mercoledì 12 gennaio 2022

IL CALORE DEL SANGUE Irène Némirovsky


IL CALORE DEL SANGUE

Irène Némirovsky

I PARADISI PERDUTI DI IRENE NEMIROVSKY
 di Olivier Philipponnat e Patrick Lienhardt
[...]Strutturato come un enigma a più livelli, Il calore del sangue descrive, con il tono familiare del naturalista, un universo predatore straordinariamente subdolo. Ed ecco i «caratteri ben delineati» prima mancanti, gli esseri taciturni che solo la campagna francese sa produrre. «Ciascuno se ne sta in casa propria, sui propri possedimenti, non si fida del vicino, ripone il grano, conta i soldi e non si cura del resto». Allorché si comincia a sparlare di Brigitte, nel paese si instaura una paziente ostilità. Il silenzio bilancia la paura. «Questa terra ha davvero un che di schivo e selvatico, da florido e diffidente, che ricorda epoche remote». Lo scenario per il dramma di Suite francese è pronto. Impossibile non rilevare, nelle pagine che seguiranno, il «malanimo dagli effetti prodigiosi» dei paesani: sarà il tema di Dolce, secondo pannello di Suite francese, che mette in scena la vita sotto l’Occupazione di un paesino che è appunto Issy-l’Évèque. Durante questa guerra segreta la vita dei sensi segue il proprio corso. Così come l’occhio si abitua all’oscurità, il lettore riesce gradualmente a discernere le belve acquattate nell’ombra del racconto, le quali finiranno con lo spiccare un balzo, abbattendo il gradevole scenario campestre: racconto inizialmente ingenuo, poi tortuoso, che si approfondisce sempre più e porta alla luce una lunga consuetudine con le mentalità dei clan familiari, per non dire tribali. Ma sebbene Irène Némirovsky fosse solita disseminare i suoi romanzi di massime, in questo caso la morale scaturisce da una divagazione nel bel mezzo di un dialogo: «Amico mio, di fronte a certi episodi della vostra vita, vi accade mai di pensare all’istante da cui sono sorti, al germe di cui sono frutto? Non so come spiegare… Immaginate un campo al momento della semina, tutto quel che ha in sé un chicco di grano, i raccolti futuri… Be’, nella vita è esattamente lo stesso». E’ la traduzione, in terra di Borgogna, del proverbio ucraino che le piaceva citare: «A un uomo basta un solo granello di fortuna nella vita; ma senza quel granello, egli non vale nulla». Perché Il calore del sangue si interroga, in fin dei conti, sull’enigma della sua autrice: sarebbe divenuta la romanziera di David Golder senza la particolarissima conformazione del suo ambiente d’origine? E senza lo splendido orgoglio che la divorava, non avrebbe rischiato di emulare la madre, impietrita in una finta giovinezza a forza di creme, presunzione e avarizia?[...]

IL CALORE DEL SANGUE
Irène Némirovsky
Adelphi
  TITOLO ORIGINALE: Chaleur du sang
  ©Traduzione di Alessandra Berello



  Bevevamo punch leggero, come ai tempi della mia gioventù. Stavamo seduti davanti al fuoco, i miei cugini Érard, i loro figli e io. Era una serata autunnale, soffusa di rosso sopra i campi arati zuppi di pioggia; il tramonto infuocato prometteva vento forte per l’indomani; i corvi gracchiavano. Nella mia grande casa gelida spirano ovunque correnti d’aria cariche dell’odore aspro e fruttato della stagione. Mia cugina Hélène e sua figlia Colette tremavano sotto gli scialli che avevo prestato loro, due stole di cachemire di mia madre. Come sempre quando vengono a trovarmi, mi chiedevano come faccio a vivere in questa topaia, e Colette, che sta per sposarsi, decantava le bellezze di Moulin-Neuf, dove andrà ad abitare, e «dove spero di vedervi spesso, cugino Silvio» diceva. Mi guardava con compassione. Sono vecchio, povero, scapolo; vivo sepolto in una stamberga da contadini in mezzo ai boschi. Tutti sanno che ho viaggiato molto, e che mi sono mangiato l’eredità; figliol prodigo, quando sono tornato nella terra natale persino il vitello grasso era morto di vecchiaia, dopo lunga e vana attesa. I cugini Erard, paragonando mentalmente il loro destino al mio, mi perdonavano con ogni probabilità tutti i prestiti che avevo chiesto senza mai restituire un soldo, e ribadivano le parole di Colette: «Qui vivete come un selvaggio, povero caro. Dovete andare dalla nostra bambina quando si sarà sistemata e passare da lei la bella stagione». Eppure, anche se loro non lo immaginano, io ho dei momenti belli. Oggi sono solo; è caduta la prima neve. Questa terra, al centro della Francia, è selvaggia e ricca al tempo stesso. Ciascuno se ne sta in casa propria, sui propri possedimenti, non si fida del vicino, ripone il grano, conta i soldi e non si cura del resto. Niente grandi ville, niente visite. Qui regna una borghesia ancora vicinissima al popolo da cui è appena emersa, gente il cui sangue non si è ancora impoverito, e che ama tutti i beni della terra. La mia famiglia copre la regione di un’estesa rete di Erard, di Benoìt, di Chapelain, di Montrifaut: fanno gli agricoltori, i notai, i funzionari, i proprietari terrieri. Le loro sono case confortevoli, isolate, costruite fuori dal paese, protette da ostili portoni chiusi a tripla mandata, come porte di prigione, con davanti giardini piatti, quasi privi di fiori: nient’altro che ortaggi e alberi da frutto potati a spalliera perché producano di più. I salotti sono zeppi di mobili e perennemente chiusi: si vive in cucina per non dover accendere i camini.

  Non mi riferisco a François e Hélène Erard, è ovvio: non conosco dimora più gradevole o accogliente della loro, né focolare più intimo, più allegro e più caldo. Eppure non c’è cosa più preziosa per me di una serata come questa: la solitudine è totale; la domestica, che la sera torna in paese, ha fatto rientrare le galline nel pollaio e se ne va a casa. Sento il rumore dei suoi zoccoli sul sentiero. Io rimango con la mia pipa, il cane fra le gambe, lo zampettio dei topi nel granaio, il fuoco che crepita, niente giornali, niente libri, una bottiglia di Juliénas che s’intiepidisce accanto agli alari. «Cugino, perché vi chiamano Silvio?» chiede Colette. Rispondo: «Una bella signora che è stata innamorata di me e che trovava somigliassi a un gondoliere, perché all’epoca, trent’anni fa, avevo i baffi a manubrio e i capelli neri, ha trasformato il mio nome, Sylvestre, in Silvio». «Macché, somigliate più a un fauno,» dice Colette «con quella fronte alta, il naso all’insù, le orecchie a punta, gli occhi che ridono. Sylvestre, l’uomo dei boschi. Vi sta a pennello». Fra tutti i figli di Hélène, Colette è la mia preferita. Non è bella, ma ha ciò che in gioventù apprezzavo più d’ogni altra cosa nelle donne: un temperamento focoso. Anche a lei ridono gli occhi, come ride la grande bocca; e i capelli neri, leggeri, sfuggivano in ricciolini dallo scialle con il quale si era coperta il capo affermando di sentire uno spiffero sulla nuca. Dicono che assomigli a Hélène da giovane. Ma io non mi ricordo. Dopo la nascita del terzo figlio, il piccolo Loulou, che ora ha nove anni, Hélène è ingrassata, e la donna di quarantotto anni dalla pelle morbida e un po’ appassita si sovrappone nella mia memoria all’Hélène ventenne che ho conosciuto. Ora ha un’aria riposante, di placida felicità. Quella serata da me era una visita ufficiale: erano venuti a presentarmi il fidanzato di Colette. E’ un certo Jean Dorin, dei Dorin di Moulin-Neuf, mugnai di padre in figlio. Ai piedi del mulino scorre un bel fiume, verde e schiumoso.

  Quando il vecchio Dorin era ancora in vita ci andavo a pescare le trote.

  «Ci farai dei bei piatti di pesce, Colette» dissi. François rifiuta il mio punch: beve solo acqua. Ha una barbetta grigia appuntita e sottile che si accarezza delicatamente con una mano. Osservai: «A voi non toccherà rimpiangere il mondo quando l’avrete lasciato – anzi, quando lui avrà lasciato voi, come è successo a me…». Perché a volte ho la sensazione che la vita mi abbia respinto, come una marea troppo alta. Mi sono arenato su una sponda triste, come una barca che, sebbene vecchia, è ancora solida, ma i suoi colori sono stinti dall’acqua e rosi dal sale. «Non vi toccherà rimpiangere nulla, visto che non vi piacciono né il vino, né la caccia, né le donne». «Rimpiangerò mia moglie» ha replicato lui sorridendo. A quel punto Colette si è seduta accanto alla madre e le ha chiesto: «Mamma, raccontami del tuo fidanzamento con papà.

  Del tuo matrimonio non hai mai fatto parola. Perché? So che è una storia romanzesca, che vi amavate da tanto… Non me l’hai mai raccontato.

  Perché?». «Perché non me l’hai mai chiesto». «Ma te lo chiedo ora».

  Hélène si schermì ridendo: «E’ una cosa che non ti riguarda». «Non vuoi dirlo perché ti mette a disagio. Sicuramente non è per via del cugino Silvio: lui saprà già tutto. E’ per via di Jean? Ma domani sarà tuo figlio, mamma, e deve conoscerti come ti conosco io. Vorrei tanto che la mia vita con lui somigliasse a quella tua e di papà! Sono certa che non avete mai litigato». «Non sono a disagio per Jean,» disse Hélène «ma per questi tontoloni» e indicò i figli con un sorriso. I due ragazzi, Georges e Henri, di quindici e tredici anni, erano seduti sul pavimento, intenti a buttare pigne nel camino: ne avevano una scorta nelle tasche.

  Le pigne scoppiavano tra le fiamme producendo un rumore secco e forte.

  «Se è per noi, fa’ pure, non ti preoccupare. Non ci interessano le vostre storie d’amore» interloquì Georges sprezzante, con la sua voce in muta. Nel frattempo il piccolo Loulou si era addormentato. Ma Hélène faceva segno di no con la testa e non voleva parlare. Il fidanzato di Colette intervenne timidamente: «Siete una coppia esemplare. Anch’io spero… un giorno… noi…». Farfugliava. Sembra un bravo ragazzo; ha una corporatura esile, delicata, e due begli occhi irrequieti da lepre.

  E’ curioso che Hélène e Colette, madre e figlia, per sposarsi abbiano scelto lo stesso tipo di uomo: sensibile, delicato, quasi femmineo, facile da dominare e nel contempo schivo, selvatico, direi quasi pudico.

  Dio santo! Non ero così, io! Li guardavo tutti e sette. Me ne stavo un po’ in disparte. Avevamo cenato in sala da pranzo, la sola stanza abitabile del mio alloggio insieme alla cucina; dormivo in una specie di mansarda nel granaio. La sala è sempre un po’ buia, e in quella sera di novembre era tanto scura che quando il fuoco si abbassava si scorgevano soltanto i grandi paioli e gli antichi scaldaletto appesi al muro, di un rame che cattura i minimi bagliori. Allorché le fiamme si rianimavano, rischiaravano volti placidi, sorrisi benevoli, la mano di Hélène col suo anello d’oro che carezzava i riccioli del piccolo Loulou. Hélène indossava un vestito di seta blu a pois bianchi. La stola arabescata di mia madre le copriva le spalle. Accanto a lei stava seduto François ed entrambi contemplavano i ragazzi ai loro piedi. Mi è venuta voglia di riaccendermi la pipa e ho sollevato un pezzetto di legno infuocato, che mi ha proiettato in faccia la sua luce. A quanto pare non ero il solo a osservare quel che mi circondava e anche Colette deve avere la vista lunga, perché di botto ha esclamato: «Che aria sardonica avete, cugino Silvio, l’ho notato spesso». Poi, voltandosi verso il padre: «Sto ancora aspettando la storia del vostro amore, papà». «Vi racconterò» disse François «il mio primo incontro con la mamma. A quei tempi vostro nonno abitava in paese. Come sapete, si era sposato due volte. La mamma era figlia di primo letto e la sua matrigna aveva anche lei avuto una figlia da un precedente marito. Quel che ignorate è che la ragazza (cioè la sorellastra di vostra madre) mi era stata destinata in sposa». «Buffo» disse Colette. «Sì, quando si dice il caso. Entro dunque per la prima volta in quella casa, trascinato dai miei genitori. Mi avviavo al matrimonio come un cane restio al guinzaglio. Ma mia madre, povera donna, teneva molto a sistemarmi, e a forza di suppliche aveva ottenuto quel colloquio che non mi impegnava in alcun modo, come si era affrettata a precisare. Entriamo. Immaginatevi il più severo, il più freddo dei salotti di provincia. Sul caminetto c’erano due torciere di bronzo che raffiguravano le fiaccole dell’amore e che a ripensarci mi fanno inorridire ancora adesso». «A chi lo dici!» rincalzò Hélène ridendo. «Quelle fiamme gelide e immobili, nel salone dove non veniva mai acceso il fuoco, avevano un valore simbolico». «La seconda moglie di vostro nonno aveva, non ve lo nascondo, un carattere…». «Taci,» lo interruppe Hélène «è morta». «Per fortuna… Ma vostra madre ha ragione: pace ai defunti. Era una signora ben piantata, rossa di capelli, con una grossa crocchia color rame e la carnagione chiarissima. Sua figlia somigliava a un pesce lesso. Per tutta la durata della mia visita la poveretta non fece altro che tenere sulle ginocchia le mani gonfie per i geloni congiungendole e separandole alternativamente, senza dire una parola. Era inverno. Ci offrirono sei biscotti in una ciotola e dei cioccolatini grigi di vecchiaia. Mia madre, che era freddolosa, non faceva che starnutire. Cercai di abbreviare al massimo la visita. Quando finalmente uscimmo (frattanto aveva iniziato a nevicare) vidi i bambini che tornavano dalla scuola lì vicino: in mezzo a loro correva e scivolava sulla neve una ragazzina allora tredicenne; ai piedi aveva un paio di grossi zoccoli di legno e sulle spalle una mantellina rossa, i capelli neri tutti scarmigliati, le guance scarlatte, la punta del naso e le ciglia cosparse di neve. Era la vostra mamma: gli altri ragazzini la inseguivano gettandole palle di neve sul collo. Si trovava a pochi passi da me: si voltò, raccolse un’intera manciata di neve e la gettò davanti a sé, ridendo; poi, giacché ne aveva uno zoccolo pieno, se lo tolse e restò in piedi sulla soglia di casa saltellando su una gamba sola, con i capelli neri che le cadevano sul viso. Dopo aver lasciato le due donne compassate e il loro gelido salotto, non avete idea di quanto quella bambina mi sembrasse viva e seducente. Mia madre mi disse chi era. Fu in quell’istante che decisi di sposarla. Ridete pure, figli cari. Non fu tanto un desiderio o un proposito il mio, quanto una sorta di visione. La immaginai più tardi, qualche anno dopo, uscire dalla chiesa al mio fianco, il giorno del nostro matrimonio. In quella casa non era felice. Il padre era anziano e malato, e la matrigna non si prendeva cura di lei. Mi adoperai perché fosse invitata a casa dei miei genitori. L’aiutai a fare i compiti, le prestai dei libri, organizzai picnic e festicciole per lei, per lei sola. Lei non sospettava nulla…». «Oh, come no!» fece Hélène, e sotto i capelli grigi gli occhi ebbero un bagliore malizioso e la bocca un sorriso giovanissimo. «Partii per terminare gli studi a Parigi: non si chiede in moglie una ragazzina di tredici anni. E così me ne andai, dicendomi che sarei tornato cinque anni dopo e avrei ottenuto la sua mano, ma lei a diciassette anni si sposò: con un uomo molto perbene, parecchio più anziano di lei. Pur di sfuggire alla sua matrigna avrebbe sposato chiunque». «Negli ultimi tempi» interloquì Hélène «era così avara che avevamo un solo paio di guanti, la mia sorellastra e io. In teoria avremmo dovuto metterli a turno per recarci in visita. In realtà, la mia matrigna faceva in modo di punirmi ogni volta che dovevamo uscire, ed era sempre sua figlia a metterli, quei bei guanti di pelle di capretto. Mi facevano talmente gola che la prospettiva di averne un paio per me, solo per me, una volta sposata, mi spinse a dire di sì al primo uomo che chiese la mia mano senza amarmi. Si è sciocchi da giovani…». «Io ne fui molto addolorato» disse François «e al mio ritorno, quando vidi la giovane donna deliziosa e un po’ triste in cui la mia amichetta si era trasformata, mi innamorai perdutamente. E lei…». Tacque. «Oh, come arrossiscono!» esclamò Colette battendo le mani, e indicando poi a turno il padre e la madre.

  «Avanti, diteci tutto! Il romanzo comincia qui, vero? Vi siete parlati, vi siete capiti. Lui è ripartito, con la morte nel cuore, perché tu non eri libera. Ha aspettato fedelmente e, quando sei rimasta vedova, è tornato e ti ha sposata. Avete vissuto felici e avuto molti figli». «Sì, è proprio così,» disse Hélène «ma Dio mio, prima, quante angosce, quante lacrime! La situazione sembrava così complicata, irrimediabile! Come è tutto lontano ora… Quando il mio primo marito è morto, vostro padre era in viaggio. Pensavo che mi avesse dimenticata, che non sarebbe tornato. Da giovani si è così impazienti! Ogni giorno che passa, ed è perso per l’amore, è uno strazio. Alla fine è tornato». Fuori era ormai notte fonda. Mi sono alzato e ho chiuso le grandi imposte di legno massiccio, che hanno emesso nel silenzio un lugubre e lamentoso cigolio.

  Il rumore li ha fatti trasalire tutti, e Hélène ha detto che era ora di tornare a casa. Jean Dorin si è alzato docilmente per andare a prendere in camera mia i cappotti delle signore. Ho sentito Colette che chiedeva: «Mamma, e della tua sorellastra che ne è stato?». «E’ morta, cara.

  Ricordi, sette anni fa io e tuo padre siamo andati a un funerale a Coudray, nella Nièvre. Era la povera Cécile». «Era cattiva come sua madre?». «Lei? Oh no, poverina! Non c’era donna più dolce e accomodante.

  Mi voleva un gran bene, e io ricambiavo. Per me è stata come una vera sorella». «E’ strano che non venisse mai a trovarci…». Hélène non rispose. Colette fece ancora una domanda; la madre di nuovo non rispose.

  Alla fine, poiché Colette continuava a insistere, la madre tagliò corto: «Oh, sono cose talmente vecchie» e la sua voce si fece di colpo strana, alterata, distante, come se parlasse in sogno. A quel punto tornò il fidanzato con i cappotti e ci avviammo. Accompagnai i miei cugini fino alla loro bella casa, che dista quattro chilometri da dove abito io.

  Camminavamo lungo un sentiero stretto e pieno di fango, i ragazzi davanti col padre, poi i fidanzati, infine Hélène e io. Hélène mi parlava dei due giovani: «Sembra un bravo ragazzo questo Jean Dorin, vero? Si conoscono da un pezzo. Hanno ogni probabilità di essere felici.

  Vivranno come abbiamo vissuto io e François, in maniera tranquilla, decorosa… soprattutto tranquilla… senza scosse, senza tempeste… E’ poi così difficile essere felici? Mi pare che Moulin-Neuf abbia in sé un che di rassicurante. Ho sempre sognato di abitare in una casa vicino al fiume, di svegliarmi di notte, al caldo nel mio letto, e sentire l’acqua che scorre. Presto arriverà un bambino» continuò, sognando a occhi aperti. «Mio Dio, se a vent’anni si sapesse come è semplice la vita…».

  Li salutai dinanzi al cancello del giardino, che si aprì con uno stridio acuto e si richiuse su una nota grave e bassa, simile a un colpo di gong, tale da procurare all’udito un piacere particolare, come quello che dà al palato un Borgogna invecchiato. La casa è ricoperta da una verde, fitta vite americana, percorsa al minimo soffio di vento da fremiti cangianti; ma data la stagione restavano solo poche foglie secche e una griglia di fil di ferro illuminate dalla luna. Una volta che gli Erard furono rincasati, rimasi un attimo sul sentiero con Jean Dorin e vidi accendersi l’una dopo l’altra le finestre del salotto e delle camere; brillavano nella notte con tutta l’intensità delle loro luci tranquille. «Possiamo contare su di voi per la cerimonia?» mi chiese ansioso il fidanzato. «Ma certamente! E’ da dieci anni che non vado a un pranzo di nozze» dissi, e rivedevo tutti quelli cui avevo avuto occasione di assistere: le lunghe gozzoviglie di provincia, con le facce arrossate dei bevitori, i camerieri presi a nolo nella città vicina insieme alle sedie e alla pista da ballo, la torta gelato per dessert, lo sposo che soffre per le scarpe troppo strette e soprattutto, spuntati da ogni angolo della campagna circostante, familiari, amici, parenti, vicini, talvolta persi di vista da anni, che tornano d’un tratto come tappi a fior d’acqua, e ciascuno di loro risveglia nella memoria il ricordo di litigi la cui origine si perde nella notte dei tempi, di amori e odi sepolti, di fidanzamenti sciolti e dimenticati, di faccende di eredità e di processi… Il vecchio zio Chapelain che ha sposato la cuoca, le signorine Montrifaut, due sorelle che non si parlano più da quattordici anni, pur abitando nella stessa strada, perché una delle due un giorno non ha voluto prestare all’altra la sua pentola da marmellata, il notaio la cui moglie è a Parigi con un commesso viaggiatore, e… Dio mio, che consesso di fantasmi un matrimonio di provincia! Nelle grandi città o ci si vede continuamente o non ci si vede mai, ed è più semplice. Qui… tappi a fior d’acqua, vi dico. D’un tratto appaiono e, nei gorghi che formano, quanti vecchi ricordi! Poi affondano e per dieci anni sono beli e dimenticati. Feci un fischio al mio cane che ci era venuto dietro, presi bruscamente commiato dal promesso sposo e tornai indietro. Si sta bene a casa mia. Il fuoco si placa. Quando non gioca, non danza, non proietta più tutt’attorno raggi incandescenti, migliaia di scintille che si disperdono senza luce, calore, né utilità per nessuno, quando si accontenta di far bollire pian piano la pentola, allora sì che si sta bene.
  
