Byung-Chul Han
Recensione
Cos’è davvero la trasparenza in una società tecnologica e globale come la nostra? è un’opportunità, una necessità, un vantaggio sociale? o al contrario può essere una minaccia per il singolo individuo, con il pericolo di perdita parziale o addirittura totale della privacy?
Ma soprattutto dobbiamo chiederci: la nostra società va verso troppa o troppo poca trasparenza? Cerchiamo le risposte tenendo ben presenti le forze in gioco: i motori di ricerca sempre più monopolistici, i social network, gli open data, la raccolta di informazioni su di noi – per scopi commerciali e di controllo – attraverso il Web, le reti telefoniche, l’Internet delle cose.
Risposte certe e definitive ovviamente non ce ne sono. Le riflessioni proposte dal filosofo coreano Byung-Chul Han, sono ricche di punti di vista originali e di spunti di riflessione.
Egli offre infatti una visione ampia e decisamente fuori dal quel coro che spesso prende per buona l’equazione “massima trasparenza delle informazioni” uguale “massima civiltà e qualità della vita sociale”;
Mette quindi il focus sul drammatico conflitto tra necessità di sapere tutto di tutti per la sicurezza sociale e per l’eliminazione dei soprusi e dei conflitti d’interesse, e la necessità (il diritto) di conservare una propria sfera di intimità inviolabile da parte di chiunque sia cittadino di una società democratica o sedicente tale.
La trasparenza, in una qualunque società, è un bene o un male? Sicuramente non è solo né l’uno né l’altro. Ma come/dove si può trovare un punto di equilibrio che rispetti il diritto alla propria privacy e il diritto di sapere le cose che ci interessano, non solo riguardo i nostri “prossimi” (prossimi anche nello spazio virtuale, non solo in quello fisico), ma anche e soprattutto riguardo chi ci governa e amministra per noi il bene pubblico comune?
Byung-Chul Han risponde indirettamente a queste domande con diverse riflessioni.
Per prima cosa l’autore osserva che la natura stessa del linguaggio implica l’impossibilità di una totale trasparenza e della inevitabilità del nostro esistere “sull’orlo del caos”; e (a pag.11) cita von Humboldt: “Nessuno pensa, con una parola, precisamente ed esattamente la stessa cosa che pensa un altro, e l’ancor piccola diversità si trasmette, come un cerchio sull’acqua, in tutta la lingua. Ogni comprendere è perciò sempre, al contempo, un non-comprendere, ogni consentire in pensieri e sentimenti è, al contempo, un dissentire”. Detto in altre parole, potremmo chiosare che l’illusione della conoscenza puntuale di tutto, in particolare attraverso l’analisi dei big data oggi di gran moda, ci porta a un delirio di onniscienza, all’ennesimo peccato di superbia (ingenuo ma non innocuo) dell’uomo.
Ma c’è un altro elemento di cui bisogna tenere conto se si vuole ragionare sulla trasparenza: un eccesso di positività e di annullamento totale del negativo fanno perdere – secondo il filosofo coreano – lo spessore dialogico e la complessità dell’essere, creando nuovi problemi esistenziali, dando vita alla catena perversa “trasparenza > positività > pornografia”: “Giocare con l’ambiguità e l’ambivalenza, con il segreto e il mistero, accresce la tensione erotica. La trasparenza o l’univocità sarebbe la fine dell’eros, ovvero la pornografia. Non è un caso, quindi, che l’odierna società della trasparenza sia al tempo stesso una società pornografica. Anche la prassi della ‘post-privacy’, che in nome della trasparenza esige un illimitato e reciproco denudamento, è assolutamente nociva per il piacere” (pag. 31).
Quindi “La forte richiesta di trasparenza rinvia proprio al fatto che il fondamento morale della società è diventato fragile, che i valori morali come la sincerità o l’onestà divengono sempre più insignificanti. Al posto dell’istanza morale caduta in disgrazia, compare la trasparenza come nuovo imperativo sociale” (pag.80).
LA SOCIETÀ DELLA TRASPARENZA
La società del positivo
Nessun’altra parola d’ordine oggi domina il discorso pubblico quanto il termine “trasparenza”. Essa è enfaticamente invocata soprattutto in riferimento alla libertà d’informazione. L’onnipresente richiesta di trasparenza, che si radicalizza nella sua feticizzazione e totalizzazione, risale a un cambiamento di paradigma che non può essere circoscritto all’ambito della politica e dell’economia. La società della negatività cede, oggi, di fronte a una società nella quale la negatività è costantemente soppressa a vantaggio della positività. Perciò, la società della trasparenza si manifesta in primo luogo come società del positivo.
Le cose diventano trasparenti quando si liberano da ogni negatività, quando sono spianate e livellate, immesse senza opporre alcuna resistenza nei piatti flussi del capitale, della comunicazione e dell’informazione. Le azioni diventano trasparenti quando si rendono operazionali, quando si sottopongono a un processo di misurazione, tassazione e controllo. Il tempo diventa trasparente, quando è ridotto alla successione di un presente disponibile. Cosí anche il futuro è positivizzato nel presente ottimizzato. Il tempo trasparente è un tempo senza destino e senza eventi. Le immagini diventano trasparenti quando – liberate da ogni drammaturgia, da ogni coreografia e scenografia, da qualsiasi profondità ermeneutica, in definitiva da ogni senso – sono rese pornografiche. La pornografia è il contatto immediato tra immagine e occhio. Le cose diventano trasparenti quando rinnegano la propria singolarità e si esprimono interamente attraverso un prezzo. Il denaro, che rende ogni cosa equiparabile all’altra, abolisce ogni incommensurabilità, ogni singolarità delle cose. La società della trasparenza è un inferno dell’Uguale.
Chi riconduce la trasparenza unicamente alla corruzione e alla libertà d’informazione, ne misconosce la portata. La trasparenza è una coercizione sistemica che coinvolge tutti i processi sociali e li sottopone a una profonda mutazione. Il sistema sociale espone oggi tutti i suoi processi a un obbligo di trasparenza, al fine di standardizzarli e di accelerarli. La pressione dell’accelerazione va di pari passo con lo smantellamento della negatività. La comunicazione raggiunge la sua massima velocità là dove l’Uguale risponde all’Uguale, dove ha luogo una reazione a catena dell’Uguale. La negatività dell’alterità e dell’estraneità, o la resistenza dell’Altro, disturba e rallenta la piatta comunicazione dell’Uguale. La trasparenza stabilizza e accelera il sistema eliminando l’Altro o l’Estraneo. Questa coercizione sistemica rende la società della trasparenza una società uniformata. In ciò consiste il suo tratto totalitario: “Nuovo nome dell’uniformità: trasparenza”1.
Il linguaggio trasparente è un linguaggio formale, anzi puramente meccanico, operazionale, a cui manca ogni ambivalenza. Già Wilhelm von Humboldt richiama la fondamentale opacità che si trova in ogni linguaggio umano:
Nessuno pensa, con una parola, precisamente ed esattamente la stessa cosa che pensa un altro, e l’ancor piccola diversità si trasmette, come un cerchio sull’acqua, in tutta la lingua. Ogni comprendere è perciò sempre, al contempo, un non-comprendere, ogni consentire in pensieri e sentimenti è, al contempo, un dissentire2.
Un mondo che consistesse solo di informazioni e che definisse comunicazione la loro circolazione indisturbata, assomiglierebbe a una macchina. La società del positivo è dominata dalla “trasparenza e [dall’] oscenità dell’informazione in un universo privato di avvenimenti”3. L’obbligo di trasparenza riduce l’uomo a un elemento funzionale di un sistema. In ciò consiste la violenza della trasparenza.
L’anima umana ha palesemente bisogno di sfere nelle quali possa sostare in sé, senza lo sguardo dell’Altro: è dotata di impermeabilità. Un’illuminazione totale la incendierebbe e provocherebbe una particolare forma di burnout spirituale. Solo la macchina è trasparente. Spontaneità, evenemenzialità e libertà, che caratterizzano generalmente la vita, non ammettono trasparenza. Cosí scrive ancora Humboldt a proposito del linguaggio:
Giacché nell’uomo può insorgere qualcosa, di cui nessuna intelligenza è in grado di rinvenire la causa negli stati precedenti; e si misconoscerebbe […] proprio la verità storica della sua nascita e della sua trasformazione, se si volesse escludere la possibilità in essa di tali inspiegabili fenomeni4.
Anche l’ideologia della “post-privacy” è ingenua. In nome della trasparenza, esige una completa rinuncia alla sfera privata, che dovrebbe condurre a una comunicazione cristallina. Anch’essa incorre in molteplici errori. L’uomo non è mai trasparente a se stesso. Secondo Freud, l’Io nega proprio ciò che l’inconscio afferma e desidera illimitatamente. L’“Es” rimane largamente nascosto all’Io. Nella psiche umana si apre cosí una crepa, che non consente all’Io di coincidere con sé. Questa crepa fondamentale impedisce l’autotrasparenza. Anche tra le persone si apre una crepa: è impossibile, in questo modo, realizzare una trasparenza intersoggettiva, che non è neppure auspicabile. Proprio la mancanza di trasparenza dell’Altro, è ciò che mantiene in vita la relazione. Scrive Georg Simmel:
Il semplice fatto della conoscenza assoluta, dell’aver esaurito psicologicamente il contenuto della personalità, ci disinganna anche senza un’ebbrezza precedente, paralizza la vitalità delle relazioni […]. La profondità feconda delle relazioni che dietro a ogni elemento ultimo rilevato intravvede e onora ancora un altro elemento piú ultimo […] è soltanto la ricompensa di quella delicatezza e di quel dominio di sé che anche nel rapporto piú stretto, che coinvolge tutta la persona, rispetta ancora la proprietà privata interiore, la quale limita il diritto alla domanda con il diritto al segreto5.
All’obbligo di trasparenza manca proprio questa “delicatezza”, che non è altro che la delicatezza del rispetto per quell’alterità che non può essere completamente eliminata. Di fronte al pathos della trasparenza che lega la società odierna, bisognerebbe esercitarsi nel pathos della distanza. Distanza e pudore non si lasciano integrare nei circuiti accelerati del capitale, dell’informazione e della comunicazione. Cosí, tutti gli spazi riservati in cui ritirarsi sono eliminati in nome della trasparenza. Vengono illuminati e sfruttati. Il mondo diviene, in questo modo, nudo e senza pudore.
Anche l’autonomia dell’uno presuppone la libertà di non-comprendere dell’altro. Osserva Sennett: “Anziché un’uguaglianza di comprensione, un’uguaglianza trasparente; autonomia significa accettare dell’altro quello che tu non capisci, un’uguaglianza opaca”6. Un rapporto trasparente, inoltre, è una relazione morta, priva di ogni attrattiva, di ogni vitalità. Solo ciò che è morto è completamente trasparente. Un nuovo illuminismo consisterebbe nel riconoscere che esistono sfere positive, produttive dell’esserci umano e dell’esserciinsieme, che regolarmente l’obbligo di trasparenza annienta. Cosí scrive anche Nietzsche:
Il nuovo illuminismo. […] Non basta che tu ti renda conto dell’ignoranza nella quale vivono l’uomo e l’animale; è necessario che tu abbia oltre a ciò la volontà di ignorare e tu la apprenda accanto a quella conoscenza. Ti è necessario sapere che senza questo tipo di ignoranza la vita stessa sarebbe impossibile, che essa è una delle condizioni grazie a cui il vivente si conserva e cresce bene7.
Un aumento di informazioni non porta necessariamente a scelte migliori8. L’intuizione, per esempio, trascende le informazioni disponibili e segue una propria logica. A causa della crescente, e anzi esorbitante massa di informazioni, si atrofizza la capacità superiore di giudizio. Spesso un meno di sapere e di informazione implica un piú. Non di rado la negatività dell’omissione e della dimenticanza agisce in maniera produttiva. La società della trasparenza non tollera lacune né nell’informazione, né nella visione. Comunque, tanto il pensiero quanto l’ispirazione hanno bisogno di un vuoto. Del resto, la parola felicità [Glück] deriva da lacuna [Lück]9. Nell’altotedesco medio si dice ancora gelücke. Dunque, la società che non ammette piú alcuna negatività della lacuna è una società senza felicità. L’amore senza una lacuna nella visione è pornografia. E senza lacune nella conoscenza, il pensiero si riduce a calcolo.
La società del positivo si congeda sia dalla dialettica che dall’ermeneutica. La dialettica si fonda sulla negatività, infatti lo “spirito” hegeliano non volta le spalle al negativo, ma lo sopporta e si trattiene in esso. La negatività alimenta la “vita dello spirito”. L’Altro nel Medesimo, che produce una tensione negativa, mantiene vivo lo spirito. Per Hegel, lo spirito è “potenza” soltanto quando “guarda in faccia il negativo e soggiorna presso di esso”. Questo soggiornare è il “potere magico, che converte il negativo nell’essere”10. Chi, invece, si aggira soltanto nel positivo, è privo di spirito. Lo spirito è lento, perché soggiorna presso il negativo e lo adatta a sé. Il sistema della trasparenza abolisce ogni negatività per rendersi piú veloce. Il soggiornare nel negativo abdica alla corsa nel positivo.
