giovedì 8 luglio 2021

QUANDO ABBIAMO SMESSO DI CAPIRE IL MONDO Benjamin Labatut


Quando abbiamo smesso di capire il mondo?Ce lo racconta Benjamín Labatut nel suo ultimo romanzo. Cos’hanno in comune Alexander Grothendieck, Fritz Haber, Shinichi Mochizuki, Karl Schwarzschild, Erwin Schrödinger, Werner Karl Heisenberg? Hanno tutti cercato di capire il mondo. E sono perciò tutti protagonisti alla pari nel nuovo libro-saggio di Benjamín Labatut, Quando abbiamo smesso di capire il mondo, edito da Adelphi (trad. Lisa Topi, 2021).

Sulla sua personale definizione della scienza, Labatut ha spiegato alla Lettura: «La scienza non offre verità ma un metodo, pieno di incertezze: una domanda scottante mai del tutto risolta. La vera scienza sospetta sempre che dietro ogni sua scoperta giaccia qualcosa di più profondo, oscuro, strano. La sua più grande virtù è l’infatuazione per il mistero, un desiderio di sapere perseguito con lo stesso fervore con cui i santi desideravano il contatto con il Verbo. […] Mi interessa l’oscuro ventre della scienza, i difetti nella logica dell’universo, le scoperte clic rompono la nostra immagine della realtà o l’espandono fino all’inimmaginabile, perché anche la scienza, se vista da una certa prospettiva, è una forma particolare di follia: la follia di pensare che possiamo capire il mondo».
Gli scienziati, i fisici e i matematici descritti da Labatut sono ebbri, resi folli dalle loro stesse scoperte, totalmente immersi e annullati dalle proprie spirali di pensiero. Spesso non comprendono come sono arrivati a fare le loro scoperte, e non riescono a determinarne le conseguenze.
La rappresentazione di questi geni attraverso il racconto delle loro ossessioni e delle loro malattie ne eleva probabilmente la grandezza delle loro menti, assoggettate alla precarietà dei corpi. 


QUANDO ABBIAMO SMESSO DI CAPIRE IL MONDO   

Benjamin Labatut   

BLU DI PRUSSIA

 

Durante un esame medico nei mesi precedenti al processo di Norimberga, i dottori notarono che le unghie delle mani e dei piedi di Hermann Göring erano macchiate di un rosso sgargiante. Pensarono, erroneamente, che il colore fosse dovuto alla dipendenza da diidrocodeina, un analgesico di cui prendeva più di cento pillole al giorno. Il suo effetto, secondo William Burroughs, era paragonabile all’eroina e almeno due volte più forte della codeina, ma con una scossa elettrica simile alla coca; per questo, prima che Göring comparisse davanti al tribunale, i medici americani dovettero curarlo dalla tossicodipendenza. Non fu facile. Quando venne catturato dagli Alleati, oltre allo smalto che si metteva sulle unghie quando si travestiva da Nerone, il gerarca nazista aveva in valigia più di ventimila dosi della sua droga preferita – quasi tutto ciò che rimaneva della produzione del farmaco in Germania alla fine della seconda guerra mondiale. La tossicodipendenza di Göring non era un fatto eccezionale: praticamente tutte le truppe della Wehrmacht ricevevano metanfetamine come parte della razione. Vendute con il marchio Pervitin, i soldati le usavano per mantenersi svegli per settimane, completamente fuori di sé, alternando furore maniacale a letargia. Uno sforzo che a molti di loro provocava attacchi di euforia incontenibili: «Regna il silenzio assoluto. Tutto diventa insignificante e irreale. Mi sento leggerissimo, come se volassi sopra il mio aeroplano» scrisse anni dopo un pilota della Luftwaffe, quasi stesse ricordando il rapimento di una visione beatifica anziché i giorni infami della guerra. Lo scrittore tedesco Heinrich Böll spedì alla famiglia molte lettere dal fronte nelle quali chiedeva dosi del farmaco: «Qui è dura,» scrisse ai genitori il 9 novembre 1939 «e spero comprendiate se riesco a scrivervi solo ogni due o tre giorni. Oggi lo faccio principalmente per chiedervi il Pervitin ... Vi voglio bene, Hein». Il 20 maggio 1940 scrisse loro un’altra lettera, lunga e appassionata, che terminava con la stessa richiesta: «Potete procurarmi ancora un po’ di Pervitin, da tenere di scorta?». Due mesi dopo, i genitori ricevettero solo una riga tremolante: «Se possibile, mandatemi altro Pervitin, per favore». Oggi sappiamo che le metanfetamine furono il combustibile con cui la Germania alimentò l’attacco inarrestabile del Blitzkrieg, e che molti soldati presentavano reazioni psicotiche non appena sentivano l’amaro delle pastiglie sciogliersi in bocca. Ma gli alti ufficiali del Reich dovettero ingoiare un boccone ben più amaro quando la guerra lampo si spense sotto la pioggia di fuoco dei bombardamenti alleati, quando l’inverno russo bloccò l’avanzata dei loro carri armati e il Führer ordinò che qualsiasi cosa di valore sul territorio nazionale venisse distrutta per lasciare terra bruciata agli eserciti invasori. Di fronte alla sconfitta totale, sopraffatti dall’immagine dell’orrore che avevano invocato sopra il mondo, optarono per una rapida uscita di scena: ingoiarono capsule di cianuro e morirono soffocati dal dolce profumo di mandorla esalato dal veleno.

Negli ultimi mesi di guerra un’ondata di suicidi annientò la Germania. Solo nell’aprile del 1945, a Berlino si diedero la morte tremilaottocento persone. Nel villaggio di Demmin, circa tre ore a nord della capitale, si scatenò il panico di massa quando le truppe tedesche in ritirata fecero saltare i ponti che collegavano il villaggio con il resto del paese, intrappolando gli abitanti fra i tre fiumi che circondavano la penisola, disarmati e in balìa della crudeltà dell’Armata Rossa. In tre giorni centinaia di uomini, donne e bambini si tolsero la vita. Intere famiglie entrarono nelle acque del Tollense, gli uni legati agli altri con una corda alla vita come in uno spaventoso tiro alla fune; i bambini più piccoli indossando gli zaini di scuola pieni di sassi. Scoppiò un tale caos che le truppe russe – fino a quel momento impegnate a saccheggiare e incendiare le case e a violentare le donne – ricevettero l’ordine di contenere l’epidemia di suicidi. Per tre volte salvarono una donna che cercava di impiccarsi ai rami della gigantesca quercia del suo giardino, fra le cui radici aveva seppellito i tre figli dopo aver cosparso i loro biscotti – un ultimo sfizio – di veleno per topi. La donna sopravvisse, ma i soldati non riuscirono a fermare l’emorragia di una ragazzina che si era recisa le vene con la stessa lama con cui aveva tagliato i polsi ai genitori. Lo stesso desiderio di morte s’impossessò dei vertici del nazismo: si suicidarono cinquantatré generali dell’Esercito, quattordici dell’Aviazione e undici della Marina, oltre al ministro dell’Istruzione Bernhard Rust, al ministro della Giustizia Otto Thierack, al feldmaresciallo Walter Model, alla «Volpe del deserto» Erwin Rommel e, ovviamente, al Führer. Altri, come Hermann Göring, tentennarono e furono catturati vivi, ma non fecero che rimandare l’inevitabile. Dopo che i medici lo dichiararono idoneo al processo, Göring fu giudicato dal tribunale di Norimberga e condannato a morte per impiccagione. Chiese di essere fucilato: non voleva morire come un criminale comune. Quando seppe che non avrebbero esaudito il suo ultimo desiderio, si uccise ingoiando la capsula di cianuro che aveva nascosto in un flacone di pomata per capelli, di fianco al quale lasciò scritto che aveva scelto di togliersi la vita «come il grande Annibale». Gli Alleati cercarono di cancellare qualsiasi traccia della sua esistenza. Rimossero le schegge di vetro dalle sue labbra, spedirono i vestiti, gli effetti personali e il cadavere nudo al crematorio municipale dell’Ostfriedhof, a Monaco, dove uno dei forni venne acceso per la cremazione, mescolando le ceneri di Göring con quelle di migliaia di prigionieri politici e oppositori del regime nazista ghigliottinati nella prigione di Stadelheim, di bambini disabili e pazienti psichiatrici sterminati nel piano di eutanasia Aktion T4, e di un numero incalcolabile di vittime dei campi di concentramento. Quel poco che restava del suo corpo venne sparso a mezzanotte nelle acque del Wenzbach, un fiumiciattolo scelto a caso sulla mappa, per evitare che la sua tomba diventasse meta di pellegrinaggio per le generazioni future. Ma furono tutti sforzi inutili: ancora oggi collezionisti di ogni parte del mondo si contendono gli oggetti appartenuti all’ultimo leader nazista, comandante in capo della Luftwaffe e successore naturale di Hitler. Nel giugno del 2016 un argentino spese più di tremila euro per un paio di mutande di seta del Reichsmarschall. Qualche mese dopo pagò ventiseimila euro per il contenitore in rame e zinco della capsula che Göring triturò con i denti il 15 ottobre del 1946.

I membri dello Stato Maggiore del Partito nazionalsocialista ricevettero capsule come quella alla fine dell’ultimo concerto della filarmonica, il 12 aprile del 1945, prima della resa di Berlino. Il ministro degli Armamenti e della Produzione bellica, architetto ufficiale del Terzo Reich, Albert Speer, allestì un programma speciale che includeva il Concerto per violino in re maggiore di Beethoven seguito dalla Quarta Sinfonia di Bruckner – la «Romantica» –, e terminava, opportunamente, con l’aria di Brunilde che chiude il terzo atto del Crepuscolo degli dèi di Richard Wagner, durante la quale la Valchiria si immola in un’enorme pira funebre le cui fiamme consumeranno il mondo degli uomini, il salone e i guerrieri del Valhalla, e l’intero pantheon degli dèi. Mentre il pubblico si dirigeva verso l’uscita, con le urla strazianti di Brunilde ancora nelle orecchie, i membri del Deutsches Jungvolk, la Gioventù hitleriana – bambini di appena dieci anni, giacché gli adolescenti morivano sulle barricate –, distribuirono capsule di cianuro da cestini di vimini come fossero offerte di una liturgia. Alcune di queste capsule furono usate da Göring, Goebbels, Bormann e Himmler per suicidarsi, ma molti gerarchi nazisti decisero di spararsi un colpo alla tempia mentre le mordevano, per paura che il veleno non fosse efficace o fosse stato sabotato, e che potesse provocare non la morte istantanea e indolore che cercavano, ma la lenta agonia che avrebbero meritato. Hitler era talmente convinto che le sue dosi fossero state alterate che decise di testarne l’efficacia sull’adorata Blondi, il pastore tedesco che lo aveva accompagnato fin dentro al Führerbunker, dove dormiva ai piedi del suo letto e godeva di ogni sorta di privilegio. Il Führer preferì ammazzare il suo cane piuttosto che lasciarlo cadere nelle mani delle truppe russe, che avevano già accerchiato Berlino e si avvicinavano ogni giorno di più al rifugio sotterraneo. Non ebbe però il coraggio di farlo con le proprie mani: chiese al suo medico personale di rompere una delle capsule in bocca all’animale. Il cane – che aveva appena partorito quattro cuccioli – morì all’istante allorché la minuscola molecola di cianuro, formata da un atomo di azoto, uno di carbonio e uno di potassio, entrò in circolazione e gli fermò il respiro.

L’effetto del cianuro è fulmineo e, di fatto, esiste un’unica testimonianza del suo sapore, lasciata all’inizio del XXI secolo da M.P. Prasad, un orafo indiano di trentadue anni che riuscì a scrivere tre righe dopo averlo ingerito. «Dottori, cianuro di potassio, l’ho provato. Brucia la lingua ed è aspro» diceva il messaggio rinvenuto accanto al suo cadavere nella camera d’albergo che aveva prenotato per togliersi la vita. La forma liquida del veleno, conosciuta in Germania come Blausäure, «acido blu», è altamente volatile; bolle a ventisei gradi centigradi e rilascia nell’aria un leggero aroma di mandorla – dolce, ma con una nota amara – che non tutti riescono a distinguere, poiché tale capacità dipende da un gene specifico del quale il quaranta per cento della popolazione umana è sprovvisto. Per una mera casualità del processo evolutivo, dunque, buona parte delle persone uccise con lo Zyklon B ad Auschwitz, Majdanek e Mauthausen non si accorse dell’odore di cianuro che riempiva le camere a gas; tutti gli altri, al momento della morte, sentirono la stessa fragranza sprigionata dalle capsule suicide dei loro carnefici.

Decenni prima, un antenato del veleno utilizzato dai nazisti nei campi di concentramento, lo Zyklon A, era stato impiegato come pesticida negli aranceti californiani e per disinfestare i treni in cui decine di migliaia di migranti messicani si nascondevano per entrare negli Stati Uniti. Il legno dei vagoni era rimasto tinto di un bellissimo blu, lo stesso colore che si osserva ancora oggi in alcuni mattoni di Auschwitz. Entrambi rimandano alla vera origine del cianuro, ricavato nel 1782 dal primo pigmento sintetico moderno, il blu di Prussia.

Alla sua comparsa, fece scalpore nel mondo dell’arte europeo. In pochi anni il blu di Prussia, essendo più a buon mercato, rimpiazzò del tutto il colore che i pittori usavano fin dal Rinascimento per decorare le tuniche degli angeli e il manto della Madonna: l’oltremare, il più raffinato e costoso dei pigmenti blu, che si otteneva dalla macinazione dei lapislazzuli estratti dalle miniere nella valle del fiume Kokcha, in Afghanistan. Ridotto in polvere finissima, questo minerale acquisiva una tonalità indaco così intensa che nessuno fu in grado di riprodurlo chimicamente fino all’inizio del XVIII secolo, quando un fabbricante di pigmenti svizzero di nome Johann Jacob Diesbach creò il blu di Prussia. Avvenne per errore: in realtà cercava di riprodurre il carminio, che si ottiene triturando milioni di esemplari femmina di cocciniglia, un insetto infestante del nopal – un cactus diffuso in Messico, Centro e Sudamerica –, talmente delicato da richiedere ancora più cure dei bachi da seta. Vento, pioggia e gelate possono infatti danneggiare il suo corpo biancastro e peloso, quando non è preda di topi, uccelli e bruchi. Il suo sangue scarlatto, insieme all’oro e all’argento, fu tra i tesori più preziosi che i conquistadores sottrassero ai nativi americani, e permise alla monarchia spagnola di fondare un monopolio sul carminio che si protrasse per secoli. Diesbach, mentre aggiungeva cremor tartaro (sale di potassio) al distillato di resti animali creato da uno dei suoi assistenti, il giovane alchimista Johann Konrad Dippel, sognava proprio di mettere fine a quel monopolio. La miscela, tuttavia, non produsse il rubino intenso della cocciniglia del carminio, ma un blu tanto luminoso che pensò di aver trovato lo hsbd iryt, il colore originale del cielo, il blu leggendario con cui gli egizi dipingevano la pelle degli dèi. Custodita per secoli dai sacerdoti d’Egitto, la formula venne rubata da un greco, ma si perse per sempre dopo la caduta dell’Impero romano. Diesbach battezzò il nuovo colore «blu di Prussia» per stabilire una connessione intima e duratura tra la sua scoperta accidentale e l’impero che sicuramente avrebbe superato in gloria quelli antichi: non era un uomo sufficientemente capace, o con doti profetiche tali, da poterne prevedere la rovina. A mancargli non era solo questa sublime immaginazione, ma anche le basi del commercio e il senso degli affari necessari per trarre guadagno dalla sua creazione – guadagno di cui beneficiò invece il suo finanziatore, l’ornitologo, linguista ed entomologo Johann Leonhard Frisch, che trasformò quel blu in oro.

Frisch fece una fortuna vendendo il blu di Prussia alle botteghe di Parigi, Londra e San Pietroburgo. Usò i proventi del commercio per acquistare centinaia di ettari di terreno vicino a Spandau, dove avviò la prima bachicoltura prussiana. Naturalista appassionato, Frisch scrisse una lunga lettera al re Federico Guglielmo I, nella quale esaltava le virtù singolari del baco da seta. La lettera descriveva anche un imponente progetto di riforma agraria che Frisch aveva concepito in sogno: aveva visto gelsi spuntare nei chiostri di tutte le chiese dell’impero, nutrendo con le loro foglie color smeraldo le larve del Bombyx mori. Il suo programma venne attuato timidamente dal re Federico Guglielmo e realizzato su vasta scala due secoli dopo, sotto il Terzo Reich. I nazisti piantarono milioni di gelsi nelle proprietà abbandonate e nei quartieri residenziali, nelle scuole, nei cimiteri, negli ospedali, nei sanatori e ai lati delle strade che attraversavano la nuova Germania. Distribuirono ai piccoli agricoltori manuali di istruzioni dove spiegavano le tecniche approvate dallo Stato per la coltivazione e la lavorazione dei bachi da seta. Una volta raccolti, dovevano essere collocati per almeno tre ore sopra una pentola di acqua bollente, per far sì che il vapore li uccidesse a poco a poco senza danneggiare il prezioso materiale di cui è fatto il bozzolo. Frisch aveva inserito questo metodo in una delle appendici del suo magnum opus, un’opera in tredici volumi a cui dedicò gli ultimi vent’anni della sua vita, e nella quale catalogò, con una minuziosità che rasenta la pazzia, le trecento specie di insetti autoctoni della Germania. L’ultimo volume comprende l’intero ciclo vitale del grillo campestre, dallo stato di ninfa al canto del maschio durante il corteggiamento – un grido acuto e penetrante come il fischio di un treno. Frisch lo descrive insieme ai metodi di accoppiamento e al processo di deposizione delle uova, il cui colore è sorprendentemente simile al pigmento che lo rese ricco e che, appena messo in commercio, iniziò a essere usato dagli artisti di tutta Europa.

La prima grande opera nella quale venne utilizzato fu La sepoltura di Cristo, dipinta nel 1709 dall’olandese Pieter van der Werff. Le nuvole in cielo coprono l’orizzonte, mentre il velo che adombra il volto della Madonna scintilla di blu, riflettendo la tristezza dei discepoli radunati intorno al cadavere del Messia. Il pallore del Cristo illumina il viso della donna in ginocchio, che bacia il dorso della sua mano come se volesse cauterizzare con le proprie labbra le ferite provocate dai chiodi.

Ferro, oro, argento, rame, stagno, piombo, fosforo, arsenico: all’inizio del XVIII secolo l’essere umano conosceva solo una manciata di elementi puri. La chimica non si era ancora separata dall’alchimia, e la varietà di nomi misteriosi che si davano a sostanze come il bismuto, il vetriolo, il cinabro e l’amalgama era terreno fertile per ogni sorta di reazioni impreviste e propizie. Il blu di Prussia, per esempio, non sarebbe esistito se non fosse stato per il giovane alchimista che lavorava nella bottega di pigmenti in cui fu creato. Johann Konrad Dippel si presentava come un teologo pietista, filosofo, artista e medico, anche se per i suoi detrattori era solo un ciarlatano. Nacque nel piccolo castello di Frankenstein, vicino a Darmstadt, nell’Ovest della Germania, e fin da bambino dimostrò di possedere uno strano carisma in grado di offuscare chiunque rimanesse troppo a lungo in sua compagnia. Il potere di persuasione di cui era dotato gli permise di sedurre una delle menti scientifiche più importanti dell’epoca, quella del mistico svedese Emanuel Swedenborg, che da uno dei suoi più ferventi discepoli finì per diventare suo acerrimo nemico. Secondo Swedenborg, Dippel aveva il dono di allontanare le persone dalla fede per poi privarle della loro intelligenza e della loro bontà, «abbandonandole in una sorta di delirio». In una delle invettive più appassionate che scrisse contro di lui, Swedenborg lo paragonò addirittura a Satana: «È il più vile demonio, non osserva principio alcuno, e anzi, in generale, è avverso a qualsiasi principio». Le sue critiche non turbarono Dippel, che ormai, dopo aver passato sette anni in prigione per le sue idee e pratiche eretiche, era immune allo scandalo. Una volta scontata la pena, rinunciò a qualunque pretesa di umanità: si diede a esperimenti ignobili su animali vivi e morti, che dissezionava avidamente. Il suo obiettivo era passare alla storia come il primo uomo ad aver trasferito un’anima da un corpo a un altro, ma fu l’estrema crudeltà e il piacere perverso con cui manipolava le spoglie delle sue vittime a fare di lui una leggenda. Nel libro Vitae Animalis Morbus et Medicina, pubblicato a Leida con lo pseudonimo Christianus Democritus, affermò di aver trovato l’elisir di lunga vita – la versione liquida della pietra filosofale –, in grado di guarire qualsiasi malattia e di donare l’immortalità a chiunque lo bevesse. Cercò di barattarne la formula con la proprietà del castello di Frankenstein, ma l’unico uso che riuscì a fare del suo intruglio fu come insetticida e repellente, grazie all’ineguagliabile fetore prodotto dal misto di sangue, ossa, corna e zoccoli in decomposizione. Proprio per questa sua qualità, secoli dopo, quel liquido vischioso simile al catrame venne utilizzato durante la seconda guerra mondiale dalle truppe tedesche, che lo versarono come agente chimico non letale (per cui non regolamentato dalle Convenzioni di Ginevra) nei pozzi d’acqua del Nordafrica, in modo da rallentare i carri armati del generale Patton lanciati al loro inseguimento nelle sabbie del deserto. Uno dei componenti dell’elisir di Dippel avrebbe poi prodotto il blu che compare nella Notte stellata di van Gogh e nelle acque della Grande onda di Kanagawa di Hokusai, ma anche nell’uniforme della fanteria dell’esercito prussiano, come se la struttura chimica del colore portasse in eredità la violenza, l’ombra, la macchia originaria degli esperimenti dell’alchimista che faceva a pezzi animali vivi, assemblava i loro resti in orribili chimere e tentava di rianimarli con scariche elettriche. Mostri che ispirarono a Mary Shelley il suo capolavoro, Frankenstein, o il moderno Prometeo, in cui mise in guardia contro il progresso cieco della scienza, la più pericolosa di tutte le arti umane.

Il chimico che scoprì il cianuro sperimentò questo pericolo sulla propria pelle: nel 1782 Carl Wilhelm Scheele rimestò un recipiente di blu di Prussia con un cucchiaio su cui vi erano residui di acido solforico, creando il veleno più importante dell’epoca moderna. Battezzò il nuovo composto «acido prussico» e comprese subito l’enorme potenziale della sua iperreattività. Quello che non poteva immaginare era che duecento anni dopo la sua morte, nel XX secolo, esso sarebbe stato impiegato dall’industria, dalla medicina e dalla chimica, e che ogni mese se ne sarebbe prodotto un volume sufficiente per avvelenare tutti gli esseri umani che abitano il pianeta. Uomo di genio ingiustamente dimenticato, Scheele fu perseguitato dalla sfortuna per tutta la vita: nonostante sia stato il chimico che ha scoperto il maggior numero di elementi naturali (nove, compreso l’ossigeno, che chiamò «aria-fuoco»), dovette condividere il merito di ognuna delle sue scoperte con scienziati di minor talento che diffusero risultati simili ai suoi prima di lui. L’editore di Scheele tardò cinque anni a pubblicare il libro che lo svedese aveva preparato con amore e rigore estremo, tanto da annusare, e addirittura assaggiare, le nuove sostanze che produceva in laboratorio. Questa cattiva abitudine, che ebbe l’accortezza di evitare nel caso dell’acido prussico – che lo avrebbe ucciso in pochi secondi –, gli costò comunque la vita a quarantatré anni: morì col fegato spappolato, il corpo ricoperto dalla testa ai piedi di vesciche purulente, e paralizzato per l’accumulo di liquido nelle articolazioni. Furono gli stessi sintomi di cui in Europa soffrirono migliaia di bambini, i cui giocattoli e dolciumi erano stati tinti con un colore a base di arsenico prodotto da Scheele, ignaro della sua tossicità, un verde smeraldo così abbagliante e seducente che divenne il colore preferito di Napoleone.