Colette si è sposata il 30 novembre a mezzogiorno. La famiglia si è riunita per un grande pranzo seguito da un ballo. Sono tornato a casa al mattino, passando per il bosco della Maie, i cui sentieri in autunno sono ricoperti da un tappeto di foglie tanto spesso e da una così alta coltre di fango che si avanza a fatica, come in una palude. Mi ero trattenuto a casa dei miei cugini fino a tardi. Aspettavo l’arrivo di una persona che volevo veder ballare… Moulin-Neuf è attiguo a Coudray, dove un tempo abitava Cécile, la sorellastra di Hélène: lei è morta, ma ha lasciato Coudray in eredità alla sua pupilla, una bambina che aveva preso con sé e che ora è una donna sposata; si chiama Brigitte Declos.

  Supponevo che tra Coudray e Moulin-Neuf corressero rapporti di buon vicinato, e che l’avrei vista al matrimonio. Infatti fece la sua comparsa. E’ una ragazza alta e di grande bellezza, con l’aria sfrontata, piena di forza e salute. Gli occhi sono verdi, i capelli nerissimi. Ha ventiquattro anni. Indossava un abito corto e nero. Fra tutte le donne presenti, era la sola a non essersi messa in ghingheri per le nozze. Ebbi persino l’impressione che si fosse vestita in modo così semplice di proposito, per mostrare il disprezzo che nutre nei confronti di questi provinciali diffidenti, che non l’hanno mai accettata. Tutti sanno che è solo una figlia adottiva, niente di più, in fin dei conti, delle trovatelle che lavorano nelle nostre fattorie. Fra l’altro, ha sposato un mezzo contadino, un vecchio, avaro e scaltro, che possiede i terreni migliori della regione ma parla solo in dialetto e conduce lui stesso le vacche al pascolo. A quanto pare, per lei non è un problema scialacquare i soldi del marito: il vestito veniva da Parigi, e alle dita portava diversi anelli con grossi diamanti. Conosco bene il vecchio: è stato lui a comprare, pezzo per pezzo, tutta la mia modesta eredità. A volte la domenica lo incontro lungo i sentieri: si è messo le scarpe buone e il berretto, si è fatto la barba e viene a rimirare da vicino i prati che gli ho ceduto, dove ora pascolano le sue bestie.

  Punta i gomiti sullo steccato, pianta in terra il grosso bastone nodoso da cui non si separa mai, poggia il mento sulle grandi e forti mani e fissa lo sguardo dritto davanti a sé. Io gli passo accanto. Passeggio col cane o vado a caccia; rincaso quando fa notte, e lui è ancora lì, non si è spostato di un millimetro: ha contemplato i suoi beni ed è felice. La giovane moglie non viene mai dalle mie parti, e avevo voglia di vederla. Avevo chiesto di lei a Jean Dorin: «La conoscete?» ha domandato. «Siamo vicini di casa e il marito è un mio cliente. Li inviterò al mio matrimonio e ci toccherà frequentarli, ma non mi piacerebbe che lei facesse amicizia con Colette, Non mi va giù l’atteggiamento disinvolto che ha con gli uomini». Quando Brigitte fece il suo ingresso, Hélène era in piedi non lontano da me. Era commossa e stremata. Il pranzo era finito. Avevano servito cento coperti su una pista da ballo fatta portare da Moulins e collocata all’esterno, sotto un tendone. La temperatura era gradevole, il tempo sereno e umido. Di tanto in tanto un lembo della tenda si sollevava e lasciava scorgere il grande giardino degli Erard, gli alberi spogli, la vasca colma di foglie morte. Alle cinque i tavoli furono rimossi e si iniziò a ballare.

  Arrivavano ancora degli invitati, i più giovani, poco inclini a mangiare e bere smodatamente, ma desiderosi di partecipare alle danze: dalle nostre parti le occasioni di divertimento sono rare. Brigitte Declos era fra questi, ma sembrava che non conoscesse bene nessuno, ed era venuta da sola. Hélène le strinse la mano come agli altri; per un istante soltanto le si contrassero le labbra e il suo volto assunse quell’espressione sorridente e piena di coraggio che le donne usano per celare i loro pensieri più segreti. Poi i vecchi lasciarono ai giovani la sala da ballo improvvisata e si ritirarono in casa. Ci disponemmo in cerchio attorno ai caminetti; nel chiuso delle stanze l’aria era soffocante. Bevemmo granatina e punch. Gli uomini parlarono del raccolto, delle fattorie date a mezzadria, del prezzo del bestiame. Un gruppo di persone in età matura emana un senso di imperturbabilità: i loro organismi danno l’impressione di aver digerito tutte le portate pesanti, amare o piccanti della vita, eliminato tutti i veleni, e per dieci o quindici anni essi si trovano in uno stato di equilibrio perfetto, di invidiabile salute morale. Sono soddisfatti di sé. Il faticoso e vano lavorio con cui la giovinezza tenta di adattare il mondo ai propri desideri l’hanno già compiuto. Hanno fallito, e ora si riposano. Dopo qualche anno tornerà a invaderli una sorda inquietudine, e stavolta sarà quella della morte: essa altererà i loro gusti in modo imprevedibile, li renderà indifferenti, stravaganti o bisbetici, impenetrabili per le loro famiglie, estranei ai loro figli. Ma tra i quaranta e i sessantanni queste persone godono di un’effimera pace. Così mi sentivo dopo il buon pranzo e i vini eccellenti, ripensando al passato e al crudele nemico che mi aveva spinto a fuggire la regione.

  Avevo tentato di fare il funzionario in Congo, il commerciante a Tahiti, il cacciatore di pelli in Canada. Niente mi dava soddisfazione. Credevo di andare in cerca di fortuna, ma in realtà a sospingermi era il mio giovane sangue caldo. E ora che il suo ardore si è spento, non capisco più me stesso. Mi pare di aver percorso inutilmente molta strada, per poi tornarmene al punto di partenza. La sola cosa di cui sia soddisfatto è di non essermi sposato, ma non avrei mai dovuto girare il mondo. Sarei dovuto rimanere qui a coltivare le mie terre: oggi sarei più ricco di quanto non sia. Sarei lo zio che lascia una bella eredità. Mi sentirei a mio agio in società, invece di fluttuare come una brezza tra gli alberi in mezzo a questi esseri calmi e massicci. Andai a guardare i giovani che ballavano. Nel buio si stagliava l’enorme tendone trasparente, da cui fuoriuscivano le note squillanti dell’orchestra. All’interno era stata allestita un’illuminazione di fortuna: alcune file di lampadine elettriche, la cui vivida luce proiettava sulla tela le ombre dei ballerini. Tutto questo mi ricordava i balli per il 14 luglio e le sagre, ma da noi usa così… Il vento soffiava tra gli alberi autunnali e il tendone a tratti pareva oscillare, un po’ come una nave. Visto dall’esterno, dal buio, un simile spettacolo dava un senso di estraneità e tristezza. Non so perché. Forse per il contrasto tra la natura immobile e la gioventù in movimento. Poveri ragazzi! Se la godevano il più possibile. Soprattutto le ragazze: dalle nostre parti sono educate in modo estremamente rigido e casto. Fino a diciott’anni il collegio, a Moulins o a Nevers; poi, sotto lo sguardo vigile delle madri, imparano a occuparsi della casa e a dirigerla, e questo finché non si sposano. Così corpo e anima traboccano di forza, salute e desideri. Entrai sotto il tendone: guardai i ballerini, udii le loro risa, e mi chiesi quale piacere potessero mai trarre dal dimenarsi a tempo di musica. Da un po’ di tempo, di fronte alle creature giovani provo una sorta di stupore, quasi stessi contemplando una specie animale estranea alla mia, come un vecchio cane che guardi ballare i topi. Ho chiesto a Hélène e François se provano qualcosa di simile. Hanno riso e mi hanno risposto che sono un vecchio egoista e che loro, grazie a Dio, sono ancora vicini ai loro ragazzi. Figuriamoci! Credo si facciano molte illusioni. Se gli comparisse davanti la loro giovinezza inorridirebbero, o meglio, non saprebbero riconoscerla: le passerebbero accanto e direbbero: «Questo amore, questi sogni, questo ardore ci sono estranei». La loro stessa giovinezza… Quindi, che potranno mai capire di quella altrui?

   

  Mentre l’orchestra riprendeva fiato, udii il rumore dell’auto che portava i novelli sposi a Moulin-Neuf. Cercai con lo sguardo Brigitte Declos tra le coppie. Stava ballando con un giovane alto e bruno. Pensai al marito. Che imprudente. Eppure, forse, a modo suo è saggio. Scalda il vecchio corpo sotto una trapunta rossa e la vecchia anima con i titoli di proprietà, mentre la moglie si gode la giovinezza.

   

  Il primo dell’anno pranzo sempre dai cugini Erard. Secondo l’usanza locale, è una visita lunga, che inizia a mezzogiorno e si protrae per le ore successive, concludendosi con una cena a base degli avanzi del pranzo e con il rientro a casa a notte fonda. François doveva andare a ispezionare uno dei suoi terreni. L’inverno è severo e le strade sono ricoperte di neve. Era partito intorno alle cinque e lo aspettavamo per cena, ma erano le otto e non si era ancora fatto vedere. «Sarà stato trattenuto» dissi. «Dormirà alla fattoria». «No, sa che lo aspetto» rispose Hélène. «Da quando ci siamo sposati, non ha mai passato la notte fuori senza avvisarmi. Mettiamoci a tavola: non tarderà». I tre ragazzi erano a casa della sorella a Moulin-Neuf, dove si sarebbero fermati a dormire. Da un pezzo non mi capitava di stare solo con Hélène. Parlammo del tempo e del raccolto, gli unici argomenti di conversazione dalle nostre parti; niente turbava il nostro pasto. Questa terra ha davvero un che di schivo e selvatico, di florido e diffidente, che ricorda epoche remote. Il tavolo della sala da pranzo sembrava troppo grande per i nostri due coperti. Tutto brillava, tutto emanava un senso di lindore e di calma: i mobili in legno di quercia, il parquet luccicante, i piatti a fiori, l’ampia tavola incavata nella parte centrale, come ormai se ne vedono solo dalle nostre parti, l’orologio da parete, gli ornamenti di rame del caminetto, il lampadario, lo sportello in legno di quercia scolpito comunicante con la cucina per il passaggio dei piatti. Che padrona di casa esemplare mia cugina Hélène! Com’è brava a preparare marmellate, conserve, dolci! Come sa occuparsi del giardino e del pollaio! Le chiesi se fosse riuscita a salvare i dodici coniglietti che, rimasti orfani di madre, aveva nutrito lei stessa con il biberon. «Sono magnifici» mi disse. Ma sembrava distratta. Guardava l’orologio e tendeva l’orecchio per cogliere il rumore dell’automobile. «Suvvia, siete preoccupata per François, è evidente. Cosa volete che gli succeda?». «Niente. Ma, amico mio, io e François ci separiamo talmente di rado, siamo così vicini l’uno all’altro che quando non è al mio fianco soffro e sono in ansia. So che è sciocco…». «Durante la guerra siete stati separati…». «Ah,» fece lei, rabbrividendo al ricordo «furono cinque anni durissimi, tremendi… A volte penso che abbiano riscattato tutto il passato». Tra noi calò il silenzio; il passavivande si aprì con un cigolio e la domestica sporse una torta di mele, le ultime dell’inverno. L’orologio batté nove rintocchi. Dal fondo della cucina la donna disse: «Il signore non era mai rincasato così tardi».

  Nevicava. Noi stavamo in silenzio. Telefonarono da Moulin-Neuf: laggiù le cose andavano bene. Hélène mi rinfacciò la mia pigrizia: «Quando vi deciderete a far visita a Colette?». «E’ lontano» dissi io. «Vecchio gufo… Non si riesce più a tirarvi fuori dalla vostra tana. E dire che un tempo… Se penso che avete vissuto con i selvaggi, Dio sa dove… E ora, da Mont-Tharaud a Moulin-Neuf, è lontano» ripeté, facendomi il verso. «Vale la pena vederli, Sylvestre. Quei ragazzi sono talmente felici. Colette si occupa della fattoria: hanno un caseificio modello.

  Qui batteva un po’ la fiacca, si lasciava coccolare. A casa sua è la prima ad alzarsi al mattino e a mettersi all’opera, prendendo a cuore ogni cosa. Prima di morire, Dorin padre ha interamente riattato Moulin-Neuf. Hanno già ricevuto un’offerta di novecentomila franchi.

  Ovviamente non ci pensano nemmeno a vendere: il mulino è della famiglia da centocinquant’anni. Pensano solo a vivere in pace; hanno tutto ciò che occorre per essere felici: il lavoro e la giovinezza». Continuò su questo tono, fantasticando sul futuro e immaginando già i bambini di Colette. Fuori il grande cedro carico di neve scricchiolava e gemeva.

  Alle nove e mezzo Hélène si interruppe di botto: «Eppure è strano. Doveva essere a casa alle sette». Non aveva più fame; spinse via il piatto e aspettammo in silenzio. Ma la serata scorreva senza che François facesse ritorno. Hélène levò lo sguardo verso di me. 
«Quando una moglie ama il marito come io amo il mio, non dovrebbe sopravvivergli. Lui è più vecchio e più fragile di me… A volte ho paura». Gettò un ceppo nel camino. 
«Amico mio, di fronte a certi episodi della vostra vita, vi accade mai di pensare all’istante da cui sono sorti, al germe di cui sono frutto? Non so come spiegare… Immaginate un campo al momento della semina, tutto quel che ha in sé un chicco di grano, i raccolti futuri… Be’, nella vita è esattamente lo stesso. L’attimo in cui ho visto François per la prima volta, in cui ci siamo guardati, tutto ciò che esso conteneva… E’ terribile, è pazzesco, dà le vertigini!… Il nostro amore, la separazione, i tre anni che ha trascorso in Boemia, quando ero sposata con un altro, e… tutto il resto, amico mio… E poi la guerra, i bambini… Cose piacevoli, e anche cose dolorose, la sua morte o la mia, la disperazione di colui che resterà in vita». 
«Sì,» dissi io «se si conoscesse in anticipo il raccolto, chi mai seminerebbe il proprio campo?». 
«Ma tutti, Silvio, tutti quanti» rispose lei, chiamandomi col nome che ormai usava solo di rado. 
«La vita è questo: gioia e pianti. Tutti hanno voglia di vivere, tranne voi». 
La guardai sorridendo: «Quanto amate François!». Rispose semplicemente: «Lo amo molto». 
Qualcuno bussò alla porta della cucina. Era un ragazzino che il giorno prima aveva chiesto in prestito una gabbia per le galline e veniva a restituirla alla domestica. Attraverso il passavivande rimasto socchiuso, udii la sua voce acuta: «C’è stato un incidente allo stagno di Buire». «Che incidente?» chiese la cuoca.
«Un’auto è andata a sbattere; c’è un ferito: l’hanno portato a Buire».
«Sai per caso come si chiami?». 
«Eh no, questo non lo so» fece il ragazzo. 
«E’ François» disse Hélène, pallidissima. 
«Via, siete impazzita!». 
«So che è François». «Se avesse subito un incidente vi avrebbe fatta chiamare». «Proprio non lo conoscete? Pur di risparmiarmi un’emozione, una corsa a Buire in piena notte, tenterà di farsi portare qui, anche ferito o in fin di vita». 
«Ma non troverà una macchina, a quest’ora e con questa neve». 
Hélène uscì dalla sala da pranzo e andò a prendere cappotto e scialle in anticamera. Non potei far altro se non ripeterle: 
«Siete matta. Non sapete nemmeno se si tratti davvero di François. E poi, come arriverete a Buire?». 
«Be’… a piedi, se non si può fare altrimenti». 
«Undici chilometri!». Non mi rispose neppure.
Tentai invano di procurarmi una macchina dai vicini. Malauguratamente, una era in panne, e quella del dottore era occupata da un malato che doveva essere operato la stessa notte nella città vicina. Le biciclette, con quella coltre di neve, non circolavano più. Dovemmo giocoforza andare a piedi. Faceva un gran freddo. Hélène camminava in fretta, senza parlare: era certa che François l’aspettasse a Buire. Io non la dissuasi, convinto com’ero che fosse in grado di percepire a distanza il richiamo del marito ferito. Nell’amore coniugale c’è una potenza sovrumana. Come dice la Chiesa, è un grande mistero. E molte altre cose sono misteriose in amore. Di tanto in tanto, lungo il percorso, incrociavamo un’auto che procedeva lentissima per via della neve. Hélène ne scrutava ansiosamente l’interno e chiamava: «François!», ma non si udiva risposta. Lei non sembrava stancarsi. Avanzava con sicurezza sulla crosta ghiacciata che ricopriva la strada, in piena notte, tra due solchi innevati, senza mai incespicare né perdere il passo. Mi chiesi che faccia avrebbe fatto se, arrivata a Buire, non vi avesse trovato François. Ma non si sbagliava. L’auto che si era schiantata vicino allo stagno era proprio la sua. Al nostro ingresso nella fattoria François, disteso sul letto vicino al camino, con una gamba rotta e la febbre alta, levò un debole grido di gioia: «Oh, Hélène… Perché?… Non occorreva venire… Stavano preparando un carretto per riportarmi a casa. Che sciocco essere venuti» ripeté. Ma mentre lei gli scopriva la gamba e iniziava a bendarla con movimenti leggeri, cauti, abili (durante la guerra ha fatto l’infermiera), vidi che lui le prendeva la mano: «Sapevo che saresti venuta,» mormorò «stavo male e ti chiamavo».

   François è rimasto a letto per tutto l’inverno: la gamba si era rotta in due punti. Ci sono state delle complicazioni, non saprei dire con esattezza… E’ in piedi da otto giorni soltanto. Abbiamo avuto un’estate davvero fredda e ben poca frutta. Niente di nuovo nelle nostre campagne. Il 20 settembre mia cugina Colette Dorin ha dato alla luce un bambino. E’ un maschio. Dopo il matrimonio ero stato a Moulin-Neuf una sola volta; ci sono tornato in occasione della nascita.
Hélène era al capezzale della figlia. Di nuovo l’inverno, stagione monotona. Non c’è un altro luogo al mondo in cui valga quanto qui il proverbio orientale secondo cui i giorni si trascinano e gli anni volano. Di nuovo la notte che scende alle tre, il volo dei corvi, la neve sui sentieri, mentre in ogni dimora isolata la vita pare restringersi, mostrando all’esterno la sua superficie più ridotta. Lunghe ore trascorse accanto al fuoco senza far nulla, senza leggere, senza bere, senza neppure un sogno.


  Ieri, 1ºmarzo, giorno di sole e di vento forte, sono uscito di casa di buon’ora per andare a riscuotere una somma di denaro a Coudray. Il vecchio Declos mi deve ottomila franchi per l’acquisto di un prato. Mi sono trattenuto al paese, dove mi hanno offerto da bere. Sono arrivato a Coudray all’ora del crepuscolo. Ho attraversato un boschetto. Dalla strada se ne vedevano gli alberi, giovani e ancora teneri, che tracciano il confine tra Coudray e Moulin-Neuf. Il sole stava tramontando. Quando mi sono addentrato nel sottobosco, l’ombra dei rami ammantava già il terreno di un’oscurità notturna. Mi piacciono i nostri boschi silenziosi. Di solito non vi s’incontra anima viva. Mi ha sorpreso udire d’un tratto vicino a me una voce femminile che chiamava. Il richiamo era modulato su due note molto acute. Qualcuno ha lanciato un fischio in risposta. La voce si è azzittita. In quel momento mi trovavo nei pressi dello stagno. I boschi del mio paese contengono specchi d’acqua inaccessibili agli sguardi, racchiusi tra gli alberi e protetti da perimetri di giunchi. Io li conosco tutti. Quando si apre la stagione della caccia trascorro il mio tempo lungo le loro rive. Avanzai senza far rumore. L’acqua scintillava ed era circonfusa di una luce indistinta, come quella emanata da uno specchio in una stanza buia. Vidi un uomo e una donna camminare l’uno verso l’altro, lungo il sentiero fra i giunchi. Non riuscivo a distinguere i loro lineamenti, ma scorgevo le due sagome (erano entrambi alti e ben fatti) e la giacca rossa indossata dalla donna. Proseguii per la mia strada; i due non si erano accorti di me: si stavano baciando. Arrivai da Declos; era solo. Sonnecchiava su una poltrona, accanto alla finestra aperta. Dopo aver dischiuso le palpebre, esalò un sospiro profondo e rabbioso e mi fissò per un pezzo senza riconoscermi. Gli chiesi se fosse malato. Ma poiché lui, da vero contadino, considera la malattia una vergogna da tenere celata sino all’ultimo istante, sino ai sudori della morte, rispose che si sentiva una meraviglia, anche se il colorito giallastro della pelle, le occhiaie violacee, i vestiti che gli ballavano addosso, il fiato corto e la debolezza tradivano il suo stato. In paese ho sentito dire che soffre di un «brutto tumore». Deve essere vero. Brigitte si ritroverà presto vedova e ricca. «Dov’è vostra moglie?». «Mia moglie, che?». Per un vecchio vezzo da mercante di cavalli (suo mestiere in gioventù), finse di essere sordo. Finì col borbottare che la moglie si trovava a Moulin-Neuf, da Colette Dorin. «Non hanno niente da fare, quelle due, vanno a spasso tutta la giornata da una casa all’altra» concluse in tono acido. Seppi così dell’amicizia sorta tra le due giovani, di cui Hélène è senza dubbio all’oscuro, visto che pochi giorni fa mi ha assicurato che Colette vive soltanto per il marito, il bambino e la casa, e si rifiuta di uscire. Il vecchio Declos mi fece segno di prendere una sedia. E’ talmente avaro che offrire un goccio di vino è un’autentica sofferenza, e io mi tolsi la perfida soddisfazione di reclamare un bicchiere per brindare alla sua salute. «Non sento,» gemette «ho dei terribili ronzii alle orecchie, per via del vento». Accennai ai soldi che mi doveva. Sospirando, estrasse una grossa chiave dalla tasca e manovrò la poltrona verso l’armadio, ma il cassetto che voleva aprire era posto troppo in alto: si sforzò invano di raggiungerlo, rifiutò di darmi la chiave quando gliela chiesi e alla fine disse che sua moglie sarebbe rincasata di lì a poco e mi avrebbe pagato lei. «Avete una bella moglie giovane, signor Declos». «Troppo giovane per questa vecchia carcassa, volete dire? Be’, signor Sylvestre, se per lei le notti sono lunghe, i giorni passano alla svelta». In quel momento entrò Brigitte: indossava una gonna nera e una giacca rossa ed era accompagnata da un giovane, lo stesso che aveva ballato con lei tre anni prima al matrimonio di Colette. Completai mentalmente la frase del vecchio marito: «Forse più alla svelta di quanto non pensiate, Declos». Il vecchio però non pareva disposto a lasciarsi abbindolare. Fissando la moglie, la faccia da moribondo gli si infiammò di passione e di collera.

