunto per il terrore di eventuali fermate. E' successo una sola volta, alla periferia di Zagabria~ per un guasto alla linea dovuto ad alluvione. Per radio ci hanno avvertito che dovevamo pazientare dalle quattro alle cinque ore. Erano le tre di notte. Subito Leontina è entrata in crisi, aggrappandosi alle mie spalle. Io ho chiesto mezz'ora di tempo. Per fortuna in quei paraggi disponevo di qualche buon
addentellato. Già Leontina stava per entrare in convulsioni quando dal buio circostante, ben istruita da me, è emersa una banda di hippies, armati di pugnali e pistole. In men che non si dica sono balzati sul treno, hanno spogliato i viaggiatori fin dell'ultima lira o catenina d'oro, abusando, si intende, di tutte le presenti, compresa Leontina. La quale ha concepito per me una eterna gratitudine.
Di norma, purtroppo, noi medici delle feste possiamo fare poco. Ecco la fatidica chiamata verso le due, quando la vitalità dell'uomo tocca il limite più basso. Ecco la palazzina, ecco il giardino privato, ecco il ritmo convulso della musica nella tepida notte di giugno. I padroni di casa, desolati. Si accorgono che la festa ha cominciato a perdere colpi, troppe coppie si sono appartate negli stanzini e nei corridoi, il complesso beat è ormai slombato, almeno una decina di ospiti se l'è filata all'inglese, e si avverte prossima~ nell'aria, la triste ora dei ringraziamenti e degli addii.
Il dovere del medico è di dare coraggio al malato. Io sento il polso, ausculto, mi tengo benevolmente sulle generali: «Non mi sembra, cara signora, che ci sia da preoccuparsi. Gli ospiti hanno un'aria vispa, sembrano divertirsi da pazzi. Il fatto che qualcuno giaccia per terra o sui divani, mi creda, è un sintomo confortante anziché no».
Ma dalla cima di un platano l'upupa manda il suo richiamo e dalle incalcolabili lontananze della pianura giunge un lungo lamentoso fischio di treno; il quale è segno fatàle. Che posso fare? Attizzare i musicanti con un esborso, polverizzare qua e là con lo spray un infuso drogato? Si potrebbe, certo, ma con che profitto?
Ahimè, il tempo all'improvviso si è messo a correre a precipizio. Il disfacimento si accelera. Che posso fare? Pallida, la padrona di casa mi fa un gesto con la mano, per dire: Birichino, ti rifiuti dunque di aiutarmi? Non oso risponderle. Da quella parte, dietro gli alberi, se si osserva con attenzione, il cielo non è più nero come pochi minuti fa. E un soffio d'aria gelida ha fatto ondeggiare un poco le foglie.
Rombano, di là delle siepi, le auto che si mettono in moto per rincasare.
La grande tavola del buffet devastata e deserta, l'ultimo cameriere sparito.
Solo quattro spettri si ostinano a scuotersi e divincolarsi nello shake sotto il palco della musica ormai al lumicino.
Che possO fare? Del mio imbarazzo si rende conto anche la padrona di casa, in piedi accanto a me sul ciglio della scalinata a salutare gli amici. A questo punto! si ode un rotolìO da strade remote, come un affanno, che, sale. Nel cono di luce delle lampade si sparpagliano, ancora incerti, i primi fiocchi di neve.
«Però» dice con una strana voce «è stata una bellissima festa. Vero»?
«sì. Una festa indimenticabile».
«Penso non ce ne saranno molte altre, come questa».
Mi guardo intorno. «Lo penso anch'io», rispondo.
L'ultimo ospite partito. Scomparso anche il padrone di casa. I domestici spengono le luci. Bicchieri per terra, pasticcini per terra, sigari, cicche, disordine, sporco, l'indomani, la vacuità del domani, la stanchezza, la nausea.
Adesso è veramente sola. Visibile alla prima gelida luce del giorno.
Una bellissima festa. Ma da laggiù in fondo si avvicina un garrulo suono di campanella. Attraverso le fronde si intravede qualcosa di bianco che si muove, qualcosa di rosso: come una cotta sacerdotale, per esempio, come un ombrello di broccato cremisi.
~ un piccolo regalo per lei?
Storielle d'auto
Che curiosa impressione mi fa (certe sere tra amici, discorsi abbandonati a ruota libera, stupidi forse), sentir parlare di automobili come se fossero semplicemente automobili, marca tipo cilindrata ripresa tenuta di strada freni prestazioni velocistiche eccetera, che noia, come se fossero cose, macchinismi, e non altro.
Invece.
Maschio o femmina?
Da noi si dice auto, femminile, in francese pure è donna, però è maschio in Germania, idem nel vasto comprensorio inglese. La nostrana femminilità dipende, mi puniscano i filologi se sbaglio, dal fatto che automobile è aggettivo riferito a "macchina" o
"vettura", poi sostantivato. Ma se da noi si facesse un referendum popolare il risultato riuscirebbe incerto. Gli italiani la (o lo) vedono maschio per la forza dirompente nella ripresa e nei sorpassi, per il maschile divoramento dei chilometri, per l'ascendente - discendente ormai -
esercitato sulle ragazzine sprovvedute quando si pilota una (uno?) spavalda super. Però donna quando lui preme il piede destro a destra, e la sente sottomessa e schiava facendola rimbalzare, sulle curve, dalla quarta in terza dalla terza in quarta bruscamente, e lei si assoggetta e gode (almeno sembra) e si dona con elasticità in tutte le sue risorse viscerali, così, per fargli piacere.
Cabala del CK
Poco nota ancora al grande pubblico, -
e finora non sostenuta da una seria documentazione statistica, - è stata elaborata la teoria che certe percorrenze, contrassegnate da particolari numeri, sono negative al guidatore. Esempio elementare: "punte"
di massima pericolosità si avrebbero in corrispondenza ai cosiddetti numeri omogenei segnati dal contachilometri (CK), come 1111, 11111, 2222, 22222 e così via; mentre alcuni, ingenui, amano veder comparire al finestrino del cruscotto quelle cifre tutte uguali. Questo l'abc della dottrina.
Gli astrologhi sono intervenuti con molte sottili implicazioni. Se uno, poniamo~ è nato il 7 maggio 1932 farà bene a stare attento quando il cruscotto sta per segnare 7532, o 75932. Se uno ha compiuto 47 anni, usi la maggiore circospezione quando compaiono i multipli della cifra: ogni 47 chilometri dovrebbe procedere con le orecchie alzate.
Subentrano le manie: rallentare al massimo e avanzare col fiato sospeso quando sta per scattare il quadrato, o il cubo, della propria età. Entrano in gioco, naturalmente, anche le persone a bordo. C'è chi, prima di invitare un amico o conoscente a prender posto, si informa dei suoi dati anagrafici ed esegue i relativi computi col regolo calcolatore. I "puri" della scuola sono pervenuti a una casistica talmente vasta e raffinata da coprire praticamente quasi tutti i numeri dal 2 all'infinito. Dopodiché hanno venduto la macchina, viaggiano in treno, in città si spostano a piedi, e stanno sempre meglio di salute.