Il verde di Scheele tingeva la carta da parati nelle camere da letto e nel bagno di Longwood House, la residenza scura, umida e infestata dai topi e dai ragni in cui visse l’imperatore nei sei anni di prigionia sotto gli inglesi, sull’isola di Sant’Elena. La tintura che decorava le pareti delle sue stanze spiegherebbe l’alto tasso di arsenico rilevato nei campioni dei suoi capelli, analizzati due secoli dopo la morte. Tossine che potrebbero esser state la causa del cancro che gli scavò nello stomaco un buco della dimensione di una pallina da tennis. Nelle ultime settimane di vita la malattia devastò il corpo dell’imperatore con la stessa velocità con cui i suoi soldati avevano raso al suolo l’Europa: la sua pelle diventò grigiastra e cadaverica, gli occhi si spensero, le orbite si infossarono e la barba rada si riempì di grumi di vomito. I muscoli delle braccia persero vigore e le gambe si ricoprirono di piccole cicatrici, come se improvvisamente avessero recuperato la memoria di ogni piccolo taglio o graffio subìto nell’arco della sua vita. Napoleone non fu l’unico a soffrire in esilio sull’isola, giacché tutti i servitori che insieme a lui vivevano reclusi a Longwood House lasciarono testimonianza scritta di episodi costanti di diarrea, mal di stomaco, terribili gonfiori agli arti e una sete che nessun liquido era in grado di placare. Parecchi morirono manifestando gli stessi sintomi del loro padrone, eppure questo non scoraggiò i medici, i giardinieri e i domestici a sgomitare per contendersi le lenzuola dell’imperatore defunto, benché sporche di sangue, merda, piscio, e di certo contaminate dalla sostanza che, giorno dopo giorno, lo aveva avvelenato.

Se l’arsenico è un assassino paziente, che si nasconde nei tessuti più reconditi del corpo e si accumula per anni, il cianuro ti toglie il fiato. Una concentrazione sufficientemente alta stimola di colpo i recettori chimici del corpo carotideo, attivando un riflesso che letteralmente interrompe la respirazione – ciò che la letteratura medica inglese descrive come l’audible gasp che precede la tachicardia, l’apnea, le convulsioni e il collasso cardiovascolare. La sua velocità lo ha reso il veleno prediletto di molti assassini. I nemici di Grigorij Rasputin, per esempio, cercarono di liberare Aleksandra Fëdorovna Romanova, ultima zarina dell’Impero russo, dall’influenza che il monaco esercitava su di lei avvelenandolo con petits fours imbottiti di cianuro, ma, per ragioni ancora sconosciute, Rasputin risultò esserne immune. Per ucciderlo dovettero sparargli tre colpi al petto e uno in testa, legarne il corpo con una catena di ferro e gettarlo nelle acque ghiacciate della Neva. Il tentativo fallito di avvelenamento non fece che accrescere la fama del monaco pazzo e la devozione con cui l’imperatrice e le sue quattro figlie ne veneravano il corpo, tanto che ordinarono ai loro più fidati servitori di recuperare il cadavere dal ghiaccio e collocarlo in un altare in mezzo a un bosco, dove rimase perfettamente conservato dal freddo finché le autorità non decisero di cremarlo per farlo scomparire per sempre.

Il cianuro non sedusse solo omicidi e assassini: quando si vide crescere il seno per via dei trattamenti di castrazione chimica cui il governo britannico lo aveva condannato a causa della sua omosessualità, il genio matematico e padre del computer, Alan Turing, si suicidò mordendo una mela nella quale era stato iniettato del cianuro. La leggenda narra che lo fece per imitare la scena di Biancaneve, il suo film preferito, di cui canticchiava spesso i versi in rima – «Dip the apple in the brew / Let the Sleeping Death seep through» – mentre era al lavoro. La mela, tuttavia, non fu mai analizzata per verificare l’ipotesi del suicidio (per quanto i suoi semi contengano una sostanza che rilascia cianuro naturalmente; ne basterebbe una mezza ciotola per uccidere un essere umano), e c’è chi crede che Turing sia stato ucciso dai servizi segreti britannici, nonostante avesse guidato l’équipe che era riuscita a decrittare il codice con cui i tedeschi cifravano le loro comunicazioni durante la seconda guerra mondiale, un fattore decisivo per la vittoria degli Alleati. Uno dei suoi biografi sostiene che le circostanze ambigue della sua morte (come la presenza di una fiala di cianuro nel laboratorio di casa sua, o la nota lasciata sul comodino con scritta solo la lista della spesa per il giorno dopo) fossero state pianificate da Turing per fare in modo che sua madre credesse a una morte accidentale, risparmiandole così il peso di un suicidio. Sarebbe l’ultima eccentricità di un uomo che affrontò tutte le situazioni della vita con uno sguardo unico e personale. Siccome lo infastidiva che i compagni di laboratorio usassero la sua tazza preferita, la legò con un lucchetto a un radiatore, dove è appesa ancora oggi. Nel 1940, mentre l’Inghilterra si preparava a una possibile invasione tedesca, Turing comprò con i suoi risparmi due enormi lingotti d’argento e li sotterrò in un bosco vicino a dove lavorava. Creò una complessa mappa in codice per ricordarsi la posizione, ma li nascose talmente bene che, una volta finita la guerra, non fu in grado di ritrovarli nemmeno con l’aiuto di un metal detector. Nel tempo libero amava giocare all’«isola deserta», un passatempo che consisteva nel fabbricare il maggior numero possibile di prodotti d’uso domestico; creò un detersivo, un sapone e un insetticida la cui potenza incontrollabile devastò il giardino dei vicini. Durante la guerra, per raggiungere il suo ufficio presso il centro di crittografia di Bletchley Park usava una bicicletta con una catena difettosa che si rifiutava di far aggiustare. Invece di portarla a riparare, si limitò a calcolare il numero di giri che la catena poteva compiere, e per non cadere scendeva al volo qualche secondo prima. In primavera, quando la sua allergia al polline diventava insopportabile, si copriva la faccia con una maschera antigas (il governo britannico ne aveva distribuite a tutta la popolazione all’inizio della guerra), seminando il panico tra chi, vedendolo passare, s’immaginava un attacco imminente.

La possibilità che la Germania bombardasse l’isola con gas tossici sembrava inevitabile. Un consulente del governo britannico assicurò che un simile attacco avrebbe fatto più di duecentocinquantamila vittime civili solo nella prima settimana, motivo per cui persino i neonati ricevettero maschere progettate specificamente per loro. I bambini in età scolare usavano il modello «Mickey Mouse», un soprannome grottesco che avrebbe dovuto attenuare il terrore dei piccoli al segnale d’allarme che li invitava ad allacciarsi sulla testa le cinghie di gomma e respirare il caucciù pestilenziale che gli copriva il viso, mentre seguivano le istruzioni del ministero della Guerra:

«Trattenete il respiro.

«Posizionate la maschera sul viso con i pollici all’interno delle cinghie.

«Spingete bene il mento dentro la maschera. Tirate le cinghie quanto più possibile.

«Passate un dito intorno al viso per assicurarvi che le cinghie non siano attorcigliate».

Nessuna bomba a gas venne mai sganciata sull’Inghilterra, e i bambini impararono che, se soffiavano mentre indossavano la maschera, usciva il rumore di una raffica di scoregge; tuttavia, l’orrore vissuto dai soldati che avevano subìto attacchi col gas mostarda e il gas cloro nelle trincee della prima guerra mondiale era penetrato nell’inconscio di un’intera generazione. La testimonianza più evidente della paura suscitata dalla prima arma di distruzione di massa della storia fu il rifiuto da parte di tutti i paesi di ricorrere ai gas tossici durate la seconda guerra mondiale. Gli americani avevano enormi riserve pronte al dispiegamento, e gli inglesi avevano fatto esperimenti con l’antrace nelle lontane isole scozzesi, massacrando greggi di pecore e capre. Persino Hitler, che non si fece scrupoli di nessun genere a usare i gas nei campi di concentramento, si rifiutò di usarli in battaglia, nonostante i suoi scienziati avessero prodotto circa settemila tonnellate di sarin, sufficienti a sterminare gli abitanti di trenta città della dimensione di Parigi. Ma il Führer conosceva il gas. Lo aveva visto all’opera nelle trincee quand’era ancora un soldato semplice e, almeno in parte, aveva sperimentato l’agonia che provocava.

Il primo attacco chimico della storia annientò le truppe francesi e algerine trincerate vicino alla cittadina di Ypres, in Belgio. Nel pomeriggio di giovedì 22 aprile 1915, i soldati videro un’enorme nuvola verdastra strisciare verso di loro dalla terra di nessuno. Alta due volte più di un uomo e fitta quanto la nebbia d’inverno, si estendeva da una parte all’altra dell’orizzonte per sei chilometri. Al suo passaggio, le foglie degli alberi appassirono, gli uccelli caddero a terra stecchiti e l’erba si tinse di un malsano colore metallico. Un odore di ananas e candeggina pizzicò le gole dei soldati non appena il gas entrò in contatto con la mucosa dei loro polmoni, formando acido cloridrico. A mano a mano che la nuvola si depositava nelle trincee, centinaia di uomini collassarono in preda alle convulsioni, soffocati dal catarro e dal muco giallastro che gli schiumava dalla bocca, e cianotici per la mancanza di ossigeno. «I meteorologi avevano ragione. Era una bella giornata. Il sole splendeva. I prati scintillavano di verde. Avremmo dovuto fare un picnic, non quello per cui eravamo venuti» scrisse Willi Siebert, un soldato che aprì una parte delle seimila bombole di gas cloro che i tedeschi rilasciarono quella mattina a Ypres. «All’improvviso sentimmo i francesi gridare. In meno di un minuto partì la più grossa scarica di fucili e mitragliatrici mai sentita in vita mia. I francesi devono aver sparato con ogni pezzo di artiglieria, con ogni fucile, con ogni mitragliatrice che possedevano. Non avevo mai sentito un frastuono simile. La pioggia di proiettili che passavano fischiando sopra le nostre teste era incredibile, ma non poté fermare il gas. Il vento lo sospingeva verso le linee francesi. Sentivamo le vacche muggire e i cavalli nitrire. I francesi continuavano a sparare. Era impossibile che vedessero a cosa stavano sparando. Dopo quindici minuti il fuoco cominciò a cessare. Dopo mezz’ora, solo qualche sparo qua e là. Poi tornò il silenzio. Nel giro di poco l’aria si schiarì e ci incamminammo oltre le bombole di gas vuote. Ciò che vedemmo fu la morte totale. Non c’era più niente che fosse vivo. Tutti gli animali erano usciti dalle loro tane per morire. Ovunque c’erano conigli, talpe, ratti e topi morti. L’odore di gas era ancora nell’aria, appeso ai pochi alberi rimasti. Quando raggiungemmo le linee francesi, le trincee erano vuote, ma a mezzo miglio da lì i corpi dei soldati francesi erano sparsi dappertutto. Era incredibile. Poi ci accorgemmo della presenza di qualche inglese. Gli uomini si erano graffiati la faccia e il collo nel tentativo di respirare. Alcuni si erano sparati. I cavalli, ancora nelle stalle, le vacche, i polli, tutto, tutti erano morti. Tutto, persino gli insetti erano morti».

L’uomo che aveva pianificato l’attacco col gas a Ypres era l’artefice di questo nuovo modo di fare la guerra, il chimico Fritz Haber. Di origini ebree, Haber era un vero genio, ed era forse l’unica persona su quel campo di battaglia in grado di capire le complesse reazioni molecolari che fecero diventare nera la pelle dei cinquemila soldati morti a Ypres. Il successo di quella missione gli valse la promozione a capitano, la direzione della sezione di chimica del ministero della Guerra e una cena con il Kaiser Guglielmo II in persona, ma, una volta tornato a Berlino, Haber dovette fare i conti con la moglie. Clara Immerwahr – la prima donna a ottenere un dottorato in chimica in un’università tedesca – non solo aveva visto gli effetti dei gas sulle cavie da laboratorio, ma aveva rischiato di perdere il marito quando, in una prova sul campo, il vento era cambiato all’improvviso. Il gas si era mosso verso la collina dalla quale Haber, in sella al suo cavallo, dirigeva le truppe. Lui si salvò per miracolo, ma uno dei suoi aiutanti non riuscì a evitare la nube tossica: Clara lo vide morire per terra, contorcendosi come fosse stato invaso da un esercito di formiche affamate. Quando Haber tornò vittorioso dal massacro di Ypres, Clara lo accusò di aver corrotto la scienza al fine di creare un metodo di sterminio di massa, ma Fritz la ignorò: la guerra era la guerra e la morte era la morte, al di là dei mezzi usati per infliggerla. Approfittò di un congedo di due giorni per invitare tutti i suoi amici a una grande festa che durò fino all’alba, al termine della quale la donna uscì in giardino, si tolse le scarpe e si sparò un colpo al petto con la pistola di servizio del marito. Morì dissanguata fra le braccia del figlio di tredici anni, che dopo aver sentito lo sparo si era precipitato giù per le scale. Ancora sotto shock, Fritz Haber fu costretto a partire il giorno successivo per guidare un attacco chimico sul fronte orientale. Durante il resto della guerra continuò a perfezionare i metodi di impiego del veleno, tormentato dal fantasma della moglie. «Ogni tanto mi fa bene stare al fronte, dove volano i proiettili. Lì, tutto ciò che conta è l’attimo presente, e il mio unico dovere è fare quello che posso entro i limiti della trincea. Quando torno al centro di comando, incatenato al telefono, sento nel cuore le parole che quella povera donna mi disse una volta e, nell’allucinazione provocata dallo sfinimento, vedo la sua testa spuntare in mezzo ai telegrammi. E soffro».

Dopo l’armistizio del 1918, le forze dell’Intesa dichiararono Fritz Haber criminale di guerra, nonostante anch’esse avessero utilizzato i gas tossici con lo stesso fervore degli Imperi centrali. Haber fuggì dalla Germania e si rifugiò in Svizzera, dove gli giunse la notizia della vittoria del Premio Nobel per la chimica per una scoperta che aveva fatto pochi mesi prima della guerra, e che nei decenni seguenti avrebbe cambiato il destino della specie umana.

Nel 1907 Haber fu il primo a estrarre azoto – la sostanza nutritiva di cui le piante hanno più bisogno per crescere – direttamente dall’aria. In questo modo risolse da un giorno all’altro il problema della scarsità di fertilizzanti, che all’inizio del XX secolo rischiava di provocare una carestia globale come non si era mai vista. Non fosse stato per Haber, centinaia di milioni di persone, che fino allora per concimare i terreni si erano serviti di sostanze naturali come il guano e il salnitro, sarebbero morte di fame. Nei secoli precedenti, la domanda insaziabile proveniente dall’Europa aveva indotto orde di inglesi a viaggiare fino in Egitto per saccheggiare le tombe dei faraoni, non in cerca di oro, tesori o reperti antichi, ma dell’azoto contenuto nelle ossa delle migliaia di schiavi con cui i re del Nilo si facevano seppellire per farsi servire anche dopo la morte. I profanatori di tombe inglesi avevano esaurito tutte le riserve dell’Europa continentale. Avevano riesumato più di tre milioni di scheletri, inclusi quelli delle centinaia di migliaia di soldati e di cavalli morti nelle battaglie di Austerlitz, Lipsia e Waterloo, per spedirli in nave verso il porto di Hull, nel Nord dell’Inghilterra, dove venivano frantumati dai tritaossa dello Yorkshire per fecondare i verdi campi di Albione. Al di là dell’Atlantico, i crani di trenta milioni di bisonti massacrati nelle praterie americane venivano raccolti a uno a uno dai contadini e dagli indiani poveri per poi essere venduti al Northwestern Bone Syndicate del Nord Dakota, che li ammucchiava in pile delle dimensioni di una chiesa prima di mandarli a triturare nelle fabbriche che producevano fertilizzanti e «nero d’ossa», il pigmento più scuro che si potesse trovare all’epoca. Carl Bosch, ingegnere capo del colosso chimico tedesco BASF, convertì ciò che Haber aveva ottenuto in laboratorio in un processo industriale in grado di produrre centinaia di tonnellate di azoto dentro un impianto delle dimensioni di una piccola città, dove lavoravano più di cinquantamila operai. Il processo Haber-Bosch fu la scoperta chimica più importante del XX secolo: raddoppiando la quantità di azoto disponibile, generò l’esplosione demografica che, in meno di cent’anni, permise alla popolazione umana di crescere da 1,6 a sette miliardi di persone. Oggi, circa il cinquanta per cento degli atomi di azoto presenti nel nostro corpo è stato creato in modo artificiale, e più della metà della popolazione mondiale dipende dagli alimenti coltivati grazie all’invenzione di Haber. Il mondo moderno non esisterebbe senza l’uomo che «fece il pane dall’aria», per usare le parole dei giornalisti di allora, anche se il fine immediato della sua miracolosa scoperta non era nutrire le masse affamate, ma fornire alla Germania la materia prima di cui aveva bisogno per continuare a fabbricare esplosivi e polvere da sparo durante la prima guerra mondiale, dopo che la flotta inglese aveva bloccato la sua via di accesso al salnitro cileno. Grazie all’azoto di Haber il conflitto europeo si protrasse per altri due anni, col risultato che il numero delle vittime crebbe di svariati milioni in entrambi gli schieramenti.

Tra quanti soffrirono per il prolungarsi della guerra, ci fu un giovane cadetto venticinquenne, aspirante artista, che aveva cercato di evitare il servizio militare in tutti i modi, fino a quando, nel gennaio del 1914, non venne prelevato dalla polizia al numero 34 di Schleissheimer Strasse, a Monaco. Sotto la minaccia del carcere, si presentò all’esame medico a Salisburgo, ma fu dichiarato «non idoneo, troppo debole e inadatto a portare armi». Nell’agosto dello stesso anno – mentre migliaia di uomini si arruolavano nelle forze armate, desiderosi di partecipare alla guerra ormai prossima – il giovane pittore ebbe un ripensamento improvviso: scrisse una lettera personale al re Ludovico III di Baviera, chiedendo di poter servire da austriaco nell’esercito bavarese. Il giorno dopo ottenne il suo benestare.

Adi, come lo chiamavano affettuosamente i suoi compagni del reggimento List, fu mandato direttamente alla battaglia che in Germania venne ribattezzata Kindermord bei Ypern, «il massacro degli innocenti di Ypres», perché in soli venti giorni vi morirono quarantamila giovani appena arruolati. Dei duecentocinquanta uomini che formavano la sua compagnia, ne sopravvissero solo quaranta; Adi era uno di loro. Ricevette la Croce di Ferro, fu promosso caporale e prestò servizio come staffetta presso la sede del suo reggimento, per cui passò gli anni successivi lontano dal fronte, leggendo libri di politica e giocando con il fox-terrier che aveva adottato e che chiamò Fuchsl, «volpe». Occupava il tempo libero dipingendo acquerelli blu e facendo schizzi a carboncino del suo cane e della vita in caserma. Il 15 ottobre del 1918, mentre languiva nell’attesa di nuovi ordini, rimase momentaneamente accecato per via di un attacco col gas mostarda lanciato dagli inglesi, e passò gli ultimi due mesi di guerra in convalescenza in un ospedale nella cittadina di Pasewalk, in Pomerania, sentendosi due tizzoni ardenti al posto degli occhi. Quando ricevette la notizia della sconfitta della Germania e dell’abdicazione del Kaiser Guglielmo II, ebbe un secondo attacco di cecità, molto diverso da quello provocato dal gas: «Mi si fece tutto nero. Tornai al padiglione a tentoni, barcollando mi gettai sulla branda e affondai la testa in fiamme nel cuscino» ricordò anni dopo da una cella del carcere di Landsberg, dove era stato imprigionato con l’accusa di tradimento per aver guidato un fallito colpo di Stato. Ci restò nove mesi, consumato dall’odio, umiliato dalle condizioni che le potenze vincitrici avevano imposto al suo paese di adozione e dalla codardia dei generali che si erano arresi invece di lottare fino all’ultimo uomo. Nel carcere pianificò la sua vendetta: scrisse un libro sulla sua personale battaglia e delineò un piano per elevare la Germania al di sopra di tutte le nazioni del mondo, cosa che era disposto a fare con le sue stesse mani, se fosse stato necessario. Nel periodo tra le due guerre, mentre Adi scalava i vertici del Partito nazionalsocialista dei lavoratori, lanciando le arringhe della propaganda razzista e antisemita che lo avrebbe portato a essere acclamato Führer di tutta la Germania, Fritz Haber si sforzava di risollevare la gloria perduta della sua patria.

Memore del successo ottenuto con l’azoto, Haber si mise in testa di ricostruire la Repubblica di Weimar e ripagare le indennità di guerra che ne strangolavano l’economia tramite un processo prodigioso quanto quello che gli era valso il Nobel: estrarre l’oro dalle onde del mare. Viaggiando sotto falsa identità per non destare sospetti, analizzò cinquemila campioni di acqua marina di diverse parti del mondo e pezzi di ghiaccio del Polo Nord e dell’Antartide. Era convinto di poter raccogliere l’oro sparso negli oceani, ma dopo anni di duro lavoro dovette riconoscere di aver ampiamente sovrastimato la quantità di metallo prezioso esistente. Tornò a casa a mani vuote.

In Germania si rifugiò nel lavoro di direttore dell’Istituto Kaiser Wilhelm per la fisica, la chimica e l’elettrochimica, mentre intorno a lui cresceva l’antisemitismo. Momentaneamente protetto all’interno dell’oasi accademica, Haber creò con la sua équipe un gran numero di sostanze nuove, una delle quali, combinata col cianuro, dava origine a un gas pesticida dall’azione così violenta che fu battezzato Zyklon, «ciclone». Gli entomologi che utilizzarono il composto per la prima volta, per disinfestare dai pidocchi una nave della tratta Amburgo-New York, stupiti dalla sua grande efficacia gli scrissero elogiando «l’estrema eleganza del trattamento». Grazie a questo successo, Haber fondò il Comitato tecnico per il controllo dei parassiti, e da lì organizzò lo sterminio di cimici e pulci nei sommergibili della Marina, e di ratti e scarafaggi nelle caserme dell’Esercito. Combatté contro una vera e propria legione di tarme della farina che infestava i silos distribuiti dal governo su tutto il territorio nazionale, descrivendola ai suoi superiori come «una piaga biblica che minacciava la salvaguardia dello spazio vitale tedesco», senza sapere che quelle stesse persone avevano dato avvio alla persecuzione di chi come lui aveva radici ebraiche.

Fritz si era convertito al cristianesimo a venticinque anni. Si era identificato a tal punto con il suo paese e le sue tradizioni che i figli scoprirono le sue vere origini solo quando seppero di dover lasciare la Germania. Haber scappò in un secondo momento e chiese asilo in Inghilterra, ma fu respinto violentemente dai colleghi britannici, ben consci del ruolo che aveva giocato nella guerra chimica. Fu costretto ad abbandonare l’isola poco dopo averci messo piede. Fuggì di paese in paese nel tentativo di raggiungere la Palestina, con il petto stretto dal dolore perché i suoi vasi sanguigni non riuscivano a portare al cuore sangue sufficiente. Morì a Basilea nel 1934, abbracciato alla bombola che avrebbe dovuto dilatargli le coronarie, senza sapere che, pochi anni dopo, il suo pesticida sarebbe stato utilizzato dai nazisti nelle camere a gas per uccidere la sorellastra, il cognato, i nipoti e molti altri ebrei che morirono accovacciati, con i muscoli irrigiditi, la pelle ricoperta di macchie rosse e verdi, sanguinando dalle orecchie e con la schiuma alla bocca; i bambini e gli anziani schiacciati dai più giovani, che cercavano di arrampicarsi sopra l’ammasso di corpi nudi per respirare qualche minuto in più, qualche secondo in più, perché lo Zyklon B, una volta spruzzato dal soffitto, ristagnava a terra. Dissolta la nebbia al cianuro con l’ausilio dei ventilatori, i cadaveri venivano trasportati negli enormi forni e cremati. Le ceneri erano interrate in fosse comuni, versate nei fiumi e negli stagni, o sparse come concime sui campi adiacenti.

 

Tra le poche cose che Fritz Haber aveva con sé al momento della morte, c’era una lettera scritta alla moglie. Nella lettera, Haber confessa un senso di colpa insopportabile, non per il ruolo che, direttamente o indirettamente, aveva giocato nella morte di tanti esseri umani, ma perché il suo metodo per estrarre l’azoto dall’aria aveva talmente alterato l’equilibrio naturale del pianeta che temeva che il futuro del mondo non sarebbe appartenuto all’essere umano, ma alle piante. Sarebbe bastato che la popolazione mondiale fosse diminuita per un paio di decenni a un livello premoderno, e allora le piante, nutrite all’eccesso dall’umanità, sarebbero state libere di crescere a oltranza, proliferare ed espandersi sulla superficie della Terra fino a ricoprirla interamente, soffocando qualsiasi forma di vita sotto una terribile cappa verde.

LA SINGOLARITÀ DI SCHWARZSCHILD

 

 

 

Il 24 dicembre del 1915, mentre prendeva il tè nel suo appartamento di Berlino, Albert Einstein ricevette una busta inviata dalle trincee della prima guerra mondiale.

La busta aveva attraversato un continente in fiamme; era sporca, stropicciata e coperta di fango. Un angolo era stato strappato via, e il nome del mittente era nascosto da una macchia di sangue. Einstein la prese con i guanti e l’aprì con un coltello. La lettera conteneva l’ultima scintilla di un genio: Karl Schwarzschild, astronomo, fisico, matematico e tenente dell’esercito tedesco.

