LE NOTTI DIFFICILI
Dino Buzzati
Parte terza
Dal medico
Gli scrivani
Il trus
Il genio ante-litteram
Dal medico
Sono andato dal medico per la visita di controllo semestrale: un'abitudine che ho preso da quando sono diventato quarantenne.
Il mio medico è un vecchio amico, Carlo Trattori, che ormai mi conosce per diritto e per rovescio.
E' un pomeriggio infido e nebbioso d'autunno, tra poco dovrebbe arrivare la sera.
Appena entro, Trattori mi guarda in un certo modo, e sorride:
«Ma tu stai magnificamente, stai. Non ti si riconoscerebbe, a pensare che faccia tirata avevi, solo un paio d'anni fa».
«E' vero. Non mi ricordo d'essere mai stato bene come adesso».
Di solito si va dal medico perché si sta male. Oggi sono venuto dal medico perché sto bene, benissimo. E ne provo una soddisfazione nuova, quasi vendicativa, di fronte a Trattori che mi ha sempre conosciuto come un nevrotico, un ansioso, affetto dalle principali angosce del secolo.
Ora invece sto bene. Da qualche mese in qua, di bene in meglio. Né mai più mi capitano, al risveglio del mattino, filtrando fra le stecche delle persiane la grigia funesta luce dell'alba metropolitana, propositi suicidi.
«C'è bisogno di visitarti»? dice Trattori. «Stavolta mangerò il pane a ufo, alla tua faccia».
«Be', già che sono venuto..».
Mi spoglio, mi stendo sul lettuccio, lui misura la pressione~ ascolta cuore e polmoni~ tenta i riflessi. Non parla. «E allora»? chiedo io.
Trattori alza le spalle, manco si degna di rispondere.
Però mi guarda, mi osserva come se non conoscesse la mia faccia a memoria.
Finalmente:
«Piuttosto dimmi. Le tue fisime, le tue classiche fisime? Gli incubi? Le ossessioni? Mai conosciuto uno più tormentato di te. Non vorrai mica farmi credere..».
Faccio un gesto categorico.
«Piazza pulita. Sai quello che si dice niente? Neanche il ricordo. Come se fossi diventato un altro».
«Come se fossi diventato un altro...» fa eco Trattori, scandendo le sillabe, pensieroso. La caligine, di fuori, si è infittita. Benché non siano ancora le cinque sta facendosi buio lentamente.
«Ti ricordi» dico «quando all'una, alle due di notte venivo a sfogarmi da te? E tu stavi ad ascoltarmi anche se cascavi dal sonno? A ripensarci mi vergogno. Che idiota ero, solo adesso lo capisco, che formidabile idiota».
«Mah, chissà».
«Che cosa vorresti dire»?
«Niente. Piuttosto rispondi sinceramente: sei più felice adesso o prima»?
«Felice! Che parola grossa».
«Be', diciamo soddisfatto, contento, sereno».
«Ma certo, molto più sereno adesso».
«Dicevi sempre che in famiglia, sul lavoro, tra la gente, ti sentivi sempre isolato, estraniato? E' dunque finita la tua bella alienazione»?
«Proprio così. Per la prima volta, come dire?... ecco, mi sento finalmente inserito nella società».
«Caspita. Complimenti. E da qui un senso di sicurezza, vero?, di coscienza appagata»?
«Mi prendi in giro?
«Neppure per idea. E dimmi: fai una vita più regolata di prima»?
«Non saprei. Forse si.
«Vedi la televisione»?
«Be', quasi tutte le sere. Irma e io non usciamo quasi mai».
«Ti interessi allo sport»?
«Riderai se ti dico che sto cominciando a diventare tifoso».
«E per chi tieni»?
«Per l'inter, naturalmente».
«E di che partito sei?
«Partito come»?
«Partito politico, no»?
Mi alzo, mi avvicino, gli sussurro una parola in un orecchio.
Lui: «Quanti misteri. Come se non lo si sapesse in giro.
«Perché? Ti scandalizzi»?
«Per carità. E' una cosa ormai normale tra i borghesi.
E l'auto? Ti piace guidare»?