Sensibilità dei semafori
Avrete notato, negli incroci dove passate normalmente, come di volta in volta vari il comportamento dei semafori. Candidamente, i preposti al traffico cittadino sono convinti che quegli ordigni luminosi obbediscano alle pure e semplici leggi fisiche e meccanicamente eseguano gli ordini ricevuti: cosicché, se regolati a tenere acceso il verde per quindici secondi, ogni volta quindici secondi saranno. Illusi. I semafori sono spesso dotati di una sensibilità arcana, affatto ignota a chi li fabbrica; e avvertono a distanza, nelle cateratte di macchine che convergono su di loro, se c'è qualche caso interessante.
L'automobilista ansioso, in ritardo, preoccupato di far presto e di non perdere un secondo, è la vittima favorita. Quanto più lui ha fretta, tanto più il semaforo è maligno e, a costo di trasgredire le più elementari norme di disciplina, anticipa fulmineamente lo scatto del rosso così da sbarrargli la strada. Dopodiché prolunga con scandaloso arbitrio la durata del "no" fino a due, tre volte la dose normale. L'automobilista impreca, digrigna i denti e alle volte impazzisce.
Mimetismo
Altro fenomeno non abbastanza studiato dalle case costruttrici, le quali forse potrebbero arrivare a controllarlo, stimolandolo o frenandolo a seconda dei casi: l'auto, in genere, tende ad imitare chi la guida, e ad
assomigliargli anche fisicamente. Non bastano certo pochi chilometri di frequentazione. Soltanto dopo qualche settimana la macchina comincia ad adeguarsi, assumendo anche
nell'aspetto virtù o difetti del pilota. Cosicché capita di capire subito, guardando una vettura che ci precede, indipendentemente dalla sua velocità, proprio per l'espressione complessiva, che il guidatore è un tipo pigro, lento nei riflessi, tardo a rimettersi in moto, amante della buona tavola, incerto nelle situazioni urgenti e spinose. All'inverso, dalla grinta che assume - e magari si tratta della stessa marca, dello stesso modello, dello stesso colore, - si riconosce l'auto che è nelle mani di uno dei tanti bulli spadroneggianti, -
adesso meno di una volta, per fortuna
- sulle strade d'Italia.
Solitudine!
L'esasperazione nevrastenica del furibondo scatenamento del traffico intorno, quella rabbiosa macina, catastrofico incombere di selvaggi camion bestioni stritolatori, alle spalle incalzati da feroci occhiaie ammiccanti. Via, via, basta con questo inferno. Alla periferia, alla campagna, all'aria pura, al silenzio.
Non basta. Centinaia, migliaia di chilometri, e ancora imperversano le belve.
Via, via, ai limiti del mondo abitato.
Più avanti ancora.
Sì, nel deserto di sabbia piatto e incontaminato, dove dall'epoca della creazione non è mai passata anima viva.
Liberazione. A perdita d'occhio non vedere neanche un topino delle piramidi. Non c'è più bisogno, grazie a Dio, di specchio retrovisore.
Finalmente lui, o lei, si ferma.
Che solitudine, che pace. Con un sospiro di indicibile sollievo apre la portiera per discendere. Un ciclista, che procede nello stesso senso, va a sbatterci contro malamente.
Barboni
Nottetempo i camposanti delle macchine, nei prati incolti di là del casello del dazio, non hanno bisogno di custode, si sa. Chi ruberebbe? Neppure il ladro più disperato risponderebbe a simile offerta di lavoro, neanche se morto di fame.
Perché di notte, quei ruderi, carcasse, defunti carrozzoni senza più ruote né motori, si risvegliano, ed è raro che non vengano a lite. Quasi sempre, anzi, scendono alle vie di fatto. Non c'è peggior dolore... Ultima consolazione infatti, prima del definitivo obbrobrio e annientamento, essi raccontano ai compagni di sventura i propri anni felici. E nel rimpianto cocentissimo ciascuno si esalta inventando fasti e glorie inverosimili, padroni altolocati e famosi, viaggi alla Terra del Fuoco, crociere a velocità supersoniche.
Gli altri allora lo sbeffeggiano, lui risponde, si scontrano, schianti penosi di lamiere si spandono per la squallida e deserta contrada.
Mi ricordo, una dozzina di anni fa, in un prato in fondo a viale Fulvio Testi, dove portavo a far correre i cani, di avere conosciuto un vecchio
"clochard" ancora ben portante. Come gli rivolsi la parola, subito cominciò a raccontarmi che sua madre, ricchissima, era stata regina di Niguarda e girava con una carrozza d'argento; poi erano arrivati i tedeschi (sic) e la famiglia aveva perso fin l'ultimo centesimo. Sua mamma, aggiungeva, era famosa in tutta la Lombardia. A questo punto due altri barboni seduti sull'erba un po'
discosti hanno cominciato a ridere e a emettere lunghi fischi da mandriano.
Al che lui, rosso di rabbia, gli si è gettato contro. Erano tutti e tre oltre i cinquanta. Eppure non ho mai visto in vita mia darsene tante.
Fantasma del passato
Che fine è toccata alla famosa macchina blu elettrico, decapottabile, a due posti, che abbiamo avuto tanti anni fa, che abbiamo desiderata, comperata, amata, coccolata, vezzeggiata, e poi crudelmente abbandonata per prenderne un'altra più giovane e più bella? Ogni volta si ha l'illusione di un vincolo profondo, come tra vecchi amici, destinato a durare per sempre, e il pensiero rifugge dal momento, che pur si sa presto o tardi inevitabile, in cui ce ne dovremo sbarazzare. Poi, con rapidità imprevista, il momento viene, si vuotano i ripostigli del cruscotto, si accompagna la infelice dal rivenditore e la temuta lacerazione sentimentale non avviene, per noi è oramai una cosa morta, sulla soglia non ci voltiamo neppure indietro per un'ultima occhiata d'addio. E le avevamo voluto tanto bene! Che fine avrà fatto? Nelle mani di un negriero che l'ha sfruttata brutalmente portandola anzitempo al cimitero? O di un signore d'alto sentire che l'ha rimessa a nuovo, anzi arricchita di ogni possibile belluria, cosicché oggi è annotata nel Gotha dell'antiquariato internazionale? No, non era tipo tanto chic da poter sedurre un esteta. Sarà discesa di parallelo in parallelo, come capita, fino al profondo polveroso sud, e qui avrà goduto una sorta di seconda amara giovinezza.
Poi anche lei
Troppo tempo è passato. Non ne rimarrà neanche una fetta di lamiera. Eppure, di quando in quando, là dove si addensano le folle, ai grandi quadrivi, ai terminali d'autostrada, sui viadotti babelici, ci par di intravederla, un po' sbrindellata ed acciaccata, però sempre di colore blu, sempre snella, col suo bel musetto impertinente.
Ah, il rimorso. Come avvicinarsi, come chiamarla? Ma è già sparita. Un'ombra.
La torre
Al tempo delle grandi invasioni, un giovane e ricco cittadino, di nome Giuseppe Godrin, si costruì, ai limiti settentrionali della città, una altissima torre, con una camera in cima, dove trascorrere la maggior parte delle giornate.
Di lassù poteva dominare per lungo tratto la strada che portava al nord, in direzione delle montagne dove passava il confine.
Molti popoli bellicosi e nomadi scorrazzavano allora per il mondo, portando la guerra~ i massacri e la distruzione. Ma temuta più di tutti era l'orda dei Saturni, contro i quali nessun esercito regolare, schierato in difesa della patria~ aveva mai resistito.