La società del positivo non tollera neppure alcun sentimento negativo. Si disimpara, cosí, a rapportarsi a sofferenza e dolore, a dar loro una forma. Per Nietzsche, l’anima umana deve la sua profondità, la sua grandezza e la sua forza proprio al soggiornare presso il negativo. Anche lo spirito umano è una nascita dolorosa:
Quel tendersi dell’anima nella sventura, per cui si educa la sua forza […], la sua ingegnosità e valentia nel sopportare, nel perseverare, nell’interpretare, nell’utilizzare la sventura, e tutto quanto in profondità, mistero, maschera, spirito, astuzia, grandezza a essa toccò in dono – non lo ricevette forse in mezzo ai dolori e alla disciplina plasmatrice del grande dolore?11
La società del positivo consiste nell’organizzare in modo completamente nuovo l’anima umana. Nel corso della sua positivizzazione, anche l’amore si riduce a un accordo tra sentimenti piacevoli e stati di eccitazione privi di complessità e di conseguenze. Cosí Alain Badiou, nell’Elogio dell’amore, ricorda gli slogan del sito d’incontri per single Meetic: “Si può essere innamorati, senza innamorarsi! (sans tomber amoureux)”. Oppure: “È facilissimo essere innamorati, senza soffrire!”12. L’amore è addomesticato e positivizzato come forma di consumo e di comfort. Ogni ferita dev’essere evitata. Sofferenza e passione sono figure della negatività. Lasciano il posto, da un lato, al piacere privo di negatività; dall’altro, vengono rimpiazzate da disturbi psichici come l’esaurimento, la stanchezza e la depressione, che vanno addebitati all’eccesso di positività.
Anche la teoria è, in senso enfatico, una manifestazione della negatività. È una decisione, che stabilisce che cosa rientra in essa e cosa no. Come narrazione altamente selettiva, segue il sentiero della distinzione. A causa di questa negatività, la teoria è violenta. Essa è “fatta […] per impedire alle cose […] di toccarsi”, e per “distinguere di nuovo ciò che è stato confuso”13. Senza la negatività della distinzione si arriverebbe inevitabilmente alla proliferazione generalizzata e alla promiscuità delle cose. Sotto questo aspetto, la teoria è vicina alla cerimonia, che separa l’iniziato dal noniniziato. È un errore ritenere che la massa positiva di dati e di informazioni, oggi in mostruosa crescita, renda superflua la teoria e che il pareggio dei dati sostituisca i modelli. Come negatività, la teoria è stabilita prima dei dati e delle informazioni, prima ancora dei modelli. La scienza positiva basata sui dati non è la causa, bensí l’effetto dell’imminente fine della teoria in senso proprio. La teoria non si fa sostituire facilmente dalla scienza positiva. A questa manca la negatività della decisione, che stabilisce fin dall’inizio cosa è o deve essere. La teoria come negatività fa sí che la realtà stessa appaia sempre e repentinamente in modo diverso, sotto un’altra luce.
La politica è un’azione strategica. Già per questo motivo le appartiene una sfera segreta. Una trasparenza totale paralizza la politica. Il “postulato della pubblicità,” sostiene Carl Schmitt,
ha il suo oppositore specifico nella rappresentazione secondo cui a ogni politica appartengono degli arcana, dei segreti politico-tecnici, che in effetti sono altrettanto necessari all’assolutismo quanto i segreti negli affari e nell’impresa per una vita economica fondata sulla proprietà privata e la concorrenza14.
Solo la politica come teatrocrazia può sopravvivere senza segreti. Qui, l’azione politica cede il passo alla pura messa in scena. La “platea di Papageni”, secondo Schmitt, porta alla scomparsa dell’arcano:
Il XVIII secolo era ancora ben sicuro di sé, e aveva ancora il coraggio di far valere un concetto aristocratico di “segreto”. In una società che non ha piú questo coraggio non ci saranno piú arcana, né gerarchia, né diplomazia segreta: soprattutto, non ci sarà piú politica, poiché ogni grande politica implica l’arcanum. Tutto si svolgerà davanti alle quinte (davanti a una platea di Papageni)15.
La fine del segreto sarebbe, perciò, la fine della politica. Cosí, Schmitt chiede alla politica piú “coraggio per il segreto”16.
Il Partito-Pirata, come partito della trasparenza, continua l’evoluzione verso la post-politica, che equivale a una de-politicizzazione. Si tratta di un anti-partito, anzi del primo partito senza colore. La trasparenza non ha colore, i colori sono ammessi non in qualità di ideologie, ma soltanto come opinioni libere da ideo-logie. Le opinioni non comportano conseguenze. Non sono radicali e penetranti come le ideologie. Alle opinioni manca una negatività che sia efficace. Cosí, l’odierna società dell’opinione lascia intatto il già-esistente. La flessibilità della “liquid democracy” consiste in questo: nel cambiare colore a seconda della situazione. Il Partito-Pirata è un partito d’opinione senza colore. La politica cede il passo all’amministrazione dei bisogni sociali che lascia immutata la cornice dei rapporti socio-economici esistenti e in essi resta ferma. Come anti-partito, il Partito-Pirata non è nella posizione di articolare una volontà politica e di produrre nuove coordinate sociali.
L’obbligo di trasparenza stabilizza il sistema esistente in modo estremamente efficace. La trasparenza è in sé positiva, in essa non alberga quella negatività, che potrebbe mettere in discussione il sistema politico-economico esistente. È cieca verso ciò che è esterno al sistema: conferma e ottimizza solo il giàesistente. Perciò, la società della trasparenza va di pari passo con la post-politica: completamente trasparente è solo lo spazio depoliticizzato. La politica senza referente degenera in referendum.
Il giudizio comune della società del positivo dice “mi piace”. È indicativo che Facebook si sia rifiutato, conseguentemente, di introdurre un pulsante per il “dislike”. La società positiva evita ogni forma di negatività, poiché provocherebbe l’arresto della comunicazione. Il suo valore si misura unicamente dalla quantità e dalla velocità dello scambio d’informazioni. La massa di comunicazione ne incrementa anche il valore economico. I giudizi negativi limitano la comunicazione. L’informazione in rete segue piú velocemente il “like” che il “dislike”. Soprattutto, la negatività del rifiuto non può essere valorizzata economicamente.
Trasparenza e verità non sono identiche. Finché si pone e si impone, svelando tutto l’altro come falso, la verità è una negatività. Piú informazione o soltanto un accumulo di informazioni non producono di per sé una verità. Manca loro la direzione, vale a dire il senso. Proprio a causa della mancanza di negatività del vero, si arriva alla proliferazione e alla massificazione del positivo. L’iper-informazione e l’iper-comunicazione dimostrano proprio la mancanza di verità, anzi la mancanza d’essere. Piú informazione, piú comunicazione non eliminano la fondamentale opacità del tutto. Piuttosto, la accrescono.
La società dell’esposizione
Per le cose che stanno “al servizio del culto”, secondo Walter Benjamin, “il fatto che esistano” è “piú importante del fatto che vengano viste”17. Il loro “valore culturale” dipende dalla loro esistenza e non dalla loro esposizione. La prassi di rinchiuderle in un luogo inaccessibile, di privarle cosí di ogni visibilità, accresce il loro valore cultuale. Cosí, alcune immagini di Madonne restano coperte quasi tutto l’anno e alcune statue di divinità nella cella sono accessibili solo ai sacerdoti. La negatività della separazione (secret, secretus), della delimitazione e dell’isolamento è costitutiva per il valore cultuale. Nella società del positivo, in cui le cose, divenute nient’altro che merci, devono essere esposte per essere, il loro valore cultuale svanisce a vantaggio del valore di esposizione. Rispetto a quest’ultimo, il puro esserci è del tutto insignificante. Tutto ciò che è fermo in se stesso, che soggiorna presso di sé, non ha piú alcun valore. Il valore delle cose aumenta soltanto se vengono viste. L’obbligo di esposizione, che consegna tutto alla visibilità, porta l’aura come “apparizione di una distanza” a sparire completamente. Il valore di esposizione caratterizza il capitalismo compiuto e non si lascia ricondurre alla contrapposizione marxiana tra valore d’uso e valore di scambio. Non è valore d’uso perché è sottratto alla sfera dell’utilizzo, e non è valore di scambio perché non rispecchia alcuna forza lavoro. Il valore di esposizione si fonda unicamente sul fatto di produrre interesse.
Da un lato, Benjamin fa notare che nella fotografia il valore di esposizione sopprime completamente il valore cultuale. Dall’altro, egli osserva che il valore cultuale non retrocede senza opporre resistenza, ma occupa un’ultima trincea – vale a dire, il “volto umano”. Non a caso, il ritratto sta al centro delle prime fotografie. Il valore cultuale delle immagini troverebbe “l’ultimo rifugio” nel “culto del ricordo dei cari lontani o defunti”18. Nell’“espressione fuggevole di un volto umano”, dalle prime fotografie l’aura emanerebbe per l’ultima volta. È questo che ne costituirebbe la “malinconica e incomparabile bellezza”. Dove, invece, l’uomo scompare dalla fotografia, lí per la prima volta il valore di esposizione si opporrebbe al superiore valore cultuale.
Da molto tempo, oggi, il “volto umano” con il suo valore cultuale è scomparso dalla fotografia. L’epoca di Facebook e di Photoshop fa del “volto dell’uomo” una faccia (face), che si dissolve completamente nel suo valore di esposizione. La faccia è il viso esposto senza alcuna “aura dello sguardo”19, ed è la forma-merce del “volto umano”. La faccia (face) come superficie (surface) è piú trasparente di quel viso o di quel volto, che per Emmanuel Lévinas rappresenta un luogo eccelso, nel quale irrompe la trascendenza dell’Altro. La trasparenza è un antagonista della trascendenza. La faccia (face) abita l’immanenza dell’Uguale.
Nella fotografia digitale ogni negatività è cancellata. Non ha bisogno né della camera oscura, né dello sviluppo. Nessun negativo la precede: è un puro positivo. Il divenire, l’invecchiare, il morire sono cancellati:
Non solo essa (la foto) condivide la sorte della carta (è deperibile), ma, anche se è fissata su dei supporti piú solidi, è pur sempre mortale: come un organismo vivente, essa nasce dai granuli d’argento che germinano, fiorisce un attimo, poi subito invecchia. Attaccata dalla luce, dall’umidità, essa impallidisce, si attenua, svanisce20.
Roland Barthes associa alla fotografia una forma di vita, per la quale è costitutiva la negatività del tempo. Essa, però, è vincolata alle sue condizioni tecniche, in questo caso al suo essere analogica. La fotografia digitale coincide con una forma di vita totalmente diversa, che si svincola sempre piú dalla negatività. È una fotografia trasparente, senza nascita né morte, priva di destino e di eventi. Il destino non è trasparente. Alla fotografia trasparente manca la concentrazione semantica e temporale. In questo modo, non parla.
Il contenuto temporale del “cosí-è-stato” è, per Barthes, l’essenza della fotografia. La foto testimonia ciò che è stato. Per questo la sua disposizione fondamentale è il lutto. Per Barthes, la data è parte della foto, “perché induce a far mente locale, a considerare la vita, la morte, l’inesorabile estinguersi delle generazioni”21. La data assegna alla foto la mortalità, la caducità. Di una foto di André Kertész, Barthes osserva: “[…] è possibile che Ernest, scolaretto fotografato da Kertész nel 1931, viva ancora oggi (ma dove? Come? Che romanzo!)”22. L’odierna fotografia, del tutto satura di valore di esposizione, evoca una diversa temporalità. Essa è determinata dal presente privo di negatività, senza destino, che non tollera alcuna tensione narrativa, nessuna drammaticità da “romanzo”. La sua espressione non è romantica.
Nella società esposta, ogni soggetto è l’oggettopubblicitario di se stesso. Ogni cosa è valutata secondo il suo valore di esposizione. La società esposta è una società pornografica. Tutto è rivolto all’esterno, svelato, denudato, svestito ed esposto. L’eccesso di esposizione fa di ogni cosa un prodotto, che è “votato, nudo, senza segreto, al divoramento immediato”23. L’economia capitalistica sottomette tutto all’obbligo di esposizione. Solo la messa in scena espositiva genera valore: ogni sviluppo autonomo delle cose è abbandonato. Le cose non svaniscono nel buio, bensí nell’eccesso di illuminazione: “Piú in generale, le cose visibili non trovano fine nell’oscurità e nel silenzio – svaniscono nel piú visibile del visibile: l’oscenità”24.
Il porno non annienta solo l’eros, ma anche il sesso. L’esposizione pornografica causa un’alienazione del piacere sessuale, rende impossibile vivere il piacere. La sessualità si risolve nella performance femminile del piacere e nell’esibizione della prestazione maschile. Il piacere esibito, esposto alla vista, non è piacere. L’obbligo di esposizione porta all’alienazione del corpo stesso. Il corpo è reificato in un oggetto di esposizione che bisogna ottimizzare. Non è possibile abitare in esso. Bisogna esporre il corpo e, cosí, sfruttarlo. L’esposizione è sfruttamento. L’imperativo dell’esposizione annienta lo stesso abitare. Se il mondo stesso diventa uno spazio di esposizione, l’abitare non è piú possibile. Esso cede il passo al reclamizzare, che serve a incrementare il capitale di interesse. Abitare significa, originariamente, “esser contento, avere la pace, rimanere in essa”25. L’obbligo continuo di esposizione e di prestazione minaccia comunicazione anestetica a questa pace. Anche la cosa nel senso heideggeriano sparisce completamente. Non è possibile esporla, perché è ricolma puramente di valore cultuale.
Oscena è l’iper-visibilità, a cui manca ogni negatività del nascosto, dell’inaccessibile e del segreto. Sono osceni anche i flussi piatti dell’iper-comunicazione, libera da ogni negatività dell’alterità. È osceno l’obbligo di abbandonare ogni cosa alla comunicazione e alla visibilità. Oscena è la pornografica esposizione alla vista del corpo e dell’anima.
Il valore di esposizione dipende soprattutto dalla piacevolezza dell’aspetto. Cosí, l’obbligo di esposizione genera una costrizione alla bellezza e al fitness. L’operazione bellezza persegue l’obiettivo di massimizzare il valore di esposizione. I modelli odierni non trasmettono alcun valore interiore, bensí misure esteriori alle quali si cerca di corrispondere, anche impiegando mezzi violenti. L’imperativo dell’esposizione conduce a un’assolutizzazione del visibile e dell’esteriore. L’invisibile non esiste, perché non produce alcun valore di esposizione, alcun interesse.