«Non mi riconosceresti più. Lo sai che lumacone ero una volta. Bene, la settimana scorsa, quattro ore e dieci da Roma a Milano. Cronometrato... Ma si può sapere il perché di tutto questo interrogatorio?
Trattori si toglie gli occhiali. I gomiti appoggiati al piano della scrivania, congiunge le dita delle due mani aperte.
«Vuoi sapere quello che ti è successo»?
Io lo guardo interdetto. Che, senza parere Trattori abbia notato i sintomi di una orrenda malattia?
«Quello che mi è successo? Non capisco. Mi hai trovato qualche cosa»?
«Una cosa semplicissima. Sei morto».
Trattori non è un tipo facile agli scherzi, soprattutto nel suo studio di medico.
«Morto»? balbettai io. «Morto come?
Una malattia incurabile»?
«Macché malattia. Non ho detto che tu debba morire. Ho detto soltanto che sei morto».
«Che discorsi. Se tu stesso poco fa dicevi che sono il ritratto della salute»?
«Sano, si.. Sanissimo. Però morto. Ti sei adeguato, ti sei integrato, ti sei omogeneizzato, ti sei inserito anima e corpo nella compagine sociale, hai trovato l'equilìbrio, la tranquillità, la sicurezza. E sei un cadavere».
«Ah, meno male. Tutto un traslato, una metafora.
Mi avevi fatto prendere una di quelle paure»!
«Mica tanto traslato. La morte fisica è un fenomeno eterno e dopo tutto eccessivamente banale. Ma c'è un'altra morte, che qualche volta è ancora peggio. Il cedimento della
personalità, la assuefazione mimetica, la capitolazione
all'ambiente, la rinuncia a se stessi... Ma guardati in giro. Ma parla con la gente. Ma non ti accorgi che sono morti almeno il sessanta per cento? E di anno in anno il numero cresce. Spenti, piallati, asserviti.
Tutti che desiderano le stesse cose, che fanno gli stessi discorsi, tutti che pensano le stesse identiche cose.
Schifosa civiltà di massa».
«Storie. Adesso, che non ho più gli incubi di una volta, mi sento molto più vivo. Molto pìu vivo adesso quando assisto a una bella partita di calcio, o quando schiaccio l'acceleratore fino in fondo».
«Povero Enrico. E benedette le tue angosce di una volta».
Ne ho abbastanza. Trattori è riuscito a darmi veramente sui nervi.
«E allora, se sono morto, come spieghi che non ho mai venduto tante mie sculture come in questo ultimo anno? Se fossi rammollito come dici...
«Non rammollito. Morto. Ci sono oggi nazioni immense, tutte fatte di morti.
Centinaia di milioni di cadaveri. E lavorano, costruiscono inventano, si danno terribilmente da fare, sono felici e contenti. Ma sono dei poveri morti.
Fatta eccezione per una minoranza microscopica che gli fa fare quello che vuole, amare quello che vuole, credere in quello che vuole.
Come gli zombi delle Antille, i cadaveri resuscitati dagli stregòni e mandati a lavorare nei campi. E in quanto alle tue sculture, è proprio il successo che hai e che una volta non avevi, a dimostrare che sei morto.
Ti sei conformato, ti sei
dimensionato, ti sei aggiornato, ti sei messo al passo, ti sei tagliato le spine, hai ammainato le bandiere~ hai dato le dimissioni da pazzo, da ribelle, da illuso. E perciò adesso piaci al grande pubblico, il grande pubblico dei morti».
Scatto in piedi. Non so più resistere.
«E allora tu»? gli chiedo imbestialito.
«Come mai di te non parli?
«Io»? scuote il capo. «Anch'io, naturalmente. Morto. Da parecchi anni.
Come resistere, in una città come questa? Cadavere anch'io. Solo mi è rimasto uno spiraglio.., per un puntiglio professionale forse... uno spiraglio da cui riesco ancora a vedere.
Ora si è fatta veramente notte. E la bella caligine industriale ha il colore del piombo. Attraverso i vetri, la casa di faccia si riesce a distinguere appena.