Ebbene, il Godrin fin da ragazzo era assillato da questa paura e si era fatta costruire la torre appunto per poter essere il primo a dare l'allarme.
L'arma più pericolosa dei Saturni era infatti la sorpresa. Essi piombavano sulle città inavvertiti, al galoppo sfrenato. E pure le milizie più valorose non facevano in tempo a serrare i ranghi. In quanto alle mura di cinta, erano maestri, quei barbari, nello scalarle, per alte e lisce che fossero.
Grazie alla visibilità che si godeva dalla sommità della sua torre, il Godrin non solo sarebbe stato il primo a segnalare tempestivamente l'incursione, ma avrebbe potuto prepararsi a combattere, - così diceva,
- con grande anticipo su tutti gli altri. Aveva a questo scopo acquistato una grande quantità di armature, spade, lance, schioppi e colubrine. E
nel cortile sottostante alla torre, tre volte alla settimana, faceva esercitare i numerosi famigli all'uso delle armi.
La gente, quando l'edificazione della torre fu a buon punto e
l'incastellatura del cantiere già sovrastava tutti gli edifici della città, cominciò a sussurrare che il Godrin fosse un poco tocco. Da oltre un secolo i barbari invasori non si erano più fatti vivi. I Saturni, poi, erano una storia della notte dei tempi, piuttosto leggendaria, ed era probabile~ secondo il parere di molti, che non esistessero più.
Non mancavano poi i maligni: il Godrin non si era fatta la torre per poter essere il primo alla battaglia, ma per avere tutto il tempo necessario a nascondersi.
E insinuavano ch'egli si fosse costruito, nel sottosuolo della torre, un rifugio inespugnabile, con provviste d'acqua e di cibi sufficienti per un assedio di parecchi anni.
Nessuno però seppe darne la prova.
Con l'andar del tempo, tuttavia, non vi si fece più caso e i pettegolezzi cessarono. Era un periodo di pace, la città godeva una vita prosperosa e tranquilla. Il Godrin, che apparteneva a una delle famiglie più in vista, partecipava di quando in quando ai trattenimenti e alle feste della bella società, ma per lo più conduceva una esistenza ritirata, non cessando di scrutare dal suo osservatorio, con un potente cannocchiale, la strada del nord: da cui non scendevano che pacifiche vetture, carriaggi di merci, greggi di pecore e solitari viandanti.
Alla sera poi, quando calavano le tenebre e le osservazioni dovevano essere interrotte, il Godrin, prima di coricarsi, scendeva a una vicina locanda, trattenendosi a bere un'acquavite e ad ascoltare i racconti dei viaggiatori di passaggio.
Così passarono gli anni con velocità spaventosa e il Godrin un giorno si trovò ad essere un vecchio, e per risalire i quattrocentotrentotto ripidi gradini della sua torre dovette per la prima volta farsi aiutare dai servitori.
Con le forze, gli era venuto meno anche lo spirito di intraprendenza, anche le speranze giovanili, perfino le vecchie paure. Passavano giornate intere senza ch'egli neppure si avvicinasse al cannocchiale, puntato da immemorabile tempo sulla strada del nord.
Ma una sera, mentre da un angolo della locanda tendeva le orecchie a un forestiero, mercante di cavalli, che raccontava meravigliose storie di paesi stranieri, ebbe un soprassalto.
Perché quello a un certo punto disse:
«.... sì, mi ricordo, ero ancora ragazzetto, proprio l'anno che i Saturni sono arrivati qui da voi».
Il Godrin non interloquiva mai, ma stavolta fu più forte di lui: «Scusi, signore», chiese «ma come ha detto»?
L'altro si voltò, stupito: «Ma sì, l'anno che c'è stata l'invasione dei Saturni». E riprese senz'altro il suo racconto.
Troppo sorpreso era il Godrin per avere il coraggio di insistere nelle interrogazioni. D'altra parte, perché dare importanza a un fanfarone di passaggio? Certo aveva parlato a vanvera, facendo una ridicola confusione di date e di nomi.
Un filo di dubbio però gli rimase: come mai, sentendo ricordare una mai avvenuta invasione dei Saturni, gli ascoltatori, tutta gente del luogo che lui conosceva bene di vista, non avevano fiatato?
Così, nei giorni successivi, facendo finta di niente, andò saggiando il terreno qua e là, fermandosi a chiacchierare del più e del meno con lo speziale, col negoziante di sigari, col libraio; come non faceva quasi mai.
Non domande precise, piuttosto allusìvi accenni buttati là quasi per caso. Da cui non ricavò lumi né in un senso né in un altro.
Si risolse allora a visitare Antonio Kalbach, suo vecchissimo professore di greco e di latino, personaggio assai venerato in città per la sapienza e la saggezza, tenuto quasi in fama di oracolo, e consultato, nei momenti più gravi, dagli stessi reggitori dello stato. Da quando aveva finito gli studi, il Godrin non gli aveva mai parlato. E da qualche tempo non lo incontrava più, segno che il valentuomo, agli estremi dell'età, non era più in condizione di muoversi.
Il vegliardo accolse il Godrin con benevolenza. Non sembrò stupirsi della richiesta, si sarebbe detto anzi fosse già al corrente di tutto.
«Tu non sei mai venuto a trovare il tuo antico professore», gli disse,
«eppure io ti ho sempre voluto bene ugualmente. E ti ho anche seguìto da lontano. Povero figliolo mio! Sì, i Saturni sono venuti, per cui tu ti sei dato tanta pena. Sono venuti, sono passati, se ne sono andati».
«Ma, professore, qui in città da almeno sessantacin que anni, da quando io sono nato...
«I Saturni sono venuti», continuò imperterrito il venerando, «e tu, povero figliolo mio, lassù in cima alla tua inutile torre, non ti sei accorto di niente».
«Li avrei pur visti arrivare dalla strada del nord»!
«Non sono venuti dalla strada del nord, e neppure da quella del sud.
Sono usciti in silenzio da sottoterra, hanno saccheggiato, hanno devastato. E
tu, povero figliolo mio, nel tuo onorevolissimo egoismo, non ti sei accorto di niente»!
«comunque me la sono scapolata, no»?
fece il Godrin, un poco piccato. «I Saturni sono venuti, hanno saccheggiato, sono ripartiti. Ma altri sono venuti ancora. Altri Saturni vengono ancora ogni giorno, assaltano, saccheggiano, devastano e ripartono.
Non impazzano con la cavalleria per le strade e le piazze, essi lavorano dentro ciascuno di noi, e fanno strage, se non stiamo più che attenti...»
«Ma io...»
«Ma tu niente. Hanno assalito anche te, hanno devastato anche te, e tu non te ne sei accorto perché guardavi da un'altra parte, a quella stupida strada del nord.
E adesso sei quasi vecchio, povero figliolo mio. E così hai buttato via la tua vita».
Il buon nome
Il conte Attilio Fossadoro, di 74
anni, presidente di sezione di Corte d'appello in pensione, signore oltremodo corpulento, una notte si sentì male forse per avere trasmodato nel mangiare e nel bere.
«Mi sento un po' pesante» disse nell'atto di coricarsi.
«Sfido io», fece la moglie Eloìsa.
«Ci voleva poco a prevederlo. Peggio di un bambino!
L'emerito magistrato si abbandonò di schianto sul letto, supino, a bocca aperta, e non rispondeva più a nessuno.
