venerdì 6 settembre 2024

UCRONIA Emmanuel Carrère

 


UCRONIA

                 Emmanuel Carrère

 Recensione 

Carrère descrive l’ucronia come un  genere letterario capace di eliminare certezze e mettere in discussione il nostro rapporto con il passato e con la realtà. Attraverso la sua analisi, Carrère spiega come i regimi totalitari abbiano utilizzato storie controfattuali per legittimare il potere e su come questo meccanismo possa ancora essere utilizzato per manipolare la percezione del passato e del presente.

Carrère esamina come, nel corso della storia, la tentazione di riscrivere il passato o immaginare scenari alternativi abbia accompagnato filosofi, scrittori e politici. Dai regimi totalitari che hanno sfruttato la narrazione ucronica per costruire nuove verità fino ai sognatori che cercano di esplorare i “what if” della storia, il libro offre uno sguardo penetrante su quanto l’ucronia possa essere un potente strumento culturale. Carrère esplora il ruolo che l’ucronia gioca nel nostro inconscio, riflettendo sul nostro bisogno umano di sognare alternative e immaginare scenari diversi da quelli che abbiamo vissuto. Questo rende il libro non solo una guida all’ucronia come genere letterario, ma anche una profonda meditazione sul significato della storia e della memoria.

In particolare, Carrère esplora il ruolo che l’ucronia gioca nel nostro inconscio, riflettendo sul nostro bisogno umano di sognare alternative e immaginare scenari diversi da quelli che abbiamo vissuto. Questo rende il libro non solo una guida all’ucronia come genere letterario, ma anche una profonda meditazione sul significato della storia e della memoria.

                        UCRONIA

Giovanni Papini, qualche decennio fa, raccomandava l’istituzione di cattedre universitarie di Ignotica, ovvero la scienza di tutto ciò che non sappiamo. Se avessimo seguito il suo consiglio, oggi lo studio dell’Ucronia avrebbe fatto più progressi.

E invece è ancora tutto da scrivere. Il termine stesso è poco noto. Gli esperti di fantascienza lo utilizzano di rado, gli storici quasi mai, e se fino alla fine del XIX secolo figurava nel Grand Larousse, nelle edizioni recenti è scomparso. È stato coniato nel 1876 dal filosofo francese Charles Renouvier, sul modello di quell’Utopia a cui, trecentosessant’anni prima, il Cancelliere d’Inghilterra Tommaso Moro aveva dato un nome destinato a maggior fortuna. A Utopia – dal greco ou-tópos: che non è in nessun luogo – corrisponde quindi Ucronia – ou-chrónos: che non è in nessun tempo. A uno spazio e, di conseguenza, a una civiltà, a leggi, a usi e costumi che esistono soltanto nella mente di legislatori e urbanisti insoddisfatti, si contrappongono un tempo e, di conseguenza, una storia altrettanto arbitrari. Il prefisso privativo, tuttavia, è fonte di confusione, e l’analogia fra i due approcci meno scontata di quanto possa sembrare.

Il testo fondamentale di Renouvier, intitolato Ucronia, ha due sottotitoli, uno giusto, l’altro meno. Quello giusto definisce in modo molto chiaro la disciplina che vorrei esaminare: Schizzo storico apocrifo dello sviluppo della civiltà europea, non come è stato, ma come avrebbe potuto essere. Proprio di questo si tratta: della storia se le cose fossero andate diversamente.

Quello meno giusto è L’utopia nella storia, formula che mi è spesso tornata utile per spiegare di cosa mi stessi occupando («L’ucronia è grosso modo come l’utopia, ma riferita al tempo» – «Ah, sì?»), ma che si presta a diverse obiezioni. Proviamo a supporre che un uomo sia scontento della propria civiltà. Qualche secolo fa poteva immaginare che ne esistessero di migliori in un mondo che ancora offriva spazi inesplorati. Le utopie classiche, infatti, ricorrono quasi tutte allo stesso artificio narrativo: si presentano come resoconti di viaggio. Su un’isola remota, non segnata sulle carte, i navigatori si imbattono nella Repubblica ideale. È Utopia. Ma Tommaso Moro, nel momento stesso in cui inventa la parola, ci ammonisce e ci scoraggia: inutile farsi illusioni, la civiltà perfetta non esiste da nessuna parte.

Se, una volta esplorata l’intera superficie del globo e verificato che in nessun posto si sta poi tanto meglio che nel proprio paese, si vuole comunque continuare a far finta che quella comunità esista – non foss’altro che per portarla a esempio –, ci restano ancora due possibilità. Siccome non è di questa terra, può trovarsi altrove nello spazio interstellare. Siccome non è nel presente, può trovarsi altrove nel tempo. È esistita nel passato, e allora rimpiangiamo l’età dell’oro. Esisterà nel futuro, e allora l’utopia diventa anticipazione. Nessuna di queste affermazioni contraddice espressamente ciò che sappiamo del nostro mondo. Nessuno sente il bisogno di far coesistere due universi in uno stesso spazio. C’è abbastanza posto altrove perché si debba mettere a rischio il delicato equilibrio esistente tra reale e immaginario.

Tale equilibrio è compromesso soltanto se, per esempio, un parigino del 1985, anziché dire che tutto andava per il meglio nell’antica Grecia, o che tutto andrà per il meglio nel 2985, o che tutto va per il meglio in Nuova Guinea, in Cina o su Marte, si mette a descrivere una società completamente diversa dalla sua, conforme all’idea che si è fatto del meglio – o del peggio, poco importa – e si premura di datare il suo bel quadretto, dicendoci che quella è la Parigi del 1985. Ecco che nasce lo scandalo: entriamo in Ucronia.

Ci entriamo mossi da un altro tipo di insoddisfazione. Napoleone è stato sconfitto a Waterloo ed è morto a Sant’Elena. È intollerabile – almeno così pensa l’ucronista –, una sciagura di cui ancora subiamo le conseguenze. Bisogna correggere questa cantonata della storia. Annullare ciò che è stato, rimpiazzarlo con ciò che avrebbe dovuto essere (se, in nome di un saldo convincimento, ci assumiamo la responsabilità di dare lezioni alla Provvidenza), con ciò che avrebbe potuto essere (se ci limitiamo a sperimentare un’ipotesi astratta, senza partigianeria).

L’intento dell’utopia è quello di cambiare ciò che è, o almeno di elaborare un progetto finalizzato a questo cambiamento. Non è un’idea irragionevole, ed è lo scopo a cui si dedicano, nei modi più disparati, sia gli uomini che fondano le civiltà, sia quelli che le sognano migliori e affidano i loro sogni alla carta. L’intento, scandaloso, dell’ucronia è invece quello di cambiare ciò che è stato.

Un simile proposito dà corpo a un’ossessione al tempo stesso bislacca e banale. Immaginare come sarebbe il mondo se un certo evento, considerato decisivo, fosse andato diversamente è uno degli esercizi più naturali e frequenti messi in atto dal pensiero umano. Più naturale e più frequente, in definitiva, di quanto non sia l’edificazione mentale di una civiltà ideale. È un argomento collaudato nelle conversazioni da bar, durante le quali capita spesso di confrontare la situazione attuale con quella in cui ci troveremmo se... (di solito a tutto vantaggio di quest’ultima), e sono pronto a scommettere che l’uomo delle caverne, di ritorno da una caccia infruttuosa, già si divertiva a immaginarsela migliore e a trarne le dovute conclusioni (in primo luogo: stasera mangerei). Tanto che i bei proverbi tipo «con i se e con i ma la storia non si fa» hanno l’aria di essere stati inventati proprio per porre un freno a questa tendenza mentale comune a tutti.


 


 


Il mistero è che, a quanto pare, questo freno ha funzionato. Che una sorta di pigrizia intellettuale, di tabù forse, ha impedito alla congettura metodica in questo campo di assurgere alla dignità di genere letterario. L’utopia, invece, lo è diventata a pieno titolo, il che dimostra una certa lungimiranza: è sempre utile dedicarsi all’urbanistica e alla pedagogia civile, così come è sempre stupido rimpiangere ciò che non è stato. Aristotele afferma perentoriamente che chi indugia in riflessioni di tal fatta ragiona «come una pianta».


E in effetti nessuno vi indugia: le fantasticherie retrospettive restano perlopiù inespresse, o espresse solo a voce. Alimentano una logorrea da salotto, individuale o collettiva, che una sorta di pudore, la percezione dell’assoluta sterilità dell’impresa vietano di condividere attraverso la scrittura e la pubblicazione. Di tanto in tanto, tuttavia, un eccesso di risentimento nei confronti di una storia che si ritiene abbia, in un dato momento, imboccato la strada sbagliata, la malinconia nel vedere la fine dell’espansione dell’Impero napoleonico o Mozart morire a trentacinque anni ispirano un moto di rivolta scritto contro l’implacabile autorità di ciò che è stato. Di tanto in tanto, inoltre, una mente curiosa, incline alle vane astrazioni stigmatizzate da Aristotele, si sforza di porre in termini razionali l’interrogativo: «Che cosa sarebbe successo se...?» e, a partire dai dati di cui dispone, si abbandona al gioco delle congetture. A me piacerebbe, in questo libretto, prendere in esame alcuni di questi moti di rivolta e di questi esperimenti.


 


 


Nemmeno un minuto fa ho detto che, anche se praticamente tutti ci pensano, perlomeno a livello individuale, nessuno o quasi scrive ucronie. In realtà non ne ho idea. So soltanto che nessuno si è preso la briga di censirle in modo sistematico, che non c’è una bibliografia sul tema, che la parola non figura nel catalogo per materia della Bibliothèque Nationale de France e che a oggi – e per quanto ne so io – questo argomento è stato parzialmente studiato soltanto da Jacques Van Herp (che gli dedica un capitolo del suo Panorama de la science-fiction) e da Pierre Versins (un capitolo, magistrale, della sua Encyclopédie de l’utopie, des voyages extraordinaires et de la science-fiction). Per cui le mie fonti non sono altro che una serie di libri eterogenei, segnalati da questi due studiosi o trovati per caso nel corso delle mie letture, che si legano al tema per via di un dettaglio della trama e sono singolarmente circoscritti nel tempo e nello spazio. La prima ucronia, individuata da Pierre Versins, è della fine del XVIII secolo, ma tutti gli altri testi sono del XIX e del XX, e parlo solo di libri francesi e anglosassoni. Niente prova che non siano state scritte ucronie, o comunque opere che contengono elementi ucronici, prima del 1791 e in altre lingue. Solo che, a meno di mettermi a leggere tutta la letteratura portoghese del XVI secolo, non vedo come potrei scovare le ucronie portoghesi del XVI secolo, sempre che ne esistano. Occorrerà pertanto limitarsi alla parte emersa di questo iceberg letterario, in attesa di studi più consistenti.


In linea di massima, mi sembra strano che si scrivano così poche ucronie, e che queste siano così poco note, altrettanto strano che non si scriva sull’ucronia. Ammetto di aver provato una puerile vanità al pensiero di essere una sorta di pioniere in questo campo della conoscenza, sia pur trascurabile. Ho avvertito anche il timore lievemente paranoico che questo genere di vanità porta con sé: il sospetto che a mia insaputa il territorio fosse pattugliato da un plotone di studiosi pronti ad avventarsi su di me al momento della pubblicazione di questo mio lavoro dilettantesco. Avendo la sensazione, poi la convinzione, di aver fatto una scoperta, di aver portato alla luce un argomento importante, mi aspettavo di ricavare dal suo studio insegnamenti inediti. Insegnamenti indiretti, forse, insegnamenti da cogliere in filigrana, insegnamenti impartiti da gente male informata, ma pur sempre insegnamenti, sulla storia, sulla letteratura e sui sogni che le animano. Perché, se ci si riflette un istante, l’ucronia non è una questione trascurabile. Gli interrogativi che solleva, in ogni caso, non lo sono.


Che cos’è davvero determinante nella storia dell’umanità? In che modo l’uomo si rappresenta la concatenazione di cause ed effetti a cui la storia si riduce? E, a tal proposito, la storia si riduce davvero a questo? Ha un senso? E chi si occupa di farlo rispettare? E, se ce l’ha, è possibile cambiarne il corso? Di cosa sono fatti i nostri rimpianti, come si sfilano le maglie nel tessuto delle nostre vite? E adesso, dato che a questo punto si tratterebbe addirittura di mostrare all’opera le agili dita delle Parche, una domanda più modesta: quale contributo potrebbero mai offrire a dibattiti così impegnativi una decina di volumi scritti da romanzieri d’appendice, professori di filosofia o ex ufficiali che non riescono a rassegnarsi alla caduta di un impero, con l’aggiunta di un libretto che analizza questo smilzo corpus?


La risposta è: proprio nessuno. E il dottor Horeb Naim, portavoce di Papini, ci spiega perché:


«Dopo questo inventario l’Ignotica si propone un altro problema, cioè quello di spartire le cose non conosciute in due grandi classi: quelle che presentano una forte probabilità di essere scoperte in un futuro più o meno lontano e quelle che probabilmente non saranno conosciute mai, sia perché si riferiscono a questioni assurde o male impostate, sia perché mancano all’intelligenza umana i mezzi necessari a disoccultarle».


A causa di entrambe queste ragioni, l’ucronia appartiene alla seconda categoria. Tutt’al più può trasformare gli interrogativi che pone in regole di un gioco mentale, di un divertissement inutile e malinconico. Ci sono state persone che ne hanno fatto dei libri (ben poche), altre che li hanno letti (non molte di più, probabilmente) e altre ancora che a questi libri hanno dedicato un libro (e qui credo proprio di essere l’unico). Le seconde giustificano le prime, e tutte e due il terzo.


Nel mondo in cui viviamo, nella storia di cui siamo prigionieri, l’ucronia si riferisce a una questione assurda e male impostata. È soltanto – ha ragione Aristotele – una fantasticheria da vegetale. Non ci resta che leggerla per quello che è – neanche per il suo valore letterario. Non tanto per conoscere il nostro universo, quanto per conoscere i suoi. Per scoprire altre civiltà, altre battaglie, altri libri, altre gesta eroiche o quotidiane. La serietà dell’indagine non è sminuita dal fatto che il suo oggetto non ha avuto la fortuna di esistere. Abbiamo le stesse ragioni per intraprenderla e ci aspetta lo stesso risultato: la conoscenza disinteressata, che è poi una modalità intellettuale del piacere.

 


Consideriamo dunque il passato, inteso come la somma di tutti gli avvenimenti che si ritiene siano accaduti fino al momento in cui l’ucronista prende in mano la penna – e, via via che scrive, questo passato si carica di momenti supplementari, pesa sempre di più sulle sue spalle ed estende così il suo campo di intervento. In questo territorio immenso, arginato solo dal fugace presente e dai limiti della conoscenza storica, bisogna operare una modifica, e dev’essere una modifica gravida di conseguenze.


Si tratta di una precisazione importante. Perché, a ben guardare, qualsiasi opera di finzione, a meno che non sia ambientata nel futuro, modifica, in un modo o nell’altro, il passato. Qualsiasi forma di creazione romanzesca sfiora l’ucronia, nella misura in cui incorpora nella trama di una storia nota degli avvenimenti immaginari. La battaglia di Waterloo non si è avvalsa dei servigi di Fabrizio del Dongo. Stendhal vi insinua un piccolo particolare estraneo, dandoci così una versione della storia «come non è stata, come avrebbe potuto essere». Tuttavia, questo potenziale elemento perturbatore, che potrebbe causare un grave scompiglio, per esempio determinando un diverso esito della battaglia, se ne sta cheto e non influisce sullo svolgimento della storia come la conosciamo noi.


Ma comunque sia... Non appena si decide di alterare in qualche modo ciò che sappiamo del passato, non appena ci si mette a scrivere, in tutta innocenza, che «il primo martedì del mese di luglio del 1927 un giovane dal portamento marziale percorreva a grandi passi l’Esplanade des Invalides», o persino che «la marchesa uscì alle cinque», tutte cose che non sono accadute, o che perlomeno non sono verificabili, si entra in una temporalità ambigua, popolata di personaggi immaginari, e l’ucronia è dietro l’angolo. La prudenza dei romanzieri, che di solito prendono in prestito dalla storia, antica o recente, soltanto le indicazioni di data, luogo, tipo di società, evita, perlopiù, questi possibili scompigli. Il rischio è maggiore nei romanzi storici, in cui personaggi immaginari frequentano re, ministri, cortigiane, coloro insomma che si ritiene facciano la storia, e certe volte si prodigano per dare il loro contributo. Casi come questo sfumano il confine che separa l’ucronia dalla storia romanzata, confine che cercherò di tracciare attraverso un esempio classico: la storia della Maschera di ferro.


Secondo la spiegazione più diffusa, il prigioniero della fortezza di Pinerolo sarebbe un fratello maggiore di Luigi XIV, Alessandro, figlio di Gastone d’Orléans. Verso la fine del Visconte di Bragelonne di Alexandre Dumas ci imbattiamo in un episodio rocambolesco, nel quale una falsa Maschera di ferro, che poi è il vero Luigi XIV, è vittima di un rapimento notturno da parte dei moschettieri, assoldati dal sovrintendente Fouquet. Dumas qui fa cedere sotto il suo peso tutti i gradini della scala che collega storia e romanzo. Ci sono personaggi interamente immaginari (Athos, Porthos, Aramis, per quanto gli studiosi si siano divertiti a trovare dei modelli anche per loro), altri che compaiono nelle cronache del tempo, ma la cui relativa oscurità lascia al romanziere un discreto margine di manovra (d’Artagnan), e infine figure storiche troppo note perché nelle loro biografie ci siano molte lacune e si possa farle parlare e agire a proprio piacimento (Luigi XIV). Far rapire quest’ultimo da un drappello di personaggi dell’altra categoria significa non soltanto lasciare che l’immaginazione prenda in ostaggio la storia, ma anche avvicinarsi pericolosamente all’ucronia.


Alla fine però tutto rientra nell’ordine: Luigi XIV a Versailles, Alessandro in prigione. E adesso proviamo a immaginare. Questa storia inventata si fonda sull’esistenza di un gemello del re. Che cosa succederebbe se, con maggior spregiudicatezza, Dumas facesse andare a buon fine la sostituzione e la facesse perdurare? Se fosse il re a portare la maschera e il gemello a occupare il suo posto? La storia non sarebbe necessariamente diversa, anche se in questo caso risulterebbe un po’ difficile spiegare la caduta in disgrazia di Fouquet. Solo che ad averla fatta non sarebbe Luigi XIV, ma un altro. I moschettieri potrebbero sostituire con successo il sovrano con il suo fratellastro, o con un qualsiasi scemo del villaggio, o con un uomo proveniente dal futuro: finché questo impostore si atterrà alla politica e ai gesti quotidiani che la storia attribuisce a Luigi XIV, finché non smentirà quanto di lui racconta Saint-Simon, non avremo varcato la soglia dell’ucronia, al di là della quale la storia diventa interamente, palesemente altra, modificata com’è da distorsioni irreversibili ed evidenti a tutti.


Analogamente, nella Seconde vie de Napoléon Ier di Pierre Veber (1924), Napoleone, prima di salpare per Sant’Elena, scambia la sua sorte con quella di un marinaio di passaggio e vive fino all’età di ottant’anni una placida esistenza da pensionato a Tolone. La Restaurazione non ne è scalfita, come non lo è nella Seconde vie de Napoléon (1821-1830) di Louis Millanvoy (1913), testo in cui Napoleone riesce a evadere segretamente dal suo scoglio per finire i suoi giorni nei panni del re dei Cafri. Quest’ultima metamorfosi è già meno discreta, ma visto che altera soltanto la storia dei Cafri e non la nostra non si può ritenere che abbia deviato il corso del mondo.


Non ho ancora finito con la storia romanzata, o segreta, su cui mi piacerebbe dire un altro paio di cose. Tuttavia, dal momento che queste osservazioni possono benissimo essere parcellizzate e che tutto sommato l’argomento del mio libro è l’ucronia, mi sembra arrivato il momento di ricordare, approfittando dello spunto che mi viene da Pierre Veber e Louis Millanvoy, una delle opere più rappresentative del genere, genere dal quale questi due autori si sono prudentemente allontanati.


 


 


Pubblicata in forma anonima nel 1836 con il titolo Napoléon et la conquête du monde. 1812 à 1832, riedita con l’aggiunta del nome dell’autore nel 1841, con il titolo, relativamente più noto, Napoleone apocrifo. Storia della conquista del mondo e della monarchia universale. 1812-1832, la prima ucronia di una certa levatura è opera di Louis-Napoléon Geoffroy-Chateau (1803-1858), figlio di un ufficiale dell’esercito napoleonico caduto ad Austerlitz. Giudice del tribunale civile di Parigi, Geoffroy ha lasciato, oltre a quest’opera, solo un discorso celebrativo e un’edizione della Farce de Maître Pathelin. Chiedersi che cosa avrebbe scritto se avesse vissuto più a lungo equivale a dar voce a un rimpianto molto simile ai suoi. Va detto però che Napoleone apocrifo basta e avanza ad assicurargli la gloria, proprio come una serie di trionfi prematuramente interrotta la assicura al suo protagonista.


La prefazione del libro, che citerò integralmente, lo colloca fin dall’inizio sotto il segno della nostalgia e della fede:


«È una delle leggi fatali dell’umanità che niente raggiunga mai il proprio scopo. Tutto rimane incompiuto e manchevole, gli uomini, le cose, la gloria, la fortuna e la vita.


«Legge terribile, che uccide Alessandro, Raffaello, Pascal, Mozart e Byron prima dei trentanove anni! Legge terribile che arresta la parabola di ogni popolo, di ogni sogno, di ogni esigenza prima che sia giunta al culmine! In quanti hanno sospirato per le loro speranze infrante, supplicando il Cielo di esaudirle!


«E se Napoleone Bonaparte, schiacciato da questa legge fatale, fosse stato malauguratamente sconfitto a Mosca, rovesciato a meno di quarantacinque anni, per andare a morire su di un’isola-prigione, in mezzo all’oceano, anziché conquistare il mondo e salire al trono della monarchia universale, non sarebbe questa una cosa da far venire le lacrime agli occhi a chiunque si trovasse a leggere una storia del genere?


«E, se malauguratamente tutto questo fosse successo, l’uomo non avrebbe forse il diritto di rifugiarsi nella sua mente, nel suo cuore, nella sua immaginazione, per sopperire alla storia, per scongiurare quel passato, per ottenere lo scopo sperato, per raggiungere tutta la grandezza possibile?


«Ed ecco dunque che cosa ho fatto. Ho scritto la storia di Napoleone dal 1812 al 1832, da Mosca in fiamme alla sua monarchia universale e alla sua morte, vent’anni di una grandezza sempre più grandiosa, che lo ha innalzato fino all’apice di un’onnipotenza al di sopra della quale c’è solamente Dio.


«Dopo averlo concluso, ho finito per credere a questo libro. Proprio come uno scultore che, terminata la sua statua, vi scorge un dio, si inginocchia e lo adora».


Dopo questo manifesto clamoroso, ha inizio il libro a cui Geoffroy ha creduto, o voluto credere. Fiducia più che meritata.


 


 


Tutto inizia, in effetti, dinanzi a Mosca in fiamme, nel settembre del 1812. Solo che, anziché battere in ritirata e perdere il suo esercito sulla Beresina, Napoleone si dirige verso Pietroburgo. Fa prigioniero lo zar Alessandro e Bernadotte, e restaura l’antico regno di Polonia, di cui Poniatowski diventa sovrano. Questo «per far capire alle nazioni russe che al di sopra del loro zar c’era un’onnipotenza più formidabile, che fra Alessandro e Dio c’era Napoleone».


Dopo aver stabilito questa gerarchia, l’imperatore torna in Francia, dove Maria Luisa gli ha appena dato un figlio, Gabriele Carlo Napoleone, che lui con un decreto nomina re d’Inghilterra. Ansioso di vedere questo decreto applicato senza indugio, conquista l’Inghilterra. In questa occasione incontra Luigi XVIII in esilio e gli offre, con sufficienza, un regno su misura: l’Isola di Man. (Lì, nel 1824, e senza che la cosa faccia grande scalpore, il conte d’Artois si proclamerà re di Francia, con il nome di Carlo X).


In seguito, tornando da Roma, di cui ha interamente ridisegnato la pianta, Napoleone passa per la Svizzera e ne approfitta per andare a trovare una delle sue più accanite oppositrici, Madame de Staël. «Il vostro genio» le dice «è una potenza, signora, e io vengo a trattare con voi». A queste parole la castellana di Coppet si scioglie in lacrime e confessa all’imperatore di nutrire per lui una segreta venerazione. Si abbracciano. Napoleone la chiama duchessa.


«Vostra maestà fa cadere dall’alto un titolo».


«Lo innalzo fino a voi, signora».


Così sedotta, in seguito Madame de Staël pubblicherà un trattato, Dell’Inghilterra, che è un’apologia dell’imperatore, mentre Walter Scott scrive, in Francia e in francese, il suo romanzo storico Richelieu e Chateaubriand, diventato nel frattempo duca d’Albania, la sua Storia generale della Francia (1821). Segnaliamo anche, per completare il quadro di questa stagione letteraria, che il Dell’intelligenza (1827) di Henri Beyle de Stendhall (sic) irriterà Napoleone a tal punto da indurlo a esiliare l’autore a Roma, dove questi scriverà i dodici volumi della sua Storia della pittura in Italia, compito gravoso che lo distoglierà dal pensare a futili romanzi e che farà conoscere quello che nel frattempo è diventato patrimonio nazionale francese.


L’Europa, infatti, è interamente sottomessa. Lo scacco della coalizione del Nord-Est, nel 1817, stronca per sempre la rivolta dei vari reucci frustrati. «Chiediamo a vostra maestà il trattato che le piacerà accordarci» dice umilmente, a Dresda, il re di Svezia sconfitto. «Nessun trattato,» risponde l’imperatore con voce tonante «bensì ordini!». E di lì a poco, dinanzi all’Arco di Trionfo di place de l’Étoile, interamente ricoperto del bronzo dei cannoni presi al nemico nel corso dell’ultima guerra, Napoleone, imperatore dei francesi, diventa ufficialmente sovrano d’Europa (decreto apparso sul «Moniteur» del 15 agosto 1817).


Seguono anni di pace e di felicità domestica. Alla morte di Maria Luisa, Napoleone sposa per la seconda volta Giuseppina, la qual cosa riempie di gioia i sudditi, che le erano rimasti molto affezionati. «Dopo aver fatto tanto per l’Impero e per l’Europa,» dichiara il novello sposo «finalmente ho potuto fare qualcosa per me: ritrovare la mia cara Giuseppina».


Se si esclude la breve spedizione ad Algeri, che consente l’annessione della costa nordafricana all’Impero, questi anni di pace sono dedicati alla costruzione di grandi opere pubbliche (una rete capillare di strade e canali in tutta Europa) e sono caratterizzati dalla prosperità economica (dal momento che le casse dell’Impero sono piene, l’imperatore può abolire le tasse) e dal progresso scientifico. In particolare, nel 1819 Bichat, Corvisart e Lagrange scoprono il segreto della vita e della morte. Geoffroy resta piuttosto sul vago circa la natura di questo segreto, ma poiché, «esauriti da questo estremo sforzo delle loro facoltà umane, i tre grandi uomini morirono poco dopo», l’autore mette in bocca a Lagrange agonizzante questa frase memorabile (i suoi discepoli avevano tentato di rianimarlo): «Perché mi avete disturbato? Mi studiavo morire».