Gli scrivani
Nella immensa sala stanno, allineati, centinaia, migliaia di tavoli. Su ogni tavolo una macchina da scrivere. A ogni tavolo un uomo seduto.
In centinaia, in migliaia, stiamo scrivendo i rapporti, le storie e le favole per il Nostro Signore e Padrone.
Noi siamo gli scrivani del Re. Ogni tanto passa un valletto a raccogliere i fogli già scritti. Ma non è detto che il Nostro Signore legga tutto quanto.
Anzi, alcuni di noi continuano a scrivere per l'intera vita senza che di quanto hanno scritto il Nostro Signore e Padrone legga neppure una riga.
Noi siamo gli scrivani del Re. Anch'io sono qui a scrivere da moltissimi anni. Dinanzi a me, che mi volta la schiena, lavora Antonio Scocchiari, sociologo, incaricato di scrivere i discorsi per i signori ministri; a sinistra Gelmo Weisshorn, relatore, tipo riservato e freddo; a destra, il professore Miro Castenèdolo, storico, mio buon amico; dietro a me, Ascanio Indelicato, poeta, che il Cielo lo perdoni.
All'improvviso, dalla mia macchina da scrivere venne un energico clac, una minuscola lampadina rossa si accese al di sopra della tastiera, tutti si voltarono a guardarmi.
Tutti si voltarono a guardarmi perché quello scatto e quella lampadina significavano la condanna.
Da quell'istante, per imperscrutabile disegno del Nostro Padrone, io dovevo continuare a scrivere senza termine, tranne le brevissime pause imposte dai bisogni corporali.
Se smettevo, era la morte.
Come mi guardarono i compagni? Con pietà oppure con invidia? In realtà ero stato condannato o prescelto?
In gergo noi definiamo "chiamata" la pesante investitura. Essa avviene raramente. Da nove anni, per esempio, nessuno, nella nostra sala, l'aveva ricevuta; da cinque, nessuno la portava più con se.
La "chiamata" tocca quasi sempre a scrivani di una certa età. Raramente ai giovani. Anche a motivo ditale circostanza molti ritengono non trattarsi di un castigo bensì di un'alta distinzione da parte del Nostro Signore; il quale, avendo specialmente cara l'opera di un dato scrivàno, per timore che chieda la pensione e abbandoni il lavoro, lo trattiene con la mortale minaccia.
Altri invece sono convinti che non dipenda da un apprezzamento positivo ma da un puro e semplice capriccio, come talora piace ai potenti. Si citano infatti casi antichi di scrivani che furono "chiamati" benché non possedessero che mediocri facoltà.
Contrastanti sono pure le opinioni sull'effetto della "chiamata". C'è chi pensa che la minaccia della morte in caso di cessata attività obnubili la mente e fiacchi le energie, cosicché dopo poco tempo l'uomo cede, smette di scrivere e si abbandona al suo destino. C'è chi invece sostiene che la fatàle alternativa stimoli e moltiplichi le forze procurando una nuova giovinezza tanto che il designato resiste per un periodo lunghissimo, anzi scrive rapporti, storie e favole con sempre maggiore perfezione.
Ma, se lo scrivàno smette, come viene la morte?
Quando le forze mi verranno meno, in che modo la morte mi raggiungerà? La coSa è incerta. In genere si esclude l'intervento del boia di corte. Niente morte Violenta. Si suppone piuttosto una fine squallida per inanizione, essendo venuta a mancare all'infelice la grazia del Signore e Padrone, cioè l'unico vero motivo di esistere.
Ma c'è pure un'altra teoria: la morte non sarebbe che una minaccia platonica; smettendo di lavorare lo scrivàno, il Sire gli perdonerebbe e, all'insaputa di tutti, gli farebbe consegnare perfino un premio. Candide utopie!
Si udì un clac nella mia macchina da scrivere, la lampadina rossa si accese, tutti si voltarono a guardarmi.
Io solo, nella immensa sala, sono stato <`chiamato".