Era un sonno di piombo dovuto al Barolo o si trattava di un malore?
Anfanava. Lo chiamarono, lo scossero, gli spruzzarono dell'acqua sulla faccia. Niente.
Allora si pensò al peggio. La signora Eloìsa telefonò al medico curante dottor Albrizzi.
A mezzanotte e mezzo il dottore arrivò. Vide, eseguì le auscultazioni, parve rimanere in forse, assunse quell'atteggiamento soave e diplomatico che nei medici non lascia presagire nulla di buono.
In un salottino contiguo, il dottore, donna Eloìsa e i due figli Ennio e Martina, mandati subito a chiamare, confabularono a bassa voce.
La congiuntura si profilava minacciosa. Fu deciso di ricorrere al massimo luminare, al vecchio clinico di celebrità internazionale.
A ottantatré anni suonati, il professore Sergio Leprani era sempre il più autorevole; e di riflesso il più caro.
Non era però una spesaccia che potesse spaventare i Fossadoro.
«Chiamarlo quando? Ma subito»!
intimò donna Eloìsa.
«No, no, a quest'ora non si muove garantito, togliamocelo dalla mente»!
«Per il conte Fossadoro si muoverà, e come! Vuole scommetterci, caro Albrizzi»?
Telefonò infatti, in tono così robusto da sconvolgere le ferree consuetudini del Maestro.
Il quale giunse al palazzo verso le ore due, accompagnato, anzi sostenuto, dal primo dei suoi assistenti, il professore Giuseppe Marasca.
Come il sommo entrò nella camera, il letargo del Fossadoro sembrava essersi fatto ancora più greve; e l'ansimare più stentato.
Sedette ai piedi del letto e lasciò fare al Marasca e all'Albrizzi, i quali gli comunicavano via via i dati: anamnesi, temperatura, cuore, pressione, riflessi, eccetera.
Impassibile, le palpebre abbassate a scopo di concentrazione mentale (o il sonno aveva avuto la meglio?) il Leprani ascoltava senza fare una piega.
Alla fine il Marasca gli si chinò a un orecchio chiamandolo «Maestro»! con uno scoppio di voce sorprendente in quel luogo, in quella circostanza e in quell'ora.
Leprani si riscosse e i tre medici chiesero di poter rimanere soli.
Ma il consulto non durò più di tre minuti. Dopodiché alla contessa che gli chiedeva ansiosamente:«E allora, Maestro»? Leprani rispose: «Signora mia, un minimo di pazienza! Saprà tutto a tempo debito, dal suo medico curante».
E traballando si infilò nell'ascensore.
L'Albrizzi, in compenso, non fece tanto il prezioso.
Con le dovute cautele comunicò senz'altro il perentorio responso del grande: embolo cerebrale, prognosi infausta, nessuna speranza, al massimo ancora una settimana di vita.
Quale non fu la stupefazione dell'Albrizzi il mattino dopo quando si ripresentò a palazzo Fossadoro per avere notizie.
Ida, la governante, gli aprì la porta con un sorriso radioso:
«Tutto bene, dottore, tutto benone!
L'avevo sospettato fin dal primo momento, io, ma potevo forse parlare alla presenza di quei professoroni?
Una solenne bevuta, nient'altro.
In quel momento comparve, gioviale, anche lui, il moribondo.
«Grazie, sa, caro Albrizzi, di tutto il disturbo che stanotte si è preso per me. Mi dispiace proprio... Lo so, lo so, non sono cose che si dovrebbero fare. alla mia età».
«Ma come sta? Come si sente in piedi»?
«Be', la testa un po' vaga, questo sì. Per il resto, proprio niente male.
In questi casi non c'è rimedio che valga una bella dormita.
Stupefazione. Ma anche scandalo. Come il Marasca, primo assistente del Maestro, seppe dall'Albrizzi la
"resurrezione" del Fossadoro, andò su tutte le furie:
è assurdo! ~ inaudito! Il professor Leprani non sbaglia mai, non può sbagliare! Ma ti rendi conto, Albrizzi, di quello che può succedere?
Gliene è andata già
buca una, al Maestro, il mese scorso e se non gli è venuto l'infarto è stato un miracolo. Sei giorni a letto, ha dovuto restare. Un secondo smacco sarebbe fatàle. Lo capisci? Dopo tutto, bestia anche tu a non aver capìto ch'era soltanto una sbronza».
«E tu? E tu, allora»?
«Io, un dubbio, giuro, l'ho avuto. Ma provaci tu a contraddirlo, il Maestro, lo sai che razza di temperamento.
E ormai lui lo ha già dato pubblicamente per cadavere, il Fossadoro».
«Accidenti. E che cosa si può fare»?
«Senti, al Maestro credo che siano dovuti tutti i riguardi possibili, mi capisci? proprio tutti i riguardi!
Andrò io stesso a parlare con la contessa»!
«Per dirle cosa»?
«Lascia fare a me. Niente paura.
Sistemerò le cose per il meglio».
Il Marasca, intrepido arrampicatore universitario, parlò chiaro a donna Eloìsa:
«Qui sta succedendo una cosa gravissima, il professor Leprani ha sentenziato un esito mortale a breve termine e il paziente se ne va in giro per la casa come se niente fosse. Non sarà mica uscito, per caso...»
«Ma, veramente...»
«Domeneddìo, che disastro. Il prestigio di un clinico sommo, invidiatoci dall'estero, messo a repentaglio così!
Non possiamo permetterlo assolutamente».
«Mi dia lei un consiglio, professore».
«Intanto, per prima cosa, persuadere il conte a mettersi a letto, fargli capire che è ammalato, gravemente ammalato».
«Ma se lui si sente bene»!
«No, contessa, questa obiezione da lei non me l'aspettavo. Non si rende conto della delicatezza della situazione? Una vita spesa per la umanità sofferente, una fama conquistata col diuturno lavoro di tanti anni, dovrebbero essere trascinate nel fango»?
«Ma non sarebbe logico che lei parlasse a mio marito»?
«Dio me ne guardi. A quell'età si è così attaccati alla vita... E poi, voglia considerare, mi permetta, anche il buon nome di casa Fossadoro... Se si venisse a sapere la verità, se l'integerrimo magistrato, di illustre famiglia patrizia, diventasse lo zimbello della piazza... Un ubriacone senza freni»!
«Professore, non le permetto...
«Scusi, contessa, ma non è più il caso di fare complimenti. Il professor Leprani deve essere salvato ad ogni costo».
«E cosa dovrebbe fare mio marito?
Scomparire? Togliersi la vita»?
«Questo è affar vostro, contessa. Da parte mia le ripeto: Leprani non sbaglia mai, neanche stavolta può essersi sbagliato... Che diamine, un minimo di riguardo per tanto scienziato!
«Io non so, professore, non capisco...
Personalmente non ho nulla in contrario a mettermi nelle sue mani...
«Brava, contessa. Come del resto me l'aspettavo, con stato in lei un alto concetto della rispettabilità della casata, del decoro sociale... In fondo sarà una cosa semplice...
Somministrare, ad esempio, i cibi adatti... Il conte suo marito, eh, eh, non si farà pregare...
«E la conclusione sarebbe»?
«Il professore Leprani non può essere smentito da chicchessia. ha detto una settimana. Tiriamogli pure il collo, alla sua diagnosi. Vede che in fondo anch'io sono comprensivo. Ma entro quindici giorni, i funerali».