L’obbligo di esposizione sfrutta il visibile. La superficie luccicante è a suo modo trasparente, non la si interroga oltre, non possiede una struttura ermeneutica profonda. La stessa “faccia” (face) è il viso divenuto trasparente, che aspira a massimizzare il valore di esposizione. L’obbligo di esposizione ci priva, infine, del nostro volto, non è piú possibile essere il proprio volto. L’assolutizzazione del valore di esposizione si esprime come tirannia della visibilità. A essere problematico non è il fatto di assumere immagini in sé, ma la costrizione iconica a diventare immagine. Tutto deve diventare visibile. L’imperativo della trasparenza sospetta di tutto ciò che non si sottomette alla visibilità. In ciò consiste la sua violenza.
La comunicazione visiva si attua, oggi, come contagio, abreazione o riflesso. A essa manca ogni riflessione estetica. Infine, la sua estetizzazione è anestetica. Al giudizio di gusto I like (“mi piace”), per esempio, non è necessario un esame attento. Le immagini cariche di valore di esposizione non rivelano alcuna complessità. Sono univoche, cioè, pornografiche. A esse manca ogni opacità che sarebbe prodotta da una riflessione, da una verifica e un pensiero. La complessità rallenta la comunicazione. L’iper-comunicazione anestetica riduce la complessità, per raggiungere una maggiore velocità. Essa è sostanzialmente piú veloce della comunicazione sensata. Il senso è lento, è di ostacolo ai circuiti accelerati dell’informazione e della comunicazione. Cosí, la trasparenza coincide con un vuoto di senso. La massa di informazioni e di comunicazione si origina da un horror vacui.
Ogni distanza appare alla società della trasparenza una negatività da eliminare. Essa rappresenta un ostacolo all’accelerazione dei circuiti della comunicazione e del capitale. Muovendo dalla sua logica interna, la società della trasparenza elimina ogni forma di distanza. In fondo, la trasparenza è la “promiscuità totale dello sguardo con ciò che vede”, vale a dire la “prostituzione”26. Lo sguardo si abbandona alle irradiazioni permanenti delle cose e delle immagini. L’assenza di distanza rende la percezione tattile e tastante. La tattilità indica un contatto privo di aderenza, un’immediata “continuità epidermica di occhio e immagine”27. A causa dell’assenza di distanza, non c’è alcuna considerazione estetica, alcun soggiornare. La percezione tattile è la fine della distanza estetica dello sguardo, anzi è la fine dello sguardo. La perdita di distanza non è prossimità, anzi la annienta. La prossimità è ricca di spazio, mentre l’assenza di distanza annulla lo spazio. Nella prossimità è iscritta una lontananza, perciò, essa è lontana. Cosí, Heidegger parla di una “vicinanza pura, della vicinanza che sostiene la lontananza”28. Ma il “dolore della vicinanza del lontano”29 è una negatività che bisogna eliminare. La trasparenza allontana ogni cosa nell’uniforme assenza di distanza, che non è né vicina né lontana.
La società dell’evidenza
La società della trasparenza è una società ostile al piacere. Piacere e trasparenza non si conciliano all’interno dell’economia del piacere umano. La trasparenza è estranea all’economia libidica. Ciò che accende il desiderio e intensifica il piacere è proprio la negatività del segreto, del velo e dell’occultamento. Cosí, il seduttore gioca con maschere, illusioni e forme d’apparenza. L’obbligo di trasparenza annulla i margini del piacere. L’evidenza non tollera il sedurre, ma solo il produrre30. Il seduttore batte strade tortuose, tentacolari e contorte. E utilizza segni ambigui:
La seduzione spesso utilizza codici ambigui, che rendono i primi seduttori della cultura occidentale modelli di una certa forma di libertà dalla moralità. […] I seduttori utilizzano discorsi ambigui perché non sentono di doversi conformare alle norme di sincerità e di simmetria. Le pratiche cosiddette “politicamente corrette”, al contrario, richiedono una forma di trasparenza e di assenza di ambiguità – in modo da garantire la massima libertà e parità contrattuale, neutralizzando cosí il tradizionale alone retorico ed emotivo che circonda la seduzione31.
Giocare con l’ambiguità e l’ambivalenza, con il segreto e il mistero, accresce la tensione erotica. La trasparenza o l’univocità sarebbero la fine dell’eros, ovvero, la pornografia. Non è un caso, quindi, che l’odierna società della trasparenza sia al tempo stesso una società pornografica. Anche la prassi della “postprivacy”, che in nome della trasparenza esige un illimitato e reciproco denudamento, è assolutamente nociva per il piacere.
Secondo Simmel, noi siamo
costituiti in modo tale che abbiamo bisogno non soltanto […] di una determinata proporzione di verità e di errore come base della nostra vita, ma anche di una determinata proporzione di chiarezza e di indistinzione nell’immagine dei nostri elementi vitali32.
Perciò, la trasparenza sottrae alle cose ogni “attrattiva” e
proibisce alla fantasia di intesservi le sue possibilità, per la cui perdita nessuna realtà può indennizzarci, perché quella è appunto un’attività autonoma che alla lunga non può venir sostituita da nessun ricevere e da nessun godere.
Simmel conclude che:
[…] una parte anche delle persone piú prossime deve esserci offerta nella forma dell’indistinzione o della mancanza di evidenza affinché la loro attrattiva rimanga per noi elevata33.
La fantasia è essenziale all’economia del piacere. Un oggetto offerto nella sua nudità la disattiva: soltanto il ritrarsi, il sottrarsi dell’oggetto la accende. Il rinvio nel tempo, il preliminare e l’epilogo immaginativi intensificano il piacere – non il godimento nel tempo reale. Il piacere immediato, che non ammette alcuna deviazione immaginativa e narrativa, è pornografico. Anche l’iper-nitidezza ultra-reale e l’iper-chiarezza delle immagini mediali paralizzano e soffocano la fantasia. Secondo Kant, la facoltà immaginativa si fonda sul gioco. Presuppone margini, nei quali nulla è delimitato in modo netto e definito. Esige opacità e vaghezza. Tale facoltà non è in sé trasparente, mentre l’auto-trasparenza caratterizza l’intelletto. Anch’esso, dunque, non gioca ma lavora con concetti univoci.
Nella Comunità che viene, Giorgio Agamben richiama la parabola del regno messianico, che Benjamin raccontò una sera a Ernst Bloch:
Un rabbino, un vero cabalista, disse una volta: per istaurare il regno della pace, non è necessario distruggere tutto e dare inizio a un mondo completamente nuovo; basta spostare solo un pochino questa tazza o quest’arboscello o quella pietra, e cosí tutte le cose. Ma questo pochino è cosí difficile da realizzare e la sua misura cosí difficile da trovare che, per quanto riguarda il mondo, gli uomini non ce la fanno ed è necessario che arrivi il messia34.
Per istaurare il regno della pace, le cose vengono solo spostate in misura insignificante. Questa variazione minima, osserva Agamben, ha luogo non nelle cose stesse, ma alla loro “periferia”. Essa conferisce alle cose uno “splendore”35 misterioso. Questa “aureola” sorge da un “tremare”, un “iridarsi” dei limiti delle cose36. Il silenzioso vibrare causa – si potrebbe sviluppare cosí il pensiero di Agamben – un divenirvago, che avvolge in un misterioso splendore la cosa a partire dai suoi limiti. Il sacro non è trasparente. Caratterizza, piuttosto, una misteriosa opacità. Il regno della pace che viene non si chiamerà società della trasparenza. La trasparenza non è una condizione della pace.
Non soltanto lo spazio del sacro non è trasparente, ma neppure quello del desiderio. Piuttosto, è curvo; “l’oggetto/la frouwe37 va raggiunto solo indirettamente, soltanto per strade tortuose, meandriche”38. La Frouwe, l’oggetto del desiderio nell’amore cortese, è un “buco nero”, attorno al quale si concentra il desiderio. Secondo Jacques Lacan, esso “si introduce attraverso la porta assai singolare della privazione, dell’inaccessibilità”39. Lacan lo confronta con l’“immagine inintelligibile”40 dell’anamorfosi, nella quale il contenuto figurativo appare soltanto deformato, distorto nell’aspetto. Quest’immagine, dunque, è tutt’altro che evidente (dal latino videre, “vedere”). L’amore cortese è, per Lacan, “anamorfico”41. Anche dal punto di vista temporale, il suo oggetto è un’anamorfosi, poiché l’oggetto è raggiungibile “soltanto sulla via di un eterno rinvio”42. Lacan definisce quest’oggetto anche la “Cosa” (das Ding, in tedesco nel testo), della quale non è possibile produrre alcuna immagine, in conseguenza della sua impenetrabilità e segretezza. Essa sfugge alla rappresentazione: “In das Ding sta il vero segreto”43.
La trasparenza è una condizione della simmetria. Ne consegue che la società della trasparenza aspira a cancellare tutte le relazioni asimmetriche, tra le quali rientra anche il potere. Di per sé, il potere non è diabolico, in molti casi è produttivo e creativo. Genera uno spazio di libertà e un margine per l’organizzazione politica della società. Il potere prende anche parte, in misura notevole, alla produzione di piacere. L’economia libidica segue una logica economica di potere. Alla domanda sul perché l’uomo tenda a esercitare il potere, Foucault risponde rinviando all’economia del piacere. Quanto piú gli uomini nel loro rapporto sono liberi l’uno dall’altro, tanto maggiore è il loro piacere nel determinare il comportamento degli altri. Piú è aperto il gioco, piú sono vari i tipi di gioco nei quali si governa il comportamento degli altri, maggiore sarebbe il piacere. La non-trasparenza e l’imprevedibilità sono proprie, in buona misura, dei giochi strategici. Anche il potere è un gioco strategico. Per questo gioca in uno spazio aperto:
Il potere significa: giochi strategici. Sappiamo bene che il potere non è il male! Prendiamo, per esempio, le relazioni sessuali o d’amore: esercitare un potere sull’altro, in una specie di gioco strategico aperto, dove le cose potrebbero essere ribaltate, non è il male; fa parte dell’amore, della passione, del piacere sessuale44.
Quel “piacere” nietzschiano, che anela all’“eternità”, nasce a mezzanotte. Nietzsche direbbe che non abbiamo abolito Dio, fin quando crediamo nella trasparenza. Contro lo sguardo importuno, contro il generale rendere-visibile, Nietzsche difende l’apparenza, la maschera, il segreto, il mistero, l’astuzia e il gioco:
Tutto ciò che è profondo ama la maschera; le cose piú profonde hanno per l’immagine e l’allegoria perfino dell’odio. […] Ci sono azioni compiute dall’amore e da una traboccante magnanimità, a seguito delle quali non ci sarebbe nulla di piú consigliabile che prendere un bastone e caricare di legnate i testimoni oculari […]. Dietro una maschera non c’è soltanto fraudolenza – c’è molta bontà nell’astuzia […]. Ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera: e piú ancora, intorno a ogni spirito profondo cresce continuamente una maschera45.
Lo spirito profondo si leva in difesa di una maschera. Questa gli cresce attorno come una pelle protettiva. Il totalmente Altro, il Nuovo, prospera soltanto dietro a una maschera che lo difende dall’Uguale. E l’astuzia non equivale alla malizia. È piú efficace e meno violenta dell’azione dettata dall’imperativo categorico. Cosí scrive Nietzsche: “L’astuzia è migliore della violenza”46. È piú versatile, piú flessibile in quanto si guarda intorno ed esaurisce il potenziale situazionale del momento. In questo senso, l’astuzia vede piú dell’imperativo categorico che, per via della sua rigidità, è trasparente a se stesso. La violenza si avvicina alla verità piú di quanto non faccia l’astuzia e produce, in tal modo, piú “evidenza”. Nietzsche evoca qui una forma di vita piú libera, che non sarebbe possibile in una società dell’illuminazione e del controllo. Tale forma di vita è libera anche nel senso che non si lascia determinare né dal pensiero contrattuale, che insiste sulla simmetria e sull’eguaglianza, né dall’economia di scambio.
Non di rado dal segreto e dall’oscurità promana una fascinazione. Per Agostino, Dio impiegherebbe delle metafore e renderebbe intenzionalmente oscure le sacre scritture, per suscitare un maggior piacere:
E se [queste cose] sono celate nel velo della figura, lo sono per esercitare l’interesse del pio ricercatore e perché non vi si passi sopra considerandole cose ovvie e a portata di mano. È vero che in altri passi noi troviamo le stesse cose presentate con parole chiare e in modo palese, ma quando noi le estraiamo dai loro nascondigli, è come se nella nostra conoscenza si rinnovassero, e, cosí rinnovate, procurano maggiore dolcezza. Per il fatto poi che tali cose vengono nascoste dall’oscurità, non è detto che vengano sottratte a chi le voglia apprendere, anzi le si inculca di piú in quanto, essendo riposte nel segreto, le si fa desiderare con piú ardore e, appunto perché desiderate, le si scopre con maggior godimento47.
Il mantello figurativo erotizza la parola, la innalza a oggetto del desiderio. La parola agisce seduttivamente, quando è travestita per via figurativa. La negatività della segretezza trasforma l’ermeneutica in un erotismo. Lo scoprire e il decifrare si realizzano come un piacevole svelamento. L’informazione, invece, è nuda. La nudità della parola le toglie ogni attrattiva. La parola si appiattisce. L’ermetismo del segreto non è una diabolicità, che si potrebbe comunque eliminare a vantaggio della trasparenza. È un simbolismo, anzi una speciale tecnica culturale, che genera profondità – anche se come apparenza.
La porno-società
La trasparenza non è il medium del bello. Secondo Benjamin, alla bellezza è indispensabile una connessione indissolubile tra il velo e ciò che è velato:
Poiché né l’involucro, né l’oggetto velato è il bello, ma l’oggetto nel suo involucro. Disvelato, esso si rivelerebbe infinitamente inappariscente. […] Poiché non si può definire altrimenti quell’oggetto a cui l’involucro è in definitiva essenziale. Poiché solo il bello, e nulla fuori di esso, può essere essenziale velando e restando velato, nel segreto è il fondamento divino della bellezza48.