Queste e altre scoperte perfezionano l’essere umano. «Un uomo la cui morte era stata certa fu richiamato in vita. La cecità e la sordità poterono essere guarite ... Delle lenti diedero alla vista il discernimento microscopico e la portata dei telescopi. Dei gas conferirono all’olfatto nuove risorse che gli permisero di godere degli odori con sensazioni mai sperimentate ... Il gusto stesso acquisì una raffinatezza maggiore, e insomma la scienza, amplificando così i piaceri dell’uomo, lo avvicinò un poco alla felicità ... Il vapore ... creò forze soprannaturali e centuplicò le forze già note. C’erano vetture che volavano con la rapidità della folgore sulle strade ferrate e percorrevano fra due tramonti le estremità dell’Europa ... C’erano macchine nuove ... che sollevavano i colossi e le rocce, perforavano la terra, arrestavano o scatenavano le onde, spianavano le montagne e ... impartivano ordini all’atmosfera stessa, scacciando le nubi e dissipando le tempeste con prodigiose detonazioni». «Il linguaggio dei numeri sognato da Leibniz fu trovato e applicato. Il pensiero ebbe la sua algebra ... Divenuto più rapido, aveva bisogno di strumenti che avessero la sua stessa celerità:... macchine a tastiera, cembali da scrittura trascrivevano con la più grande rapidità il pensiero appena scaturito dalla mente».


Ma l’imperatore è stufo di riposare sugli allori. «Dopo aver fatto tanto per i popoli, volle fare qualcosa per l’Europa stessa: la ingrandì.


«E di certo questa era un’idea nuova».


La spedizione in Egitto, sulle prime, è una semplice passeggiata, un pellegrinaggio di Napoleone sulle sue stesse tracce. Davanti alle Piramidi tutti si aspettano che pronunci un’altra frase storica, ma «gli sembravano ora più piccole e non disse una parola». Si tratta, fra l’altro, di un pellegrinaggio non privo di malinconia, per lui come per l’autore. «Prima di superare l’istmo di Suez riconobbe con emozione le fortificazioni di Salahieh e di Bilbeis, che aveva fatto erigere dal capo del battaglione del Genio, Geoffroy, durante la prima guerra. Quelle opere resistevano ancora. Napoleone si sovvenne dell’ufficiale che amava e che era poi morto ancor giovane ad Austerlitz. A quella vista sentì una stretta al cuore, il ricordo di quel valoroso e capace militare era pieno di rimpianto. “Se Geoffroy fosse qui...” disse».


La situazione rischia di precipitare con la seconda sconfitta di San Giovanni d’Acri, ma la presa di Gerusalemme e poi della Mecca rimettono in sella il conquistatore. «L’Asia occidentale ... vide che il regno di Maometto era finito e che aveva inizio quello di un nuovo profeta venuto da Occidente, Buonaberdi, come era chiamato laggiù».


Sulle sponde dell’Eufrate il nuovo profeta riscopre il sito di Babilonia e quello della torre di Babele e li fa liberare dalle sabbie. Il giovane Champollion, che è al seguito di Napoleone, rimane di stucco. Poi l’imperatore va a caccia di leoni a Kabul, sottomette la Persia, la Tartaria, l’India e la Birmania. I birmani gli fanno dono di due unicorni vivi, che in Francia riusciranno ad acclimatarsi e a riprodursi senza problemi, tanto da diventare animali domestici.


Ovunque si trovi, Napoleone non si dimentica mai della lontana Europa. «Era una cosa ben strana, per chi otteneva la concessione di costruire un opificio sulla riva di un fiume di Francia o d’Italia, vedersi arrivare il permesso imperiale da una città tartara o indostana».


I cinesi si lasciano assoggettare senza combattere, convinti che nella loro storia questa conquista sarà solo un breve incidente di percorso. Ma si sbagliano: «Per loro Napoleone non era che una ventiduesima dinastia, da registrare dopo le altre negli annali. Ma Napoleone non era uomo disposto a venire dopo chicchessia. Se avesse potuto distruggere la storia e il passato, non avrebbe esitato. Così fece scoprire loro per la prima volta che cosa sia una rivoluzione».


Questo sogno di fare tabula rasa, di eradicare il passato – e, in modo ancora più spregiudicato, di sostituirlo con dei presenti compossibili – è ben illustrato anche, in due occasioni, dal viaggio di rientro dalla campagna d’Asia (conquista del Giappone e dell’Oceania, su cui non mi dilungo).


Tornando in Europa per mare, e prima di ammirare il Picco di Tenerife che adesso, scolpito sotto la direzione di David, raffigura la sua effigie per un’altezza di ben 10.000 piedi, l’imperatore passa al largo dell’isola di Sant’Elena e cade inspiegabilmente in uno stato di profonda prostrazione. Un anno dopo ordinerà l’evacuazione di tutti gli abitanti dell’isolotto e lo farà saltare in aria, cancellandolo dalla faccia della terra. «Che cosa dunque» si chiede Geoffroy «aveva motivato quella condanna a morte di un’isola da parte di un uomo? Capriccio, ricordo, orrore, timore superstizioso? Chissà!». (Sappiamo però che uno dei quaderni di scuola del giovane Bonaparte si concludeva con questa secca annotazione, dopo la quale le pagine erano state lasciate in bianco: «Sant’Elena, piccola isola»).


Altro gesto simbolico, sebbene meno ambiguo: per festeggiare il ritorno del conquistatore, gli abitanti di Ajaccio fanno radere al suolo la loro città così che, a partire da quel momento, nessuno vi possa più nascere.


Tralascio qualche cronaca militare. Visto il successo della campagna d’Africa (giugno 1825-marzo 1827), l’America decide di anticipare gli eventi e aderisce all’Impero per unanime decisione del Congresso. Non manca più nessuno. La monarchia universale è cosa fatta, e sarà proclamata il 4 luglio 1827. Una serie di riforme perfezionerà l’unificazione.


Quanto alle religioni, gli ebrei danno il buon esempio abiurando la propria nel corso di un ultimo sinedrio. Il Concilio ecumenico di Parigi fonde tutte le confessioni esistenti in quella cattolica. Stessa cosa per le lingue: «La lingua francese divenne la lingua di Dio, come già lo era del mondo». Per quanto riguarda le razze, invece, l’ispirazione di Geoffroy è frenata da un certo ritegno, tanto più inspiegabile in quanto gli scienziati avevano elaborato uno straordinario progetto che avrebbe consentito di uniformare il colore della pelle, vale a dire di sbiancare tutti quanti. Siccome tuttavia per realizzarlo sarebbero necessarie perlomeno sette generazioni, l’imperatore ci rinuncia. In ogni caso, anche se alla fine non ha voluto, l’onore è salvo: avrebbe potuto farlo.


A questo punto si verifica uno strano episodio. Nel giorno stesso della proclamazione della monarchia universale («una giornata bella e limpida, come tutte le giornate imperiali»), il generale Oudet chiede udienza all’imperatore, lo accusa di tirannia e si suicida davanti a lui. «Era valoroso, ma pazzo» commenta Napoleone. L’indomani altri cinque militari si fanno saltare le cervella sulla tomba del ribelle. «Era» chiosa Geoffroy «ciò che restava della falange degli uomini liberi, e non ci furono più sulla terra né un uomo né una parola per esprimere l’idea di libertà». L’autore sembra ritenere positivo l’essersi sbarazzati di quel seccante pregiudizio, sembra rallegrarsi, senza ombra di ironia, che la sola politica ormai permessa, riservata all’imperatore, sia «la polizia, immensa rete che abbracciava l’universo intero, che tutti percepivano e nessuno osava vedere». Questa mescolanza di utopia totalitaria e di ispirazione stravagante (i cembali da scrittura mi sembrano degni di un Fourier) non è certo il più insignificante tra i paradossi dell’opera.


Il 5 agosto 1828 ha luogo la seconda Incoronazione. Stando alla formula di papa Clemente XV (l’ex cardinale Fesch, zio di Napoleone), «Dio ti consacra per mano mia monarca universale della terra. Che il suo nome sia adorato, che il tuo sia glorificato!». Per l’occasione il cielo si infiamma. Due stelle della cintura di Orione, dopo aver brillato di una luce abbagliante, si spengono per sempre. Questa doppia nova (basti pensare che la nascita di Cristo ne aveva richiesta una sola) segna l’apogeo della carriera imperiale, ed è in un mondo pacificato, felice e poliziesco che Napoleone, il 23 luglio 1832, muore per un improvviso colpo apoplettico, all’età di 62 anni, 11 mesi e 10 giorni.


 


 


Mi è sembrato utile riassumere questa ucronia trionfante, trionfale. Ucronia, al tempo stesso, ingenua, che fa di Geoffroy una specie di postino Cheval del genere, ucronia oleografica, ucronia tutta trattati-e-battaglie e talora noiosa quanto un manuale di storia, ma in cui sono già presenti le costanti che saranno poi sviluppate da autori più sofisticati. Per cominciare, la componente affettiva: cresciuto nel culto dell’imperatore, Geoffroy non può rassegnarsi all’idea della sua caduta, che lo tocca così da vicino. In secondo luogo, la certezza che la storia che racconta sia quella giusta e che avrebbe portato l’armonia tra gli uomini. Infine, la sensazione, inscindibile da tale certezza, che l’altra storia, quella che conosciamo, sia sbagliata, che sia necessario esorcizzarla, tacerla, estirparla alla radice con ogni mezzo possibile.


E soprattutto questo altro aspetto, commovente: dal momento che non si può fare in modo che la storia sbagliata non abbia avuto luogo, e neppure che gli uomini la ignorino, bisogna prodigarsi, soli contro tutti, per screditarla.


Dopo la campagna d’Asia, subito prima dell’episodio di Sant’Elena, Geoffroy inserisce un capitolo speculativo intitolato «Una presunta storia», in cui denuncia «il romanziere disonesto che si ripropone di insultare un grand’uomo e di svilirne la patria, confezionando a beneficio dei posteri non so quale odiosa e infamante impostura, la cui onta deve ricadere sul suo autore. Avrete già capito che alludo a quella fantasiosa storia di Francia, dalla presa di Mosca ai nostri giorni, una storia accettata da tutti per non so quale capriccio, che troviamo riprodotta ovunque in ogni salsa e talmente diffusa che, nei secoli a venire, i posteri si chiederanno se quel romanzo non sia la vera storia. Quindi adesso, interrompendo per un momento la narrazione della grande storia, tra la resa dell’Asia e la capitolazione del resto del mondo, voglio raccontarvi fin dove l’anonimo autore di questa menzogna ha osato spingere la sua immaginazione».


Segue il racconto della caduta dell’Impero, dalla sconfitta della Beresina fino all’esilio sull’isola d’Elba, poi la parentesi dei Cento Giorni, nella quale Geoffroy individua un sussulto di onestà da parte del calunniatore, che però poi ricade immediatamente nella sua perversa fantasticheria immaginando Waterloo, Sant’Elena, Hudson Lowe... Geoffroy inframmezza il resoconto di questo incubo con commenti quali «Orrende imposture!», «Dio mio, è tutto falso e assurdo!» e altre esclamazioni rabbiose, per poi concludere: «Ecco cosa ha fatto di Napoleone e della storia quel bugiardo, e sebbene si tratti di un’inaudita accozzaglia di assurdità e di ignominie, per non so quale capriccio è stato accolto con un interesse di cui non ci si capacita. Qualcuno si è compiaciuto di riportare queste menzogne nelle conversazioni e nei libri, e si è arrivati al punto di prestarvi non so quale vago credito che ha finito per dar loro una parvenza di realtà. Ma è dovere di uno storico ripudiare simili fandonie e dire a gran voce al mondo che questa storia non è la storia, che questo Napoleone non è il vero Napoleone».


«Non so... non so» insiste Geoffroy. In realtà lo sa benissimo. Ma finge comunque di non volersi dare per vinto. È l’ultimo tentativo disperato dell’ucronista di insinuare nella nostra mente e in quelle dei nostri lontani discendenti, per i quali l’epopea napoleonica e la sua disfatta forse un giorno appariranno oscure quanto la preistoria, il sospetto che il suo racconto possa essere vero e la versione ufficiale – ammesso che esista ancora – pura menzogna, dovuta a ignoranza o a malafede. È una scommessa sui posteri di cui non conosce la scadenza, una bomba a scoppio ritardato, che a lungo andare potrebbe cambiare la storia. Cambiare quello che si ritiene sia accaduto, quindi quello che è accaduto (questo quindi è discutibile, ma ci torneremo). Geoffroy conta sul fatto che un giorno qualcuno leggerà il suo Napoleone apocrifo e ne sarà turbato: e se fosse vero? Per inclinazione personale io non rimpiango affatto la caduta dell’Impero, ma per far sì che i cembali da scrittura siano davvero esistiti, e soprattutto che un Geoffroy non abbia scritto invano, accetterei volentieri di vedere il Picco di Tenerife trasformato in una monumentale statua dell’imperatore. E, se questo mio libretto ha un merito, è quello di aver fatto conoscere una così appassionata mistificazione.


Che tale mistificazione possa un giorno avere successo è, ovviamente, poco probabile. Ma non concederle nemmeno una possibilità mi sembra eccessivo. Pensateci. Pensate alle vostre lacune storiche, chiedetevi che cosa sapete, per esempio, dell’usurpazione di Avidio Cassio, ai tempi di Marco Aurelio, e se davvero non sarebbe possibile darvene a bere una versione apocrifa. Certo, ci sono le biblioteche, le enciclopedie, ma potrebbero essere distrutte da un cataclisma.


E, anche se dovessero resistere al tempo, è ragionevole riporre in loro una fede cieca? E, specularmente, è irragionevole puntare sull’ignoranza o piuttosto sulla legittima diffidenza dei lettori?


È qui che la storia segreta, da cui avevo voluto distinguere l’ucronia, per un puntiglioso scrupolo d’ordine, potrebbe venirle in soccorso, se solo quest’ultima acconsentisse a barare.


Non riporterò il florilegio delle sue denunce. In linea di massima ci fornisce delle interpretazioni della storia inoppugnabili, univoche, di una coerenza spaventosa. Tutto, o almeno tutto ciò che fa andare male le cose, è stato ordito da gesuiti, massoni, ebrei, e via dicendo. Erano loro a muovere i fili, a fare e disfare i governi, a controllare i mercati, e questo la gente non lo sa, bisogna informarla. Cospirazioni, poteri occulti: roba da romanzo d’appendice, nel migliore dei casi, e in generale greve e spiacevole.


Ma si può anche supporre che la natura infida delle apparenze, l’interpretazione erronea delle fonti o la loro deliberata falsificazione abbiano ingannato gli storici e che i fatti si siano svolti in modo ben diverso da come li raccontano loro. Non è una cosa inedita: per un secolo e mezzo la storia dell’arte ha dato credito a un autore napoletano che, nel 1742, aveva inventato di sana pianta nomi, date e opere degli artisti dell’Italia meridionale. I dubbi che ne derivano possono dare luogo a una storia segreta innocua (non è stato ghigliottinato Luigi XVI, ma un povero cristo che gli somigliava, Napoleone è re dei Cafri), a dimostrazioni folli come quelle di Faurisson o perfino, se li si porta alle estreme conseguenze, a una generale messa in discussione della storia. Quindi a una possibile legittimazione dell’ucronia.


Per farsi beffe delle esigenze sempre più pressanti della critica delle fonti, lo storico inglese Whately un bel giorno compose un libello ironico intitolato Dubbi storici su Napoleone Buonaparte. È buona norma, ammette, fidarsi soltanto di fonti verificate. Ma esistono davvero fonti verificabili? Che prove abbiamo, una volta stabilita l’autenticità di un documento, che l’autore non abbia scritto sciocchezze? I controlli incrociati con altri documenti? Che ingenuità! Niente vieta di immaginare che diversi autori si siano messi d’accordo per prendersi gioco degli storici futuri oppure, su pressione di un qualche potere, per mantenere un segreto che non si voleva far conoscere alle generazioni a venire.


Il paradosso, come tutti i paradossi, come quello di Zenone, non trova certo applicazione nella realtà, dove gli eroi greci si lasciano tranquillamente alle spalle le tartarughe, dove mille testimonianze concordi sull’incoronazione di un imperatore bastano a convincere anche lo storico più sospettoso. Ma, come paradosso, regge. E, se uno volesse essere realmente critico verso le proprie fonti, dovrebbe, prima o poi, dubitare dell’esistenza stessa di Napoleone Bonaparte. (Per inciso: l’opinione secondo cui Napoleone non è mai esistito è stata sostenuta anche, sempre nel 1836, l’anno in cui usciva il libro di Geoffroy, da un certo J.B. Pérès, ma per ragioni diverse da quelle addotte da Whately. Secondo questo autore, Napoleone non sarebbe altro che una figura allegorica, ovvero la personificazione del sole. Il suo nome deriva infatti da quello di Apollo, il suo cognome significa la parte buona, ovvero la luce contrapposta alle tenebre, ha avuto tre sorelle – le tre Grazie –, quattro fratelli – le quattro stagioni –, dodici marescialli – i dodici segni zodiacali –, due mogli – la Terra e la Luna –, delle quali soltanto la seconda gli ha dato un figlio – Horus –, ha conosciuto la gloria nel Mezzogiorno e la disfatta nel Nord, seguendo in questo la parabola dell’astro; infine, conclude misteriosamente l’autore, «Avremmo potuto invocare ancora, a sostegno della nostra tesi, un gran numero di regi decreti le cui date certe sono in aperta contraddizione col regno del preteso Napoleone, ma abbiamo le nostre ragioni per non farvi ricorso»).


La generalizzazione di simili sospetti suscita strani interrogativi. Chi ci assicura che la storia universale, dagli uomini delle caverne alle ultime elezioni amministrative, non sia una specie di gigantesco trompe-l’œil, frutto di una cospirazione millenaria ordita da generazioni e generazioni di intellettuali che si sarebbero passati ininterrottamente il testimone, con lo scopo perverso di contraffare la realtà nel suo dipanarsi? Che tutta la storia non sia segreta, completamente diversa, e non nell’interpretazione – tesi che può essere sostenuta senza destare scandalo – ma proprio nei fatti? Che, per esempio, fino a un secolo fa ciò che – attenendoci alla finzione che ci viene inculcata – chiamiamo Europa non fosse soltanto un territorio incolto popolato da orde di barbari che si ammazzavano a randellate per un tozzo di pane? Che perfino quello che sappiamo della nostra storia individuale non sia a sua volta illusorio? Allora l’ucronia potrebbe essere vera. Tutte le ucronie potrebbero esserlo.


D’altro canto, il credito che hanno appena acquisito viene meno quando si arriva alla formulazione più radicale del paradosso. Perché non basta dire che la storia è un cumulo di menzogne, una massa di corbellerie sotto la quale si nasconde una realtà misera o splendida ma comunque diversa. Se si imbocca questa strada, la storia cessa molto semplicemente di esistere. La memoria, collettiva ma anche individuale, obbedisce alle leggi dell’anamnesi. Crede a un progresso che non ha mai avuto luogo, che esiste soltanto nel mondo delle idee. Bertrand Russell (L’analisi della mente) sostiene che il nostro pianeta è stato creato un attimo fa e che è popolato da un’umanità convinta di ricordare un passato in realtà illusorio. E, tra le innumerevoli particelle di presunto sapere, di presunta storia, che compongono questa illusione, lo stesso Russell, prima di rassegnarsi ad aumentarne la massa, dev’essersi ricordato dell’ingegnosa teoria avanzata quarant’anni addietro da Philip Henry Gosse al fine di conciliare la Bibbia e Darwin, la lettera della Genesi e le scoperte della paleontologia. La storia del mondo, dice Gosse, è costituita da un’implacabile successione di cause ed effetti. Lo stadio A produce lo stadio B e implica lo stato Z. Viceversa, lo stato Z presuppone lo stato A. Dio, tuttavia, può benissimo interrompere la storia, per esempio allo stadio T. Allo stesso modo può aver creato il mondo direttamente allo stadio E. Ciò non significa che gli stadi A, B, C, D siano stati cancellati. Sebbene non siano esistiti, l’umanità e la natura se li ricordano. Il primo istante del mondo, l’inizio della Creazione, implica non solo un futuro ma anche un passato, e Adamo, stando a questa ipotesi, è provvisto di un ombelico sebbene nessun cordone ombelicale lo abbia mai unito a una madre. Analogamente sono stati ritrovati gli scheletri fossili di animali preistorici sebbene questi animali non siano mai vissuti, dal momento che l’epoca della loro esistenza è anteriore alla Creazione.


Ma basta scherzare. Questa stupidaggine epistemologica va poco lontano e, in fin dei conti, il peso di una memoria illusoria non è minore di quello di una memoria autentica. Ecco perché, prima di spingersi fino a questi eccessi che gli appaiono insopportabili quanto a chiunque altro, l’ucronista fa marcia indietro. Anziché concludere che la storia non esiste, preferisce, se è ragionevole (ma di fatto non lo è, poiché è un perverso), convincersi che sia falsificata e ingannevole, e che sia possibile convincere gli altri di questo inganno, rimpiazzandolo con il suo. Non è una pretesa insensata. Solo che richiede mezzi di cui il singolo non dispone, ma lo Stato sì.


 


 


La storia, soprattutto nei regimi totalitari, ha talora adottato il modello ucronico e dato prova di un’audacia ben maggiore di quella necessaria ai timidi tentativi di ‘disinformazione’ denunciati al giorno d’oggi da certi polemisti liberal. È noto, per esempio, che una serie di tagli minuziosi ha permesso, a partire dal 1924, di far sparire Trockij dalle foto in cui appariva accanto a Lenin e, in generale, dall’intera epopea rivoluzionaria. È forse meno noto che quando Berija fu arrestato, nel luglio del 1953, nella Grande enciclopedia sovietica di cui i membri del Partito ricevevano ogni mese nuovi fascicoli si leggeva ancora una voce lunga e lusinghiera su questo fervente amico del proletariato; nel mese che seguì alla sua caduta in disgrazia gli abbonati ricevettero, insieme alla nuova dispensa, una circolare che li invitava a ritagliare con una lametta la voce su Berija e a rimpiazzarla con un’altra, inclusa nella busta, riguardante lo Stretto di Bering.


Potremmo fantasticare a lungo su questa deriva spaziale, questa sostituzione di un uomo con un luogo – o meglio, con un interstizio – e immaginare, già che ci siamo, le distese ghiacciate dello stretto, popolate di contadini e villaggi da operetta, simili a quelli che, due secoli prima, Potëmkin aveva fatto costruire in occasione del viaggio dell’imperatrice Caterina II: la zarina aveva espresso il desiderio di visitare le sue terre e c’era il rischio che, viste per quello che erano, potessero farle una cattiva impressione.


Simili stravolgimenti, cancellazioni, trompe-l’œil sono veri e propri strumenti di potere e Simon Leys, che ne ha denunciati di clamorosi nella Cina di Mao, giustamente, a questo proposito, cita Orwell:


«Se date un’occhiata alla storia della prima guerra mondiale sull’Enciclopedia Britannica, per esempio, noterete che buona parte delle informazioni è basata su fonti tedesche. Uno storico inglese e uno storico tedesco possono avere punti di vista diversi su parecchie cose, e perfino su questioni fondamentali, ma ciò non toglie che, su una certa massa di fatti per così dire neutri, non contestino mai in modo significativo la posizione dell’altro. È proprio questa base comune di accordo, con l’implicazione che gli esseri umani formano una stessa e unica specie, che viene distrutta dal totalitarismo. La teoria nazista nega specificamente l’esistenza del concetto di ‘verità’. Per esempio, non esiste la ‘scienza’ nel puro senso del termine, ma solo una ‘scienza tedesca’, una ‘scienza ebraica’, ecc. L’obiettivo che una simile linea di pensiero implica è un mondo da incubo in cui il Capo o la cricca al potere controllano non solo il futuro, ma anche il passato. Se il Capo dichiara, a proposito del tale o del talaltro avvenimento, che non si è mai verificato, be’, non si è mai verificato» (Ricordi della guerra di Spagna, 1943).


Nel dicembre del 1961 uscì su «France Observateur» un racconto di Natale firmato Edgar Morin e intitolato Il compagno-Dio. Vi si leggeva che Stalin non era morto nel 1953, che le purghe erano continuate a ritmo frenetico e che nel 1961 il Piccolo padre dei popoli era stato riconosciuto come Dio. Questa storiella ucronica serve soprattutto da pretesto per una satira il cui pezzo forte è la rassegna stampa che illustra le reazioni francesi. (Editoriale di Aragon su «Les Lettres françaises»: «Lo sapevamo!»; articolo di Sartre: «Costretti a Dio! Una nozione che, sebbene feticizzante-astratta, è totalizzante-concreta »; telegramma del generale de Gaulle: «Mi congratulo con lei per una promozione che ci consente di aprire un dialogo alla pari», ecc.). Dimentica però di sottolineare che i poteri del Padre dei popoli, del Führer o del Grande Timoniere vanno ben oltre quelli dell’Onnipotente, dal momento che, non contenti di riformare la matematica stabilendo, come in Orwell, che due più due fa cinque, i primi si arrogano addirittura il privilegio che san Tommaso d’Aquino negava al secondo: far sì che non sia stato ciò che è stato. E viceversa.


(Prima di lasciare il campo della storia reale, voglio ricordare, per inciso, questa ovvietà: l’ucronia, a volte, è uno strumento di potere; molto spesso, in alternativa, è una forma di discorso politico. L’argomentazione «se mi avessero dato ascolto, se avessero votato per me, non saremmo a questo punto: ma si può ancora rimediare», ebbene, questa argomentazione ispira tanto la più squallida demagogia quanto certe rappresentazioni più radicali. Riguardo al primo caso non farò esempi, per il secondo invece citerò Marat, che l’assemblea girondina, nel 1792, vuol far arrestare perché lo giudica troppo sanguinario. Non è superfluo, per capire il clima, sapere che Marat riesce a mettere a tacere i deputati solo puntandosi una pistola alla tempia. A quel punto dichiara: «Dite che sono assetato di sangue. Nel 1789 ho chiesto cinquecento teste. Non mi avete dato ascolto, ci sono stati cinquemila morti. Nel 1791 ho chiesto cinquemila teste. Non mi avete dato ascolto, ci sono stati cinquantamila morti. Oggi chiedo cinquantamila teste, per evitare che domani ne cadano cinquecentomila. E ancora mettete in dubbio che io sia un filantropo»).


 


 


Rispetto al Big Brother, capace di creare nel linguaggio, nella coscienza, nella memoria – e a quel punto che importanza hanno i fatti? – una guerra esterna in grado di convogliare tutte le energie degli oceaniani, l’ucronista dilettante è tutt’al più nella posizione di quei soldati giapponesi dimenticati su un atollo del Pacifico e convinti che la guerra non fosse finita. Per consolarsi può sempre sfruttare a suo vantaggio la legge medievale della «parte migliore», grazie alla quale, nei conventi, una fervida convinzione prevaleva su dieci obiezioni tiepide. Resta il fatto che, per mancanza di autorità e di mezzi, il comune mortale non può sperare di far condividere ai suoi simili la sua visione delle cose, i suoi auspici retrospettivi.