La macchina dell'onore accademico si mise ben presto in moto.
Leprani chiedeva al primo assistente:
«E allora, notizie del vecchio conte?
Sta tirando regolarmente le cuoia»?
E l'assistente: «Lei ha già parlato Maestro.
Tutto secondo le previsioni. Ormai più di là che di qua».
A palazzo Fossadoro, dove il conte coi più ingegnosi pretesti (il freddo, il vento, la umidità, lo smog, un principio di raffreddore) veniva tenuto rinchiuso, urgevano le telefonate di circostanza. La diagnosi di Leprani aveva già fatto il giro della città.
Telefonavano le pompe funebri per la scelta della bara, la preparazione della salma e gli addobbi di rito; il medico comunale per il certificato di morte; il parroco, impaziente di somministrare l'estrema unzione; l'Istituto degli orfanelli per la rappresentanza ai funerali; il fioraio per le corone. E lui, il conte, sempre sano come un grillo.
Al quattordicesimo giorno il professor Leprani cominciò a dar segni di agitazione. «Il terribile vecchio»
domandava «ancora non si è deciso»?
Fu necessaria una iniezione ipotensoria.
Col sangue agli occhi, nel pomeriggio, il professor Marasca si presentò al palazzo Fossadoro accompagnato da due giovani assistenti travestiti da cuochi; e prese possesso della cucina.
Alla sera, grande pranzo familiare per l'onomastico di una nipotina. Tra gli invitati, anche l'implacabile Marasca.
Lavoro, per la verità, eseguito a regola d'arte. Emozione e disturbo ridotti al minimo. Come, al dessert, inghiottì il primo boccone di torta, il conte Attilio Fossadoro restò stecchito, con ancora sulle labbra il beato sorriso di poco prima.
Subito il Marasca telefonò al luminare
«Ancora una volta congratulazioni, Maestro. Or ora il conte ha cessato di vivere».
L'eremita
Nella assolata Tebaide viveva un eremita, di nome Floriano, che di santità non ne aveva mai abbastanza.
In fatto di ascetismo, digiuni, frugalità, rinunce e sacrifici fisici era il primo della classe. Si era ridotto a pelle e ossa. Ciononostante aveva sempre paura di non essere nella grazia di Dio. Tra l'altro lo angustiava il fatto che, a cinquanta anni suonati, un miracolo che fosse un miracolo non era mai riuscito a combinarlo.
Mentre i colleghi, per esempio Ermogene, Calibrio, Euneo, TersagOra, Columetta e Fedo ne potevano enumerare per lo meno una mezza dozzina a testa.
Ora accadde che un giorno fu annunciato l'arrivo, da Roma, di un frate sapientissimo e gran confessore, che faceva il giro dei principali centri monastici della cristianità a spargere la semente del Signore.
Lo si vide comparire al volante di una biposto scoperta e fumava sigarette
«Gitanes» in continuazione ciò che sorprese i pii abitatori di quelle selvatiche spelonche.
Ma le credenziali di cui era munito fugarono ogni perplessità.
Fra BasiliO eresse una su~a tenda a strisce bianche e rosse ai piedi della rupe più alta e cominciò a ricevere i penitenti. Il primo fu Floriano.
Il frate era quanto mai simpatico e gioviale. Non volle assolutamente che Floriano si inginocchiasse, lo costrinse anzi a sedere in una poltroncina di tela pieghevole di tipo sahariano, invitandolo a confidarsi. E
Floriano gli spiegò quale rovello lo tormentasse, nonostante le penitenze sostenute. L'altro, seduto anche lui, lo ascoltava sorridendo e ogni tanto scuoteva il capo.
Come Floriano ebbe finito, l'altro gli domandò:
«Fisso o vagante»?
«Vagante» rispose Floriano con una sfumatura di fierezza.
C'era, infatti, nella Tebaide, una grande differenza tra gli eremiti fissi, che si erano scelti una grotta e da quella non si muovevano, e gli eremiti che invece non avevano stabile dimora, non trascorrevano mai due notti consecutive nel medesimo sito ma si spostavano da una rupe all'altra, sistemandosi in grotte vergini, prive delle più elementari comodità e frequentate spessO da piccole fiere, pipistrelli e serpenti. La vita di questa seconda categoria era ovviamente assai più disagiata e pericolosa.
«E di che ti cibi»?
«Esclusivamente locuste.
«Fresche O disseccate?
«Disseccate».
«Miele, proprio niente»?
«Non ne conosco il sapore» rispose Floriano.
«E usi flagellarti»?
Floriano scostò un lembo del sudicio telone che gli serviva da mantello e gli mostrò la schiena, magrissima, tutta solcata da strisce purpuree.
«Bene» fu il commento del frate che non abbandonava per un istante il suo sorriso, appena appena malizioso.
Quindi si schiarì la voce e cominciò a parlare:
«Il tuo caso è chiarissimo, venerabile eremita. Se tu non avverti, come vorresti, la presenza di Dio in te, il motivo è uno solo: tu, Floriano, sei troppo orgoglioso».
«Orgoglioso io»? fece l'altro stupefatto. «Orgoglioso io che giro scalzo, coperto da una ispida e dura tela, che mi nutro di nauseabondi insetti, che ho per giaciglio notturno gli escrementi degli sciacalli, dei gufi e delle bisce»?
«Per l'appunto, venerabile floriano: quanto piu tu mortifichi e castighi il tuo corpo, tanto più ti senti virtuoso e meritevole di Dio. Se le tue viscere gemono~ se le tue membra
intristiscono, il tuo spirito in compenso si eleva e si espande. E
questo si chiama orgoglio».
«Signore mio»! esclamò, nel suo candore, l'anacoreta sbigottito. «E
che diamine mi resta a fare»?
«facile è umiliare la materia»
declamò fra Basilio che in verità aveva una magnifica faccia di salute.
«Di gran lunga più difficile e meritorio è umiliare l'animo e farlo soffrire, così da guadagnare la misericordia divina».
«È vero, è vero»! fece Floriano che all'improvviso scopriva orizzonti mai concepiti. «E' lo spirito che bisogna castigare, è lo spirito che deve patire»!
«Vedo che mi segui» disse il grande confessore venuto da Roma. «Orbene, dimmi, quale è per l'animo nostro la condizione più dolorosa, più umiliante»?
«Non c'è dubbio, padre mio: nessun maggior dolore che trovarsi in peccato mortale».
«L'hai detto, nobile Floriano.
Solamente il peccato potrà procurarti la necessaria umiliazione; e quanto più infami saranno i tuoi peccati, tanto più acerba sarà l'afflizione dell'animo».
«Ma è orribile»! disse Floriano spaventato.
«Certo è aspra la via che porta alla santità» approvò il frate. «Tu pensavi forse che due frustatine bastassero? Altra, e ben più esosa, è la sofferenza che fa guadagnare il paradiso.
«E come devo fare»?
«Semplice. Obbedire agli stimoli del maligno- Tu, per esempio, vieni mai colto dall'invidia?
«Purtroppo, padre. Quando mi annunciano che un mio collega ha compiuto un nuovo miracolo, sento come un morso nel Cuore. Ma finora, grazie a Dio, l'ho sempre dominato».