La bellezza non è svelabile, nella misura in cui è necessariamente legata all’involucro e al velo. Ciò che è velato rimane fedele a se stesso soltanto al di sotto del velo. Lo svelamento porta alla scomparsa di ciò che è velato. Per questo non esiste una bellezza nuda:
Nella nudità senza veli, l’essenzialmente bello vien meno, e nel corpo nudo dell’uomo è raggiunto un essere al di là di ogni bellezza: il sublime, e un’opera al di là di tutte le formazioni dell’arte e della natura: l’opera del Creatore49.
Bella può essere solo una forma o una formazione. Sublime, invece, è la nudità priva di forma e formazione, alla quale non appartiene piú il segreto come elemento costitutivo della bellezza. Il sublime eccede il bello. La nudità creaturale, però, è tutt’altro che pornografica. È, appunto, sublime e rinvia all’opera del Creatore. Anche per Kant un oggetto è sublime quando eccede ogni rappresentazione, ogni immaginazione. Il sublime travalica la facoltà immagin ativa.
Nella tradizione cristiana, la nudità è “inseparabile da una segnatura teologica”50. Prima della caduta nel peccato – secondo la tesi di Agamben –, Adamo ed Eva non erano nudi, ma coperti da una “veste di grazia”, una “veste di luce”51. Il peccato li privò della loro veste divina. Completamente spogliati, furono costretti a coprirsi. La nudità significa, perciò, la perdita della veste di grazia. Agamben cerca di pensare una nudità che sia libera dal dispositivo teologico. Inoltre, egli prolunga il sublime del corpo nudo presente in Benjamin nel pornografico. A proposito di una modella pornografica e seminuda, egli osserva:
Il bel volto, che ne esibisce sorridendo la nudità, dice soltanto: “Volevi il mio segreto? Volevi venire in chiaro del mio involucro? E allora guarda questo, se ne sei capace, guarda questa assoluta, imperdonabile, assenza di segreto! […]. E tuttavia, è proprio questo disincanto della bellezza nella nudità, questa sublime e miserabile esibizione dell’apparenza oltre ogni mistero e ogni significato, a disinnescare in qualche modo il dispositivo teologico”52.
Il corpo nudo, pornograficamente offerto alla vista, è certamente “miserabile”, ma non “sublime”. Al sublime, al quale Benjamin contrappone il bell’aspetto, manca ogni valore di esposizione. È l’esposizione a distruggere la sublimità creaturale. Il sublime realizza un valore cultuale. Il volto esposto pornograficamente, che “ammicca”53 a chi gli sta di fronte, è tutt’altro che sublime.
L’opposizione agambeniana tra dispositivo e libera nudità non è dialettica. Violento non è solo il dispositivo che impone al volto un ruolo, una maschera, un’espressione, ma anche la nudità priva di forma, pornografica. Il corpo che diventa carne non è sublime, ma osceno. La nudità pornografica è prossima a quell’oscenità della carne che, come Agamben stesso rileva, è il portato della violenza:
Per questo il sadico cerca con ogni mezzo di far apparire la carne, di far assumere a forza al corpo dell’altro degli atteggiamenti incongrui e delle posizioni tali che ne rivelino l’oscenità, cioè la perdita irreparabile di ogni grazia54.
Soprattutto la grazia cade vittima della nudità pornografica di Agamben. A causa della sua origine teologica, la grazia (grâce) gli appare sospetta, poiché è prossima al perdono. Agamben si riferisce alla tesi di Sartre, secondo cui il corpo deve la propria grazia a un movimento finalizzato, che lo rende uno strumento. Già per il fatto però di fissarsi a uno scopo, nessuno strumento è dotato di grazia, anzi, apertamente persegue il suo fine e lo raggiunge. La grazia, invece, è insita in ciò che è tortuoso o deviante. Presuppone un libero gioco dei gesti e delle forme che, per cosí dire, si faccia gioco dell’azione e si sottragga all’economia dello scopo. In questo modo, la grazia si colloca fra l’azione finalizzata e la nudità oscena. Agamben si lascia sfuggire questo intermezzo di grazia. Anche l’esporre se stessi alla vista porta alla sparizione della grazia. Nel Teatro delle marionette di von Kleist il fanciullo perde la propria grazia nel momento in cui, di fronte allo specchio, sottopone a intenzionale osservazione i propri movimenti. Qui lo specchio svolge la stessa funzione dell’obiettivo nel quale ammicca sfacciata l’attrice pornografica di Agamben, che non esprime altro se non il suo stesso essere-esibita55.
Agamben concepisce l’esposizione come un’ottima possibilità per far apparire quella nudità che, liberatasi dal dispositivo teologico e cosí “profanata”, si rende disponibile per un nuovo utilizzo. Il volto esposto, cosí, senza mistero non mostra altro che il mostrare stesso. Non nasconde né esprime nulla. È come divenuto trasparente. In ciò, Agamben coglie una particolare attrazione, un “fascino particolare” che “diventa puro valore di esposizione”56. L’esposizione svuota il volto in un luogo pre-espressivo. Da questa prassi dell’esposizione che svuota, Agamben si aspetta una nuova forma di comunicazione erotica:
È un’esperienza comune che il volto di una donna che si sente guardata diventa inespressivo. La consapevolezza di essere esposta allo sguardo fa, cioè, il vuoto nella coscienza e agisce come un potente disgregatore dei processi espressivi che animano di solito il volto. È la sfrontata indifferenza che le mannequins, le pornostars e le altre professioniste dell’esposizione devono innanzitutto imparare ad acquisire: non dare a vedere null’altro che un dare a vedere (cioè la propria assoluta medialità). In questo modo il volto si carica fino a scoppiare di valore di esposizione. Ma, proprio attraverso questa nullificazione dell’espressività, l’erotismo penetra là dove non potrebbe aver luogo: nel volto umano […]. Esibito come puro mezzo al di là di ogni concreta espressività, esso diventa disponibile per un nuovo uso, per una nuova forma di comunicazione erotica57.
Da ultimo, si pone qui la questione se il volto carico di valore di esposizione fino a scoppiarne sia effettivamente nella condizione di dischiudere un “nuovo uso collettivo della sessualità”, una “nuova forma di comunicazione erotica”. Agamben osserva che questa nudità pre-espressiva, liberata da ogni segnatura teologica, conterrebbe in sé un “potenziale profanatorio”, che però sarebbe neutralizzato dal “dispositivo della pornografia”. Contrariamente all’assunto di Agamben, la pornografia non blocca a posteriori il nuovo uso della sessualità. Il volto divenuto complice della nudità, il cui unico contenuto risiede nella sua esponibilità, è già pornografico – lo è in quanto esibisce la coscienza sfrontata dell’esser-reso-visibile del corpo nudo. Il volto nudo privo di mistero, divenuto trasparente e ridotto alla sua esponibilità, è osceno. La faccia (face) carica di valore di esposizione fino a scoppiarne è pornografica.
Agamben non ammette che l’esponibilità in sé sia già pornografica. Il capitalismo radicalizza la trasformazione pornografica della società, in conseguenza della quale ogni cosa è esibita come una merce e consegnata all’iper-visibilità. Si persegue la massimizzazione del valore di esposizione. Il capitalismo non conosce altro uso della sessualità. L’“uso collettivo della sessualità” evocato da Agamben si realizza proprio nelle immagini pubblicitarie pornografiche. Il “consumo solitario dell’immagine pornografica” non è un mero “sostituto” della promessa di un nuovo uso collettivo della sessualità. Piuttosto, il Solitario e il Collettivo fanno il medesimo uso delle immagini pornografiche.
Agamben si lascia sfuggire, soprattutto, l’essenziale differenza tra l’erotico e il pornografico. L’immediato rendere-visibile la nudità non è erotico. La posizione erotica di un corpo è proprio là “dove l’abito si socchiude”, dove la pelle “luccica” “fra due bordi”, per esempio tra il guanto e la manica. La tensione erotica non discende dall’esposizione permanente della nudità, ma dalla “messinscena di un’apparizione-sparizione”58. È la negatività dell’“interruzione” che conferisce uno splendore alla nudità. La positività dell’esposizione della nudità disvelata è pornografica. Le manca lo splendore erotico. Il corpo pornografico è continuo. Non è interrotto da nulla. L’interruzione produce un’ambivalenza, un’ambiguità. È questa opacità semantica a essere erotica. L’erotico presuppone, inoltre, la negatività del segreto e della segretezza. Non esiste un erotismo della trasparenza. La pornografia comincia proprio lí, dove il segreto svanisce a vantaggio della totale esibizione e del denudamento. È caratterizzata da una penetrante, penetrativa positività.
In ogni segreto Agamben coglie una segnatura teologica, che è necessario “profanare”. La profanazione deve realizzare una bellezza senza segreto, una nudità “al di là del prestigio della grazia e delle lusinghe della natura corrotta”:
Nell’inesplicabile involucro, invece, non vi è alcun segreto e, denudato, esso si mostra come pura apparenza. […] Il matema della nudità è, in questo senso, semplicemente: haecce!, “non c’è nient’altro che questo”59.
Tuttavia, non c’è un matema dell’erotico, l’erotico si sottrae all’“haecce!”. L’evidenza priva di segreto del “non c’è nient’altro che questo” è pornografica. All’erotico manca l’univocità del deittico. I rimandi erotici non sono deittici. La forza di seduzione erotica gioca, secondo Baudrillard, con “l’intuizione di ciò che nell’altro resta eternamente segreto a lui stesso, su ciò che non saprò mai di lui e che tuttavia mi attira sotto il marchio del segreto”60. Il pornografico non è attraente né allusivo, ma contagioso e infettante. È privo della distanza, nella quale sarebbe possibile la seduzione. All’attrazione erotica è necessaria la negatività della privazione.
Barthes distingue due elementi nella fotografia. Definisce il primo studium. Questo riguarda il campo esteso delle informazioni, che bisogna studiare, e il “vastissimo campo del desiderio noncurante, dell’interesse diverso, del gusto incoerente: mi piace / non mi piace, I like / I don’t”61. Appartiene al genere del “piacere” (to like) e non dell’“amare” (to love). La sua forma di giudizio è “mi piace / non mi piace”. Allo studium manca ogni intensità o passione. Il secondo elemento, il punctum, spezza lo studium. Il punctum non produce un piacere, ma una ferita, una commozione, un turbamento. Alle fotografie uniformi manca il punctum, sono soltanto oggetto di studium:
Le foto di reportage sono molto spesso delle fotografie unarie (la foto unaria non è per forza una foto riposante). In queste immagini, il punctum è assente: v’è shock – la lettera può traumatizzare –, ma non turbamento. La foto può “urlare”, ma non ferire. Queste foto di reportage sono recepite (d’un sol colpo), e basta62.
Il punctum interrompe il continuum di informazioni. Si manifesta come una crepa, come una rottura. È un luogo di altissima intensità e condensazione, abitato da qualcosa d’indefinibile. Gli manca ogni trasparenza, ogni evidenza, che contraddistinguono invece lo studium:
L’impossibilità di definire è un buon sinonimo di turbamento. […] L’effetto è sicuro, ma inindividuabile: esso non trova il suo segno, il suo nome; è netto e tuttavia plana in una zona indefinita di me stesso63.
Tra le fotografie unarie Barthes annovera anche le immagini pornografiche, che sono piane, trasparenti e non rinviano a un’interruzione, a un’ambiguità. Delle crepe e una rottura interna, invece, caratterizzano l’erotico, che non è piano né trasparente. La foto erotica è l’immagine di qualcosa d’“alterato, intaccato”64. Nelle immagini pornografiche tutto è rivolto all’esterno ed esposto. La pornografia è priva di interiorità, di ascosità e di segreto:
Proprio come una vetrina che esponga, illuminato, un solo gioiello, la foto pornografica è interamente costituita dall’ostensione di una sola cosa: il sesso: in essa non vi è mai un oggetto secondo, intempestivo, che venga a nascondere in parte, a ritardare o a distrarre65.
La trasparenza che non lascia nulla coperto, nascosto ed espone tutto alla vista è oscena. Tutte le immagini mediali sono, oggi, piú o meno pornografiche. In conseguenza del loro aspetto piacevole, mancano di ogni punctum, di ogni intensità semiotica. Non hanno niente che possa toccare o ferire. Costituiscono, al massimo, l’oggetto del mi piace / “I like”.
Stando a Barthes, le immagini cinematografiche non possiedono un punctum. Il punctum sarebbe vincolato a un soggiornare contemplativo: “Davanti allo schermo non sono libero di chiudere gli occhi, perché altrimenti, riaprendoli, non ritroverei piú la stessa immagine”66. Il punctum si schiuderebbe solo all’osservazione che indugia e contempla. Le immagini che si susseguono, invece, costringerebbero l’osservatore – dice Barthes – a una “voracità continua”. Il punctum si sottrarrebbe allo sguardo consumistico, vorace, non animato da alcuna “pensosità”67. Spesso, il punctum non si manifesterebbe subito, ma soltanto a posteriori, in un soffermarsi che ricorda:
Niente di strano quindi che talora, nonostante la sua chiarezza, l’effetto si manifesti solo in un secondo tempo, quando essendo ormai la foto lontana dai miei occhi, penso nuovamente a essa. Succede che io possa conoscere meglio una fotografia di cui ho memoria che non una foto che sto vedendo […]. Con ciò avevo dunque capito che per quanto immediato, per quanto incisivo fosse, il punctum poteva adattarsi a una certa qual latenza (ma mai a un esame)68.