  «Eccoti, finalmente! E’ da mezzogiorno che ti aspetto». Brigitte mi strinse la mano e mi presentò l’uomo che era con lei. Si chiama Marc Ohnet, vive sui terreni del padre e ha fama di essere un donnaiolo dal temperamento sanguigno. E’ anche molto bello. Non mi è mai giunta voce che Brigitte Declos e Marc Ohnet si «frequentino», come si suol dire da queste parti; ma qui, una volta raggiunte le ultime case del paese, i pettegolezzi si fermano, mentre in campagna, nelle dimore isolate, separate le une dalle altre da campi e da fitti boschi, succedono cose di cui nessuno viene a conoscenza. Comunque, anche se non avessi scorto un’ora prima una giacca rossa in riva allo stagno, dalla loro aria di tranquilla impudenza e da una sorta di fuoco sotterraneo nascosto nelle loro movenze e nei loro sorrisi avrei intuito che quei ragazzi si amavano. Lei soprattutto. Brigitte ardeva. «Le notti sono lunghe per lei» aveva detto Declos. Potevo immaginarle, quelle notti passate nel giaciglio del vecchio marito a sognare l’amante e a contare i sospiri dello sposo, chiedendosi: «Quando arriverà l’ultimo?». Brigitte aprì l’armadio, e io notai che, sotto le pile di lenzuola, era imbottito di soldi; questa non è infatti terra che lasci arricchire le banche: ciascuno si tiene stretto il proprio patrimonio come fosse il figlio prediletto. Guardai di sottecchi Marc Ohnet immaginando di sorprendergli in volto un lampo di cupidigia, perché in casa sua non sono affatto ricchi: il padre era il maggiore di quattordici figli e possiede una modesta porzione di terre. Rimasi deluso: non appena i soldi gli comparvero davanti, il giovane si voltò di scatto. Andò alla finestra e guardò a lungo il paesaggio di fronte a sé: la notte chiara permetteva di distinguere la vallata e i boschi. C’era il tipico clima di marzo, quando il vento sembra risucchiare fino all’ultimo briciolo di nubi o di foschia; le stelle brillavano di una luce vivida e cruda. «Come sta Colette? L’avete vista oggi?» chiesi. «Sta bene». «E suo marito?». «Suo marito non c’è. E’ a Nevers, e non tornerà fino a domani». Pur rispondendo alle mie domande, Brigitte non distoglieva lo sguardo dal viso di Marc Ohnet. Altissimo e scuro di carnagione, Marc sprigiona da tutto il suo corpo un senso di forza scattante, non propriamente brutale, ma un po’ selvaggia; ha capelli neri, fronte stretta e denti bianchi, ben allineati e leggermente aguzzi. Nella camera buia aleggiava l’odore che il giovane si portava appresso, un odore di boschi a primavera, vivo e aspro, che mi riempie il petto di felicità e dà slancio alle mie vecchie ossa. Avrei camminato per tutta la notte.

  Quando me ne andai da Coudray, non sopportavo l’idea di tornare a casa, e mi diressi verso Moulin-Neuf, con l’intenzione di cenare lì.

  Attraversai il bosco, stavolta completamente deserto, misterioso e percorso dal fischio del vento. Mi avvicinai al fiume; non ero mai stato lì se non di giorno, quando la ruota del mulino in azione romba dolcemente, rasserenando l’animo. Quel silenzio invece pareva innaturale e infondeva un senso di malessere; induceva a tendere involontariamente l’orecchio per spiare il minimo rumore: si udiva soltanto lo sciabordio del fiume. Attraversai il ponticello, lungo il quale colpisce d’improvviso l’odore freddo dell’acqua, dell’ombra, delle erbe umide; la notte era talmente chiara che si vedevano biancheggiare le creste di piccole onde rapide e convulse. Al primo piano brillava una luce: mia cugina stava senz’altro aspettando il marito. Le assi scricchiolavano sotto i miei passi; Colette mi sentì arrivare. La porta del mulino si aprì e la vidi corrermi incontro, ma, a pochi passi da me, si bloccò e, con voce alterata, chiese: «Ma chi c’è?». Dissi chi ero e aggiunsi: «Stavi aspettando Jean, vero?». Lei non rispose. Si avvicinò lentamente e mi porse la fronte perché la baciassi. Era a capo scoperto e indossava una vestaglia leggera, come se si fosse appena alzata, dal letto. La fronte le scottava; il suo atteggiamento pareva così insolito che fui sfiorato dal sospetto. «Ti disturbo? Pensavo di farmi invitare a cena».

  «Veramente… Ne sarei felicissima…» mormorò. «Solo che non vi aspettavo e… non sto molto bene… Jean non c’è… Ho mandato a casa la domestica e ho cenato a letto con una tazza di latte». Parlando riacquistava gradatamente sicurezza, e finì con il raccontarmi una storiella molto plausibile: era un po’ influenzata… D’altronde, bastava che le toccassi mani e guance per rendermi conto che aveva un attacco di febbre; la domestica era in paese dalla figlia, e sarebbe tornata solo l’indomani. Era dispiaciuta; non poteva offrirmi una bella cena, ma se mi fossi accontentato di due uova al tegame e un frutto… Eppure, non accennò neanche un gesto per invitarmi a entrare. Anzi, sbarrava la porta con fermezza e, avvicinandomi a lei, mi accorsi che tremava come una foglia: mi fece pena. «Due uova al tegame non mi bastano mica,» le dissi «sono affamato. E poi, non voglio trattenerti oltre sul ponte: il vento è gelido. Torna a coricarti, figliola. Sarà per la prossima volta». Che altro potevo fare? Non sono né suo padre né suo marito. A dir la verità, in gioventù ho commesso abbastanza follie da aver perso il diritto di giudicare con severità, e come sono belle le follie d’amore! Per giunta, in genere si pagano talmente care che centellinarle, a se stessi o agli altri, è inutile. Sì, si pagano sempre, e talvolta le più piccole al prezzo delle più grandi. Tanto vale farsi impiccare per una pecora piuttosto che per un agnello, dice il proverbio. Certo, accogliere un altro uomo sotto il tetto coniugale era una pazzia; ma d’altra parte che delizia, quella notte, tra le braccia dell’amante, mentre il fiume scorre e la paura di essere scoperti stringe il cuore. Chi era l’uomo atteso? Mi dissi: «A Coudray, il vecchio Declos mi darà di certo un bicchiere di vino e un pezzo di formaggio, e se il dongiovanni è andato via ci sono buone possibilità che l’amante sia lui, qui come laggiù. E’ un bel ragazzo. Declos è un vecchio e Jean, poveretto, aveva la faccia da cornuto già il giorno delle sue nozze. Ci si nasce: c’è poco da fare». Colette mi volle accompagnare sino al limitare del bosco. Di tanto in tanto inciampava in un sasso e si aggrappava al mio braccio. Sentii che la sua mano era gelida. «Su, torna in casa. Ti ammalerai». «Non siete arrabbiato?» chiese lei. Non aspettò la mia risposta: «Quando vedrete la mamma,» disse a bassa voce «vi prego, non ditele niente. Penserebbe che sia malata in modo serio e si preoccuperebbe». «Non le dirò neppure che ti ho vista». Mi abbracciò di slancio: «Quanto vi voglio bene, cugino Silvio! Capite tutto». Era una mezza confessione, e ritenni fosse mio dovere metterla in guardia. Ma non appena mi udì pronunciare le parole: «Tuo marito, tuo figlio, la tua casa» fece un balzo all’indietro, e con voce rotta dalla sofferenza e dal rancore gridò: «Lo so, lo so, so tutto! Ma non amo mio marito. Amo un altro. Lasciateci in pace! E’ affar nostro» scandì a fatica, e fuggì tanto in fretta che non ebbi il tempo di finire il discorso. Strana follia! L’amore a vent’anni somiglia a una crisi di febbre, a un attacco di delirio. Quando è finito, si fa fatica a ricordare… Il calore del sangue è destinato a spegnersi presto. Di fronte a quella fiammata di sogni e desideri mi sentivo così vecchio, così freddo e saggio…

   

  A Coudray bussai alla finestra della sala da pranzo e dissi di essermi smarrito. Il vecchio, non ignaro del fatto che girovago per i suoi boschi da quando ero bambino, non poté non offrirmi una stanza. Quanto alla cena, non feci cerimonie. Andai in cucina e chiesi alla domestica un piatto di minestra. Me lo diede, aggiungendo un bel pezzo di formaggio e una fetta di pane. Mi misi a mangiare accanto al fuoco.
L’unica luce della stanza era quella delle fiamme: si risparmiava sull’elettricità. Chiesi dove fosse Marc Ohnet. «E’ andato via». «Ha cenato con voi?». «Sì» grugnì il vecchio. «Lo vedete spesso?». Fece finta di non sentire; la moglie teneva fra le mani un lavoro di cucito, ma l’ago non andava. Lui la apostrofò in tono ruvido: «Bella sfaticata che sei!». «Non posso lavorare, non c’è luce» rispose lei con voce bassa e assente. Poi, rivolta a me, chiese: «Non c’era nessuno a Moulin-Neuf?». «Non so. Non sono arrivato fin là. Il bosco era così scuro che non sono riuscito a venirne fuori. Temevo di cadere nello stagno». «Perché, nel bosco c’è uno stagno?» mormorò, e quando la guardai accennò un sorriso colmo di scherno e di intima gioia; poi, gettato il lavoro sul tavolo, rimase immobile, con le dita intrecciate posate sulle ginocchia e il capo chino. Entrò la domestica. «Ho messo le lenzuola nel letto del signore» disse riferendosi a me. Il vecchio Declos sembrava addormentato; gli capitava spesso di restare a lungo così, in silenzio, immobile, a bocca aperta; le guance incavate e il colorito livido gli conferivano l’aspetto di un morto. «Vi ho acceso il fuoco in camera,» continuò la domestica «le notti sono fresche». S’interruppe: Brigitte si era alzata di scatto e sembrava estremamente turbata. La fissammo senza comprendere. «Non sentite nulla?» chiese dopo un istante. «Nulla. Che c’è?». «Non so… mi era parso… forse mi sono sbagliata… Avevo sentito un grido». Tesi l’orecchio, ma il silenzio quasi opprimente delle nostre notti campestri regnava sovrano; non c’era neppure più vento. «Non sento niente» dissi. La domestica uscì dalla stanza; io non andai a dormire; guardai Brigitte, che ora stava vicino al camino, tremante. Aveva colto il mio sguardo e istintivamente commentò: «Sì, le notti sono proprio fredde». Tese le mani in avanti come se volesse riscaldarle davanti alle fiamme; poi dovette scordarsi della mia presenza, e nascose il viso dietro le dita chiuse. In quel momento si udì stridere il cancello del giardino; qualcuno salì i gradini d’ingresso e suonò alla porta. Andai ad aprire; sulla soglia c’era un giovane garzone di fattoria. Nei nostri paesi, dove il telefono è prerogativa di pochi ricchi borghesi, i garzoni sono ambasciatori di sventura. Quando si verificano una malattia, un incidente, un decesso, i contadini spediscono nella notte un messo, un piccolo domestico dalle gote rosee che dà l’annuncio in tono placido. Il nostro si levò educatamente il cappello e, voltatosi in direzione di Brigitte, disse: «Sentite, signora, c’è il padrone di Moulin-Neuf che è caduto nel fiume». Quando lo interrogammo rispose che Jean Dorin era tornato da Nevers prima del previsto e aveva lasciato l’auto nel prato adiacente la casa: forse non voleva che il rumore della macchina svegliasse la moglie indisposta. Mentre attraversava la passerella sul fiume doveva averlo colto un malore; il ponticello, sebbene largo e solido, è munito di parapetto da un solo lato, e l’uomo era caduto in acqua. La moglie non l’aveva sentito rientrare, era addormentata, ma il grido che lui aveva levato cadendo l’aveva strappata al sonno. Scesa dal letto, si era precipitata fuori, l’aveva cercato inutilmente: il fiume è profondo, probabilmente era andato giù in un attimo. Colette aveva riconosciuto la macchina lasciata nel prato, a conferma che l’uomo appena morto era proprio suo marito. A quel punto, colta dalla disperazione, aveva corso sino alla fattoria vicina per chiedere aiuto. In quel momento gli uomini stavano cercando il corpo. «Mia madre però» concluse il ragazzino «ha pensato che la povera signora è tutta sola e che la signora Declos, che è amica sua, vorrà andare ad assisterla». «Vado» disse Brigitte. Pareva in preda a un profondo stupore; il suo tono era freddo e grave. Toccò lievemente la spalla del marito, che il volume delle nostre voci non aveva destato. Allorché lui aprì gli occhi, Brigitte gli spiegò l’accaduto. Il vecchio la ascoltò in silenzio. Forse capiva solo a metà, forse gli importava poco della morte di un uomo giovane o, in generale, di qualunque morte che non fosse la sua. Forse non voleva dire quello che pensava. Si alzò con un sospiro sofferto: «Tutta questa storia…» disse infine. Non terminò la frase. «Io salgo a dormire». Sul punto di andarsene, con un tono che mi sembrò rivelatore e quasi minaccioso, soggiunse: «Tutta questa storia è affar vostro. Non intendo esserci tirato dentro. Capito?». Accompagnai Brigitte a Moulin-Neuf. Si vedevano luci errare nel buio e incrociarsi sulla superficie del fiume: gli uomini cercavano invano il corpo. In casa le porte erano spalancate: alcuni vicini si prendevano cura di Colette, priva di sensi, e del bambino che piangeva; altri rovistavano negli armadi per estrarne le lenzuola destinate alla sepoltura. Gli uomini della fattoria erano riuniti in cucina e facevano uno spuntino, in attesa della luce del giorno, che avrebbe permesso di esplorare i giunchi a valle del fiume: si supponeva che affogando l’uomo fosse stato trascinato lì e fosse stato bloccato dalla vegetazione. Riuscii a vedere Colette solo per un attimo: le vicine la attorniavano, non la mollavano di un millimetro. Le donne di campagna non intendono perdersi un solo istante dello spettacolo gratuito che possono offrire una nascita o una morte improvvisa. Parlottavano fra loro, dispensavano opinioni e consigli e portavano da bere agli uomini immersi nell’acqua fino alla cintola. Io vagavo per il mulino, andando da una stanza all’altra, tutte così confortevoli e vaste, con i grandi caminetti, i bei mobili antichi scelti con amore da Hélène, le alcove seminascoste, i fiori, le tende di cretonne a motivi floreali; sul lato sinistro della casa si trovava il mulino vero e proprio, regno del povero ragazzo scomparso. Il suo corpo era prigioniero dell’acqua, ma se un frammento della sua anima fosse tornato sulla terra adesso sarebbe stato di certo lì, tra le macchine, i sacchi di grano, le bilance, l’arredo semplice. Con quanta fierezza mi aveva fatto visitare quell’ala del mulino, ricostruita dal padre. Mi pareva quasi di vedermelo accanto. Passando sbattei contro un qualche congegno che emise di colpo un cigolio talmente lamentoso, inatteso e strano che non potei fare a meno di mormorare: «Siete qui, mio povero amico?». D’improvviso tutto tacque. Ridiscesi verso le camere per aspettare François e Hélène, che era stata mia cura far avvisare. Quando giunsero, la loro semplice presenza riportò quasi istantaneamente la quiete. Ai rumori e alla confusione seguì una sorta di mormorio funebre, che cullava il dolore. I vicini furono mandati a casa con parole gentili. Le finestre e le imposte vennero chiuse, le luci abbassate, la stanza in cui avrebbe riposato il corpo ornata di fiori. Verso il mattino gli uomini l’avevano trovato impigliato fra i giunchi, come si era supposto. Il gruppetto silenzioso penetrò nel mulino, trasportando una sagoma nascosta da un lenzuolo, distesa su una lettiga.
   


  Jean Dorin è stato seppellito l’altro ieri. Un interminabile servizio funebre in una giornata fredda e piovosa. Il mulino è stato messo in vendita; Colette tiene per sé solo le terre, di cui si occuperà suo padre, e tornerà a vivere con i genitori
  Oggi hanno celebrato una messa di suffragio per Jean Dorin. La famiglia al gran completo gremiva la chiesa di una folla in nero, muta e indifferente. Colette è stata molto malata; si alzava oggi per la prima volta, e nel corso della cerimonia ha perso i sensi. Io ero seduto poco più in là. L’ho vista sollevare d’un tratto il suo velo da lutto e fissare il grande Cristo che si innalzava sopra di lei, inchiodato alla croce; ha lanciato un debole grido ed è crollata in avanti, il capo sulle braccia. Dopo la cerimonia sono stato a pranzo dai suoi; lei non è scesa a mangiare. Ho chiesto di vederla: era in camera sua, stesa sul letto, con accanto il bambino. Eravamo soli. Quando mi ha visto si è messa a piangere, ma ha rifiutato di rispondere a qualsiasi domanda.