«Come può vedere, nonostante gli intensi combattimenti, la guerra è stata sufficientemente buona con me da permettermi di fuggire da tutto e fare questa breve incursione nel paese delle sue idee». Così si chiudeva la lettera che Einstein lesse stupefatto, non perché uno degli scienziati più rispettati della Germania fosse al comando di un’unità di artiglieria sul fronte russo, e nemmeno per le raccomandazioni criptiche dell’amico su una prossima catastrofe, ma per quello che era scritto sul retro: in una grafia talmente minuscola che Einstein dovette usare una lente d’ingrandimento per decifrarla, Schwarzschild gli aveva inviato la prima soluzione esatta alle equazioni della teoria della relatività generale.

La lesse più volte. Quanto tempo era passato dalla pubblicazione della sua teoria? Un mese? Meno di un mese? Era impossibile che Schwarzschild avesse risolto equazioni tanto complesse in così poco tempo, quando persino lui, che le aveva inventate, non era riuscito a trovare che soluzioni approssimative. Quella di Schwarzschild era esatta: descriveva perfettamente il modo in cui la massa di una stella deforma lo spazio e il tempo circostanti.

Einstein non riusciva a credere di avere fra le mani la soluzione. Sapeva che quei risultati sarebbero stati determinanti per risvegliare l’interesse della comunità scientifica verso la sua teoria, che fino a quel momento aveva suscitato ben poco entusiasmo, in gran parte per via della sua complessità. Ormai si era rassegnato all’idea che nessuno sarebbe stato in grado di risolvere le sue equazioni in modo soddisfacente, almeno finché lui fosse stato in vita. Che Schwarzschild ci fosse riuscito tra colpi di mortaio e nubi di gas tossico era un vero miracolo: «Non avrei mai immaginato che qualcuno potesse formulare la soluzione al problema tanto facilmente!» rispose a Schwarzschild non appena tornò in sé, promettendogli che avrebbe presentato il suo lavoro all’Accademia il prima possibile. Non sapeva che stava scrivendo a un uomo morto.

 

Il metodo usato da Schwarzschild per arrivare alla soluzione era semplice: aveva preso come modello una stella ideale, perfettamente sferica, senza rotazione né carica elettrica, e aveva applicato le equazioni di Einstein per calcolare in che modo la sua massa avrebbe alterato la forma dello spazio, così come una palla di cannone appoggiata su un letto curverebbe il materasso.

La sua metrica era di una precisione tale che ancora oggi viene utilizzata per tracciare il movimento delle stelle, le orbite dei pianeti e la deviazione che subiscono i raggi del Sole quando passano vicino a un corpo con una forte influenza gravitazionale.

C’era, tuttavia, qualcosa di molto strano nei risultati di Schwarzschild.

Se applicati a una stella comune, funzionavano: lo spazio si curvava dolcemente, come aveva predetto Einstein, e l’astro rimaneva sospeso in quella depressione come una coppia di bambini che dorme su un’amaca. Il problema sorgeva quando una massa troppo grande si concentrava in un’area piccola, come accade quando una stella gigante esaurisce il suo combustibile e comincia a collassare su se stessa. Secondo i calcoli di Schwarzschild, in quel caso lo spazio e il tempo non si alteravano: si laceravano. La stella diventava sempre più compatta e la sua densità aumentava a dismisura. La forza di gravità cresceva a tal punto che lo spazio si curvava infinitamente, chiudendosi su se stesso. Il risultato era una voragine senza fine, separata per sempre dal resto dell’universo.

La chiamarono «la singolarità di Schwarzschild».

 

All’inizio lo stesso Schwarzschild ripudiò quel risultato come un’aberrazione matematica. La fisica, d’altronde, è piena di infiniti che sono soltanto numeri sulla carta, astrazioni che non rappresentano oggetti del mondo reale o che sono dovuti unicamente a errori di calcolo. La singolarità era senza dubbio questo: un abbaglio, una stranezza, un delirio metafisico.

L’alternativa, d’altronde, era impensabile: a una certa distanza dalla sua stella ideale, la matematica di Einstein impazziva, il tempo si fermava e lo spazio si attorcigliava come un serpente. Al centro della stella morta, tutta la massa si concentrava in un punto dalla densità infinita. Per Schwarzschild era inconcepibile che nell’universo esistesse qualcosa del genere. Non solo sfidava il buon senso e metteva in dubbio la validità della relatività generale, ma minacciava i fondamenti della fisica: nella singolarità, persino le nozioni di spazio e di tempo perdevano senso. Karl cercò di trovare una spiegazione logica all’enigma che aveva scoperto. Forse era colpa del suo ingegno, poiché non esistevano stelle perfettamente sferiche, completamente immobili e prive di carica elettrica: l’anomalia nasceva dalle condizioni ideali che aveva attribuito al mondo, impossibili da replicare nella realtà. La sua singolarità, si disse, era un mostro orribile ma immaginario, una tigre di carta, un drago cinese.

E tuttavia non riusciva a togliersela dalla testa. Persino nel caos della guerra, la singolarità si espandeva nella sua mente come una macchia, mescolandosi all’inferno delle trincee: la vedeva nelle ferite d’arma da fuoco dei suoi compagni, negli occhi dei cavalli morti nel fango, nel riflesso delle lenti delle maschere antigas. La sua immaginazione era ostaggio di quella scoperta. Si rese conto, con sommo orrore, che se la singolarità fosse realmente esistita sarebbe durata sino alla fine dell’universo. Le sue condizioni ideali la rendevano un oggetto eterno che non cresceva né rimpiccioliva, ma rimaneva sempre uguale a se stesso. A differenza di qualsiasi altra cosa, non era soggetta al divenire ed era doppiamente ineluttabile: dentro la strana geometria spaziale che creava, la singolarità si collocava a entrambi gli estremi del tempo; che si fuggisse verso il più remoto passato o verso il più lontano futuro, si era destinati a incontrarla. Nell’ultima lettera che spedì alla moglie dalla Russia, scritta lo stesso giorno in cui decise di condividere la sua scoperta con Einstein, Karl si lamentava di qualcosa di strano che aveva cominciato a crescergli dentro: «Non lo so nominare o definire, ma ha una forza incredibile e offusca tutti i miei pensieri. È un vuoto senza forma e dimensione, un’ombra che non riesco a vedere, ma che sento con tutta l’anima».

Poco dopo, il male invase il suo corpo.

 

La malattia si manifestò inizialmente con due vesciche ai lati della bocca. Dopo un mese gli avevano ricoperto le mani, i piedi, la gola, le labbra, il collo e i genitali. Dopo due, era morto.

 

Gli ufficiali medici gli diagnosticarono il pemfigo, una malattia in cui il corpo non riconosce più le proprie cellule e le attacca violentemente. Comune fra gli ebrei ashkenaziti, i dottori gli dissero che la causa poteva essere un attacco chimico a cui era stato esposto alcuni mesi prima. Karl lo descrisse sul suo diario: «La luna attraversava il cielo così velocemente che il tempo sembrava aver accelerato. I miei soldati prepararono le loro armi e attesero l’ordine di aprire il fuoco, ma temevano che quello strano fenomeno fosse un cattivo presagio. La paura gli si leggeva in faccia». Karl cercò di spiegare loro che la luna non aveva cambiato natura: era un’illusione ottica causata da un leggero strato di nuvole che, passando davanti al satellite, lo faceva apparire più grande e più veloce. Malgrado parlasse loro con la tenerezza di un padre che si rivolge ai figli, non riuscì a convincerli. Egli stesso non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che dall’inizio della guerra tutto si muovesse più velocemente, come se stessero scivolando in discesa. Quando il cielo si schiarì, vide due soldati a cavallo galoppare a rotta di collo, inseguiti da una densa foschia che avanzava come un’onda del mare. La nebbia si estendeva su tutto l’orizzonte, alta come la parete di una scogliera. Da lontano sembrava immobile, ma ben presto raggiunse i piedi di uno dei cavalli, e l’animale e il soldato caddero stecchiti. L’allarme risuonò per tutta la trincea. Karl dovette aiutare due giovani soldati, impietriti dalla paura, a stringere le cinghie di gomma delle loro maschere, e riuscì a malapena a infilarsi la sua quando la nube di gas calò su di loro.

Allo scoppio della guerra, Schwarzschild aveva più di quarant’anni ed era il direttore dell’osservatorio astronomico più prestigioso di tutta la Germania; una sola di queste due cose sarebbe bastata a esonerarlo dal servizio attivo. Ma Karl era un uomo d’onore che amava il suo paese e, come migliaia di altri ebrei tedeschi, era ansioso di dimostrare il suo patriottismo. Si arruolò volontario, ignorando i consigli degli amici e le suppliche della moglie.

Prima di toccare con mano la realtà dello scontro armato e sperimentare sulla propria pelle l’orrore della guerra moderna, Schwarzschild si sentì rinvigorito dal cameratismo militare. Dopo il primo dispiegamento del suo battaglione – e senza che nessuno gliel’avesse chiesto – Karl inventò un sistema per perfezionare la mira dei carri armati, e nel tempo libero lo costruì con lo stesso entusiasmo con cui aveva montato il suo primo telescopio, come se i giochi e le simulazioni dei mesi di addestramento gli avessero restituito la curiosità incontenibile dell’infanzia.

 

Era cresciuto con l’ossessione per la luce. A sette anni aveva smontato gli occhiali di suo padre e messo le lenti dentro a un giornale arrotolato, con il quale mostrava gli anelli di Saturno a suo fratello. Rimaneva sveglio per notti intere, anche quando il cielo era coperto. Una volta suo padre, preoccupato nel vedere il bambino fissare un firmamento nero, gli chiese cosa stesse cercando. Karl gli disse che c’era una stella nascosta tra le nuvole, che solo lui poteva vedere.

Dal momento in cui iniziò a parlare, non si interessò ad altro che agli astri. Fu il primo scienziato in una famiglia di commercianti e di artisti. A sedici anni pubblicò uno studio sulle orbite stellari dei sistemi binari nella prestigiosa rivista «Astronomische Nachrichten». Prima di aver compiuto vent’anni aveva già scritto sull’evoluzione delle stelle – dalla loro formazione come nubi di gas fino alla catastrofica esplosione finale – e inventato un sistema per misurare l’intensità della loro luce.

Era convinto che la matematica, la fisica e l’astronomia costituissero un solo sapere, che bisognava considerare un tutt’uno. Credeva che la Germania avesse tutte le carte in regola per diventare una potenza civilizzatrice paragonabile all’antica Grecia, ma che, per farlo, dovesse portare la scienza al livello che la sua filosofia e la sua arte avevano già raggiunto, perché «solo una visione di insieme, come quella di un santo, di un pazzo o di un mistico, ci permetterà di decifrare la forma in cui è organizzato l’universo».

Da bambino aveva gli occhi ravvicinati e le orecchie grandi, il naso a bottone, le labbra sottili e il mento a punta. Da adulto, la fronte alta, i capelli radi – segnale di una calvizie che non avrà il tempo di manifestarsi –, uno sguardo pieno di intelligenza e un sorriso malizioso nascosto dietro a un paio di baffi imperiali, spessi come quelli di Nietzsche.

Frequentò una scuola ebraica, dove metteva a dura prova la pazienza dei rabbini con domande a cui nessuno sapeva rispondere: qual è il vero significato del versetto del Libro di Giobbe in cui si dice che Dio «distende il cielo sopra il vuoto, sospende la terra sopra il nulla»?1 Al margine di uno dei suoi quaderni, di fianco ai problemi di aritmetica che per i suoi compagni erano fonte di grande frustrazione, Karl calcolò l’equilibrio dei corpi liquidi in rotazione, ossessionato dalla stabilità degli anelli di Saturno, che in un incubo ricorrente vedeva disintegrarsi. Per placare la sua ossessione, il padre lo costrinse a prendere lezioni di pianoforte. Al termine della seconda lezione, Karl aprì la cassa dello strumento e smontò tutte le corde per capire la logica dietro al suo suono; aveva letto lo Harmonices Mundi di Keplero, il quale credeva che ogni pianeta, nella sua traiettoria intorno al Sole, emettesse una melodia, una musica delle sfere che il nostro orecchio non era in grado di distinguere, ma che la mente umana avrebbe potuto decifrare.

Non perse mai la capacità di stupirsi: quando era studente universitario osservò un’eclissi totale dalla cima del monte Jungfraujoch e, benché capisse il meccanismo celeste dietro a quel fenomeno, gli era difficile accettare che un corpo così piccolo come la Luna potesse far piombare l’Europa intera nella più profonda oscurità. «Com’è strano lo spazio, e come sono capricciose le leggi dell’ottica e della prospettiva che consentono al bambino più piccolo di coprire il sole con un dito» scrisse a suo fratello Alfred, pittore che viveva ad Amburgo.

Per la sua tesi di dottorato calcolò la deformazione che subiscono i satelliti per effetto dell’attrazione gravitazionale esercitata dai pianeti attorno ai quali orbitano. La massa della Terra, per esempio, genera una marea sulla superficie della Luna simile a quella che quest’ultima produce sui nostri oceani. Nel caso della Luna, però, la marea è un’onda di roccia compatta, alta quattro metri, che si estende lungo la sua crosta. L’attrazione fra i due corpi fa sì che la rotazione della Luna sia perfettamente sincrona: il tempo in cui essa compie un giro sul proprio asse è lo stesso impiegato per compierne uno intorno al nostro pianeta, per cui una delle sue facce resta sempre celata alla nostra vista. Questo lato oscuro è rimasto inaccessibile all’occhio umano fino al 1959, quando la sonda sovietica Luna 3 lo fotografò per la prima volta.

Quando lavorava come assistente all’osservatorio Kuffner, una stella binaria della costellazione dell’Auriga, sopra la spalla di Orione, si trasformò in una nova. Per alcuni giorni fu l’oggetto più luminoso del cielo. La nana bianca di questo sistema binario era rimasta addormentata per un’eternità dopo aver esaurito il suo combustibile, finché iniziò ad alimentarsi dei gas della stella compagna, una gigante rossa, e tornò in vita con un’esplosione colossale. Schwarzschild passò tre giorni e tre notti a osservarla, senza dormire. Comprendere la morte catastrofica delle stelle gli sembrava cruciale per la sopravvivenza della nostra specie: se una di queste fosse scoppiata vicino alla Terra, avrebbe potuto spazzare via la nostra atmosfera ed estinguere qualsiasi forma di vita.

A ventotto anni e un giorno divenne il professore più giovane di tutta la Germania. Fu nominato direttore dell’osservatorio dell’Università di Göttingen, benché si fosse rifiutato di convertirsi al cristianesimo, prerequisito per esercitare la professione.

Nel 1905 viaggiò in Algeria per osservare un’eclissi totale, ma non rispettò il tempo massimo di esposizione e si danneggiò la cornea dell’occhio sinistro. Quando, dopo alcune settimane, gli tolsero la benda, nel suo campo visivo notò un’ombra grande come una moneta da due marchi, che vedeva anche a occhi chiusi. I medici gli dissero che il danno era irreversibile. Agli amici, preoccupati per le conseguenze che la cecità avrebbe avuto sulla carriera di un astronomo, disse – in parte scherzando, in parte sul serio – che, come Odino, aveva sacrificato un occhio per vedere più lontano con l’altro.

A dimostrazione del fatto che l’incidente non aveva pregiudicato le sue facoltà, quell’anno Schwarzschild pubblicò un articolo dopo l’altro, lavorando come un ossesso. Analizzò il trasporto di energia per via radiativa attraverso una stella, compì studi sull’equilibrio dell’atmosfera del Sole, descrisse la distribuzione delle velocità stellari e propose un meccanismo per modellare il trasferimento radiativo. La sua mente saltava da un argomento all’altro con un impeto incontenibile. Arthur Eddington lo paragonò a un comandante di guerriglia, poiché «le sue incursioni avvenivano dove meno ci si aspettava e la sua voracità intellettuale non conosceva limiti, si estendeva a tutti gli ambiti della conoscenza». Allarmati dal fervore maniacale con cui si dedicava alla produzione accademica, i colleghi gli consigliarono di rallentare, per evitare che il fuoco che lo animava finisse per consumarlo. Karl non li ascoltò. La fisica non gli bastava. Aspirava a un sapere come quello perseguito dagli alchimisti ed era mosso da una strana urgenza che non sapeva spiegare nemmeno a se stesso: «Sono stato spesso infedele ai cieli. Il mio interesse non si è mai fermato a ciò che si trova nello spazio, oltre la Luna, ma ho seguito i fili che si diramano da quel punto verso le zone più oscure dell’animo umano, perché è là che dobbiamo portare la nuova luce della scienza».

Qualsiasi cosa facesse, si spingeva sempre troppo oltre. Durante una spedizione sulle Alpi a cui lo aveva invitato suo fratello Alfred, ordinò alle guide di allentare le corde nel tratto più ripido dell’attraversamento di un ghiacciaio, mettendo a rischio l’intera spedizione. Lo fece solo per avvicinarsi a due colleghi, fermi a pochi metri da un crinale, e risolvere un’equazione su cui stavano lavorando insieme, tracciando simboli sul ghiaccio perenne con le punte delle loro piccozze. La sua totale mancanza di responsabilità fece infuriare il fratello, che, nonostante avessero passato quasi tutti i fine settimana dei loro anni universitari avventurandosi insieme sulle montagne della Foresta Nera, non andò mai più a scalare con lui. Alfred sapeva quanto poteva essere ossessivo suo fratello maggiore: l’anno della sua laurea erano rimasti bloccati in cima al Brocken, nelle montagne dello Harz, a causa di una tempesta di neve. Per non morire di freddo costruirono un rifugio e dormirono abbracciati come quand’erano bambini. Riuscirono a sopravvivere grazie a una scorta di noci, ma, una volta rimasti senz’acqua e senza più fiammiferi per sciogliere la neve, furono costretti a mettersi in cammino nel cuore della notte, guidati soltanto dalla luce delle stelle. Alfred scese la montagna terrorizzato, inciampando su se stesso, ma ne uscì illeso. Karl non mise neanche un piede in fallo, come se in qualche modo potesse vedere nell’oscurità, ma il freddo gli danneggiò i nervi della mano destra perché nel rifugio si era ripetutamente tolto i guanti per controllare i calcoli di una serie di curve ellittiche.

Anche come sperimentatore era impulsivo: toglieva accessori da uno strumento per usarli su un altro; se gli serviva con urgenza un diaframma, faceva un buco in un copriobiettivo. Quando lasciò Göttingen per dirigere l’osservatorio di Potsdam, il suo successore fu sul punto di rifiutare l’incarico: mentre faceva l’inventario completo per vedere fino a che punto si erano deteriorate le attrezzature sotto la direzione di Schwarzschild, trovò una diapositiva della Venere di Milo sul piano focale del telescopio più grande, disposta in modo tale che le braccia della dea fossero disegnate dalle stelle di Cassiopea.

Con le donne era estremamente goffo. Corteggiato dalle sue allieve, che lo chiamavano «il professore dagli occhi belli», l’unica donna che osò baciare fu la sua futura sposa, Else Rosenbach, la seconda volta che le chiese la mano. Else aveva rifiutato la sua prima proposta perché temeva fosse attratto da lei solo dal punto di vista intellettuale. Karl era così timido che nel suo lunghissimo corteggiamento l’aveva sfiorata solo una volta, e per sbaglio: le aveva appoggiato una mano sul seno mentre l’aiutava a mettere a fuoco la stella polare attraverso la lente di un piccolo telescopio artigianale. Si sposarono nel 1909, ebbero una figlia femmina, Agathe, e due maschi, Martin e Alfred. La bambina compì studi classici e divenne un’esperta di filologia greca, il figlio maggiore fu professore di astrofisica a Princeton, mentre il più piccolo nacque con una rara forma di fibrillazione cardiaca e le pupille perennemente dilatate, soffrì più volte di crisi di nervi nell’arco della vita e si suicidò quando non poté fuggire dalla Germania, una volta iniziata la persecuzione degli ebrei.

 

Come molte persone sensibili, con l’avvicinarsi della prima guerra mondiale Schwarzschild fu pervaso dalla sensazione di un disastro imminente. Nel suo caso, si manifestò con una paura specifica: che la fisica non fosse capace di spiegare i movimenti delle stelle e di trovare un ordine nell’universo. «Esiste almeno una cosa stabile su cui si fonda l’universo o non c’è nulla a cui aggrapparsi in questa catena di movimenti senza sosta nella quale tutto è intrappolato? Rendetevi conto fino a che punto siamo caduti nell’incertezza, se l’immaginazione umana non riesce a trovare un solo luogo in cui gettare l’ancora e non c’è pietra al mondo che possa considerarsi immobile!». Schwarzschild auspicava la venuta di un nuovo Copernico, qualcuno in grado di dare forma all’intricata meccanica celeste e di trovare lo schema che regge le complesse orbite delle stelle nel firmamento. L’alternativa gli sembrava insopportabile: che esistessero soltanto sfere morte guidate dal caso, «paragonabili a molecole di gas che volano da una parte all’altra in modo del tutto irregolare, al punto che il loro stesso caos sta per assurgere a principio». A Potsdam mise in piedi un’enorme rete di collaboratori per seguire e registrare – con la massima precisione possibile – il movimento di oltre due milioni di stelle. La sua speranza non era solo di afferrarne la logica ma, in qualche modo, di scoprire dove ci avrebbe portato. Perché il movimento di due corpi attratti fra loro dalla forza di gravità si può conoscere con esattezza grazie alle leggi di Newton, ma diventa imprevedibile con l’arrivo di un terzo corpo. Per questo Schwarzschild credeva che il nostro sistema planetario, a lungo termine, fosse destinato all’instabilità. Il suo ordine attuale sarebbe potuto durare ancora un milione di anni, o anche un miliardo, ma prima o poi i pianeti sarebbero usciti dalle loro orbite, i giganti gassosi avrebbero ingoiato i loro vicini, la Terra sarebbe stata espulsa dal sistema solare e avrebbe vagato come un astro solitario sino alla fine dei tempi, a meno che lo spazio non fosse stato piatto. Anticipando Einstein, Schwarzschild aveva considerato l’ipotesi che la geometria dell’universo non fosse una semplice scatola a tre dimensioni, ma che potesse piegarsi e deformarsi. Nel suo articolo Über das zulässige Krümmungsmaass des Raumes analizzò la possibilità di un universo semisferico, che darebbe origine a uno strano mondo avvolto su se stesso come un uroboro: «Ci troveremmo allora dentro la geometria di una terra fiabesca, una galleria di specchi le cui prospettive raccapriccianti andrebbero al di là di ciò che la mente civilizzata – che aborre e rifugge tutto ciò che non riesce a comprendere – potrebbe concepire». Nel 1910 scoprì che le stelle erano di colori diversi e fu il primo a misurarli, utilizzando una macchina fotografica speciale costruita grazie all’aiuto del custode dell’osservatorio di Potsdam (l’unico ebreo, oltre a lui, a lavorare lì), con il quale si ubriacava spesso fino all’alba. Si servì di questa macchina, che, montata sulla scopa del custode, oscillava in circolo e scattava foto da diverse angolazioni, per confermare l’esistenza delle giganti rosse, stelle mostruose cento volte più grandi del nostro Sole. La sua preferita, Antares, era color rubino. Gli arabi la chiamavano Qalb al‘Aqrab, «cuore dello Scorpione»; i greci la consideravano l’unico rivale di Ares. Ad aprile Schwarzschild organizzò una spedizione a Tenerife per fotografare il ritorno della cometa di Halley, da sempre considerato un fenomeno di cattivo auspicio: nel 66 d.C. lo storico Flavio Giuseppe l’aveva descritta «come una stella simile a una spada», che veniva ad annunciare la distruzione di Gerusalemme da parte dei romani, mentre nel 1222 la sua apparizione in cielo aveva spronato Gengis Khan a invadere l’Europa. Schwarzschild era affascinato dal fatto che l’enorme scia della sua coda – che in quell’occasione la Terra attraversò per sei ore – si allungasse sempre in direzione contraria al sole. «Quale vento la trascina con la furia di un angelo lanciatosi dal cielo che cade, cade, cade?».

Quando scoppiò la guerra, quattro anni dopo, Schwarzschild fu tra i primi ad arruolarsi volontario.

 

Il suo battaglione fu destinato all’assedio della millenaria cittadella di Namur, in Belgio, di supporto al bombardamento dei tedeschi contro l’anello di fortificazioni che la circondava. Poiché Schwarzschild aveva svolto il suo addestramento in una stazione meteorologica, venne messo a capo dell’attacco. L’avanzata dei tedeschi, infatti, era frenata da una nebbia che si alzava all’improvviso, così densa che si faceva buio in pieno giorno. Immersi nell’oscurità, nessuno dei due eserciti osava attaccare, per paura di sparare sui propri soldati. «Cosa c’è nel clima di questo paese, così caotico e strano, che si sottrae irrimediabilmente al nostro controllo e alla nostra conoscenza?» scrisse a sua moglie dopo una settimana di vano lavoro nel tentativo di contrastare l’effetto della nebbia o, almeno, di prevedere il momento in cui sarebbe comparsa. Di fronte al suo fallimento, i suoi superiori decisero di arretrare le truppe a una distanza di sicurezza e iniziare un bombardamento massiccio e indiscriminato. Spararono senza risparmiare munizioni né preoccuparsi delle vittime civili, lanciando palle del calibro di quarantadue centimetri da un cannone gigantesco che le truppe soprannominarono «grande Berta», finché la cittadella, che era rimasta in piedi dai tempi dell’Impero romano, non venne ridotta a un cumulo di macerie.