La “musica” sorgerebbe soltanto “chiudendo gli occhi”. Cosí, Barthes cita Kafka: “Si fotografano delle cose per allontanarle dalla propria mente. Le mie storie sono un modo di chiudere gli occhi”69. La musica risuona solo in una distanza contemplativa dall’immagine. Ammutolisce, invece, là dove un contatto immediato provoca il cortocircuito tra occhio e immagine. La trasparenza non conosce musica. Anche la fotografia, osserva Barthes, deve “essere silenziosa”. Soltanto nello “sforzo per il silenzio” la fotografia manifesta il suo punctum. È un luogo del silenzio che rende possibile un soggiornare contemplativo. Di fronte alle immagini pornografiche, invece, non ci si sofferma. Sono stridenti, chiassose, perché esibite. Non hanno estensione temporale. Non ammettono piú alcun ricordo. Servono soltanto all’eccitazione e al soddisfacimento immediati.
Lo studium è una lettura:
È attraverso lo studium che io m’interesso a molte fotografie, sia che le recepisca come testimonianze politiche, sia che le gusti come buoni quadri storici; infatti, è culturalmente (questa connotazione è presente nello studium) che io partecipo alle figure, alle espressioni, ai gesti, allo scenario, alle azioni70.
Se la cultura consistesse in particolari figure, espressioni, gesti, narrazioni e azioni, allora la trasformazione pornografica del visuale si compierebbe oggi nella forma di una de-culturalizzazione. Le immagini pornografiche, de-culturalizzate, non danno a leggere nulla. Agiscono come immagini pubblicitarie, in maniera immediata, tattile e contagiosa. Sono post-ermeneutiche. Non concedono quella distanza, nella quale sarebbe possibile uno studium. Il loro modus agendi non consiste nella lettura, ma nel contagio e nell’abreazione. Non sono neppure animate da un punctum. Si svuotano nello spectaculum. La porno-società è una società dello spectaculum.
La società dell’accelerazione
Secondo Sartre, il corpo diventa osceno quando è ridotto alla pura fatticità della carne. È osceno il corpo privo di referenza, che non è orientato, non è in azione o in situazione. Sono osceni i movimenti del corpo eccedenti ed eccessivi. La teoria dell’oscenità sartriana può essere applicata al corpo sociale, ai suoi processi e movimenti, che divengono osceni quando sono spogliati di ogni narratività, di ogni orientamento, di ogni senso. Il loro essere eccessivi ed eccedenti si esprime allora come obesità, massificazione e proliferazione. Essi proliferano e crescono senza scopo, privi di forma. In ciò consiste la loro oscenità. Sono oscene l’iper-creatività, l’iper-produzione e l’iper-comunicazione, che si affrettano al di là dello scopo. È oscena questa iper-accelerazione, che non è piú davvero commovente né concludente71. Nel suo eccesso, sfreccia oltre la propria destinazione. Questo puro movimento, che si accelera oltre il suo stesso volere, è osceno:
Il movimento non scompare tanto nell’immobilità quanto nella velocità e nell’accelerazione – nel piú mobile del movimento, se cosí si può dire, e che lo conduce all’estremo mentre lo spoglia di senso72.
L’addizione è piú trasparente della narrazione. Si può accelerare solo un processo che sia additivo, e non narrativo. Del tutto trasparente è solo l’operazione di un processore, perché si svolge in modo puramente additivo. Rituali e cerimonie, invece, sono processi narrativi, che si sottraggono all’accelerazione. Sarebbe un sacrilegio voler accelerare un sacrificio. Rituali e cerimonie hanno il proprio tempo, il proprio ritmo e ciclo. La società della trasparenza abolisce tutti i rituali e le cerimonie perché non si possono rendere operazionali, perché sono d’ostacolo all’accelerazione dei circuiti informativi, comunicativi e produttivi.
Al contrario del calcolo, il pensiero non è trasparente a se stesso. Il pensiero non segue linee calcolate in anticipo, ma va in campo aperto. Secondo Hegel, il pensiero è animato da una negatività, la quale gli fa attraversare esperienze che lo trasformano. La negatività del rendersi-altro è costitutiva per il pensiero. In ciò consiste la differenza con il calcolo, che rimane sempre uguale a se stesso. Questa uguaglianza è la condizione di possibilità dell’accelerazione. La negatività caratterizza non solo l’esperienza, ma anche la conoscenza. Un’unica conoscenza può mettere interamente in questione il già-esistente e trasformarlo. All’informazione manca questa negatività. Anche l’esperienza ha conseguenze, dalle quali si origina la forza del cambiamento. In ciò essa si distingue dal vissuto [Erlebnis], che lascia intatto il già-esistente.
La mancanza di narrazione differenzia il processore dalla processione, che è un evento narrativo. Al contrario del processore, la processione è fortemente orientata. Perciò, è tutt’altro che oscena. Tanto il termine “processore” quanto “processione” rinviano al verbo latino procedere che significa “avanzare”. La processione è costretta in una narrazione, che le conferisce una tensione narrativa. Le processioni rappresentano scenicamente particolari passaggi di una narrazione. Le caratterizza la scenografia. Per via della loro narratività, sono animate da un tempo proprio. Quindi, non è possibile e neppure sensato accelerare il loro procedere. La narrazione non è addizione. Al procedere del processore manca, invece, ogni narrazione. Il suo operare è senza immagine, senza scene. Al contrario della processione, non racconta nulla. Conta solo e i numeri sono nudi73. Anche il processo, che pure rinvia al verbo latino procedere, è povero di narrazione a causa della sua funzionalità. In ciò si distingue dal procedimento narrativo, bisognoso di una coreografia o di una scenografia. Il processo determinato in modo funzionale è, invece, soltanto un oggetto del controllo o della gestione. La società diventa oscena, quando “non c’è piú scena, quando tutto diventa di una trasparenza inesorabile”74.
I pellegrinaggi sono spesso organizzati, nell’ultima parte, come processioni. La conclusione in senso stretto è possibile soltanto all’interno di una narrazione. In un mondo de-narrativizzato, de-ritualizzato, la fine è soltanto una rottura, che causa dolore e distruzione. Soltanto nella cornice di una narrazione la fine può apparire come compimento. Senza un’apparenza narrativa, la fine è sempre una perdita assoluta, una mancanza assoluta. Il processore non conosce alcuna narrazione, perciò è incapace di conclusione. Il pellegrinaggio è un evento narrativo. Fondamentalmente, il percorso seguito dai pellegrini non è un passaggio da compiere il piú velocemente possibile, ma è piuttosto una via ricca di semantica. L’essere-in-cammino è carico di significati che richiamano penitenza, guarigione, gratitudine. Per via di questa narrazione, al pellegrino non si può mettere fretta. Il pellegrinaggio, inoltre, è un transito verso un lí. Dal punto di vista temporale, il pellegrino è in cammino verso un futuro, nel quale è attesa una salvezza. In questo senso, egli non è un turista. Il turista si mantiene nel presente, nel qui e ora. Il turista non è veramente in cammino. I suoi percorsi non hanno una propria significatività, perché non sono degni di essere visti. Al turista è estranea la ricca semantica, la narratività del percorso. Il percorso perde ogni forza di racconto narrativa e diventa un vuoto passaggio. Questo impoverimento semantico, questa mancanza di narratività spaziotemporale è oscena. La negatività, nella forma di un ostacolo o di un attraversamento, è costitutiva di una tensione narrativa. L’obbligo di trasparenza cancella tutti i confini e le soglie. Lo spazio diventa trasparente, quando è spianato, livellato e svuotato. Lo spazio trasparente è povero di semantica. I significati si sviluppano solo mediante attraversamenti e soglie, anzi mediante resistenze. Anche la prima esperienza dello spazio nell’infanzia è un’esperienza di soglie. Soglie e attraversamenti sono zone del segreto, dell’incertezza, della trasformazione, della morte, della paura, ma anche della nostalgia, della speranza e dell’attesa. La loro negatività determina la topologia delle passioni.
La narrazione esercita una selezione. La linea narrativa è sottile, ammette soltanto determinati avvenimenti, perciò impedisce la proliferazione e la massificazione del positivo. L’eccesso di positività, che domina la società contemporanea, è una traccia del fatto che in essa si è smarrita la narratività. Anche la memoria viene colpita da questo processo. La sua narratività la differenzia dalla memoria informatica, che lavora e accumula in modo meramente additivo. A causa della loro storicità, le tracce mnestiche sono sottoposte a un riordinamento e a una riscrittura continui75. Al contrario, i dati salvati rimangono uguali a se stessi. Oggi la memoria si positivizza in un ammasso di rifiuti e di dati, in una “bottega di rigattiere”, ossia in un “deposito pieno fino all’orlo di tutte le immagini possibili, completamente disordinate, mal conservate e di simboli logorati”76. Nella bottega del rigattiere, le cose giacciono semplicemente l’una accanto all’altra, non sono stratificate77. Lí manca, quindi, la storia. Non può ricordare né dimenticare.
L’obbligo di trasparenza cancella l’odore delle cose, l’odore del tempo. La trasparenza non odora. La comunicazione trasparente, che non ammette piú nulla d’indefinito, è oscena. Oscene sono pure la reazione immediata e l’abreazione. Per Proust il “godimento immediato” è incapace di bellezza. La bellezza di una cosa appare “solo molto piú tardi”, come reminiscenza, alla luce di un’altra. Non è bello lo scintillio momentaneo dello spettacolo, dello stimolo immediato, bensí il rilucere silenzioso, la fosforescenza del tempo. La temporalità del bello non è il rapido susseguirsi di avvenimenti o di stimoli. La bellezza è un’educanda, una ritardataria. Solo a posteriori le cose svelano la loro odorosa essenza del bello. Essa consiste nelle stratificazioni temporali e nelle sovrapposizioni, che emanano fosforescenza. La trasparenza non emana fosforescenza.
L’odierna crisi del tempo non consiste nell’accelerazione, quanto nella dispersione e nella dissociazione temporale. Una discronia temporale lascia che il tempo sfrecci via privo di direzione e si disgreghi in una mera successione di presenti puntuali, atomizzati. In questo modo, il tempo diventa additivo ed è svuotato di ogni narratività. Gli atomi non odorano. È necessario innanzitutto che un’attrazione figurativa, una forza di gravità narrativa li unisca in molecole odorose. Solo formazioni complesse, narrative emanano odore. Poiché l’accelerazione in sé non è il vero problema, cosí la sua soluzione non sta nella decelerazione. Da sola, la decelerazione non produce alcuna cadenza, alcun ritmo, alcun odore. Non impedisce la caduta nel vuoto.
La società dell’intimità
Il mondo del XVIII secolo è un theatrum mundi. Lo spazio pubblico equivale a un palcoscenico. La distanza scenica impedisce il contatto diretto di corpi e anime. Il teatrale si contrappone al tattile. Mediante forme e segni rituali si comunica ciò che alleggerisce l’anima. Nell’epoca moderna, si rinuncia progressivamente alla distanza teatrale a vantaggio dell’intimità. Richard Sennett vede in ciò uno sviluppo fatale, che toglie all’uomo la capacità “di giocare con le immagini esterne di se stesso e di ornarle col sentimento”78. Formalizzazione, convenzionalità e ritualizzazione non escludono l’espressività. Il teatro è un luogo delle espressioni che, tuttavia, sono sentimenti oggettivi e non manifestazioni di un’interiorità psichica. Perciò, vengono rappresentate e non esposte. Il mondo, oggi, non è un teatro, sul quale azioni e sentimenti possono essere rappresentati e letti, ma è un mercato nel quale le intimità vengono esposte, comprate e consumate. Il teatro è un luogo della rappresentazione, mentre il mercato è un luogo dell’esposizione. Cosí, la rappresentazione teatrale cede oggi il passo all’esposizione pornografica.
Secondo Sennett, “la teatralità sta in un rapporto specifico, e precisamente ostile, con l’intimità e in un rapporto non meno specifico, ma amichevole, con una vita pubblica sviluppata”79. La cultura dell’intimità è legata alla decadenza di quel mondo pubblicoobiettivo, che non è oggetto di sensazioni e vissuti intimi. Secondo l’ideologia dell’intimità, le relazioni sociali sono tanto piú reali, corrette, degne di fiducia e autentiche quanto piú si avvicinano ai bisogni psichici dei singoli. L’intimità è la formula psicologica della trasparenza. Palesando i sentimenti intimi e le emozioni, mettendo a nudo l’anima, si crede di raggiungere la trasparenza dell’anima.
I social media e i motori di ricerca personalizzati edificano nella rete uno spazio di prossimità assoluto, dal quale l’esterno è eliminato. Lí si ha modo di incontrare soltanto se stessi e i propri eguali. Non c’è piú alcuna negatività, che renderebbe possibile un cambiamento. Questa prossimità digitale propone al partecipante soltanto quei frammenti di mondo che gli piacciono. Di conseguenza, abolisce la dimensione pubblica, la coscienza pubblica, davvero critica, e privatizza il mondo. La rete si trasforma in una sfera dell’intimità o una zona di benessere. Anche la prossimità, dalla quale è espulsa ogni lontananza, è una forma d’espressione della trasparenza.
La tirannia dell’intimità psicologizza e personalizza ogni cosa. Neppure la politica le sfugge. Cosí, i politici non vengono giudicati in base alle loro azioni, ma l’interesse generale è indirizzato verso la persona, e ciò produce in essa una costrizione alla messa in scena. La perdita della dimensione pubblica si lascia dietro un vuoto, nel quale si riversano intimità e riservatezze. Al posto della dimensione pubblica subentra la pubblicizzazione della persona. La dimensione pubblica diventa, in questo modo, un luogo di esposizione. Si allontana sempre piú dallo spazio dell’agire comune.