«Male, male, venerabile Floriano. Da oggi invece dovrai abbandonarti a questo tristo sentimento, e sprofondarvi. Ancora: quando una bella penitente viene a confessarsi, ti accade di desiderarla»?
«Terribilmente, padre. Ma finora, grazie a Dio, sono sempre riuscito a dominarmi».
«Male, male, venerabile Floriano. Le tentazioni ti sono mandate dal Cielo appunto perché tu te ne lasci travolgere, e ti immerga nel fango, e da questa abiezione tragga lacrime amare».
L'eremita uscì dalla tenda di fra Basilio completamente sconvolto.
Dunque lui aveva sbagliato tutto.
Dunque lui, e i suoi amici della Tebaide, erano degli ingenui provinciali che non avevano capito niente dei sommi misteri. Più ci pensava~ più si rendeva conto che il grande confessore aveva ragione. Altro che masticare cavallette. Superare la nausea del peccato~ ecco la vera prova, ecco il sistema più energico per castigarsi, umiliarsi, patire~
ecco la suprema offerta d'amore all'Onnipotente.
E con lo stesso metodico zelo con cui fino allora aveva punito il proprio corpo, l'eremita cominciò a torturare il proprio animo, peccando. E per avere sempre più lancinanti rimorsi, per realizzare sempre più brucianti angosce, escogitava le azioni più basse e spregevoli. Calunniava i compagni di eremitaggio, rubava dalle cassette delle elemosine, fornicava nottetempo con le peripatetiche del deserto, arrivò perfino a diramare giornalmente ignobili lettere anonime, approfittando delle confessioni ricevute, denunciando ai mariti le mogli adultere, alle spose i mariti infedeli, ai padroni i servi disonesti, ai genitori le figlie viziose. Questa, delle lettere anonime, gli sembrava, giustamente l'azione più sudicia. E in corrispondenza, l'animo suo, buono, ne dolorava immensamente.
Intanto, nella sua ingenuità, gli accadeva di pensare:
come è storto il mondo: si disprezzano e si puniscono i ladri, i traditori, gli strozzini, gli sfruttatori, gli omicidi, e magari si tratta di persone buonissime, di galantuomini sopraffatti da tentazioni più forti di loro, e per questo infelici. Commiserarli, non perseguitarli si dovrebbe, non mandarli alle galere ma coprirli di consolazioni e di onori. Godeva una tale fama di santità, l'eremita Floriano, che le sue nefandezze poterono protrarsi a lungo senza che nessuno ne sospettasse l'autore. Senonché una giovane sposa, per colpa sua sorpresa in flagrante dal marito e ripudiata con pubblica ignominia, giurò a se stessa di scoprire il delatore: sapeva di aver sempre fatto le cose per benino, sapeva anche che al mondo uno solo poteva essere a conoscenza della sua tresca: l'eremita da cui andava a confessarsi. Riuscì quindi ad avere la lettera anonima ricevuta dal marito, riuscì a procurarsi un foglio su cui Floriano, anni addietro, aveva scritto un inno sacro. Fatto il confronto, si convinse. E denunciò il fatto ai magistrati.
Siccome nel Paese vigevano leggi di alta civiltà, le lettere anonime venivano punite con la pena di morte mediante decapitazione. Le prove, nel caso, erano fin troppo evidenti. Un drappello di guardie galoppò alla Tebaide e trasse l'eremita prigioniero.
Al processo~ appunto per esasperare la propria abiezione e dal malfatto ricavare la mortificazione peggiore, Floriano confessò non soltanto di avere scritto la lettera incriminata ma anche tutti gli altri misfatti. Il giorno che il tribunale pronunciò la condanna a morte, il suo cuore, divorato dalla consapevolezza del male compiuto, era come una colomba bianca allo spiedo, sventrata e trapassata da parte a parte; e la disperazione era tale che per la prima volta egli osò pensare di essersi, così, guadagnato veramente il paradiso.
Solo quando, denudato e fustigato a sangue, tra le contumelie della plebaglia scatenata, egli fu tratto al patibolo e, sospinto sul palco, si guardò intorno in una sorta di smarrito rapimento, e ai piedi del palco scorse fra Basilio che lo guardava sogghignando, solo allora finalmente intuì lo spaventoso tranello in cui lo avevano fatto cadere: il grande confessore non era altri che il demonio, il quale adesso avrebbe colto la sua anima disonorata.
Al pensiero, l'ambascia fu più forte di lui e il povero eremita scoppiò in un pianto selvaggio. Naturalmente la gente intorno credette che fosse soltanto vigliacca paura di morire.
Ma stavano già calando sulla piazza le prime ombre della sera. E in quel crepuscolo violetto, allorché la mannàia del boia fu vibrata, intorno alla testa dell'anacoreta che cadeva nel cesto predisposto, fu vista da tutti, distintamente, un'aureola lucente.
Allora colui che si era fatto passare per fra Basilic fuggì, aprendosi a forza un varco tra la folla. Era riuscito nell'impresa mai compiuta prima nella storia del mondo, nell'impresa, per un diavolo, la più disonorevole e assurda fra tutte: quella di portare un uomo alla gloria di Dio a forza di immondi peccati.
«Accidenti», imprecava «è proprio vero: infinite sono le vie del Signore».
Cenerentola
Licia e Micia, gemelle, sette anni, fecero uno scherzo alla sorellastra Cenerentola, che aveva due anni di più.
«Perché non vieni anche tu alla festa, Rentolina»?
diceva Licia.
«Ma sì, perché non vieni anche tu»?
diceva Micia.
Licia e Micia erano due creature deliziose, cariche di vitamine e di superiorità. Cenerentola era meschina, più piccola di loro, una gambetta intristita da polio, e perciò zoppicava.
Cenerentola rispose: «Che ridicolo.
Io non posso.
Io lo so: è una gara di bellezza. Voi due sì, ci credo. Voi due siete belle.
Io sono una minorata».
Disse "minorata" in modo curioso, pieno di misteriosa gravità. Si trattava, infatti, in occasione della Mezza Quaresima, di un concorso di bellezza infantile a favore dei terrazzani dell'Afganistan affetti dalla febbre ricorrente.
Disse Licia: «Non dire sciocchezze, Rentolina. Che importa se zoppichi un poco»?
Disse Micia: «Che cosa importa, Rentolina, basta che tu cammini adagio, nessuno si accorge di niente.
L'importante è la faccia, no»?
Le due piccole gemelle erano molto sviluppate mentalmente, tenuto conto dell'età, compreso il peccato originale.
«E tu, Rentolina, hai una faccia proprio mica male» disse Licia.
Micia fece eco: «Proprio mica male, sicuro. Sai cosa diceva ieri, la signora Cernuschi»?
Cenerentola: «Cosa diceva»?
«Diceva che tu hai un visetto molto spiritoso, proprio così diceva. Diceva che noi due siamo due belle bambine ma tu hai un visetto più spiritoso».
La festa era stata indetta per il sabato di Mezza Quaresima nel padiglione della Mostra retrospettiva del Liberty, eretto nel Parco municipale in stile danese principio di secolo, tutto di finto legno.
Cenerentola pensò: "Come mai queste due pestilenze sono oggi così gentili?
Che cosa sarà successo»? Ma disse seria: «Una bambina minorata non va a una gara di bellezza. Voi due siete piccole e non potete ancora capire certe cose».