  Distoglieva il volto con un’espressione colma di vergogna e disperazione. Alla fine l’ho lasciata sola. In attesa del mio ritorno, François e Hélène passeggiavano lentamente per il giardino. Sono invecchiati parecchio e hanno perso quella loro espressione serena che mi piaceva tanto e mi commuoveva. Non so se gli esseri umani siano in grado di foggiare la propria vita, ma di certo ciò che un uomo ha vissuto finisce col trasformarlo: una vita calma e bella dà al viso un’aria amabile e composta, un dolce calore che forma una sorta di patina, simile a quella di un ritratto. Ora la dolcezza e la serietà dei tratti dei miei cugini si erano dissolte, e sotto di esse si scorgeva un’anima triste e angosciata. Poverini! Esiste un momento perfetto, quando tutte le promesse giungono a maturazione e finalmente cadono i bei frutti, un momento che la natura tocca verso la fine dell’estate, supera presto, e poi iniziano le piogge dell’autunno. Lo stesso vale per le persone. François e Hélène erano molto in ansia per Colette.
Naturalmente capivano che duro colpo fosse stato per lei la morte del povero Jean, ma avevano sperato che si riprendesse più in fretta. Invece lei pareva indebolirsi giorno dopo giorno. «Penso» disse François in tono preoccupato «che non dovrebbe restare qui. Non soltanto per via dei ricordi che, ovviamente, ritrova a ogni passo, in questa casa in cui ha conosciuto Jean, si è sposata, e così via; ma soprattutto a causa nostra». «Non capisco che vuoi dire, caro» replicò Hélène, alquanto agitata. Lui le posò la mano sul braccio: sa esercitare un’autorità affettuosa alla quale la moglie non resiste mai. «Io credo» disse «che noi due, lo spettacolo della nostra vita, tutto quel che c’è di buono in noi non faccia che acuire i suoi rimpianti. Le fa capire ancora di più quanto ha perso; guardandoci lo avverte con maggiore intensità, diciamo.
Povera piccola. A volte ha negli occhi un’espressione così triste che riesco a stento a sopportarlo. E’ sempre stata la mia preferita, lo confesso. Volevo costringerla a partire, a viaggiare. Niente da fare! Si rifiuta di allontanarsi da noi. Non vuole vedere nessuno». «Credo» intervenne Hélène «che per il momento non abbia bisogno di distrazioni d’altra parte, neppure le accetterebbe -, ma di un’occupazione seria. Mi spiace che abbia deciso di vendere il mulino. Era il patrimonio di suo figlio e avrebbe dovuto non soltanto tenerlo, ma anzi, farlo fruttare». «Ma che stai dicendo? Non se la sarebbe potuta cavare da sola». «Perché da sola? Noi l’avremmo aiutata, e nel giro di qualche anno uno dei suoi fratelli avrebbe potuto prendere le redini del mulino, nell’attesa che il piccolo raggiungesse l’età per farlo. L’unica cura possibile è un lavoro che la tenga impegnata». «Oppure un altro amore» dissi io. «O un altro amore, è vero. Ma perché arrivi (intendo un amore autentico, onesto e sano) la cosa migliore è non pensarci troppo, non invocarlo.
Altrimenti ci si inganna. Si mette la maschera dell’amore sul primo e più rozzo dei volti. Spero con tutto il cuore che prima o poi si risposi, ma occorre innanzitutto che ritrovi la pace. Dopodiché, e in modo del tutto naturale, visto che è giovane, sarà capace di amare di nuovo, e troverà un bravo ragazzo come lo era il povero Jean» Continuarono a discutere di Colette. Ne parlavano in tono sicuro, fiduciosi e tranquilli. Era la loro bambina. L’avevano fatta loro. Erano convinti di conoscerne persino i sogni. Alla fine decisero di comune accordo di convincerla a interessarsi ai terreni rimasti, ai lavori dei campi, ai raccolti, ai beni che aveva il dovere di custodire per il figlio. Quando mi accomiatai, li lasciai sulla panca posta davanti alla casa, sotto le finestre della loro camera; la stessa panca su cui un tempo io restavo seduto per ore, con l’orecchio teso a cogliere dei passi nella notte.
Il vecchio Declos va peggiorando. Sua moglie ha chiamato un dottore del Creusot che, dopo averlo visitato, ha suggerito un’operazione. Lui ha voluto sapere quanto gli sarebbe venuta a costare. Il medico glielo ha detto. A quel punto il vecchio è rimasto in silenzio per un pezzo, come il giorno in cui contrattava con me per il piccolo terreno di Roches, dopo la morte di mia madre. Ricordo che mi aveva chiesto il prezzo ed era rimasto per qualche istante zitto, a occhi chiusi, per poi sentenziare: «Va bene. Sono d’accordo». All’epoca era povero; avevamo quasi la stessa età, e per lui l’acquisto di quei ventiquattro ettari non era un affare da poco. Allo stesso modo, allorché il medico gli ebbe spiegato che l’operazione sarebbe costata diecimila franchi e che in caso di successo la speranza di vita sarebbe stata di tre, quattro o forse cinque anni, Declos deve aver stimato il valore di ognuno di quegli anni e dev’essersi detto che, in fin dei conti, non sarebbero stati tanto buoni e belli da meritare una spesa simile. Rifiutò l’operazione; dopo che il medico se ne fu andato, disse alla moglie che suo padre era morto per una malattia molto simile: il male non si era trascinato a lungo, qualche mese al massimo, ma l’infermo aveva sofferto parecchio. «Non importa, siamo abituati a soffrire» aveva concluso.
  Bisogna riconoscere che i nostri contadini possiedono un talento innato per vivere nella maniera più dura possibile. Per quanto possano essere ricchi, respingono con implacabile fermezza il piacere, e persino la felicità, forse perché nutrono scarsa fiducia nelle loro ingannevoli promesse. In effetti, la sola volta, per quanto ne so, in cui Declos si è allontanato da questa norma è stato il giorno in cui ha sposato Brigitte, e ha senz’altro avuto modo di pentirsene. Si prepara dunque a morire verso Natale, e mette in ordine le sue cose. La moglie erediterà parecchia roba, non vi è dubbio: pur consapevole di essere stato tradito, il vecchio si guarderà bene dall’alimentare sospetti sull’adulterio. E’ una questione di orgoglio oltre che di fedeltà alla propria famiglia, una sorta di solidarietà che da queste parti lega il marito alla moglie e i figli al padre, coprendo ogni odio, perché non ci siano scandali e nessuno sappia nulla. Non che la gente della regione cerchi l’approvazione altrui: sono persone troppo selvatiche e orgogliose. Hanno piuttosto timore che ci si occupi di loro: sentirsi addosso gli occhi del prossimo è una sofferenza insopportabile. Questo, peraltro, le rende impermeabili alla vanità: non vogliono essere invidiate, né tanto meno compatite; solo starsene tranquille. E’ il loro motto; un sinonimo di felicità, o meglio, un surrogato della felicità assente. Ho sentito una vecchia dire a Hélène, parlando di Colette e dell’incidente che l’ha resa vedova: «Che peccato… Vostra figlia, al mulino, se ne stava proprio tranquilla». Parole che per lei rappresentavano tutta la felicità umana immaginabile. Il vecchio Declos vuole anch’egli che tutto sia tranquillo nei suoi ultimi giorni sulla terra, e dopo di lui.
  Quest’anno l’autunno è precoce. Mi alzo prima dell’alba e passeggio per la campagna, tra campi che sono stati di proprietà della mia famiglia per generazioni, e oggi sono posseduti e coltivati da estranei. Non posso dire di soffrirne: solo, di tanto in tanto, ho una lieve stretta al cuore… Non rimpiango il tempo perso in cerca di fortuna, a comprare cavalli in Canada, a trafficare in olio di cocco nel Pacifico. A vent’anni la voglia di andarmene e la noia soffocante della provincia mi attanagliavano al punto che se mi avessero costretto a restare qui ne sarei morto, credo. Mio padre non c’era più, e mia madre non riuscì a trattenermi. «E’ come una malattia,» mi diceva, impaurita, quando la supplicavo di darmi del denaro e lasciarmi partire «abbi un po’ di pazienza e ti passerà». Diceva anche: «Suvvia, ti comporti come il giovane Gonin, e il giovane Charles, che vogliono andare in città a fare gli operai, e lo sanno benissimo che saranno meno felici di quanto sarebbero qui, e se cerco di farli ragionare mi rispondono: “Almeno cambiamo aria“». Ed era proprio quello che volevo io: cambiare! Mi s’infiammava il sangue al pensiero del vasto mondo che brulicava di vita, mentre io me ne restavo qui. Partii, e oggi non riesco a capire quale demone abbia potuto spingere un tipo come me, selvatico e sedentario, lontano da casa sua. Ricordo che una volta Colette Dorin ha detto che somiglio a un fauno: un fauno attempato, a essere precisi, che non corre più dietro alle ninfe e si rintana accanto al focolare. Non so descrivere i piaceri che mi dà il mio rifugio. Mi godo cose semplici, alla mia portata: un buon pasto, un buon vino, questo taccuino su cui scribacchio, traendone una gioia beffarda e segreta; e, più di ogni altra cosa, la divina solitudine. Cos’altro mi occorre? A vent’anni, invece, come ardevo!… Come mai dentro di noi si accende un fuoco simile? Una fiammata che travolge ogni cosa nel giro di pochi mesi, pochi giorni, a volte poche ore; poi si spegne. E non resta che fare il conto dei danni. Ci si scopre insieme a una donna che non si ama più, oppure, come nel mio caso, si finisce in bancarotta, o ancora, pur essendo nati per essere droghieri, ci si è fissati di voler fare i pittori a Parigi, e si muore in un ospedale. Chi non ha visto un fuoco simile deformare e piegare inaspettatamente la sua vita, in un senso opposto a quella che è la sua natura autentica? Perciò siamo tutti quanti in una certa misura paragonabili ai rami che bruciano nel mio camino, torti dalle fiamme a loro piacimento. Di certo sbaglio a generalizzare: esistono persone di vent’anni sensate e ragionevoli, ma alla loro saggezza preferisco la mia follia di un tempo
  Ho saputo che Colette, seguendo la volontà del padre, gestirà personalmente le proprie terre. Come dice François Erard, Colette sarà amministratrice di se stessa. Questo la costringerà a veder gente, a uscire di casa, e di tanto in tanto a lottare per difendere gli interessi del figlio. Per convincerla, Hélène mette in campo l’identica forza di persuasione, abile e tenera, che usa per strappare il piccolo Loulou ai suoi giochi e fargli studiare la lezione. E anche per Colette… il tempo dei giochi è finito.
  Il vecchio Declos è morto. Non è arrivato a Natale: mancano poche settimane. Il cuore ha ceduto. La moglie ora è ricca. Quando è mancata Cécile, la brava donna che l’ha allevata, l’intero patrimonio di Brigitte era costituito da Coudray. Un nonnulla: la casa era in rovina e le terre erano state vendute. Il vecchio Declos ha comprato Coudray, ed è allora che si è innamorato di Brigitte. A poco a poco ha ricostituito la proprietà, ha fatto demolire le vecchie mura e costruire la più bella casa del paese; in aggiunta, si è preso la ragazza. All’epoca abbiamo pensato tutti che per lei fosse una fortuna, ma Brigitte dev’essersi detta che la sorte di Colette era di gran lunga migliore: non aveva dovuto sposare un vecchio per viversene felice e ben accudita, lei. La morte, tuttavia, ha pareggiato i conti. Mi chiedo se le due ragazze sanno… o almeno sospettano… Certamente no, la giovinezza vede solo se stessa. Cosa siamo noi per lei? Pallide ombre. E cos’è lei per noi?
  In questa stagione di piogge quotidiane, la domenica mi reco in paese.
  Costeggio casa Erard senza entrarvi. A volte, passando sotto la finestra del salotto, sento la musica del pianoforte di Hélène. Altre volte la vedo in giardino, con gli zoccoli ai piedi, intenta a cogliere rose tardive, da conservare per ornare le tombe il giorno dei Morti, e scarmigliate dalie rosso fuoco. Quando mi vede mi fa un cenno, si avvicina al cancello e mi invita a entrare. Io però rifiuto: ultimamente non sono di umore socievole. Hélène e la sua famiglia mi fanno lo stesso effetto del vino dolce, il Moscato o il Frontignan colore dell’oro che il mio palato, avvezzo al Borgogna invecchiato, non è più capace di apprezzare. Mi accomiato da Hélène e raggiungo il paese, sotto le gocce di una pioggia leggera e rada che cala dagli alberi spogli. Il centro, immerso nel silenzio, è deserto e malinconico; la notte scende presto.
  Percorro la piazza del monumento ai caduti, dove sta di guardia un soldato dipinto in un rosa e un blu smaglianti; un po’ più in là c’è un viale costeggiato da tigli, degli antichi bastioni anneriti, una porta ad arco affacciata sul vuoto e attraversata dalla tramontana, infine la piazzetta circolare antistante la chiesa. Dietro la vetrina della panetteria, alla luce di una lampadina velata da un cono di carta bianca, le grandi pagnotte dorate a forma di corona luccicano debolmente nel crepuscolo. Sotto la pioggerellina grigia la targa del notaio e l’insegna dello zoccolaio, un grande zoccolo intagliato nel legno biondo che ha la forma e le dimensioni di una culla, paiono fluttuare nell’aria intrisa di nebbia. Sul lato opposto della strada c’è l’Hotel des Voyageurs. Spingo la porta, che fa tintinnare un tremulo campanello, ed eccomi nella sala da tè dove brucia una stufa dal rosso oblò, scura e piena di fuliggine; sui suoi vetri si riflettono i tavoli di marmo, il biliardo, il divano di cuoio sfondato in più punti, il calendario del 1919 che ritrae un’alsaziana dalle calze bianche in mezzo a due soldati.
  Ogni domenica in questo caffè giocano a carte otto contadini, sempre gli stessi. Nell’aria echeggiano le parole di rito e si ode il rumore dei fiaschi stappati e dei grossi bicchieri sbattuti sui tavoli. Quando arrivo io, l’una dopo l’altra voci pacate pronunciano: «Salve, signor Sylvestre» nella roca parlata locale, presa in prestito dalla vicina Borgogna. Io mi sfilo gli zoccoli, ordino un quartino e mi siedo al solito posto, sulla sinistra, accanto alla finestra da cui si possono scorgere il pollaio, la lavanderia e un giardinetto sotto la pioggia.
  Nei dintorni regna il silenzio di una sera autunnale in un minuscolo paese addormentato. Lo specchio davanti a me incornicia una faccia solcata di rughe, così misteriosamente mutata negli ultimi anni che stento a riconoscerla. Mah! Un dolce calore animale mi penetra nelle ossa; mi scaldo le mani alla stufetta che borbotta ed emana un odore che mi intorpidisce e mi dà una leggera nausea. Si apre la porta e sulla soglia compare un ragazzino col berretto, o un uomo con il vestito buono della domenica, oppure una bambina venuta a chiamare il padre, che esclama con la vocina acuta: «Sei qui? La mamma ti vuole». E scompare tra le risate. Qualche anno fa il vecchio Declos veniva qui regolarmente, ogni domenica. Non giocava a carte, era troppo avaro per rischiare dei soldi; però si sedeva accanto ai giocatori e li guardava in silenzio, stringendo la pipa fra le labbra. Quando gli chiedevano consiglio, si schermiva con un cenno, quasi stesse rifiutando un’elemosina. Ora lui è morto e sepolto, e al suo posto c’è Marc Ohnet, a capo scoperto, con una giacca di cuoio, solo a un tavolo con davanti a sé una bottiglia di Beaujolais. Se un uomo beve in compagnia non svela nulla di sé; ma quando lo fa da solo rivela inconsapevolmente il fondo della propria anima. Esiste un modo particolare di rigirare lo stelo del bicchiere tra le dita, di inclinare la bottiglia e guardare scorrere il vino, di portarsi il calice alle labbra, di trasalire e posarlo di colpo se interpellati, di afferrarlo di nuovo con un colpetto di tosse imbarazzato e vuotarlo d’un fiato a occhi chiusi come se si tracannasse l’oblio stesso – un modo che è tipico di uomini angustiati, tormentati dall’angoscia o da feroci preoccupazioni. I miei otto contadini lo hanno notato: pur continuando a giocare, di tanto in tanto gettano a Marc Ohnet brevi occhiate. Lui assume un’aria indifferente. Cala la notte. Si accende un grande lampadario di ottone; gli uomini mettono giù le carte e si accingono a tornare a casa. A questo punto comincia la conversazione. Dapprima i contadini parlano del tempo, del costo della vita, dei raccolti; poi, rivolti a Ohnet: «E’ da un pezzo che non ci si vede, signor Marc». «Dal funerale del vecchio Declos» soggiunge un altro. Il giovane fa un cenno vago con la mano e biascica che è stato occupato. Si parla di Declos e dei terreni che ha lasciato, «i più belli della regione». «Era uno che la terra la conosceva… Un avaro, eh, con lui un soldo era un soldo. Qui in paese non era molto amato, ma la terra la conosceva». Un momento di silenzio. Hanno pronunciato il loro migliore elogio in onore del defunto e, in qualche modo, hanno fatto capire al ragazzo che si schierano con il morto contro il vivente, con il vecchio contro il giovane, col marito contro l’innamorato. Perché senz’altro qualcosa sanno… Almeno per quanto concerne Brigitte. Tutti gli sguardi, accesi di curiosità, convergono su Marc. «Sua moglie» dice infine qualcuno. Marc alza la testa e aggrotta la fronte. «Sua moglie, cosa?». Dalle labbra dei contadini insieme al fumo delle pipe si levano frasi circospette: «Sua moglie… Era ben giovane per lui, questo è certo, ma quando l’ha sposata lui era già ricco, mentre lei…». «C’era Coudray, che era in rovina». «Se ne sarebbe dovuta andare per forza, ed è grazie a lui che ha tenuto la terra». «Non si è mai saputo da dove arrivasse». «Era una bastarda della signorina Cécile» commenta qualcuno scoppiando a ridere. «Avrei detto anch’io così se non l’avessi conosciuta bene, la signorina. Poveretta, non era proprio il tipo, questo è poco ma sicuro. Usciva di casa solo per andare a messa…». «A volte basta quello». «Siamo d’accordo, ma la signorina Cécile… Non conosceva malizia. No, era una trovatella che la signorina ha preso con sé, una specie di piccola cameriera. Poi ci si è affezionata, e l’ha adottata. La signora Declos non è affatto stupida». «Oh, no, proprio per niente. Come se lo rigirava, il vecchio… Vestiti, profumi da Parigi, viaggi. Tutto quello che voleva. Ci sa fare. E non solo in questo.
  Bisogna ammetterlo. Anche lei la conosce, la terra. I suoi mezzadri dicono che non si può mica dargliela a bere. Ed è sempre gentile con tutti». «Sì. Si dà arie da signora per come si veste, ma non quando parla». «In ogni caso, in paese la criticano. Deve stare attenta». Di colpo Ohnet alza gli occhi e chiede: «Attenta a cosa?». Di nuovo silenzio. Gli uomini accostano le sedie le une alle altre, e al tempo stesso si allontanano da Marc, segnalando così la loro disapprovazione per quanto intuiscono o ritengono d’intuire. «A come si comporta» rispondono. «Secondo me,» dice Marc roteando rapidamente il bicchiere tra le dita «lei non si cura affatto dell’opinione altrui». «E’ da vedere, signor Marc, è da vedere. Le sue terre sono qui. Ed è qui che le tocca vivere. Sarebbe un guaio se si sparlasse di lei». «Può vendere le proprietà e andarsene» fa d’un tratto un altro contadino. E’ il vecchio Gonin, le cui terre confinano con quelle di Declos. Sul suo volto paziente compare l’espressione di ferrea caparbietà che caratterizza gli uomini delle nostre parti quando aspirano ai beni del prossimo. Gli altri stanno in silenzio. Conosco il loro gioco: anch’io l’ho subìto. Ne sono vittima tutti coloro che non sono del paese, o non lo sono più, o per una ragione o per l’altra sono ritenuti indesiderabili. Nemmeno io ero gradito. Avevo abbandonato la mia eredità. Avevo preferito altri paesi al mio. Il prezzo di tutto quel che volevo acquistare raddoppiava automaticamente; tutto quel che intendevo vendere era sottostimato. Fin nelle minime cose percepivo un malanimo dagli effetti prodigiosi, costantemente all’erta, calcolato per rendermi la vita insopportabile e costringermi a fuggire lontano. Ho resistito. Non me ne sono andato. Ma il mio patrimonio se lo sono preso loro. Simon, del podere di SaintArraud, che mi sta accanto, con le grandi mani scure sulle ginocchia, ha i miei pascoli, e Charles, del podere Les Roches, i miei terreni, mentre la casa in cui sono nato è proprietà di quel grasso fattore dalle gote rosa e l’espressione placida e sonnacchiosa che dice con un sorriso bonario: «La signora Declos farebbe certamente meglio a vendere. Sarà pure una che la terra la conosce, ma ci sono cose che una donna non sa fare». «E’ giovane; si risposerà» risponde Marc Ohnet in tono di sfida. Ormai si sono tutti alzati. Uno apre un grande ombrello, un altro infila i piedi negli zoccoli e si annoda un fazzoletto intorno al collo, mentre un terzo, giunto ormai quasi sulla soglia, butta là in tono di finta indifferenza: «Dite che si risposerà, signor Marc?». Tutti lo fissano, gli occhi ridotti a fessure da una risata di scherno trattenuta a stento. Lui guarda ora l’uno, ora l’altro, come se tentasse di indovinare quello che pensano e non dicono, e si apprestasse a parare un attacco. Alla fine alza le spalle e, con gli occhi socchiusi e l’aria annoiata, risponde: «Come faccio a saperlo?». «Sì, certo, signor Marc.
  Il vecchio lo conoscevate bene, vero? Anzi, a quanto pare, tirchio e sospettoso com’era, vi lasciava andare a casa sua a qualunque ora, e voi ne uscivate pure a notte fonda. Dopo la sua morte l’avrete rivista la vedova, no?…». «Qualche volta. Non spesso». «Un vero guaio per voi, signor Marc. C’erano due case in cui vi accoglievano più che volentieri, e in tutt’e due i padroni sono morti». «Due case?».
   «Coudray e Moulin-Neuf». Finalmente, quasi fossero soddisfatti del sussulto che Marc non ha saputo controllare (un tremore tale da fargli scappare di mano il bicchiere, che è caduto a terra andando in pezzi), i contadini se ne vanno. Ci rivolgono saluti cerimoniosi:
  «Buonanotte a voi, signor Sylvestre. Tutto bene? Magnifico. Buonanotte, signor Marc. Salutateci la signora Declos, quando la vedete». La porta si apre sulla notte autunnale; si sente il ticchettio della pioggia, poi il rumore degli zoccoli sul terreno bagnato; più in là si ode uno sciabordio di sorgente: nel parco del vicino castello le gocce colano dagli alberi altissimi; gli abeti piangono.
  Io fumo la mia pipa e Marc Ohnet tiene lo sguardo dritto davanti a sé.
  Alla fine ordina con un sospiro: «Un altro bicchiere».
  Questa sera, quando Marc Ohnet è andato via, è arrivata una macchina piena di parigini che si sono fermati all’Hotel des Voyageurs giusto il tempo di bere qualcosa e di riparare un piccolo guasto al motore. Sono entrati nella sala ridendo e parlando a voce alta. Qualcuna delle donne mi ha squadrato, qualcun’altra ha tentato senza successo di ritoccarsi il trucco davanti ai lividi specchi del locale, che deformano i tratti del viso. Altre ancora, accostatesi alle finestre, hanno osservato la stradina di ciottoli sferzata dall’acquazzone e le case addormentate.
  «Che quiete» ha detto una ragazza, ridendo e distogliendo subito lo sguardo. Più tardi, mentre tornavo a casa, la loro auto mi ha sorpassato. Andavano verso Moulins. Stanotte attraverseranno un gran numero di paesini tranquilli, di villaggi sonnolenti, e passeranno accanto alle grandi case silenziose e scure perdute nella campagna: non immagineranno nemmeno che ogni cosa ha una vita profonda e segreta, che loro sono destinati a non conoscere. Mi chiedo come dormirà stanotte Marc Ohnet, e se sognerà Moulin-Neuf e il suo torrente verde e spumeggiante.
  Nei campi è tempo di trebbia. Fine dell’estate, ultimo grande lavoro agreste della stagione. E’ un giorno di fatica, ma anche di festa. Nei forni cuociono enormi torte dorate, e per poterle guarnire con la frutta sin dall’inizio della settimana i bambini fanno cadere le prugne.
  Quest’anno ci sono prugne in abbondanza. Nel piccolo frutteto dietro casa mia sento ronzare le api: l’erba è disseminata di frutti maturi e dalle fenditure della buccia giallo oro stilla un succo zuccherino. Ogni fattoria si fa vanto di compensare lavoranti e vicini per la trebbiatura con il vino migliore, la panna più cremosa del paese. A ciò si aggiungono le teglie traboccanti di ciliegie e lucide di burro, le formaggelle di capra stagionate di cui i nostri contadini sono ghiotti, i piatti di lenticchie e le patate, il caffè e la grappa. La mia domestica era andata a passare la giornata con la propria famiglia, per aiutare in cucina, così cercai rifugio dagli Erard. François e Colette dovevano ispezionare un podere di lei, nel luogo chiamato Maluret, vicino a Moulin-Neuf. Mi proposero di accompagnarli. Il bambino di Colette, che ha ormai due anni, sarebbe rimasto a casa con la nonna.
  Colette faceva fatica a separarsene. Nutre per il figlio un amore ansioso, fonte di tormento più che di gioia. Prima di partire rivolse mille raccomandazioni a Hélène e alla domestica, insistendo sul divieto di lasciar correre il bambino vicino all’acqua. Hélène annuì con un lieve cenno del capo e un’espressione colma di tenerezza e buon senso.
  «Colette, ti prego, cerca di controllarti. Non ti chiedo di dimenticare l’incidente occorso al povero Jean, cara, so bene che è impossibile; ma non permettere che questo ricordo avveleni la tua vita e quella di tuo figlio. Prova a riflettere. Che genere di uomo lo farai diventare, se lo educhi nella paura? Povera bambina mia, non possiamo vivere al posto dei nostri figli (anche se a volte ci accade di desiderarlo). Ciascuno deve vivere e soffrire per conto proprio. Il più grande favore che possiamo fare loro è tenerli all’oscuro della nostra esperienza. Fidati, cara, fidati della tua vecchia madre». Si sforzò di ridere per attenuare la serietà del suo discorso. Ma Colette, con gli occhi pieni di lacrime, mormorò: «Mi sarebbe piaciuto vivere come te, mamma». Sua madre intese: «Mi sarebbe piaciuto essere felice come te». Sospirò: «Dio ha voluto così, Colette». Diede un bacio alla figlia, prese in braccio il bambino ed entrò in casa. La guardai allontanarsi e attraversare il giardino, ancora bella e altera malgrado i capelli grigi. E’ sorprendente come abbia conservato anche in età matura un portamento leggiadro e risoluto.
  Proprio così: l’incedere risoluto di una donna che non ha mai smarrito la retta via, né corso a perdifiato a un appuntamento; che non ha mai conosciuto cedimenti, sotto il peso di una colpa segreta… Colette tradusse in parole quella sensazione, che di certo provava anche lei, quando, preso a braccetto il padre, gli disse: «La mamma… è come la sera di una bella giornata». Lui le sorrise: «Su, piccola mia… Tu avrai altrettanta grazia e serenità. Forza, vieni, sbrigati» incalzò.
  «Abbiamo parecchia strada da fare». Per tutto il tragitto Colette mi parve più allegra di quanto l’avessi mai vista dalla morte di Jean.
  François era alla guida e lei si era sistemata accanto a me sul sedile posteriore. La giornata era stupenda, calda, appena lambita dal clima autunnale. Solo il cielo, di un azzurro più freddo e terso che in agosto, qualche isolato refolo di vento e poche foglie cremisi sulle siepi annunciavano la fine della bella stagione. Nel giro di pochi minuti Colette iniziò a ridere e a parlare animatamente, cosa che non le accadeva da un pezzo. Rammentava le lunghe passeggiate in compagnia dei genitori su quella stessa strada, quand’era bambina: «Ti ricordi papà?
  Henri e Loulou non erano ancora nati, Georges era il più piccolo e rimaneva a casa con la domestica. Il che appagava il mio amor proprio e accresceva il mio piacere. E che piacere! Me lo facevate sudare a lungo, a volte anche più di un mese. Poi preparavamo i cestini da picnic, con quei dolci così buoni… Un sapore che dopo di allora non ho più ritrovato. La mamma lavorava l’impasto, con le sue belle braccia imbiancate di farina sino al gomito: ti ricordi? Qualche volta venivano con noi degli amici, ma spesso eravamo da soli. Dopo pranzo la mamma mi costringeva a stendermi sul prato, e tu leggevi ad alta voce per lei, non è vero? Tu leggevi Rimbaud e Verlaine, e io avevo una tale voglia di correre… Me ne stavo lì e ascoltavo a metà, pensando ai giochi che avrei fatto e al lungo pomeriggio che avrei trascorso, assaporando la… la perfezione che avevano all’epoca i miei piaceri». A mano a mano che parlava il tono di voce si faceva più basso e profondo ed era evidente che, scordatasi del padre, si stava rivolgendo a se stessa; restò un attimo in silenzio, poi soggiunse: «Ti ricordi papà quella volta che, per via di un guasto alla macchina, siamo dovuti scendere e andare a piedi, e siccome io ero stanca tu e la mamma avete chiesto a un contadino di passaggio con il carro pieno di fieno di farmi salire?
  Rammento che allestì una sorta di piccola tettoia con rami e foglie per ripararmi dal sole. Voi camminavate dietro al carro, mentre il contadino teneva le redini del cavallo. A un certo punto, credendo che non vi vedesse nessuno, vi siete fermati lungo la strada e vi siete dati un bacio… Ti ricordi? E io ho tirato fuori di colpo la testa da sotto la mia casetta di rami e ho esclamato: “Vi vedo!” e voi siete scoppiati a ridere. Ti ricordi? E quella sera ci siamo fermati in una grande casa con pochissimi mobili e senza elettricità, con un enorme candelabro di rame giallo in mezzo al tavolo… Che buffo, mi ero dimenticata tutto, e mi torna in mente adesso. Ma forse si tratta di un sogno». «No,» disse François «era la casa della vecchia zia Cécile, a Coudray. Avevi sete, piangevi e siamo entrati a chiedere un bicchiere di latte per te; tua madre non voleva, non ricordo perché, ma tu strillavi e abbiamo dovuto cedere per farti smettere. All’epoca avevi sei anni». «Aspetta un momento… Ora mi ricordo benissimo di una signorina attempata, con uno scialle giallo sulle spalle, e di una ragazzina sui quindici anni.
  Allora quella era la sua pupilla?». «Proprio così, era la tua amica Brigitte Declos, o dovrei dire Brigitte Ohnet, visto che presto sposerà quel ragazzo». Colette tacque, guardò fuori con aria pensosa, poi chiese: «Sicché ormai è deciso?». «Sì, domenica faranno le pubblicazioni, a quanto si dice». «Ah!». Le labbra di Colette ebbero un fremito, ma lei disse in tono tranquillo: «Spero che siano felici». Poi non proferì più parola finché François non imboccò una delle strade per Maluret, la più lunga, che tagliava fuori Moulin-Neuf. Colette ebbe un attimo di esitazione, quindi toccò il padre su una spalla. «Ti prego papà, non pensare che rivedere il mulino mi farebbe star male.
  Tutt’altro. Vedi, me ne sono andata via il giorno stesso del funerale di Jean, ed era tutto talmente buio e triste che ne conservo un’immagine lugubre, e questo… non è giusto, da un certo punto di vista… Sì, non è giusto nei confronti di Jean. Non so come spiegartelo, ma… Lui ha fatto ogni sforzo possibile per rendermi felice e farmi amare quella casa. Vorrei esorcizzare il ricordo» aggiunse, a voce bassa e stentata.
  «Voglio rivedere il fiume: forse così guarirò dalla mia paura dell’acqua». «La paura passerà da sola, Colette. A che pro…?». «Ne sei davvero convinto? Eppure sogno spesso il fiume, e mi sembra così cupo.
  Vederlo alla luce del sole penso che possa farmi bene. Papà, per favore». «Come vuoi» rispose alla fine François, e fece retromarcia.
  L’auto passò davanti a Coudray (Colette gettò uno sguardo malinconico e invidioso alle finestre aperte della casa), costeggiò il sentiero del bosco, attraversò il ponte – e io scorsi il mulino. Alcune persone della fattoria ci videro passare, ma poiché non ci fecero alcun cenno di saluto chiesi a Colette se si trattasse ancora degli stessi mezzadri che avevo conosciuto io, quelli che la notte dell’incidente avevano mandato il ragazzo a Coudray. «No» rispose lei. «La madre era stata la balia di mio marito, e dopo la sua morte non si sentiva più a suo agio qui.
  L’affitto scadeva a ottobre e non l’hanno rinnovato. Ora vivono a Sainte-Arnould». Mentre parlava, toccò il padre sulla spalla per indurlo a fermarsi. Come ho già detto, la giornata era stupenda, ma ormai tanto prossima all’autunno che se una nuvola velava il sole faceva subito freddo e in un attimo il paesaggio si oscurava, come invece non accade mai in piena estate, quando l’ombra stessa emana una sorta di profondo calore. Non appena posammo lo sguardo su Moulin-Neuf, una nube coprì il sole e il fiume, che fino a quel momento appariva allegro e luccicante, imbrunì d’un tratto. Colette crollò all’indietro e chiuse gli occhi.
  François riavviò il motore e dopo pochi istanti mormorò: «Non avrei dovuto darti retta». «No,» rispose Colette flebilmente «credo che non si possa dimenticare…». Gli abitanti di Maluret stavano finendo di pranzare, o meglio, come dicono da queste parti, di fare merenda. Di lì a poco si sarebbero rimessi al lavoro; erano tutti riuniti in sala da pranzo. Un tempo il castello di Maluret apparteneva ai baroni di Coudray. Della loro proprietà faceva parte, centocinquant’anni or sono, anche la casa di zia Cécile. All’epoca la famiglia di nobili, ormai in rovina, abbandonò la regione e i terreni furono suddivisi in lotti. Il nonno di Jean Dorin costruì il mulino e comprò il castello, ma calcolò male i propri mezzi, o forse, abbagliato dal desiderio, non si rese conto delle misere condizioni in cui versava la casa. Ben presto si accorse di non essere abbastanza ricco per restaurarla e la trasformò in una fattoria, cosa che è tuttora. L’edificio ha un’aria al tempo stesso superba e miserevole, con il grande cortile d’onore oggi occupato da pollai e conigliere, il terrapieno dove gli ippocastani sono stati abbattuti e viene messo ad asciugare il bucato, il portale d’ingresso sovrastato da uno stemma fatto a pezzi durante la Rivoluzione. Le persone che vivono qui (il loro nome è Dupont, ma tutti li chiamano i Maluret, secondo il costume locale che confonde l’uomo e la terra rendendoli indivisibili) sono poco socievoli, diffidenti, quasi selvatiche. Il loro podere, lontano dal paese, è protetto da una cinta di boschi fitti (l’antico parco signorile restituito alla foresta).
  D’inverno i fattori restano sei o persino otto mesi senza vedere nessuno. D’altra parte non hanno niente in comune con i nostri contadini ricchi e dalla parlantina sciolta, le cui figlie la domenica si truccano e portano calze di seta. Quelli di Maluret sono poveri, e avari ancor più che poveri. Hanno un carattere cupo, che ben si adatta al loro castello pericolante, dalle stanze spoglie. Le assi dei pavimenti sprofondano sotto i piedi, dalle mura si staccano le pietre e dai tetti le tegole di ardesia azzurrognola. In quella che un tempo era la biblioteca si tengono rinchiusi i maiali; dai soffitti pendono bioccoli di lana, e i camini sono così grandi che nessuno li accende mai: divorerebbero la legna dell’intera foresta. C’è una stanzetta deliziosa, con un’alcova dipinta e una finestra incassata: l’alcova ospita la scorta di patate per l’inverno e la finestra è inghirlandata da catene dorate di cipolle. Avere a che fare con i Maluret, sostiene François, è un’impresa difficile. Non ricordo esattamente quale questione dovesse risolvere quel giorno con il fattore; uscirono insieme per controllare il tetto di un granaio andato in fiamme. Il resto della famiglia stava consumando lentamente il pasto, in compagnia di domestici, amici e vicini venuti ad aiutare per le trebbie. Gli uomini, secondo l’uso locale, non si erano tolti il cappello. Colette andò a sedersi sotto la cappa del grande camino scolpito e io presi posto all’ampio tavolo.
  C’erano alcuni volti noti, ma anche molti sconosciuti, o forse si trattava di persone che avevo solo l’impressione di non conoscere, ma che in realtà erano semplicemente invecchiate, come me, al punto da sembrarmi degli estranei. Tra i presenti c’erano i vecchi mezzadri di Moulin-Neuf, quelli che se n’erano andati dopo la morte di Jean. Chiesi notizie della vecchia che aveva fatto da balia a Jean: mi dissero che era morta. La famiglia contava una dozzina di figli; tra loro vidi il ragazzino che era venuto ad avvertire Brigitte dell’incidente. Aveva sedici o diciassette anni, e stava bevendo come un uomo fatto, forse per la prima volta in vita sua. Sembrava un po’ brillo: aveva gli occhi arrossati, lo sguardo acceso e le gote in fiamme. Fissava Colette con una strana insistenza, e a un tratto dal tavolo a cui era seduto le lanciò una domanda: «E così, non vivete più lassù?». «No,» disse Colette «sono tornata dai miei genitori». Il ragazzo aprì la bocca come per aggiungere qualcosa, ma in quel momento entrò François, e lui tacque. Si versò un altro bicchiere di vino, riempiendolo fino all’orlo. «Bevete un sorso con noi, vero?» chiese il padrone di casa, facendo segno alla moglie di tirar fuori qualche altra bottiglia. François acconsentì. «E voi, signora?» chiesero a Colette. Lei abbandonò il proprio posto per unirsi a noi, perché rifiutare di bere in compagnia è un affronto grave, specialmente in occasione di queste grandi adunate di campagna. In piedi da prima che il sole sorgesse, con dieci ore di lavoro in corpo, gli uomini avevano mangiato a crepapelle ed erano tutti mezzi ubriachi, di una greve e mesta ebbrezza da contadini. Le donne si affaccendavano intorno alla cucina a legna. Tutti iniziarono a canzonare il ragazzino, seduto al mio fianco. Lui replicava alle battute con una sorta di scontrosa insolenza che suscitava l’ilarità generale. Si capiva che era in preda alla tipica sbornia cattiva, capace di trasformare l’ubriaco in attaccabrighe e, come dicono dalle nostre parti, di sciogliergli la lingua. Il caldo della stanza, il fumo di pipa, il profumo delle torte sul tavolo, le vespe che ronzavano intorno alle ciotole colme di frutta, le sonore risate dei contadini di certo non facevano che accrescere la sensazione di irrealtà, di sogno che travolge chi beve senza saper reggere il vino. Nel frattempo il ragazzo continuava a fissare Colette.
  «Non ti manca Moulin-Neuf?» domandò distrattamente François. «Diamine, no, si sta meglio qui». «Che ingrato,» disse Colette con un sorriso un po’ imbarazzato «non ricordi più che buoni spuntini ti preparavo?».
  «Eccome se me ne ricordo». «Volevo ben dire». «Eccome se mi ricordo» ripeté il ragazzo. Con una delle grandi mani tormentava la forchetta, fissando Colette con straordinaria attenzione. «Mi ricordo tutto» disse d’un tratto. «In tanti hanno dimenticato, ma io mi ricordo eccome». Il caso volle che pronunciasse la frase in un momento di improvviso silenzio, sicché le sue parole echeggiarono sonore, impressionando i commensali. Colette, impallidita di colpo, tacque. Suo padre invece chiese in tono sorpreso: «Cosa vuoi dire, ragazzo?». «Voglio dire, voglio dire che se qualcuno qui si è dimenticato di come è morto il signor Jean, io invece me ne ricordo». «Nessuno se n’è dimenticato» dissi, e con un cenno invitai Colette ad alzarsi e a lasciare la tavola; lei però non si mosse. François intuì qualcosa, ma poiché era ben lungi dall’immaginare la verità, invece di zittire il ragazzino si chinò verso di lui, e in tono ansioso gli domandò: «Vuoi dire che quella notte tu hai visto qualcosa? Parla, te ne prego. E’ una questione molto seria».
  «Non fateci caso. Guardate com’è ubriaco» intervenne il padrone di casa.
  Perdiana, pensai, lo sanno tutti, dal primo all’ultimo. Ma a meno che questo imbecille non racconti ogni cosa nessuno dirà mai una parola! I nostri contadini non sono chiacchieroni ed evitano come la peste di essere immischiati in faccende che non li riguardano. Però sapevano: e tutti abbassavano lo sguardo, con evidente imbarazzo. «Su, sta’ al posto tuo,» disse bruscamente il fattore «hai bevuto anche troppo. Si torna al lavoro». Ma François, sconvolto, afferrò il ragazzo per un braccio.
  «Ascolta. Non andartene. Sono certo che tu sai qualcosa che a noi sfugge. Ho pensato spesso che non può esser stata una morte naturale: uno non cade accidentalmente da un ponticello che conosce sin dall’infanzia, di cui i piedi riconoscono ogni asse. D’altra parte, quel giorno il signor Jean aveva ritirato una grossa somma di denaro a Nevers. Il suo portafoglio non è stato ritrovato. Tutti abbiamo immaginato che l’abbia perso cadendo e che il fiume l’abbia trascinato via. Ma forse è stato semplicemente derubato, derubato e ucciso. Sta’ a sentire, se hai visto qualcosa di cui siamo all’oscuro, è tuo dovere dirlo. Non è così, Colette?» aggiunse, voltandosi verso la figlia. Lei non ebbe la forza di pronunciare parola; si limitò ad assentire. «Povera cara, tutto questo per te è troppo doloroso. Esci, lasciami solo col ragazzo». Colette scosse la testa. Tutti tacevano. Al ragazzo sembrava fosse di colpo passata la sbornia. Rispose alle incalzanti domande di François tremando vistosamente. «E va bene, sì, ho visto che qualcuno lo spingeva nell’acqua. L’ho detto alla nonna la sera stessa, ma lei mi ha proibito di parlarne». «Ma santo cielo, se si tratta di un delitto, bisognerà pur denunciarlo e punire il responsabile!… Questa gente è incredibile:» mi disse François a bassa voce «se anche vedessero uccidere un uomo sotto i loro occhi, non ne parlerebbero “per evitare storie“. Così è successo con il povero Jean, e hanno taciuto per due anni. Colette! Digli che non può stare zitto. Ascolta bene, ragazzino, è la vedova del signor Jean a intimarti di parlare». «E’ così, signora?» chiese lui, alzando lo sguardo verso Colette. «Sì» fece lei in un sospiro, e si coprì il volto. Le donne avevano smesso di rigovernare e ascoltavano, con le mani intrecciate in grembo. «Be’,» riprese il ragazzo «innanzitutto devo dire che quella sera mio padre mi aveva punito per via di una mucca che non avevo strigliato a dovere. Me le ha date e mi ha lasciato fuori di casa senza cena. Siccome ero arrabbiato, non sono più voluto tornare dentro. All’ora di andare a letto quelli si sgolavano per chiamarmi, ma io facevo finta di non sentire. Mio padre ha detto: “Be’, se vuol fare il testone, che passi pure la notte fuori, gli servirà di lezione“. Io a quel punto ci volevo pure tornare dentro, ma di essere burlato non mi andava proprio. Così ho rubato un pezzo di pane e formaggio in cucina e sono andato a nascondermi vicino al fiume. Avete presente, signora Erard, sotto i salici, lungo la riva, dove ogni tanto andavate a leggere d’estate? E’ lì che ho sentito la macchina del signor Jean. E ho pensato: “Ma guarda, torna a casa prima del previsto”. Doveva rientrare solo il giorno dopo, ricordate? Però l’auto si è fermata nel prato. Il signore è rimasto un pezzo vicino alla macchina, al punto che mi è venuta paura, non so perché. Era una notte strana, il vento soffiava forte e scuoteva tutti gli alberi. Dico che stava vicino alla sua auto perché non riuscivo a vederlo. Per raggiungere il mulino doveva attraversare la passerella proprio davanti ai miei occhi. Era come uno che se ne sta nascosto, o che aspetta qualcuno. E’ passato talmente tanto tempo che mi sono addormentato. Mi ha svegliato un rumore sulla passerella. Erano due uomini che facevano a botte. E’ successo tutto così in fretta che non ho avuto il tempo di scappare. Uno dei due ha spinto l’altro nell’acqua e se l’è data a gambe. Ho sentito il signor Jean che gridava cadendo: ho riconosciuto la sua voce che diceva “Dio mio!“, poi ho sentito il tonfo nell’acqua. Allora ho corso senza fermarmi fino a casa, dove ho svegliato tutti e ho raccontato quel che era successo. La nonna mi ha detto: “Tieni la bocca chiusa, tu non hai visto né sentito niente, capito?“. Ero tornato sì e no da cinque minuti quando siete arrivata voi, signora, chiedendo aiuto perché vostro marito era annegato e bisognava cercare il corpo. Mio padre è sceso giù al mulino; la nonna, che aveva fatto da balia al signor Jean, ha detto: “Vado a prendere un lenzuolo per seppellirlo con le mie mani, povero bambino sventurato“, e mia madre mi ha mandato a Coudray ad avvisare che il padrone era morto! Tutto qui. Non so altro». «Non è stato un sogno?
  Ripeteresti quanto hai detto davanti al giudice?». Dopo un momento di esitazione, il ragazzo rispose: «Lo ripeterei. E’ la verità». «E l’uomo che ha spinto il signor Jean nel fiume, non sai chi sia?». Ci fu un lungo silenzio, durante il quale tutti gli occhi erano fissi sul ragazzo. Solo Colette rimaneva a testa bassa. Ora teneva le mani intrecciate sulle ginocchia: le tremavano le dita. «No, non lo so» disse infine il giovane. «Non sei riuscito a vederlo? Neanche per un secondo?
  Eppure la nottata era chiara». «Ero mezzo addormentato. Ho visto due uomini che facevano a botte. Nient’altro». «Il signor Jean non ha gridato aiuto?». «Se l’ha fatto, io non ho sentito». «Da che parte è scappato quell’uomo?». «Giù nei boschi». François si passò lentamente una mano sugli occhi. «E’ inaudito. E… è inconcepibile. Un incidente del genere può capitare, ma si spiega solo con un malore: uno non incespica su una passerella che per venticinque anni ha attraversato dieci volte al giorno. Colette ha detto: ‘Jean avrà avuto un capogiro.“ Ma perché mai? Non soffriva di vertigini, era in ottima forma. Per giunta, sappiamo bene che nella regione ci sono stati furti, e anche incendi dolosi, e quell’anno hanno arrestato dei vagabondi. Qualche volta mi è capitato di pensare che non si fosse trattato di un incidente, ma che il povero Jean fosse stato assassinato. Il racconto del ragazzo, comunque, è davvero strano. Perché Jean non è tornato dritto a casa? Sei sicuro che sia rimasto vicino alla macchina tanto a lungo?». «Ti eri addormentato,» intervenni io rivolgendomi al ragazzo «l’hai detto tu stesso. Sai bene che quando dormiamo perdiamo la nozione del tempo. A volte ci pare che siano trascorsi pochi minuti ed è passata metà della notte. Altre volte facciamo lunghi sogni, siamo convinti di aver dormito per un pezzo e invece abbiamo chiuso gli occhi solo per un attimo». «E’ vero, succede» fecero eco in molti. «Ecco cos’è accaduto secondo me: il ragazzo si era assopito; si è svegliato e ha udito il rumore dell’auto; poi si è riaddormentato; gli è parso che fosse trascorso molto tempo, mentre non si è trattato che dei pochi secondi intercorsi tra l’arrivo di Jean e il suo passaggio sul ponte. Un vagabondo si è introdotto nel mulino, forse sapendo che la casa quella notte era quasi deserta, visto che non c’era nemmeno la domestica.
  L’arrivo di Jean lo ha colto di sorpresa. Ha sentito i passi e si è precipitato fuori. Jean ha tentato di fermarlo. A quel punto l’uomo si è difeso e nel dibattersi ha fatto cadere Jean nel fiume. Ecco come devono essersi svolte le cose».
   «Bisogna avvertire la polizia» disse François. «E’ una questione seria».
  A quel punto ci accorgemmo che Colette stava piangendo. Gli uomini si alzarono l’uno dopo l’altro.
   «Fuori, si va a lavorare» disse il fattore. Vuotarono i bicchieri e uscirono. Le donne restarono sole nella grande cucina, tutte intente alle loro faccende, evitando di guardare Colette. Il padre la prese sottobraccio, l’aiutò a risalire in macchina e partimmo.