Persona (dal latino persona) significa in origine “maschera”. Essa dà carattere, e persino forma e struttura, alla voce che risuona (per-sonare) attraverso di lei. La società della trasparenza come società della rivelazione e del denudamento, lavora contro ogni forma di maschera, contro l’apparenza. Anche la crescente de-ritualizzazione e de-narrativizzazione della società la svuota delle sue forme d’apparenza, e in tal modo la denuda. Nei giochi e nei rituali sono decisive le regole oggettive, e non gli stati psichici soggettivi. Chi gioca con un altro, si sottomette a delle regole di gioco obiettive. La socialità del gioco non si basa sull’autoevidenza reciproca. Piuttosto, gli uomini diventano sociali quando mantengono tra loro una distanza. Invece, l’intimità distrugge la distanza.
La società dell’intimità diffida dei gesti ritualizzati e del comportamento strutturato in modo cerimoniale, che le appaiono come esteriori e inautentici. Il rituale è un’azione dalle forme espressive esternalizzate, che agiscono de-individualizzando, de-personalizzando e de-psicologizzando. Coloro che vi prendono parte “sono espressivi”80, senza però dover esporre se stessi alla vista o doversi svelare. La società dell’intimità è una società psicologizzata, de-ritualizzata. È una società della confessione, dello svelamento e della mancanza pornografica di distanza.
L’intimità annulla i margini oggettivi in favore di sentimenti affettivo-soggettivi. Nello spazio rituale cerimoniale circolano segni oggettivi. Questo spazio non può essere occupato narcisisticamente. Sotto un certo aspetto, esso è vuoto e assente. Il narcisismo è espressione di un’intimità con sé priva di distanza, ossia, di una carente distanza da sé. La società dell’intimità è abitata da soggetti intimo-narcisisti, ai quali manca completamente la capacità di un distanziamento scenico. Sennett scrive in proposito: “Il narcisista non si ferma all’esperienza, egli vuole sperimentare – sperimentare se stesso in tutto ciò che gli si fa incontro. Cosí svilisce ogni interazione e ogni scena […]”81. Di conseguenza aumentano, secondo Sennett, i disturbi narcisistici, “perché la società contemporanea organizza psicologicamente i suoi processi interiori d’espressione e mina alla base il senso delle interazioni sociali significative al di fuori dei limiti del singolo Sé”. La società dell’intimità annulla i segni rituali e cerimoniali nei quali ci si sfuggirebbe, ci si perderebbe. Nelle esperienze si incontra l’Altro. Nei vissuti, invece, si incontra dappertutto se stessi. Il soggetto narcisistico non riesce a delimitare se stesso. I confini del suo esser-ci si confondono. Cosí non può svilupparsi neppure un’immagine stabile di sé. Il soggetto narcisista si fonde a tal punto con se stesso che non gli è piú possibile giocare con sé. Il narciso, ormai depresso, annega nella sua illimitata intimità con sé. Nessun vuoto, nessuna assenza distanziano il narciso da se stesso.
La società dell’informazione
Considerata con attenzione, la caverna di Platone è stranamente costruita come un teatro. I prigionieri siedono come spettatori di fronte a un palcoscenico. Tra loro e il fuoco che hanno alle spalle c’è una strada e lungo la strada corre un muricciolo, che assomiglia a quegli schermi “che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare al di sopra di essi i burattini”82. Lungo il muricciolo viene portata ogni specie di oggetti, statue e altre figure di pietra o legno, che sporgono dal muro e gettano le loro ombre sulla parete che i prigionieri guardano fissamente. Alcuni dei portatori delle immagini parlano, altri invece tacciono. Poiché i prigionieri non possono voltarsi, pensano che siano le immagini stesse a parlare. La caverna di Platone, quindi, è una sorta di teatro delle ombre. Gli oggetti, che gettano la propria ombra sulla parete, non sono cose reali del mondo, ma sono tutti quanti accessori di scena e figure teatrali. Ombre e riflessi delle cose reali esistono, infatti, solo fuori dalla caverna. Di quell’uomo che fosse condotto a forza fuori dalla caverna nel mondo della luce, Platone osserva:
Dovrebbe, credo, abituarvisi, se vuole vedere il mondo superiore. E prima osserverà, molto facilmente, le ombre e poi le immagini degli esseri umani e degli altri oggetti nei loro riflessi nell’acqua, e infine gli oggetti stessi83.
Gli uomini incatenati nella grotta non vedono le sagome del mondo reale. È loro presentato, piuttosto, un teatro. Anche il fuoco è una luce artificiale. I prigionieri, in verità, sono incatenati da scene, da illusioni sceniche. Si abbandonano a un gioco, a una narrazione. La metafora platonica della caverna non rappresenta, come di solito viene interpretata, differenti forme di conoscenza, ma differenti forme di vita, e cioè la forma di vita narrativa e quella cognitiva. La caverna di Platone è un teatro. Nella metafora della caverna, il teatro come mondo della narrazione viene contrapposto al mondo della conoscenza.
Il fuoco nella caverna crea, come luce artificiale, delle illusioni sceniche, proietta parvenza84. Si distingue, cosí, dalla luce naturale come medium della verità. In Platone, la luce è fortemente orientata. Promana dal sole come sua fonte. Ogni cosa essente si rivolge al sole come all’idea del Bene. Il sole costituisce una trascendenza, collocata addirittura “al di là dell’Essere”. Perciò è chiamato anche “Dio”. Ogni cosa essente deve la sua verità a questa trascendenza. La luce solare di Platone è gerarchica. Istituisce delle gradazioni in rapporto alla conoscenza, che vanno dal mondo delle mere copie a quello delle cose percepibili attraverso i sensi, sino al mondo intelligibile delle idee.
La caverna di Platone è un mondo narrativo. Le cose, in essa, non si concatenano secondo causalità. Piuttosto, seguono una drammaturgia o una scenografia, che connette narrativamente tra loro le cose o i segni. La luce della verità de-narrativizza il mondo. Il sole annienta l’apparenza. Il gioco della mimesis e delle metamorfosi cede al lavoro per la verità. Platone condanna ogni traccia di trasformazione in favore di una rigida identità. La sua critica della mimesis si rivolge proprio all’apparenza e al gioco. Platone vieta ogni rappresentazione scenica e persino al poeta nega l’accesso alla sua città della verità:
A quanto sembra, dunque, se nel nostro stato giungesse un uomo capace per la sua sapienza di assumere ogni forma e di fare ogni imitazione, e volesse prodursi in pubblico con i suoi poemi, noi lo riveriremmo come un essere sacro, meraviglioso e incantevole; ma gli diremmo che nel nostro stato non c’è e non è lecito che ci sia un simile uomo; e lo manderemmo in un altro stato con il capo cosparso di profumi e incoronato di lana85.
Anche la società della trasparenza è una società senza poeti, senza seduzione e metamorfosi. È proprio il poeta colui che produce le illusioni sceniche, le forme apparenti, i segni rituali e cerimoniali e che contrappone ai nudi fatti iper-reali gli arte-fatti e gli ante-fatti.
La metafora della luce, che domina il discorso filosofico e teologico dall’antichità all’Illuminismo, passando per il Medioevo, implica una referenza rigida. La luce promana da una fonte o da un’origine. È il medium delle istanze vincolanti, inibenti, garanti – come Dio o la ragione. Sviluppa, cosí, una negatività, che agisce polarizzando e che produce opposizioni. Luce e oscurità sono egualmente originarie. Luce e ombre procedono insieme. Con il Bene, è posto anche il Male. La luce della ragione e la tenebra dell’irrazionale o del meramente sensibile nascono l’una dall’altra.
Diversamente dal mondo platonico della verità, all’odierna società della trasparenza manca quella luce divina che è animata da una tensione metafisica. La trasparenza è priva di trascendenza. La società della trasparenza è chiaramente priva di luce. Non è illuminata da quella luce che promana da una fonte trascendente. La trasparenza non si origina da una fonte di luce che rischiara. Il medium della trasparenza non è la luce, ma un’irradiazione priva di luce che, invece di rischiarare, pervade ogni cosa e la rende evidente. Al contrario della luce, la trasparenza è penetrante e pervasiva. Agisce, inoltre, rendendo tutto omogeneo e livellando, mentre la luce metafisica produce gerarchie e differenze, e in tal modo pone ordini e orientamenti.
La società della trasparenza è una società dell’informazione. L’informazione è, in quanto tale, un fenomeno della trasparenza, perché le manca ogni negatività. È un linguaggio positivizzato, operazionale. Heidegger lo definirebbe un linguaggio del “dis-positivo” (Ge-stell):
Il parlare è provocato a corrispondere in tutto e per tutto a quella posizione di fronte al reale per cui la presenza di una cosa si identifica con la sua disponibilità tecnica. Il parlare cosí ridotto diventa informazione86.
L’informazione pone il linguaggio umano. Heidegger pensa il “Ge-stell” a partire dal dominio. Le figure del porre87, come il dare ordini, il porre in rappresentazione o il mettere in opera sono, quindi, figure del potere e del dominio. Il dare ordini pone l’essente come disponibilità. Il porre in rappresentazione pone l’essente come oggetto. Il “Ge-stell” heideggeriano non considera, però, quelle forme del porre che risultano caratteristiche proprio dell’oggi. L’es-porre e il porre-alla-vista non servono principalmente a guadagnare potere. Ciò a cui si tende non è il potere, ma l’interesse. L’impulso alla loro base non è Polemos, ma Porno. Potere e interesse non coincidono esattamente. Chi ha potere, del resto, ha ciò che rende superfluo lo sforzo teso all’interesse. E l’interesse non genera automaticamente potere.
Heidegger considera anche l’immagine solo dal punto di vista del dominio:
Bild, immagine […] indica [qualcosa] come risuona dall’espressione idiomatica tedesca: über etwas im Bilde sein [lett. “essere in forma su qualcosa”] […]. “Siamo in forma su qualcosa”. […] Sich über etwas ins Bild setzen [lett. “mettersi in forma su qualcosa”], “informarsi su qualcosa”, significa: porsi davanti l’essente stesso, renderselo presente per vedere com’è, e averlo costantemente davanti a sé nel modo in cui è posto, presentato88.
L’immagine è per Heidegger il medium attraverso il quale ci si impadronisce dell’essente e ci si appropria di esso. Questa teoria dell’immagine non dà conto delle odierne immagini mediali, perché sono simulacri, che non rappresentano piú alcun “essente”. Alla loro base non c’è l’intenzione di “porsi davanti” l’essente e di averlo “costantemente davanti a sé nel modo in cui è posto”. Come simulacri privi di riferimento, le immagini mediali conducono quasi una vita propria. Esse proliferano anche al di fuori di potere e dominio. Sono per cosí dire piú essenti e piú viventi dell’“essente”. Piú che un “dis-positivo”, la massa di informazioni e di comunicazione multimediale è un dis-ordine89.
La società della trasparenza non è soltanto priva di verità, ma è anche priva di apparenza. Né la verità né l’apparenza sono evidenti. Solo il vuoto è del tutto trasparente. Per bandire questo vuoto, viene messa in circolo una massa di informazioni. La massa di informazioni e di immagini è un accumulo nel quale si rende ancora percepibile il vuoto. Un semplice aumento di informazioni e di comunicazione non rischiara il mondo. Neppure l’evidenza agisce rischiarando. La massa di informazioni non produce alcuna verità. Piú informazioni vengono liberate, meno intelligibile diviene il mondo. L’iper-informazione e l’iper-comunicazione non gettano alcuna luce nella tenebra.
La società dello svelamento
Il XVIII secolo è stato, sotto un certo aspetto, non del tutto dissimile dal presente. A esso era già noto il pathos dello svelamento e della trasparenza. Nel suo studio su Rousseau, cosí scrive Jean Starobinski:
Nel 1748 il tema della menzogna dell’apparenza non è affatto originale. A teatro, in chiesa, nei romanzi, sui giornali, ciascuno denuncia a suo modo false sembianze, convenzioni, ipocrisia, dissimulazioni. Nel vocabolario della polemica e della satira nessun termine è piú frequente di svelare e mascherare90.
Le Confessioni di Jean-Jacques Rousseau sono caratteristiche della nascente epoca della verità e della confessione. Rousseau vorrebbe mostrare, cosí si dice già all’inizio dell’opera, un uomo in “tutta” la sua “verità della natura” (toute la vérité de la nature). La sua “impresa”, che non ebbe “mai esempio”, implicherebbe una spietata rivelazione del “cuore”. Rousseau rassicura Dio: “Mi sono mostrato quale io fui […]. Ho svelato il mio intimo (mon intérieur), come Tu stesso lo hai visto”91. Il suo cuore deve essere trasparente come cristallo (transparent comme le cristal)92. Il cuore cristallino è una metafora fondamentale del pensiero rousseauiano: “Il suo cuore, trasparente come il cristallo, non può nascondere nulla di ciò che vi succede; ogni sentimento che prova traspare dai suoi occhi e dal suo viso”93. Si richiede la “schiettezza di cuore”, “che mette in comune tutti i sentimenti, tutti i pensieri, e fa sí che ognuno, ciascuno sentendosi qual deve essere, si mostri quale egli è realmente”94. Rousseau esorta il suo prossimo a “svelare” il suo cuore “con la stessa franchezza”. In ciò consiste la dittatura del cuore in Rousseau.
La pretesa di trasparenza rousseauiana indica un cambiamento di paradigma. Il mondo del XVIII secolo era ancora un teatro. Era piú ricco di scene, maschere e figure. La stessa moda era teatrale. Non c’era alcuna essenziale differenza tra abbigliamento civile e costume teatrale. Anche le maschere divennero di moda. Gli uomini erano regolarmente invaghiti di scene, si consegnavano a illusioni sceniche. Le acconciature delle donne (pouf) venivano preparate per delle scene, che rappresentavano eventi storici (pouf à la circonstance), oppure sentimenti (pouf au sentiment). Per rappresentare delle scene, ai capelli venivano intrecciate anche figure di porcellana. Ci si portava in testa un intero giardino o una nave carica di vele. Le donne come gli uomini si dipingevano parti del volto con del trucco rosso. Il volto stesso diventava un palcoscenico, sul quale si rappresentavano determinate qualità caratteriali con l’aiuto di nei di bellezza (mouche). Per esempio, se il neo era collocato all’angolo dell’occhio, stava a indicare passione amorosa. Piazzato sul labbro inferiore, rinviava alla franchezza della portatrice. Anche il corpo era un luogo di rappresentazione scenica. In tal senso, non si trattava di esprimere genuinamente l’“interiorità” (l’intérieur) nascosta, anzi il “cuore”; si trattava, piuttosto, di giocare con l’apparenza, con le illusioni sceniche. Il corpo era un manichino senza anima, che bisognava drappeggiare, imbellettare, adornare con segni e significati.