L’utopista, in confronto, è avvantaggiato. C’è una certa ingenuità, ma non una totale mancanza di realismo, nella speranza di Fourier che un giorno un mecenate si presenti al suo appuntamento quotidiano al Palais-Royal e gli offra il finanziamento necessario per realizzare su questa terra la sua utopia. La speranza di un Geoffroy, solo contro tutti, è per forza di cose più esile. Non nulla, come abbiamo visto, ma fuori dalla sua portata. Che fare? O credere che un giorno gli altri gli crederanno, che la sua Conquista del mondo soppianterà la presunta Presunta storia. Oppure rimboccarsi le maniche e distruggere tutte le tracce di quest’ultima. Avventurarsi in questa fatica di Ercole, vale a dire sulla strada della follia.


È a un personaggio del genere che probabilmente pensano i frequentatori delle biblioteche quando si imbattono in opere mutile, a cui mancano delle pagine, a volte interi capitoli: il monomaniaco, discreto, furtivo, che si scusa quando gli pestano i piedi, ordina tutti i libri che minacciano il suo fragile equilibrio mentale e, dopo essersi assicurato che nessuno lo stia osservando, tira fuori dall’ampio cappotto il righello che gli serve a strappare con un taglio netto, di nascosto, i brani incriminati. Anche nelle librerie cerca di procurarsi tutte le copie in circolazione dei libri in cui è documentata la storia che lui condanna, e ogni volume bruciato o censurato, ogni storico assassinato (già che ci siamo) costituisce un passo in avanti verso la riabilitazione del passato che avrebbe dovuto essere.


Alcuni autori, a quanto pare, operano scempi simili sui loro vecchi libri che, arrivati a una certa età, si pentono di aver pubblicato. Altri, a furia di citarli, finiscono per regalare un’esistenza bibliografica a testi che non sono mai stati scritti. Così, perfezionando una prassi cara a Carlyle e a Marcel Schwob, Jorge Luis Borges la trasformò in un vero e proprio sistema in cui si mescolavano pigrizia ed erudizione, e arricchì la letteratura universale delle opere tutt’altro che trascurabili di Pierre Menard, di Herbert Quain e – perlomeno cercò di avvalorare questa tesi – di Jorge Luis Borges. Così, da quando il romanziere americano Howard Phillips Lovecraft e i suoi sodali hanno basato i loro racconti fantastici su una mitologia e un corpus di testi sacri immaginari, tutti i bibliotecari del mondo si vedono periodicamente chiedere i Manoscritti pnakotici o il terrificante Necronomicon dell’arabo pazzo Abdul Alhazred.


Le mistificazioni letterarie, le bibliografie inventate sono trasgressioni troppo esigue perché le si possa definire ucroniche: non hanno grandi probabilità di deviare il corso della storia. Ma, volendo individuare ogni minimo vicolo cieco, va detto che indicano comunque una scorciatoia all’ucronista desideroso di passare all’atto, di imporre la sua versione dei fatti anziché limitarsi ad affidarla alla scrittura. Per imboccarla basta volare un po’ più basso, evitare di prendersela con pesci troppo grossi.


Eliminare ogni traccia della sconfitta di Waterloo è un’ambizione eccessiva e rivela chiaramente la follia di chi volesse farlo. Tutto sommato, a questo scopo sarebbe meglio trasferirsi in Inghilterra, dove Waterloo è una vittoria, e liberarsi della sensazione espressa da Alphonse Allais, secondo il quale tutte le strade inglesi, e anche le stazioni, hanno nomi di sconfitte. Dà meno nell’occhio, invece, far resuscitare un milite ignoto caduto sul campo di battaglia, o ucciderne un altro sopravvissuto. Tutt’al più bisognerà falsificare qualche registro anagrafico, qualche documento di famiglia, andare a caccia di qualche libro di memorie dimenticato da tempo ma che, se venisse riesumato, potrebbe far fallire l’operazione. Non è difficile, anzi è una cosa fattibilissima, e del resto si tratta di una prassi ben nota ai criminali che devono crearsi un alibi, alle famiglie puritane che vogliono nascondere l’esistenza di una ragazza madre. Tutti, giorno dopo giorno, nutrono di simili imposture il romanzo della loro vita o delle loro origini e, se non cercano le prove che potrebbero smentirli, è perché spesso queste prove non esistono. Chi potrebbe mai dimostrare che il figlio di un piccolo borghese qualsiasi non è affatto, come lui crede, il rampollo di una famiglia reale, scambiato per errore nella culla?


Ucronia potrebbe quindi essere anche il termine un po’ pedante per indicare questo tipo di falsificazioni banali, individuali, segrete. Ma, se ampliamo così tanto il suo campo, se includiamo tutto quello che per comodità chiamiamo «raccontarsi frottole», l’ucronia finisce per perdere la sua forza, che deriva paradossalmente proprio dall’esistenza di prove contrarie. O meglio: di prove più solide dell’ucronia stessa. Essere un ucronista, anche su un piano personale, significa trovarsi da solo contro tutti, non poter contare, per l’appunto, sull’approvazione degli altri, del senso comune, della memoria condivisa.


Superato un certo grado di segretezza e di non verificabilità, l’ucronista è a suo agio, perché può cullarsi nelle sue certezze che niente potrà scalfire e, proprio per questo, cessa di essere un ucronista. Viene meno la tensione che lo contrapponeva al mondo, alla realtà, in una lotta la cui posta in gioco è definita dall’impossibile equilibrio tra le forze, dal moto oscillatorio che induce ad abbracciare ora l’una ora l’altra, ora la realtà ora l’immaginazione, senza poter mai scegliere in via definitiva una delle due. «Lo so, eppure...»: l’ucronia si regge interamente su questo andirivieni e perde vigore non appena ci si radica nell’immaginazione – nel qual caso si è pazzi ed è tutto molto più semplice – o nella realtà, con la quale si può scendere a patti e che, vista la grande quantità di dati non verificabili, permette di alimentare, senza danno né scandalo, qualche piccola convinzione personale che niente contraddice e che non contraddice niente. L’uomo che, con indosso una redingote grigia e una mano sulla pancia, crede di essere Napoleone e l’uomo che, interpretando o manipolando un archivio di famiglia, è convinto di discendere da Napoleone sono entrambi stabili, fermi al capolinea e ormai tranquilli, mentre il pendolo ucronico oscilla senza tregua, mentre l’ucronista continua, come un diavoletto di Cartesio, a correre di qua e di là, attirato dai due poli, la verità che ammette e la fantasia che desidera e a cui il suo solo desiderio conferisce un peso sufficiente perché sia garantito l’insostenibile equilibrio.


Occorre una sorta di eroismo mentale, caratterizzato da una certa elasticità, ma non soltanto, per praticare un simile esercizio, per tener viva un’illusione senza perdere il senso della realtà, per non scrivere una parola senza la consapevolezza di essere smentiti dal semplice fatto che la si scriva. Credo che, in termini psicoanalitici, questo comportamento si definisca negazione, e chi lo adotta perverso e feticista. Sì, perché, quando non sfocia nella follia, la negazione della realtà si suggella con l’adozione di un feticcio, che ha il compito di rappresentare e al tempo stesso di eliminare la contraddizione insostenibile. Tutte le speculazioni ucroniche sono, in questo senso, dei feticci. E i feticci funzionano, nel senso che preservano la ‘ragione’ del soggetto. Dal momento che è perverso, l’ucronista non è pazzo, né potrebbe mai esserlo. Per questo motivo, a dispetto di quanto posso aver lasciato intendere prima, non credo che Geoffroy, esimio magistrato, abbia confidato anche solo per un istante nel successo del suo stratagemma. Neanche a lunghissimo termine, sebbene lo abbia sfiorato l’idea che le civiltà umane sono mortali e che, nel naufragio della nostra, il suo libro avrebbe potuto essere l’unica traccia superstite dell’epopea imperiale, un messaggio in una bottiglia più fortunata di tanti contenitori stracolmi di verità storiche e condannati ad affondare.


Non lo credo e soprattutto – ed è questo il punto fondamentale – non credo che quella certezza gli sarebbe bastata. Se l’ucronia disdegna le risorse pur numerose della falsificazione è perché le sue intenzioni sono più nobili, perché il suo sogno non è tanto abolire o distorcere la memoria, quanto modificare il passato. Ebbene, non è possibile. «What’s done cannot be undone» dice Macbeth. Anche se fosse l’unico al mondo a conoscere la sconfitta della Beresina, Geoffroy non ne trarrebbe grande consolazione e probabilmente non riuscirebbe a tenere per sé il segreto. Il vero dramma, l’irreparabile, non è che la sconfitta sia nota, ma che abbia avuto luogo. E tutti i trompe-l’œil consentiti dalla storia segreta, perfino l’oblio, sono solo inutili palliativi, un po’ come fasciare una gamba di legno. Al pari di un mutilato, Geoffroy avverte acutamente nella gamba di legno la dolorosa mancanza della gamba reale. Nessuna protesi, per quanto capace di ingannare gli altri, ha il potere di placare la sua sofferenza. Bisognerebbe che la gamba non fosse mai stata amputata, questo è il punto.


Bisognerebbe tornare al momento dell’amputazione, mandare a chiamare un chirurgo migliore. O, al momento della ferita, deviare la pallottola o il colpo di mortaio. O fare in modo che l’arma non sia stata caricata, che un’altra pallottola abbia colpito il tiratore, che questi non sia mai esistito. Magari uccidere suo padre prima che conosca sua madre o far abortire sua madre: le possibilità sono innumerevoli, eppure è proprio enumerandole che l’infermo si distrae dal dolore. Un dolore sordo, ripetitivo, che induce a cullarsi in un pensiero vegetale. «L’irrevocabile» dice Vladimir Jankélévitch «non può essere oggetto di nessuna esperienza sensibile o patica, e nemmeno di discorso» (L’irréversible et la nostalgie). Se non di un discorso ridotto alla mera tautologia: quel che è fatto è fatto; quel che è fatto poteva, in quel momento, non essere fatto, ma ormai è fatto; non è possibile aver fatto e al tempo stesso non aver fatto. E così via, senza scampo né speranza, nemmeno di poterne ricavare dei bei versi. Perché (ancora Jankélévitch) «se il sentimento dell’irreversibile è essenzialmente ineffabile, quello dell’irrevocabile è inesorabilmente indicibile».


Ebbene sì, e l’unica cosa che si può dire è il sogno di sottrarvisi, l’ipotesi insostenibile del miracolo. Ve ne racconterò uno che Geoffroy non poteva conoscere, visto che è stato inventato nel 1938 dal romanziere belga Marcel Thiry, che non poteva nemmeno immaginare, perché l’idea dei viaggi nel tempo era inconcepibile all’epoca, e che infine non gli sarebbe piaciuto, perché esaudisce desideri opposti ai suoi, ma in cui avrebbe forse riconosciuto l’immagine speculare della sua malinconia.


 


 


Commesso viaggiatore, il narratore di Scacco al tempo (questo il titolo del romanzo), nel recarsi a Ostenda, attraversa la piana di Waterloo, dove un monumento celebra l’aquila imperiale, poi passa davanti all’ippodromo Ney, tutti particolari da cui il lettore può dedurre che, nell’universo del libro, Waterloo è stata una vittoria francese. A Ostenda si mette a chiacchierare con due uomini: un suo ex compagno di scuola e un giovane inglese sconosciuto. I due amici, per dirla con le loro parole, hanno «dichiarato guerra alla Causalità». Intendono liberare il mondo da quell’odioso giogo, fare in modo che «l’indomani del 5 non sia necessariamente il 6», che sia possibile «vivere un giorno senza essere più vecchio di un giorno», e il loro motto è il verso di Ovidio in cui si parla di «natos sine semine flores» – fiori nati senza seme –, superba immagine della concezione verginale, che fa pensare anche alla teoria di Gosse.


Questo progetto non è né disinteressato né irrealistico. Il giovane inglese, infatti, di nome Douglas Hervey, è un discendente dell’ufficiale (inglese) considerato responsabile della sconfitta (inglese) di Waterloo e vorrebbe riabilitare la memoria del suo antenato. Volendo verificare innanzitutto l’esattezza dei fatti, ha costruito una macchina per tornare indietro nel tempo, simile a quella immaginata da H.G. Wells, con la sola differenza che la sua non permette realmente il viaggio ma solo la visione retroattiva. Così, su uno schermo simile a quello di un cinema, Hervey, il narratore e il suo amico assistono alla battaglia di Waterloo. L’inventore, fedele alla sua ossessione, si intestardisce a verificare il ruolo del suo avo, e scopre che in effetti dipendeva tutto da lui, dalla sua missione di ricognizione e dalle informazioni che doveva trasmettere a Wellington. «Il destino dell’Europa si era giocato a Waterloo; ma a Waterloo il destino della battaglia era dipeso, verso le sei e tre quarti, dal giudizio, dal colpo d’occhio e anche dalla fortuna di un cavaliere di ventiquattro anni, fermo su una collinetta a nord di Papelotte».


I nostri eroi proiettano e riproiettano senza sosta il film della battaglia. E ogni volta l’errore di valutazione, la negligenza del cavaliere Hervey inducono in errore Wellington: questi ordina la ritirata, e così l’esercito imperiale vince. L’inventore è disperato. Sogna di poter non solo vedere ma anche modificare il passato, così da spingere il suo antenato ad avere qualche minuto di pazienza, il che gli permetterebbe di valutare meglio la situazione, di informare meglio lo stato maggiore inglese e di conseguenza di capovolgere le sorti della battaglia. E, sebbene la sua macchina non consenta di intervenire in modo diretto, si convince che l’ostinata reiterazione del passato avrà l’effetto di consumarlo, di allentarne la trama tanto da rendere possibile lo strappo decisivo.


Arrivato a questo punto, l’autore introduce nel suo racconto un elemento patetico, nella persona di una giovane madre che, un anno prima, ha causato per sbadataggine la morte della figlia. In seguito a questa disgrazia ha perso la ragione e da allora vaga per il quartiere lanciando grida strazianti. Venuta a conoscenza dell’esperimento di Hervey, comincia a riporvi una speranza commisurata al proprio dolore. Se l’inventore riuscirà a modificare l’esito della battaglia di Waterloo, allora, a rigor di logica, potrà anche evitare l’incidente che è costato la vita a sua figlia e restituirgliela. Il sogno ucronico è mosso quindi dal convergere di due nostalgie: quella di Hervey junior, che auspica la sconfitta di Napoleone per la gloria del suo avo, proprio come Geoffroy desiderava veder continuare le vittorie dell’imperatore nel cui esercito aveva prestato servizio suo padre, e quella, ben più viva e viscerale, della giovane madre, il genere di nostalgia che deriva dalla perdita di un proprio caro e che, in questo racconto, determina il miracolo, fornendo una chiara illustrazione dell’idea espressa da Oscar Wilde secondo la quale pentirsi di un’azione equivale a modificare il passato (De Profundis. Un concetto simile è anche nel mistero cristiano della confessione).


Per l’ultima volta, prima di darsi per vinti, i tre amici, insieme alla giovane donna che ha insistito per prendere parte all’esperimento, osservano il campo di battaglia di Waterloo. E, nel momento cruciale, quando Hervey senior si appresta a lasciare il suo posto d’osservazione per andare a fare rapporto, la giovane madre, colta da uno dei suoi accessi di follia, si lascia sfuggire un terribile gemito. «Si sarebbe detto che tutti coloro che dalla notte dei tempi avevano sofferto per l’irreparabile gridassero attraverso quella voce, invocando la liberazione. Tutta la ribellione contro quello che non avrebbe dovuto essere, tutta la rivolta sollevatasi contro la legge dei fatti inespiabili passavano in quello strepito di donna mutilata».


Questa rivolta delle viscere compie il miracolo che la rivolta della mente, marziale quanto si vuole, e pia, ma non abbastanza intensa, non era stata capace di relizzare. Quel grido lanciato a Ostenda nel XX secolo, l’ufficiale inglese Hervey lo sente a Waterloo nel 1813. Si volta, ha un attimo di esitazione. Si trattiene ancora un po’. E Waterloo diventa una vittoria inglese.


Quindi è possibile modificare il passato. Quindi sarà possibile, in teoria, salvare la bambina. Nel frattempo cambia tutto. «Tra le infinite soluzioni possibili che divergono in ogni istante, l’evento ha scelto questa, che non aveva ancora tentato, e ora lo vediamo avanzare, attraverso un tempo vergine, attraverso dei fatti che non sono più il nostro passato».


Le conseguenze di questa retroazione sono al tempo stesso prodigiose e impercettibili, perché tutti, da un momento all’altro, si convincono, in perfetta buona fede, di aver vissuto da un secolo e mezzo nell’universo in cui Napoleone è stato sconfitto a Waterloo, in cui l’ippodromo di Ostenda si chiama ippodromo Wellington, la stazione di Londra Waterloo Station. Il lettore stesso ha mai creduto qualcosa di diverso?


Solo il narratore, in virtù di un prodigio che è l’unica incoerenza del racconto, nonché la sua legittimazione, si ricorda di entrambe le storie, di aver vissuto prima in un mondo e poi nell’altro.


E i suoi due compagni? L’inventore, Hervey junior, sperimenta l’atrocità di un paradosso la cui formulazione più nota è stata data cinque anni dopo da René Barjavel (Il viaggiatore imprudente, 1943). Nel mondo in cui Napoleone vinceva a Waterloo, Hervey senior batteva prudentemente in ritirata, si sposava in Inghilterra, aveva molti figli e discendenti, tra i quali l’inventore. Ma nel mondo determinato improvvisamente dal suo bisnipote, nel mondo in cui porta la sua patria alla vittoria, paga questo trionfo con la vita. Ucciso in battaglia prima di aver procreato, non ha discendenti, e Hervey junior, dopo aver determinato questa nuova versione della realtà, svanisce insieme alla sua macchina. Per il puro e semplice motivo che non possono essere esistiti. «Avevo assistito» riassume il narratore «al più sconvolgente dei suicidi: un suicidio che non si limitava a interrompere la vita, ma la sopprimeva all’origine, risalendo addirittura indietro di quattro generazioni». In questo modo «il principio di causalità si prendeva una solenne rivincita sul suo distruttore».


Questa rivincita provoca tre conseguenze. La prima è marginale ma atroce: dal momento che è scomparso l’inventore, e con lui la sua invenzione, la bambina non verrà mai restituita alla madre. La seconda non viene sviluppata da Thiry, ma pone le basi del futuro paradosso di Barjavel: se l’inventore non è esistito, non può aver cambiato il passato, quindi il suo antenato non è morto in battaglia, quindi l’inventore esiste, quindi ha cambiato il passato, quindi non esiste, e così via. La terza, eludendo la seconda, ci presenta un altro prodigio: il mondo che noi conosciamo è letteralmente prodotto dall’ucronia. Il sogno, o quello che diventa il sogno, genera la realtà che lo annulla sostituendolo, ma che non avrebbe potuto trionfare senza di lui. Questa dialettica si avvicina a quella dell’apologo cinese di Zhuang-zi, il filosofo che una notte sognò di essere una farfalla e, al risveglio, si chiese se fosse davvero un filosofo che aveva sognato di essere una farfalla o se non fosse invece una farfalla che adesso stava sognando di essere il filosofo Zhuang-zi. Da questo apologo, che probabilmente non conosceva, Calderón trasse La vita è sogno e Pascal un pensiero sconcertante. Parecchi autori di letteratura fantastica lo hanno poi sfruttato. Mi sembra che Scacco al tempo lo porti all’estremo.


Quanto all’altro partecipante, l’ex compagno di scuola del narratore, non ricorda niente. Non ha mai conosciuto un inglese di nome Hervey, mai avuto dubbi sull’esito della battaglia di Waterloo, mai rivisto il suo amico dai tempi della scuola. Il narratore cerca di strappargli un ricordo delle due settimane che hanno appena trascorso insieme. Fatica sprecata, naturalmente: è forse possibile sapere che cosa faremmo, che cosa abbiamo fatto in Ucronia?


Ma c’è un particolare che per poco non lo fa vacillare. A un certo punto del racconto, quindi nel mondo alternativo, questo personaggio declamava una poesia mediocre che aveva appena composto. Il narratore, che se la ricorda, gliela recita. L’altro, sbalordito, confessa di averla sognata qualche giorno prima e di non averne parlato con nessuno.


Coleridge, attraversando il paradiso in sogno, si vede consegnare un fiore che al risveglio trova nel suo letto. Anche l’eroe di Wells riporta due fiori dal futuro. I brutti versi provenienti da Ucronia mi sembrano degni di completare la lista degli oggetti mediatori dati agli uomini a garanzia della realtà dei loro sogni e dell’esistenza di altri mondi.


Epilogo: a forza di raccontare la sua storia, il narratore viene preso per pazzo furioso e rinchiuso in manicomio. Dubbio: se dell’accaduto si viene a sapere così poco, se c’è al massimo, e per puro caso, un testimone che viene ben presto ridotto al silenzio, chi ci assicura che simili cambiamenti, simili sostituzioni accolte in modo così discreto non avvengano quotidianamente, a nostra insaputa? Chi mi può garantire che un attimo fa, nella mia coscienza come nei libri e sulle targhe delle strade, Waterloo non fosse una vittoria francese, o che i Borboni non sedessero sul trono di Francia, o ancora, su un piano più personale, che io non fossi sposato e padre di cinque figli, cosa che non credo di essere?


 


 


Di siffatti adeguamenti fornirò un altro esempio, più intimo, più segreto, anche se ha comunque come sfondo il campo di battaglia. È stato riportato da Jorge Luis Borges in un breve racconto intitolato L’altra morte.


Un vecchio militare, Pedro Damián, muore nel 1946. Ha trascorso gli ultimi quarant’anni della sua vita in solitudine e penitenza. Per tutto questo tempo ha rimuginato sul ricordo della battaglia di Masoller, a cui ha preso parte all’età di vent’anni. Durante l’agonia l’ha rivissuta un’ultima volta.


Poco tempo dopo la sua morte, Borges parla con un altro militare, dal quale viene a sapere che il defunto si era comportato da codardo sul campo di battaglia e che, per la vergogna, si era isolato per il resto della sua vita. Passa qualche mese, in cui Borges si dedica a chiosare la poesia The Past di Ralph Waldo Emerson, che affronta il tema dell’irrevocabilità del passato. Poi rivede il secondo militare e gli parla del morto che, quarant’anni prima, era indietreggiato di fronte alle pallottole. A quel punto il suo interlocutore, perplesso, quasi scioccato, gli dice che Pedro Damián, al contrario, è morto come vorrebbe morire qualunque uomo degno di tale nome nella battaglia di Masoller.


Questo capovolgimento dei fatti sconcerta Borges che, rimasto solo, fa una serie di congetture. Un vuoto di memoria del secondo militare? Due diversi Pedro Damián, uno codardo e l’altro coraggioso? Sarebbe verosimile ma insoddisfacente. La lettura di un trattato di teologia medievale, il De divina omnipotentia di Pier Damiani, in cui si dice che «Dio può far sì che non sia stato ciò che è stato», gli ispira la soluzione. Pedro Damián si è comportato da codardo nella battaglia di Masoller e ha dedicato la vita a rimediare a quella debolezza. Quarant’anni di eremitaggio e di preghiera hanno reso possibile il miracolo. «Se il destino mi concede un’altra battaglia, » dice a sé stesso «saprò meritarla». Nel delirio dell’agonia quella battaglia gli è stata concessa, lui si è comportato da prode e si è beccato una pallottola in pieno petto. «Così, nel 1946, in grazia d’un lungo patimento, Pedro Damián morì nella disfatta di Masoller, avvenuta tra l’inverno e la primavera del 1904».


Conclusione: «Nella Somma teologica si nega che Dio possa far sì che il passato non sia stato, ma non si dice nulla dell’intricata concatenazione di cause ed effetti, che è tanto vasta e segreta che forse non si potrebbe annullare un solo fatto remoto, per insignificante che sia stato, senza infirmare il presente. Modificare il passato non è modificare un fatto isolato; è annullare le sue conseguenze, che tendono a essere infinite. In altre parole: è creare due storie universali. Nella prima di esse (per così dire) Pedro Damián morì a Entre Ríos, nel 1946; nella seconda, a Masoller, nel 1904. Questa è quella che ora viviamo, ma la soppressione dell’altra non fu immediata e produsse le incoerenze che ho riferito».


 


 


I due racconti che ho riassunto a mo’ di consolazione per Louis Geoffroy – cui auguro, senza crederci, che sia morto come Pedro Damián, convinto che la sua fede avrebbe invertito la storia – implicano che la retroazione sia possibile, che le battaglie possano essere combattute una seconda volta e che un rimorso sufficientemente intenso possa cambiarne l’esito. Nonostante il macchinario che appesantisce il romanzo di Marcel Thiry, entrambi si distinguono nettamente dalle storie di viaggi nel tempo che gli autori di fantascienza, a partire da H.G. Wells (La macchina del tempo, 1895), ci propongono sempre più spesso, immaginando, come Barjavel, che facendo un salto nel passato sia possibile uccidere il proprio avo ancora scapolo, o, come Poul Anderson, che dei guardiani del tempo abbiano il compito di evitare che i viaggiatori creino paradossi temporali, o ancora, come altri, che un personaggio possa incontrare sé stesso in diversi momenti della sua vita, e così via. Sono invenzioni affascinanti, ma troppo gratuite, troppo frivole per sedurre l’ucronista, afflitto da un tormento ben più grave. Non essendo pazzo, l’ucronista non crede che una macchina possa permettere effettive interferenze con il corso della storia, e le ragazzate di chi viaggia nel tempo, alterandolo per malvagità o per errore, potrebbero al limite suscitare in lui invidia, o comunque una certa irritazione. L’ucronista sa bene che il suo solo campo di battaglia è la memoria (ma l’oblio, l’inganno, il perdono non possono servire a niente), che la sua unica possibilità è il feticcio, la sua sola arma il libro, di cui riterremo la macchina di Hervey una metafora. La sua chimera è efficace solo se deriva dalla constatazione di un’impotenza irrimediabile e se lui è spinto a sognarla da quello che i giuristi chiamano un sufficiente «interesse ad agire» – ma qui non si tratta di agire. L’ucronia non è che un gioco. Ingiocabile per natura, perché non è possibile revocare l’irrevocabile, eppure serio. E sempre triste.

 


Da un certo numero di battaglie, di epopee prorogate e di gesti coraggiosi ottenuti sul letto di morte, ho ricavato un’immagine dell’ucronia che rischia di apparire eccessivamente malinconica. Il caso di Louis Geoffroy, per esemplare che sia, non basta a definire un approccio mentale in cui si può cogliere anche lo slancio di un’immaginazione sfrenata, di una gioia di cui troppo spesso i manuali di storia ufficiale ci privano. A una tale obiezione risponderò che, appunto, quanto più un’ucronia è entusiastica tanto più il contrasto con la deludente storia ci addolora, e in ogni caso addolora il suo autore.