Intervenne la mamma, signora Elvira Ravizza, sporgendo il labbro inferiore in quel suo modo caratteristico:
«Cosa ti metti in mente, Rentolina?
Licia e Micia hanno ragione. Certo che tu devi andare alla festa».
«E che vestito metto»? chiese Cenerentola guardandola con espressione mista di speranza e di paura.
«Puoi mettere il vestito che ti ho fatto fare per il compleanno. E' un capo magnifico. Con quello che è costato»!
Cenerentola pensò: "Forse io le ho giudicate male, forse sono più buone di quello che pensavo. In fondo, forse, mi vogliono bene". Si alzò dalla sedia.
Passando dinanzi allo specchio gettò un'occhiata. Arrossì. Un viso spiritoso? Sì, sì, era vero. Peccato quel nasetto così lungo. Pomeriggio di marzo. Il sole entrava attraverso le tende di mussola.
Anche le automobili, fuori, mandavano un rumore di primavera. Nel cielo passarono alla rinfusa nuvole di forme strane, accartocciandosi. Ma nessuno, nella città, guardava in su, nessuno le vide.
Il padiglione in finto legno della Mostra del Liberty ha una grande sala centrale. Nel mezzo, da una parte all'altra, una passerella soprelevata.
Ai lati, la folla di signore e di bambini, seduti e in piedi, l'attesa, l'eccitazione della festa. La giuria siede al termine della pedana: dame altolocate, personalità della cultura, dell'arte, del giornalismo. I fotografi scattano flashes a mitraglia.
Ogni volta che una bambina compare all'inizio della passerella, l'orchestrina manda uno squillo d'attenti, gli applausi scrosciano, i volti si illuminano di sorrisi pieni di benignità. Come è facile sentirsi buoni di fronte a tanta innocenza. Non sono commoventi? Con inverosimile civetteria ripetono le mosse, gli ancheggiamenti, le smorfiette, le malizie corporali imparate alla televisione. Licia e Micia, in calzamaglia a strisce verdi e gialle, avanzano insieme. Un signore coi baffi si alza in piedi gridando «brave»!
tanta è la provocazione.
Ma il ritmo della sfilata ha una pausa.
Ci deve essere stato un intoppo, una esitazione, si nota un nervoso movimento, laggiù, all'inizio della passerella.
Finalmente Cenerentola compare.
Indossa un vestitino di lana bianca con due bande verticali azzurre, senza maniche e senza cintura, le calze bianche, le scarpette nere di vernice, i capelli bruni sciolti sulle spalle.
Lo squillo dell'attenti
dall'orchestra. Adagio, Cenerentola!
Fa un passo, due passi, pallidissima, con uno sforzo di sorriso. L'applauso di saluto arretra, sfaldandosi in magri battimani sbigottiti, qua e là.
La bambina si ferma, benché la musica cerchi di incoraggiarla. Le denutrite piccole braccia nude hanno un tremito.
Poi una voce infantile: «Oh, ecco la zoppetta»!
Altri due passi lentamente. Si fa un maledetto silenzio, nonostante l'orchestra. Adesso sono in tre, quattro, cinque che gridano insieme:
«Dài, dà, zoppetta»!
Chi si è messo a ridere per primo? Un bambino o una mamma? E' stata Licia? O
le due gemelle insieme? O il demonio, in una delle prime file, travestito da bonario paterfamilias?
«Dài, dài! Coraggio zoppetta»!
Adesso sono in trenta quaranta a gridare. E ridono, ridono, che scherzo spiritoso, che buffissimo. Deliziosa è la voluttà del male altrui quando si è in tanti e ci si sente compagni nel contagio. Anche se è in gioco una bambina con una gamba rattrappita.
Diamine, si è qui alla festa per divertirsi, no? Perché non ride anche lei? Però, dico, sua mamma non ha proprio un briciolo di cervello?
L'intera sala zeppa di gente è una sola selvaggia risata.
E che cosa le prende adesso, a quella stupidella? Rentolina ha ripreso la marcia sulla passerella, non più lentamente. Ora zampetta con precipitazione, i piedi fanno tic toc, in diseguale scalpitìo, comici più che mai.
Poi tende le braccia davanti, come cercando un appoggio, una salvezza, un pietoso abbraccio che non esiste. E si mette a correre. Correre? Uno sconnesso scalpitìo nella
disperazione, tra l'ilarità generale, frenetica.
A due metri dal termine della passerella, inciampa, stramazzando a capofitto nella buca. Fragile tonfo.
Ossicini teneri e dolenti.
In quel momento preciso, - e nessun tecnico ha mai saputo spiegare il perché, - dalla base del padiglione, per l'intero perimetro, il fuoco divampò.
Il finto legno delle strutture in realtà era vero legno; ciò per l'economia. Fu un rogo.
Era già calata la sera. Il parco venne illuminato a giorno dal mostruoso falò. E il cielo caliginoso sopra la città divenne un baldacchino di porpora.
L'ingresso al padiglione, sospeso su di un sistema di piloni, era costituito da un'ampia scalinata, anch'essa di cosiddetto finto legno, che si apriva sinuosamente a ventaglio appunto in stile Liberty.
Giù per questa scalinata, attraverso la crepitante barriera di fuoco dietro la quale la folla si contorceva con urla orrende invocando un impossibile soccorso, il sergente Onofrio Crescini dei vigili del fuoco, uno dei primi accorsi, giura di avere visto scendere una bambina con un vestito bianco a bande verticali azzurre e le calze pure bianche. Sembrava assolutamente tranquilla, dice, come se le vampe non la toccassero.
Il sergente racconta pure che la bambina aveva grandi occhi neri e, mentre scendeva adagio giù per gli scalini, guardò intensamente lui, Crescini.
Incurante del pericolo, egli si gettò in suo aiuto.
Come le fu dappresso, all'inizio della scala in fiamme, fece per afferrarla.
Ma l'immagine svanì. E le mani del Crescini annasparono nell'aria.
Nel medesimo istante, con uno spaventoso boato nel quale si confondevano gli spasimi umani e lo schianto delle cose, il padiglione giustamente sprofondò.
Che accadrà il 12 ottobre?
Tardo pomeriggio del prossimo 12 ottobre in Val Serà (Carnia).
Il cielo sarà coperto, un gelido vento scenderà dalle montagne. Il sole sarà tramontato o starà per tramontare, infatti la luce del giorno dileguerà rapidamente.
Le campane del piccolo paese di Strut avranno già suonato per il vespro.
Una grande pace regnerà sulla campagna, rare le automobili sulla provinciale, muti i cani dei casolari.
In silenzio passeranno anche gli ultimi gruppi di corvi diretti ai loro nidi, sulle piante in riva al fiume.
Nella vecchia casa di famiglia in cima a una collinetta boscosa, il professore di storia del diritto italiano Luigi Splitteri, 43 anni, ancora in vacanza estiva, avrà acceso il fuoco nel caminetto e, seduto in poltrona, starà consultando un grosso libro rilegato, probabilmente una enciclopedia o una raccolta di rivista giuridica.
Una tardiva mosca, con la appiccicosa e probabilmente disperata insistenza delle mosche che si sentono prossime a morire a motivo dell'inverno sopraggiungente, continuerà a posarsi sulla fronte, sul naso e sulle mani del professore, il quale ogni volta la scaccerà con un rapido gesto di stizza, quasi istintivo.