Rousseau contrappone a quel gioco di maschere e ruoli il suo discorso sul cuore e sulla verità. In tal senso, contesta con veemenza il progetto di costruire un teatro a Ginevra. Il teatro sarebbe
l’arte di dissimulare, di prendere un carattere diverso dal proprio, di sembrare differenti da come si è, di appassionarsi a sangue freddo, di dire cose che non si pensano con la stessa naturalezza di quando si espone quello che davvero si pensa, e di dimenticare infine la propria condizione, a furia di prendere quella degli altri95.
Il teatro viene condannato come luogo della finzione, dell’apparenza e della seduzione, al quale manca ogni trasparenza. L’espressione non ammette alcuna posa, ma deve essere un rispecchiamento del cuore trasparente.
Già in Rousseau si può osservare che la morale della trasparenza totale si rovescia necessariamente in tirannia. Il progetto eroico della trasparenza, che consiste nel voler strappare tutti i veli, nel portare tutto alla luce, nel dissipare ogni tenebra, conduce alla violenza. Lo stesso divieto del teatro e della mimesis, che già Platone prescriveva per il suo stato ideale, conferisce dei tratti totalitari alla società della trasparenza rousseauiana. Rousseau predilige, di conseguenza, città piú piccole, perché lí “i privati, sempre sotto gli occhi dei vicini, nascono con l’istinto di criticarsi gli uni con gli altri” e “la municipalità può facilmente ispezionare chiunque”96. La società della trasparenza rousseauiana si rivela una società del controllo totale e della sorveglianza. La sua pretesa di trasparenza si aggrava nell’imperativo categorico:
Non fare, non dire mai cosa è che non vuoi che tutti vedano e ascoltino; quanto a me, ho sempre considerato come l’uomo piú degno di stima quel romano il quale voleva che la sua casa fosse costruita in modo che si vedesse tutto quanto ci si faceva97.
La pretesa di trasparenza del cuore in Rousseau è un imperativo morale. Anche il romano, con la sua casa trasparente, segue una massima morale, quella del “comandamento all’eticità”. La “casa sacra, con tetto, muro, finestra e porta” è oggi ugualmente “perforata” da “cavi materiali e immateriali”. Si disgrega in una “rovina, attraverso la cui crepa soffia il vento della comunicazione”98. Il vento digitale della comunicazione e dell’informazione pervade ogni cosa e rende tutto trasparente. Soffia attraverso la società della trasparenza. La rete digitale come medium della trasparenza, però, non è soggetta a un imperativo morale. Essa è, per cosí dire, senza cuore – il quale è stato tradizionalmente un medium teologico-metafisico della verità. La società della trasparenza digitale non è cardiologica, ma pornografica. Produce anche panottici economici. Non tende ad alcuna purificazione morale del cuore, ma al massimo profitto, al massimo interesse. L’illuminazione promette, infatti, uno sfruttamento massimo.
La società del controllo
“Noi viviamo la fine dello spazio prospettico e del panottico,” scrive Baudrillard nel 1978 in Agonia del Reale99. Baudrillard sviluppa la sua tesi ancora a partire dal medium televisivo:
L’occhio televisivo non è piú il punto di partenza di uno sguardo assoluto e la trasparenza non è piú l’ideale del controllo. Nello spazio obiettivo (lo spazio del Rinascimento) la trasparenza era ancora condizione per l’onnipotenza dello sguardo dispotico100.
La connessione digitale era allora sconosciuta a Baudrillard. Oggi, contro la sua diagnosi del tempo si dovrebbe affermare: attualmente noi viviamo non la fine del panottico, bensí l’inizio di un panottico di una specie del tutto nuova, a-prospettica. Il panottico digitale del XXI secolo è aprospettico, nella misura in cui non è sorvegliato da un centro unico, dall’onnipotenza dello sguardo dispotico. La distinzione tra centro e periferia, che è costitutiva per il panottico di Bentham, scompare completamente. Il panottico digitale sussiste senza ottica prospettica. Questo ne determina l’efficienza. Il rischiaramento aprospettico è piú efficace del controllo prospettico, perché si può essere illuminati da ogni lato, dappertutto e da ciascuno.
Il panottico di Bentham è una manifestazione della società disciplinare, è un istituto di perfezionamento. Sono soggetti al controllo panottico carceri, fabbriche, manicomi, ospedali e scuole. Si tratta di tipiche istituzioni della società disciplinare. Le celle disposte attorno alla torre di controllo sono rigorosamente isolate, cosí ai detenuti non è possibile comunicare tra loro. Le pareti divisorie fanno in modo che non possano neppure vedersi l’un l’altro. La solitudine è abolita, cosí afferma Bentham, al fine del perfezionamento. Lo sguardo del controllore raggiunge ogni angolo delle celle, mentre egli stesso resta invisibile ai detenuti: “Tutta la sua essenza consiste nella posizione centrale dell’ispettore, unita a quei dispositivi conosciuti ed efficaci che permettono di vedere senza essere visti”101. Con l’aiuto di una tecnica raffinata si suscita l’illusione di un controllo permanente. Qui, la trasparenza è data solo in modo unilaterale. In ciò consiste la sua prospetticità, che fonda la struttura di potere e dominio. Nell’aprospetticità, invece, non si sviluppa alcun occhio centrale, nessuna soggettività centrale o sovranità. Mentre i detenuti del panottico benthamiano sono coscienti della presenza costante dell’ispettore, gli abitanti del panottico digitale si credono liberi.
L’odierna società del controllo rinvia a una peculiare struttura panottica. Diversamente dai detenuti isolati del panottico di Bentham, i suoi abitanti si connettono e comunicano massivamente tra loro. Attraverso l’isolamento la trasparenza non è garantita dalla solitudine, ma dall’iper-comunicazione. La particolarità del panottico digitale è, soprattutto, che i suoi stessi abitanti collaborano attivamente alla sua costruzione e al suo mantenimento, esponendosi loro stessi alla vista e denudandosi. Espongono se stessi sul mercato panottico. L’esposizione-alla-vista pornografica e il controllo panottico trapassano l’una nell’altro. L’esibizionismo e il voyeurismo alimentano la rete come un panottico digitale. La società del controllo si realizza là dove il suo soggetto si denuda non in conseguenza di una costrizione esterna, ma di un bisogno auto-prodotto, quindi là dove l’angoscia di dover abbandonare la propria sfera privata e intima cede al bisogno di esporsi alla vista senza pudore.
Davanti al progresso inarrestabile della tecnica della sorveglianza, il futurista David Brin compie una fuga in avanti ed esige un controllo di tutti da parte di tutti, dunque una democratizzazione del controllo. In tal senso, egli auspica una “società trasparente”. Cosí, egli sostiene un imperativo categorico: “Possiamo sopportare di vivere esposti alla sorveglianza, con i nostri segreti svelati, se in cambio otteniamo noi stessi delle luci con le quali possiamo illuminare chiunque?”102. L’utopia briniana di una “società trasparente” si basa su uno sconfinamento del controllo. Deve essere eliminato ogni flusso di informazioni asimmetrico, che produce una relazione di potere e di dominio. È richiesta, dunque, un’illuminazione reciproca. Il controllo non si esercita solo dall’alto verso il basso, ma anche dal basso verso l’alto. Ciascuno espone ogni altro alla visibilità e al controllo, addirittura fin dentro la sfera privata. Questa sorveglianza totale degrada la “società trasparente” a una disumana società del controllo. Ognuno controlla l’altro.
La trasparenza e il potere mal si accordano. Il potere si ammanta volentieri del segreto. La prassi dell’arcano è una delle tecniche del potere. La trasparenza elimina le sfere arcane del potere. La trasparenza reciproca, però, può realizzarsi solo attraverso la sorveglianza continua, che assume una forma sempre piú eccessiva. È questa la logica della società del controllo. Inoltre, il controllo totale annienta la libertà d’azione e conduce, alla fine, a un livellamento. La fiducia, che produce liberi spazi d’azione, non può essere facilmente rimpiazzata dal controllo:
Il popolo deve avere fiducia nei suoi governanti; se ha fiducia, accorda loro una libertà di azione senza sentire bisogno di consultazioni, monitoraggi e supervisioni costanti. Se non godesse di questa autonomia, il governante non potrebbe mai fare una mossa103.
La fiducia è possibile solo in una condizione intermedia tra sapere e non-sapere. Fidarsi significa costruire una relazione positiva con l’altro, malgrado ciò che di lui non si sa. Rende possibili le azioni a dispetto del sapere lacunoso. Se si sapesse tutto in anticipo, la fiducia sarebbe superflua. La trasparenza è una condizione nella quale il non-sapere viene eliminato. Dove domina la trasparenza, non esiste spazio alcuno per la fiducia. Invece di dire “la trasparenza realizza la fiducia” si dovrebbe propriamente dire che “la trasparenza esclude la fiducia”. La domanda di trasparenza diventa forte proprio quando non c’è piú fiducia. In una società che si fonda sulla fiducia, non esiste una forte richiesta di trasparenza. La società della trasparenza è una società della sfiducia e del sospetto che, in conseguenza di una fiducia che viene a mancare, si sottomette al controllo. La forte richiesta di trasparenza rinvia proprio al fatto che il fondamento morale della società è diventato fragile, che i valori morali come la sincerità o l’onestà divengono sempre piú insignificanti. Al posto dell’istanza morale caduta in disgrazia, compare la trasparenza come nuovo imperativo sociale.
La società della trasparenza segue esattamente la logica della società della prestazione. Il soggetto di prestazione è libero dall’istanza di dominio esterna, che lo costringerebbe a lavorare e lo sfrutterebbe. Egli è signore e imprenditore di se stesso. La scomparsa dell’istanza di dominio, però, non conduce a una libertà reale e a un’assenza di costrizione, perché il soggetto di prestazione sfrutta se stesso. Lo sfruttatore è al tempo stesso lo sfruttato. Carnefice e vittima coincidono. L’auto-sfruttamento è piú efficace dello sfruttamento da parte di un terzo, perché si accompagna al sentimento della libertà. Il soggetto di prestazione si sottopone a una costrizione libera, auto-prodotta. Questa dialettica della libertà sta alla base della stessa società del controllo. L’auto-illuminazione è piú efficace dell’illuminazione che proviene da un altro, perché si unisce a un sentimento di libertà.
Il progetto-panottico di Bentham è motivato soprattutto da un punto di vista morale o biopolitico. Il primo effetto atteso del controllo panottico è, secondo Bentham, la “morale riformata”104. Come ulteriori effetti, egli cita la “salute preservata”, l’“istruzione diffusa” ovvero “il nodo gordiano delle leggi d’assistenza pubblica non tagliato, ma sciolto”105. Oggi, l’obbligo di trasparenza non è piú un imperativo morale o biopolitico, ma principalmente economico. Chi illumina se stesso, si consegna allo sfruttamento. L’illuminazione è sfruttamento. La sovraesposizione alla luce di una persona massimizza l’efficienza economica. Il cliente trasparente è il nuovo detenuto, anzi è l’homo sacer del panottico digitale.
Nella società della trasparenza non si costituisce una comunità nel senso enfatico. Si sviluppano solo assembramenti o molteplicità casuali di individui isolati, di ego che perseguono un interesse comune o si riuniscono attorno a un marchio (brand communities). Questi gruppi si distinguono dalle assemblee, che sarebbero capaci di un noi, di un comune agire politico. Manca loro lo spirito106. Assembramenti come le brand communities costituiscono una formazione additiva priva di concentrazione interna. I consumatori si consegnano volontariamente all’osservazione panottica, che regola e soddisfa i loro bisogni. Qui i social media non si distinguono piú dalle macchine panottiche. Comunicazione e profitto, libertà e controllo coincidono. L’apertura dei rapporti di produzione ai consumatori, che suggerisce una trasparenza bilaterale, si rivela alla fine uno sfruttamento del sociale. Il sociale viene degradato a elemento funzionale del processo produttivo e reso operazionale. Serve soprattutto all’ottimizzazione dei rapporti di produzione. All’apparente libertà del consumatore manca ogni negatività, essa non costituisce piú un esterno, che metterebbe in questione l’interno sistemico.
L’intero globo evolve oggi in un panottico. Non c’è alcun esterno rispetto al panottico, che diventa totale. Nessun muro separa l’interno dall’esterno. Google e i social network, che si presentano come spazi di libertà, assumono forme panottiche. La sorveglianza oggi non si realizza, come si ritiene normalmente, nella forma di un attacco alla libertà107. Piuttosto, ciascuno si consegna volontariamente allo sguardo panottico. Si collabora intenzionalmente al panottico digitale, svelando ed esponendo se stessi. Il detenuto del panottico digitale è, al tempo stesso, carnefice e vittima. In ciò consiste la dialettica della libertà. La libertà si rivela controllo.
Note
1 Cosí afferma Ulrich Schacht in una nota di diario del 23 giugno 2011. Cfr. Ulrich Schacht, Über Schnee und Geschichte, Matthes & Seitz, Berlin 2012.
2 Wilhelm von Humboldt, La diversità delle lingue, a cura di D. Di Cesare, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 51.