  E’ una serata mite. Sono andato a sedermi sulla panca posta sul retro della cucina, da cui si vede l’orticello che coltivo con le mie mani: per molto tempo mi è bastato che offrisse le poche verdure per la minestra, ma da alcuni anni ho iniziato a prendermene cura. Ho piantato i rosai, ho salvato una vigna che stava morendo, ho vangato, tolto le erbacce, potato gli alberi da frutto. A poco a poco mi sono affezionato a questo fazzoletto di terra. Nelle sere d’estate, al crepuscolo, sentire che i frutti maturi si staccano dai rami e cadono mollemente sull’erba mi rende quasi felice. Giunge la notte… e con ciò? Non si può definire notte: l’azzurro del giorno si fa torbido e si tinge di verde, e il mondo visibile perde gradatamente i suoi colori, per assumere un’uniforme sfumatura tra il grigio perla e il grigio acciaio.
  I contorni delle cose restano invece perfettamente nitidi: i pozzi, i ciliegi, il muretto basso, il bosco, il muso del gatto che gioca ai miei piedi mordicchiandomi gli zoccoli. A quest’ora la domestica se ne torna a casa; accende la lampada in cucina, e la luce precipita ogni cosa nella notte inoltrata. E’ il momento più bello della giornata, e naturalmente è quello che ha scelto Colette per venire a chiedermi consiglio. Devo ammettere di averla accolta con estrema freddezza, tanto da lasciarla sconcertata. Il fatto è che se sono io a uscire spontaneamente da casa mia e a mischiarmi con gli altri, accetto di mostrare un qualche interesse per esistenze estranee; ma quando sono rintanato nel mio covo voglio stare in pace, – e allora non venite a importunarmi con le vostre storie d’amore e i vostri rimorsi! «Che posso fare per te?» ho chiesto a Colette, che piangeva. «Niente. Non capisco perché ti tormenti così. Che al racconto di quel piccolo imbecille sia dato o meno un seguito dipende solo dai tuoi genitori. Va’ da loro, non sono mica bambini. Sanno come va la vita. Gli dirai che hai avuto un amante, e che è stato lui a uccidere tuo marito… A proposito: com’è andata esattamente?». «Quella notte aspettavo Marc e Jean doveva tornare solo il giorno dopo. Non riesco ancora a capire cosa sia successo, e perché sia tornato in anticipo». «Perché? Come sei ingenua! Perché qualcuno lo aveva avvertito che quella notte tu aspettavi il tuo amante». Ogni volta che sente la parola «amante», Colette trasale e china il capo Nel buio; sento i suoi sospiri penosi. Si vergogna. Ma quale altro termine potrei usare? «Immagino» ha detto infine «che ad avvertirlo sia stata la domestica che avevo all’epoca. Comunque sia, aspettavo Marc per mezzanotte. Ma non appena lui ha attraversato la passerella, mio marito, che gli faceva la posta, gli si è scagliato contro. Marc, però, era più forte» (che inconsapevole sfumatura di orgoglio nella sua voce!). «Non intendeva fargli del male, si è limitato a difendersi. Poi si è lasciato sopraffare dalla collera. L’ha afferrato, l’ha trascinato fino al punto senza parapetto e l’ha scaraventato in acqua». «Non era la prima volta che quel ragazzo veniva a casa tua…». «No…». «Non gli sei stata fedele a lungo al povero Jean…». Silenzio. «Eppure non lo hai sposato contro la tua volontà, vero?». «No, lo amavo. Ma l’altro… Dal primo giorno che l’ho visto, capite, dal primo giorno, avrebbe potuto fare di me quel che voleva.
  Riuscite a crederci?». «Ma sì, non è il primo caso del genere che sento». «Vi prendete gioco di me. Ma rendetevi conto che io non ero nata per diventare una donnaccia. Se fossi stata tipo da avventure, la questione mi sembrerebbe senz’altro semplice: niente più di un adulterio finito male. Io, al contrario, ero fatta per vivere come la mamma, per avere un cuore puro e invecchiare come lei, in modo nobile, limpido, senza rimorsi. E poi, a un tratto… Ricordo che avevo trascorso la giornata con Jean. Eravamo così felici. Sono entrata in casa di Brigitte Declos. Avevamo fatto amicizia. Lei era giovane. Io non avevo amiche della mia età. E per di più, ed è una cosa assai strana, ci somigliamo.
  Glìel’ho detto più di una volta; lei si metteva sempre a ridere, ma credo fosse d’accordo con me, perché rispondeva: “Avremmo potuto essere sorelle“. Proprio a casa di Brigitte ho incontrato Marc per la prima volta. Ho capito subito che era il suo amante, che lei lo amava, e mi sono sentita… gelosa, inspiegabilmente. Proprio così: ancora prima di innamorarmi ho provato gelosia. E non è neppure il termine giusto!
  Dovrei piuttosto parlare di invidia. Mi sentivo disperatamente invidiosa di un genere di felicità che Jean non era in grado di darmi. Non mi riferisco soltanto all’appagamento dei sensi, capite, ma a una febbre dell’anima, qualcosa di non paragonabile a ciò che sino a quel momento avevo chiamato amore. Sono tornata a casa e ho pianto per tutta la notte. Ero inorridita da me stessa. Se Marc mi avesse lasciata in pace avrei dimenticato, ma gli ero piaciuta e ha cominciato a darmi la caccia. E così un giorno, qualche settimana dopo…». «Sì». «Mi rendevo perfettamente conto che non sarebbe durata. Sapevo che lui e Brigitte avrebbero finito per sposarsi, non appena l’anziano marito di lei fosse morto. Pensavo… Ma no, non pensavo niente: lo amavo. Mi dicevo che finché Jean non ne fosse stato al corrente era come se non stesse accadendo. Qualche volta nei miei incubi immaginavo che lui venisse a saperlo, ma molto più in là, quando saremmo stati vecchi. E avevo la sensazione che mi avrebbe perdonata. Come avrei mai potuto prevedere una disgrazia simile? Sono stata io a ucciderlo. Ho ucciso mio marito. E’ morto per colpa mia. A forza di ripetermelo mi sembra di diventare pazza». «Le tue lacrime non serviranno a farlo tornare. Calmati e concentrati su come evitare lo scandalo, perché ovviamente un’indagine seria porterebbe in breve tempo la verità alla luce. Il paese intero ne è a conoscenza». «Ma come posso evitare lo scandalo? Come?». «Occorre che tuo padre non sporga denuncia, quindi bisogna dirgli tutto…». «Non posso! Non gli dirò niente! Non ci riesco. Non ne ho il coraggio…».
  «Sei ammattita? Si direbbe che tu abbia paura dei tuoi genitori, che ti vogliono bene». «Com’è possibile che non capiate? Voi sapete bene come vivono, quale straordinaria intesa li lega, che visione nobile hanno dell’amore coniugale; e come volete che io, la loro figlia, possa confessare che ho tradito mio marito in modo ignobile, che quando lui se ne andava facevo venire un uomo in casa, e per finire che è stato il mio amante a ucciderlo? No, per loro sarebbe un colpo troppo duro. Ho già una disgrazia sulla coscienza: non è abbastanza?» gridò, scoppiando in lacrime. Quando si fu un po’ calmata, le chiesi di nuovo che cosa volesse da me. «Non potreste dirglielo voi?». «Ma che differenza farebbe?». «Non lo so… Però sento che se dovessi confessarglielo io, ne morirei… Voi invece… voi farete loro capire che è stato un momento di follia, che non sono una persona incurabilmente cattiva e perversa, e io stessa non capisco come abbia potuto agire in quel modo.
  Lo farete, caro cugino Silvio?». Dopo averci pensato un istante risposi: «No». La povera Colette lanciò un grido di sorpresa e disperazione: «No?
  Perché?». «Per molte ragioni. Innanzitutto (non posso spiegartelo, ma ti prego di credermi) se fossi io ad assestare il colpo di cui parli, per tua madre il dolore sarebbe ancora più grande. Non chiedermi perché: non posso dirtelo. In secondo luogo, perché non ho intenzione di immischiarmi nelle vostre faccende. Non mi va di correre da un membro all’altro della famiglia a portare conforto, commenti, consigli e princìpi morali a profusione. Sono vecchio, Colette, e bramo un po’ di pace. Alla mia età sì arriva a una sorta di freddezza… Tu non puoi capirlo, così come io non posso capire i vostri amori e le vostre follie. Per quanti sforzi faccia, non vedrò mai le cose come le vedi tu.
  Per te la morte di Jean è una sciagura di proporzioni immani. Ai miei occhi… ho visto morire tante persone… non era che un ragazzo maldestro e geloso, che sta bene dov’è. Incolpi te stessa della sua morte? A parer mio gli eventi della vita sono dettati solo dal caso o dal destino. La tua storia con Marc? Be’, ve la siete spassata. Che volete di più? E a quelle brave persone dei tuoi genitori, poi, non potrei evitare di rivelare verità che li lascerebbero sbalorditi e addolorati…». Lei mi interruppe: «Cugino Silvio, a volte mi sembra quasi…». Ebbe un’esitazione. Quindi proseguì: «Voi non nutrite per loro la mia stessa ammirazione». «Nessuno merita un’ammirazione così fervida. Così come nessuno merita di essere giudicato in modo troppo sprezzante…». «O amato con troppo trasporto…». «Non lo so, forse.
  L’amore, sai… Alla mia età il sangue non arde più, e si ha freddo» ribadii. A un tratto Colette mi prese la mano. Povera piccola! La sua scottava. Disse sottovoce: «Vi compiango». «Anch’io ti compiango» le dissi sinceramente. «Non fai altro che tormentarti». Siamo rimasti immobili per un bel pezzo. La notte stava diventando umida. Le rane gracidavano. «Che farete dopo che me ne sarò andata?» mi chiese Colette.
  «Quello che faccio ogni sera». «Cioè?». «Be’, chiuderò il cancello.
  Sprangherò le porte. Caricherò l’orologio. Tirerò fuori le carte e giocherò qualche mano di solitario. Berrò un goccetto. Non penserò a niente. Andrò a letto. Non dormirò granché. Sognerò a occhi aperti.
  Rivedrò cose e persone del passato. Tu tornerai a casa tua, ti dispererai, verserai molte lacrime, chiederai perdono alla fotografia del povero Jean, rimpiangerai il passato, tremerai pensando al futuro.
  Non so chi tra noi due passerà la notte migliore». Colette restò un istante in silenzio. «Vado» mormorò infine con un sospiro.
  In seguito Colette mi raccontò che quella notte l’ho accompagnata al cancello. Ha preso la bicicletta e anziché tornare a casa, aveva proseguito sulla bicicletta ed è andata via sulla strada per Coudray. Era in uno stato di eccitazione maniacale e provava il bisogno di fare qualcosa, qualsiasi cosa, pur di placare la sofferenza. Nel corso del nostro colloquio, mi disse, le era venuto in mente che oltre a lei, e forse in misura ancora maggiore, la più interessata a evitare uno scandalo era la fidanzata di Marc, Brigitte Declos. Aveva deciso di andarla a trovare, raccontarle l’accaduto e chiedere il suo parere. Chissà se Brigitte era a conoscenza dei particolari della morte di Jean… Di certo doveva aver intuito molte cose. In ogni caso la faccenda risaliva a due anni prima; Marc e Colette ormai non si frequentavano più. Il passato non avrebbe potuto ingelosire Brigitte. Si sarebbe preoccupata soltanto di salvare l’uomo che avrebbe sposato di lì a due settimane. E può darsi che a Colette non dispiacesse offuscare un po’ la loro felicità. Comunque, erano coinvolti tutti e tre nella vicenda. Colette si recò dunque a casa di Brigitte, che era stata a cena dalla famiglia del promesso sposo e a quell’ora era sola. Le disse che Marc era in grave pericolo. Brigitte capì immediatamente. Sbiancò in volto e domandò di cosa si trattasse.
  «Sapevate che è stato Marc a uccidere mio marito?» chiese Colette a bruciapelo. L’altra rispose: «Sì». «Ve l’ha dunque confessato?». «Non ce n’era bisogno. L’ho capito da sola la sera stessa». «In quel momento» mi disse Colette «pensai d’un tratto: “E’ stata lei ad avvisare Jean”.
  Certamente sapeva che Marc la tradiva con me. Deve essersi detta: “Tocca al marito separarli“. Sapeva che Jean era timido e tutt’altro che robusto. Mai avrebbe pensato che potesse aggredire Marc in quel modo.
  Piuttosto, aveva previsto un chiarimento tra me e Jean, la mia paura dello scandalo, la preoccupazione di non dare un dolore ai miei genitori, una serie di motivi che mi avrebbero ineluttabilmente spinta a non vedere più Marc. Voleva solo questo. Anche per lei la morte di Jean è stata un colpo durissimo e inatteso». Incalzata da Colette, Brigitte in un primo momento si schermì, ma finì con l’ammettere di aver scritto a Jean due giorni prima della disgrazia, «firmando per esteso, giuro», comunicandogli che quella notte la moglie aspettava una visita di Marc Ohnet. «Se solo avessi potuto supporre… Siamo state punite entrambe in modo atroce. Non invidiatemi. Certo, mi sono tenuta il mio amante, ma pensate a quale sia la nostra angoscia. Pensate a quanto rischia. In provincia i tribunali non sono teneri con i crimini passionali. Anche se invocherà la legittima difesa, chissà se gli crederanno, o se invece non penseranno che si sia trattato di un’imboscata tesa a sbarazzarsi del marito… E quand’anche fosse assolto, che tipo di vita avremmo davanti a noi in un paese in cui io sono odiata da tutti e lui non è da meno? Ed è qui che sono invece tutti i nostri beni». Colette disse: «Non vi siete ancora sposati. Potreste lasciarvi». «No,» rispose Brigitte «io lo amo, e la responsabilità di questa disgrazia è in buona parte mia. Non abbandonerò il mio uomo perché lo ha colpito la sventura. Bisogna fare in modo che vostro padre non sporga denuncia. Se non ci saranno accuse formali, nessuno aprirà bocca. Noi dovremo essere coraggiosi, sopportare insinuazioni e domande indiscrete. Possiamo farcela». Parlarono a lungo, pressoché tutta la notte e «quasi come due amiche» raccontò Colette.
  Entrambe amavano quel ragazzo e desideravano salvarlo. Colette inoltre era in pena per i genitori e per il figlio. Alla fine disse: «Avete ragione. Occorre che papà e mamma sappiano la verità. Ma per me è terribile. Non gliela posso dire io. Non capirebbero. Sarebbero disperati. Quando me li troverò davanti, e vedrò i loro vecchi, cari e onesti volti, proverò una vergogna tale che dalle labbra non mi uscirà una sola parola». Brigitte rimase a lungo in silenzio. Poi guardò l’ora e disse:… «E’ tardissimo. Adesso tornate a casa. Domattina allontanatevi, con una scusa qualunque. Andate via qualche giorno. Io andrò a trovare i vostri genitori e racconterò loro l’accaduto. Forse sarà più semplice di quanto non crediate». «Ho pensato» mi spiegò Colette «che mia madre e mio padre avrebbero preferito ascoltare la verità da una bocca che non fosse la mia. Tra genitori e figli c’è un tale pudore… Quando ero piccola provavo vergogna alla vista di mia madre svestita. Mi vergognavo anche di lasciar trapelare pensieri che mi sembravano cattivi, e che invece confidavo senza problemi a un’amichetta qualunque o alla mia vecchia tata. I miei genitori erano creature uniche, al di sopra di ogni debolezza umana, e tali sono rimasti. Ho pensato: «Sapranno ogni cosa, ma io starò via diversi giorni. Avranno il tempo di riprendersi. Quando tornerò a casa, capiranno di non dovermene mai parlare. E loro non parleranno. In questo sono maestri. E sarà come se quest’orribile storia non fosse mai accaduta».