Da lì Schwarzschild fu trasferito al reggimento di artiglieria della 5a armata, nelle trincee della foresta dell’Argonne, sul fronte francese. Al suo arrivo gli ufficiali al comando gli ordinarono di calcolare la traiettoria di venticinquemila granate caricate con agenti chimici, che nel cuore della notte piovvero sulle truppe francesi. «Mi chiedono di aiutarli a prevedere i venti e i temporali, quando siamo noi ad alimentare il fuoco che li attizza. Vogliono conoscere la traiettoria ideale dei nostri proiettili per colpire il nemico, e non vedono la spirale che ci sta trascinando tutti verso il basso. Sono stanco di sentir dire gli altri ufficiali che siamo sempre più vicini alla vittoria, che siamo a un passo dalla fine della guerra. Come fanno a non rendersi conto che saliamo solo per ricadere?».

Anche immerso nella carneficina della guerra, non abbandonò mai le sue ricerche. Teneva un taccuino per gli appunti sotto l’uniforme, aderente al petto. Quando fu nominato tenente, approfittò dei suoi privilegi per farsi spedire gli ultimi studi di fisica pubblicati in Germania. Nel novembre del 1915 lesse le equazioni della relatività generale, pubblicate dall’Accademia prussiana delle scienze, e cominciò a lavorare alla soluzione che mandò a Einstein un mese dopo. Da quel momento iniziò a trasformarsi, cambiò persino il modo in cui prendeva appunti. La sua grafia si fece sempre più minuta, fino a diventare praticamente illeggibile. Nel diario e nelle lettere che spediva a sua moglie, l’ardore patriottico lasciava spazio ad amare considerazioni sull’insensatezza della guerra e al disprezzo crescente verso il corpo degli ufficiali, che aumentava a mano a mano che i suoi calcoli si avvicinavano alla singolarità. Quando ci arrivò, non riuscì più a pensare ad altro: era così assorto e distratto che durante un attacco nemico non si mise al riparo e un colpo di mortaio scoppiò a pochi metri dalla sua testa. Nessuno si capacitò di come avesse fatto a salvarsi.

Prima dell’inizio dell’inverno fu destinato al fronte orientale. I soldati che incontrò lungo il viaggio gli riferirono voci di orrendi massacri di civili, stupri e deportazioni di massa. Villaggi rasi al suolo in una notte. Città senza alcuna importanza strategica che scomparivano come se non fossero mai esistite. Le atrocità non obbedivano a nessuna logica militare; in molti casi era impossibile stabilire quale esercito ne fosse responsabile. Quando Schwarzschild vide alcuni dei suoi soldati fare il tiro al bersaglio su un cane denutrito che tremava a poca distanza da loro, paralizzato dal panico, qualcosa dentro di lui si spezzò. I disegni in cui ritraeva la vita quotidiana dei suoi commilitoni o le bellezze del paesaggio – sempre più freddo e lugubre a mano a mano che avanzavano – lasciarono il posto a pagine interamente ricoperte da spesse macchie di carboncino e da spirali nere che si perdevano oltre i bordi del foglio. Alla fine di novembre, nei dintorni di Kosava, in Bielorussia, il suo battaglione si unì alla 10a armata. Karl fu messo a capo di una piccola brigata di artiglieria. Da lì spedì una lettera a Ejnar Hertzsprung, un collega dell’Università di Potsdam, con una bozza della singolarità, una descrizione delle vesciche che gli erano comparse sulla pelle e una lunga riflessione sull’effetto nocivo che la guerra avrebbe avuto sull’anima della Germania, un paese che Karl amava ancora, ma che vedeva in bilico sull’orlo dell’abisso: «Abbiamo raggiunto il punto più alto della civilizzazione. Da qui possiamo solo cadere».

 

«Pemfigo, gengivite ulcero-necrotica acuta». Le vesciche nell’esofago gli impedivano di ingoiare qualsiasi cibo solido. Quelle nella bocca e nella gola bruciavano come carboni ardenti quando provava a bere acqua. I medici lo dichiararono incurabile e lo congedarono, ma Karl continuò a lavorare alle equazioni della relatività generale, incapace di tenere a freno la velocità della sua mente che, col progredire della malattia, non faceva che aumentare. Nell’arco della sua vita pubblicò centododici articoli, più di qualsiasi altro scienziato nel XX secolo, o quasi. Gli ultimi li scrisse su fogli sparsi a terra, steso sulla barella a pancia in giù con le braccia penzoloni, ricoperto dalle croste e dalle ferite provocate dallo scoppiare delle vesciche, come se il suo corpo si fosse trasformato in un modello in miniatura dell’Europa. Per distrarsi dal dolore, catalogò la forma e la distribuzione delle piaghe, la pressione superficiale del liquido delle vesciche e la velocità media con cui scoppiavano, ma non fu in grado di liberare la mente dal vuoto aperto dalle equazioni.

Riempì tre quaderni con calcoli che tentavano di evitare la singolarità, cercando una via d’uscita o un errore nel suo ragionamento. Nell’ultimo, Schwarzschild dedusse che qualsiasi oggetto avrebbe potuto generare una singolarità se la sua materia fosse stata compressa in uno spazio sufficientemente ridotto: per il Sole bastavano tre chilometri, per la Terra otto millimetri, per un corpo umano medio 0,000000000000000000000001 centimetri.

Dentro l’abisso prefigurato dalla sua metrica, i parametri fondamentali dell’universo si scambiavano le loro proprietà: lo spazio fluiva come il tempo, il tempo si estendeva come lo spazio. Questa distorsione alterava il principio di causalità: Karl dedusse che, se un ipotetico viaggiatore fosse mai sopravvissuto a un viaggio in questa zona rarefatta, avrebbe ricevuto luce e informazioni dal futuro, avrebbe visto eventi che non erano ancora accaduti. Se fosse stato in grado di raggiungere il centro dell’abisso senza essere disintegrato dalla gravità, avrebbe distinto due immagini sovrapposte, proiettate simultaneamente in un piccolo cerchio sopra la sua testa, come si vedrebbero in un caleidoscopio: in una avrebbe percepito, a una velocità inconcepibile, tutta l’evoluzione futura dell’universo; nell’altra, il passato congelato in un istante.

Ma le stranezze non erano solo al suo interno. Anche attorno alla singolarità esisteva un limite, una barriera che segnava un punto di non ritorno. Attraversata quella linea, qualsiasi cosa – un intero pianeta o una minuscola particella subatomica – sarebbe rimasta intrappolata per sempre. Sarebbe sparita dall’universo come se fosse caduta in un pozzo senza fondo.

Qualche decennio dopo, questo limite fu ribattezzato «raggio di Schwarzschild».

 

Alla sua morte, Einstein gli dedicò un’elegia che lesse durante il funerale. «Combatteva contro i problemi dai quali gli altri rifuggivano. Amava scoprire le relazioni tra i diversi aspetti della natura, ma la vera fonte della sua ricerca era l’estasi, il piacere che prova l’artista, la vertigine del visionario in grado di riconoscere i fili che tessono le strade del futuro» disse allo sparuto gruppo di persone riunite davanti alla sua tomba, nessuna delle quali sospettava fino a che punto Schwarzschild fosse stato tormentato dalla sua più grande scoperta. Neppure Einstein, infatti, era in grado di capire cosa accade quando le equazioni portano alla singolarità e l’infinito appare come unico risultato.

Il giovane matematico Richard Courant fu l’ultima persona a parlare direttamente con Schwarzschild, e l’unico a darci testimonianza degli effetti che la singolarità ebbe sulla mente dell’astrofisico.

Courant era stato ferito a Rava-Rus’ka e aveva incontrato Schwarzschild all’ospedale militare. Il giovane era stato assistente di David Hilbert, uno dei matematici tedeschi più influenti dell’epoca, per cui riconobbe Karl immediatamente, nonostante le ferite gli sfigurassero il viso. Si avvicinò timidamente, chiedendosi come mai un uomo del suo prestigio e della sua levatura fosse stato destinato a un luogo tanto pericoloso. Nel suo diario Courant scrisse che gli occhi del tenente Schwarzschild, offuscati dal campo di battaglia, si incendiarono di colpo non appena gli raccontò le idee che Hilbert stava sviluppando. Chiacchierarono tutta la notte. Verso l’alba Schwarzschild gli parlò della crepa che pensava di avere scoperto.

Per Karl, l’aspetto peggiore della massa concentrata a quel livello non era il modo in cui alterava lo spazio né gli strani effetti che aveva sul tempo: il vero orrore, gli disse, è che la singolarità era un punto cieco, fondamentalmente inconoscibile. Dal momento che non emetteva luce, l’occhio umano non sarebbe mai stato in grado di vederla. Ma nemmeno la mente avrebbe potuto comprenderla, perché nella singolarità la matematica della relatività generale non era più valida. La fisica, semplicemente, smetteva di aver senso.

Courant lo ascoltò assorto. Poco prima che gli infermieri venissero a prenderlo per caricarlo su un convoglio diretto a Berlino, Schwarzschild gli fece una domanda che lo tormentò per il resto della sua vita, anche se in quel momento Courant pensò che stesse delirando, che si trattasse solo dell’allucinazione di un soldato moribondo, della pazzia che si affacciava alla sua mente approfittando della stanchezza e della disperazione.

Se la materia poteva assumere questo stato mostruoso, gli disse Schwarzschild con voce tremante, esisteva un corrispettivo nella mente umana? Una concentrazione sufficientemente alta di volontà, milioni di esseri umani asserviti allo stesso fine, le loro menti compresse nello stesso spazio psichico avrebbero innescato qualcosa di simile alla singolarità? Non solo Schwarzschild era convinto che fosse possibile, ma che sarebbe accaduto nella sua Vaterland. Courant cercò di calmarlo. Gli disse che non vedeva alcun segnale della tragedia che Schwarzschild temeva, e che non poteva esserci niente di peggio della guerra in cui già si trovavano. Gli ricordò che la psiche umana era un mistero più grande di qualsiasi enigma matematico, e che non era saggio proiettare le idee della fisica in ambiti così lontani come la psicologia. Ma Schwarzschild era inconsolabile. Farfugliava qualcosa circa un sole nero che si affacciava all’orizzonte e che, un giorno, avrebbe potuto ingoiare il mondo intero, lamentandosi che ormai non c’era niente da fare. Perché la sua singolarità non dava segnali d’allerta. Il punto di non ritorno – il limite oltre il quale non si poteva andare senza rimanere intrappolati – non era indicato in alcun modo. Chiunque l’avesse varcato non avrebbe avuto speranza, il suo destino sarebbe stato segnato, qualunque percorso l’avrebbe condotto dritto alla singolarità. E se quel limite è così, gli chiese Schwarzschild con gli occhi iniettati di sangue, come si fa a sapere quando lo si è oltrepassato?

Courant fece ritorno in Germania. Schwarzschild morì quella notte.

 

Passarono più di vent’anni prima che la comunità scientifica accettasse le idee di Schwarzschild come una conseguenza inevitabile della teoria della relatività.

Chi più lottò per esorcizzare il demone evocato da Karl fu il suo amico Albert Einstein. Nel 1939 pubblicò un articolo intitolato On a Stationary System with Spherical Symmetry Consisting of Many Gravitating Masses, in cui spiegava perché non potevano esistere singolarità come quella di Schwarzschild. «La singolarità non sussiste per la semplice ragione che la materia non può concentrarsi in modo arbitrario, in quanto le particelle che la costituiscono raggiungerebbero la velocità della luce». Con l’intelligenza che l’aveva sempre contraddistinto, Einstein si appellava alla logica interna della sua teoria per rattoppare lo squarcio nella tela dello spaziotempo e proteggere l’universo da un catastrofico collasso gravitazionale.

Ma i calcoli del più grande fisico del XX secolo erano sbagliati.

Il primo settembre del 1939 – lo stesso giorno in cui i carri armati nazisti varcarono la frontiera della Polonia – Robert Oppenheimer e Hartland Snyder pubblicarono un articolo sul volume 56 della «Physical Review». Nell’articolo i fisici americani dimostravano al di là di ogni dubbio che, «quando una stella sufficientemente pesante avrà esaurito le sue fonti di energia termonucleare, essa collasserà e, a meno che la sua massa non si riduca per fissione, radiazione o espulsione, tale contrazione continuerà indefinitamente», formando il buco nero che Schwarzschild aveva profetizzato, capace di accartocciare lo spazio come un foglio di carta ed estinguere il tempo come fosse la luce di una candela, senza che nessuna forza fisica o legge naturale possa evitarlo. 

IL CUORE DEL CUORE

 

 

All’alba del 31 agosto 2012 il matematico giapponese Shinichi Mochizuki pubblicò quattro articoli sul suo blog. Quelle oltre cinquecento pagine contenevano la dimostrazione di una delle congetture più importanti della teoria dei numeri, conosciuta come a + b = c.

Nessuno finora è stato in grado di capirla.

 

Mochizuki aveva lavorato per anni in isolamento, sviluppando una teoria matematica che non assomigliava a nulla di conosciuto.

Dopo averla caricata sul suo blog non la pubblicizzò in alcun modo. Non la mandò a riviste di settore e non la presentò a nessun congresso. Uno dei primi ad accorgersi della sua esistenza fu Akio Tamagawa, un collega dell’Istituto di ricerca di scienze matematiche dell’Università di Kyoto, che inviò gli articoli a Ivan Fesenko, teorico dei numeri dell’Università di Nottingham, in allegato a un’e-mail che conteneva solo la domanda:

«Mochizuki ha risolto a + b = c?».

Fesenko riuscì a stento a contenere l’emozione mentre scaricava quei quattro, pesanti file. Rimase per dieci minuti davanti al monitor a guardare la barra di avanzamento del download, poi si rinchiuse per due settimane a studiare la dimostrazione, ordinando cibo da asporto e dormendo solo quand’era esausto. La sua risposta a Tamagawa fu di tre parole:

«È impossibile capirla».

 

Nel dicembre del 2013, un anno dopo che Mochizuki aveva pubblicato i suoi articoli, alcuni dei più illustri matematici del mondo si riunirono a Oxford per studiare la sua dimostrazione. Nei primi giorni del seminario l’entusiasmo la fece da padrone. I ragionamenti del giapponese cominciavano a essere compresi, e la sera del terzo giorno, nei forum e nelle comunità specializzate in rete, iniziò a diffondersi la voce che una svolta epocale era ormai alle porte.

Il quarto giorno crollò tutto.

Da un certo punto in poi, nessuno riusciva più a seguire l’argomentazione del giapponese. Le migliori menti matematiche del pianeta erano perplesse, e non c’era nessuno che potesse venir loro in aiuto. Mochizuki si era rifiutato di partecipare all’incontro.

 

Il nuovo ramo della matematica che il giapponese aveva creato per dimostrare la congettura era così bizzarro, astratto e avanti rispetto ai tempi che un teorico dell’Università del Wisconsin a Madison disse che gli sembrava di leggere un paper proveniente dal futuro: «Coloro che si sono avvicinati a questa cosa sono tutti personaggi autorevoli, ma non appena cominciano ad analizzarla diventano incapaci di parlarne».

I pochi che sono riusciti a seguire il ragionamento di Mochizuki, o quanto basta per comprenderne anche solo una parte, dicono che si tratta di una serie di relazioni sottese ai numeri, invisibili a occhio nudo. «Per capire il mio lavoro dovete disattivare gli schemi di pensiero che avete installato nei vostri cervelli e che avete dato per scontato per così tanti anni» aveva scritto Mochizuki sul suo blog.

 

Nato a Tokyo, fin da molto giovane si fece notare per la sua capacità di concentrazione, che i suoi compagni consideravano sovrumana. Da bambino soffriva di attacchi di mutismo che durante l’adolescenza divennero sempre più frequenti, fino a quando sentirlo parlare diventò l’eccezione. Non riusciva a sostenere lo sguardo altrui e camminava a testa bassa, un’abitudine che gli causò una lieve gobba che non intaccava il suo indiscusso fascino: la fronte alta, i neri capelli ingellati e gli occhiali enormi lo facevano assomigliare incredibilmente a Clark Kent, l’alter ego di Superman.

Entrò a Princeton quando aveva solo sedici anni, e a ventitré aveva già un dottorato. Dopo aver trascorso due anni a Harvard tornò in Giappone, dove accettò una cattedra all’Istituto di ricerca di scienze matematiche dell’Università di Kyoto, con la condizione di potersi dedicare solo alla ricerca, senza dover tenere lezioni. Nei primi anni del 2000 smise di partecipare a conferenze internazionali. In quelli successivi, il suo raggio di azione si fece sempre più ristretto. Prima si limitò a viaggiare soltanto in Giappone, poi smise di avventurarsi al di fuori della prefettura di Kyoto e, alla fine, i suoi spostamenti si ridussero al breve percorso che collegava il suo appartamento con il suo piccolo ufficio all’università.

 

Dalla finestra del suo ufficio, sobrio come l’interno di un tempio, si vede il monte Daimonji, sul cui pendio una volta all’anno, durante il festival O-bon, i frati bruciano una scultura gigantesca con la forma del kanji , il cui disegno ricorda un uomo con le braccia tese al massimo. Il kanji significa «enorme», «alto», «monumentale», ed esprime una magniloquenza paragonabile a quella di Mochizuki nel battezzare il suo nuovo ramo della matematica, che chiamò, senza tracce di modestia o ironia, «teoria inter-universale di Teichmüller».

 

La congettura a + b = c tocca i fondamenti della matematica. Ipotizza una profonda e inattesa relazione tra proprietà additiva e moltiplicativa dei numeri. Se fosse provata, diventerebbe uno strumento potentissimo, capace di risolvere in maniera quasi automatica un’immensa varietà di enigmi. L’ambizione di Mochizuki, tuttavia, è andata oltre: non si è limitato a dimostrare la congettura, ma ha creato una nuova geometria che obbliga a pensare i numeri in modo radicalmente diverso. Secondo Yuichiro Yamashita, uno dei pochi a sostenere di aver compreso la reale portata della teoria inter-universale, Mochizuki ha dato vita a un intero universo, del quale, al momento, è l’unico abitante.

 

Il rifiuto di Mochizuki di rilasciare interviste, presentare pubblicamente i suoi risultati o accennare alla sua dimostrazione in una lingua che non fosse il giapponese iniziarono a destare sospetti. Qualcuno disse che si trattava di un elaborato imbroglio, qualcun altro che Mochizuki soffriva di uno squilibrio psichico, adducendo come prova la sua crescente fobia sociale e l’isolamento in cui lavorava.

Le cose sembrarono migliorare nel 2014, quando Mochizuki annunciò che nell’ottobre di quell’anno sarebbe andato in Francia per presentare il suo lavoro in un seminario di sei giorni all’Università di Montpellier. I posti andarono subito esauriti e Mochizuki fu accolto come un re dal rettore dell’università, ma a tenere il seminario non si presentò mai. Sparì per una settimana senza che nessuno sapesse dove fosse e, il giorno prima dell’inizio delle sue lezioni, i sorveglianti lo espulsero dal campus in seguito a uno strano incidente.

Al suo ritorno in Giappone Mochizuki cancellò la dimostrazione dal suo blog e minacciò di fare causa a chiunque avesse provato a pubblicarla. Fu attaccato duramente dai suoi critici più accaniti, mentre i colleghi ipotizzarono che avesse trovato un errore sostanziale nella logica della dimostrazione. Mochizuki lo negò, ma non diede spiegazioni. Rinunciò al suo impiego all’Università di Kyoto e, prima di chiudere il blog, scrisse un ultimo post, nel quale diceva che anche in matematica certe cose dovevano rimanere segrete per sempre, «per il bene di tutti noi». Il suo gesto incomprensibile e, in apparenza, capriccioso non fece che confermare quello che molti temevano: Mochizuki era stato colpito dalla maledizione di Grothendieck.

 

Alexander Grothendieck è stato uno dei matematici più importanti del XX secolo. Con uno slancio creativo praticamente senza eguali nella storia della scienza, rivoluzionò il modo di intendere lo spazio e la geometria non una, bensì due volte. Mochizuki ottenne fama internazionale nel 1996, quando riuscì a dimostrare una delle congetture formulate da Grothendieck, e coloro che ebbero modo di conoscere il matematico giapponese all’università testimoniarono che lo considerava il suo maestro.

Lettura obbligatoria per i matematici di tutto il mondo, Grothendieck aveva guidato un’équipe nella stesura di decine di migliaia di pagine, un’opera colossale e impressionante. La maggior parte degli studenti ne apprende lo stretto necessario utile al proprio ambito, e persino questo può richiedere anni di studio. Mochizuki, invece, iniziò a leggere il primo tomo delle opere complete di Grothendieck negli anni dell’università, e non si fermò fino all’ultimo.

Minhyong Kim, compagno di stanza di Mochizuki a Princeton, ricorda di averlo visto delirare una notte, dopo aver passato giorni senza dormire né mangiare. Esausto e disidratato, il giapponese balbettava frasi senza senso, con le pupille dilatate come quelle di un gufo. Parlava del «cuore del cuore», una strana entità che Grothendieck aveva scoperto al centro della matematica e che lo aveva condotto alla pazzia. La mattina seguente, quando Kim gli chiese spiegazioni, Mochizuki lo guardò senza capire. Non ricordava niente, di quella notte.

 

Tra il 1958 e il 1973 Alexander Grothendieck dettò legge nel mondo della matematica come un principe illuminista, attraendo nella sua orbita le migliori menti della sua generazione, che misero da parte le proprie ricerche in nome di un progetto tanto ambizioso quanto radicale: scoprire le strutture alla base di tutti gli oggetti matematici.

Il suo approccio al lavoro era inusuale. Benché avesse risolto tre delle quattro congetture di Weil, i principali enigmi matematici dell’epoca, Grothendieck non era attratto dai problemi difficili né interessato ai risultati finali. Il suo più grande desiderio era raggiungere una piena comprensione dei fondamenti, e a tal fine erigeva complesse architetture teoriche intorno ai quesiti più semplici, che circondava con eserciti di concetti nuovi. Sotto la pressione gentile e paziente della ragione di Grothendieck, le soluzioni sembravano scaturire da sé, rivelarsi spontaneamente, «come una noce che si apre dopo essere rimasta sott’acqua alcuni mesi».

Il suo metodo consisteva nella generalizzazione, lo zoom out spinto al parossismo. Qualunque dilemma diventava semplice, se lo si guardava da una certa distanza. Non gli interessavano i numeri, le curve, le rette o qualsiasi altro oggetto matematico in particolare: l’unica cosa di cui gli importava era la relazione tra di essi. «Aveva una sensibilità straordinaria per l’armonia fra le cose» ricorda uno dei suoi allievi, Luc Illusie. «Non solo ha introdotto nuove tecniche e dimostrato grandi teoremi: ha cambiato il nostro modo di pensare la matematica».

Era ossessionato dallo spazio, e uno dei suoi più grandi colpi di genio fu espandere la nozione di punto. Grazie a Grothendieck, il punto cessò di essere una posizione senza dimensioni e si animò di una complessa struttura interna. Dove altri vedevano qualcosa senza profondità, volume, larghezza e lunghezza, Alexander vide un intero universo. Un’ipotesi tanto audace non veniva avanzata dai tempi di Euclide.

 

Per venticinque anni, dodici ore al giorno, sette giorni su sette, Grothendieck dedicò tutte le sue energie alla matematica. Non leggeva i giornali, non guardava la televisione, non andava al cinema. Gli piacevano le donne brutte, gli edifici in macerie, gli alloggi fatiscenti. Lavorava in un ufficio freddo con la pittura scrostata alle pareti, dando le spalle all’unica finestra; in tutta la stanza c’erano solo quattro oggetti: la maschera funebre della madre, una piccola scultura in fil di ferro a forma di capra, un barattolo di olive spagnole e un ritratto del padre, disegnato nel campo di concentramento di Le Vernet.

