IL FREE SPEECH E IL PARADOSSO DELL'INTOLLERANZA
Carmelo Palma
Per capire quanto gli alti lai del circo Maga sulla fine del free speech non siano l’espressione di un rispettabile radicalismo libertario, ma un’impostura ideologica anti-illuminista, è sufficiente fare un banale esperimento mentale.
Si ipotizzi che uno degli scervellati “ragazzi orgogliosi”, che, dopo avere assaltato il Campidoglio nel 2021, sono stati nel 2025 graziati e riabilitati come eroi della patria – diciamo, per intenderci, un Jack lo Sciamano convertito alle filosofia politica fai-da-te – inizi a denunciare la tirannia di repressioni e divieti contro il free speech islamista nei media e nelle università americane, usando come copione le intemerate del vice presidente JD Vance o del segretario di Stato Marco Rubio in difesa dell’AFD e di tutto i nazistume est europeo al servizio congiunto del Cremlino e della Casa Bianca.
Se si possono propalare i nuovi Protocolli dei Savi da parte dei nostalgici della Wehrmacht benedetti dal voto popolare, perché – potrebbe obiettare Jack il Filosofo – non si deve per coerenza e giustizia riconoscere un uguale diritto ai seguaci democratici di Hamas, finché non mettono mano alla pistola o al coltello contro gli ebrei?
La conseguenza di questa ardita sfida intellettuale sarebbe l’apertura di un interessante dibattito accademico sui limiti dell’intransigenza libertarian o l’espulsione con indegnità del rinnegato non solo dalle fila del superpartito trumpiano, ma dal territorio della nazione e magari il suo temporaneo o definitivo parcheggio in una prigione del Salvador per sospetta attività terrorista, insieme ad Kilmar Abrego Garcia (cfr. qui) e ad altre migliaia di cittadini e non cittadini americani deportati per decisione politica, anche contro le decisioni delle corti giudiziarie?
Ovviamente, la seconda che ho detto. Insomma, il modo peggiore per affrontare il dibattito sui limiti del free speech e sulla disciplina del discorso pubblico democratico è quello di accettare, contro ogni evidenza, che si tratti di un dibattito serio, cioè che oggi abbia davvero a che fare con i rovelli intellettuali di improvvisati nouveaux philosophes conservatori e non sia invece una banalissima, anche se potenzialmente esiziale, battaglia per l’egemonia culturale da parte dei pupari russo-americani del disordine globale e per la distruzione dell’ordine politico liberale, attraverso il sostanziale pervertimento di tutti i suoi presupposti logici e morali, dal principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge a quello della divisione e limitazione dei poteri.
La questione teorica sui limiti del free speech, racchiusa nel famoso paradosso della tolleranza di Popper, non ha, come lo stesso filosofo austriaco ammetteva, una soluzione puramente teorica: proclamando il diritto a porre limiti all’intolleranza, cioè riconoscendo la legittimità del fine, non si stabilisce nulla in ordine all’appropriatezza del mezzo nel caso concreto di cui si tratta. Popper stesso consigliava un uso molto sorvegliato delle maniere forti, perché dovendosi giudicare una scelta dalle sue conseguenze, occorre sempre domandarsi se gli effetti collaterali di una decisione ne sopravanzino i benefici. In termini etico-politici non è di per sé buona una decisione che persegue un fine legittimo, ma quella che ne avvicina o almeno non ne allontana il raggiungimento.
Guardando ai risultati delle presidenziali rumene, si potrebbe pensare che l’esclusione di Georgescu abbia rappresentato la spinta fondamentale per il successo parziale di Simion. D’altra parte, se si guarda alla scelta di Biden e dei democratici del 2020, cioè di voltare pagina senza usare tutti i mezzi possibili per neutralizzare il trumpismo e confidando nella sua estinzione democratica, abbiamo anche la dimostrazione di quanto possa essere imprudente la negligenza sulla radice del male.
Rispetto a quando venne formulato il paradosso della tolleranza – era il 1945 – c’è stato un vero e proprio capovolgimento dei rapporti di forza tra la dimensione del “mediatico” e quella del “politico”. La comunicazione di consumo è diventata fattore e strumento privilegiato dell’alienazione di massa, e si può dire che lo stesso Popper avesse previsto questa deriva con qualche anticipo ai tempi di “Cattiva maestra televisione” (1994).
La lotta all’intolleranza si è fatta sempre più impari perché l’ecosistema (scusando la parolaccia) comunicazionale offre un indubbio vantaggio competitivo ai fenomeni di iperpolarizzazione e iperestremizzazione del discorso pubblico. Sui social, per le caratteristiche del mezzo e dell’interazione tra il mezzo e l’utente, concepita per trasformarlo in un “mezzo del mezzo”, di fronte a qualunque fenomeno problematico o allarmante una teoria cospiratoria è naturalmente più persuasiva della più didascalica spiegazione razionale.
Una comunicazione dominata da media che parlano al cervello limbico più che a quello corticale, che sfuggono facilmente a qualunque regolamentazione legale, che hanno un’influenza diretta sulle strategie dei decisori politici e che sono talmente potenti da ordinare direttamente o determinare indirettamente anche le forme del discorso pubblico esterno alle piattaforme digitali sono un pericolo inedito per la democrazia liberale, che implica come presupposto una solida base di razionalità pubblica.
Quindi la questione da affrontare è concretamente molto più difficile di quanto non lo fosse alcuni decenni fa ed è maledettamente più complicato anche semplicemente trovare il bandolo della matassa. Paradossalmente, l’unica questione pacificamente risolta da tempo e mai rientrata in discussione è proprio quella che gli agenti del caos continuano a riproporre: difendere la democrazia liberale da istanze e infiltrazioni illiberali non sarà per caso un’intollerabile “censura”?