  L’indomani mattina giunsero a casa mia François e Hélène. Lei sembrava sconvolta: pur senza sospettare la verità, si opponeva all’idea di sporgere denuncia, sostenendo che la figlia ne avrebbe sofferto inutilmente; François invece, da vero borghese rispettoso delle leggi, riteneva suo preciso dovere procedere. «Sarà stato un vagabondo, o un mentecatto ubriaco. Forse uno dei polacchi che lavorano nelle fattorie.

  Comunque stiano le cose, guarda che un uomo colpevole di un delitto rimasto impunito rischia sempre di cadere nuovamente nella tentazione di rubare o di uccidere. In tal caso, noi ne saremmo indirettamente responsabili. Se fosse versato altro sangue innocente, la colpa sarebbe anche nostra». «Che ne pensa Colette?» chiesi io. «Colette? Se n’è andata, figuratevi» rispose Hélène. «Stamattina si è fatta portare alla stazione e ha preso il treno delle otto per Nevers. Mi ha lasciato un bigliettino in cui diceva che non voleva svegliarmi: ieri ha rotto lo specchietto stile Impero che le ha regalato Jean e intende farlo riparare subito. Ne approfitterà per andare a Nevers a trovare un’amica dei tempi del collegio. Tornerà tra due o tre giorni. Naturalmente, prima di decidere il da farsi, aspettiamo che sia qui. Povera bambina!

  La faccenda dello specchio rotto è un pretesto. In realtà il racconto di quel ragazzino l’ha turbata e ha deciso di allontanarsi da questo paese, che evoca in lei penosi ricordi, forse per non sentir pronunciare il nome di Jean. Da piccola si comportava allo stesso modo. Dopo la morte della nonna, ogni qualvolta nominavo la povera defunta Colette si alzava e usciva dalla stanza. Un giorno le chiesi perché faceva così e lei rispose: “Non riesco a trattenere le lacrime, e non mi va di piangere davanti a tutti“». Ha voluto prendere tempo, pensai, e forse scriverà loro la verità da Nevers. Eviterà così l’aperta confessione che la spaventa tanto. Pensai anche che magari si era rivolta a un prete. In seguito venni a sapere che lo aveva già fatto da un pezzo, e che il prete le aveva raccomandato di raccontare l’accaduto ai suoi, aggiungendo che sarebbe stato un giusto castigo per la sua colpa; ma la paura di ferire gli adorati genitori le aveva impedito di parlare.

  Immaginai insomma un gran numero di spiegazioni plausibili per la partenza di Colette, ma naturalmente non potevo sospettare che avesse coinvolto Brigitte Declos. «Credo che Hélène abbia ragione:» dissi a François «per Colette sarà un grosso dolore sottoporre la vita privata sua e del marito alla disamina della giustizia». «Santo cielo, non avevano niente da nascondere, poveri ragazzi!». «L’assassino, poi, ammesso che esista e che il ragazzino abbia detto la verità, avrà di certo lasciato il paese da un bel pezzo». Per tutta risposta François scosse la testa. «Questo non gli impedirà di commettere un altro delitto, un giorno, spinto dal bisogno o dall’alcol. Se dovesse uccidere in un altro luogo, su quale base dovrei considerarmi meno responsabile?

  Io rispondo davanti alla mia coscienza delle azioni che commetterà, poco importa se sarà in Saóne-et-Loire, nel Lot-et-Garonne, nel Nord o nel Sud». Guardò la moglie. «Non riesco a credere che se ne possa anche soltanto discutere. Hélène, mi meraviglio di te. Come mai proprio tu, che hai un’anima tanto retta e pura, non ti accorgi di quanto sia turpe l’idea di occultare una cattiva azione, solo perché la nostra pace ne sarebbe turbata?». «Non la nostra, François: quella di nostra figlia».