Lo si capisce chiaramente, a contrario, leggendo certe ucronie la cui molla non è la delusione, bensì il sollievo retrospettivo. Proprio come rimpiange che Napoleone non sia riuscito a portare a compimento la propria opera o che la venuta di Cristo abbia messo fine a un’età dell’oro, l’ucronista può rallegrarsi, per esempio, della vittoria degli Alleati nel 1944 e investire questo evento di una carica affettiva talmente intensa da provare il bisogno, tanto per vedere, di immaginare l’orribile esito opposto: il trionfo del Reich, il mondo trasformato in un campo di concentramento, in balìa del terrore e dell’impero del Male. Questa congettura ha ispirato una gran quantità di opere, perlopiù mediocri. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di rappresentazioni a breve termine dei paesi sottomessi al giogo tedesco (nei romanzi europei) o giapponese (in quelli americani), in cui l’ucronia serve soltanto a sfruttare, con maggiore o minore astuzia, il comprensibile terrore ispirato dall’ipotesi di una vittoria dell’Asse. Nel Richiamo del corno Sarban (pseudonimo dello scrittore inglese John Wall) trasforma l’Inghilterra occupata in un’immensa riserva, dove i gerarchi nazisti, Göring in testa, si dedicano ai piaceri della caccia all’uomo. Un incubo che non si è realizzato: sospiro di sollievo. Oppure la trovata può consistere nel gettare una luce inaspettata su certe situazioni contemporanee, che l’autore si limita a ribaltare. Se avesse vinto la Germania, ci sarebbero stati, secondo Randolph Robban (pseudonimo di chissà chi e autore appunto del romanzo Si l’Allemagne avait vaincu...), una conferenza di Potsdam nel corso della quale Hitler, Mussolini e Hirohito si sarebbero spartiti il mondo, e un processo di Norimberga che si sarebbe concluso con le condanne di Stalin, Truman, Churchill, de Gaulle, ecc. Una volta predisposte queste grossolane trasposizioni, il libro si sfilaccia in arguzie polemiche nello stile satirico del «Crapouillot»: Hitler incontra Paul Valéry proprio come Napoleone aveva voluto conoscere Goethe, l’esistenzialismo, di origine tedesca, diventa la filosofia ufficiale della Francia occupata, con Sartre suo gran sacerdote, e l’autore, un po’ disgustato da tutto ciò, progetta di scrivere un romanzo incentrato su questa idea eversiva: Se avessero vinto gli Alleati... (Volendo usare uno pseudonimo, adotta quello di Pierre de Repère, da cui, per simmetria, si può verosimilmente dedurre il vero nome di Randolph Robban).1


Con ben maggiore finezza, il grande romanziere americano Philip Dick immagina che le potenze dell’Asse abbiano vinto la guerra e gli Stati Uniti siano diventati un protettorato giapponese in cui l’intera vita sociale è decisa da un gioco divinatorio liberamente ispirato all’I Ching. Il romanzo, intitolato La svastica sul sole, è ambientato nel 1960 in questo universo, e le circostanze storiche che lo hanno reso possibile sono evocate solo di sfuggita, con il tono di chi le dà per scontate, esattamente come qualunque romanzo realista postula la conoscenza del mondo in cui è ambientato e non sente il minimo bisogno di ricostruirne la genealogia. Gira voce però dell’esistenza di un libro proibito dalle autorità giapponesi: circola sottobanco e suscita un’ardente curiosità. L’autore, manco a dirlo, vi mette in scena un universo in cui la Germania e il Giappone hanno perso la guerra e gli Stati Uniti sono la maggiore potenza mondiale, ma questa mise en abîme, vero e proprio topos del genere, è complicata dal fatto che non si tratta esattamente dell’universo che conosciamo noi – ma su questo tornerò più avanti – e che i lettori di questa ucronia nell’ucronia, anziché vedervi la rappresentazione di un bel sogno, finiscono col dirsi che, se fosse vero, probabilmente le cose non andrebbero meglio. Forse neanche peggio ma, in fondo, che importa? Un mondo vale l’altro.


Questa idea che, qualunque sia il cammino intrapreso, per gli esseri umani il risultato è lo stesso, ovvero la sofferenza, è – che io sappia – unica nel suo genere. La disperazione dell’ucronista di solito è alimentata dagli errori della storia, dalla sua irrevocabilità, non da una sfiducia generalizzata nell’umanità, dalla sensazione che, qualsiasi cosa facciamo, ci andrà male, che nasceremo, patiremo e moriremo. Il nichilismo di Dick, come del resto il suo talento di scrittore, travalica ampiamente, va detto, i limiti di un singolo genere letterario, che sia fantascienza o ucronia.


Con questa unica eccezione, e anche se le altre ucronie ambientate nel dopoguerra mirano più che altro a sfruttare un buon filone commerciale o una vena fortemente polemica, questa scelta sentimentale declinata secondo una prospettiva terrificante mi sembra esattamente l’opposto (ottimistico, visto che l’orrore non si è realizzato) dell’ucronia entusiastica (pessimistica, visto che le cose sono andate in un altro modo). In entrambi i casi si impone una preferenza e la molla del meccanismo ucronico, che scatti sotto la pressione del rimpianto o sotto quella del sollievo, è decisamente di tipo affettivo.


 


 


Per il senso comune la storia accreditata è quella vera e l’ucronia quella falsa. Se l’ucronista si prodiga per demolire questa convinzione, lo fa in nome di un’altra convinzione: la prima è una storia deprecabile, la seconda una storia desiderabile – la nostra lingua ci permette di rammaricarci di entrambe, dal momento che possiamo usare lo stesso verbo sia per una felicità perduta o non goduta sia per un peccato commesso. Alle categorie di vero e falso – indiscutibilmente utili allo storico – si contrappongono quelle di giusto e sbagliato, che non sono indispensabili neppure al romanziere. A spiegare questa equazione è il principio dell’interesse ad agire. Ma l’ucronia non potrebbe essere disinteressata? Non potrebbe presentarci la traiettoria di quel che avrebbe potuto essere, né giusto né sbagliato, ma semplicemente possibile, senza per forza volerci spiegare quel che avrebbe dovuto essere, e dare, così facendo, lezioni alla Provvidenza?


Poco fa ho parlato di Dick, che con la sua indifferenza da nichilista si avvicina a questa neutralità. Vorrei adesso parlare di Charles Renouvier e di Roger Caillois, due menti speculative, scevre di sentimentalismi, inclini all’ucronia più per il gusto dell’ipotesi che per quello dello sfogo revanscista. Questi due uomini di studio sembrano contrapporsi in tutto e per tutto a un dilettante ingenuo come Geoffroy. Ma bisogna guardare le cose più da vicino, cercare nei loro libri le argomentazioni di un altro dibattito.


Quel che è fatto è fatto, non può essere disfatto, e la revocabilità non è che un sogno – anzi, neanche un sogno, è solo un soggetto da racconto fantastico. «Tutto è possibile, prima della scelta,» scrive Jankélévitch «ma, con il passaggio all’atto, la potenza diventa impotenza davanti all’impossibilità di non aver scelto ciò che ha scelto». D’accordo, ma è davvero tutto possibile prima della scelta? Una volta ammesso che l’avvenimento accaduto non può più essere revocato, la domanda è: poteva non accadere? In altri termini, il virtuale esiste o è soltanto il reale che non si è ancora trasformato in? Vediamo qui ergersi dinanzi a noi il pons asinorum del determinismo e del libero arbitrio, che – temo – la riflessione sull’ucronia non può fare a meno di attraversare. (Ma in fondo diventare un asino vuol dire passare dal vegetale all’animale: è già un progresso).


 


 


Ucronia è il testo chiave della materia in questione. Materia alla quale, nel 1876, il filosofo francese Charles Renouvier ha dato un nome, il più autorevole dei suoi classici e un catalogo ragionato dei suoi intenti e delle sue difficoltà. Secondo Jacques Van Herp «il libro di Renouvier è uno di quelli di cui non augureremmo la lettura neanche al nostro peggior nemico». In effetti questo elegante volumetto di cinquecento fitte pagine è di ardua lettura. Richiede una solida conoscenza della storia reale, e in particolare di quella romana, in mancanza della quale il lettore rischia di non cogliere neppure la biforcazione. Ma si tratta di un’opera teorica più che di invenzione romanzesca. E la vastità e la ricchezza di questa teorizzazione lasciano a bocca aperta.


La struttura di Ucronia, della quale cercherò ora di dare un’idea, è complessa. Intorno al testo propriamente detto, presentato come un autentico manoscritto del XVI secolo, si affastellano una quantità di avvertenze e di commenti. Il libro si apre con una «Premessa del curatore», che Renouvier non ha firmato, a riprova del fatto che ha preso molto sul serio il gioco della mistificazione letteraria. Ci sono ben tre appendici. La prima precede il romanzo, le altre due lo seguono. Il tutto si conclude con una nota finale, questa sì firmata da Renouvier, il quale si limita a commentare, senza assumersene la paternità, l’insieme di testi giustapposti che mi appresto a esaminare nell’ordine in cui compaiono.


 


 


La prima appendice è attribuita a un autore olandese del XVII secolo, di cui i discendenti preferiscono tacere il nome. L’anonimo racconta, a beneficio del figlio, i suoi anni di formazione. Tutti i problemi sollevati dall’opera ruotano, come si vedrà, intorno alle guerre di religione, argomento che viene introdotto già in apertura. L’autore dell’appendice, protestante, voleva convertirsi al cattolicesimo e ha discusso la questione con il padre, del quale rievoca la figura. Francese di nascita e di confessione riformata, quest’ultimo ha assistito da giovane al supplizio di Giordano Bruno, e lo spettacolo dei dissidi religiosi ha fatto nascere in lui un pessimismo scettico che espone al figlio. Si definisce «un oscuro fanatico del 1590 diventato un oscuro libertino del 1630» (traduciamo: un uomo convinto che la storia abbia un senso, convertitosi poi al dubbio ucronico).


Allo scopo di convincere il narratore, rievoca a sua volta non il proprio padre, bensì il suo maestro, un monaco dell’ordine dei Frati Predicatori, arrestato dall’Inquisizione e morto sul rogo, a Roma, nel 1601. Questo monaco, che lui andava a trovare in cella, gli ha affidato un manoscritto da lui vergato sotto il nome di padre Antapiro. Si tratta del manoscritto eversivo che adesso, dopo averlo conservato senza farne parola con nessuno, il padre affida al narratore affinché ne sia edificato come lui stesso lo è stato e come lo sarebbe, se lo leggesse, un certo «gentiluomo francese, singolare abitante di Amsterdam», che una nota dell’editore identifica in René Descartes.


L’opera di padre Antapiro è la «storia di un medioevo dell’Occidente che l’autore fa iniziare verso il I secolo della nostra èra e finire nel IV, nonché di un’età moderna che si svolge dal V al IX». In pratica, da Nerva a Carlo Magno.


Si apre con un’imponente sintesi di storia della civiltà, che ci descrive l’invasione dell’Occidente da parte delle dottrine orientali. Padre Antapiro contrappone vigorosamente le razze «ellenistiche e italiche», presso le quali la religione e la legge temporale coesistono in maniera armoniosa, alla religiosità sfrenata e alla malsana barbarie orientale. Alessandro Magno ha dichiarato guerra all’Oriente e ha sottomesso il nemico senza però trasformarlo. È stato invece l’Occidente a lasciarsi inebriare dall’Oriente. E Roma, conquistando la Grecia, si è fatta contaminare a sua volta.


Padre Antapiro condanna aspramente questa contaminazione, nella quale individua l’origine di tutti i nostri mali. Arriva poi all’inizio della nostra èra, vale a dire alla nascita del cristianesimo, presentato come la quintessenza del delirio mistico orientale. Si delinea la posta in gioco della storia. Il punto è capire chi è destinato a vincere fra il cristianesimo e la filosofia. «Da un lato, la nuova religione vuole perdere il mondo per salvarlo. Predica al mondo la penitenza e il sacrificio, in nome del solo vero Dio, poi si sforzerà di sottometterlo e di governarlo per ottenere con la forza quella salvezza che la buona volontà non potrebbe dare. Dall’altro, la filosofia attende il bene degli uomini dalla giustizia e dalla libertà». La filosofia è dunque interpretata come l’esercizio della comprensione e della tolleranza, in quanto accoglie tutte le religioni mettendole sullo stesso piano e sanziona unicamente i tentativi di egemonia. Questa saggezza antica, idealizzata a posteriori, si basa insomma sulla separazione fra le Chiese e lo Stato. Il cristianesimo, al contrario, mira all’esclusiva, al potere secolare, il che porta inevitabilmente alle guerre di religione. Il monaco condannato al supplizio e il filosofo francese che gli dà voce negano, ovviamente, di voler attaccare la fede cristiana. Quest’ultima è e rimane la loro fede, e almeno quella del monaco è ardente. Ma rifiutano l’istituzione, e il monaco morirà per questo. Sul senso del suo martirio tornerò in seguito.


La catastrofe iniziale, da cui discende in modo del tutto consequenziale l’Inquisizione – e l’interesse personale del monaco a eliminarla è fortissimo –, consiste dunque nel fallimento della filosofia e nel trionfo del cristianesimo come potenza temporale. Cioè nell’adesione al cristianesimo degli imperatori romani, che ha reso possibile la diffusione della dottrina predicata da un galileo crocifisso sotto Tiberio.


Definita così la posta in gioco, entriamo in Ucronia in punta di piedi. Nel 175, sotto Marco Aurelio, corse voce che l’imperatore fosse morto. Ci fu chi tentò di approfittarne. Renouvier rievoca la vicenda piuttosto oscura dell’usurpazione di Avidio Cassio, che in realtà fu assassinato dai suoi soldati, e ipotizza che Marco Aurelio, molto turbato da una lettera in cui il suo generale lo metteva in guardia dal pericolo che il cristianesimo rappresentava per l’Impero, abbia deciso di adottarlo, assicurandogli così l’accesso al potere ed escludendo il figlio Commodo. Allora Avidio Cassio avvia una serie di riforme costituzionali che l’autore, sadicamente, descrive nei minimi particolari, laddove quella che conta è una sola: i cristiani, che dichiarano di «non amare il mondo, di attenderne la fine», vengono privati della cittadinanza. Questo atto di discriminazione, che scatena una nuova fase di persecuzioni, segna, secondo l’autore, il trionfo della filosofia. Marco Aurelio condivide questo sentimento e, pur suicidandosi per non essere costretto a opporre il male al male, nella sua lettera d’addio riconosce la necessità di questo male.


«Se mai riusciranno a trionfare, dovremo rinunciare a tutto ciò per cui la vita è degna di essere vissuta: ai nobili piaceri, alla virtù disinteressata, alla libertà di cui godiamo, alla speranza di estenderla nel mondo ... Li abbiamo privati del loro diritto di cittadinanza per il motivo giustissimo che una società che essi non riconoscono non potrebbe riconoscerli ... Ma, nella loro bassezza, essi non si curano affatto dei diritti che neghiamo loro. Bisognerebbe obbligarli a lasciare l’Impero».


Morto Marco Aurelio, Avidio Cassio viene assassinato. Commodo sale al trono. In questo l’ucronia non si differenzia dalla storia. Ma in Gibbon (Storia della decadenza e caduta dell’impero romano) leggiamo che «le persecuzioni che avevano sofferto i Cristiani sotto il governo di un Principe virtuoso immediatamente cessarono all’apparire di un Tiranno». In Renouvier, al contrario, leggiamo che, «sospesa o moderata dalla bontà degli Antonini, la persecuzione si scatenò», e che «Commodo impose con violenza quel che suo padre aveva sognato di ottenere con umanità».


A partire da questo momento il cristianesimo, respinto dall’Occidente, si sviluppa nella sua vera culla, l’Oriente. Renouvier descrive questo sviluppo, esamina le varie eresie, ricostruisce l’una dopo l’altra tutte le dottrine cristiane dei primi tre secoli, compresa quella che ha finito col prevalere nella realtà. Tutto questo brano, dove si suggerisce che per un pelo oggi non ci ritroviamo a essere ariani o gnostici, ricorda un breve studio di Jorge Luis Borges sull’«ingannevole» Basilide: «Nei primi secoli dell’èra nostra, gli gnostici disputarono con i cristiani. Furono annientati, ma noi possiamo figurarci la loro possibile vittoria. Se avesse trionfato Alessandria e non Roma ... sentenze come quella di Novalis: “La vita è una malattia dello spirito” o quella disperata di Rimbaud: “La vera vita è assente; non siamo nel mondo” splenderebbero nei libri canonici».


In quel periodo Roma, libera da quella perniciosa influenza, ritrova la gloria passata. Nel X secolo delle Olimpiadi (corrispondente al II dell’èra cristiana) viene restaurata la Repubblica. Inoltre i senatori «cominciarono a colmare il vuoto lasciato nella coscienza dell’Occidente dall’espulsione delle sette orientali o, meglio, cominciarono a mostrare quanto il paganesimo, vilipeso dai settari, fosse nobile e santo». Riportano in auge i misteri eleusini, e da allora tutte le dottrine convivono in pace: neoplatonismo, sincretismo, ecc.


Da questo momento in poi l’ucronia segue il suo corso, scandito da eventi che spesso si discostano dalla storia vera. Renouvier non dipinge un idillio, non traccia, come Geoffroy, una curva trionfale tutta ascendente: ci sono guerre, invasioni, crisi, proprio come nella realtà. La divisione politica fra Oriente e Occidente viene proclamata nel 1150 (ossia nel 374 della nostra èra, pochi anni dopo quella reale). Costantino, anziché entrare a Roma da trionfatore, viene sconfitto e ucciso a Tergeste. Nel XV secolo (il nostro VIII) l’Oriente infervorato dalla «vera religione» tenta di strappare Roma agli infedeli, per insediarvi un pontefice supremo e universale, ma senza successo. Tuttavia, come effetto secondario di questa crociata alla rovescia, la Riforma, in Germania, riavvicina le culture, tanto che, a poco a poco, «la Chiesa di Cristo, un tempo giustamente proscritta a causa della sua volontà di usurpare il campo del potere civile e respinta in Oriente, rientra senza opposizione in Europa dopo che il progresso dei tempi e del pensiero in alcuni paesi l’ha spogliata del suo lievito di intolleranza e purificata dalla parte superstiziosa e odiosa del suo mistero». A quel punto si diffonde «liberamente, subendo tutte le conseguenze di una dottrina sottoposta all’esame della riflessione e delle scienze».


Ucronia si conclude con questa integrazione, differita di sette secoli, ma pacifica, nel XVI secolo delle Olimpiadi, cioè nell’VIII della nostra èra. Si conclude in un mondo in cui l’autore non sarebbe stato arso sul rogo, e questa è l’unica nota patetica – soltanto accennata, ovviamente – in un’opera che disdegna il ricorso alle emozioni e punta invece a un’adesione intellettuale. O perlomeno così crede di fare.


Al testo di padre Antapiro segue una seconda appendice, redatta nel 1658 in Olanda dallo stesso autore della prima. Affidando il manoscritto ai suoi figli come il padre – lo abbiamo visto – lo aveva affidato a lui, questo autore traccia, per edificarli, «il riassunto di tutta la successione dei fatti reali, affinché possiate completare la vostra istruzione attraverso il confronto fra ciò che sarebbe potuto accadere e ciò che effettivamente è stato».


Segue quindi un’altra sintesi storica, il racconto di quindici secoli di «progresso di quest’opera abominevole» che è la religione cattolica, sintesi che si conclude così: «Questa è la triste realtà ultima, questo è ciò che rimane di quel regno ... che ci è stato dato in luogo di quello dei santi, nel quale gli antichi cristiani speravano ... Questa è la verità della storia che ora potete confrontare con le immaginazioni così belle e disperanti delle possibilità che l’autore di Ucronia si compiaceva di costruire nel carcere prima di salire sul rogo ... Sognava quello che gli uomini avrebbero potuto fare, essendo liberi, se avessero esercitato la loro libertà in tempo ... Vi ho appena detto quello che hanno fatto».


Una nota del nipote, terzo depositario del manoscritto, datata 1709, completa la sintesi storica del padre rievocando gli eventi successivi, la guerra combattuta da Luigi XIV contro l’Olanda per estirpare il protestantesimo, la violazione del trattato di Nimega, l’intolleranza e l’odio che si celano dietro gli splendori del Grand Siècle. Vecchio, solo, malato, «dopo che il mio figlio maggiore, mio fratello e i miei nipoti erano morti per la loro fede, e dopo che il mio figlio più piccolo era salito sulle galere del re», così commenta ciò che abbiamo appena finito di leggere: «Se oggi avessimo raggiunto un tal punto di civiltà, potremmo riassumere l’ipotesi di Ucronia dicendo che ha fatto guadagnare mille anni alla storia. Ma non l’abbiamo raggiunto».


 


 


Salta agli occhi, leggendo queste righe, che la predilezione dell’autore va a ciò che avrebbe potuto essere e non a ciò che è stato, che Ucronia è anche una storia del rimpianto. Ma quale autore? Dietro a tutti questi narratori che si avvicendano dipingendo un quadro sempre più cupo, chi è che scrive?


Forse Charles Renouvier ha inteso fare un lavoro scientifico, codificare e illustrare con un esempio probante le regole di un gioco mentale. Non ha avuto paura di risultare indigesto. Ha sentito però la necessità di un impegno profondo, di un interesse ad agire. Questo filosofo di fine Ottocento non ha conosciuto le guerre di religione, non ha subìto alcuna persecuzione. Ma la letteratura gli ha fornito i mezzi per uno sdoppiamento quanto mai reale. Renouvier ha intuito, a mio giudizio, che il suo esperimento sarebbe apparso più rigoroso se fosse uscito dalla penna di un uomo per il quale non era un capriccio, né una divertita speculazione, bensì una questione di vita o di morte. Parlare di movente sentimentale sarebbe in questo caso un eufemismo offensivo. Perché, per avere tale movente, Charles Renouvier si è trasformato in padre Antapiro ed è stato giustiziato a Roma nel 1601.


Affinché fosse possibile questa reincarnazione invertita, suicidaria, erano necessarie un’affinità intellettuale e una malinconia condivisa.


Renouvier ha sognato un regno della filosofia e, attraverso un approccio comune a tutti i nostalgici di un’età dell’oro, ha immaginato che fosse esistito, in Grecia o a Roma, duemila anni prima. Ha pensato che il cristianesimo avesse distrutto quel regno, e per questo ha maturato un amaro risentimento nei suoi confronti. Naturalmente distingue tra fede e Chiesa come istituzione, giura di essere devoto alla prima e rinnega unicamente la seconda. Ma non è stato solo un sostenitore della separazione fra le Chiese e lo Stato, un teorico del combismo. «L’Inquisizione cattolica» fa dire a uno dei depositari del suo manoscritto «non è soltanto lo spaventoso tribunale che ha dato vita, dopo milleduecento anni di incubazione, al suo esemplare più perfetto, è lo spirito cattolico stesso, come si è mostrato fin dal principio!».


Renouvier non si è limitato a essere un libero pensatore volterriano: odiando il cattolicesimo, ha odiato il cristianesimo e, per suo tramite, il concetto stesso di determinismo. Ha odiato la storia e si è identificato, fino al rogo, con una delle sue vittime. Nel ripercorrere il susseguirsi delle persecuzioni, di secolo in secolo, ha sognato di vedere gli uomini scoprire di essere liberi, quando ancora erano in tempo, e ha dato corpo a questo sogno scrivendo Ucronia. «Leggetela, figli miei,» dice il nipote «con la convinzione che l’uomo non è comunque determinato dalla necessità, ma che molte cose avrebbero potuto non succedere, e il mondo essere migliore». Ma ormai è troppo tardi.


Il fatto che questo filosofo un po’ dimenticato, apparentemente sereno, abbia lottato contro la storia con un’energia così disperata, che il più speculativo degli autori di cui si parla in questo libro sia anche, forse, il più impegnato, conferma che l’ucronia, divertente gioco di società, non potrebbe esistere senza un profondo dolore. L’altro grande autore cerebrale della nostra rassegna, Roger Caillois, nasconde sotto un tema analogo analoghe confessioni.


 


 


Che il tema sia analogo non ha niente di sorprendente. Non è un caso che gli esempi storici si dividano in modo così omogeneo fra queste pagine e le precedenti. Prima l’epopea napoleonica, adesso il cristianesimo. La caduta di un grande condottiero ispira in modo del tutto naturale rimpianti ingenui quanto l’iconografia che lo celebra, opere apertamente nostalgiche. L’ucronista teorico, invece, più interessato a interrogarsi sul proprio approccio che a riscrivere la storia a suon di battaglie immaginarie in base alle sue inclinazioni personali, si concentra in modo altrettanto naturale sull’avvenimento più importante, quello che è ragionevole pensare abbia cambiato l’aspetto del mondo. Viviamo in una civiltà in cui perfino il computo degli anni si calcola a partire dall’apparizione sulla terra di un profeta della Galilea, in una storia tragica che quello stesso profeta ha messo in moto. Capiamo quindi la scelta ‘scientifica’ di un Renouvier o di un Caillois. E le motivazioni affettive che, loro malgrado, hanno guidato questa scelta.


 


 


Benché la posta in gioco sia sostanzialmente la stessa (con la differenza che qui non si tratta più di rimandare il trionfo del cristianesimo, ma addirittura di annullarne l’esistenza), l’esperimento di Roger Caillois (Ponzio Pilato, 1961) si realizza in condizioni più chiare, forse più probanti e senz’altro di maggiore godibilità letteraria.


Dovendo scegliere lo snodo temporale, era ragionevole ipotizzare che fosse stato il passaggio di Gesù Cristo sulla terra a determinare l’intera storia successiva dell’Occidente. Altrettanto ragionevole era considerare la crocifissione l’evento principale di quel passaggio e individuare, infine, nell’indecisa decisione di Ponzio Pilato il fattore essenziale, e in ogni caso definitivo, che ha reso possibile il dramma del Golgota. Il progetto di Caillois prevede dunque di esaminare il percorso al termine del quale Pilato, anziché sottoporre alla folla la scelta fra Gesù e Barabba e lavarsi le mani del sangue di un innocente, avrebbe potuto liberare il presunto Messia (come, del resto, la folla avrebbe potuto condannare Barabba, ma questa è un’altra faccenda, sulla quale tornerò in seguito). La liberazione, evitando a Gesù il calvario e lasciandolo vivere fino a tarda età, avrebbe avuto la conseguenza di ridurlo al rango di un profeta come tanti, con la reputazione di un sant’uomo, e di risparmiarci il cristianesimo. Occorre accettare questa premessa, non dimostrabile. Il meccanismo – storico o ucronico, dipende – si metterà quindi in moto per effetto di questi elementi imponderabili: la psicologia di un funzionario romano e gli avvenimenti che, nelle ventiquattro ore fra l’arresto di Gesù e la sentenza, potranno influenzarlo e condizionarne la decisione. Mostrare come queste variabili portino a dei dati, come il virtuale diventi reale, in altri termini come si fa la storia e come avrebbe potuto non farsi, o farsi altrimenti: ecco il proposito che si prefigge Caillois.