 

Aleksandr Šapiro, Aleksandr Tanarov, Saša Pëtr, Sergej. Nessuno conosce il vero nome di suo padre, che ai tempi in cui militava nei movimenti anarchici che scossero l’Europa di inizio secolo usò diversi pseudonimi. Ucraino di ascendenza chassidica, a quindici anni fu arrestato in Russia dalle forze zariste insieme ai suoi compagni e condannato a morte. Fu l’unico del gruppo a sopravvivere. Per tre settimane lo trascinarono dalla cella al patibolo, dove assistette alla fucilazione dei compagni, uno dopo l’altro. Gli fu concessa la grazia in virtù della sua età e fu condannato a trascorrere in carcere il resto dei suoi giorni. Venne liberato dieci anni dopo durante la rivoluzione del 1917 e si buttò a capofitto nei movimenti clandestini, nelle congiure e nelle fazioni rivoluzionarie, che gli costarono il braccio sinistro, non si sa se a causa di un omicidio fallito, di un tentato suicidio o di una bomba scoppiatagli fra le mani. Si guadagnava da vivere come fotografo di strada. A Berlino conobbe la madre di Alexander e, insieme, si trasferirono a Parigi. Nel 1939 fu arrestato dal governo di Vichy e internato a Le Vernet. Deportato in Germania nel 1942, morì avvelenato dallo Zyklon B in una delle camere a gas di Auschwitz.

Alexander prese il cognome dalla madre, Johanna Grothendieck, una donna che scrisse per tutta la vita ma non riuscì mai a veder pubblicati i suoi romanzi e le sue poesie. Quando conobbe il padre di Alexander, era sposata e lavorava come giornalista in un quotidiano di sinistra. Abbandonò il marito e si unì alla lotta rivoluzionaria con il nuovo amante. Quando Alexander aveva cinque anni, sua madre lo lasciò in custodia a un pastore protestante per andare a combattere in Spagna, prima per la causa anarchica durante la Seconda Repubblica, poi contro le forze di Franco. Dopo la sconfitta delle milizie repubblicane si rifugiò in Francia col marito, e da lì mandò a prendere il figlio. Johanna e Aleksandr furono dichiarati dal governo francese «persone non gradite», e trasferiti, insieme ad altri «stranieri sospetti» che facevano parte delle Brigate internazionali e ai profughi che fuggivano dalla guerra civile spagnola, al campo di Rieucros, vicino a Mende, dove Johanna si ammalò di tubercolosi. Quando la seconda guerra mondiale finì, Alexander aveva diciassette anni. Era sopravvissuto con sua madre in estrema povertà, raccogliendo uva nei pressi di Montpellier, città dove iniziò gli studi universitari. La relazione tra madre e figlio fu molto stretta, e segnata dalla malattia. Johanna morì per una ricaduta di tubercolosi nel 1957.

 

Quando Grothendieck era ancora studente all’Università di Montpellier, il suo professore Laurent Schwartz gli fece leggere un articolo, che aveva appena pubblicato, su quattordici grandi problemi irrisolti. La sua idea era che Alexander ne scegliesse uno per la tesi. Il giovane, che a lezione si annoiava terribilmente e non era capace di seguire le regole, si ripresentò dopo tre mesi. Schwartz gli chiese quale problema avesse scelto e a che punto fosse arrivato. Alexander lo guardò senza capire. Li aveva risolti tutti.

Sebbene chiunque lo incontrasse rimanesse impressionato dal suo talento, gli fu molto difficile trovare lavoro in Francia perché, a causa dei continui spostamenti dei genitori, Alexander non aveva nazionalità. Apolide, il suo unico documento d’identità era il passaporto Nansen, che lo qualificava come un rifugiato senza Stato.

 

Aveva un fisico imponente, alto, magro e atletico, con la mascella squadrata, le spalle larghe e il naso grosso da toro. Gli angoli della bocca carnosa si arricciavano all’insù dandogli un’espressione maliziosa, come se conoscesse un segreto che gli altri ignoravano. Quando iniziò a perdere i capelli si rasò completamente. In alcune foto sembra il gemello di Michel Foucault.

Grande pugile, fanatico di Bach e degli ultimi quartetti di Beethoven, amava la natura e venerava l’olivo, «modesto e longevo, pieno di sole e di vita». Ma più di ogni altra cosa al mondo, inclusa la matematica, aveva una profonda devozione per la scrittura, tanto che non riusciva a pensare se non in forma scritta. Scriveva con tanto fervore che in alcuni suoi manoscritti la matita trapassava la carta. Quando faceva i suoi calcoli, annotava le equazioni su un quaderno e le ripassava più e più volte, finché i simboli non erano così spessi da diventare indecifrabili, solo per il piacere fisico che gli provocava il graffio della mina sulla carta.

 

Nel 1958 il milionario francese Léon Motchane fondò l’Institut des Hautes Études Scientifiques, nei dintorni di Parigi, come un vestito fatto su misura per l’ambizione di Grothendieck. Lì, a soli trent’anni, Alexander annunciò un programma di lavoro per rifondare le basi della geometria e unificare tutti i rami della matematica. Un’intera generazione di professori e studenti si mise al servizio del sogno di Alexander, che predicava a voce alta mentre loro prendevano appunti, ampliavano i suoi ragionamenti, stendevano bozze e, l’indomani, le correggevano. Il più devoto fra loro, Jean Dieudonné, si svegliava all’alba per riordinare gli appunti del giorno precedente, prima che Grothendieck irrompesse in aula alle otto in punto, nel bel mezzo di una discussione tra sé e sé che probabilmente aveva iniziato in corridoio. Il seminario produsse due volumi che contavano più di ventimila pagine e mettevano insieme geometria, teoria dei numeri, topologia e analisi complessa.

 

L’unificazione delle branche della matematica è un sogno che solo le menti più ambiziose hanno perseguito. Cartesio fu uno dei primi a dimostrare che le forme geometriche potevano essere descritte da equazioni. Per esempio, quando si scrive x2 + y2 = r2, si sta descrivendo un cerchio perfetto. Tutte le soluzioni possibili a questa equazione generale rappresentano un cerchio disegnato su un piano. Se però si prendono in considerazione non solo i numeri reali e il piano cartesiano, ma anche gli spazi bizzarri generati dai numeri complessi, ciò che appare è una serie di cerchi di dimensioni diverse che si muovono come una cosa viva, crescono ed evolvono nel tempo. Parte del genio di Grothendieck sta nell’aver riconosciuto che dietro a ogni equazione algebrica si cela un’entità più grande, da lui battezzata «schema». Gli schemi generali danno vita a soluzioni individuali, ovvero ombre e proiezioni illusorie che spuntano come «il profilo di una costa rocciosa illuminata di notte dalla luce rotante di un faro».

Alexander era capace di creare un intero universo matematico per una sola equazione. I suoi tópoi, per esempio, erano spazi infiniti che sfidavano i limiti dell’immaginazione; Grothendieck li paragonava al «letto di un fiume tanto vasto e profondo da potervi abbeverare tutti i cavalli di tutti i re insieme». Pensarli richiedeva un modo diverso di concepire lo spazio, esattamente com’era successo cinquant’anni prima con le idee di Albert Einstein.

Adorava scegliere le mot juste per i concetti che scopriva: era un modo di addomesticarli e renderli familiari, al fine di comprenderli pienamente. I suoi étales, per esempio, evocano le onde calme e docili della bassa marea, il mare come uno specchio immobile, la superficie di un’ala tesa al massimo o la coperta con cui si avvolge un neonato.

 

Era capace di dormire a oltranza, tutte le ore che voleva, per poi dedicare ogni sua energia al lavoro. Se iniziava a sviluppare un’idea al mattino, poteva non alzarsi dalla scrivania fino all’alba del giorno dopo, sforzando la vista alla luce di una vecchia lampada a cherosene. «Era affascinante lavorare con un genio» ricorda il suo amico Yves Ladegaillerie. «Non mi piace questa parola, ma per Grothendieck non ce n’è un’altra. Era affascinante e al tempo stesso incuteva terrore perché era diverso dagli altri esseri umani».

La sua capacità di astrazione non conosceva limiti. Tutto d’un tratto poteva saltare a categorie superiori e lavorare in ordini di grandezza che nessuno si era ancora spinto a esplorare. Formulava i suoi problemi rimuovendo uno strato dopo l’altro, procedeva per semplificazione e astrazione finché non rimaneva nulla, per poi trovare dentro quel vuoto apparente le strutture che stava cercando.

«La mia prima impressione durante una sua conferenza fu che fosse stato trasportato sul nostro pianeta da una civiltà aliena di un sistema solare lontano per accelerare la nostra vita intellettuale» disse di lui un professore dell’Università della California a Santa Cruz. Ciò nonostante, e malgrado il suo essere radicale, i paesaggi matematici che Grothendieck scopriva nei suoi esercizi di astrazione non sembravano artificiali. Agli occhi di un matematico apparivano contesti naturali, perché Alexander non imponeva la sua volontà sulle cose ma lasciava che queste emergessero da sé, e il risultato possedeva una sua bellezza organica, come se ogni idea fosse nata e cresciuta per impulso spontaneo.

 

Nel 1966 ricevette la medaglia Fields, considerata il Nobel della matematica, ma si rifiutò di andare a ritirarla a Mosca in segno di protesta per l’arresto degli scrittori Julij Daniel’ e Andrej Sinjavskij.

La sua egemonia rimase indiscussa per vent’anni, tanto che René Thom, altro brillante vincitore della medaglia Fields, confessò di aver abbandonato la matematica pura perché si sentiva «oppresso» dalla schiacciante superiorità di Grothendieck. Abbattuto e frustrato, Thom sviluppò la teoria delle catastrofi, una descrizione dei sette modi in cui qualsiasi sistema dinamico – un fiume, una faglia tettonica oppure una mente umana – può perdere il suo equilibrio e collassare all’improvviso, piombando nel disordine e nel caos.

 

«Non è l’ambizione né la smania di potere a spronarmi. È la chiara percezione di qualcosa di grande, di molto reale e molto delicato al tempo stesso». Grothendieck spinse l’astrazione fino a limiti sempre più estremi. Non faceva in tempo a conquistare un territorio che già si preparava ad ampliarne le frontiere. Il punto culminante delle sue ricerche fu il concetto di «motivo»: un fascio di luce capace di illuminare tutte le incarnazioni possibili di un oggetto matematico. «Il cuore del cuore»: così chiamò questa entità situata al centro dell’universo matematico, della quale non ci arrivano che riflessi lontani.

Anche i suoi più stretti collaboratori pensarono si fosse spinto troppo lontano. Grothendieck voleva catturare il sole in una mano, dissotterrare la radice segreta che tiene insieme innumerevoli teorie senza alcun legame apparente. Gli dissero che era un progetto impossibile, più simile al delirio di un megalomane che a un programma di ricerca scientifica. Alexander non sentiva ragioni. Dopo tanto scavare nei fondamenti, la sua mente si era trovata di fronte a un abisso.

 

Nel 1967 viaggiò per due mesi tra Romania, Algeria e Vietnam per tenere alcuni seminari. Una delle università dove insegnò in Vietnam venne bombardata poco dopo dalle truppe americane; morirono due professori e decine di studenti. Quando tornò in Francia non era più lo stesso. Influenzato dal movimento del ’68 che infuriava attorno a lui, durante una lezione all’Università di Parigi, a Orsay, incitò più di cento studenti a rinunciare alla «pratica vile e pericolosa» della matematica di fronte alle minacce che incombevano sull’umanità. Non sarebbero stati i politici a mettere fine al pianeta, disse, ma gli scienziati come loro, che «camminavano come sonnambuli verso l’Apocalisse».

Da quel giorno si rifiutò di partecipare a qualsiasi convegno in cui non gli fosse permesso di dedicare la stessa quantità di tempo ai temi dell’ecologia e del pacifismo. Alle sue conferenze regalava mele e fichi coltivati nel suo giardino e metteva in guardia contro il potere distruttivo della scienza: «Gli atomi che rasero al suolo Hiroshima e Nagasaki non furono separati dalle dita sudicie di un generale, ma da un gruppo di fisici armati di un pugno di equazioni». Grothendieck non poteva fare a meno di mettere in discussione l’effetto delle proprie azioni sul mondo. Quali nuovi mostri avrebbe generato una comprensione totale come quella cui lui ambiva? Cosa avrebbe fatto l’uomo se fosse riuscito a toccare il cuore del cuore?

Nel 1970, all’apice di fama, creatività e prestigio, si dimise dall’Institut des Hautes Études Scientifiques dopo aver scoperto che era finanziato dal ministero della Difesa francese.

Nei decenni a seguire abbandonò la famiglia, rinnegò gli amici, ripudiò i colleghi e fuggì dal resto del mondo.

 

«La grande svolta»: così Grothendieck definì i cambiamenti che, a quarantadue anni, modificarono il corso della sua vita. Di colpo si sentì posseduto dallo spirito del suo tempo: era ossessionato dai temi dell’ecologia, del complesso militare-industriale e della proliferazione delle armi nucleari. Con gran disperazione della moglie, trasformò casa sua in una comune, dove convivevano senzatetto, professori universitari, hippy, pacifisti, rivoluzionari, ladri, monaci e puttane.

Non tollerava più le comodità della vita borghese: tolse i tappeti dal pavimento di casa perché li considerava ornamenti superflui e cominciò a farsi i vestiti con le proprie mani, fabbricando sandali con pneumatici riciclati e cucendo pantaloni con vecchi sacchi di juta. Smise di usare il letto: dormiva su una porta che aveva tolto dai cardini. Si sentiva a suo agio solo in mezzo a poveri, giovani ed emarginati. I senza Stato, i senza patria.

Con i suoi averi era generoso, li dava via senza pensarci. Era generoso anche con quelli degli altri. Un giorno un suo amico, il cileno Cristián Mallol, tornò a casa dopo aver cenato fuori con la moglie: trovò il portone socchiuso, le finestre spalancate, il camino acceso e il riscaldamento al massimo. Grothendieck dormiva nudo nella vasca da bagno. Due mesi dopo, Mallol ricevette da parte di Alexander un assegno di tremila franchi come risarcimento.

 

Benché fosse di indole gentile e affettuosa, soffriva di improvvisi raptus di violenza. Durante una manifestazione pacifista ad Avignone si lanciò verso il cordone di sicurezza e stese due poliziotti che cercavano di impedire il passaggio del corteo, prima di essere pestato a sangue da una decina di guardie e trascinato in caserma privo di sensi. A casa, sua moglie lo sentiva pronunciare lunghi monologhi in tedesco che degeneravano in grida talmente acute da far vibrare i vetri delle finestre, a cui seguivano episodi di mutismo che potevano durare giorni e giorni.

 

«Fare matematica è come fare l’amore» scrisse Grothendieck, la cui pulsione erotica non era inferiore ai suoi interessi spirituali. Nell’arco della vita sedusse uomini e donne, ebbe tre figli da sua moglie, Mireille Dufour, e due fuori dal matrimonio.

 

Fondò il gruppo Survivre et Vivre, in cui investì tutto il suo denaro e le sue energie. Pubblicò una rivista con un gruppo di amici (ma la scriveva praticamente da solo) per divulgare le proprie idee sull’autosussistenza e la tutela dell’ambiente. Cercò di coinvolgere coloro che avevano aderito ciecamente al suo programma di matematica, però nessuno sembrava condividere quell’urgenza e tollerare il suo estremismo, ora che oggetto della sua ossessione non erano più gli astratti enigmi dei numeri ma il futuro concreto della società – problemi che Grothendieck affrontava con un livello di innocenza che rasentava l’idiozia.

 

Era convinto che l’ambiente avesse una propria coscienza, che egli era chiamato a proteggere; raccoglieva perfino i minuscoli germogli che crescevano tra le fessure del cemento dei marciapiedi, per ripiantarli e prendersene cura in casa.

Cominciò a digiunare una volta alla settimana, poi due, finché la mortificazione del corpo divenne a tal punto un’abitudine da renderlo quasi insensibile al dolore: durante un viaggio in Canada si rifiutò di indossare le scarpe e camminò in sandali sulla neve, come un profeta intento a diffondere la buona novella in un deserto di ghiaccio. A causa di un incidente in moto dovette sottoporsi a un’operazione chirurgica, per la quale rifiutò l’anestesia e accettò solo l’agopuntura. Questi comportamenti alimentavano le voci messe in giro dai suoi detrattori per screditarlo (e per difendersi dagli attacchi sempre più virulenti che Grothendieck lanciava contro di loro), fra le quali la più scandalosa voleva che il matematico, assillato dall’idea di ridurre l’impatto sul pianeta, cacasse in un secchio e poi andasse in giro per le fattorie nei dintorni a spargere i suoi escrementi come concime.

 

Nel 1973 la comune che aveva fondato a casa sua, come luogo aperto a tutti, degenerò nella totale anomia. Prima la polizia arrestò due monaci giapponesi dell’Ordine del Sutra del Loto il cui visto era scaduto, e Grothendieck venne accusato di dare ospitalità a immigrati illegali. Nella stessa settimana, una ragazza con cui Alexander passava le notti tentò di impiccarsi usando le tende della sua camera. Di ritorno con lei dall’ospedale, Grothendieck trovò i membri della comune che ballavano in mezzo al cortile, intorno a un enorme falò ravvivato con le pagine dei suoi manoscritti.

Alexander sciolse la comune e si ritirò a Villecun, un villaggio di appena dodici case.

 

A Villecun viveva senza elettricità e acqua potabile in una baracca infestata dalle pulci, ma fu felice come non lo era mai stato. Per spostarsi comprò un vecchio carro funebre e, quando il motore lo abbandonò, si prese un’auto ancora più malconcia, con il telaio pieno di buchi da cui s’intravedeva la strada. La guidava a tutta velocità, senza patente né documenti.

Per cinque anni si dedicò a lavori manuali, senza grandi progetti, quasi del tutto isolato. I figli non andavano a trovarlo, non aveva amanti e ignorava i vicini, fatta eccezione per una ragazzina di dodici anni che aiutava nei compiti di aritmetica. Quando finì tutti i risparmi, cominciò a insegnare matematica all’Università di Montpellier per guadagnarsi quel poco che gli bastava per vivere. I suoi studenti non potevano immaginare che l’uomo che li accoglieva vestito come un vagabondo, e che potevano trovare addormentato sul pavimento dell’aula quando arrivavano molto presto, fosse una leggenda vivente.

 

A Villecun concentrò i suoi enormi poteri di analisi sulla propria mente. Il risultato fu un cambiamento ancor più radicale di quello che lo aveva allontanato dalla ricerca matematica, e che, anni dopo, egli tentò di sintetizzare in una criptica lista delle tappe del suo cammino spirituale, sempre più distante dal senso comune.

«maggio 1933: desiderio di morire

«27-30 dicembre 1933: nascita del lupo

«estate (?) 1936: il becchino

«marzo 1944: esistenza del Dio creatore

«giu.-dic. 1957: chiamata e tradimento

«1970: la spogliazione – ingresso nella missione

«1-7 apr. 1974: momento della verità, inizio del cammino spirituale

«7 apr. 1974: incontro con Nihonzan Myohoji, comparsa del divino

«lug.-ago. 1974: insufficienza della Legge. Lascio l’Universo paterno

«giu.-lug. 1976: il risveglio dello Yin

«15-16 nov. 1976: caduta dell’immagine, scoperta della meditazione

«18 nov. 1976: rincontro con la mia anima, comparsa del Sognatore

«agosto 1979-febbraio 1980: imparo a conoscere i miei genitori (l’inganno)

«marzo 1980: scoperta del lupo

«agosto 1982: incontro con il Sognatore – recupero dell’infanzia

«feb. 1983-gen. 1984: il nuovo stile (dietro l’impronta dei campi)

«feb. 1984-mag. 1986: raccolti e semine

«25 dic. 1986: il “sacrificio” della ReS

«*NB 25/12/1986: primi sogni erotico-mistici

«28 dic. 1986: morte e rinascita

«1-2 gen. 1987: “rapimento” mistico-erotico

«27 dic. 1986-21 mar. 1987: sogni metafisici, intelligenza dei sogni

«8/1, 24/1, 26/2, 15/3 (1987): sogni profetici

«28/3/1987: nostalgia di Dio

«30/4/1987: ... la chiave dei sogni».

Tra il 1983 e il 1986 scrisse Récoltes et Semailles. Réflexions et témoignage sur un passé de mathématicien, un’opera stranissima che nessuno in Francia ebbe il coraggio di pubblicare. Migliaia di pagine, stracolme di ciò che un collega definì «fantasmagoria matematica», nelle quali Grothendieck s’immerge nella propria psiche nel tentativo di afferrare il tutto, mettendo a nudo un intelletto smisurato e terrificante, in precario equilibrio tra illuminazione e paranoia.

Le idee di Récoltes et Semailles si muovono in circolo. Aspirando alla precisione assoluta, l’autore torna continuamente sugli stessi argomenti. Analizza tutto quello che scrive per smentirlo o affermarlo con più forza, cercando di fissare le parole in una forma definitiva che esse respingono. Nella stessa pagina si possono trovare bruschi salti di prospettiva, argomento e intonazione, prodotti da una mente che sfida i limiti del senso e vuole osservare tutto in un colpo solo: «Un punto di vista è limitato di per sé. Ci dà una visione a senso unico del paesaggio. Solo quando si sommano più sguardi complementari sulla stessa realtà si ha pieno accesso al sapere delle cose. Quanto più è complesso ciò che vogliamo comprendere, tanto più sarà importante disporre di diverse paia d’occhi, in modo che i fasci di luce convergano e possiamo vedere l’Uno attraverso la molteplicità. È questa la natura di una visione autentica: mettere insieme i punti di vista già conosciuti e mostrarne altri finora ignoti, insegnandoci che, di fatto, sono tutti parte dello stesso Tutto».

 

Viveva da eremita, leggendo, meditando, scrivendo. Nel 1988 rischiò di morire per inanizione. Si era completamente immedesimato con la mistica francese Marthe Robin, che aveva le stigmate di Cristo e visse per cinquant’anni senza mangiare altro che l’ostia dell’Eucarestia. Grothendieck cercò di superare i quaranta giorni del digiuno di Cristo nel deserto, e si nutrì per mesi di una zuppa preparata coi denti di leone che raccoglieva nel suo giardino e nei dintorni di casa. I vicini, abituati a vederlo trafficare per strada a raccogliere fiori, lo salvarono dalla morte portandogli dolci e cibi fatti in casa: non se ne andavano finché non si rassegnava a mangiarli.

 

Arrivò a credere che i sogni non fossero propri dell’essere umano, ma provenissero da un’entità esterna – chiamata «le Rêveur» – che li inviava affinché potessimo riconoscere la nostra vera identità. Per più di vent’anni tenne un diario delle sue notti – La Clef des songes – che gli permise di cogliere la natura del Sognatore: «Le Rêveur n’est autre que Dieu».

 

Nel luglio del 1991 cercò di rompere ogni legame col mondo. Diede alle fiamme venticinquemila pagine di scritti personali, bruciò il ritratto di suo padre e regalò la maschera funebre di sua madre. Consegnò le sue ultime ricerche – gli appunti sul fallito tentativo di illuminare il «motivo», l’oggetto oscuro che pulsava come un cuore al fondo della matematica – all’amico Jean Malgoire perché le donasse alla sua Alma Mater, l’Università di Montpellier. Da quel momento ebbe inizio una fuga che durò per il resto della sua vita, e che lo vide spostarsi da un villaggio all’altro, negarsi ai giornalisti e agli studenti che lo cercavano, e rimandare al mittente, senza nemmeno aprirle, le lettere della famiglia e degli amici.

 

Per oltre dieci anni nessuno seppe dove si trovasse. Si diceva che fosse morto, che avesse perso la testa, che si fosse avventurato nelle profondità di qualche bosco per non far trovare i propri resti.

 

Dopo aver vagabondato senza fissa dimora per il Sud della Francia, si rifugiò nel paesino di Lasserre, nell’Ariège, ai piedi dei Pirenei, a meno di un’ora di distanza dal campo di concentramento dove suo padre aveva passato gli ultimi mesi di vita prima di essere mandato a morire nelle camere a gas dei nazisti. Da bambino, Grothendieck era scappato scalzo nel cuore della notte da Rieucros, il campo dov’era internato con la madre, deciso ad arrivare a Berlino per assassinare Hitler con le proprie mani. Le guardie lo avevano trovato cinque giorni dopo, privo di sensi e a un passo dalla morte, che tremava rannicchiato nel cavo di un albero.

 

Di notte suonava il pianoforte. I suoi vicini a Lasserre, sapendo che non riceveva visite, restavano sorpresi quando udivano squisite polifonie, come se nel suo isolamento Grothendieck avesse imparato il canto mongolo e sapesse intonare diverse note contemporaneamente. Alexander lo spiega nei suoi diari: di notte gli fa visita una donna con due facce. Chiama Flora il suo lato gentile, Lucifera quello demoniaco. Cantano insieme per chiedere a Dio di manifestarsi, ma «lui è silenzioso e, quando parla, lo fa a voce talmente bassa che nessuno è in grado di sentirlo».

Nel 2001 quegli stessi vicini videro fumo e fiamme uscire dalla sua casa. Secondo Alain Bari, sindaco di Lasserre, Grothendieck fece di tutto per impedire l’intervento dei pompieri: li supplicava di lasciarla bruciare.