Al termine dell'orario di lavoro, tutti gli altri se ne andranno. Io resterò seduto a scrivere, scrivere, fino a tardissima notte. E all'alba, dopo un breve sonno sopra un giaciglio approntato in un angolo dal guardiano~
riprenderò la fatica. E mai più un giorno di riposo o una vacanza. E se un giorno non riuscirò più a continuare e abbandonerò per sempre la tastiera, sarà la mia fine.
Il professore Castenedolo, lo storico che lavora al mio fianco, è ormai vecchio e mi vuole bene.
«Non affliggerti», dice. «Se sei stato chiamato è segno che il Nostro Padrone ha molta stima di te».
«Ma non posso più muovermi di qui, capisci? Voi, tra poco, ritornerete a casa, rivedrete i vostri cari, potete svagarvi, ridere, divertirvi, girare per i boschi e le praterie. Io no. Per me soltanto scrivere, scrivere. E fino a quando resisterò?
«Chissà. Può anche darsi che il Nostro Signore e Padrone, innamorato delle cose che scrivi, al colmo della notte scenda qui a trovarti e magari ti inviti a una delle sue orge leggendarie. Per un motivo o l'altro, tu sei diverso da noi tutti, altrimenti non avresti avuto la "chiamata". Pensa a me, invece. Io sono uno storico, sono vecchio e stanco, oggi ho messo la parola fine al trattato sulle diarchìe del basso Medioevo, che sarà il mio ultimo lavoro perché domani, come tu sai, io vado in pensione. Ma io ti invidio. Io esco dalla scena oscuro e negletto, so bene che il Nostro Signore e Padrone ama le favole come le tue e non si interessa di storia».
(Il che non è vero, mi risulterebbe al contrario che negli ultimi tempi egli si è appassionato alla storia con tale trasporto da non leggere più quasi nient'altro.) Brevi scambi di parole.
Perché più di tanto non possiamo distrarci. L'importante è scrivere, scrivere, lui storia, io favole vane.
Ma tra poco lui, Castenèdolo, se n'andrà e io continuerò a faticare.
Si attenua infatti a poco a poco la luce del giorno perché sta scendendo la sera. Deng, la campanella della fine-orario.
I cento, i mille colleghi scrivani intorno a me smettono di battere i tasti all'unisono, si alzano, coprono la macchina col fodero di plastica e si avviano all'uscita, malinconici formiconi, gettando furtivi sguardi su di me; che invece rimango.
Anche il professore Castenèdolo si è alzato, mi guarda e sorride con bontà:
«Ti saluto, caro amico, è l'ultima sera che ci troviamo insieme. Tu non avere paura; tu sei un designato, un eletto. Io me ne vado nell'ombra, oramai ho bisogno soltanto di riposo».
Estrae dal cassettino la fodera di plastica~ la allarga, la tende a cupoletta per ricoprire lo strumento della conchiusa fatica.
Clac, clac, per due volte uno scatto secco e maligno dalla macchina di Castenèdolo. E sopra la tastiera il lumino rosso si è acceso.
"Chiamato" anche lui, proprio all'ultimo istante della carriera.
Resta là, impietrito. E' diventato pallido come il ghiaccio. Ma lentamente abbassa la fodera di plastica, con cura la distende sopra la macchina, livellando le pieghe.
Mi guarda ancora una volta.
«Non possono. Addio. Non ce la faccio più... Sarà quel che sarà».
Per ultimo uscì dalla sala, verso la sorte.
Sono rimasto solo nel cupo silenzio.
Ho acceso la lampada. E, al piccolo lume, circondato dal buio, io scrivo, scrivo.
Desidèri sbagliati
Spesso gli uomini perseguono una felicità che basterebbe il semplice buon senso a dimostrare in partenza irraggiungibile. Tre esempi.
Il trus
In quel paese, il trus non
dico fosse messo al bando, ciò essendo assurdo perché il trus è una necessità vitale, ma veniva tenuto in sospetto e controllato, quasi fosse pericoloso socialmente. Trusare era consentito solo a precise condizioni, avere una certa età, ottenere un permesso governativo~ eccetera; certi tipi di trus erano poi severamente proibiti come delittuosi. Tuttavia il trus era desiderato sopra ogni cosa al mondo.