Comincia allora con l’abbozzare un accattivante ritratto del Procuratore, un cinquantenne intelligente, esiliato in un posto di scarso prestigio, conciliante per natura e soprattutto codardo, ma nel contempo spaventato dalla sua stessa codardia e amante della giustizia, a suo modo velleitario.


«Ho cercato» afferma Caillois «di ricostruire non i fatti, che d’altronde sono noti, ma i moventi, gli intrighi, le implicazioni politiche, gli impulsi più reconditi di una psiche combattuta, nella quale ciò che alla fine prende il sopravvento forse trionfa grazie alla stanchezza o al caso; o forse anche grazie alla totale opacità delle azioni, delle omissioni e delle rinunce di un essere umano, alla somma dei suoi ripensamenti, delle sue audacie abortite. Tutti elementi che si associano e accumulano un segreto vigore» (Post-scriptum pour Ponce Pilate).


Condannare lo pseudo-Messia significa per Pilato non avere grane, evitare di scontrarsi con l’istituzione religiosa locale, e, forse, pure di essere sconfessato dall’amministrazione metropolitana, cosa che è già accaduta in passato e che gli ha lasciato l’amaro in bocca. Ma vuol dire anche consegnare al supplizio un esaltato palesemente innocuo, cedere per l’ennesima volta alle pressioni del Sinedrio, dar prova di una codardia di cui è fin troppo consapevole.


Ma non è soltanto l’amore per il quieto vivere a consigliare la condanna del galileo. Verso questa soluzione lo spingono tre serie di argomentazioni esaminate nel corso di tre incontri, argomentazioni che assumono un’importanza crescente agli occhi di un intellettuale come Pilato.


Il prefetto del pretorio, innanzitutto, invoca argomentazioni di ordine politico, se non addirittura poliziesco. Meglio un’ingiustizia, dice, di una sommossa, che oltretutto sarebbe una bella seccatura ai fini della carriera.


Pilato, in realtà, ha sempre agito in base a questo principio, senza trarne grande profitto. Ora ne ha abbastanza, gli dà quasi la nausea. Non sarà il prefetto a convincerlo.


Il secondo incontro lo turba di più. Giuda, il discepolo traditore, chiede di vederlo. Il discorso che gli fa deve molto a un testo di Borges (portato in Francia dallo stesso Caillois): Tre versioni di Giuda, un racconto a sua volta debitore delle farneticazioni di Léon Bloy. Giuda spiega a Pilato che deve condannare Gesù, e che in ogni caso non può fare altrimenti. È indispensabile, per la salvezza del mondo, che il figlio di Dio si incarni in un uomo e muoia sulla croce. Perché questo avvenga è necessario che ci siano degli uomini che lo denuncino e lo condannino, realizzando così il disegno divino. «La salvezza del mondo» dice Giuda «dipende dalla crocifissione di Cristo. Se Egli vive, se muore di morte naturale, per il morso d’una vipera cornuta, o di peste, o di cancrena, o di che so io, come tutti quanti, allora per la Redenzione è finita. Ma, grazie a Giuda Iscariota e grazie a te, Procuratore, non avverrà niente di tutto ciò».


Accettando di assumere su di sé la peggiore delle ignominie per contribuire alla realizzazione del progetto divino, Giuda dà prova di un’abnegazione che lo colloca al di sopra di tutti i santi. Questo asceta all’ennesima potenza rinuncia, per la maggior gloria di Dio, all’onore, al bene, al regno dei cieli come altri, meno eroicamente, rinunciano al piacere. («Perché» si chiede Borges «non rinunciò a rinunciare? Perché non a rinunciare a rinunciare, ecc.?»). Giuda è il ministro del sacrificio divino, e Pilato anche. «D’ora in poi,» dice il discepolo al Procuratore «i nostri due nomi verranno associati per l’eternità: il Codardo e il Traditore. In realtà, il Valoroso e il Leale per eccellenza, colui che fu debole per necessità, e l’altro così devoto da accettare per amore d’esser bollato per sempre dal marchio della fellonia. Sarai esecrato, ma consolati. Egli sa che non avrebbe potuto riscattare gli uomini senza il mio preteso tradimento e senza la tua falsa codardia». (La Chiesa etiope lo ha capito perfettamente, tant’è vero che ha fatto di Pilato e di sua moglie Procula due santi del suo calendario).


Il discorso, però, lascia Pilato perplesso. La glossa teologica gli risulta tanto più incomprensibile perché riguarda una religione che non conosce, benché quest’ultima lo conosca e lo preveda, al punto che il suo stesso avvento dipende da lui.


Ultimo dei tre incontri. Pilato chiede consiglio all’amico Marduk, erudito caldeo particolarmente versato nello studio di tutte le umane credenze. Marduk chiarisce in parte il mistero che circonda le affermazioni di Giuda. Le prende sul serio e abbozza a beneficio di Pilato l’affresco del mondo in cui avrà trionfato la nuova religione, del mondo che scaturisce dalla crocifissione di Gesù. «Leggeva l’evasiva, evanescente storia del mondo, o almeno una delle infinite virtualità di tale storia». E racconta, alla rinfusa, i re di Francia, la scoperta del Nuovo Mondo, il trionfo di Cortés, gli scismi della Chiesa che adorerà il galileo, la conquista di Costantinopoli da parte dei Turchi, il quadro del pittore Delacroix raffigurante i crociati che entrano a Costantinopoli, le pagine del poeta Baudelaire che elogiano quel quadro, gli articoli dei critici che elogiano le pagine di Baudelaire, il suicidio di Pilato, in preda alla disperazione, pochi anni dopo la morte di Cristo, le dissertazioni dei teologi sul ruolo di Giuda e di Pilato nel mistero divino. Per completare la sua mise en abîme, Caillois conclude così questo disordinato elenco: «Marduk trovò addirittura un nome plausibile per lo scrittore francese che, poco meno di duemila anni dopo, avrebbe ricostruito e pubblicato quella conversazione per le edizioni della “Nouvelle Revue Française”, forse vantandosi d’averla immaginata».


E, come il prefetto, ma per altre ragioni, come Giuda, perché capisce le sue, Marduk consiglia a Pilato di condannare Gesù. Tutto sembra spingere il Procuratore a ordinare l’esecuzione, o a delegare la decisione alla folla assetata di sangue. Il suo interesse personale, la sicurezza della Giudea, ma anche e soprattutto la volontà della vittima e del Dio del quale Gesù si dichiara figlio. Ma un sussulto di indipendenza gli ispira la scelta opposta. Pilato, dopo una notte insonne, fa liberare il presunto Messia, e il cristianesimo non esiste.


 


 


La schematicità della logica a cui obbedisce questa dimostrazione è evidente. Ora, che cosa dimostra? Che solo per poco non è stato evitato l’avvento del cristianesimo? Forse. Non molto di più. Ma in Ponzio Pilato c’è qualcos’altro, oltre a una dimostrazione: il desiderio, retrospettivo e pio, che questo poco sia stato possibile.


Il problema, infatti, è che le cose non sono potute andare così. Innanzitutto perché lo sappiamo, dal momento che viviamo in un mondo in cui Gesù è stato crocifisso, ma qui questa obiezione è fuori luogo, l’abbiamo accantonata quando abbiamo iniziato a scrivere questo libretto. Il motivo, se accettiamo le regole del gioco, è il determinismo storico, che coincide, nel caso in questione, con l’esecuzione del piano divino. Il che è un bel vantaggio per l’appropriatezza terminologica. Sì, perché il concetto di determinismo, che ha un senso in epistemologia scientifica, non ne ha molto in ambito storico, o si riduce a un’ovvietà, dal momento che si applica solo a posteriori, identificandosi semplicemente con la genesi degli avvenimenti (e il racconto di questa genesi si chiama storia). Si può invece definire determinismo, o più esattamente predeterminazione, la convinzione teologica non solo che ogni causa produca un effetto (quale non si sa, né si capisce che tipo di ‘determinismo storico’ sarebbe in grado di dirlo), ma soprattutto che questa catena di cause ed effetti sia stata forgiata da Dio e si svolga secondo il suo disegno. Determinismo significa allora volontà preliminare e compimento inevitabile, e di conseguenza possibilità di previsione per l’intelligenza superiore che gli scienziati, a partire da Laplace, sognano di eguagliare.


In questa ipotesi, alla domanda «sarebbe potuta andare diversamente?», rispondere di sì è insieme una bestemmia e una stupidaggine. Gesù doveva per forza essere crocifisso, perché così volevano Dio e la storia da lui stabilita. Non ci si oppone a simili forze. Una necessità imperiosa, che manipola il caso, che identifica il virtuale con il reale senza lasciargli nessuna scappatoia se non la trasformazione in atto, ha costretto Giuda a tradire – e se quest’ultimo è cosciente della grandezza del suo ruolo, se ne trae una giustificazione teologica, meglio per lui – e Pilato a cedere. I suoi indugi, la sua riluttanza non possono cambiare le cose. Sono previsti a loro volta, predeterminati.


Il dizionario enciclopedico Larousse alla voce «predeterminare» dice: «teol. determinare, influenzare la volontà umana senza intralciare la libertà». Questa nozione lascia perplessi e induce a pensare, come afferma uno degli autori di Ucronia nel commentare non senza amarezza l’eresia pelagiana, che in tal modo «si obbliga lo spirito del peccatore a ritenersi libero solo accettando di contraddirsi. La controversia dura da duemila anni». Ed eccoci, duemila anni dopo, condannati a ragliare ancora sul pons asinorum di cui sopra.


Non sono sufficientemente versato in teologia per chiamare alla sbarra dei testimoni i numerosi autori che hanno fornito pareri illustri sulla questione. Il fatto che sia stata tanto spesso oggetto di disquisizione la fa apparire ai miei occhi un po’ come un pezzo di bravura, concepito più per mettere in luce il virtuosismo dello studioso che per procurare un’autentica emozione intellettuale – e meno che mai per far progredire la conoscenza, ma non è quello il punto, visto che cose del genere non si possono conoscere, solo commentare per il puro piacere di farlo, o per affermare il diritto di mandare al rogo chi non è d’accordo. A leggere le riflessioni sul tema degli autori più accreditati – ivi compresi i vari Descartes, Spinoza, Boezio, Leibniz, Molina, e anche, con buona probabilità, quelli che io non conosco –, si ha l’impressione, per niente spiacevole del resto, che avrebbero potuto opporre argomentazioni non molto diverse anche a verità come «non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca», a condizione però di rovesciarle, e che la bravura stia proprio nel dimostrare che invece sì, si può avere la botte piena e la moglie ubriaca. Perché esattamente di quello si tratta, di conciliare due enunciati incompatibili, ovvero che Dio ha predisposto ogni cosa in anticipo e che tuttavia l’uomo agisce in piena libertà. La sfida consiste nel dare una spiegazione logica a ciò che è ammissibile solo come mistero teologico, per definizione inspiegabile, nell’affermare, un po’ come se ci facessimo regalare dell’altro vino da dare alla moglie, o se lo rubassimo, che Dio ha creato tutto, saputo tutto, previsto tutto fin dall’alba dei tempi, ma non voluto ciò che noi vogliamo, oppure che Dio orienta la volontà senza costringerla, per cui è indubbio che quella prenderà una certa decisione, ma non per questo è necessario che la prenda, o ancora (è la soluzione che preferisco, dopodiché la smetto) che Dio non predetermina le azioni degli uomini, ma concorre, grazie alla sua «scienza media», alla realizzazione degli atti che sa dover essere oggetto della libera scelta della volontà umana. (Provate a rileggere, poi spiego, o meglio è Descartes, che abbiamo già incontrato ad Amsterdam, a spiegare come un re possa benissimo aver proibito i duelli, sapere che due gentiluomini non desiderano altro che darsele di santa ragione e incaricare entrambi di recarsi nello stesso luogo alla stessa ora: sa bene che a quel punto i due si batteranno, ma non li ha costretti lui a farlo. Il punto debole del paragone, chiaramente, è che il re non ha instillato nell’animo dei duellanti l’inclinazione a battersi, mentre Dio sì, e potremmo continuare a lungo a discutere della questione, cosa del resto divertente, ma se ho aperto questa parentesi è soprattutto per il piacere di citare il gesuita Molina, promotore della tesi appena riassunta, che venne contrapposta ai giansenisti: «Esistono» sostiene «tre oggetti della scienza divina: i possibili – scienza di semplice intelligenza –, gli eventi futuri – scienza di visione – e i futuri condizionali – scienza media». Ne consegue che l’ucronia è a metà strada fra la scienza di semplice intelligenza e la scienza media, opinione che meritava quanto meno di essere messa agli atti).


A questo punto leggiamo Nietzsche, che avrebbe potuto partecipare onorevolmente al dibattito, ma che, astenendosene, rassicura coloro che non possono farlo (del resto anche in altri campi questo autore così ostico viene spesso chiamato in causa per lo stesso motivo): «Posto che qualcuno, in tale modo, venisse a scoprire la rozza scempiaggine di questo famoso concetto del libero arbitrio e lo cancellasse dalla sua mente, ormai lo pregherei di fare ancora un altro passo avanti e di cancellare dalla sua mente anche il rovescio di quel concetto di ‘libero arbitrio’: voglio dire il ‘servo arbitrio’, che procede da un abuso di causa ed effetto» (Al di là del bene e del male).


Questa requisitoria è salutare per chi si interessa alla nostra materia, nel senso che invita ad allontanarsene. L’ucronia, infatti, ruota incessantemente attorno a questi concetti rozzi e paralizzanti.


Ma noi, senza paura di infangarci gli zoccoli ortopedici, torniamo invece a inoltrarci in quel pantano.


Non si può fare a meno del servo arbitrio per dare il via alla sequela delle cause e degli effetti – e quindi anche per opporvisi, dal momento che è questo il presupposto del gioco. Non si può fare a meno del libero arbitrio per poter immaginare di contestare una causa e, insieme, il determinismo. Servono entrambi e si escludono a vicenda, non c’è via d’uscita. Se non attraverso un accordo vagamente fraudolento, una sorta di contrattazione: per avere più vino lo compriamo a un prezzo un po’ più basso, promettendo di comportarci bene, e riusciamo così a far ubriacare la moglie e conservare la botte piena, sperando che non ci venga confiscata al primo sgarro. La finezza del racconto di Caillois sta nel fatto che ignora questa contrattazione e mette in scena in sostanza un atto criminale riuscito: di prepotenza, senza stare a negoziare, il suo protagonista si appropria dell’intera cantina, così da avere vino a volontà, per sé e per la moglie.


Ma torniamo a noi. Pilato non riesce a dormire, riflette. È ben consapevole della responsabilità che ha in una vicenda per lui incomprensibile e di cui Giuda e poi Marduk gli hanno rivelato alcuni meccanismi. Sa di essere programmato, destinato, per volontà di un dio che non conosce, ma di cui deve aiutare il figlio, a interpretare il ruolo di un indispensabile codardo, proprio come Giuda, con più consapevolezza e orgoglio, interpreta quello del traditore. Impossibile rifiutarsi, non dipende da lui.


Nel cuore della notte, però, si ricorda dell’entusiasmo da cui era stato travolto da giovane nel leggere le tesi di Senodoto, volgarizzate da Cicerone nel De finibus potentiae Deorum.


I limiti della potenza degli dèi. Il titolo sa già di contrattazione. Ma nel libro si sente anche l’eco del De divina omnipotentia di Pier Damiani, grazie al quale Borges scopriva che Dio può far sì che non sia stato ciò che è stato. Pilato invece intuisce un’altra cosa. Che il limite della potenza degli dèi è il libero arbitrio che ci arroghiamo. (Naturalmente Caillois, attento a evitare gli anacronismi, non usa questa espressione, né nulla di ciò che dico qui). Che il libero arbitrio non consiste in un misero goccio di vino concesso con spilorceria, che non coesiste con un piano implacabile all’interno del quale rappresenterebbe un margine di manovra, che non si divide, non si spartisce, ma si conquista, insomma che è tutto o niente. Bisogna dire di sì, così è previsto, predeterminato, sicuro, necessario, vi è stata instillata nell’anima l’inclinazione a farlo (Pilato è un codardo), e tuttavia si può dire di no.


«Quale che sia l’importanza della posta in gioco, foss’anche la salvezza dell’universo, l’anima umana non commette il male se non consentendovi. Essa è padrona di sé. Nessuna onnipotenza prevale contro il suo esorbitante privilegio. Pilato si compiacque al pensiero che, anche se il dio degli ebrei, o qualunque altro dio, avesse dato per scontata la sua debolezza, egli rimaneva libero di essere coraggioso».


Ed è questo coraggio, questo eroico esercizio della libera volontà, rivalsa su tutte le debolezze della propria vita, che mette in atto la mattina dopo facendo rilasciare Cristo.


 


 


Le ultime frasi di Ponzio Pilato inducono, a mio avviso, in errore. «A causa di un uomo che, contro ogni previsione, riuscì a essere coraggioso, non ci fu il cristianesimo. Tranne l’esilio e il suicidio di Pilato, nessuno degli avvenimenti pronosticati da Marduk si avverò. La storia, fuorché su quel punto, si svolse altrimenti».


Caillois non è uno scrittore prolisso, pesa le parole. Il che mi fa apparire ancora più irritante quel «fuorché su quel punto», con cui suggerisce che, qualunque sia la sua decisione, per Pilato alla fine non cambia niente. Ignorando il suggerimento, azzarderò questa interpretazione:


Che condanni Cristo o che lo liberi, Pilato viene mandato in esilio a Vienne, in Gallia, dove si suicida. Ma questa coincidenza di fatto tra due universi non implica un ritorno all’unità storica, neppure su un piano individuale ed episodico. Le due morti sono diverse, come quelle di Pedro Damián.


Nell’ipotesi in cui ha lasciato crocifiggere Gesù, Pilato ha aperto la diga da dove passa il fiume della storia. Ha fatto la sua parte, come era previsto, non è riuscito a rifiutarsi e, come Giuda, non gli resta altra scelta che suicidarsi per disperazione, per portare a compimento la sua ignominia – dal momento che a quel punto il suicidio è diventato un peccato mortale. È, insomma, un martire del servo arbitrio al quale ha accettato di piegarsi e di cui ha accelerato il dominio ormai assoluto.


Nell’ipotesi in cui ha liberato Gesù, la storia non ha luogo – almeno non nella sua forma tragica; di quello infatti si tratta, dell’irruzione della storia come finalità e come tragedia. È l’eroe del libero arbitrio, da lui vittoriosamente contrapposto al disegno predeterminato. In quel caso non si suicida in preda alla disperazione, ma felice, perché un uomo libero può rinunciare alla vita nel momento in cui lo ritiene opportuno (e non importa se a renderlo opportuno è una disgrazia). Con il suo atto afferma di nuovo, e con chiarezza, il limite della potenza degli dèi, a cui già una volta è riuscito a ribellarsi.


Si potrà obiettare che questo limite, con il quale secondo certi filosofi pagani si mette un freno allo strapotere degli dèi pagani, non vale per il dio degli ebrei e che Pilato, pur credendo agli dèi pagani, rientra nel progetto del dio degli ebrei. Obiezione a cui si può rispondere che il libero arbitrio dipende dalla fede che vi si ripone, e la conclusione di Caillois, che probabilmente non ha letto Renouvier (non lo cita nel suo Remarque sur le récit irréel), concorda con quella del filosofo francese, suo predecessore: «Se gli uomini, in un’epoca qualsiasi,» scrive il protestante perseguitato, autore dell’ultima appendice di Ucronia «se gli uomini avessero creduto fermamente e dogmaticamente alla loro libertà, invece di avvicinarsi a tale idea e di credere in essa molto lentamente e impercettibilmente, con un avvicinamento che forse è l’essenza del progresso stesso, da quell’epoca l’aspetto del mondo sarebbe cambiato».


(Oggi crediamo di più alla nostra libertà? Scorgiamo le tracce di quel progresso? Per quanto mi riguarda ne dubito).


 


 


L’impresa di Caillois, come quella di Renouvier, ha tutta l’aria di essere un gioco, una speculazione gratuita. La scelta dello snodo temporale, la rassegna delle variabili che potevano condurre all’una o all’altra storia sono frutto di una selezione metodica, assolutamente spassionata.


In queste costruzioni mentali non manca però la malinconia. Viviamo – in base a queste costruzioni – nel mondo della storia, nel mondo giudaico-cristiano, nel mondo del destino che è, secondo la magnifica formula hegeliana, «la coscienza di sé stessi, ma come di un nemico». Forse, se lo avessimo voluto quando eravamo ancora in tempo, avremmo potuto vivere in un mondo meno inesorabile, quello che per un po’ la civiltà greco-romana ha rappresentato agli occhi dei moderni, un mondo in cui si viveva e si moriva da uomini liberi, privilegio che la storia ha definitivamente abolito. A seguito della debolezza di Pilato, o di quella di Marco Aurelio, siamo costretti, volenti o nolenti, ad attenerci ai suoi disegni, a metterci al servizio dei suoi piani contorti.


Di fronte a questo obbligo Ponzio Pilato e Ucronia delineano una carta dei diritti dell’obiezione di coscienza, una malinconica, in quanto ormai inutile (ma in fondo chi può dirlo), pedagogia della libertà.

Non sto dicendo che Roger Caillois e prima di lui Charles Renouvier siano stati dei martiri della coscienza infelice o degli ellenisti nostalgici. Dico solo che quel poeta altero, amante dei misteri e al tempo stesso rigoroso, e quel filosofo laico celavano nel loro intimo uno stesso uomo deciso a dire di no. E nei loro libri la voce di quell’uomo, uscito sconfitto quasi venti secoli fa, non è del tutto soffocata.

 


Non si può, è chiaro, far sì che non sia stato ciò che è stato. In compenso si può, senza destare scandalo e senza bisogno di prove, sostenere che ciò che è stato sarebbe potuto andare diversamente, che prima di tradursi in atto l’avvenimento esisteva in un numero quasi infinito di forme virtuali e che ognuna di quelle forme avrebbe potuto benissimo avere la meglio. Questa convinzione non aiuta più di tanto nelle scelte presenti e future e, per quanto riguarda le scelte già compiute, di fatto equivale a deplorare che sia ormai troppo tardi. Ma ci sono diversi modi di illustrarla, diverse procedure che mi piacerebbe esaminare, a monte e a valle.


La prima tappa del ragionamento ucronico corrisponde all’alterazione, la seconda alle conseguenze. Potremmo rappresentare l’una con un punto, l’altra con una retta o con una curva, in ogni caso con un simbolo adatto a indicare una durata, che può estendersi dal momento in cui la storia viene alterata fino a quello in cui l’autore scrive, ma non necessariamente.


La priorità per l’ucronista non è scontata e dipende dalla motivazione che lo anima. Se intende soltanto sperimentare un metodo, è comprensibile che gli interessi principalmente l’alterazione e che punti lo sguardo, in linea di massima senza secondi fini, su un dato avvenimento, a cui non chiede altro che di essere gravido di conseguenze. Solo che, come ho cercato di mostrare, è raro che l’ucronista lavori senza secondi fini. L’ucronia è una storia governata dal desiderio, il che significa che sa dove è diretta e che in realtà è mossa, più o meno consapevolmente, dagli auspici del suo autore, ovvero dalle conseguenze che quest’ultimo si augura di poter trarre. L’alterazione quindi non è né gratuita né innocente, è al servizio di un obiettivo, e la scelta della causa è solo l’effetto di un desiderio.


Louis Geoffroy, nel 1836, vorrebbe vivere sotto l’imperatore che venera, per cui si ripropone di far durare più a lungo il suo regno. Roger Caillois, nel 1961, sogna che la civiltà greco-romana si sia protratta fino alla sua epoca e, in ogni caso, che il cristianesimo non sia esistito. Charles Renouvier, nel 1876, si rammarica che quello stesso cristianesimo, una volta abbracciato dagli imperatori romani, sia diventato un culto ufficiale e intollerante, responsabile delle guerre di religione. Ecco tre motivi per entrare in Ucronia. Ebbene, come procedono i nostri autori per indurre questi cambiamenti della storia? O, riformulando la domanda, a quale causa attribuiscono il verificarsi della storia reale?


 


 


Esiste un gran numero di libri, scritti a volte da storici, più spesso da filosofi, su ciò che viene definita causalità storica. In questi testi si parla di cause sufficienti, cause necessarie, cause alternative, un cavillare che ricorda un po’ le dispute teologiche sul libero arbitrio. Infatti, per quanto ingegnose tali distinzioni siano, stringi stringi, come vederci altro che dei sistemi finalizzati a giustificare quello che l’autore chiama l’effetto, ovvero l’avvenimento che sostiene di voler analizzare? Giustificazioni a posteriori che avrebbero potuto essere addotte in maniera altrettanto convincente per dar conto di un diverso avvenimento. Si possono trovare cause plausibilissime per spiegare la Rivoluzione del 1789: il malcontento della borghesia, i cattivi raccolti, le idee degli illuministi, l’impopolarità del re, ecc. Se la rivoluzione non fosse scoppiata, se al suo posto si fosse verificato un altro avvenimento – o niente –, le stesse cause, considerate da un altro punto di vista, avrebbero spiegato quest’altro avvenimento, o questo niente.


Il motivo è semplice: in storia non esistono leggi che possano spiegare le rivoluzioni come si spiega l’ebollizione dell’acqua portata a una certa temperatura, e di conseguenza non esistono cause sufficienti, a meno che non si decida di dare a questo termine, come suggerisce Paul Veyne, il senso di antecedente, e di considerare l’atto III di una tragedia la causa dell’atto IV.


Altra cosa: dal momento che la storia non ha, a differenza della tragedia, un inizio e una fine, una causa, qualunque senso si dia al termine, è sempre l’effetto di un’altra causa. Inserita in questa concatenazione verticale in virtù della quale ogni avvenimento deriva da un altro, all’infinito, lo è anche in una rete orizzontale in cui esercita la sua azione congiuntamente ad altre, sicché sull’avvenimento in gestazione pesa e influisce una massa compatta di antecedenti, il che rende piuttosto difficile isolare tra questi una causa determinante e in base a ciò prevedere quello che accadrà. La nettezza del rapporto di causa-effetto è inversamente proporzionale alla sua pertinenza storica: la morte di Luigi XVI si spiega senza difficoltà con la sua decapitazione, la sua decapitazione con la sentenza pronunciata contro di lui, ma quando si tratta di spiegare la sentenza questa felice catena causale tende a diventare al tempo stesso infinita e intricata, per via della pluralità dei soggetti, degli interessi e dei fattori in campo. A quel punto sapere quale anello bisognerebbe far saltare per dirottare tutto il seguito della storia implica, se non ci si limita a inceppare la ghigliottina, una tecnica divinatoria di cui l’ucronia potrebbe essere lo strumento.


 


 


Infatti, una volta eliminata dalla nostra concezione della storia, in nome di una sana razionalità nonché del piacere, la visione meccanicistica torna in auge in Ucronia. Ciò che risulterebbe troppo riduttivo come metodo di spiegazione storica può diventare uno degli elementi di un gioco letterario, e in questi testi, che in fondo altro non sono, il problema della causalità acquisisce un senso. A seconda dell’idea che ci si è fatti, della legge che si è stabilita, si adotterà una determinata scelta narrativa.