 

Nel 2010 il suo amico Luc Illusie ricevette una lettera da Alexander che conteneva una «dichiarazione di non pubblicazione». Nella dichiarazione, Grothendieck proibiva qualsiasi vendita futura delle sue opere ed esigeva che tutti i suoi testi fossero ritirati dalle biblioteche e dalle università. Minacciava chiunque provasse a vendere, stampare o diffondere i suoi scritti, inediti o meno. Voleva distruggere la propria autorità, dileguarsi in silenzio, cancellare fino all’ultima traccia di sé. «Fate scomparire tutto, per sempre!».

 

La matematica statunitense Leila Schneps fu una delle poche persone ad avere contatti con lui nei suoi ultimi anni di vita. Lo cercò per mesi. Con una foto di Alexander in mano, visitò tutti i paesi dove sospettava avesse vissuto, chiedendo alle persone se lo avessero visto, senza nessuna idea di quanto il suo aspetto potesse essere cambiato. Stanca di camminare, decise di piazzarsi qualche giorno su una panchina di fronte all’unico mercato biologico della zona, con la speranza di veder comparire Grothendieck. Fu lì che notò un anziano comprare fagiolini reggendosi a un bastone, vestito con una tunica da monaco. La sua testa era coperta dal cappuccio e il viso era nascosto dietro una lunga barba bianca come quella di un mago, ma lei riconobbe i suoi occhi.

Si avvicinò con cautela, immaginando che l’eremita, vedendola, sarebbe scappato a gambe levate, e rimase sorpresa dalla gentilezza con cui invece Alexander l’accolse, pur mettendo subito in chiaro che non voleva essere trovato da nessuno. Lei, emozionata, gli disse che una delle congetture più importanti da lui formulate in gioventù era finalmente stata dimostrata. Grothendieck accennò appena un sorriso. Disse che aveva perso qualsiasi interesse per la matematica.

Trascorsero il pomeriggio insieme. Schneps gli chiese perché si fosse isolato a quel modo. Alexander le disse che non odiava gli esseri umani e che non aveva voltato le spalle al mondo. Quel ritiro non era una fuga né un rifiuto; al contrario, lo aveva fatto per proteggere tutti quanti. Nessuno doveva soffrire per colpa delle sue scoperte, ma si rifiutò di spiegare cosa intendesse quando parlava de «l’ombre d’une nouvelle horreur».

Per un paio di mesi si scrissero lettere. A Schneps interessava molto conoscere le idee che Grothendieck aveva sviluppato sulla fisica, l’ultima cosa di cui, a quanto pare, si era occupato prima del suo ritiro. Lui si dichiarò disposto a dirle tutto se lei avesse risposto a una sola domanda: che cos’è un metro?

Schneps impiegò più di un mese a rispondere, e si dilungò per cinquanta pagine, ma Grothendieck rispedì indietro la sua lettera senza averla aperta, come avrebbe fatto con tutte le successive.

 

Nell’ultima fase della sua vita, il suo punto di vista si era fatto così distante che poteva cogliere solo la totalità. Della sua personalità non rimanevano che brandelli, fili sminuzzati da anni di meditazione. «Ho la chiara e, forse, blasfema consapevolezza di conoscere Dio più intimamente di qualunque altro essere di questo mondo, malgrado Lui sia un mistero inconoscibile, infinitamente più vasto di qualsiasi essere in carne e ossa che sia mai stato creato».

 

Morì all’ospedale di Saint-Girons giovedì 13 novembre 2014. La causa della morte è sconosciuta. Lasciò disposizioni perché rimanesse segreta.

 

L’unica testimonianza che abbiamo dei suoi ultimi giorni è dell’infermiera che lo assistette in ospedale. Stando alle sue parole, Grothendieck si rifiutò di vedere la sua famiglia e ricevette una sola persona, un giapponese alto e timido che non si azzardò a entrare nella stanza finché lei non lo invitò a farlo.

L’uomo, che l’infermiera ricorda di bell’aspetto ma con una leggera gobba, passò cinque giorni seduto sul bordo del letto durante le ore di visita, inclinato in una posizione molto scomoda per tenere l’orecchio il più vicino possibile alla bocca del malato, riempiendo un quaderno di appunti. Stette con Alexander fino all’ultimo istante, sempre in silenzio. E in silenzio rimase accanto al cadavere finché non venne trasferito in obitorio.

 

Lo stesso uomo, o qualcuno che gli somigliava molto, fu fermato due giorni dopo dalla sorveglianza dell’Università di Montpellier. Lo avevano trovato in ginocchio davanti alla porta della stanza in cui erano custoditi gli scritti che Grothendieck aveva lasciato all’università, a condizione che nessuno aprisse le quattro scatole di fogli sgualciti e di equazioni scritte su tovaglioli che Alexander aveva liquidato come «poco più che scarabocchi».

I sorveglianti avevano sorpreso l’uomo con una scatola di fiammiferi in mano e una lattina di liquido per accendini nella borsa, ma non avevano chiamato la polizia. Si erano limitati a espellerlo dal campus, convinti che si trattasse di un pazzo o che soffrisse di un qualche ritardo, poiché l’uomo non riusciva ad alzare lo sguardo da terra e insisteva – ma sempre a voce bassissima – che lo lasciassero andare, perché quella sera doveva tenere un importante seminario alla facoltà di matematica.

PREFAZIONE

Nel luglio del 1926 il fisico austriaco Erwin Schrödinger si recò a Monaco di Baviera per presentare una delle equazioni più belle e strambe mai concepite dalla mente umana.

Da un giorno all’altro era diventato una star internazionale per aver trovato un procedimento semplice in grado di descrivere ciò che accade all’interno degli atomi. Applicando formule simili a quelle che si usavano già da secoli per prevedere il moto ondoso, Schrödinger era riuscito in un’impresa apparentemente impossibile: mettere ordine nel caos del mondo quantistico, facendo luce sulle orbite degli elettroni intorno al nucleo attraverso un’equazione così potente, elegante e bizzarra che i più entusiasti non esitarono a definirla «trascendentale».

Ma la sua attrattiva principale non era la bellezza né l’enorme quantità di fenomeni naturali che consentiva di spiegare; a conquistare l’intera comunità scientifica fu la possibilità di visualizzare ciò che succedeva alla scala più piccola della realtà. Per chi si era posto l’obiettivo di analizzare i fondamenti della materia, l’equazione di Schrödinger fu un fuoco prometeico che permise di dissipare l’oscurità impenetrabile del regno subatomico, rivelando un mondo che prima di allora era rimasto celato dietro un velo di mistero.

La teoria di Schrödinger sembrava confermare che le particelle elementari si comportavano in modo simile alle onde. Se quella era davvero la loro natura, significava che avrebbero obbedito a leggi conosciute e comprensibili, leggi sulle quali tutti i fisici del pianeta si sarebbero trovati d’accordo.

Tutti tranne uno.

Werner Karl Heisenberg aveva dovuto chiedere un prestito per partecipare al seminario di Schrödinger a Monaco e, una volta comprati i biglietti del treno, a malapena gli era rimasto il denaro per pagarsi da dormire in una lurida pensione per studenti. Ma Heisenberg non era un tipo qualunque. A soli ventitré anni era già considerato un genio: era stato il primo a formulare delle leggi che spiegavano la medesima questione indagata da Schrödinger, ma sei mesi prima dell’austriaco.

Le due teorie non potevano essere più diverse: mentre a Schrödinger era bastata un’equazione per descrivere quasi tutta la chimica e la fisica moderna, le idee e le formule di Heisenberg erano straordinariamente astratte, filosoficamente rivoluzionarie e così dannatamente complesse che solo una manciata di fisici le sapeva utilizzare. E anche a loro facevano venire il mal di testa.

Nella sala congressi di Monaco non era rimasto un solo posto libero. Heisenberg dovette ascoltare la presentazione di Schrödinger seduto in corridoio, mordendosi le unghie. Non riuscì a trattenersi fino alla fine. A metà del discorso di Schrödinger, Heisenberg si alzò di scatto e si diresse verso la lavagna sotto lo sguardo attonito dei presenti, gridando che gli elettroni non erano onde e che non era possibile visualizzare il mondo subatomico. «È molto più strano di quanto possiamo immaginare!». Fu contestato da un centinaio di persone, con tanta veemenza che Schrödinger stesso dovette chiedere di lasciarlo parlare. Ma nessuno voleva ascoltare quel giovane che pretendeva da loro che cancellassero qualsiasi immagine mentale avevano dell’atomo. Nessuno era disposto a guardare le cose come Heisenberg. Quando iniziò a riempire la lavagna con le sue obiezioni alla teoria di Schrödinger, lo cacciarono a spintoni fuori dalla sala. Era troppo. Perché mai, per accedere alla scala più piccola della materia, avrebbero dovuto abbandonare il buon senso? Quel giovane era solo invidioso. D’altronde, era comprensibile. Le idee di Schrödinger avevano eclissato la sua scoperta, negandogli un posto nella storia.

 

Ma Heisenberg sapeva che si sbagliavano. Gli elettroni non erano né onde né particelle. Il mondo subatomico non assomigliava a nulla di conosciuto. Questo lo sapeva con assoluta certezza, con una convinzione profonda che tuttavia non era ancora in grado di esprimere a parole. Perché aveva avuto una rivelazione. Qualcosa di inspiegabile. Heisenberg aveva percepito un nucleo oscuro al centro delle cose. E se quella visione non era veritiera, voleva dire che tutta la sua sofferenza non era servita a niente?

I

LA NOTTE DI HELGOLAND

Un anno prima della conferenza di Monaco, Heisenberg era diventato un mostro.

Nel giugno del 1925, mentre lavorava all’Università di Göttingen, un attacco di allergia ai pollini gli deformò il volto fino a renderlo irriconoscibile. La bocca sembrava una pesca marcia con la buccia sul punto di spaccarsi, e le palpebre erano così gonfie che riusciva a malapena a vedere. Non avrebbe sopportato neanche un altro giorno di primavera, così si imbarcò su una nave per allontanarsi il più possibile dalle particelle microscopiche che lo stavano torturando.

La sua destinazione era la «terra santa» di Helgoland, l’unica isola in mare aperto della Germania, talmente brulla e inclemente che gli alberi riuscivano appena a innalzarsi da terra e non un fiore spuntava tra le sue rocce. Trascorse il viaggio chiuso in cabina vomitando per il mal di mare e, quando mise piede sulla polvere rossa dell’isola, si sentì un miserabile, al punto che dovette trattenersi per non vedere nella parete della scogliera, che si ergeva per più di duecento metri sopra la sua testa, la soluzione più rapida ai tanti acciacchi fisici e psichici che lo affliggevano da quando aveva deciso di risolvere il mistero del mondo quantistico.

A differenza dei suoi colleghi, che stavano approfittando dell’epoca d’oro della fisica per elaborare applicazioni e calcoli sempre più complessi ed esatti, Heisenberg era tormentato da quella che considerava una falla sostanziale nei fondamenti della disciplina: le leggi che avevano funzionato così bene per il mondo macroscopico, da Isaac Newton in poi, all’interno degli atomi non valevano più. Heisenberg voleva capire cosa fossero le particelle elementari e scoprire la radice che accomunava tutti i fenomeni naturali. Ma questa ossessione – alla quale lavorava senza il consenso del suo supervisore – lo stava consumando irrimediabilmente.

Quando lo vide, la donna che lo accolse nel piccolo albergo in cui aveva prenotato una stanza non riuscì a nascondere l’orrore. Voleva a tutti i costi chiamare la polizia, convinta che qualche marinaio ubriaco gliele avesse suonate durante il viaggio. Quando Heisenberg la convinse che si trattava solo di un’allergia, Frau Rosenthal giurò di prendersi cura di lui finché non fosse guarito completamente, missione a cui si dedicò come se il fisico fosse suo figlio, irrompendo nella sua stanza a qualsiasi ora per obbligarlo a bere un intruglio pestilenziale ma, a quanto pare, miracoloso, che Heisenberg fingeva di mandar giù trattenendo i conati di vomito, per poi sputarlo dalla finestra non appena la donna lo lasciava in pace.

Nei primi giorni a Helgoland, Heisenberg seguì un rigido programma di attività fisica: appena sveglio si buttava in mare e nuotava intorno all’enorme scoglio dove, secondo la proprietaria dell’albergo, era nascosto il più grande tesoro pirata della Germania. Werner tornava a riva solo quando era esausto e rischiava quasi di affogare – un’abitudine che aveva preso da bambino, quando faceva a gara con i suoi fratelli per vedere chi riusciva a fare più giri a nuoto nello stagno che delimitava la proprietà dei genitori. Affrontava le sue ricerche con lo stesso atteggiamento, lavorando per giorni e giorni in un profondo stato di trance, trascurando persino di mangiare e dormire. Se non riusciva a raggiungere un risultato soddisfacente, arrivava sull’orlo di una crisi nervosa; se ci riusciva, cadeva in uno stato di esaltazione simile all’estasi religiosa, verso la quale, a detta dei suoi amici, aveva sviluppato una forma di dipendenza.

Dalla finestra dell’albergo godeva di una vista ininterrotta del mare. Mentre guardava le onde scorrere fino a perdersi nell’orizzonte, non poteva non rammentare le parole del suo mentore, il fisico danese Niels Bohr, secondo il quale chi riesce a guardare la vertiginosa estensione del mare senza chiudere gli occhi ha accesso a una parte dell’eternità. L’estate precedente avevano esplorato le colline nei pressi di Göttingen, e Heisenberg aveva l’impressione che la sua carriera scientifica fosse iniziata veramente solo dopo quelle lunghe camminate.

Nel mondo della fisica, Bohr era un gigante. Nella prima metà del XX secolo l’unico scienziato che ebbe pari autorevolezza fu Albert Einstein, del quale Bohr era tanto amico quanto rivale. Nel 1922 aveva già ricevuto il Premio Nobel, e aveva il dono di scoprire talenti eccezionali, che poi prendeva sotto la sua ala. Fu ciò che fece con Heisenberg: durante le loro passeggiate in montagna convinse il giovane fisico che, quando si parlava di atomi, il linguaggio si poteva utilizzare unicamente come poesia. Camminando insieme a Bohr, Heisenberg ebbe la prima intuizione sulla radicale alterità del mondo subatomico: «Se un solo granello di polvere contiene bilioni di atomi,» gli disse Bohr mentre scalavano le montagne dello Harz «com’è possibile parlare con cognizione di una cosa tanto piccola?». Il fisico – come il poeta – non deve descrivere i fatti del mondo, ma creare metafore e connessioni mentali. Da quell’estate in poi, Heisenberg capì che applicare i concetti della fisica classica – come posizione, velocità e movimento – a una particella subatomica era uno sproposito madornale. Quell’aspetto della natura richiedeva una lingua nuova.

 

Durante il suo ritiro a Helgoland, Heisenberg decise di sottoporsi a un esercizio di restrizione radicale. Cosa si poteva realmente sapere di quanto accade all’interno di un atomo? Ogni volta che uno degli elettroni che ruota attorno al nucleo cambia il suo livello di energia, emette un fotone, una particella di luce. Questa luce può essere registrata su una lastra fotografica. Ecco l’unica informazione che si può misurare direttamente, l’unica luce che proviene dall’oscurità dell’atomo. Heisenberg decise di lasciar perdere tutto il resto. Avrebbe dedotto le regole vigenti a quella scala solo in base a una misera quantità di dati. Non avrebbe utilizzato nessun concetto, nessuna immagine, nessun modello. Avrebbe lasciato che fosse la realtà a parlare di sé.

Non appena la sua allergia gli consentì di lavorare, ordinò questi dati in una serie interminabile di tabelle e colonne, formando una complessa rete di matrici. Ci giocò per giorni come farebbe un bambino con un puzzle del quale ha perso la scatola, divertendosi a incastrare i pezzi ma senza indovinare la figura complessiva. A poco a poco cominciò a identificare sottili relazioni, modi di sommare e moltiplicare le sue matrici, regole di un nuovo tipo di algebra che diventava sempre più astratta. Passeggiava per le strade tortuose dell’isola con lo sguardo fisso a terra, senza idea di dove andare. Ogni nuovo progresso nei calcoli lo allontanava un po’ di più dal mondo reale. Il suo ragionamento si faceva tanto più oscuro quanto più si complicavano le operazioni delle sue matrici. Che relazione poteva mai esserci tra quella sfilza di numeri e le molecole che componevano i sassi sparpagliati ai suoi piedi? Come poteva, partendo dalle sue tabelle – più congeniali al quaderno di un mesto contabile che a quello di un fisico –, fare ritorno a qualcosa che assomigliasse, almeno un po’, all’idea di atomo che si aveva all’epoca? Il nucleo come un piccolo sole e gli elettroni che gli orbitavano intorno come pianeti: Heisenberg detestava questa immagine, perché era ingenua e infantile. Nella sua visione dell’atomo tutto questo svaniva: il minuscolo sole si estingueva, l’elettrone smetteva di girare in tondo e si dissolveva in una nebbia informe. Rimanevano soltanto i numeri. Un paesaggio sterile come la pianura che separava le due punte dell’isola.

Mandrie di cavalli selvaggi la attraversavano al galoppo, imprimendo i loro zoccoli sul terreno. Heisenberg si chiedeva come potessero sopravvivere in un luogo tanto arido, e seguì le loro orme fino a una cava di gesso, dove si mise a spaccare pietre per vedere se trovava uno dei fossili dell’isola, famosi in tutta la Germania. Quel pomeriggio lo trascorse lanciando sassi sul fondo della cava, dove scoppiavano in mille pezzi, preannunciando – a sua insaputa, e su scala microscopica – la violenza che gli inglesi avrebbero scatenato su Helgoland dopo la seconda guerra mondiale, quando ammassarono tutte le munizioni, i siluri e le mine che gli erano rimasti e provocarono nel bel mezzo dell’isola l’esplosione non nucleare più potente della storia. L’onda d’urto del Big Bang britannico frantumò le finestre a sessanta chilometri di distanza e cinse l’isola con una colonna di fumo nero che si innalzò per tremila metri, sbriciolando il pendio che Heisenberg aveva scalato vent’anni prima per osservare il tramonto.

Era quasi arrivato al bordo della scogliera, quando una densa foschia calò sull’isola. Heisenberg decise di tornare in albergo ma, appena si voltò, si accorse che la strada era svanita. Si pulì le lenti degli occhiali e si guardò intorno, in cerca di un punto di riferimento che gli consentisse di allontanarsi dal precipizio e mettersi in salvo, ma era totalmente disorientato. Quando la nebbia iniziò a diradarsi, gli sembrò di riconoscere un’enorme roccia che aveva tentato di scalare la sera prima, ma, non appena si mosse, la foschia lo avvolse di nuovo. Come ogni scalatore che si rispetti, conosceva parecchie storie di escursioni finite in tragedia: bastava un solo passo falso per rompersi il collo. Cercò di mantenere la calma, ma tutto intorno a lui era cambiato: il vento si era fatto gelido, la polvere si alzava da terra e gli irritava gli occhi, il sole non riusciva a penetrare la nebbia. Quel poco che era in grado di distinguere ai suoi piedi – dello sterco secco, la carcassa di un gabbiano, la carta appallottolata di una caramella – gli era stranamente ostile. Il freddo gli mordeva la pelle delle mani, benché solo mezz’ora prima si fosse tolto il cappotto per il caldo. Impossibilitato a prendere una qualche direzione, si sedette e si mise a sfogliare il suo quaderno di appunti.

Tutto ciò che aveva fatto fino a quel momento gli sembrò senza senso. Le restrizioni che si era imposto erano assurde: non era possibile gettare luce sull’atomo oscurandolo in quel modo. Avvertì un’ondata di autocommiserazione crescergli nel petto, quando una folata di vento dissolse per un attimo la foschia mostrandogli la strada che scendeva verso il paese. Saltò in piedi e corse in quella direzione, ma la nebbia ricomparve tanto rapidamente quanto se n’era andata. «So dov’è la strada,» si disse «devo solo avvicinarmi piano piano, concentrarmi sui dettagli nell’immediata vicinanza, dieci metri fino a quella roccia sbrecciata, venti fino ai cocci di bottiglia, cento fino alle radici storte di quell’albero secco»; tuttavia, gli bastò guardarsi intorno per rendersi conto che non c’era modo di capire se si stesse avvicinando al sentiero o stesse andando dritto verso l’abisso. Era sul punto di rimettersi a sedere, quando tutt’intorno udì un tuono soffocato. Il rombo scosse la terra e crebbe di intensità, finché i ciottoli ai suoi piedi non iniziarono a saltellare come se avessero preso vita. Gli sembrò di vedere un gruppo di ombre muoversi a gran velocità poco oltre il suo sguardo. «Sono i cavalli,» si disse, cercando di tenere a freno i battiti del cuore «sono solo i cavalli che corrono alla cieca nella nebbia». Ma per quanto cercò, una volta che il cielo si schiarì del tutto, non trovò nemmeno un’impronta.

 

Nei tre giorni successivi lavorò ininterrottamente, chiuso in camera senza nemmeno lavarsi i denti. E avrebbe continuato in quel modo se Frau Rosenthal non avesse fatto irruzione per cacciarlo fuori, col pretesto che la stanza aveva iniziato a puzzare di morto. Heisenberg scese al porto annusandosi i vestiti. Da quanti giorni era che non si cambiava la camicia? Camminava con gli occhi bassi, sforzandosi di non incrociare lo sguardo dei turisti, e per poco non inciampò in una ragazza che stava cercando di attirare la sua attenzione. Da così tanto tempo non interagiva con un altro essere umano, eccezion fatta per la proprietaria dell’albergo, che ci mise un po’ a capire che quella ragazza dagli occhi luminosi e i capelli ricci chiedeva solo un’offerta per i poveri. Heisenberg si frugò le tasche: non aveva neanche un marco. La giovane gli sorrise, arrossì e gli disse di non preoccuparsi, ma Werner sentì il cuore sprofondargli nel petto. Che cosa ci faceva su quell’isola di merda? Seguì la ragazza con lo sguardo, finché la vide avvicinarsi a un gruppo di dandy ubriachi appena sbarcati dalla nave, che camminavano abbracciati alle fidanzate, e pensò che probabilmente era l’unico uomo solo sull’isola. Si girò, e fu invaso da una sensazione d’incontenibile stranezza. I negozi sul lungomare gli sembravano rovine carbonizzate da una gigantesca tempesta di fuoco. Tutt’intorno pullulava di gente con la pelle bruciata da un incendio che soltanto Heisenberg vedeva; i bambini correvano con i capelli in fiamme, le coppie ardevano come legna di una pira funeraria, ridendo, con le braccia intrecciate come le lingue di fuoco che fuoriuscivano dai loro corpi e si levavano in cielo. Heisenberg accelerò il passo, cercando di dominare il tremore alle gambe, quando un gran boato gli sconquassò i timpani e un raggio di luce attraversò le nuvole e gli perforò il cervello. Tornò di corsa in albergo, quasi accecato dall’aura che preannunciava uno dei suoi attacchi di emicrania, in preda alla nausea e a un dolore che si irradiava dal centro della fronte fino alle orecchie, come se la testa stesse per spaccarglisi in due. Quando, finalmente, si trascinò su per le scale e cadde svenuto sul letto, era scosso da brividi di febbre.

Non riusciva più a ritenere il cibo, ma si rifiutò di sospendere le sue passeggiate sull’isola. Camminava marcando il territorio come un animale: cacava accovacciato, con addosso le scarpe, e poi scavava tra i sassi per sotterrare la sua merda, certo che prima o poi qualcuno l’avrebbe sorpreso con il culo per aria. Era convinto che la proprietaria lo stesse avvelenando con l’intruglio che lo obbligava a bere, ma lei continuava a dargli cucchiaiate sempre più abbondanti a mano a mano che Heisenberg dimagriva per effetto della diarrea e del vomito. Quando non fu più in grado di mettere un piede giù dal letto (che lo conteneva a malapena, se stirava le gambe), si infilò tutti i vestiti che poté e s’avvolse fino al collo con cinque coperte per cercare di «bruciare la febbre» – un rimedio casalingo che Heisenberg aveva appreso dalla madre e che applicava senza metterne in dubbio l’efficacia, convinto che sopportare qualunque sofferenza fosse meglio che cadere nelle mani di un medico.