3 Jean Baudrillard, Le strategie fatali, trad. it. di S. D’Alessandro, Feltrinelli, Milano 2007, p. 29.
4 Wilhelm von Humboldt, op. cit., p. 51.
5 Georg Simmel, Sociologia, trad. it. di G. Giordano, Edizioni di Comunità, Torino 1998, pp. 308-309.
6 Richard Sennett, Rispetto. La dignità umana in un mondo di diseguali, a cura di G. Turnaturi, il Mulino, Bologna 2004, p. 125.
7 Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi 1884, in Opere complete, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1982, vol. VII, t. II, pp. 207-208.
8 Cfr. Gerd Gigerenzer, Decisioni intuitive. Quando si sceglie senza pensarci troppo, trad. it. di G. Rigamonti, Raffaello Cortina, Milano 2009.
9 L’autore propone qui un gioco di parole, intraducibile in italiano, tra il termine Glück (“fortuna”) e il termine Lück (“lacuna”). [n.d.t.]
10 Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Fenomenologia dello spirito, trad. it. di V. Cicero, Bompiani, Milano 2000, p. 87.
11 Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male, in Opere complete, cit., 1968, vol. VI, t. II, p. 134.
12 Alain Badiou, Elogio dell’amore, trad. it. di S. Puggioni, Neri Pozza, Vicenza 2013, p. 18.
13 Jean Baudrillard, op. cit., p. 199.
14 Carl Schmitt, La condizione storico-spirituale del parlamentarismo odierno, trad. it. di G. Stella, Giappichelli, Torino 2004, p. 53.
15 Carl Schmitt, Cattolicesimo romano e forma politica, trad. it. di C. Galli, Giuffrè, Milano 1986, p. 68.
16 Ibid.
17 Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, trad. it. di E. Filippini, Einaudi, Torino 2000, p. 27.
18 Ivi, p. 28.
19 Jean Baudrillard, op. cit., p. 67.
20 Roland Barthes, La camera chiara, trad. it. di R. Guidieri, Einaudi, Torino 2003, p. 94.
21 Ivi, p. 84.
22 Ibid.
23 Jean Baudrillard, op. cit., p. 67.
24 Ivi, p. 14.
25 Martin Heidegger, “Costruire, abitare, pensare”, in Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, p. 99.
26 Jean Baudrillard, op. cit., p. 67.
27 Jean Baudrillard, La trasparenza del male. Saggio sui fenomeni estremi, trad. it. di F. Marsciani, SugarCo, Milano 1991, p. 63.
28 Martin Heidegger, La poesia di Hölderlin, a cura di F.W. von Harmann e L. Amoroso, Adelphi, Milano 1988, p. 175.
29 Martin Heidegger, “Chi è lo Zarathustra di Nietzsche?”, in Saggi e discorsi, cit., p. 71.
30 L’autore gioca qui con i termini, assonanti in tedesco, verführen (“sedurre”) e verfahren (“procedere”, “realizzare”, “operare”), tradotto con “produrre” per mantenere il gioco dell’assonanza. [n.d.t.]
31 Eva Illouz, Perché l’amore fa soffrire, trad. it. di G. Mancini, il Mulino, Bologna 2013, p. 275.
32 Georg Simmel, op. cit., p. 308.
33 Ibid.
34 Giorgio Agamben, La comunità che viene, Bollati Boringhieri, Torino 2001, p. 46.
35 La traduzione tedesca del testo di Giorgio Agamben presenta il sostantivo Glanz, “splendore”, tuttavia nell’originale il filosofo non parla esattamente dello “splendore” ma del “sovrappiú” della beatitudine, che “la rende semplicemente piú splendente (clarior)”. [n.d.t.]
36 Ibid.
37 Frouwe è l’antico termine tedesco, impiegato nell’alto Medioevo, per indicare una nobildonna sposata. [n.d.t.]
38 Slavoj Žižek, Metastasen des Begehrens. Sechs erotisch-politische Versuche, hrsg. von P. Engelmann, übers. von K. Bruckschwaiger, Passagen Verlag, Wien 1996, p. 50.
39 Jacques Lacan, Il seminario. Libro VII: L’etica della psicoanalisi 1959-1969, trad. it. di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 1994, p. 190.
40 Ivi, p. 173.
41 Ivi, p. 177.
42 Slavoj Žižek, op. cit., p. 59.
43 Jacques Lacan, op. cit., p. 56.
44 Michel Foucault, “L’etica della cura di sé come pratica della libertà”, in Archivio Foucault 3: Interventi, colloqui, interviste 1978-1985, trad. it. A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 291-292.
45 Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit., pp. 45-46.
46 Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi 1884, cit., p. 517.
47 Aurelio Agostino d’Ippona, Contro la menzogna, consultabile su: http://www.augustinus.it/italiano/contro_menzogna/index2.htm, § 10.
48 Walter Benjamin, “Le affinità elettive di Goethe”, in Opere complete, ed. it. a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2008, vol. I, p. 584.
49 Ibid.
50 Giorgio Agamben, Nudità, nottetempo, Roma 2009, p. 85.
51 Ivi, p. 86.
52 Ivi, p. 127.
53 Cfr. ivi, p. 126: “Il volto, divenuto complice della nudità, guardando nell’obiettivo o ammiccando allo spettatore, dà a vedere un’assenza di segreto, esprime soltanto un darsi a vedere, una pura esposizione”.
54 Ivi, p. 109.
55 Cfr. Heinrich von Kleist, Il teatro delle marionette, trad. it. di L. Traverso, il Melangolo, Genova 2005, p. 21: “I movimenti che faceva, erano tanto comici che io faticavo a ritenere le risa. Da quel giorno, per cosí dire da quel momento, una incomprensibile trasformazione si operò nel giovine. Cominciò a passare giornate intere davanti allo specchio; e un’attrattiva dopo l’altra l’abbandonavano. Un’invisibile e inafferrabile potenza sembrava stendersi come una rete di ferro sul libero giuoco dei suoi gesti e dopo un anno non si poteva piú scoprire in lui alcuna traccia della leggiadria, che usava prima deliziare gli occhi degli uomini che lo circondavano”.
56 Giorgio Agamben, op. cit., p. 124.
57 Giorgio Agamben, Profanazioni, nottetempo, Roma 2012, pp. 104-105.
58 Roland Barthes, Variazioni sulla scrittura. Il piacere del testo, trad. it. di C. Ossola, Einaudi, Torino 1999, p. 80.
59 Giorgio Agamben, Nudità, cit., p. 127.
60 Jean Baudrillard, La trasparenza del male, cit., p. 181.
61 Roland Barthes, La camera chiara, cit., p. 29.
62 Ivi, p. 42.
63 Ivi, p. 52.
64 Ivi, p. 42.
65 Ibid.
66 Ivi, p. 56.
67 Ibid.
68 Ivi, p. 55.
69 Ivi, pp. 55-56.
70 Ivi, pp. 27-28.
71 L’autore gioca in queste righe con le espressioni bewegend (“commovente”), zu Wege bringen (“portare a termine”) e Bewegung (“movimento”). Poiché non è possibile mantenere in italiano la comune radice dei termini senza pregiudicare il significato del passo, si è scelto di rendere la locuzione zu Wege bringen con l’aggettivo “concludente”. L’autore intende qui evidenziare l’incapacità dell’accelerazione comunicativa e informatica di portare a termine (“concludere”) il suo compito. [n.d.t.]
72 Jean Baudrillard, Le strategie fatali, cit., p. 13.
73 Qui l’autore gioca con i termini erzählen (“raccontare”) ezählen (“contare”). [n.d.t.]
74 Jean Baudrillard, Le strategie fatali, cit., p. 75.
75 In una lettera a Wilhelm Fließ, scrive Freud: “Come sai, sto lavorando all’ipotesi che il nostro meccanismo psichico si sia formato mediante un processo di stratificazione: il materiale presente sotto forma di tracce mnemoniche è di tanto in tanto sottoposto a una nuova sistemazione in accordo con gli avvenimenti recenti, cosí come si riscrive un lavoro. Ciò che è essenzialmente nuovo nella mia teoria è la tesi che la memoria non sia presente in forma univoca ma molteplice e che venga codificata in diverse specie di segni”; Sigmund Freud, Le origini della psicoanalisi. Lettere a Wilhelm Fließ, abbozzi e appunti (1887-1902), a cura di C.L. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino 1961, p. 149.
76 Paul Virilio, Information und Apokalypse. Die Strategie der Täuschung, übers. von B. Wilczek, Hanser, München-Wien 2000, p. 39.
77 La traduzione piú corretta del termine geschichtet è “stratificato”, sebbene la resa in italiano perda il gioco con il termine Geschichte (“storia”), richiamato subito dopo. [n.d.t.]
78 Richard Sennett, Verfall und Ende des öffentlichen Lebens. Die Tyrannei der Intimität, übers. von R. Kaiser, Berliner Taschenbuch Verlag, Berlin 2008, p. 81.
79 Ivi, p. 467.
80 Ibid.
81 Ivi, p. 563.
82 Platone, La Repubblica, trad. it. di F. Sartori, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 229.
83 Ivi, p. 230.
84 Han usa il termine Schein, dai molteplici significati in tedesco, qui tradotto con “parvenza” per indicare il carattere illusorio e ingannevole delle ombre proiettate dal fuoco nella caverna platonica, in contrapposizione alle immagini reali poste al di fuori di essa. [n.d.t.]
85 Ivi, p. 109.
86 Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, a cura di A. Caracciolo, Mursia, Milano 1973, p. 207.
87 L’autore si riferisce alle “figure” verbali che derivano dal verbomadre stellen (“porre”): bestellen (“ordinare”), vorstellen (“rappresentare”) e herstellen (“fare”, “realizzare”). [n.d.t.]
88 Martin Heidegger, Holzwege, trad. it. di V. Cicero, Bompiani, Milano 2002, p. 108.
89 Al mondo virtuale manca la resistenza del Reale e la negatività dell’Altro. Contro la sua positività imponderabile, Heidegger evocherebbe di nuovo la “terra” (Erde). Essa indica ciò che è nascosto, inaccessibile e che si chiude. “La terra fa analogamente infrangere contro di sé ogni tentativo di invaderla. […] La terra appare apertamente illucata in quanto terra solo là dove viene guardata e salvaguardata, avverata e verecondita come la essenziatamente indischiudibile, come quella che retrocede davanti a ogni disclusione, e cioè si mantiene costantemente occlusa” (M. Heidegger, Holzwege, cit., p. 42). Anche al “cielo” appartiene l’ignoto: “Cosí il Dio sconosciuto appare in quanto sconosciuto nella manifesta apertura del cielo” (M. Heidegger, Saggi e conferenze, cit., p. 132). La “verità” heideggeriana come “svelatezza” (Unverborgenheit) resta comunque collocata nella “velatezza” (Verborgenheit). La “svelatezza” viene “strappata” a una “velatezza” (M. Heidegger, Segnavia, trad. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 255). La verità è dunque attraversata da uno “strappo”. La negatività dello strappo è per Heidegger il “dolore”. La società del positivo schiva il “dolore”. La verità come svelatezza non è una luce priva di negatività né un’irradiazione trasparente. Piuttosto, si nutre del velato. È la “radura” (Lichtung) circondata dalla selva oscura. In ciò si distingue dall’evidenza e dalla trasparenza, alle quali manca ogni negatività.
90 Jean Starobinski, Jean-Jacques Rousseau. La trasparenza e l’ostacolo, trad. it. di R. Albertini, il Mulino, Bologna 1999, p. 26.
91 Jean-Jacques Rousseau, Confessioni, trad. it. di M. Simonetti, Mondadori, Milano 1990, p. 55.
92 Ivi, Libro IX.
93 Jean-Jacques Rousseau, Rousseau giudice di Jean-Jacques, in Opere, a cura di P. Rossi, Sansoni, Firenze 1972, p. 1240.
94 Jean-Jacques Rousseau, Giulia o la nuova Eloisa, a cura di C. Romussi, Sonzogno, Milano 1910, p. 431.
95 Jean-Jacques Rousseau, Lettera sugli spettacoli, a cura di F.W. Lupi, Aesthetica, Palermo 1994, p. 89.
96 Ivi, p. 73.
97 Jean-Jacques Rousseau, Giulia o la nuova Eloisa, cit., p. 151. Rousseau costruisce uno stato di natura, nel quale gli uomini si scrutano a vicenda: “Prima che l’arte avesse modellato le nostre maniere e insegnato alle nostre passioni un linguaggio controllato, i nostri costumi erano rozzi, ma naturali; e la diversità dei comportamenti rivelava al primo sguardo la diversità dei caratteri. La natura umana, in fondo, non era migliore; ma gli uomini trovavano la base della loro sicurezza nella facile penetrazione reciproca; e questo vantaggio, che non siamo piú in grado di apprezzare, li salvava da molti vizi” (Jean-Jacques Rousseau, Discorso sulle scienze e le arti, in Scritti politici, a cura di M. Garin, Laterza, Roma-Bari 1971, vol. I, p. 7).
98 Vilém Flusser, La cultura dei media, trad. it. di T. Cavallo, Mondadori, Milano 2004, p. 162.
99 Jean Baudrillard, Agonie des Realen, übers. von L. Kurzawa u. V. Schaefer, Marve Verlag, Berlin 1978, p. 48.
100 Ivi, p. 47.
101 Jeremy Bentham, Panopticon ovvero la casa d’ispezione, con interventi di M. Foucault e M. Perrot, trad. it. di V. Fortunati, Marsilio, Venezia 2009, Lettera V, p. 46.
102 David Brin, The Transparent Society, Perseus Books, New York 1998, p. 14.
103 Richard Sennett, Rispetto, cit., pp. 125-126.
104 Jeremy Bentham, Prefazione a Panopticon, cit., p. 33.
105 Ibid.
106 Cfr. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 273: “È già dato il concetto di spirito: Io che è Noi e Noi che è Io”.
107 Cosí si intitola un libro di Juli Zeh e Ilija Trojanow: Attacco alla libertà: l’illusione della sicurezza, lo stato di sorveglianza e la costruzione del diritto borghese.