 


 


Prima domanda, dunque: possiamo ritenere che un avvenimento sia la causa di un altro, ovvero pensare che, eliminando il primo, elimineremo automaticamente anche il secondo?


Se spegniamo il fuoco, l’acqua smette di scaldarsi, ma se gli risparmiamo la campagna di Russia, mettiamo davvero fine alla successiva disfatta militare di Napoleone? Naturalmente sì, se poi, come Geoffroy, ci premuriamo di attribuirgli solo vittorie, ma se ci limitiamo a modificare quell’unico fatto, volerne dedurre determinate conseguenze è un’operazione quanto meno discutibile.


Per chiarirci le idee, il politologo inglese Patrick Gardiner (La spiegazione storica, 1955) propone l’esempio seguente: i gangster Smith e Jones devono commettere un omicidio per conto di una potente organizzazione criminale. Nel caso in cui Smith e Jones dovessero fallire o tirarsi indietro, è previsto però che un’altra coppia di gangster sia lì, a una certa distanza, pronta a rimpiazzarli, per cui, qualsiasi cosa succeda (e anche se fosse necessario mobilitare un terzo tandem), l’operazione andrà comunque a buon fine.


In nome dello stesso principio Roger Caillois (Post-scriptum pour Ponce Pilate) si compiace di criticare un approccio che tuttavia lui stesso ha applicato con un’intelligenza a cui ho cercato di rendere giustizia. A Pascal, che ritiene determinante la lunghezza del naso di Cleopatra o la pietruzza nella vescica di Cromwell, oppone Montesquieu, secondo il quale: «Non fu il disastro di Poltava a perdere Carlo XII: se egli non fosse stato sbaragliato in quel luogo, lo sarebbe stato in un altro. Agli accidenti della fortuna si rimedia facilmente, ma non ci si può difendere da circostanze che nascono continuamente dalla natura delle cose».


Una simile concezione ha ben poco a che fare con la predestinazione, stando alla quale sarebbe in ogni caso escluso che i gangster Smith e Jones falliscano nella loro missione se è scritto che devono portarla a termine. Ricorda invece la consueta esperienza della causalità, secondo la quale se i pantaloni sono logori prima o poi finiranno per strapparsi, per cui, anche se la causa accidentale della rottura è di fatto un movimento brusco o una caduta, la causa reale è l’usura dei pantaloni. In questo senso la spossatezza dell’esercito napoleonico spiega meglio della sconfitta della Beresina, perché meno superficialmente, la caduta dell’Impero.


Sia pure, ma in che modo questa ovvietà dovrebbe inficiare la fantasticheria ucronica, come sembra affermare Caillois?


In nessun modo: al limite esorta alla cautela nella scelta della causa, a spostare o meglio ad ampliare il bersaglio, risalendo dalle battaglie, sufficienti per Geoffroy, a fattori più estesi e generali. Cosa che del resto fa Renouvier, la cui Ucronia è un affresco a lungo termine di storia delle mentalità e dei mutamenti economici e sociali. Personalmente non ne conosco, ma si potrebbero immaginare ucronie marxiste, piene di rapporti di produzione, di plusvalore e di ideologia, o ucronie della scuola delle Annales, in cui l’allontanamento dalla storia avverrebbe per una modifica catastale o per un cambiamento nella rotazione dei maggesi. Questo spostamento, questo ampliamento a conti fatti si limita a riflettere il moto generale della storia, che non rivela nessuna legge ma in compenso non smette di estendere il proprio campo d’azione. Praticata da dilettanti, l’ucronia resta per forza di cose un po’ indietro, ma anche solo il passaggio da Geoffroy (storico tutto trattati-e-battaglie) a Renouvier (storico, diciamo, alla Renan) è indice di una possibile espansione.


Possibile, ma tutt’altro che indispensabile, d’altronde. La storia è un’arte del racconto, non una scienza esatta e, se Copernico eclissa Tolomeo, Marc Bloch non invalida Tucidide più di quanto Schönberg non invalidi Haydn. Inoltre le ampie correnti sotterranee che si ritiene governino il corso della storia non escludono l’accidente decisivo, lo scoglio affiorante che è l’appiglio più comodo per l’ucronista. Questo tipo di accidente, con ogni probabilità, non si verifica senza una ragione e, cambiando metafora, parlare della scintilla che ha dato fuoco alla polveriera presuppone la presenza di una polveriera pronta a esplodere. Tuttavia, siccome il divenire storico non obbedisce alle stesse leggi che regolano il processo di usura di un paio di pantaloni, siccome per l’esattezza non obbedisce ad alcuna legge, può benissimo non prodursi alcuna scintilla, la polveriera può non esplodere e in seguito riempirsi d’acqua, perdendo a causa dell’umidità il suo potere esplosivo. Così alcune sommosse, pur avendo radici profonde, non riescono a diventare rivoluzioni, e la possibile rivoluzione si arena, non scoppia mai. La fortuna, la forza di volontà, l’ispirazione di un istante traducono o meno in atto l’avvenimento preparato dal concorso degli antecedenti.


Per quanto riguarda la fortuna, parliamo della sua incarnazione più clamorosa, quel fenomeno mai del tutto spiegato che va sotto il nome di grand’uomo.


Nel suo racconto Se Luigi XVI... André Maurois immagina che Napoleone Bonaparte sia stato ucciso nel 1796 durante una scaramuccia a Bastia. Per un ucronista coerente un incidente del genere manderebbe all’aria tutto l’assetto dell’Impero. Per Montesquieu, per Caillois (quando lo cita) o per Patrick Gardiner, è facile porvi rimedio: il nome ridicolo di un altro militare non tarderà a prendere il sopravvento sul suo cognome e a rimettere in carreggiata la storia.


Avrete riconosciuto, dietro le parole di autori laici, la concezione di un teorico marxista come Plechanov (La funzione della personalità nella storia, 1898), secondo cui i grandi uomini sono solo uno strumento, al tempo stesso necessario e intercambiabile. Se Napoleone non avesse vestito i panni del dittatore militare che imponevano le logoranti guerre della Repubblica, lo avrebbe fatto qualcun altro. «La forza di Napoleone ci sembra eccezionale perché le altre forze dello stesso genere non hanno varcato il confine tra potenziale e reale». Napoleone deve in parte la sua carriera alla morte del generale Jourdan. Possiamo immaginare che quest’ultimo, sulla lista della Provvidenza, fosse il primo tra i candidati al ruolo di «difensore della Repubblica». Una simile ipotesi di sicuro non piacerebbe a Louis Geoffroy, ma potrebbe benissimo essere presa in considerazione da un ucronista con aspirazioni opposte alle sue, cioè che voglia evitare l’Impero e che, a tale scopo, si predisponga a eliminare non solo Napoleone, ma tutti i Napoleoni virtuali pronti a dargli il cambio, un po’ come gli assassini dei romanzi gialli ammazzano l’uno dopo l’altro tutti i parenti che li separano da un’eredità ambita. Cedo l’idea a chi vorrà sfruttarla, con l’avvertimento che, in questa ipotesi, la Provvidenza ha sempre una pedina di riserva che il giocatore non aveva previsto.


Basta però accantonare questa ipotesi, dimenticare quella pedina supplementare, che oltretutto manca di verosimiglianza. Ammettiamo che, anche senza Napoleone, il colpo di Stato del 18 brumaio avrebbe avuto luogo comunque, grazie a un altro giovane militare ambizioso. Probabilmente la situazione era favorevole a un esito del genere. Ma poi? L’ambizione del sostituto sarebbe stata la stessa, sufficiente perché, una volta assunto il ruolo dettato dalle circostanze, quel giovane potesse ampliarlo e rafforzarlo al punto da farsi incoronare di lì a poco imperatore dei francesi e tenere in scacco l’Europa intera? Sembra difficile attribuire un simile successo personale, la concomitanza di una fortuna e di un carattere di gran lunga superiori a quanto richiedesse la funzione di leader temporaneo, alle cause «profonde», economiche, sociali, ecc., che la resistenza del mondo induce gli storici materialisti a privilegiare. E, per chiudere con Plechanov, il quale nel 1898 era convinto che le condizioni oggettive non permettessero di sperare in una rivoluzione in Russia, basterà contrapporgli Lenin, che la pensava come lui nel 1905, ma aveva cambiato idea nel 1917, una volta indossati lui stesso i panni del grand’uomo.


Sembra quindi improprio, in storia come in Ucronia, ritenere che un’ineludibile polveriera di cause produrrà in ogni caso il suo effetto, anche nel caso in cui venisse a mancare il fattore scatenante. Eliminate Napoleone, forse avrete lo stesso il colpo di Stato del 18 brumaio, ma certamente non l’Impero. Mettete una pietruzza nella vescica di Lenin, niente più rivoluzione russa: è Trockij a dirlo. Risparmiate il Golgota a Gesù, niente più cristianesimo, anche perché in questo caso l’ipotesi di un sostituto – che implicherebbe l’idea di un Dio pasticcione, costretto a sparare diverse cartucce prima che il colpo si degni di esplodere e ad applicare all’avvento di suo figlio il geniale precetto del presidente Mao: «Una battaglia, una sconfitta; un’altra battaglia, un’altra sconfitta, e così via fino alla vittoria!» – più che frutto di un materialismo oltranzista sembra un’assurdità blasfema.


Così, a condizione di prendere di mira uno di questi accidenti che non mancano nella storia (i grandi uomini, il tafferuglio che trasforma una sommossa in rivoluzione), o ancora di cambiare il paradigma (le correnti «profonde»), l’ucronista non ha motivo di fissarsi sull’impressione scoraggiante che, qualsiasi cosa faccia, non cambierà niente, che se neutralizzerà i gangster Smith e Jones, altri – chiamiamoli Jeeves e Soames – prenderanno il loro posto. Meglio per lui mostrarsi severo nei confronti del determinismo che cerca di combattere e, invece di abdicare, invece di definire finezze della ragione i gesti maldestri di un prestigiatore che si sforza di nascondere che il numero non è riuscito, riconoscere il potere del caso, affermare che, se Carlo XII non fosse stato sconfitto a Poltava o Napoleone sulla Beresina, non è detto che lo sarebbero stati altrove. Non c’è modo di verificarlo, ma di sicuro è meno avvilente, e soprattutto in caso contrario l’ucronia diventerebbe impossibile. Sbarazziamoci quindi dei gangster Jeeves e Soames.


 


 


Una volta messi in condizione di non nuocere Jeeves e Soames, l’ucronista sa che i suoi soli avversari, se vuole impedire il delitto, sono Smith e Jones. Ora, secondo problema: come identificare Smith e Jones, che portano degli anonimi cappotti grigi, in mezzo alla folla simbolo della miriade di cause che concorrono a ogni minimo effetto, anche se poi solo una o due si possono ritenere determinanti? (Adesso non sto parlando di storia, ma dei modelli del tutto privi di applicazione reale che ne fornisce l’ucronia). In altri termini, una volta ammesso che basterà salvare Napoleone dal passo falso della Beresina, come fare concretamente a salvarlo? A quale causa attribuire la sconfitta, ovvero quale causa alterare per assicurargli la vittoria?


Il problema non si pone per Geoffroy, che taglia il nodo gordiano con una semplicità antica. Gli basta, quando arriva al momento in cui Napoleone ha cominciato a perdere, scrivere che ha continuato a vincere, ancora e ancora, finché non gli resta più niente da vincere. Forte dell’onnipotenza di chi ha in mano la penna, l’ucronista non deve più rendere conto di niente a nessuno, se non della storia di cui nel suo libro si arroga l’arbitrio. Non esistono cause, ma solo – come in una tragedia – un inizio della vicenda che si è deciso di raccontare. In questo l’ingenuità di Geoffroy, che si limita a dire «è andata così», mi sembra più giusta, in quanto più vicina alla narrazione storica, di qualsiasi giustificazione tramite una fitta catena di cause ed effetti.


Più sottile nell’esecuzione, Caillois è solo un po’ meno diretto. Volendo scongiurare il cristianesimo, fa dipendere il suo avvento dalla Passione, la Passione dalla sentenza di Pilato e quest’ultima dai suoi scrupoli. Certo, invece di tirare in ballo il grand’uomo, avrebbe potuto trovare un altro espediente, far scegliere alla folla di mandare al supplizio Barabba o eliminare la Resurrezione, ma il fatto, a tutti gli stadi, implica un determinismo così stringente che le modalità dell’alterazione in sé non contano poi tanto: basta alterarlo in un punto qualsiasi per mandarlo all’aria.


Le cose si complicano nel caso di Renouvier. C’erano mille modi per evitare l’adesione degli imperatori romani alla dottrina di un galileo crocifisso sotto Tiberio. Quello più semplice era togliere di mezzo il galileo, ma non è questa la soluzione di Renouvier, che non ha niente di personale contro Gesù e se la prende solo con il potere temporale del cristianesimo. A rendere possibile questo potere, secondo Renouvier, è stata l’invasione della religiosità orientale nel mondo greco-romano. Se quest’ultimo fosse rimasto sano e filosofico, la religione di Cristo si sarebbe integrata pacificamente, sarebbe stata praticata da chi avesse voluto e non avrebbe mai esercitato quella forma di terrorismo che l’ha caratterizzata. Dal momento che il responsabile di questo pericoloso e univoco libero scambio spirituale si ritiene sia Alessandro Magno, si poteva eliminare Alessandro Magno, o fargli perdere delle battaglie. Guardando invece a valle, bisogna trovare il modo di impedire la conversione degli imperatori romani. Renouvier avrebbe potuto inventare una biografia intellettuale di Costantino, facendolo restare, nel 312, pagano e tollerante, vale a dire persecutore dei cristiani, poiché questi rappresentavano una minaccia per la tolleranza. Oppure far prosperare il neopaganesimo e attribuire a Giuliano l’Apostata il merito di averci risparmiato, sul lungo periodo, la notte di San Bartolomeo.


Anziché questi eventi – o altri ancora – Renouvier ha scelto l’episodio relativamente oscuro dell’usurpazione di Avidio Cassio, il che rende il suo libro difficile per un lettore di cultura media, o lo obbliga a leggerlo armandosi di coraggio e di un manuale di storia romana. Posso immaginare varie ragioni alla base di questa scelta.


La prima, accessoria, è l’evoluzione della cultura media. Se sul principio la lettura di Ucronia mi ha lasciato disorientato, è probabile che nel secolo scorso sarebbe andata diversamente, perché avrei fatto studi classici più approfonditi. Inoltre Renouvier attribuisce il suo manoscritto a un ecclesiastico del XVI secolo che, al contrario di noi, conosceva a menadito ogni minimo particolare della successione di Marco Aurelio e supponeva che fossero cose note a tutti, per cui l’oscurità del testo si inserisce in modo perfettamente logico nello spirito del pastiche messo in opera in Ucronia.


Ma c’è un elemento più interessante. Scegliere come snodo temporale la nascita di Cristo o la conversione di Costantino significherebbe farla troppo facile. Scegliere invece un avvenimento non solo poco noto, ma soprattutto secondario, significa comportarsi da storico lungimirante e prevenire alcune delle obiezioni che poco fa ho cercato di confutare: Renouvier fa appello a cause al tempo stesso più profonde (nel senso che nel libro i grandi uomini e i fatti clamorosi hanno meno spazio degli ampi mutamenti ai quali si interessano di preferenza gli storici moderni) e più numerose (il che in fondo è la stessa cosa, perché la sovrabbondanza è la sola profondità accessibile alla narrazione storica). Renouvier racconta una serie di avvenimenti, nessuno dei quali in realtà è determinante, ma il cui susseguirsi, combinarsi in modo accidentale, sommarsi a mutamenti più generali finisce per piegare il corso della storia. Il caso di Avidio Cassio non è davvero una causa, ma, proprio come in Geoffroy, solo il segnale della biforcazione, il momento contingente in cui Renouvier sceglie di allontanarsi dalla storia nota. E, se vogliamo comunque chiamarlo causa, allora è perfetto per illustrare l’idea diffusa, ma stranamente poco frequente in Ucronia, secondo cui una piccola causa può provocare grandi effetti.


Questa sproporzione, di natura essenzialmente drammatica, segnala una delle attrattive virtuali del genere, ovvero il suo mettere a nudo quello che potremmo chiamare un modello di «causalità perfetta», nel senso in cui gli economisti classici parlano di concorrenza perfetta, sapendo benissimo che le condizioni che la permettono non sono mai tutte soddisfatte nel mercato reale. Le vischiosità, i contrappesi, le incoerenze che rendono la storia imprevedibile, inspiegabile, e per ciò stesso interessante, depongono contro questo modello molto più efficacemente di quanto non facciano presunte leggi o tendenze generali.


Ciò non toglie che tale modello sia alla base di qualsiasi fantasticheria ucronica e che spesso e volentieri sia in grado di fornire trame romanzesche eccitanti (in fondo non gli si chiede altro).


«Il naso di Cleopatra, se fosse stato più corto, tutta la faccia della terra sarebbe cambiata». Il genio conciso di Pascal, oltre a offrire ai grammatici un esempio di anacoluto, ci regala il più fortunato dei postulati ucronici. Ma bisogna spingersi oltre. Non basta dire che, quando un bel naso fa girare la testa a un conquistatore, è in gioco il destino del mondo. Su questo sarebbe d’accordo anche un causalista tiepido, a meno che non sia ossessionato dal plusvalore e dall’ideologia. Ma finché si resta nell’ambito della pura speculazione, si deve ammettere che qualsiasi naso può produrre lo stesso effetto.


I primi abbozzi di discorso ucronico incentrati sul piccolo particolare che avrebbe potuto cambiare tutto fanno ricorso con una costanza ossessiva alle disgrazie fisiche che affliggono i grandi della terra: la pietruzza nella vescica di Cromwell, la gotta di Filippo II, le emorroidi di Napoleone. Ma, per l’ucronista rigoroso, è erroneo stabilire una gerarchia tra gli avvenimenti in base alla quale i bruciori di stomaco di un monarca avrebbero un impatto maggiore sul destino di una collettività rispetto a quelli di un cittadino qualunque. Di questo passo, ipotizzando una fitta rete di rapporti causali, seguendo quelle «relazioni del mondo» che Léon Bopp – di cui riparlerò più avanti – ha avuto la pretesa di ricostruire, si può attribuire a un fenomeno minore un’influenza sullo stato dell’economia nella sua epoca, nel suo paese e, di conseguenza, in un’epoca successiva e dall’altra parte del mondo. Per arrivare a una conclusione del genere è sufficiente dire che tutto torna (e anche questo torna).


Si pensi a quei romanzi polizieschi in cui l’assassino, per confondere le acque, commette una serie di delitti apparentemente gratuiti, e pertanto inspiegabili, di cui uno solo in realtà gli sta a cuore. Su quel canovaccio non so più chi ha immaginato che, per eliminare senza destare sospetti l’amante di sua moglie (ucciso in effetti in una trincea nel 1916), un marito geloso inneschi un’ecatombe la cui prima vittima è un arciduca assassinato a Sarajevo. L’ucronia, di norma, dovrebbe poter comportare finzioni altrettanto tortuose.


In questo momento sono seduto alla scrivania e batto a macchina le pagine che state leggendo. Comincia a fare buio, schiaccio l’interruttore per accendere la lampada, rapporto causale poco discutibile, per inciso. Avrei potuto non farlo, o farlo tra cinque minuti. Sarebbe uno scarto minimo in quella minima parte della storia che è la mia storia privata. E tuttavia: l’ordine di ciò che è stato risulterebbe alterato da quei cinque minuti di ritardo, dovuti alla mia pigrizia, alla mia distrazione o alla mia avarizia, poco importa. Supponendo che siano soddisfatte tutte le condizioni della causalità perfetta (quindi che tutto torni), con una buona dose di talento, di immaginazione e di gusto della catastrofe, un romanziere potrebbe ricostruire la concatenazione implacabile che dall’alterazione di quel fatto insignificante conduce per esempio alla terza guerra mondiale.


Non intendo dire che simili sciocchezze insegnino veramente qualcosa sui meccanismi della storia (foss’anche solo perché questi meccanismi sono a loro volta affabulatori), e neppure che offrano una materia romanzesca poi tanto ricca. So bene che si tratta di ipotesi futili, troppo cerebrali per aderire alla complessità della nostra esperienza quotidiana. Ma, futile per futile, mi stupisco che gli ucronisti, una volta imboccata quella strada, non la percorrano fino in fondo. Certo, se Geoffroy fa dipendere le conquiste di Napoleone dal successo della campagna di Russia, Marcel Thiry subordina l’esito di Waterloo al colpo d’occhio di un cavaliere inglese – e questo colpo d’occhio agli esperimenti di uno dei suoi pronipoti, tortuosità che porta in un’altra direzione. Ma, anche ammettendo in astratto che l’alterazione di un singolo fatto alteri di riflesso la storia universale e che nessun Jeeves o Soames possa farci niente, è innegabile che gli ucronisti prediligano i nasi o le malattie dei grandi della terra e non gli importi più di tanto di quelli della plebe. Per loro, come per qualsiasi storico e per il senso comune, la battaglia combattuta da un grande condottiero conta più dell’acquisto di un vaso di gerani da parte di un contabile, che magari abbia, per giunta, dimenticato i guanti a casa dell’amante. È per scrupolo di realismo? Per scimmiottare la storia vera imponendosi gli stessi limiti? Una simile prudenza, tuttavia, va incontro alle stesse identiche critiche suscitate dallo schema radicale che ho appena abbozzato. E trovo strano che, in una materia che è innanzitutto, ed esclusivamente, un gioco mentale, nessuno abbia concepito il progetto di far funzionare in tutto e per tutto la causalità perfetta, che in fondo è la premessa dell’esperimento stesso. Forse perché, pur senza ammetterlo, gli ucronisti pensano di giocare a un gioco serio.


 


 


Procedendo in senso inverso, vediamo ora cosa succede quando, dopo aver scelto una causa determinante, l’ucronista ipotizza il risultato dell’alterazione che ha introdotto. A partire da quel momento si lascia forse andare liberamente, senza sapere dov’è diretto? No, visto che per l’appunto sa dov’è diretto: verso un presente che desidera o che teme, ma che in ogni caso immagina, dato che proprio nell’intento di dar corpo a questa immaginazione si è spremuto le meningi – o no – per individuarne la causa. Tra il punto di partenza e il punto d’arrivo, qualunque sia l’ordine in cui viene effettuato il percorso, c’è una linea retta, spezzata o tratteggiata, talvolta discontinua, e questa linea non segue necessariamente il tragitto più breve da un punto all’altro (problema posto da Jean Tardieu: qual è il tragitto più lungo da un punto all’altro?).


Linea discontinua: in Pavana di Keith Roberts (1968) l’Inghilterra contemporanea è sottomessa all’autorità della Chiesa cattolica romana, l’Inquisizione prospera, gli eretici vengono mandati al rogo a ritmo serrato e la bolla pontificia Petroleum Veto limita la circolazione dei veicoli a benzina. Tutto questo dipende dalla vittoria dell’Invincibile Armada nel XVI secolo, vittoria che l’autore si prende la briga di citare solo di sfuggita. L’universo spiazzante di Pavana, proprio come l’America sotto il protettorato giapponese della Svastica sul sole, viene dato per scontato, e le sue radici storiche vengono ignorate con la stessa naturalezza con cui in un romanzo ambientato nella Francia contemporanea si ignora la battaglia di Bouvines.


Linea tratteggiata, o piuttosto puntini sospensivi: una volta segnalata la biforcazione e ripercorso a grandi linee, per bocca dell’erudito Marduk, il corso preso dalla storia reale, Caillois conclude lapidario: «La storia ... si svolse altrimenti».


Linea continua e armoniosa quella tracciata dallo spudorato Geoffroy, che fa seguire a una sconfitta da lui trasformata in vittoria una serie ininterrotta di vittorie, come se, una volta eliminato l’ostacolo, la semplice logica implicasse una crescita esponenziale dei trionfi, di cui ormai nessun altro ostacolo rischia di intralciare la progressione. Certo, c’è la seconda sconfitta di San Giovanni d’Acri, che però non rimette in discussione un bel niente ed è dovuta solo a una preoccupazione di natura estetica: una variazione che dà la naturalezza della vita a una linea altrimenti troppo netta per apparire convincente.


Linea spezzata, capricciosa, ondivaga, al contrario, quella seguita da Renouvier, attento a far sì che la sua Ucronia ricalchi o almeno imiti l’incoerente verosimiglianza della storia. Invece di arrogarsene, come Geoffroy, i privilegi (in primo luogo quello di non dover giustificare niente, per il semplice fatto che, afferma, è tutto vero), Renouvier, spinto dall’eccesso di zelo del falsario, dubita, ha la coda di paglia, enumera le critiche cui presta il fianco la sua impresa. Chiaramente si discolpa, appellandosi alla funzione pedagogica di uno schema i cui stessi punti deboli denunciano «l’illusione del fatto compiuto». Spera di aver «costretto la mente a soffermarsi un momento sulle possibilità che non si sono realizzate e a elevarsi così, con maggior risolutezza, al pensiero delle possibilità che possono ancora verificarsi». Il suo libro è una macchina da guerra contro il pregiudizio del fatalismo e l’autore ha dovuto armarlo con quello che aveva a disposizione. Ma, siccome non è solo un militante impegnato nell’annosa lotta contro il giansenismo, ma anche un filosofo, si dichiara colpevole. «Scusate gli errori dell’autore» perché, più che di difficoltà di esecuzione, «bisognerebbe» prosegue «parlare di impossibilità ... se si pensa alla quantità e al groviglio delle ipotesi che si affastellano sul cammino dell’ucronista, quando prende la decisione di sostituire in un punto della serie reale dei fatti passati, e di conseguenza in molti altri, la traiettoria storica effettiva con una immaginaria».


«E di conseguenza in molti altri»... Il problema è tutto lì. Perché la traiettoria dell’ucronista non può essere una linea che arriva quanto più rapidamente al traguardo. Si tratta in realtà di una successione di innumerevoli punti, a partire da ognuno dei quali si irradia liberamente una moltitudine di possibili. Certo, possiamo sempre semplificarci la vita adottando il principio dell’alternativa, la buona vecchia soluzione binaria, ma sarebbe un autoinganno: «La finzione è permessa ... dalla facoltà, che la logica e la morale ci danno, di dicotomizzare le decisioni umane riconducendole ogni volta al problema di fare o non fare una determinata azione. Ma in realtà le possibili maniere di agire sono molteplici e si intersecano in molti sensi prima di giungere a un risultato netto».


Renouvier non si limita a denunciare l’arbitrarietà di queste scelte globali, l’eccessiva semplificazione che inficia qualsiasi ucronia. Al contrario di un Geoffroy, secondo il quale, una volta corretto l’avvenimento infausto, si riparte su basi sane e tutto, da quel momento in poi, sarà come prima, sa anche che l’alterazione iniziale spiana la strada a una storia minata, completamente stravolta, in cui niente ha più ragione di essere come prima.


«La presunta sostituzione con un fatto che sarebbe potuto accadere di uno possibile anch’esso ma che ha in più il privilegio unico di essere accaduto introduce subito la scabrosa questione di sapere se la direzione immaginaria è proprio quella che verosimilmente sarebbe scaturita come risultante comune del fatto modificato, dei fatti correlativi che di conseguenza sarebbero necessariamente cambiati e infine di quelli che sarebbero rimasti immutati in quanto circostanze e condizioni date».