Continuando la persecuzione, lo Splitteri, deposto il volume, prenderà un giornale e lo arrotolerà a formare una specie di asta, con cui ammazzare la mosca.
Riprenderà quindi sulle ginocchia il volume, nella destra stringendo il giornale arrotolato, pronto a colpire.
Contrariamente a quanto ritengono gli scienziati, non è che la struttura degli atomi componenti la materia assomigli vagamente a un sistema planetario: ogni atomo in realtà è un sistema planetario~ rispetto a noi infinitamente piccolo~ con un sole, i pianeti che gli girano intorno ed eventualmente vari satelliti.
Proprio all'ultima estremità della seconda zampa destra della mosca che starà tormentando il professore~ c'è un atomo il cui sistema solare comprende un pianeta abitato da esseri identici a noi.
Anche il pianeta su cui vive il professore Splitteri potrebbe appartenere a un sistema solare costituente un atomo della zampa di una mosca in un universo di grado superiore.
A sua volta, il pianeta dove vive questa seconda ipotetica mosca, -
grande evidentemente come miliardi di galassie, - potrebbe far parte di un sistema solare costituente un atomo della zampa di una terza mosca di un ulteriore universo.
Come possiamo escluderlo? Di mosca in mosca, per così dire, ci si può smarrire ~ di universi sempre più giganteschi, la dimensione dei quali è tanto grande da non poter essere espressa non dico da cifre ma neppure da formule umane.
Ma torniamo nella sala di soggiorno della vecchia casa dove il professore Splitteri sarà disturbato dalla mosca d'autunno. In questa stanza si avvererà un avvenimento senza precedenti non solo nella storia del mondo ma nella storia del cosmo universale. E staranno per decidersi eventi di incalcolabile importanza.
Molti scienziati, sulla base di considerazioni statistiche, ritengono che esistano, nell'universo, centinaia o per lo meno decine di migliaia di pianeti abitati da esseri uguali o simili all'uomo.
Ciò non è vero. Il pensare che, se si verificano condizioni ambientali uguali a quelle che videro prodursi la razza umana, debba presto o tardi venire alla luce una creatura come noi, è puerile ingenuità. Condizioni di quel genere possono determinarsi milioni di volte senza che per questo debba comparire l'uomo. Nasceranno i battèri, le amebe, i tardigradi, i celenterati, gli insetti, i rettili, i mammiferi, le balene, gli elefanti, i cavalli, le scimmie parlanti, perfino i cani boxer che sono tra le invenzioni più felici del creato.
Ma l'uomo no.
L'uomo infatti è una imprevista anomalìa verificatasi nel corso del processo evolutivo della vita, non il risultato a cui l'evoluzione doveva necessariamente portare.
E' mai concepibile infatti che l'officina della natura mettesse determinatamente in circolazione un animale nello stesso tempo debole, intelligentissimo e mortale cioè inevitabilmente infelice? Fu una specie di sbaglio, un caso quasi inverosimile che ragionevolmente non ha motivo di ripetersi in nessuno dei pianeti, - ce ne sono forse miliardi di miliardi di miliardi, - i quali presentano condizioni ambientali uguali alla Terra.
Eppure il fenomeno-uomo, per quanto sia difficile a credersi, si è verificato una seconda volta.
Vale a dire che nell'universo degli universi esiste non uno bensì due pianeti, dalle medesime
caratteristiche morfologiche, abitati dall'uomo.
Il primo è quello dove vive il professore Splitteri.
L'altro, infinitamente più piccolo, è quello che gira nell'atomo
all'estremità della seconda zampa destra della mosca che sta tormentando il detto professore.
E' intuitivo che nel primo pianeta, che chiameremo convenzionalmente A, il tempo corre con ritmo di gran lunga più lento che nel secondo microscopico pianeta, che chiameremo Z. Parimenti il corso della vita di un paramecio è molto più veloce che non quello di un elefante. Nel tempo, poniamo, impiegato dal professore Splitteri per accendere una sigaretta, sul pianeta Z
trascorrono intere giornate e forse mesi. Eppure, per una combinazione tanto singolare da far pensare a un intervento divino, la comparsa e la evoluzione della umanità sul pianeta Z, quello piccolissimo, dove il tempo vola a precipizio, si compiono in modo da poter coincidere con l'evoluzione del pianeta A precisamente la sera del prossimo 12 ottobre in quel di Strut.
Si resta davvero perplessi, per la tentazione di non credere, di fronte a due coincidenze così favolose: la prima per la presenza nello stesso punto dell'universo, cioè la casa Splitteri a Strut, dei due soli pianeti abitati dall'uomo che esistano nell'intero universo; la seconda per la contemporaneità del grado di evoluzione delle due umanità la sera del prossimo 12 ottobre.
Vale a dire che sia sul pianeta A sia sul pianeta Z in quel momento gli uomini hanno raggiunto il medesimo livello di progresso e si occupano delle medesime cose: il pericolo atomico, i tentativi spaziali, la lotta contro la fame, il movimento
"beat". Sia su A sia su Z, trionfo dei capelloni.
Non solo: la sera del 12 ottobre anche sul pianeta Z - quello contenuto nell'atomo della zampa di mosca, -
ci saranno un professore di nome Splitteri seduto accanto al fuoco in una casa di campagna presso un paese chiamato Strut, e magari anche una mosca che lo infastidirà (in nessun atomo di questa mosca, tuttavia, ci sarà un pianeta abitato da animali come noi perché le umanità sono soltanto due nell'intero universo).
Naturalmente, data la diversa velocità nel flusso del tempo, quando il professore avrà finito di consultare il suo libro può darsi che gli abitanti del pianeta Z abbiano già raggiunto coi loro razzi il loro satellite, risolto il problema della fame, trovato il rimedio contro i tumori. Insomma è probabile che l'umanità Z, la quale corre più svelta, terminerà il suo ciclo molto prima di quella A. Ciò, a meno di imprevisti.
Intanto la mosca, che nella zampina porta il pianeta Z carico di "homines sapientes", si sarà posata su un ginocchio del professore, il quale l'avvisterà subito e lentamente alzerà il giornale per ammazzarla. Quando l'avrà ammazzata, dato che è un maniaco della pulizia, prenderà delicatamente la vittima per le alucce e la butterà nel fuoco purificatore.
A questo punto tutti voi intenderete, immagino, l'estrema importanza dell'episodio, a prima vista di scarso rilievo.
Il problema è questo: io che scrivo e voi che leggete apparteniamo all'umanità A oppure all'umanità Z?
Siamo cioè dei colleghi del professore Splitteri (il primo che abbiamo considerato), o viviamo invece nell'interno della zampa della mosca persecutrice?
Non è una questione indifferente. Nel primo caso, la nostra sorte non verrebbe affatto modificata. Nel secondo caso, al contrario, la mosca morta cadendo tra le braci ardenti, violente perturbazioni avverranno nell'intimità della materia che la compone. ~ probabile che cataclismi siderali sconvolgano l'interno degli atomi, con la distruzione fulminea dell'intero secondo genere umano.
E quindi di noi stessi, se per caso ne facciamo parte.
Il dilemma è grave. Eppure non possiamo risolverlo.
Ci è rigorosamente negato di capire se viviamo in un mondo o nell'altro. Per saperlo, dobbiamo aspettare il 12 ottobre