Sudato dalla testa ai piedi, trascorreva i suoi giorni imparando a memoria il Divano occidentale-orientale, una raccolta di poesie di Goethe che un ospite prima di lui aveva lasciato nella stanza. Leggeva le poesie ad alta voce, più e più volte. Alcuni di quei versi riuscivano a sfuggire alla reclusione della sua camera e raggiungevano i corridoi vuoti dell’albergo, spaventando gli altri ospiti alle cui orecchie suonavano come i deliri di un fantasma. Goethe li aveva scritti tra il 1814 e il 1819, ispirandosi al mistico sufi Shams ad-dīn Muḥammad Ḥāfiẓ, conosciuto semplicemente come Hafez. Il genio tedesco lesse il grande poeta persiano del XIV secolo in una brutta traduzione pubblicata in Germania, e si convinse che il libro fosse finito nelle sue mani per volontà divina. Si identificò a tal punto con lui che la sua voce cambiò completamente, fondendosi con quella dell’uomo che più di quattrocento anni prima aveva cantato la gloria degli dèi e del vino. Hafez era stato un santo bevitore, tanto mistico quanto edonista. Si era dedicato alla preghiera, alla poesia e all’alcol e, a sessant’anni, aveva tracciato un cerchio sulla sabbia del deserto, ci si era seduto dentro e aveva giurato che non si sarebbe alzato finché non avesse toccato la mente di Allah, l’onnipotente e unico Dio. Aveva trascorso quaranta giorni in silenzio, tormentato dal sole e dal vento, senza ottenere alcun risultato, ma, quando aveva rotto il suo lungo digiuno con un bicchiere di vino offertogli dall’uomo che lo aveva trovato a un passo dalla morte, aveva sentito risvegliarsi una seconda coscienza che si era imposta sulla sua e gli aveva dettato più di cinquecento poesie. Anche Goethe venne aiutato nella stesura del suo Divano: a ispirarlo non fu una divinità, bensì la moglie di un amico, Marianne von Willemer, patita di Hafez quanto lui. Scrissero il libro a quattro mani, correggendo le bozze in lunghe lettere piene di erotismo, nelle quali Goethe s’immagina di morderle i capezzoli e penetrarla con le dita, mentre lei sogna di sodomizzarlo, sebbene i due si fossero incontrati una sola volta e non ci siano prove che abbiano potuto realizzare le loro fantasie. Marianne compose alcuni dei canti di Suleika, l’amante di Hatem, ma il suo contributo rimase segreto fino alla notte prima di morire, quando, recitando gli stessi versi che Heisenberg avrebbe letto sconquassato dalla febbre, confessò di esserne l’autrice: «Dov’è il colore che orla il cielo? / La grigia nebbia mi acceca, / più guardo meno vedo».

Anche da malato, Heisenberg continuava a lavorare alle sue matrici: mentre Frau Rosenthal gli applicava impacchi freddi per abbassargli la temperatura e cercava di convincerlo a chiamare un medico, lui le parlava di oscillatori, linee spettrali ed elettroni legati armonicamente, convinto che sarebbero bastati ancora un paio di giorni perché il suo corpo sconfiggesse la malattia e la sua mente trovasse una via d’uscita dal labirinto in cui l’aveva rinchiusa. Sebbene avesse a malapena la forza di girare le pagine, continuava a leggere i versi di Goethe, ognuno dei quali gli sembrava una freccia scagliata contro di lui: «Di chi brama la morte faccio tesoro, / tra le fiamme mi ha gettato l’amore, / cenere ha fatto della mia mente». Quando riusciva a dormire, Heisenberg sognava dervisci che volteggiavano nella sua stanza. Hafez li seguiva carponi, ubriaco e nudo, abbaiando come un cane. Gli lanciava contro il suo turbante, il bicchiere di vino e poi la brocca vuota per cercare di deviare le loro orbite. Poiché non riusciva a rompere quella trance, pisciava addosso a ognuno di loro, disegnando sulla stoffa delle loro tuniche una mappa di macchie gialle nella quale Heisenberg credeva di individuare il segreto delle sue matrici. Werner allungava le mani per afferrarlo, ma le macchie diventavano una lunga fila di numeri che gli danzavano intorno e gli serravano il collo in una morsa sempre più stretta, fino a togliergli il fiato. Viveva questi incubi come una tregua provvidenziale dai suoi sogni erotici, che diventavano sempre più intensi a mano a mano che perdeva le forze, e gli facevano macchiare il letto come fosse un adolescente. Per quanto cercasse di impedire a Frau Rosenthal di cambiargli le lenzuola, lei non lasciava passare un giorno senza pulire la sua stanza da cima a fondo. Heisenberg moriva dalla vergogna, ma si rifiutava di masturbarsi: era convinto di dover trattenere tutte le energie del suo corpo per poterle concentrare sul lavoro.

Nel cuore della notte la sua mente spossata dalla febbre creava strane connessioni che lo portavano a risultati immediati, senza passaggi intermedi. Nel delirio dell’insonnia sentiva il suo cervello diviso in due: ogni emisfero lavorava per conto proprio, senza comunicare con l’altro. Le sue matrici violavano tutte le regole dell’algebra tradizionale. Obbedivano alla logica dei sogni, per cui una cosa può esserne molte altre; era capace di moltiplicare due cifre e ottenere un risultato diverso a seconda dell’ordine con cui moltiplicava: tre per due faceva sei, ma due per tre poteva fare dieci. Troppo esausto per mettere in discussione i suoi risultati, continuò a lavorare finché non giunse all’ultima matrice. Dopo averla risolta, scese dal letto e si mise a gridare: «Unbeobachtet! Anschauung! Unanschaulichkeit!», svegliando tutto l’albergo. Frau Rosenthal entrò nella stanza giusto in tempo per vederlo cadere a terra, a faccia in giù e con i pantaloni del pigiama coperti di merda. Una volta che l’ebbe calmato, lo mise a letto e uscì di corsa a cercare il dottore, ignorando i lamenti di Heisenberg in quell’andare e venire di allucinazioni.

Seduto ai piedi del suo letto, Hafez gli offriva un bicchiere di vino: Heisenberg lo prendeva e beveva a grandi sorsate, sgocciolandosi sul mento e sul petto, finché non si accorgeva che era il sangue del poeta, che ora si masturbava furiosamente sanguinando dai polsi. «Tutto questo mangiare e bere ti hanno reso grasso e ignorante!» gli sputò in faccia Hafez. «Ma hai ancora una possibilità, se rinunci a riposarti e a nutrirti. Non startene lì seduto a pensare. Esci e tuffati nel mare di Dio! Bagnare uno solo dei tuoi capelli non ti darà la saggezza. Chi vede Dio non ha dubbi. La sua mente e la sua vista sono pure». Stordito e confuso, Heisenberg cercò di seguire le istruzioni del fantasma, ma l’emicrania gli impediva di muoversi e non riusciva a smettere di battere i denti. Si riebbe solo quando sentì la puntura dell’ago e vide la proprietaria dell’albergo piangere sulla spalla del medico, il quale la rassicurava che tutto sarebbe andato bene, che si trattava solo di un’influenza trascurata, mentre nessuno dei due dava prova di vedere Goethe seduto a cavalcioni sul cadavere di Hafez, prosciugato del suo sangue ma con una portentosa erezione, che il poeta tedesco cercava di rianimare con le labbra come chi soffia sulla brace di un fuoco ormai spento.

Heisenberg si svegliò a notte fonda. La febbre era scesa e la sua mente era straordinariamente lucida. Si alzò dal letto e si vestì meccanicamente, sentendosi totalmente estraneo al suo corpo. Si avvicinò allo scrittoio, aprì il quaderno degli appunti e vide che aveva finito tutte le sue matrici, senza neanche sapere come avesse costruito la metà di esse. Si infilò il cappotto e uscì al freddo.

In cielo non c’erano stelle, solo nuvole illuminate dalla luna, ma i suoi occhi erano talmente abituati al buio, dopo tutti quei giorni di reclusione, che camminava con passo sicuro. Prese la strada che s’inerpicava verso la scogliera, insensibile al freddo, e, una volta arrivato sul punto più alto dell’isola, vide una luce spuntare all’orizzonte, benché all’alba mancassero ancora alcune ore. Il bagliore non proveniva dal cielo, ma dalla terra, e Heisenberg pensò che forse erano le luci di una grande città, anche se sapeva che la più vicina si trovava a centinaia di chilometri di distanza. Il chiarore non giungeva fino a lui, ma riusciva a vederlo. Seduto, con la fronte esposta al vento che si alzava dal mare, aprì il suo quaderno e si mise a rivedere le matrici. Era così nervoso che commetteva un errore dietro l’altro ed era costretto a ricominciare daccapo ogni volta. Quando vide che la prima aveva una sua logica, iniziò a sentire di nuovo il corpo. Mentre esaminava la seconda, la mano gli tremava dal freddo. La matita tracciava minuscoli segni sulla carta, sopra e sotto i suoi calcoli, come se stesse usando i simboli di una lingua sconosciuta. Tutte le matrici erano coerenti: Heisenberg aveva modellato un sistema quantistico solo sulla base di ciò che si poteva osservare direttamente. Aveva sostituito i numeri alle metafore e scoperto le regole che governavano ciò che accadeva all’interno degli atomi. Le sue matrici gli consentivano di descrivere dove sarebbe stato un elettrone in un determinato momento e come avrebbe interagito con le altre particelle. Aveva replicato nel mondo subatomico quel che Newton aveva fatto con il sistema solare, affidandosi solo alla matematica pura, senza ricorrere a nessuna immagine. Anche se non capiva come ci fosse riuscito, i risultati erano lì, scritti di suo pugno: se si fossero dimostrati corretti, la scienza avrebbe potuto non solo comprendere, ma iniziare a manipolare la realtà nelle sue basi primarie. Heisenberg pensò alle conseguenze di una scoperta di quella portata, e sentì una vertigine tale che dovette frenare l’impulso di lanciare il suo quaderno nel vuoto. Aveva l’impressione di guardare oltre i fenomeni atomici, verso una bellezza nuova. Troppo eccitato per andare a dormire, camminò fino a una roccia che si sporgeva sul mare. Ci saltò sopra, si arrampicò fino in cima e si sedette ad aspettare l’alba con le gambe penzoloni nel vuoto, ascoltando il suono delle onde che si frangevano sulle pareti della scogliera.

 

Tornato all’Università di Göttingen, Heisenberg si sforzò di condensare la sua epifania in un articolo pubblicabile. Il risultato gli sembrò quanto meno debole, se non del tutto assurdo. In quelle pagine non si parlava di orbite o traiettorie, di posizioni o velocità; tutto ciò era stato sostituito da complesse tabelle di numeri e da una sfilza di regole matematiche tanto ingarbugliate da suscitare un moto di repulsione. Il calcolo più semplice richiedeva uno sforzo titanico, e anche per lui era praticamente impossibile decifrare la connessione fra le sue matrici e il mondo reale. Eppure funzionavano! Troppo insicuro per arrischiarsi a pubblicarlo, lo consegnò a Max Born, il professore del quale era assistente a Göttingen, che lo abbandonò sulla sua scrivania per qualche giorno.

Born iniziò a sfogliarlo una mattina in cui non aveva niente di meglio da fare, poi lo rilesse più volte sempre più affascinato. Ben presto si ritrovò tanto immerso nella nuova scoperta di Heisenberg che di notte non riusciva a prendere sonno. Quello che il giovane tedesco era riuscito a fare non aveva precedenti: era come dedurre tutte le regole del torneo di tennis di Wimbledon – dall’obbligo per i giocatori di vestirsi di bianco a quanto deve essere tesa la rete – solo in base alle poche palline lanciate fuori dallo stadio, senza minimamente osservare cosa succedeva in campo. Per quanto ci provasse, Born non era in grado di decifrare la strana logica applicata da Heisenberg per creare le sue matrici, ma sapeva che il giovane aveva avuto un’intuizione fondamentale. Per prima cosa avvertì Einstein: «Il nuovo articolo di Heisenberg, che verrà presto pubblicato, è assolutamente sconvolgente. Sembra l’opera di un mistico, ma è senza dubbio corretto e di una straordinaria profondità».

Nel dicembre del 1925, sul numero 33 della rivista «Zeitschrift für Physik», Heisenberg pubblicò Über quantentheoretische Umdeutung kinematischer und mechanischer Beziehungen, la prima formulazione della meccanica quantistica.

II

LE ONDE DEL PRINCIPE

Le idee di Heisenberg fecero scalpore.

Einstein si dedicò a studiare la «meccanica delle matrici» come se fosse la mappa di un tesoro perduto, ma qualcosa al suo interno lo ripugnava. «La teoria di Heisenberg è la più interessante fra gli studi recenti,» scrisse al suo amico Michele Besso «è un calcolo stregonesco che coinvolge matrici infinite anziché coordinate. È molto ingegnoso, e sufficientemente al riparo da possibili smentite per via della sua diabolica complessità». Ciò che Einstein detestava, però, non era l’ermetismo delle formule, ma qualcosa di molto più essenziale: il mondo che Heisenberg aveva scoperto contraddiceva il senso comune. La meccanica delle matrici non descriveva oggetti normali – ancorché incredibilmente piccoli –, ma un aspetto della realtà che le parole e i concetti della fisica classica non potevano nemmeno nominare. Non era un problema secondario, per Einstein. Il padre della relatività era il grande maestro della visualizzazione: tutte le sue idee sullo spazio e sul tempo erano nate dalla sua capacità di immaginarsi nelle situazioni fisiche più estreme. Per la stessa ragione non era disposto ad accettare le restrizioni imposte dal giovane tedesco, che per vedere più lontano sembrava volersi cavare gli occhi. Einstein intuiva che, spingendo questa linea di pensiero alle sue ultime conseguenze, l’oscurità avrebbe potuto contagiare tutta la fisica: decretare la vittoria di Heisenberg significava accettare che una parte fondamentale dei fenomeni del mondo obbedisse a regole inconoscibili, come se il caso si fosse insinuato nel cuore della materia. Qualcuno doveva fermarlo. Qualcuno doveva far uscire l’atomo dalla gabbia in cui Heisenberg lo aveva rinchiuso. E, secondo Einstein, questo qualcuno era un giovane francese, timido, ricercato e stravagante: il principe Louis-Victor Pierre Raymond, settimo duca de Broglie.

 

Discendente di una delle più illustri dinastie di Francia, Louis de Broglie crebbe sotto l’ala della sorella maggiore. La principessa Pauline, che lo adorava sopra ogni cosa, nelle sue memorie lo descrive come un bambino esile e slanciato, «riccio come un barboncino, con la faccia sorridente e gli occhi pieni di malizia». Durante l’infanzia il piccolo Louis ebbe una vita di lussi e privilegi, ma era completamente ignorato dai genitori. Alla mancanza di affetto da parte loro suppliva la sorella, che esaltava ogni sua facezia: «A tavola parlava in continuazione e, anche se lo rimproveravano per farlo stare zitto, era incapace di tenere la bocca chiusa. I suoi commenti erano irresistibili! Cresciuto in solitudine, aveva letto molto e viveva in un mondo tutto suo. Aveva una memoria prodigiosa e sapeva recitare intere scene del teatro classico con un brio infaticabile, ma rabbrividiva di fronte alle situazioni più innocue: era terrorizzato dai piccioni, dai cani e dai gatti, e il rumore delle scarpe di nostro padre che saliva le scale poteva provocargli un attacco di panico». Poiché il bambino dimostrava una propensione particolare per la storia e la politica (a soli dieci anni sapeva a memoria i nomi di tutti i ministri della Terza Repubblica), la famiglia si era immaginata per lui una carriera diplomatica, ma a sedurlo fu il laboratorio del fratello maggiore, il fisico sperimentale Maurice de Broglie.

Il laboratorio occupava gran parte di uno dei palazzi di famiglia e crebbe fino a invadere tutto un angolo di rue Chateaubriand. Nelle stalle dove un tempo dormivano cavalli purosangue, ora ronzavano enormi generatori di raggi X collegati al laboratorio principale da grossi cavi che attraversavano le ceramiche del bagno degli ospiti e gli inestimabili arazzi dei Gobelins alle pareti dello studio di Maurice, al quale, dopo la morte del padre, era stato affidato il compito di occuparsi del giovane principe. Louis intraprese gli studi scientifici e dimostrò tanta predisposizione per la fisica teorica quanta ne aveva suo fratello per quella sperimentale. Quand’era ancora studente, si imbatté negli appunti di fisica quantistica che il fratello aveva preso come segretario del primo Congresso Solvay, la riunione scientifica più prestigiosa d’Europa. Questo evento, apparentemente fortuito, non solo cambiò per sempre la sua vita, ma produsse nel suo carattere un cambiamento così radicale che sua sorella Pauline, al ritorno dalle vacanze in Italia, faticò a riconoscerlo: «Il petit prince con il quale mi ero tanto divertita durante l’infanzia era scomparso. Adesso viveva perennemente rinchiuso in un buco, sprofondato nei suoi manuali di matematica e incatenato a una routine ripetitiva e inflessibile. Si stava trasformando, a una velocità spaventosa, in un uomo austero con uno stile di vita monastico, tanto che la sua palpebra destra, già cadente, ormai gli chiudeva l’occhio quasi del tutto, imbruttendolo in modo pietoso perché non faceva che accentuare la sua aria assente e effeminata».

Nel 1913 Louis commise l’errore di iscriversi al Corpo degli ingegneri per assolvere agli obblighi di leva, giusto prima che scoppiasse la guerra. Sino alla fine del conflitto prestò servizio come telegrafista sulla Tour Eiffel, dove si occupava della manutenzione degli apparecchi che venivano utilizzati per intercettare le comunicazioni nemiche. Pavido e pacifista per natura, la vita militare era più di quanto il povero Louis potesse sopportare; negli anni successivi alla guerra si lamentava amaramente degli effetti che la catastrofe europea aveva avuto sulla sua mente, che a suo dire non tornò mai più a funzionare come prima.

L’unico dei suoi commilitoni che continuò a frequentare fu il giovane artista Jean-Baptiste Vasek, il primo vero amico che de Broglie ebbe dall’infanzia. La sua compagnia fu la sola fonte di distrazione nei tediosi anni passati in cima alla torre e, dopo il congedo, mantennero un legame stretto e affettuoso. Vasek era un pittore, ma aveva messo insieme anche un’ampia collezione di opere che riuniva sotto il nome di «arte grezza», composta da poesie, sculture, disegni e quadri realizzati da pazienti psichiatrici, vagabondi, bambini con ritardi cognitivi, drogati, ubriaconi e depravati, nelle cui visioni contorte diceva di riconoscere il terreno fertile per i miti del futuro. De Broglie non credeva che quella che Jean-Baptiste chiamava «energia creativa allo stato puro» avrebbe mai prodotto qualcosa di buono, ma vedeva nella sua devozione all’arte qualcosa di simile alla passione maniacale con cui lui si dedicava alla fisica; i due potevano trascorrere interi pomeriggi a chiacchierare in uno dei saloni della villa di de Broglie, o standosene tranquillamente in silenzio, senza accorgersi dello scorrere del tempo e incuranti di quello che accadeva fuori.

De Broglie capì di essersi innamorato dell’amico solo quando il pittore si suicidò. Vasek non lasciò nessuna spiegazione del suo gesto, solo una nota nella quale pregava il suo «carissimo Louis» di prendere in custodia la sua collezione e, se possibile, ampliarla. Richiesta che Louis eseguì alla lettera.

De Broglie abbandonò gli studi di fisica e concentrò tutti i suoi sforzi nel portare avanti il progetto del suo amore perduto. Utilizzò la sua quota di eredità per visitare tutti i manicomi della Francia e di buona parte dell’Europa, dove comprava qualsiasi forma d’arte i pazienti fossero in grado di creare. Non si limitava ad acquistare opere già realizzate, ma offriva denaro per averne di nuove, fornendo i materiali ai direttori delle strutture e rimuovendo qualunque ostacolo a suon di mazzette o di gioielli che sottraeva alla collezione della madre. Ma fece di più: una volta girate tutte le case di cura, diede vita a una fondazione che lavorava con bambini affetti da problemi di sviluppo, e, quando non trovò più bambini, istituì una borsa di studio d’arte per detenuti violenti e condannati per delitti sessuali. Infine, si avvicinò alle associazioni di beneficenza della Chiesa e finanziò un centro di accoglienza per i poveri, in cui offriva loro vitto e alloggio in cambio di una poesia, un disegno o la bozza di un’opera musicale. Quando nella villa in cui aveva radunato l’intera collezione non rimase più spazio nemmeno per un foglio, organizzò una sontuosa esposizione – «La Folie des Hommes» – e l’attribuì all’amico.

L’inaugurazione richiamò una tale quantità di persone che a un certo punto si dovettero chiudere le porte per evitare che qualcuno restasse schiacciato nella calca. L’opinione della critica si divise in due: da una parte c’era chi denunciava la decadenza assoluta in cui versava il mondo artistico; dall’altra, chi celebrava la nascita di una nuova tipologia di arte, in grado di far sembrare gli esperimenti dadaisti giochi da salotto per signorini annoiati. Persino per un paese come la Francia, abituato alle eccentricità dei pochi superstiti della sua aristocrazia, la mostra era incomprensibile. Il fatto che il principe de Broglie avesse dilapidato il patrimonio di famiglia per rendere omaggio a uno dei suoi amanti fu argomento di conversazione dell’alta società per tutta la stagione. Quando Louis lesse un articolo che scherniva senza pietà i dipinti di Jean-Baptiste (che aveva riunito in una sala speciale all’interno della mostra), si barricò dentro il palazzo insieme alle opere di tutti i pazzi d’Europa e, per tre mesi, si rifiutò di vedere anima viva a parte sua sorella, che gli portava il cibo che lui lasciava intatto fuori dalla porta.

Convinta che Louis si stesse lasciando morire di fame, Pauline supplicò il fratello maggiore di intervenire. Maurice bussò alla porta della villa per venti minuti senza ottenere risposta, dopo di che fece saltare il chiavistello con un colpo di pistola. Pronto a trascinare il fratello in sanatorio, entrò insieme a cinque servitori e avanzò gridando per i corridoi e le sale piene zeppe di sculture di immondizia, osservando per la prima volta in vita sua scene dell’inferno disegnate a pastello, fino a giungere nella sala principale della mostra, dove torreggiava una copia perfetta della cattedrale di Notre-Dame – con i profili di ciascuna gargolla – interamente composta di escrementi. Furioso, accelerò il passo fino alla camera da letto all’ultimo piano, dove si aspettava di trovare il piccolo Louis trasandato e denutrito (o, peggio ancora, già morto), e non riuscì a credere ai suoi occhi quando, varcata la soglia, vide il fratello con addosso un vestito di velluto blu, i baffi e i capelli tagliati di fresco, il sigaro in bocca, un sorriso smagliante e gli occhi luminosi come quand’era bambino.

«Maurice,» gli disse il fratello, allungandogli un plico di fogli in tutta naturalezza come se non si vedessero dalla sera prima «ho bisogno che tu mi dica se ho perso la testa».

 

Due mesi dopo, Louis de Broglie presentò le idee che lo avrebbero fatto passare alla storia. Erano l’oggetto della sua tesi di dottorato del 1924, che con la consueta modestia aveva semplicemente intitolato Recherches sur la théorie des Quanta. La discusse davanti a una commissione accademica molto perplessa, con un tono piatto da conciliare il sonno, e, poiché gli esaminatori non trovarono parole per controbattere quello che avevano ascoltato, appena conclusa la dissertazione lasciò l’aula, senza sapere se la tesi fosse stata approvata.

«Allo stato attuale della fisica, ci sono dottrine false che esercitano un fascino oscuro sulla nostra immaginazione» dichiarò de Broglie con la sua voce stridula e nasale. «Per più di un secolo abbiamo suddiviso i fenomeni del mondo in due campi: da una parte gli atomi e le particelle della materia solida, dall’altra le onde incorporee della luce, che si propagano nel mare dell’etere luminifero. Ma questi due sistemi non possono più rimanere separati: dobbiamo integrarli in una teoria unica che spieghi i loro numerosi scambi. Il primo passo lo ha fatto il nostro collega Albert Einstein: già vent’anni fa ipotizzò che la luce non fosse solo un’onda, ma contenesse particelle di energia; questi fotoni, che non sono altro che energia concentrata, si muovono attraverso le onde luminose. Molti hanno dubitato della veridicità di questa idea; altri hanno voluto chiudere gli occhi davanti al nuovo cammino che essa ci mostra. Perché non dobbiamo ingannarci: si tratta di una vera rivoluzione. Stiamo parlando dell’oggetto più prezioso della fisica, la luce, la luce che ci permette di vedere non solo le forme di questo mondo, ma anche le stelle che adornano i bracci a spirale della galassia e il cuore nascosto delle cose. Ma questo oggetto non è singolo: è doppio. La luce esiste in due modi diversi e, pertanto, trascende le categorie con le quali abbiamo cercato di classificare la miriade di forme in cui si manifesta la natura. In quanto onda e particella, abita due sistemi distinti, e assume identità opposte come le facce di Giano bifronte. Come il dio romano, esprime le proprietà contraddittorie della continuità e della frammentazione, della separazione e dell’unità. Chi si oppone a questa rivelazione adduce l’argomento che tale nuova ortodossia ci allontanerebbe dalla ragione. A costoro dico: tutta la materia possiede questo dualismo! Non è solo la luce a subire lo sdoppiamento, ma ognuno degli atomi con i quali Dio ha costruito l’universo. La tesi che avete fra le mani dimostra che a ogni particella di materia – sia essa un elettrone o un protone – è associata un’onda che la trasporta nello spazio. So che molti dubiteranno dei miei ragionamenti. Confesso di averli intessuti in solitudine. Ammetto che hanno un carattere bizzarro, e accetto il castigo che cadrebbe su di me nel caso si rivelassero falsi. Ma oggi vi dico, con assoluta certezza, che tutte le cose possono esistere in due modi, e che niente è così solido come appare: il sasso nella mano del bambino che sta puntando il passero indolente sul ramo potrebbe scorrere via tra le sue dita come acqua».