  «Dovere e amore paterno o materno sono cose ben distinte» replicò François con dolcezza. «Ma è inutile discuterne: Colette tornerà a casa, ne parleremo a lungo, e sono certo che finirà per arrendersi ai miei argomenti». Si era fatto tardi, e decisero di tornare a casa; erano venuti a piedi a Mont-Tharaud e mi proposero di riaccompagnarli. Per tutto il tragitto evitammo di comune accordo di parlare dei ragazzi, ma era evidente che non facevano che pensare al tragico evento e al colpo di scena del giorno innanzi.
  Hélène mi invitò a rimanere per il pranzo. Accettai. Avevamo appena finito di mangiare, quando qualcuno suonò il campanello. La domestica annunciò la signora Brigitte Declos. «Chiede di parlare col signore e la signora» aggiunse. Hélène si fece estremamente pallida. François parve sorpreso, ma disse alla donna di far accomodare l’ospite nello studio, dove ci era stato appena servito il caffè, e si alzò per riceverla. Lo studio è una deliziosa stanza piena di libri, piuttosto piccola, con due grandi poltrone sistemate davanti al caminetto. Da oltre vent’anni i miei cugini trascorrono qui le loro tranquille serate, lui su una poltrona con un libro, lei sull’altra con un lavoro di ricamo; tra i due il rintocco dell’orologio, lento e rassicurante come un cuore privo di rimorsi: l’emblema della serenità coniugale. Entrando, Brigitte gettò attorno a sé uno sguardo incuriosito: non conosceva quella stanza, essendo stata in quella casa una volta soltanto, il giorno del matrimonio di Colette, senza spingersi più in là del formale e buio salotto. Ogni particolare dello studio parlava di felicità e di un profondo, reciproco amore. Se gli uomini sanno mentire, fiori, libri, ritratti, lampade, la patina di vissuto e amato che ricopre ogni oggetto hanno più sincerità dei volti umani. Un tempo mi accadeva spesso di osservare quella stanza e dirmi: «Si rendono felici l’un l’altro. E’ come se il passato non fosse mai esistito. Sono felici e si amano». In seguito, la cosa era talmente palese che avevo smesso di pensarci, e d’altronde nemmeno mi interessava più. Brigitte mi sembrò pallida e smagrita: era meno… animalesca, in un certo senso, e più femminile.
  Intendo dire che aveva perduto l’insolente sicurezza che deriva dalla felicità; sembrava nervosa e si gettava attorno sguardi colmi di un sentimento indecifrabile, un misto di sfida e astio, ma anche di curiosità e turbamento. Rifiutò la tazza di caffè offertale macchinalmente da Hélène e, a voce bassa e tremante, disse: «Signor Erard, sono venuta a supplicarvi di non dar seguito ai vostri progetti, di non fare ricorso alla giustizia riguardo alla morte di vostro genero.
  La cosa è assai grave. Se si dovesse scoprire la verità, si otterrebbero soltanto altre disgrazie». «Altre disgrazie? Per chi?». «Per voi».
  «Sapete chi ha ucciso Jean?». «Sì. E’ stato Marc Ohnet, il mio fidanzato». François cominciò a misurare la stanza a passi agitati.
  Hélène non proferì parola. Brigitte attese un istante; poi, visto che nessuno dei due coniugi apriva bocca, proseguì: «Tra pochi giorni ci sposeremo. Ci amiamo. Sarebbe uno scandalo terribile, che distruggerebbe le nostre vite e non servirebbe a far tornare il vostro sventurato genero». «Ma, signora,» esclamò François «vi rendete conto di quel che dite? Che a compierlo sia stato un mendicante, un vagabondo qualsiasi o il vostro fidanzato Marc Ohnet, il delitto rimane, e il responsabile deve essere processato. Come osate supplicarmi in nome della vostra felicità, voi che avete distrutto quella di mia figlia? Suppongo che i due uomini siano venuti ai ferri corti a causa vostra… Vi facevano entrambi la corte, forse?». Il buon François ha un unico difetto: avendo scarsa consuetudine con la gente, quando è in preda a una forte emozione si esprime «come un libro stampato», come si suol dire. Non so perché, ma la cosa non mi aveva mai colpito quanto in quella circostanza. Non ho potuto fare a meno di sorridere; anche Brigitte ha sorriso, ma nei suoi occhi non vi era traccia di benevolenza. «Signor Erard, vi giuro che non hanno litigato a causa mia, e che Jean Dorin non mi ha mai corteggiata.
  Lo state calunniando. Era fedele alla moglie, e io non avrei certo badato a lui. Sono l’amante di Marc Ohnet da quattro anni. Amo e ho amato lui soltanto». Fissava François con uno sguardo sfrontato che lo esasperò. «Non vi vergognate?» chiese. «Vergognarmi? Perché mai?».
«Succede, quando si commette un’azione disonesta» rispose lui con freddezza. «Anche se vostro marito era vecchio, avevate il dovere di portargli rispetto. E’ stato ignobile da parte vostra tradire un uomo che vi ha sposata quando non possedevate niente, che vi ha viziata e amata, e vi ha lasciato una fortuna. Con i suoi soldi mantenete un innamorato più giovane…». «I soldi non c’entrano». «I soldi c’entrano sempre, signora. Io sono un uomo anziano, e voi una bambina. I vostri affari di certo non mi riguardano, ma poiché avete ritenuto opportuno confidarvi con me, lasciate che io vi dia un saggio della bassezza che dubito riusciate a scorgere. Avete ingannato vostro marito in modo indegno. Lui vi ha lasciato una fortuna. Voi la userete per vivere col vostro fidanzato. Che bella coppia! E tra voi il ricordo di un delitto… giacché dite che lo sciagurato ha ucciso il povero Jean. Vi preparate proprio un bell’avvenire, signora! Adesso siete ancora giovane. Vi curate solo del vostro piacere. Immaginate come sarà per voi due la vecchiaia». «Piacevole quanto la vostra» fece lei a bassa voce.
  «No». «Ne siete certo?». La giovane aveva un tono così strano che Hélène fece un gesto verso di lei e lanciò una specie di sospiro lamentoso.
  Brigitte ebbe un attimo di esitazione, quindi disse: «Il vostro rigore morale è irreprensibile. Eppure la signora Erard era vedova quando vi siete sposati, o sbaglio?». «Cosa state insinuando? Come osate paragonarvi a mia moglie?». «Non intendo insultarla» rispose lei, mantenendo un tono basso e monocorde. «Faccio solo una domanda… La signora Erard aveva sposato in prime nozze un uomo vecchio e malato, come è successo a me. Gli è stata fedele, ma mi dica lei se è sempre stato facile e piacevole riuscire a esserlo». «E’ vero, non amavo il mio primo marito» disse Hélène «ma non l’avevo sposato contro la mia volontà. Non avevo perciò motivo di lagnarmi, come voi del resto…».
  «La volontà può essere condizionata da tante cose,» disse in tono amaro Brigitte, «la povertà, per esempio, o l’abbandono…». «L’abbandono, via…». «Proprio così. Pensate forse che io non sia stata abbandonata?». «La signorina Coudray…». «La signorina Coudray ha fatto per me quel che poteva: le veci di una madre. Ciò non toglie che mia madre non si sia mai curata di me. Quando sono rimasta sola non ha dato segni di vita. E così, il primo uomo che si è fatto avanti… Credete che una ventenne sposi a cuor leggero un anziano contadino di sessant’anni? Un vecchio rude e avaro? Di sua spontanea volontà? Sono le vostre parole. E vostra figlia Colette, la vostra figlia legittima,» (calcò il termine) «di sicuro ha sposato Jean Dorin di sua spontanea volontà, ma ciò non le ha impedito di diventare l’amante di Marc Ohnet.
  Chiedetelo a lei: vi racconterà come faceva andare Marc a casa sua di notte, come suo marito è stato avvertito e in che modo è morto». Riferì quel che era accaduto. François e Hélène la ascoltarono stupefatti
  Davanti al volto rigato di lacrime di Hélène, Brigitte chiese: «Piangete per vostra figlia? Suvvia, state tranquilla. Dimenticherà, queste cose si dimenticano sempre. Si riesce a vivere benissimo con il ricordo di un’azione disonesta, come la definite voi, e persino di un delitto. Voi avete vissuto bene» aggiunse rivolta a Hélène. «Oh, un delitto…» protestò fievolmente la povera donna. «Io ritengo sia un delitto avere un figlio e abbandonarlo. In ogni caso è più grave che tradire un vecchio marito sposato senza amore. Voi che ne pensate, signor Erard?».
  «Cosa volete dire?». Hélène, la quale, benché scossa da tremiti, aveva ritrovato una calma ammirevole, fece segno a Brigitte di tacere. Si voltò verso il marito: «Visto che devi saperlo, preferisco essere io stessa a dirtelo. La ragazza ha il diritto di parlare in questo modo: prima del nostro matrimonio ho avuto un amante,» (sotto le rughe il volto si accese di un penoso rossore) «un’avventura durata poche settimane, e ho dato alla luce una figlia. Non potevo confessarti l’accaduto, né importi la presenza della bambina. Però non volevo neanche abbandonarla. Sì, nonostante quel che sostiene lei, non ho mai voluto abbandonarla. La mia sorellastra, Cécile Coudray, era libera e sola; si è fatta carico lei di Brigitte. Credevo che fosse felice. A poco a poco…». Tacque. «A poco a poco, mi avete dimenticata» disse Brigitte. «Io ho sempre saputo tutto… Un giorno siete entrata a Coudray con vostro marito e con Colette ancora piccola. Lei piangeva perché aveva sete. L’avete presa sulle ginocchia, l’avete baciata. Aveva un vestitino così carino, una catenina d’oro al collo… e io… com’ero gelosa. Non mi avete neppure guardata…». «Non ne avevo il coraggio.
  Avevo una tale paura di tradirmi…». «Non è vero,» disse Brigitte «è solo che mi avevate dimenticata. Io ho sempre saputo la verità. Me l’aveva detta Cécile. Vostra sorella vi odiava. Vi odiava quasi senza rendersene conto. Eravate più giovane, più carina, più felice di lei.
  Perché siete stata felice: è innegabile. Permettete anche a me di esserlo. Non siate troppo severa con Colette, che vi vede come una santa, e avrebbe preferito morire piuttosto che rivelarsi ai vostri occhi per ciò che è veramente. Io non mi faccio gli stessi scrupoli. Non sporgerete denuncia, signor Erard, vero? Sono affari di famiglia e devono restare tra noi». Attese una risposta che non giunse. Si alzò, raccolse con calma la borsa e i guanti, si diresse verso lo specchio posto sopra il caminetto e si sistemò il cappello. In quel momento la cameriera, curiosa e sollecita, entrò per portare via le tazze da caffè.
  Poi Hélène accompagnò Brigitte al cancello, attraverso il giardino. «La mia presenza è di troppo» dichiarai io. «Miei cari, state per dirvi cose di cui in seguito vi pentirete». Hélène mi lanciò uno sguardo penetrante: «Non temete, Silvio». François lasciò che me ne andassi senza contraccambiare il mio saluto. Non si era più mosso: a un tratto pareva vecchissimo e l’ombra di fragilità insita nei suoi tratti si era accentuata. Aveva l’aspetto di un uomo colpito a morte. Mi accomiatai, ma non tornai a casa. Il cuore mi batteva come mai prima. Il passato riprendeva vita nella sua interezza. Mi sembrava di aver dormito per vent’anni e di essermi appena ridestato, pronto a riprendere la lettura dal punto esatto in cui l’avevo abbandonata. Istintivamente mi diressi alla panca posta sotto la finestra dello studio, da dove potevo udire tutto quello che dicevano. Per un bel pezzo non sentii nulla. Poi lui la chiamò: «Hélène…». Seminascosto dal grande cespuglio di rose, riuscivo a scorgere l’interno della stanza. Vedevo marito e moglie seduti l’uno accanto all’altro, la mano nella mano; non si erano detti nemmeno una parola. Un solo bacio, uno scambio di sguardi avevano cancellato il peccato. Tuttavia lui le domandò, a voce bassissima, vergognandosi: «Chi è?». «E’ morto». «Lo conoscevo?». «No». «Ma lo hai amato?». «No. Ho amato te soltanto. E’ stato prima che ci sposassimo». «Ma noi due ci amavamo già. Io, almeno, ti amavo». «Come posso spiegarti quel che è successo?» proruppe lei. «Sono passati più di vent’anni. Per qualche giorno non sono stata me stessa. Era come… come se qualcuno avesse fatto irruzione nella mia esistenza e vivesse al posto mio.
  Quell’infelice bambina mi accusa di aver dimenticato. E’ così, ho dimenticato! Ovviamente non mi riferisco ai fatti, agli orribili mesi che hanno preceduto la sua nascita, né alla nascita medesima, né a quell’avventura… Ma alle ragioni del mio comportamento. Non riesco più a spiegarmele. E’ come avere davanti una lingua straniera un tempo nota e ormai scordata». Parlava in tono concitato, rapidamente e a voce molto bassa. Ascoltavo con vivissima attenzione, ma alcune parole mi sfuggivano. Udii ancora: «Amarci come ci amiamo… e scoprire una donna diversa…». «Ma è la stessa, François! François, tesoro… E’ stato l’amante ad averne una falsa, differente da quella autentica, una maschera, una menzogna. Tu solo possiedi la verità. Guardami. Sono la tua Hélène, quella che ti allieta la vita, che ha dormito fra le tue braccia ogni notte per vent’anni, che si occupa della tua casa, che avverte il tuo dolore a distanza e lo patisce ancora più di te, che ha passato i quattro anni della guerra a trepidare pensando a te, solo a te, e ad aspettarti». Si interruppe, e ci fu un lungo silenzio. Scivolai fuori dal mio nascondiglio, trattenendo il respiro. Attraversai il giardino. Raggiunsi la strada. Camminavo spedito, sentendomi nascere in corpo un calore dimenticato. Strano: ai miei occhi Hélène aveva smesso di essere una donna da così tanto tempo… Talora mi viene in mente una negretta con cui stavo in Congo, o l’inglese dai capelli rossi e la pelle bianca come il latte che ha vissuto con me per due anni quando abitavo in Canada… Hélène, invece! Soltanto ieri mi sarebbe occorso uno sforzo di memoria non indifferente per ammettere: «Eh già, Hélène, proprio lei!…». Come per certe vetuste pergamene, su cui gli antichi avevano vergato brani licenziosi che i monaci in seguito raschiarono via per tracciarvi sopra qualche vita di santo ornata di innocenti miniature. La donna di vent’anni prima era scomparsa per sempre sotto l’Hélène di oggi: l’unica autentica, a sentire lei. Mi sorpresi a esclamare: «Non è vero! Sta mentendo!». In seguito mi burlai di me stesso per essermi lasciato turbare. In fin dei conti, se il dilemma è: «Chi conosce la donna autentica, l’amante o il marito? Sono davvero così diverse l’una dall’altra? O sono forse sottilmente mescolate e indistinguibili? O sono plasmate con due sostanze che unite ne generano una terza, non più somigliante ad alcuna delle precedenti?», forse allora né il marito né l’amante conoscono la donna autentica. Eppure, è la donna più semplice che ci sia. Benché io abbia vissuto abbastanza a lungo da sapere che non esistono anime semplici. Nei pressi di casa ho incontrato uno dei miei vicini, il vecchio Jault, intento a ricondurre le vacche alla stalla. Abbiamo percorso un tratto di strada insieme.
  Sapevo benissimo che aveva sulla punta della lingua una domanda e che esitava a formularla. Alla fine, quando ero in procinto di salutarlo per dirigermi a casa, si è deciso. Dava dei colpi distratti sul fianco di una mucca, un bell’esemplare dal manto fulvo e dalle corna a forma di lira. «E’ vero quello che si dice in giro, che la signora Declos venderà la proprietà?». «Non ho sentito niente in proposito». Sembrò deluso.
 «Certo qui non potranno vivere». «Perché?». Per tutta risposta biascicò indistintamente: «Sarebbe meglio». Quindi aggiunse: «Dicono che il signor Erard vuole sporgere denuncia, che il signor Dorin è morto perché qualcuno gli ha fatto un brutto scherzo e che Marc Ohnet c’entra qualcosa…». Io risposi: «No di certo. Il signor Erard è un tipo prudente e non allerterebbe mai la giustizia avendo come prova solo le chiacchiere di un garzone di fattoria. Se ve ne parlo è perché mi sembrate ben informato a riguardo, Jault. Non vi scordate che un uomo accusato ingiustamente può a sua volta denunciare i propri calunniatori. Avete capito?».
  Lui sollevò il bastone e radunò le bestie attorno a sé. «Non si può impedire alla gente di parlare» disse semplicemente. «Nessuno qui ha voglia di avere a che fare con la giustizia, è chiaro. Se la famiglia non fa niente, non lo farà mica nessun altro. Ma voi che conoscete la signora Declos e Marc Ohnet…». «Non li conosco granché…». «Ditegli di vendere la proprietà e partire. Sarà meglio». Si toccò il berretto con la punta delle dita, mormorò: «‘Notte» e si allontanò. Si era fatto buio.



  Sono rientrato a casa tardi, dopo essermi trattenuto al caffè tanto a lungo da impensierire la domestica. Avevo bevuto. Non mi capita quasi mai di ubriacarmi. Non ho nulla contro l’alcol, e la bottiglia, nella solitudine selvaggia in cui vivo, mi fa da compagna, placandomi come saprebbe fare una donna. Ma discendo da una vecchia stirpe di contadini borgognoni abituati a tracannare un litro di vino a pasto come fosse acqua fresca, e mantengo sempre la mente lucida. Eppure, quella sera non ero nel mio stato abituale. Invece di calmarmi, il vino pareva gettare scompiglio tra i miei pensieri e suscitare in me una sorta di rabbia.

  Quasi a farlo apposta, la mia vecchia domestica non era mai stata così lenta. Volevo solo che se ne andasse, come se fossi in attesa di qualcuno. In effetti, aspettavo la mia giovinezza. Il ricordo degli anni passati riaffiorerebbe più spesso, se solo volgessimo lo sguardo verso la sua sublime dolcezza. Invece gli permettiamo di restare sopito in noi, o peggio di morire, di deteriorarsi, tanto che gli slanci di generosità che proviamo a vent’anni in seguito li bolliamo come ingenuità, dabbenaggine… I nostri amori, puri e ardenti, assumono l’aspetto turpe dei piaceri più vili. Quella sera a ritrovare il passato non era solo la mia memoria, ma anche il mio cuore. Quella collera, l’impazienza, la fame di felicità mi erano note. Eppure non era una donna in carne e ossa ad attendermi, bensì un’ombra, fatta della stessa sostanza dei miei sogni. Un ricordo. Niente che si possa toccare, o che dia calore: e di quale calore vuoi aver bisogno, vecchio essere dal cuore secco? Guardo la mia casa e ne rimango sconvolto. E’ mai possibile che proprio io, un tempo tanto ambizioso, tanto dinamico, viva in questo modo, trascinandomi giorno dopo giorno dal letto al tavolo e di nuovo al letto? Come posso vivere così? Ho smesso d’esistere. Non ho più pensieri, non ho più amori, né desideri. A casa mia non ci sono giornali o libri. Mi addormento davanti al caminetto, fumo la pipa, accarezzo il cane. Chiacchiero con la domestica. Tutto qui, non c’è altro. Torna, giovinezza, torna. Parla attraverso la mia bocca. Di’ a questa Hélène campionessa di buon senso e di virtù che è una bugiarda. Dille che il suo amante non è morto, che lei mi ha seppellito in fretta, ma io sono vivo e vegeto, e ricordo ogni cosa. E’ una bugiarda! La donna autentica relegata dentro di lei, ardente, allegra, audace, in cerca di piacere, io l’ho conosciuta, io soltanto! A François spetta una copia sbiadita e fredda, mendace quanto l’epitaffio di una tomba, mentre io ho avuto di lei quel che ora è morto: la giovinezza. Basta… dopo l’ultimo bicchiere di vino mi ha colto una strana eccitazione. Bisogna che mi controlli. La domestica mi fissa attonita. La minestra è in tavola da un pezzo, e io resto seduto sulla grande sedia impagliata della cucina, a scarabocchiare, a fumare, ad allungare sporadici calci al cane che domanda una carezza. Per prima cosa devo restare solo. Non so spiegare perché. Stasera non potrei sopportare la presenza di un altro essere umano in casa. Voglio soltanto fantasmi… Non ho fame; dico a Louise di sparecchiare e andarsene. Lei chiude il pollaio. Quanti rumori familiari… Le imposte si accostano con un lamento, il saliscendi stride, il secchio cala con lunghi sospiri nel pozzo, perché la bottiglia di bianco e il panetto di burro si conservino sino a domani nell’acqua fredda. Io allontano la bottiglia che mi è rimasta accanto.

  Appena l’ho scansata ci ripenso, l’afferro e mi riempio il bicchiere: il vino rende i miei pensieri estremamente lucidi. E ora, Hélène, a noi due! E’ tipico di te, è tipico di una moglie virtuosa dire al marito che quanto accadde vent’anni fa è stato un semplice momento di follia.

  Andiamo! Un momento di follia! Io dico invece che soltanto allora hai vissuto, e da lì in poi ti sei limitata a fingere, a compiere i gesti quotidiani, ma il gusto autentico, quello che si assapora una volta soltanto, – pensa all’aroma fruttato delle labbra giovani -, lo hai conosciuto solo grazie a me. «Povero vecchio Silvio, amico caro, povero Silvio nella sua tana». Davvero mi avevi dimenticato? Per la verità, anch’io ti avevo dimenticata. Per ritrovarti mi ci sono volute le parole della ragazza, la disperazione e la sterile vergogna della povera Colette, ieri, e poi, soprattutto, il troppo vino. Ma poiché ora sei qui, stai certa che non mollerò facilmente la presa. Da me udrai la verità, come avvenne quando fui il primo a rivelarti quanto fosse bello il tuo corpo e quale meravigliosa fonte di gioia potesse essere per te.

  (Tu non volevi, all’epoca eri timida e casta… Un bacio e nulla più… Alla fine però hai ceduto, e che amante sei stata). E quanto ci amavamo… Perché capisci, è davvero comodo dire: «E’ stato un attimo di smarrimento, poche settimane di follia, inorridisco al pensiero». Non potrai comunque cancellare la verità, e la verità è che noi due ci siamo amati. Mi hai amato al punto da dimenticarti persino dell’esistenza di François, e da acconsentire a qualunque cosa pur di non perdermi. E che dire dell’onesta espressione di poco fa sul tuo viso di donna ormai anziana, di brava madre di famiglia, e dell’aria sconvolta che avevi quando hai saputo che tua figlia Colette in assenza del marito faceva entrare un uomo in casa sua, nell’idilliaco Moulin-Neuf! E tu, allora?

  E’ evidente da chi ha preso, tua figlia! E ha preso da noi anche l’altra. Loro sono esseri viventi, mentre noi siamo morti da vent’anni, perché abbiamo cessato di amare: ecco la verità. Non verrai a raccontarmi che ami François, vero? Certo, è il tuo grande amico, il tuo sposo, siete abituati a stare insieme. Potreste vivere come fratello e sorella. Anzi, dalla nascita di Loulou avete senz’altro vissuto così; ma tu non hai mai amato lui, hai amato solo me. Avanti, ascolta, vieni qui accanto a me, ricordati! Sei diventata un’ipocrita? No, è proprio come pensavo, sei un’altra, com’è che hai detto?… A vent’anni qualcuno fa irruzione nelle nostre vite. Sì, uno sconosciuto, esuberante e alato, radioso, che ci accende il sangue, ci devasta la vita e se ne va, svanisce. Ma io voglio farlo rivivere, quello sconosciuto. Ascoltalo.

  Guardalo. Non lo riconosci? Ricordi il vasto corridoio bianco e freddo, il tuo vecchio marito (non François, ma il primo, morto da tanto tempo e il cui nome ormai non viene più pronunciato) nel suo letto, con la porta della camera socchiusa perché era geloso e diffidente, e io e te che ci baciavamo, e l’ombra enorme proiettata dalla luce della lampada sul soffitto, l’ombra che a volte rivedo in sogno, che credevamo fosse me e te insieme? In realtà non era nessuno di noi due, ma il volto dello sconosciuto, simile a noi, diverso da noi e scomparso da così tanto tempo! Hélène, amica mia, ti ricordi il giorno in cui ci siamo incontrati? François ti ha conosciuta da ragazzina. Quando Colette era fidanzata e siete venuti a bere il punch da me, lui ha parlato del vostro passato: non mi riguarda. Io non ti ho conosciuta da bambina, ma quando eri già donna, legata a un marito anziano, in disperata attesa che morisse per sposare François. All’epoca lui era lontano, all’estero.
  Aveva un impiego da lettore di francese in un’università della Boemia.
  Io ero tornato da un lungo viaggio. Tu eri giovane e bella, e ti annoiavi. Aspetta un attimo. Mettiamo un po’ d’ordine tra i ricordi.


  Il primo marito di Hélène era un Montrifaut, cugino di mia madre. Quando si sono sposati io vivevo in Africa. Accadde prima della guerra del 1914. All’epoca della mia partenza Hélène era ancora una bambina. Eppure ricordo che quando mia madre mi informò del matrimonio – la cara donna mi scriveva ogni settimana una sorta di cronaca basata interamente su fatti e persone del paese, senz’altro allo scopo di risvegliare in me un anelito di nostalgia e il desiderio di fare ritorno in patria – pensai a lungo a quella ragazzina semisconosciuta. Rivedo la notte afosa, la capanna, la lampada antivento che si consumava in un angolo, le lucertole a caccia di insetti sulle pareti spoglie, Fife, la mia amante negra, con il suo turbante verde sul capo. Leggevo la lettera di mia madre e fantasticavo su quell’unione così mal assortita; d’un tratto esclamai ad alta voce: «Che peccato». Benché prevedere il futuro non sia possibile, credo che qualche volta sentimenti di straordinaria intensità ci siano annunciati con mesi, anni di anticipo da uno strano fremito del cuore. Il senso di lugubre tristezza che ho sempre avvertito nelle stazioni al calare della notte, per esempio, l’ho capito, o meglio l’ho riconosciuto, solo anni dopo, durante la guerra, presso gli scali di smistamento in cui quand’ero soldato aspettavo il treno che mi avrebbe condotto al fronte. Allo stesso modo, diversi anni prima di entrare nella mia vita l’amore mi è passato sul cuore come un soffio. Quella notte in Africa ero tormentato dal caldo, dalla sete, da attacchi di febbre e sonnolenza; quando mi addormentai sognai di essere insieme a una donna, una francese, una ragazza del mio paese. Ogni volta che mi avvicinavo, lei scappava. Tendevo le braccia, e per un attimo sfioravo le sue fresche guance coperte di lacrime. Mi chiedevo: «Perché mai questa ragazza sta piangendo? Perché non mi permette di baciarla?».

  Volevo stringerla a me; lei spariva, e io la cercavo in mezzo a una folla, la stessa che riempie le chiese di provincia la domenica: una frotta di contadini vestiti di larghi camiciotti neri. Ricordo persino questo dettaglio: un forte vento, proveniente da chissà dove, gonfiava quei camiciotti come fossero vele. Quando mi svegliai, sebbene in sogno il viso della giovane fosse rimasto celato, mi dissi: «To’, ho sognato la piccola Hélène, che ha appena sposato Montrifaut». Due anni dopo feci finalmente ritorno in Francia. Mia madre sarebbe riuscita a tenermi con sé, se solo mi avesse lasciato vivere come desideravo, di giorno nei boschi e la sera in sua compagnia. Ma naturalmente voleva che trovassi moglie. Nei nostri paesi i matrimoni si combinano nel corso di conviti solenni a cui sono invitate tutte le ragazze in età da marito. Gli uomini si presentano avendo ben chiaro in testa il conteggio di doti e future eredità, come quando si partecipa a un’asta conoscendo in anticipo il prezzo di vendita di ogni oggetto; ma in entrambi i casi non è possibile prevedere quale tetto esso toccherà. Pranzi della mia terra!