La contaminazione ucronica spaventa Renouvier più ancora dell’arbitrarietà delle sue scelte, perché costringe a mettere alla prova una sorta di teoria del domino applicata alla storia. Il rigore vieta di trarre da un cambiamento soltanto la serie isolata dei cambiamenti necessari per arrivare allo scopo che ci si propone. Bisogna immaginare l’infinità dei cambiamenti concomitanti che, a poco a poco, possono dar luogo a un universo radicalmente altro. La premessa logica «fermo restando tutto il resto» denuncia in Ucronia una cautela esecrabile, perché, via via che ci si inoltra in un’altra storia universale, il margine di ciò che «resta fermo», non contaminato, dei fatti che sono «rimasti immutati in quanto circostanze e condizioni date» è sempre più ridotto.


Renouvier non è pazzo, e crede nel suo libro: concede che, per portare a termine la propria dimostrazione, l’ucronista abbia il diritto di trapiantare nella giungla in cui si avventura una parte della popolazione storica appartenente al tronco comune, al mondo di prima. Non parlo solo dei dati che è ragionevole presumere immutabili (il fatto che gli uomini dormano, mangino, facciano l’amore, sognino di notte, che la terra ruoti attorno al sole, ecc.), ma anche di elementi più direttamente soggetti al divenire, di cui si possa sostenere, senza destare scandalo, che sarebbero presenti in Ucronia così come nella storia nota. Prendiamo per esempio, tornando alla questione del grand’uomo, lo staff storico di primo piano.


Non è né certo, né dubbio, né probabile, ma solo possibile che, nel mondo in cui l’adozione di Avidio Cassio da parte di Marco Aurelio ha come conseguenza una più feroce persecuzione dei cristiani, un secolo dopo Costantino abbia regnato lo stesso e che, perché no, saltando altri sedici secoli, il generale de Gaulle si sia fatto una certa idea di un paese che forse non si chiamerebbe Francia. È possibile e oltretutto comodo, per evidenti ragioni di comprensibilità, perché l’autore di un’ucronia ha interesse ad agevolare il suo lettore, a fornirgli dei punti di riferimento a cui aggrapparsi nel vasto stravolgimento della realtà da lui messo in atto. Non è neanche riprovevole, dal momento che c’è pur bisogno di figure storiche, che il vivaio dei tipi non è infinito, che un personaggio alla de Gaulle, anche in un altro contesto, può sempre tornare utile e che quindi non c’è motivo di chiamarlo Emmanuel Carrère anziché Charles de Gaulle.


Tutto sta, mi sembra, nel non abusare di questa risorsa, per motivi di verosimiglianza statistica, e anche di estetica, più che di logica. Perfino nel caso di ucronie a breve termine c’è qualcosa di disturbante nel ritrovare al gran completo, e senza neppure un intruso, tutta la compagnia del teatro storico, che in Ucronia interpreta una scena in cui cambia solo l’intreccio. In Napoleone apocrifo fanno capolino tutti i membri noti della famiglia imperiale, tutti i marescialli, tutte le personalità del mondo delle arti e delle scienze, e oltretutto il principio della crescita esponenziale fa sì che continuino ad accumulare sempre più decorazioni, titoli principeschi e onori. È già tanto se uno di loro acconsente a levarsi di torno, e comunque non c’è nessun nuovo arrivato che testimoni un rinnovamento della classe dirigente. Si dirà che una simile stabilità non è inedita, che la gerontocrazia sovietica o cinese ci ha abituati a un’élite non molto più mobile, e poi che il libro di Geoffroy è una sorta di Legenda Aurea e che se Cristo avesse vissuto più a lungo, come ipotizza Caillois, l’elenco dei dodici apostoli non si sarebbe necessariamente allungato, e si finirà col perdonare agevolmente a Geoffroy la staticità della sua speculazione. È più irritante, perché non molto divertente, leggere ucronie la cui unica molla consiste nel modificare, con un semplice rovesciamento, una situazione storica e nel mostrare come vi si sarebbero adattati gli attori reali. Quando Randolph Robban immagina la vittoria della Germania, con una conferenza di Potsdam che è la replica di Yalta e i redattori di «Les Temps modernes» che fanno carriera nella gerarchia nazista, quando Kingsley Amis, in Modificazione H.A. (1976, penoso seguito di Pavana, in cui l’Inquisizione regna anche sull’Europa moderna), ci mostra Jean-Paul Sartre nei panni di generale dei gesuiti, ancor più della mediocrità di queste trovate comiche, ci avvilisce quella della speculazione ucronica che ne è il pretesto.


E poiché si tratta di un gioco, poiché la probabilità dei vari avvenimenti, come mostra Renouvier, diventa ben presto incalcolabile, poiché tali avvenimenti rientrano soltanto nella sfera del possibile, mi sembra che il rigore si collochi all’estremo opposto, dalla parte di Caillois, che si limita a dire questo: fuorché su un unico punto fortuito (il suicidio di Pilato), la storia si è svolta altrimenti rispetto alle previsioni di Marduk. Vale a dire che non sono contemplati né i re di Francia, né la scoperta del Nuovo Mondo, né il quadro di Delacroix raffigurante i crociati a Costantinopoli, né le pagine che Baudelaire dedica a quel quadro, né gli articoli critici sulle pagine di Baudelaire, né la ricostruzione della profezia di Marduk da parte di uno scrittore di nome Roger Caillois, né niente di tutto ciò che conosciamo.


E allora cosa? In cosa consiste questa storia che si svolgerebbe altrimenti?


Caillois naturalmente non lo dice. Intuisce che questo programma di alterazione totale non è più applicabile di quello dei romanzieri di fantascienza che si prefiggono di descrivere un mondo del tutto estraneo al nostro, di rinunciare all’antropomorfismo o alla comunicazione verbale con la scusa che i loro extraterrestri sarebbero fatti diversamente da noi, che non avrebbero la nostra stessa percezione e che del resto l’esperienza sottesa alla parola percezione per loro non avrebbe senso. Ma si può sempre immaginare. Pensare per esempio a un dettaglio insignificante: l’uso dei tempi verbali.


 


 


Tutte le ucronie sono scritte al passato remoto o al presente storico, come qualsiasi narrazione storica o romanzesca. Le ragioni sono varie: innanzitutto, affinché l’illusione funzioni, conviene non rinunciare a un prestigio grammaticale che è appannaggio del racconto della realtà o di una finzione che ne possegga la verosimiglianza. Inoltre è facile immaginare che l’uso sistematico del condizionale passato renderebbe la lettura faticosa. Riassumendo la trama di un libro diremmo: «Se Cristo non fosse stato crocifisso, non esisterebbe il cristianesimo», ma costruire in questo modo un’intera narrazione significherebbe infliggere al lettore un tormento inutile e all’autore il cilicio di una smentita costante (l’autoflagellazione della smentita, d’altro canto, è la norma per l’ucronista). Ma, anche a prescindere da queste obiezioni di leggibilità o di prassi, il problema rimane: sarebbe concepibile, in una stessa opera, scrivere al condizionale passato quello che rientra nell’ucronia e al passato remoto tutti i predicati non influenzati dal cambiamento di traiettoria? A parte la rottura di scatole della concordanza dei tempi, sarebbe un modo per tracciare il confine, o piuttosto per constatarne l’imprecisione. Tra l’altro che cosa resta immutato, uguale? La natura umana? Il clima, sempre che l’ingresso in un’altra storia universale non influisca sul moto degli astri? E quando invece, come in Geoffroy, gli uomini dell’imperatore imparano a farsi obbedire dai fenomeni meteorologici? La tradizione secolare che Kronenbourg si vanta di perpetuare nel fabbricare la birra? I dati eterni del mondo fisico?


Anche ammettendo che in Ucronia continueremmo a percepire il prisma dei colori come i nostri antenati del tronco comune, i nostri fantomatici omologhi dell’altra storia, potremmo scrivere a cuor leggero una frase innocua come «Pierre si sarebbe seduto sulla poltrona. La poltrona era tappezzata di velluto rosso»? Le azioni di Pierre, personaggio ucronico, sono rette dal condizionale. L’esistenza della poltrona e il colore del suo rivestimento restano invece indipendenti da un’alterazione temporale effettuata diversi secoli prima?


Faccio questo esempio di proposito, perché ha stimolato l’immaginazione di uno degli autori qui esaminati, Marcel Thiry. Alla fine di Scacco al tempo, compiuta la retroazione, il narratore torna nella sua camera d’albergo a Ostenda e si accorge che la poltrona, come nel suo ricordo, è ancora tappezzata di velluto rosso. «Se l’avessi trovata blu,» pensa «che romanzo sarebbe mai stato necessario per spiegare come Wellington vincitore o vinto aveva potuto influenzare la scelta di un colore da parte di un albergatore di Ostenda del XX secolo!». Nessuno, che io sappia, ha scritto un simile romanzo, ma questo brano indica che, come me, come probabilmente molti altri, Marcel Thiry l’ha immaginato.


E, per tornare all’aspetto grammaticale, si potrebbe ipotizzare di cambiare le cose un po’ alla volta nel corso del romanzo. Di usare il passato all’inizio, per il tempo del tronco comune, poi, una volta che l’altra storia ha preso avvio, di alternare passato e condizionale, mentre l’ucronia contamina progressivamente il mondo, si irradia capillarmente lungo le catene di cause ed effetti che innervano il divenire, e gli elementi comuni si riducono sempre di più, finché anche le ultime tracce del vecchio ordine diventano desuete, o si trasformano – perfino i dati fisici, perché no? –, e che il libro si concluda quindi interamente al condizionale o che addirittura l’evoluzione si allontani così radicalmente dalla nostra da rendere le ultime pagine incomprensibili per noi, come se fossero scritte in una lingua e in un alfabeto stranieri. Questo libro potrebbe essere un artefatto ucronico, un oggetto arrivato, attraverso chissà quale contrabbando, da un universo parallelo in cui sia stata scoperta l’esistenza degli altri possibili e il mezzo per comunicare con loro; sarebbe un regalo degli abitanti di questo universo al nostro (che all’epoca del tronco comune era anche il loro), una guida progressiva offerta come ambasciata per farsi conoscere, per intavolare un dialogo bilaterale. Degli esperti penerebbero a decifrarne gli ultimi capitoli, a determinarne l’origine, proprio come ora ci scervelliamo sui manoscritti del Mar Morto o sulle statue dell’Isola di Pasqua.


Del resto esiste un romanzo che, senza cadere in simili scempiaggini, si presenta non come un’ucronia – comprende solo poche pagine propriamente ucroniche – ma proprio come un artefatto giunto da Ucronia. Aprendo The Iron Dream (Il signore della svastica, 1974) di Norman Spinrad, uno dei migliori romanzieri americani di fantascienza, scopriamo che il titolo e il nome dell’autore sono solo un trompe-l’œil, perché la vera opera si intitola Lord of the Swastika ed è un romanzo di fantascienza scritto da Adolf Hitler. Questo romanzo è preceduto da un’avvertenza in cui il curatore (Spinrad) presenta il romanziere (Hitler), avvertenza che trascrivo quasi integralmente.


«Nato in Austria il 20 aprile 1889, Adolf Hitler emigrò da giovane in Germania e nel corso della Grande Guerra prestò servizio nell’esercito tedesco. In seguito, militò in alcuni movimenti politici radicali, a Monaco, fino a quando, nel 1919, non emigrò a New York. Là, mentre imparava l’inglese, condusse inizialmente un’esistenza precaria nel Greenwich Village, rifugio di bohémien, facendo l’artista di strada e, a volte, il traduttore. Dopo parecchi anni di questa vita libera, cominciò a lavorare saltuariamente come illustratore per periodici e riviste di fumetti. La sua prima serie di disegni apparve sulla rivista di fantascienza “Amazing” nel 1930. Nel 1932 cominciò a collaborare regolarmente con svariate fanzine, e nel 1935, ormai sicuro della sua padronanza dell’inglese, fece il suo debutto come autore di fantascienza. Dedicò il resto della vita a questo genere ... Nel 1955, durante la World Science-fiction Convention, gli fu conferito, postumo, il premio Hugo per Lord of the Swastika, ultimato poco prima della morte, nel 1953. Per molti anni Hitler era stato una figura popolare ai convegni di fantascienza, noto per la sua arguzia e la sua inesauribile vena di narratore... Hitler è morto, ma i suoi romanzi e racconti costituiscono un’eredità lasciata a tutti gli appassionati di fantascienza».


Dopo questa appassionata biografia, il romanzo propriamente detto è al tempo stesso una sorprendente analisi critica di quel sottogenere tipico della fantascienza americana che è la space opera, di cui vengono sottolineate le componenti ingenuamente fasciste. E la space opera scritta, in Ucronia, da un immigrato austriaco un po’ suonato, mediamente talentuoso, di nome Adolf Hitler è una chiara trasposizione nello spazio galattico di una storia che ci suona piuttosto familiare: la presa del potere, su un pianeta lontano, del Verouomo Feric Jaggar e della sua cricca di Signori della Guerra, lo sterminio dei mutanti impuri, il futuro glorioso promesso enfaticamente dal finale, il tutto in un’ampollosa accozzaglia di battaglie e di descrizioni apocalittiche, che hanno strappato a uno dei colleghi di Spinrad, Harry Harrison, questo apprezzamento ammirato: «Se Wagner avesse scritto fantascienza, avrebbe fatto qualcosa di simile a The Iron Dream!».


La trovata di Spinrad resta, per quanto ne so, un caso isolato, ma potrebbe fare scuola. Da Ucronia si possono importare non solo battaglie, ma anche libri, fantasticherie, e i falsari che ne sarebbero autori potrebbero fornire qualche risposta tutt’altro che ovvia all’annoso dibattito sull’influenza dell’ambiente sull’artista. Flaubert, in Ucronia, avrebbe scritto Madame Bovary? Se quasi tutte le opere d’arte ci sembrano figlie del loro tempo, di una determinata società, e quindi anche dei modi di scrivere delle varie epoche, il cui susseguirsi è fatale forse quanto quello delle crisi ministeriali, non ne esistono tuttavia alcune che sembrano estranee al proprio mondo, che non prendono spunto da niente, non testimoniano niente, come fossero nate da uova d’angelo? E, se sì, quelle opere esisterebbero lo stesso in una storia, non solo delle istituzioni o dei cicli economici, ma anche della poesia, interamente diversa?


Se Gesù, Napoleone, Shakespeare o François Coppée non fossero esistiti, se solo l’acqua, le rose, la passione amorosa, la morte e i dispiaceri quotidiani fossero uguali a quelli che conosciamo – perché l’ucronia, almeno finora, non influisce più di tanto su di loro –, Villon, Rilke, Mallarmé avrebbero scritto gli stessi versi? È facile immaginare di no, ma allora quali?


 


 


Parlando di procedimento, vorrei sottolineare anche la finezza che consiste nell’introdurre delle alterazioni non nel mondo ucronico – che esse fondano – ma nel quadro del mondo reale con il quale molti degli autori qui esaminati completano e approfondiscono la propria finzione.


L’ucronista non resiste alla tentazione della mise en abîme. Lo stesso Geoffroy vi cede nella sua Presunta storia, dove finge di voler mettere fine a una campagna di disinformazione. Renouvier affida ai diversi depositari del suo manoscritto la responsabilità di abbozzare, parallelamente a quest’ultimo, il quadro desolante di quello che è accaduto in realtà e che questi autori non negano, di cui hanno subìto personalmente le conseguenze. Allo stesso modo, nel libro di Caillois, il veggente Marduk riassume a Ponzio Pilato la storia del mondo in cui Cristo viene mandato al supplizio, storia la cui conclusione provvisoria è la ricostruzione del loro dialogo, diciannove secoli dopo, da parte di uno scrittore francese a cui Marduk dà un «nome plausibile». Che la neghino o la deplorino, tutti con un qualche stratagemma raccontano la storia considerata vera, e sempre quella, immagino, si propone di raccontare anche Randolph Robban dietro il titolo ipotetico: Se avessero vinto gli Alleati. Questo autore mediocre non ha letto Philip Dick, che parte da un postulato simile al suo, ma non tarda a rimescolare le carte.


Nel mondo della Svastica sul sole, in cui le potenze dell’Asse hanno vinto la guerra e in cui l’America vive sotto il protettorato nipponico, la gente si passa sottobanco un’opera di finzione intitolata La cavalletta non si alzerà, titolo di cui mi sembra di ravvisare un’eco nel meraviglioso film di Terry Gilliam Brazil, ucronia indiretta in cui la caduta iniziale di uno scarabeo negli ingranaggi di un computer, dall’aspetto così antiquato che ci si chiede quale sfasatura temporale abbia potuto portare, nel 1985, a costruirli così, provoca ogni sorta di cataclisma. Questa Cavalletta, in ogni caso, è un’ucronia in cui ci aspettiamo di ritrovare la descrizione precisa del nostro mondo, un mondo che qualsiasi ucronia trasforma automaticamente in ucronia a sua volta. E invece no, non esattamente: la Germania e il Giappone hanno sì perso la guerra, ma questa si è conclusa nel 1947. Churchill, nel 1960, è ancora alla guida dell’Inghilterra, ecc. Si tratta quindi di un’ulteriore ucronia, uno dei possibili irrealizzati che brulicano attorno a quello che ha avuto la fortuna di attuarsi.


Dick si spinge ancora oltre nelle ultime pagine del libro, quando l’eroina incontra finalmente l’ucronista, autore della Cavalletta. A quel punto tutto si ribalta, è come se il mondo del libro fosse quello vero, come se l’America giapponese fosse diventata a sua volta ucronica. Il libro degli oracoli conferma quello che è ben più di un ritorno alla realtà o di un escamotage finale: un’immersione senza ritorno nel caos dei possibili, in cui tutte le virtualità coesistono, si compenetrano, si sostengono o si smentiscono a vicenda. La realtà svanisce a vantaggio dell’illusione – onnipresente nell’opera successiva di Dick –, di una serie di simulacri contenuti l’uno dentro l’altro come matrioske, che aboliscono il mondo reale, o meglio sono il mondo reale, l’unico mondo reale.


L’ucronia infatti è solo uno dei tanti possibili, una traiettoria singola, immaginata da un individuo a partire da scelte arbitrarie. E l’universo in cui viviamo non vale molto di più.


Questa intuizione nasce dall’indifferenza. Scrivere un’ucronia di solito significa dar corpo alla storia che si desidera. Quella e non un’altra. L’idea della pluralità dei mondi storici non piacerebbe granché a Geoffroy, che ne vede solo due: quello sbagliato, in cui Napoleone è sconfitto, e quello giusto, in cui trionfa. Lo addolora vivere in quello sbagliato, cerca di lenire il dispiacere immaginando quello giusto e non lo sfiora neppure il pensiero che ce n’è un’infinità di altri non meno virtualmente possibili. Quando invece, come i personaggi di Dick, come Dick stesso, non si ha un interesse ad agire né un rimpianto da scongiurare, perché si sa che tutto è vanità, che la storia può prendere qualsiasi piega senza che questo apporti il minimo cambiamento a un’unica cosa, del resto immutabile: che l’uomo soffre, ama invano e alla fine muore, ebbene, probabilmente in quel caso si è più sensibili alla pluralità dei possibili. Dal momento che si equivalgono tutti, esistono tutti.


Questa sensazione può essere tragica, come in Dick, o esaltante: liberati dal desiderio, si svolazza da un ramo all’altro dell’albero dei possibili, senza posarsi su nessuno. Può nascere da un’amarezza universale o da un’ironia divertita.


Proprio in quest’ultimo registro si è distinto André Maurois, che forse si credeva un Chesterton francese e si è cimentato più di quanto non si pensi in esercizi di narrazione speculativa. I suoi Tre frammenti di una storia universale 1992 (1928) compongono un interessante manuale di storia futura, il suo Se Luigi XVI... è un’ucronia.


Pubblicato dapprima in un’antologia inglese, poi ripreso in francese nel 1933 nella raccolta Mes songes que voici, questo racconto narra dell’ascesa in Paradiso di un vecchio storico appena morto. Visto che «il paradiso degli eruditi ... è la possibilità di portare avanti le loro ricerche per l’eternità, in un mondo dove tutti i documenti sono autentici, tutte le fonti affidabili, tutte le testimonianze accessibili», il protagonista visita, guidato da un arcangelo, gli «Archivi delle possibilità non realizzate», immensa biblioteca in cui tutti i titoli cominciano con la parola «se». Lo storico, specialista della Rivoluzione francese, si imbatte nel libro Se Luigi XVI avesse avuto un briciolo di fermezza, il che ci vale un’ucronia piuttosto banale in cui il re, rifiutandosi di riconvocare i Parlamenti e affidandosi totalmente all’abile Turgot, regna senza problemi fino al 1820. Ma questo libro, in cui di Napoleone non c’è traccia, in cui, cercando nell’indice, Bonaparte figura come un «giovane corso dalla carriera piuttosto oscura, ma dal carattere nobile e appassionato, che morì sotto il portico di una chiesa di Bastia in un tumulto locale il 3 settembre 1796», questo libro è solo un titolo fra un’infinità di altri, che sviluppano ognuno un «se» differente. Le biforcazioni sono di portata variabile: nello scaffale Se la Francia... si trova per esempio Se Dagoberto..., ma anche Se Pierre, abitante del borgo di Darnétal, presso Rouen...


In realtà questi inesauribili archivi hanno un nome fuorviante. Infatti quelle che contengono sono possibilità non realizzate – tranne una – solo per i defunti ammessi alla visita, dal momento che ognuno di loro viene da un universo specifico. Sono però tutte realizzate agli occhi del bibliotecario celeste, che non fa tra loro alcuna differenza. Secondo questa felice teoria l’ucronia, lungi dall’essere un inganno, offre un modesto scorcio su una realtà infinita, un’occhiata furtiva e anticipatoria agli scaffali di questa biblioteca, a cui gli uomini, chiusi nel proprio universo, hanno accesso solo dopo essersi spogliati della loro misera esistenza storica. Perdere una battaglia significa vincerla in un altro libro.


Lo storico, meravigliato, vorrebbe conoscere il futuro. «Ah,» gli risponde l’arcangelo «tutti i nostri libri si interrompono al momento presente. A ogni essere vivente Dio lascia il potere, e la responsabilità, di dare forma ai momenti successivi».


È una soluzione elegante al problema del libero arbitrio. Se tutto può succedere, allora tutto succede. L’uomo sceglie tutte le opzioni, non c’è da un lato la storia (vera) e dall’altro l’ucronia (falsa), ma un’infinità di universi paralleli creati dall’esercizio selvaggio del libero arbitrio e retti ognuno dal determinismo. Naturalmente gli uomini percepiscono il determinismo e lo sentono come una costrizione, ma per l’archivista il loro libero arbitrio e le innumerevoli ramificazioni che ne conseguono sono l’unica realtà. Nel tunnel delle nostre vite in ogni momento appaiono degli svincoli, che conducono ad altri tunnel, e noi li imbocchiamo tutti, senza eccezione. Farcene vedere qualcuno, quando sono ormai superati, e assicurarci che abbiamo preso anche quelli, è ciò che permette il passaggio dall’ucronia al concetto di universi paralleli. L’una è puro rimpianto, l’altro una magra consolazione. Sì, perché, anche se figuriamo in un’infinità di libri, ne leggiamo uno solo e, dal nostro punto di vista – del punto di vista celeste ci importa poco –, è sempre la storia ad averla vinta.


 


 


A proposito di storia. Non mi soffermerò sugli universi paralleli, la cui intuizione è un doppio, disperato o ludico – spesso le due cose vanno di pari passo –, sempre indifferente, del dispiacere più greve e concreto su cui rimugina l’ucronia. Non descriverò quei territori dell’immaginario – l’universo parallelo infatti, come l’utopia, si sviluppa più nello spazio che nella durata – che sono i Brigadoon, gli Shangri-La dei musical, l’Erewhon di Samuel Butler, la Transilvania storicamente dubbia dei film horror, la Syldavia e la Borduria di Hergé o la Caronia di Renaud Camus. Preferisco, prima di passare agli insegnamenti che il punto di vista ucronico può apportare alla nostra condotta nella vita quotidiana, parlare un momento del contributo che può offrire allo storico.


Nell’intraprendere questo lavoro, avevo la vaga speranza di poter suggerire una lettura laterale della storia attraverso lo specchio dell’ucronia. L’esempio dell’utopia mi spronava a provarci. Incoraggiato dall’etimologia, pensavo che una «cronologia dell’ucronia» sarebbe stata il degno corrispettivo di una «topografia dell’utopia», che l’incontro di queste due aberrazioni avrebbe potuto far intravedere il riflesso di un «altrove e altrimenti» che avrebbe nutrito l’immaginario storico.


Mi sono illuso: il prefisso privativo è l’unico tratto che accomuna l’ucronia e l’utopia. E quest’ultima è molto meno povera di sostanza; da sempre si è fatta carico dei sogni che animano allo stesso modo le varie civiltà. Le città, le istituzioni, gli uomini che immagina fanno luce sulle città, sulle istituzioni, sugli uomini che la immaginano. Inoltre, lungi dal limitarsi a fornire una testimonianza, l’utopia esercita un’influenza, prende corpo a sua volta nella storia da cui trae origine. Diverse volte dei poteri hanno provato a trapiantare sulla terra i suoi disegni. Come ha mostrato Gilles Lapouge in uno splendido libro (Utopie et civilisations, 1973) di cui avrei voluto scrivere l’equivalente ucronico, l’istituzione dei giannizzeri, l’amministrazione dei gesuiti in Paraguay, per non parlare degli Stati totalitari, hanno esaudito in modo abbastanza fedele gli auspici di urbanisti-indottrinatori-eugenisti, frettolosamente bollati come soavi e poetici sognatori. La storia, insomma, riversa i suoi sogni nell’utopia, la quale a sua volta si riversa nella storia. Libero scambio che richiede un approfondimento.


Che l’ucronia – eccezion fatta per le falsificazioni imposte retrospettivamente da un regime tirannico – non possa influenzare la storia è fin troppo evidente, e anzi questa impotenza è proprio ciò che la definisce. Ma nemmeno si può dire che l’ucronia rispecchi la storia. Troppo isolata, troppo discontinua, può avere qualche attrattiva solo per i suoi adepti a parole, quei brontoloni da bar che talvolta prendono la penna in mano per dare libero sfogo alla sensazione di essere rimasti fregati. Non vale neanche la pena di censirli, tutt’al più possono essere inseriti nel gran calderone degli esaltati innocui, degli eccentrici, di quei pazzi letterari a cui Raymond Queneau dava la caccia sugli scaffali della Bibliothèque Nationale. In alternativa l’ucronia appassiona menti curiose che, lungi dall’illustrarla candidamente, ne formulano la vana teoria. I suoi postulati, infine, possono servire agli scrittori che vogliono descrivere universi paralleli ed esercitare in piena libertà il loro privilegio di demiurghi. Uno storico non può farsene granché.