Stanchi di tanta angustia, che durava da secoli, un bel giorno i giovani si misero a protestare e il loro impeto era tale che travalicò ogni barriera.
L'autorità venne scalzata, gli innovatori si impadronirono del potere, elessero un presidente, e venne promulgata una legge che aboliva le antiche remore, mettendo il trus a disposizione di ciascun cittadino, maschio o femmina, cosicché tutti potessero trusare a loro piacimento.
La conquista fu celebrata con una festa pubblica nelle piazze e nelle vie, dove ogni sorta di trus veniva dispensata senza limiti. Era la felicità vagheggiata da millenni.
Tutti si precipitarono avidamente. A milioni, uomini e donne trusavano spensierati, gli uni sotto gli occhi degli altri.
Senonché, dopo neppure mezz'ora, subentrò un senso di sazietà e delusione. E si udirono voci di protesta:
«È un imbroglio. Questo non è il trus di una volta.
Ci avete fatto fessi»! Furono inalberati cartelli. Cortei di protesta. Una moltitudine invelenita dinanzi al palazzo del nuovo governo.
Al balcone si affacciò il presidente.
Si fece silenzio.
Disse: «Perché tanto furore? Il trus che vi è messo a disposizione non differisce per nulla da quello che una volta era quasi proibito. Ma abbiamo tutti sbagliato calcolo, io per il primo. Ciò che risultava delizia suprema quando era difficile, oggi che si può avere senza la minima fatica, si è svuotato di ogni piacimento. La colpa è anche mia. Do le dimissioni.
Non avevamo pensato che a questo mondo tutto, ahimè, si paga fino all'ultimo copeco».
Il genio ante litteram
Fabio Ternaz, giovane pittore di ottima scuola ma scarso di idee, fece un viaggio fino allontano Frnland dove era in funzione uno dei più potenti cervelli elettronici della terra, specializzato in questioni culturali. «Io di fantasia ne avrò poca", pensava "però mi è venuta un ìdea straordinaria, quella di chiedere al possente computer quale sarà l'arte tra un secolo. Lui necessariamente mi risponderà e in base alle sue istruzioni io sarò in grado di precedere i miei colleghi appunto di cent'anni, sarò proclamato un genio, diventerò ricco e famoso".
Giunto nel Frnland, pagò la tariffa di quattrocento dollari e consegnò un foglietto con la sua domanda al tecnico preposto. La richiesta, tradotta in termini cibernetici, fu introdotta nella pancia del mostro il quale, dopo circa due ore di laboriosi borborigmi, emise un cartoncino su cui era riprodotto un quadro. Con sommo stupore, il Ternaz rimirò. Era un nudo di donna, giovane, provocante e bellissima, distesa su un divano; era dipinta con una precisione e un amore dei particolari che neppure Ingres si sarebbe sognato.
La faccenda era imbarazzante. Tuttavia il giovane, fiducioso nel robot, rimpatriò di volata e si mise a riprodurre in vaste dimensioni il quadro del lontano futuro. Di quadri nello stesso stile ne fece anzi una trentina, e più ci dava dentro, più si persuadeva che quel modo di dipingere fosse una consolante liberazione.
Con tanti quadri fece una mostra, ne fece due, tre, dieci, nelle città più autorevoli. Ma tutti gli risero dietro. «Questa è una pittura vecchia come il cucco»
dicevano. «E riproporla oggi è una vergogna».
Al che il Ternaz, imbestialito, rimontò in groppa all'aereo e via al Frnland per contestare il computer:
«Ti avevo chiesto come si dipingerà tra cento anni e tu mi hai dato un nudo di donna. Io l'ho copiato pari pari, e tutti mi hanno detto che sono un ridicolo passatista.
Evidentemente tu ti sei sbagliato, perciò ti prego di restituirmi i quattrocento dollari del caso».
Il cervello rispose: «Ti sei sbagliato tu, ragazzo. I grandi artisti è tanto se vengono
riconosciuti tali vent'anni dopo la loro morte. Come puoi pretendere che il mondo accetti una pittura che lo precede di un secolo»?
La poesia