  La zuppa è così densa che il cucchiaio sta in piedi da solo; il luccio fornito dallo stagno di casa è enorme e ha carni belle grasse, ma talmente piene di lische che si ha l’impressione di tenere in bocca un fascio di spine. Per giunta, nessuno proferisce parola. Una fila di colli larghi, chini in avanti, inghiottono lentamente, come buoi nella stalla. Dopo il luccio è la volta del primo tra i piatti di carne, in genere un’oca arrosto; ne segue un secondo, stavolta cucinato in umido, odoroso di erbe e di vino. E per finire, dopo i formaggi, che tutti mangiano servendosi della punta del coltello, una torta di mele o di ciliegie, secondo la stagione. A questo punto non resta che entrare nel salotto e scegliere, nel cerchio di ragazze vestite di rosa (prima della guerra tutte le ragazze nubili indossavano abiti di quel colore, dal rosa pallido dei confetti a quello carico del prosciutto affettato), ciascuna con un piccolo medaglione d’oro al collo, i capelli raccolti in uno chignon sulla nuca, i guanti di bavella e le mani arrossate, la compagna di tutta la vita. Tra loro c’era Cécile Coudray, all’epoca già sui trentadue o trentatré anni, ma ancora costretta a partecipare a quel rituale, nella speranza che trovasse marito, bardata con la rosea divisa delle vergini: una ragazza triste, spenta e avvizzita, con le labbra strette, seduta non lontano dalla giovane sorellastra, che era invece sposata e felice. La prima sera che vidi Hélène indossava un abito di velluto rosso, il che all’epoca e in quell’ambiente costituiva un’audacia; era una giovane donna dai capelli scuri… Ecco: mi piacerebbe descriverla, e non ci riesco. E’ probabile che sin dal primo istante io l’abbia guardata troppo da vicino, come sempre avviene con le cose che si desiderano molto: sapreste dire che forma e colore ha il frutto che state addentando? Quando si ama una donna come io ho amato lei, si ha l’impressione di averla vista sin dal primo giorno alla distanza di un bacio. Occhi neri, pelle chiara, abito rosso di velluto, aria ardente, allegra e tormentata a un tempo, con l’inconfondibile espressione della giovinezza, colma di sfida, irrequietezza e slancio… Ricordo… Suo marito, mio cugino, doveva avere l’età che aveva il vecchio Declos quando è morto, ma non era un contadino: aveva fatto il notaio a Dijon, era ricco; qualche mese prima del matrimonio aveva ceduto la carica e comprato la casa che Hélène ha poi ereditato e dove ora vive col secondo marito e i figli. Era un vecchio alto, canuto, fragile, diafano; a quanto mi aveva riferito mia madre, era stato un uomo molto affascinante, noto per le sue conquiste femminili. Consentiva a stento alla giovane moglie di separarsi da lui: non appena lei si allontanava, lui chiamava: «Hélène» con il tono lieve di un sospiro; al che lei… Ah, quel gesto spazientito, quelle spalle ancora esili percorse da un brusco sussulto, come un puledro a cui si tocchi il manto con la punta del frustino… Penso che lui la richiamasse in quel modo proprio per godersi quel gesto di stizza e per il piacere di vederla obbedire. La guardai e mi ricordai il sogno. All’epoca ero giovane.

  Chissà se il viso dell’uomo che ero è ancora impresso nei recessi della memoria di qualcuno? Hélène, di sicuro, l’ha scordato. Ma forse una delle ragazze vestite di rosa, divenuta una vecchia signora senza avermi più rivisto, si rammenta di quel ragazzo magro, dalla pelle bruciata dal sole, con i baffetti neri e i denti appuntiti. Una volta ho parlato a Colette dei miei baffi a manubrio per farla ridere. Non ero affatto il classico giovane del 1910, con la riga in mezzo e i capelli impomatati dal barbiere come fossero scolpiti. Ero più dinamico, forte, allegro, temerario dei giovani d’oggi. Marc Ohnet assomiglia un po’ a quel ragazzo. Anch’io, come lui, non brillavo per eccesso di virtù. Sarei stato capace di buttare nel fiume un marito geloso, così come di bere, di corteggiare la moglie di un altro, di fare a botte, di sopportare durissime fatiche e climi estremi. Ero giovane. Ecco dunque il nostro primo incontro: un salotto di provincia; un grande pianoforte aperto a metà, con i tasti in vista. Una ragazza vestita di rosa salmone – Cécile Coudray – che canta Aujourd’hui plus qu’hier et bien moins que de moins.
  Una sonnacchiosa famiglia di provincia; che fatica a digerire l’oca arrosto e la lepre in salmì; e accanto a me la donna vestita di rosso, talmente vicina che mi basterebbe allungare un braccio per toccarla, così vicina che sento il profumo delicato e fresco della sua pelle; così vicina eppure così lontana.
Quella sera tornai a casa col fermo proposito di rivedere Hélène e con una salda strategia di seduzione: lei era bella, aveva vent’anni e un marito anziano, – non poteva resistermi a lungo. Immaginai incontri in un primo tempo innocenti, seguiti da convegni più furtivi e colpevoli, fino a una tresca destinata a concludersi nel giro di pochi mesi, con la mia partenza. A distanza di molti anni, è sorprendente pensare che il nostro legame avrebbe assunto proprio la forma che io avevo grossolanamente plasmato con i miei desideri e i miei sogni. Allora non potevo prevedere, tuttavia, quale fiamma celasse, né che le ceneri, ancora calde dopo molti anni, avrebbero continuato a incendiarmi il cuore. Che cosa strana un evento che obbedisce ai nostri desideri!

  Ricordo un gioco che mi piaceva fare da bambino, in spiaggia, e che prefigurava la mia intera esistenza: con l’alta marea, scavavo nella sabbia un piccolo fossato, e a un tratto il mare inondava il percorso che avevo tracciato, con una veemenza tale da distruggere al suo passaggio i miei castelli di ciottoli e le mie dighe di fango; abbatteva e devastava ogni cosa, quindi spariva, lasciandomi amareggiato e nell’impossibilità di lamentarmi, perché ero stato io stesso a invocare la catastrofe. Accade così con l’amore. Gli si fanno dei cenni di richiamo, gli si spiana la strada. E l’ondata, così diversa da come ce l’aspettavamo, amara e gelida, si abbatte sul nostro cuore. Decisi di provare a incontrare Hélène in casa del marito. Cercai un pretesto, e alla fine mi venne in mente che nel suo giardino crescevano delle rose stupende, rosso cremisi, piene di vigore: una qualità dal gambo lunghissimo, con spine aguzze e dure come l’acciaio, quasi priva di profumo, ma dall’aspetto forte e popolano, e la stessa aria carnosa e smagliante delle guance di una bella contadina. Mi inventai una storiella: volevo fare una sorpresa a mia madre e ordinarle in città dei rosai simili a quelli. Mi permisi di recarmi da Hélène per chiederne il nome esatto. Lei mi ricevette. Era a capo scoperto, sotto un sole abbagliante, e aveva in mano le cesoie. Quante volte l’ho vista così. La sua bellezza è ancora oggi quella di un pesco cresciuto all’aria aperta: una pelle dalla grana delicata, che quasi non conosce belletto, dorata dall’aria e dal sole. Mi disse che il marito era malato: erano le prime avvisaglie della lunga malattia che si sarebbe trascinata per altri due anni prima di lasciarla vedova. Quando veniva colto da un attacco in presenza della giovane moglie (soffriva di asma, tipico morbo senile, e a ogni crisi rischiava di soffocare), il vecchio aveva la civetteria di chiudere la porta. In seguito, però, quando non fu più in grado di abbandonare il letto, pretendeva che lei gli fosse costantemente vicina.

  Ma nel periodo a cui mi riferisco Hélène era ancora libera di dirmi il nome delle sue rose e di accogliermi in un salone dalle imposte appena accostate, dove un’ape ronzava sopra un mazzo di fiori. Ricordo che già allora in casa aleggiava un tenue profumo di cera data di fresco, di lavanda e di marmellata messa a cuocere nei pentoloni.

   Chiesi il permesso di rivederla. La rividi, una, due, dieci volte. Le feci la posta all’entrata del paese, la domenica all’uscita della messa, in riva al fiume, nel bosco, in quel Moulin-Neuf in cui Colette, anni dopo… Lei se n’è dimenticata. Moulin-Neuf non era ancora stato restaurato. A dispetto del nome, era vecchio e tetro, e il rombo del fiume lo avvolgeva tutto: i suoi muri cadenti hanno spesso assistito alle nostre visite alla mugnaia, quando tornavamo da Coudray.

   Pochi giorni dopo la mia prima visita, infatti, la matrigna di Hélène morì. Donna di estrema avarizia, non aveva voluto rinunciare a un cavallo che le avevano venduto a basso prezzo: l’animale, troppo giovane per essere aggiogato, rovesciò in un fosso il calesse che lei stessa guidava verso casa al ritorno dalla chiesa. L’incidente procurò a Cécile ferite che le deturparono il volto; la madre morì sul colpo, fratturandosi il cranio. Cécile ricevette in eredità la piccola proprietà di Coudray e una modesta rendita. Era sempre stata d’indole selvatica e schiva; la ferita che l’aveva sfigurata diede il colpo di grazia alla sua già scarsa fiducia in se stessa: non volle più vedere nessuno e cominciò a esser convinta che tutti si burlassero di lei. Nel giro di pochi mesi si trasformò nella creatura bizzarra che conobbi quando era ormai prossima alla fine: una donna smunta, claudicante, che continuava a voltarsi a destra e a sinistra, come divorata dall’ansia, con movimenti bruschi, a scatti, simili a quelli di un vecchio uccello.

  Quando seppi che Hélène andava spesso a trovare la sorellastra a Coudray, iniziai dunque a recarmi dalla brava Cécile quasi ogni giorno, con una scusa qualunque; dopo riaccompagnavo Hélène al limitare del bosco. Un giorno, vedendo che guardavo l’orologio a pendolo e tentavo di prolungare la visita, Cécile mi disse: «Ormai Hélène non verrà più». Io protestai, dissi che Hélène non c’entrava… Cécile si alzò, attraversò la stanza e con gesto meccanico passò un dito sullo schienale intagliato di una poltrona controllando un’eventuale traccia di polvere (sua madre l’aveva addestrata a tutte le faccende domestiche, e queste erano diventate per lei un assillo perpetuo: non faceva che aggirarsi per la stanza con aria inquieta, sistemando una tenda, alitando su uno specchio appannato, raddrizzando il gambo di un fiore, sempre voltando ansiosamente la testa da una parte e dall’altra, come se si aspettasse di vedere la madre acquattata nell’ombra a spiarla). Con voce malferma mi disse: «Signor Sylvestre, nessuno è mai venuto a casa mia per me… Prima dei diciassette anni non l’avevo mai notato. Poi cominciarono a invitare dei ragazzi. Alcuni venivano per la domestica, altri per la figlia del giardiniere, che era bionda e graziosa, e quando Hélène è cresciuta, per lei. E ancora così. Non mi stupisce. Però non voglio essere presa in giro. Ditemi semplicemente che desiderate vedere Hélène, e sarò io stessa a segnalarvi il giorno e l’ora in cui aspetto una sua visita». Dalle sue parole trapelava una sorta di passione repressa, che stringeva il cuore. «Volete bene a vostra sorella?» le chiesi. «Non è mia sorella. Per me è un’estranea, però la conosco sin da quand’era ancora piccola e le voglio bene, sì, è vero. D’altronde è infelice quanto me» aggiunse, con una sfumatura di cupa soddisfazione. «A ciascuno le sue pene». «Vi prego, non pensate che Hélène sia al corrente… Sarei estremamente addolorato se voi, Cécile, sospettaste una qualsivoglia complicità da parte sua…». La donna scosse il capo: «Hélène è una donna fedele» disse. «Sul serio? Un marito così anziano non può ragionevolmente sperare in una fedeltà che, viste le circostanze, sarebbe pressoché mostruosa» dissi io, accalorandomi. «Lei havent’anni e lui più di sessanta. Una simile unione può nascere solo dalla disperazione». «Ed è proprio così, in effetti. Sapete, Hélène era una figlia di primo letto, e perciò mia madre…». «Lo so; ma, in una situazione come questa, pensate davvero che si possa parlare di fedeltà?». La zitella mi lanciò una rapida occhiata: «Non ho mai detto che sia il marito quello a cui si mantiene fedele». «Come? E allora a chi?». «Dovete chiederlo a lei». Riprese a camminare per il salotto di Coudray a passo incerto, sbattendo contro i mobili come un uccello notturno nel chiuso di una stanza. Ora che ci penso, e rivedendo l’espressione che aveva in quel momento, le parole di Brigitte si tingono di una luce sulfurea, sinistra, come se mi si rivelasse a un tratto l’anima dell’anziana signorina. Non ha mai saputo perdonare a Hélène l’essere stata più amata di lei. Mi fa venire in mente una frase atroce pronunciata da una mia parente, la quale aveva preso sotto la sua protezione una povera donna di campagna; le portava provviste, scarpe, dolci, giocattoli per i suoi bambini, finché un giorno la donna, che aveva perso in guerra il primo marito, le confidò di essere sul punto di risposarsi con un bravo e bel ragazzo, povero quanto lei. La benefattrice interruppe immediatamente le visite. Qualche tempo dopo, allorché la donna, incontrandola, le avanzò un mite rimprovero («La Signorina si è dimenticata di me»), la mia parente rispose in tono secco: «Mia povera Jeanne, non sapevo che foste felice». Cécile Coudray, che quando ha visto Hélène in una situazione disperata le ha salvato l’onore e forse la vita, non ce l’ha mai fatta a perdonare alla sorellastra la sua felicità. E’ umano. Pieno d’angoscia, supplicai: «A che vi riferite?». Ma la vecchia cornacchia si limitò a scuotere davanti a me le sue ali scure. Portava ancora il lutto per la madre, e veli neri le svolazzavano attorno. Presi congedo da Cécile più innamorato che mai.

  Quel po’ di riserbo che avevo mantenuto con Hélène venne meno: presi a farle la corte… Oh, come si faceva a quei tempi, con grande dolcezza e pudore. Niente dichiarazioni brutali, come quelle dei giovani d’oggi.

  Suppongo che Marc Ohnet ne riderebbe. Eppure, non c’era nulla di diverso, in fondo, il desiderio era lo stesso… e identico era l’amore - un’onda impetuosa, divorante. Hélène mi ascoltò con una mesta e profonda serietà, poi disse: «Cécile vi ha detto il vero. Amo qualcuno».

  A quel punto mi raccontò del suo incontro con François, di come lui l’amasse da quando era poco più di una bambina, della partenza di lui, della propria infelice situazione familiare, e per finire di quel matrimonio con un vecchio, seguito dal ritorno di François. Non avevano voluto ingannare l’anziano consorte, e si erano separati. «E adesso state aspettando che vostro marito muoia?» le chiesi. Impallidì appena, poi scosse la testa: «Ha quarant’anni più di me» considerò pacatamente.

  «Sarebbe ridicolo pretendere che io lo ami. Ma non mi auguro la sua morte. Lo curo come meglio posso. Per lui io sono…». Ebbe un attimo di esitazione. «Un’amica, una figlia, un’infermiera… Di certo non una donna. Non sua moglie. Voglio comunque essergli fedele, non solo nel corpo, ma anche nell’anima. Ecco perché io e François ci siamo separati.

  Lui ha accettato un impiego all’estero. Non ci scriviamo nemmeno. Io resto qui, a compiere il mio dovere fino in fondo. Se mio marito morirà, François aspetterà qualche mese prima di tornare. Faremo tutto con estrema discrezione. Non intendiamo dare scandalo. Lui tornerà, e ci sposeremo. Se invece mio marito dovesse vivere ancora molti anni, pazienza. La mia giovinezza passerà, e con essa ogni possibilità di essere felice, ma non avrò sulla coscienza un’azione infame. Per quanto riguarda voi…». «Per quanto riguarda me,» feci eco io «la cosa migliore che possa fare è andarmene il prima possibile». Hélène mi ripeté ciò che le donne sono solite dire in simili circostanze: che non dovevo avercela con lei, che non aveva voluto far la civetta con me, ma poiché si sentiva tanto sola ogni occasione di amicizia era per lei preziosa, che mi voleva come amico… Ma una sola cosa | mi importava, ed era che amava un altro, e io – ne soffrivo. Fu così che ebbe fine il corteggiamento.


  Era il 1912. Trascorsi altri due anni in Africa. Tornai in Francia pochi mesi prima della guerra. Mia madre era morta. Mio cugino Montrifaut era ancora in vita. Andai a trovarlo. Era molto malato e prossimo alla fine, o almeno era quanto ci si augurava: ormai lo sostenevano a forza di iniezioni, e lui era di una prepotenza insopportabile e aveva scatti di collera ai limiti della follia. «E’ infelice, e tormenta gli altri» diceva la gente. Tutti erano concordi nell’elogiare il comportamento di Hélène. «Non le resta più molto da patire, ormai…» mormoravano le signore in paese, con sospiri in cui alla pietà si mescolava l’invidia al pensiero dell’eredità. Io però venni a conoscenza di un dettaglio che il paese ignorava: il vecchio Montrifaut avrebbe lasciato alla moglie una fetta modesta del proprio patrimonio; il resto spettava alla famiglia di suo fratello. Hélène era al corrente di queste volontà, ma era (ed è tuttora) una persona naturalmente e profondamente disinteressata. Non sarebbe più lei se fosse capace di agire sulla spinta dell’interesse personale; ed è questo un tratto che contraddistingue anche François. Hélène sapeva che la sua devozione non sarebbe stata ricompensata, e proprio per questo sentiva l’esigenza di spingerla all’estremo. Aveva un gran bisogno di apparire degna di stima ai propri occhi. «Alla fin fine,» mi disse «è stato buono con me, nonostante tutto». L’infermo era soggetto a crisi d’asma sfiancanti; quando andai a trovarlo, però, lamentò soprattutto una feroce insonnia.

  Sedeva sul letto, nella sua stanza, in seguito trasformata in salotto.

  Secondo un’usanza ormai obsoleta, portava un foulard legato in testa; c’era un che di spaventoso e bizzarro in lui e nell’ombra che il suo grosso naso aquilino proiettava sulla parete. Sul comodino era accesa una piccola lampada. Con un tono di voce ormai ridotto a un soffio, Montrifaut mi disse che da due mesi non riusciva a chiudere occhio. Per consolarlo asserii che alla sua età non occorre dormire molto per mantenersi in forma, e che mia madre avrebbe vissuto più a lungo se non fosse stata soggetta a frequenti attacchi di sonnolenza durante i quali il sangue le saliva lentamente al cervello, il che aveva finito col provocarne la morte. «Sì, d’accordo, ma se ci riflettete… Due mesi senza dormire… E’ terribile, perché è come se la mia vita fosse raddoppiata». Io esclamai: «Come potete lamentarvene? A me non ne basterebbero dieci, di vite!». Era la verità. A quei tempi mi sentivo straordinariamente forte, con un corpo forgiato per durare cent’anni.

  Mentre pronunciavo quella frase guardai Hélène. Lei sospirò; un sospiro involontario, carico di significato. Era pallida e sciupata. In quei due anni si era imbruttita: vivendo perennemente confinata nella camera del malato, non camminava, né stava mai all’aria aperta – e si vedeva. Al mio apparire era rimasta calma e sorridente come di consueto, ma nello stringermi la mano e nel rivolgermi qualche banale frase di benvenuto la voce l’aveva tradita, c’era stata un’incrinatura improvvisa, un vuoto tra le parole amabili e vacue che andava pronunciando: il suo timbro aveva subito uno sbalzo repentino e profondo, come se il sangue le fosse affluito bruscamente al cuore, e nel risponderle avevo percepito nel mio tono la stessa alterazione. In piedi accanto all’ammalato, ci scambiammo uno sguardo: dal mio trapelava un malcelato trionfo, dal suo una sorta di costernazione. E quel sospiro!… Significava che mi capiva, che invidiava la mia libertà, e che anche lei, in circostanze differenti, si sarebbe augurata dieci vite da consumare sino all’ultima goccia; ma sapeva che quei giorni, quegli anni le erano sfuggiti, ed erano ormai persi per l’amore. Quando mi accompagnò alla porta le chiesi notizie di François. Hélène lanciò uno sguardo ansioso al letto del moribondo. «Non mi scrive mai» disse. «I vostri accordi sono ancora validi?». «Certo.

  François non cambia». Oggi mi domando fino a che punto avesse ragione.

  Che cosa faceva François, nella sua cittadina boema, in quella bella, torrida primavera? Non c’era, sul retroscena della sua vita, una graziosa contadina, una giovane servetta? In fondo eravamo tutti e tre giovani. E non sto parlando semplicemente delle esigenze della carne. E’ più complicato di così. La carne ci vuol poco a soddisfarla. E’ il cuore a essere insaziabile, il cuore che ha bisogno di amare, di disperarsi, di ardere di un fuoco qualunque… Ecco ciò che volevamo: bruciare, lasciarci consumare, divorare i nostri giorni come le fiamme divorano la foresta. Accadde di sera, durante la primavera del 1914, che fu la più bella in assoluto. Alle nostre spalle la porta era rimasta aperta e sulla parete vedevamo l’ombra di un grosso naso adunco. Stavamo in piedi nel corridoio bianco in cui tante volte, da allora, Hélène mi è comparsa davanti, con i bambini attaccati alla gonna e la sua voce cordiale e limpida che mi diceva:! «Caro Silvio, siete voi, venite dentro. Sono avanzati un uovo e una bistecca, volete mangiare?». Caro Silvio… quella sera non mi chiamava così; diceva solo: «Silvio,» (la parola stessa sembrava una carezza) «vi tratterrete a lungo al paese?». Non le risposi e chiesi invece, indicando l’ombra del malato: «E’ molto dura?».

  Ebbe un sussulto: «Abbastanza, sì, ma non voglio essere compatita». Io insistetti, spietato: «Ma lui morirà presto, e François tornerà». «Certo che tornerà,» rispose lei «ma avrebbe fatto meglio a non partire affatto». «Lo amate ancora?». Stavamo parlando in modo meccanico. Le nostre labbra si muovevano, ma non facevano altro che mentire. Soltanto i nostri occhi si interrogavano a vicenda, e si riconoscevano. Quando la strinsi tra le braccia, le nostre labbra furono finalmente sincere. Non dimenticherò mai quell’istante. E’ stato allora che sul muro intonacato di bianco ho visto l’ombra delle nostre teste unite. Lampade, lumi attenuati ovunque. In quel grande corridoio spoglio c’erano ovunque ombre che danzavano, oscillavano, si allontanavano. «Hélène,» chiamò il malato «Hélène». Non ci muovemmo. Sembrava che lei volesse bermi, succhiarmi il cuore. Quando la lasciai andare, l’amavo già di meno.