Del resto gli storici se ne occupano ben poco. L’utopia ha stimolato l’immaginazione di giuristi, urbanisti, politici, ossia dei vari professionisti che chiamava in causa. Nei suoi annali compaiono probabilmente parecchi esaltati, ma è stato pur sempre un Cancelliere d’Inghilterra a darle il nome. Allo stesso modo si potrebbe supporre che l’ucronia sia per gli storici, se non un oggetto di studio – è un oggetto troppo singolare per essere preso in considerazione –, almeno uno strumento, un metodo di analisi, una sorta di grimaldello epistemologico. Mostrando perché le cose avrebbero potuto andare diversamente, si può sperare di mostrare perché non è successo, perché la storia si è svolta così come la conosciamo. Esaminando le complesse ragioni che avrebbero potuto indurre Pilato a rilasciare Cristo, non vi sembra che si capisca un po’ meglio, attraverso il ragionamento per assurdo, perché non l’ha fatto e perché siamo cristiani? Ma, mettendosi su questa strada, alla fine si rischia di apparire più deterministi dei più deterministi tra gli storici, perché dall’intuizione che le cose avrebbero potuto andare diversamente si ricaverebbe la prova trionfale che di fatto non sarebbe potuto accadere, causa vinta in partenza e che non ha bisogno di avvocati.


Causa sbagliata, per di più. «La storia come giustificazione di ciò che è stato: ecco il maggior pericolo che minaccia lo storico» scrive Theodor Schieder; e Paul Veyne, che lo cita: «Non si è storici se non si avverte, attorno alla storia che si è realmente verificata, una moltitudine indefinita di storie compossibili, di cose che avrebbero potuto andare altrimenti». Il ragionamento ucronico allora non potrebbe avere, nel cervello dello storico, la funzione di un lume da notte discreto, messo lì per ricordargli in ogni istante il ruolo del caso, il brulichio periferico delle storie virtuali e abortite?


Può darsi. Ma per alimentare questo lume da notte non c’è nessun bisogno di scrivere ucronie, o di leggerne, basta fare bene il proprio mestiere di storico. Chiunque si rende perfettamente conto che, se Cristo non fosse morto sulla croce, se Napoleone avesse vinto a Waterloo o i tedeschi avessero vinto nel ’44, probabilmente la storia sarebbe stata, sarebbe, diversa. L’ucronia sviluppa un’intuizione così comune che è superfluo indugiarvi. Il modesto insegnamento che possono darci le sue fantasiose congetture, infatti, fa tranquillamente a meno di loro per arrivare fino a noi.


 


 


L’ucronia, rassegniamoci, non è né uno specchio laterale della storia – tutt’al più una scheggia di vetro opaco caduta in un terreno abbandonato – né un metodo obliquo per penetrarne gli arcani, perché la storia non ha arcani, e neppure leggi che possano essere verificate con l’esperienza, come si fa in teoria economica, dove l’ucronia ha un ruolo e un corollario: la previsione. È soltanto un gioco mentale, in cui ci si può cimentare partendo dalla storia universale o da un qualsiasi momento della propria vita. Come tutti i giochi, compresi quelli letterari, vale per le gioie estemporanee che può regalare, per le emozioni molto reali, molto gravi a cui dà voce, insomma per la nostra credulità, per la nostra capacità di leggere una storia talvolta spiacevole quanto la storia reale con lo stesso stupore con cui leggiamo quest’ultima. Perché quelle cose sono successe o perché, per il tempo della lettura, facciamo come se lo fossero.

 


Ai giorni nostri Léon Bopp non è più molto letto. Questo scrittore della Svizzera francese, che ebbe il suo momento di gloria nel primo dopoguerra, occupa però una posizione singolare nella storia letteraria, e più ancora in quella dell’ucronia.


Léon Bopp fu sempre un uomo di grandi progetti. Jacques Arnaut et la Somme romanesque (1933) è un romanzo su un romanziere, in cui alla biografia del protagonista si alterna l’analisi delle sue opere, ognuna delle quali ha lo spessore di un grosso tomo. Una simile ambizione è comunque ragionevole in confronto a quella che è alla base di Liaisons du monde (1938; 1949), opera totale che non tralascia nulla di una decina d’anni di storia contemporanea e la cui seconda edizione per la «NRF» comprendeva non meno di milleduecento pagine, su due colonne, con il corpo tipografico di una Bibbia per presbiti. A prescindere dal suo essere un’ucronia, questo libro monstre rappresenta un caso limite della sperimentazione letteraria, un sogno di esaustività. Come ucronia affascina perché il periodo che copre coincide esattamente con quello della sua elaborazione, per cui costituisce un esempio unico di storia immaginaria redatta sotto la pressione costante della storia reale.


Il progetto di Léon Bopp è semplice: nel suo Liaisons du monde ci sarà tutto. La teoria filosofico-letteraria da lui elaborata trova qui la sua applicazione: il «catalogismo», fondato sull’indagine statistica, assicura al romanziere, all’uomo di studio, il controllo su qualsiasi informazione disponibile (può sembrare ridicolo, ma molte persone serie perseguono lo stesso sogno comprandosi un computer). Bopp, in quanto catalogista, sa tutto e ci dice tutto.


Cioè? In che senso dieci anni di storia? Ebbene, nel senso di politica, economia, situazione sociale, sentimentale, intrighi pubblici e privati, botanica, epidemie di influenza, fenomeni astronomici, linguistici, morali, quadri esposti al Salon, un crac finanziario, il matrimonio di interesse di un giovane cinico, le preoccupazioni della sua fidanzata, grandi inondazioni, una perdita in un bagno, l’incontro di due amici sui Grands Boulevards dove uno offre una sigaretta all’altro che la rifiuta: ha smesso di fumare da un mese, digressioni filosofiche, casi di millantato credito, un microbo poco noto che arriva in Europa, un naufragio, l’ammontare delle regalie ricevute dalla portinaia di un certo palazzo, il progetto di restauro di quello stesso palazzo...


L’asse portante del progetto di Léon Bopp sembra essere il preziosismo stilistico che consiste nell’enumerazione eterogenea. Tutto è esposto nei minimi dettagli: le informazioni giornalistiche si alternano, giorno per giorno, alle scene di vita privata, centinaia di personaggi appaiono, scompaiono, determinano la politica europea o innaffiano le piante. In questo microcosmo ipertrofico non ci sono più personaggi storici, ognuno lo è a modo suo. Di un ministro non sapremo soltanto le convinzioni, i modi, il carattere e le dichiarazioni fatte alla Camera, ma anche se ha preso una seconda fetta di pane e marmellata a colazione, se ama sua moglie e magari perfino il suo gruppo sanguigno.


Da questo punto di vista non importa molto che Liaisons du monde sia un’ucronia. Si potrebbe immaginare di scrivere così un libro di storia, storia totale quant’altre mai. John Dos Passos ha probabilmente accarezzato l’idea. Ma almeno si è sforzato di darle una forma polifonica. Una simile preoccupazione compositiva non sembra aver sfiorato la mente di Léon Bopp, che butta giù tutto a casaccio in ordine cronologico, senza pensare che non può esistere una cronologia di tutto, ma solo cronologie di singoli item. Lui invece ci dice che in un certo giorno sono state dette determinate cose al Consiglio del Direttorio, è stato estratto un tot di tonnellate di carbone da una miniera e che il signor Tal dei Tali si è tagliato radendosi. Per uno storico, per un romanziere, per quanto unanimisti possano essere, questi tre fatti rientrano in tre categorie distinte, che solo le esigenze della trama o un effetto retorico di giustapposizione autorizzano ad accostare. Bopp invece confida nelle virtù del catalogismo convinto che possano dare unità a queste informazioni eterogenee. Tutto torna, quindi tutto è interessante da dire, e in qualsiasi ordine. Le relazioni del mondo sono strette quanto basta perché nessuna di quelle aggiunte dal romanziere risulti artificiale o insignificante. Bopp, insomma, postula che l’universo è infinito e si mette subito all’opera per censirlo. È un’impresa che merita rispetto.


Si dà il caso per giunta che Liaisons du monde sia sì un’ucronia, ma con una genesi originale quanto la sua stesura. Il libro, infatti, che copre il periodo 1935-1944 (con inoltre un richiamo agli anni 1922-1935), è stato scritto fra il 1935 e il 1944.


In realtà Léon Bopp inizialmente aveva concepito la sua opera come un’anticipazione a breve termine. Poi è stato raggiunto dalla storia (un libro di tale mole non si scrive nel giro di una settimana) e ha dovuto lavorare in contemporanea con lei, ma non ha comunque rinunciato alla sua ipotesi non confermata, dando così origine alla biforcazione. L’anticipazione è diventata ucronia, fenomeno in sé relativamente comune: basta che, una volta raggiunta la data indicata dal romanziere, la realtà smentisca le sue predizioni. Questa è la sorte toccata, nonostante il suo carattere complessivamente profetico, a 1984 di Orwell (sorte messa in luce da un adattamento molto fedele girato nel 1984). È meno comune che l’anticipazione viri verso l’ucronia non a posteriori, ma in corso d’opera.


Nel 1932 Bopp pubblica sulla «NRF» dei frammenti della sua futura grande opera sotto il titolo: Origine d’une nouvelle révolution. In questo testo propone un’analisi sintetica degli anni del dopoguerra e crede di intravedere i germi di una rivoluzione bolscevica in Francia. Si atterrà a tale postulato anche quando la storia gli avrà dato torto. Il piccolo margine temporale che si è concesso fa sì che la smentita avvenga già nella prima fase di composizione del libro. La rivoluzione quindi scoppia nel 1935 (volume redatto fra il 1935 e il 1937) e un Direttorio di quattro membri prende il potere. Il seguito di Liaisons du monde è scritto durante l’escalation prebellica e la conclusione durante la guerra. Bopp è ben informato (catalogismo oblige) e, senza accantonare la sua Francia comunista, non tralascia i fatti di attualità, che traspone a caldo. Descrivendo con lucidità la situazione internazionale, la modifica in funzione dello scarto ucronico. La Francia sovietica, sopraffatta dalle forze di opposizione (reazionari, gesuiti, neocristiani, neopagani, erotisti, ecc.), indebolita dalle divisioni del Direttorio, dichiara comunque guerra alla Germania hitleriana, che la invade nel maggio del ’40. Due membri del Direttorio fondano a Londra il Comitato della Francia libera, gli altri due si stabiliscono a Vichy. A questo punto è più che altro Bopp a sembrare sopraffatto dal suo postulato, che si sforza di far combaciare con la storia senza tuttavia rinunciarci. Bisogna dire però che la Francia comunista non si comporta molto diversamente dalla Francia della Terza Repubblica, poi dalla Francia occupata. Si organizza la Resistenza, che ben presto dà inizio alla guerriglia: sarebbe tutto di una noia mortale se i particolari non lasciassero comunque affiorare il fermento di una storia autenticamente parallela.


 


 


Impossibile riassumere oltre Liaisons du monde. Ma possiamo chiederci che cosa sia successo ogni giorno, per sei anni, nella testa del suo autore, possiamo figurarci la capricciosa ostinazione che gli faceva tenere ben salda la rotta della sua finzione, integrandovi meglio che poteva gli avvenimenti che la smentivano. Proviamo a immaginare per un attimo Léon Bopp che esce dal suo studio la sera, dopo una giornata di lavoro, va a cena da amici, commenta con loro le notizie di attualità, scisso fra quello che si dice, si sa, si stampa e quello che ha scritto lui il giorno stesso, che scriverà l’indomani distorcendo gli avvenimenti riportati dal giornale. Ho l’impressione che fantasticando su questa discordanza si possa penetrare nell’interiorità dell’ucronista: fuga dalla realtà, naturalmente, ma accompagnata da una deliberata immersione nella realtà, nei suoi fatti, nei suoi numeri, nella sua presenza testarda e concreta.


Gli altri ucronisti inseguono la loro chimera a un ritmo meno frenetico. Non si danno appuntamento ogni mattina con quell’irrefutabile testimone della parte avversa che è la vita quotidiana. Si concedono un margine di tempo. Ma in fin dei conti, pur essendo meno estrema, la loro posizione non è necessariamente più comoda: un funambolo non ha niente da guadagnare dall’avere una corda meno tesa. Anzi, il rischio di cadere – ovvero la follia, la disperazione o l’abbandono – ne risulta accresciuto.


Il vero romanzo, a ben guardare, si legge tra le righe dell’ucronia. Che significa vivere come se? In un passato apocrifo, ma soprattutto in un presente che quel passato inficia? Alla fin fine poco ci importa dell’esito di una certa battaglia: l’immaginazione dell’ucronista non ha niente di meglio da offrirci della storia reale. Ci affascinano di più il romanzo della sua mente, i suoi inciampi lungo il percorso, i suoi dubbi o la sua determinazione.


Lui del resto lo sa benissimo, e il suo ricorso costante alla mise en abîme equivale a piazzarsi davanti a uno specchio, a perdersi nella contemplazione del proprio delirio, a sottoporlo alla nostra ammirazione perplessa. L’ucronista all’opera non può che sprofondare in questo abisso, mentre si guarda agire, in preda a una vertigine che Geoffroy, nella sua Presunta storia, ha saputo rendere così bene. Personalmente sogno romanzi in cui i protagonisti non siano né Napoleone né Avidio Cassio, ma Louis-Napoléon Geoffroy, Charles Renouvier o Léon Bopp.


 


 


Esiste almeno un romanzo su un ucronista, ed è, guarda caso, il più divertente della nostra rassegna. In Les Enfants du Bon Dieu (1952) di Antoine Blondin, l’inesperto e sentimentale adepto di una disciplina che non conosce è un giovane professore di storia, costretto anno dopo anno a insegnare alle sue classi un programma immutabile, dai nostri antenati Galli fino all’età contemporanea. È comprensibile che questo andamento ciclico, determinato dall’intramontabile manuale di storia Malet-Isaac non meno inesorabilmente che dal volere di Dio, scandito da stagioni che vedono il battesimo di Clodoveo a Ognissanti, il colpo di Stato del 18 brumaio quando si scende in piazza con i lavoratori e così via, finisca per stancare un giovane smanioso di cambiamento. Con l’arrivo della primavera un’improvvisa ventata di libertà storica lo induce a non firmare la pace di Vestfalia. Di conseguenza la guerra dei Trent’anni continua e ne dura centouno, giusto per battere il record ufficiale. Il secolo di Luigi XIV risulta per questo motivo ancora più glorioso, anche perché il pedagogo, lettore impenitente di Dumas, si premura di «sostituire la caduta in disgrazia di Fouquet, bello, prodigo, seducente, con quella di Colbert, astioso, ambizioso, sgobbone», che con le sue sedici ore di lavoro al giorno si attira l’antipatia di tutta la classe.


«Il regno si estendeva da Gibilterra ai Carpazi, il re distribuiva elettorati e granducati come fossero medaglie, i kirghisi leggevano Fénelon singhiozzando». Poi è la volta di Luigi XV «che, a differenza di suo nonno, aveva ministri di novant’anni e amanti di diciotto», quindi di Luigi XVI. Siccome, nonostante tutto, scoppia la Rivoluzione, sia pur sotto forma di festa popolare, il re fugge dalla Torre del Tempio e arriva a Londra «da dove sarebbe tornato qualche anno dopo, notevolmente ingrassato, con il nome di Luigi XVIII che si era dato durante la Resistenza». Dal momento che l’ucronista si era dimenticato di annettere la Corsica nel 1768, nessun nome prende il sopravvento sul cognome Bonaparte – perché con un generale italiano sarebbe davvero troppo complicato.


Nel romanzo questa stravaganza serve soprattutto a fare da contrappunto ai tentennamenti amorosi del protagonista, il quale, combattuto fra la moglie che adora e l’amante che pure adora, tende in fondo a preferire quest’ultima perché è straniera, meno conosciuta, evasiva, proprio come la storia immaginaria. I poteri familiari si alleano contro questa sua evasione, sia dal tetto coniugale che dal Malet-Isaac. «Se Metz, Toul e Verdun» si indigna il suocero «non diventano nostre in un modo o nell’altro, come vuoi che abbia fatto il servizio militare? Non ho certo indossato una divisa straniera, questo non potrai mai farmelo accettare! Quindi, almeno Toul!».


Alla fine tutto rientra nell’ordine grazie alla visita dell’Ispettore scolastico e all’intervento di un deus ex machina che tira fuori dai guai l’insegnante impazzito, prendendo le sembianze di un ripetente che, pur essendo un asino matricolato, ha qualche vaga reminiscenza della storia ufficiale. La principessa tedesca rovina famiglie e la Francia che forniva ai sensibili kirghisi il loro amato Fénelon se ne tornano a braccetto nell’universo delizioso ed evanescente dei sogni svaniti, delle avventure senza un domani. L’Ispettore e la storia, il suocero e la moglie trionfano con discrezione.


Se l’ucronia propriamente detta fornisce solo la materia di qualche paragrafo arguto, è superfluo, credo, sottolineare in che modo una finzione così raffinata ravvivi una materia seriosa come la nostra. La tentazione ucronica non è appannaggio esclusivo di chi è stato fregato dalla storia o di chi vuole coscienziosamente studiarne le molle. Risale alla noia provata sui banchi di scuola, alle prime delusioni della vita, alle nostalgie personali. Dietro il sogno di estromettere il sordido Colbert a vantaggio dell’amabile Fouquet, di manipolare i manuali per il puro piacere dello sberleffo, c’è quello di stringere fra le braccia un’eccentrica principessa tedesca invece di una legittima moglie, per quanto incantevole. I due sogni si fondono, possono avere caratteristiche diverse a seconda dei gusti, delle tentazioni, dei ricordi di ognuno, ma tutti ne sono, bene o male, sfiorati.


 


 


Bisogna avere una certa indole, poco frequente, per rammaricarsi davvero delle sconfitte di Napoleone o dell’avvento del cristianesimo. Le nostre sconfitte personali, il trionfo della routine, la perdita delle illusioni, degli amori o delle persone che amiamo possono determinare un ben più potente interesse ad agire. Non agiamo, non abbiamo agito, ma l’interesse sussiste, retrospettivo, e si trasforma in rimorso, nel migliore dei casi in rimpianto. Quel che è fatto è fatto. Resta la possibilità di rifarlo in segreto, e a titolo puramente gratuito.


L’ascesi eroica e il conseguente miracolo che furono concessi a Pedro Damián ci verranno sempre negati e non siamo neanche abituati a sognarli (parlo per me). Ci resta però il senno di poi, vale a dire la letteratura.


Ci resta la possibilità di scrivere le nostre memorie, edizioni al tempo stesso espurgate e ampliate delle nostre vite, in cui mettiamo in mostra noi stessi per come avremmo dovuto essere e non per come siamo stati, grazie all’insignificante miracolo di un piccolo editing interiore fatto di aggiustamenti, giustificazioni, autoinganni che a poco a poco si sono imposti. E anche la possibilità di scrivere romanzi in cui vivere esistenze più felici o tragiche, poco importa, ma comunque sottratte all’imponderabile peso della realtà. Torno quindi alle regole di cui parlavo all’inizio, per abrogarle ed estendere di nuovo a tutti gli ambiti della finzione, o quasi, il regno dell’ucronia. Se lo snello Fabrizio del Dongo, gettato nella baraonda di Waterloo, non tenta di far trionfare l’esercito napoleonico sfruttando qualche causa determinante, è perché il suo destino ucronico era quello di rincuorare il tozzo Stendhal che si annoiava nel suo consolato, non di tirare fuori dai guai un imperatore.

Forse è anche per questo che l’ucronia, nell’accezione ristretta che le davo un centinaio di pagine fa, non ha mai veramente attirato né appassionato la gente. Perché intesse ininterrottamente la trama dei nostri sogni, perché nell’affrontare la storia può solo perdere il suo incanto privato, inutile e insostituibile, senza ricevere niente in cambio. Perché la storia in realtà non ha la minima importanza.

 


Tradotto alla lettera, il titolo dell’edizione francese di questo libro è Lo Stretto di Bering. Questo perché, al momento di concluderlo, ho cercato di immaginarne uno più allettante di Introduzione all’ucronia, meno banale di Il naso di Cleopatra, più raffinato di Se i porci avessero le ali... Mi è venuto in mente Lo Stretto di Bering, che trovavo grazioso ma non molto esplicito e che aveva il difetto di fare riferimento solo a un episodio del tutto accessorio, raccontato nel libro. Ho pensato anche al modo di spiegare cosa mi avesse spinto a studiare questo argomento e le ragioni per cui adesso preferisco voltare le spalle all’immagine essenzialmente triste della letteratura che ne deriva. A quel punto, su suggerimento di un amico, sono venuto a conoscenza di un romanzo pubblicato nel 1978 dal poeta belga Marcel Numeraere e intitolato per l’appunto Verso lo Stretto di Bering.


Non si tratta di un’ucronia, né di una vera e propria storia di universi paralleli, ma piuttosto, a quanto mi è sembrato, di un’implicita parafrasi del romanzo di Robert Louis Stevenson Il signore di Ballantrae, in cui due fratelli rivali e molto diversi, separati dopo una tragica ordalia, si rincorrono per tutto il mondo seguendo traiettorie divergenti e alla fine si uccidono a vicenda senza che sia emersa la loro identità – ma il ricordo di Dottor Jekyll e Mr. Hyde ci induce a credere che in realtà altro non siano che le due opposte esistenze virtuali di uno stesso uomo.


Pur essendo altrettanto avventuroso, il romanzo di Numeraere non ha questo carattere di allegoria morale e il suo protagonista, un ingegnere in viaggio d’affari nel Sud-Est asiatico, si limita a modificare, assecondando un impulso improvviso, il proprio itinerario e ad abbandonarsi a una lunga e capricciosa deriva che, rimessa in moto da un caso di spionaggio, lo conduce fino ai ghiacci dello Stretto di Bering.


Ma, mentre devia dalla rotta decisa per lui dalla direzione della sua compagnia – e, per estensione, dalla sua famiglia, dalla sua condizione sociale, da tutta la sua vita precedente nel cui solco si inserisce questo viaggio organizzato nei minimi particolari –, nonostante l’esaltazione per questo suo colpo di testa, è attentissimo a toccare tutte le tappe previste dal programma, a fare in modo che da ogni albergo, da ogni città in cui avrebbe dovuto fermarsi vengano spediti telex e cartoline, così da mantenere il controllo sui due viaggi possibili, quello che vive davvero e quello di cui, senza viverlo, falsifica le tracce per certificare di averlo vissuto. Via via che le due ramificazioni divergono, via via che gli eventi lo incalzano, gestire la situazione diventa sempre più problematico, ma anziché raccontare la catastrofe finale preferisco citare un brano che, nel primo terzo del libro, ovvero proprio all’inizio della fuga, chiarisce i motivi per cui io ho accantonato le fantasticherie adolescenziali alle quali dà corpo l’ucronia.


Invece di presentarsi a un appuntamento importante a Hong Kong, il protagonista si imbarca per Macao e passa il pomeriggio a crogiolarsi sulla spiaggia di Colonna, lì vicino.


«Rimasi tutto il pomeriggio steso sul confine mobile tra il mare e la terraferma. Via via che la marea calava, arretravo senza cambiare posizione, così che le gambe poggiassero sulla sabbia umida e la testa e il busto fossero bagnati dalle piccole onde. Attorno ai gomiti mi si formavano dei mulinelli. Il Mar della Cina in quel punto assomiglia più a uno stagno giallognolo che alla trasparente laguna esotica che avevo immaginato, ma questo non scalfiva minimamente il senso di pienezza che provavo. A volte, girando la testa, vedevo passare una giunca a motore, ma perlopiù ero rivolto verso la spiaggia dove alcuni adolescenti cinesi, i tipici ragazzi di buona famiglia che si vedono nei quartieri eleganti di Hong Kong, giocavano a pallamano sbellicandosi dalle risate. Ero fuggito, me la ridevo sotto i baffi. Forse, in realtà, in quel momento ero occupato a parlare di percentuali con il signor Liu, il nostro broker, o a spedire un telex. Immaginavo ogni mio gesto, lo svolgimento troppo prevedibile di quel viaggio e della mia vita, in modo così nitido che la libertà assaporata sulla spiaggia, quel bagno indolente, perfino lo sciabordio dell’acqua contro il mio fianco finivano per perdere ogni consistenza, per rivelarsi solo un’illusione. Ma questa illusione mi appagava, il tonfo sordo del pallone sulla sabbia, la canzone di Barbra Streisand strillata dall’altoparlante del chiosco bastavano a farmela recepire come una rappresentazione della vita reale. Trovavo piacevole anche dubitare, far vacillare la certezza fluttuante che avevo di quella felicità, quando il caso intervenne a confermarmela.


«Appoggiato sui gomiti con la testa riversa all’indietro, tenevo gli occhi chiusi, sentendo il sole che bruciava come se si fosse posato sulle mie palpebre..lpp˙ɐKǝɹnǝ oʇis lǝp oʇıpǝuı A un tratto, senza un motivo particolare, le sollevai e guardai la spiaggia.

«Suppongo che non ci sia da trarre nessuna deduzione ragionevole dalla coincidenza fra l’apertura fortuita dei miei occhi e lo spettacolo altrettanto fortuito, e soprattutto effimero, che mi si presentò alla vista (due secondi prima o dopo e, come per il raggio verde, me lo sarei perso). Dato che diffido non poco della flessibile categoria delle storie o dei piccoli particolari “che non si inventano”, ammetto anche che la natura bislacca di questo spettacolo non è affatto una prova a favore della realtà che gli ho accordato, una realtà in qualche modo superlativa, che annullava tutte le altre, a cominciare da quella in cui nello stesso momento io potevo benissimo essere occupato a fare quello che mi pagavano per fare. Preciso infine che ho imparato a evitare di attribuire un senso nascosto a tutto ciò che non ce l’ha, di trarre quindi un significato dall’insignificante, o al contrario di glorificare l’insignificante.

«So solo che mi è parso di cogliere un’evidenza oracolare, come se la mia intera vita mi strizzasse l’occhio, facendosi improvvisamente e indiscutibilmente riconoscere da me, in questa immagine: un giovane cinese grassottello faceva jogging sulla spiaggia con indosso solo un costume da bagno al quale era fissato un walkman che probabilmente gli serviva per ritmare la sua corsa. Nel momento esatto in cui ho schiuso le palpebre e ho guardato davanti a me, ancora accecato dal sole, questo giovane cinese si è fermato di botto alla mia altezza e, aggrottando la fronte, ha armeggiato con il walkman per estrarre la cassetta, che aveva il nastro mezzo srotolato. Dopodiché ha tirato fuori dal costume una matita e con tutta calma ha iniziato a riavvolgerlo, per poi rimettere la cassetta nell’apparecchio, la matita nel costume e riprendere la corsa.

«L’ho seguito con lo sguardo, abbagliato dalla certezza – nuova per me, e incrollabile – che quello che mi stava succedendo era proprio la realtà. E, comunque vada a finire, ne sono stato felice. Ne sono felice ancora adesso».

Ecco. È questo, espresso in termini più concreti, che volevo dire. Che bisognerebbe allontanarsi dall’ucronia, dagli universi paralleli, dal rimpianto di cui sono pervasi, e avventurarsi nel territorio della realtà. È difficile, ma mi piacerebbe provarci, non solo citando un libro – e fregandogli il titolo.


 


Parigi, 1980-1985