De Broglie era impazzito.

Quando nel 1905 Einstein aveva sostenuto che la luce possedeva un «dualismo onda-particella», tutti avevano pensato che si fosse spinto troppo lontano. Ciò malgrado, essendo la luce immateriale, i suoi detrattori avevano considerato che forse non era da escludere che essa potesse esistere in quel modo tanto strano. La materia, invece, era solida. Era inconcepibile che si comportasse come un’onda. Le due cose non potevano essere più diverse. Del resto, una particella di materia è come una minuscola pepita d’oro: esiste in uno spazio determinato e occupa un solo posto nel mondo. Si può vedere e sapere esattamente dov’è, minuto per minuto, perché la sua massa è concentrata. Per lo stesso motivo, se viene lanciata e urta contro qualcosa lungo il tragitto, rimbalzerà. E atterrerà sempre in un punto specifico. Le onde, al contrario, sono come l’acqua del mare: grandi e spaziose, si estendono su una superficie enorme. In quanto tali, si trovano in posti diversi allo stesso tempo; se un’onda sbatte contro una roccia, può girarle intorno e continuare il suo cammino. Se due onde si scontrano, possono annullarsi e scomparire, oppure attraversarsi senza subire trasformazioni. E quando un’onda si frange sulla costa, lo fa in tanti punti diversi della spiaggia, e non in tutti nello stesso momento. I due fenomeni sono di natura opposta e contraria. Il loro comportamento è antitetico. Ciò nonostante, de Broglie sosteneva che tutti gli atomi – esattamente come la luce – fossero sia onde sia particelle: a volte agivano come le prime, a volte come le seconde.

L’ipotesi di de Broglie era talmente in contrasto con il sapere dell’epoca che la commissione non seppe valutarla. Non succedeva spesso che una semplice tesi di dottorato li obbligasse a considerare la materia in modo radicalmente nuovo. La commissione era composta da tre luminari della Sorbona – il futuro Premio Nobel per la fisica Jean-Baptiste Perrin, il famoso matematico Élie Cartan e il cristallografo Charles-Victor Mauguin –, oltre a un professore invitato del Collège de France, Paul Langevin, ma nessuno di loro comprese le idee rivoluzionarie del giovane de Broglie. Mauguin si rifiutò di credere all’esistenza delle onde di materia; Perrin scrisse a Maurice de Broglie, il quale era ansioso di sapere se Louis avrebbe ottenuto il dottorato, confessandogli: «L’unica cosa che posso dirti è che tuo fratello minore è molto intelligente». Neanche Langevin si pronunciò, ma fece avere una copia della tesi ad Albert Einstein, per vedere se il guru della fisica fosse in grado di comprendere la teoria di quel principino francese dal naso all’insù.

Einstein tardò mesi a rispondere.

Ci mise così tanto che Langevin pensò che la missiva non gli fosse mai arrivata. Sollecitato dalla Sorbona, che attendeva una decisione definitiva, gli inviò una seconda lettera nella quale gli chiedeva se avesse avuto tempo di leggere la tesi, e se ci avesse trovato nulla di sensato.

La risposta arrivò due giorni dopo e, inaspettatamente, consacrò de Broglie, nel cui lavoro Einstein vedeva l’inizio di una nuova èra della fisica: «Ha sollevato un angolo del grande velo. È il primo debole raggio di luce in questo dilemma del mondo quantistico, il più terribile della nostra generazione».


III

PERLE NELLE ORECCHIE

Un anno dopo, la tesi di de Broglie finì in mano a un fisico brillante ma frustrato, nella cui mente le onde di materia crebbero fino a raggiungere proporzioni mostruose.

Nel periodo tra le due guerre Erwin Rudolf Josef Alexander Schrödinger pativa le stesse miserie che affliggevano il resto d’Europa: era in bancarotta, malato di tubercolosi e, nell’arco di due anni, aveva assistito all’agonia e alla morte di suo padre e di suo nonno, dopo che una serie di umiliazioni personali e professionali aveva stroncato la sua carriera.

In confronto, gli anni della Grande Guerra erano stati sorprendentemente tranquilli. Nel 1914 si arruolò come ufficiale dell’esercito e fu messo al comando di una piccola unità di artiglieria austroungarica sul fronte italiano. Schrödinger partì per l’Italia armato di due pistole che aveva comprato di tasca sua, ma non le usò mai. Fu trasferito in una fortezza sulle montagne dell’Alto Adige, dove si godeva l’aria fresca d’alta quota, mentre duemila metri sotto di lui folle di soldati iniziavano a scavare le trincee dentro le quali sarebbero morti.

L’unico vero spavento l’ebbe durante un turno di guardia di dieci giorni su una delle torri della fortezza. Schrödinger si era addormentato guardando le stelle e, quando si svegliò, vide una processione di luci avanzare sul versante della montagna. Sobbalzò e calcolò che, data l’estensione che ricoprivano, doveva trattarsi di una forza di almeno duecento uomini, tre volte più numerosa della sua compagnia. All’idea di partecipare a un vero combattimento ebbe tanta paura che si mise a correre da una parte all’altra della stanza senza riuscire a ricordarsi quale allarme dovesse dare. Quando stava per suonare la campana, si rese conto che le luci erano perfettamente immobili; guardò col binocolo, e vide che erano solo fuochi di Sant’Elmo, lingue di plasma che spuntavano dalle punte di filo spinato intorno alla fortezza, caricate dall’elettricità statica di un temporale nei paraggi. Estasiato, Schrödinger fissò quelle luci blu fino a che l’ultima non si spense, e ripensò con nostalgia a quella strana luminescenza per il resto della sua vita.

Trascorse la guerra senza avere nulla con cui tenere occupata la mente, aspettando ordini che non arrivavano e scrivendo rapporti che nessuno leggeva, finché non piombò in uno stato di apatia estrema. I suoi subalterni si lamentavano che Schrödinger non si alzava fino all’ora di pranzo e poteva dormire anche tutto il pomeriggio. Aveva sempre sonno e non riusciva a stare in piedi per più di cinque minuti. Sembrava aver dimenticato i nomi di tutti i suoi compagni d’armi, come se un miasma velenoso e corrosivo avesse invaso la sua mente. Cercava di ammazzare il tempo sfogliando gli articoli di fisica che i suoi colleghi gli mandavano dall’Austria, ma non riusciva a concentrarsi: ogni suo pensiero inciampava in quello successivo, e cominciò a temere che il tedio della guerra gli stesse scatenando una psicosi. Dormire, mangiare, giocare a carte. Dormire, mangiare, giocare a carte. «Che vita è questa?» scrisse sul suo diario. «Ormai non mi chiedo più quando finirà questa guerra. Può mai finire una cosa del genere?». Quando l’Austria firmò l’armistizio, nel novembre del 1918, Schrödinger fece ritorno in una Vienna assediata dalla fame.

Negli anni a seguire vide il mondo in cui era cresciuto sgretolarsi completamente: l’imperatore fu destituito, l’Austria diventò una repubblica e sua madre trascorse gli ultimi mesi di vita in estrema povertà, con il corpo consumato dal cancro che le si era annidato nel petto. Schrödinger non riuscì a salvare la fabbrica di linoleum di famiglia, che fallì per via dell’embargo economico imposto da britannici e francesi nonostante la fine delle ostilità. Le potenze vincitrici assistettero impassibili alla disintegrazione dell’Impero austroungarico mentre milioni di persone lottavano per sopravvivere, senza cibo né carbone per affrontare l’inverno. Le strade di Vienna si riempirono di invalidi di guerra, che portavano con sé i fantasmi dai campi di battaglia: i loro nervi danneggiati dai gas delle trincee ne deformavano i volti in smorfie grottesche, le medaglie che pendevano dalle loro logore uniformi sbatacchiavano per via degli spasmi muscolari e tintinnavano come i campanelli di una colonia di lebbrosi. I soldati dell’esercito erano deboli e affamati quanto la popolazione che avrebbero dovuto tenere a bada: ricevevano meno di cento grammi di carne al giorno, infestata da enormi vermi bianchi. Quando le truppe distribuivano i pochi viveri che arrivavano dalla Germania, era il caos totale; durante uno di quei tumulti, Schrödinger vide la folla tirare giù una guardia da cavallo. In cinque minuti l’animale venne squartato da un centinaio di donne che si ammassò intorno al suo cadavere per strappare fino all’ultimo brandello di carne.

Schrödinger stesso viveva con un salario infimo, tenendo sporadiche lezioni all’Università di Vienna. Per il resto del tempo non aveva niente da fare. Divorò i libri di Schopenhauer, autore che lo introdusse alla filosofia del Vedānta, e imparò che gli occhi atterriti del cavallo squartato nella piazza erano anche gli occhi dell’ufficiale che piangeva la sua morte; che i denti che mordevano la sua carne cruda erano gli stessi che avevano triturato l’erba al pascolo; e che l’enorme cuore strappato dal petto dell’animale aveva macchiato i visi delle donne del loro stesso sangue, perché qualsiasi manifestazione individuale non è che un riflesso del Brahman, la verità assoluta che soggiace ai fenomeni del mondo.

Nel 1920 si sposò con Annemarie Bertel, ma la felicità che aveva travolto gli amanti prima del matrimonio non durò neanche un anno. Schrödinger faticava a trovare un buon lavoro, e sua moglie, come segretaria, guadagnava in un mese più di quanto lui guadagnasse in un anno come professore. La spinse a licenziarsi contro la sua volontà e divenne un fisico errante, che passava da un posto malpagato all’altro: da Jena si trasferirono a Stoccarda, da Stoccarda a Breslavia, e da lì in Svizzera. La sua sorte sembrò cambiare quando gli affidarono la cattedra di fisica teorica all’Università di Zurigo, ma dopo un solo semestre dovette sospendere le lezioni per una violenta bronchite, che in seguito degenerò nel suo primo attacco di tubercolosi. Gli toccò passare nove mesi in montagna per respirare aria pulita, ricoverato insieme alla moglie nel sanatorio del dottor Otto Herwig, nelle Alpi svizzere vicino ad Arosa, dove sarebbe tornato negli anni a venire ogni volta che la salute dei suoi polmoni peggiorava. In quella prima occasione, Schrödinger si sottomise al rigore delle cure in alta quota all’ombra del monte Weisshorn e guarì quasi del tutto, ma i trattamenti gli provocarono uno strano effetto collaterale, che nessuno dei suoi medici riuscì a spiegarsi: un’ipersensibilità uditiva che rasentava il soprannaturale.

Nel 1923 Schrödinger aveva trentasei anni e si era finalmente stabilito in Svizzera, dove conduceva una vita tranquilla. Sia lui che Anny avevano degli amanti, ma entrambi tolleravano le infedeltà reciproche e convivevano pacificamente. L’unica cosa che lo tormentava era la consapevolezza di avere sprecato il suo talento. Che fosse intellettualmente sopra la media era stato evidente sin dall’infanzia: a scuola prendeva sempre il massimo dei voti, non solo nelle materie che gli piacevano, ma in tutte. I suoi compagni erano talmente abituati al fatto che Erwin sapesse tutto che, decine di anni dopo, uno di loro ricordava ancora l’unica domanda di un professore alla quale il giovane Schrödinger non aveva saputo rispondere: qual è la capitale del Montenegro? La fama di genio lo aveva inseguito fino all’Università di Vienna, dove gli altri studenti lo chiamavano «lo Schrödinger». La sua sete di sapere si estendeva a tutti i campi della scienza, comprese la biologia e la botanica, ma era ossessionato anche dalla pittura, dal teatro, dalla musica, dalla filologia e dallo studio dei classici. Questa curiosità incontenibile, sommata al suo evidente talento per le scienze esatte, spinse i suoi professori a predirgli un futuro di gloria. Invece, con il passare degli anni, «lo Schrödinger» era diventato un fisico qualunque. Nessuno dei suoi articoli aveva apportato un contributo significativo. Non avendo fratelli, e senza figli da Anny, se fosse morto in quel momento il nome della sua famiglia si sarebbe estinto. Quella sterilità biologica e intellettuale lo portò a vagheggiare il divorzio: forse doveva abbandonare tutto e ricominciare la sua vita da capo; forse doveva smettere di bere e d’inseguire tutte le donne che incontrava; forse doveva dimenticare la fisica e buttarsi a capofitto in un’altra delle sue passioni. Forse, forse. Passò quasi un anno intero a meditare su questi pensieri, ma l’unica cosa che fece fu litigare con la moglie in modo via via più violento, col pretesto che lei aveva una relazione particolarmente intensa con il fisico olandese Peter Debye, suo collega di facoltà. Senza alcuna speranza per il futuro, che gli appariva sempre più grigio e ripetitivo, Schrödinger ricadde nella stessa apatia che lo aveva quasi annichilito durante la guerra.

Era in questo stato quando ricevette l’invito del suo decano a tenere un seminario sulle idee di de Broglie. Schrödinger si dedicò all’incarico con un entusiasmo che non provava dai tempi in cui era studente. Analizzò il lavoro del francese in lungo e in largo e, come Einstein, riconobbe immediatamente il potenziale della tesi del principe. Erwin, finalmente, aveva trovato pane per i suoi denti, e durante la presentazione si mise in mostra di fronte a tutto il dipartimento di fisica come se stesse presentando idee sue: spiegò che la meccanica quantistica, la quale stava procurando così tanti grattacapi, si poteva dominare con uno schema classico. Non era necessario cambiare i fondamenti della disciplina per indagare quella scala. Non c’era bisogno di una fisica per il grande e di una per il piccolo. «E tutti noi ci risparmieremo l’orribile algebra di quel dannato Wunderkind, Werner Heisenberg!» disse Schrödinger, scatenando le risate dei colleghi. Se de Broglie aveva ragione, i fenomeni atomici possedevano un attributo comune, e addirittura, azzardò Erwin, potevano essere nient’altro che manifestazioni individuali di un sostrato eterno. La sua relazione stava volgendo al termine, quando Debye lo interruppe all’improvviso. Questo modo di considerare le onde, gli disse, era una stronzata. Un conto era affermare che la materia era fatta di onde, ben altro era spiegare comefunzionava il moto ondulatorio. Se Herr Schrödinger voleva parlare con un minimo di rigore, doveva presentare un’equazione delle onde. Senza un’equazione, la tesi di de Broglie era come la nobiltà francese, tanto affascinante quanto inutile.

Schrödinger tornò a casa con la coda tra le gambe. Debye poteva anche aver ragione, però il suo commento non era stato solo volgare e pedante, ma del tutto malintenzionato. Olandese di merda, l’aveva sempre disprezzato. Bastava vedere il modo in cui guardava Anny. Per non parlare di come lei guardava lui... «Bastardo!» gridò Erwin nel suo studio. «Leck mich am Arsch! Friss Scheisse und krepier!». Prese a calci i mobili e scaraventò i libri per aria, finché un attacco di tosse non lo costrinse in ginocchio, ansimante a pochi centimetri dal pavimento con un fazzoletto sulla bocca. Quando lo allontanò, vide una macchia di sangue come un’enorme rosa dai petali dischiusi, segno inequivocabile di una ricaduta di tubercolosi.

 

Schrödinger giunse al sanatorio presso Villa Herwig poco prima di Natale, e giurò che non sarebbe tornato a Zurigo senza un’equazione per chiudere il becco a Debye.

Si sistemò nella stanza che occupava sempre, accanto alla camera della figlia del dottor Herwig, il quale aveva suddiviso il sanatorio in un’ala per i pazienti critici e un’altra per i casi simili a quello di Schrödinger. Il dottore viveva da solo con la figlia, allora adolescente, da quando sua moglie era morta per complicazioni del parto. La ragazza soffriva di tubercolosi dall’età di quattro anni, e il padre si sentiva colpevole di quella disgrazia: era cresciuta gattonando fra i malati. Aveva visto morire della sua stessa malattia centinaia di persone, e forse per questo emanava una calma soprannaturale, un’aria diafana e ultraterrena, perturbata solo quando il batterio si risvegliava nei suoi polmoni. In quei momenti vagava per i corridoi dell’istituto con i vestiti macchiati di sangue, talmente magra che le ossa delle clavicole sembravano perforarle la pelle, come i nuovi palchi dei cervi all’inizio della primavera.

La prima volta che Schrödinger l’aveva vista, la ragazza aveva solo dodici anni, e già allora ne era rimasto colpito. In questo Erwin non era diverso dagli altri pazienti, che, incantati da quella strana creatura, sembravano sintonizzare i loro cicli di malattia e guarigione con quelli della signorina Herwig. Suo padre lo considerava il più misterioso fra tutti i fenomeni che aveva osservato nel corso della sua carriera, e lo paragonava ad altre meraviglie del regno animale, come il volo sincronizzato degli storni, l’esplosione orgiastica delle cicale o l’improvvisa metamorfosi delle cavallette, che da insetti solitari e mansueti mutano in proporzioni e carattere trasformandosi in una piaga insaziabile capace di devastare intere regioni, per poi morire in massa fornendo all’ecosistema una gran quantità di sostanze che piccioni, corvi, anatre, gazze e merli divorano finché non sono più in grado di volare. Se la figlia era in salute, il dottore poteva scommettere che non avrebbe perso nemmeno un paziente; quando si ammalava, sapeva che presto si sarebbero liberati posti letto. La ragazza aveva rischiato la morte in più di un’occasione. In quei momenti, la malattia la cambiava da un giorno all’altro: dimagriva così tanto che il suo corpo sembrava grande la metà, i suoi capelli biondi diventavano fini come quelli di un neonato, e la sua pelle, che nei giorni normali era bianca come quella di un cadavere, diventava quasi trasparente. Questo andirivieni tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti aveva privato la bambina delle gioie dell’infanzia, ma in cambio le aveva dato una saggezza ben superiore alla sua età. Costretta a letto per mesi, non solo aveva avuto modo di leggere tutti i volumi scientifici della biblioteca del padre, ma anche i libri dimenticati dai pazienti dimessi e quelli che riceveva in regalo dai malati cronici. Grazie alle sue eclettiche letture e al perenne isolamento, la giovane aveva una mente eccezionalmente sveglia e una curiosità insaziabile; durante l’ultimo ricovero di Schrödinger l’aveva assillato di domande circa i progressi recenti della fisica teorica, sui quali era aggiornatissima, benché non avesse alcun contatto con il mondo esterno e non si fosse mai avventurata oltre i dintorni dell’istituto. A solo sedici anni, la signorina Herwig aveva la mentalità, il portamento e la presenza di una donna adulta. Schrödinger era l’esatto opposto.

Prossimo ai quaranta, aveva ancora un aspetto giovanile e l’atteggiamento di un adolescente. Diversamente dai suoi coetanei, aveva modi informali e si vestiva più come uno studente che come un professore, il che gli causava spesso dei problemi: una volta il concierge di un albergo di Zurigo si era rifiutato di dargli la camera prenotata a suo nome perché l’aveva scambiato per un barbone; un’altra volta gli addetti alla sorveglianza gli avevano proibito di partecipare a una prestigiosa conferenza scientifica alla quale era stato invitato, e dove si era presentato con i capelli tutti impolverati e le scarpe incrostate di fango dopo aver attraversato le montagne a piedi anziché prendere il treno come un cittadino per bene. Il dottor Herwig conosceva perfettamente il carattere poco convenzionale di Schrödinger, che era solito portare le sue amanti all’istituto, ma ciò nonostante (o forse proprio per questo) nutriva grande rispetto per lui e, quando la salute di Schrödinger lo permetteva, facevano lunghe escursioni sugli sci o scalavano le montagne nelle vicinanze. Quella volta l’arrivo del fisico coincise con il desiderio del dottore che sua figlia cominciasse ad avere una vita sociale. Per questo motivo l’aveva iscritta al collegio femminile più prestigioso di Davos, ma la ragazza non aveva superato la prova di matematica all’esame d’ingresso. Appena Schrödinger mise piede nell’istituto, il dottore lo abbordò e gli chiese se potesse dedicare un paio d’ore ad aiutare sua figlia nello studio, sempre che, naturalmente, la salute e il lavoro glielo consentissero. Schrödinger rifiutò garbatamente e imboccò di corsa le scale salendo i gradini a due a due, spinto da qualcosa che aveva cominciato a formarsi nella sua mente nell’istante in cui aveva sentito l’aria rarefatta di alta montagna: sapeva che qualsiasi distrazione, per piccola che fosse, avrebbe sciolto l’incantesimo.

Entrò nella sua stanza e si sedette allo scrittoio senza nemmeno togliersi il cappotto e il cappello. Aprì il quaderno e cominciò ad annotare le sue idee, prima in modo lento e disordinato, poi a una velocità maniacale, sempre più concentrato, finché tutto intorno a sé gli sembrò sparire. Lavorò per ore, inchiodato alla sedia, con un formicolio che gli correva su e giù per la spina dorsale, e solo quando spuntò il sole all’orizzonte e ormai non distingueva più il foglio dalla stanchezza, si trascinò sul letto e si addormentò senza nemmeno togliersi le scarpe.

Quando si svegliò non sapeva dove fosse. Aveva le labbra secche e gli ronzavano le orecchie. La testa gli faceva male come se si fosse ubriacato per tutta la notte. Aprì la finestra per respirare un po’ d’aria fresca e poi tornò allo scrittoio, ansioso di rileggere il frutto della sua epifania. Quando cominciò a sfogliare i suoi appunti, gli si rivoltò lo stomaco. Che accidenti aveva fatto? Lesse dalla fine all’inizio e poi dall’inizio alla fine, ma non c’era niente che avesse senso. Non capiva i suoi stessi ragionamenti, non capiva come fosse passato da un punto all’altro. Nell’ultima pagina trovò un abbozzo di equazione simile a quella che stava cercando, ma non aveva alcun legame apparente con le formule che la precedevano. Sembrava che qualcuno fosse entrato nella sua stanza mentre lui stava dormendo e l’avesse lasciata lì come un rompicapo impossibile da risolvere, per il gusto di torturarlo. Quello che la notte prima aveva scambiato per il guizzo intellettuale più importante della sua vita gli sembrò il vaniloquio di un fisico dilettante, un triste episodio di megalomania. Si massaggiò le tempie per cercare di calmarsi e scacciare dalla mente l’immagine di Debye e Anny che ridevano di lui, ma il cuore gli sprofondò nel petto. Lanciò il quaderno contro la parete, con una forza tale che le pagine si staccarono dal dorso e si sparsero per tutta la stanza. Disgustato di se stesso, si vestì, scese con gli occhi bassi nella sala da pranzo e si sedette sulla prima sedia che trovò libera.

Quando chiamò il cameriere per ordinare un caffè, si rese conto che quello era il turno dei malati gravi.

La prima cosa che notò dell’anziana seduta di fronte a lui furono le lunghe dita, scolpite da secoli di ricchezza e privilegi, che reggevano una tazza di tè davanti a un volto la cui metà inferiore era stata completamente mangiata dal batterio della tubercolosi. Schrödinger tentò di nascondere il suo ribrezzo, ma non riusciva a toglierle gli occhi di dosso, raggelato al pensiero che anche nel suo corpo potessero insorgere quelle deformità che colpivano una piccola percentuale dei malati, i cui linfonodi si gonfiavano come grappoli d’uva. Il disagio della signora si trasmise a tutta la tavolata: in pochi secondi la metà dei commensali – uomini e donne, sfigurati e grotteschi quanto lei – guardava il fisico come fosse un cane che sta facendo la cacca nella navata di una chiesa. Schrödinger stava per andarsene, quando sentì una mano sfiorargli la coscia sotto la tovaglia bianca. Non era una carezza erotica, ma l’effetto fu simile a una scarica elettrica e gli fece immediatamente recuperare l’autocontrollo. Si girò verso la proprietaria della mano, le cui dita erano ancora posate sul suo ginocchio come una farfalla con le ali ripiegate, e vide che era la figlia del dottor Herwig. Schrödinger non osò sorridere per paura di spaventarla e, dopo averla ringraziata di quel gesto con lo sguardo, si sforzò di bere il suo caffè cercando di non muovere un muscolo, mentre attorno, tavolo dopo tavolo, tornava a regnare la calma, come se la ragazza non avesse toccato solo lui, ma tutti allo stesso tempo. Quando non si sentì più nulla oltre al lieve tintinnio di piatti e posate, la signorina Herwig ritirò la mano. Si alzò in piedi, si lisciò il vestito e si diresse verso la porta, fermandosi solo per salutare una coppia di bambini, due gemelli che le saltarono al collo e non la lasciarono andare senza prima aver ricevuto un bacio ciascuno. Schrödinger ordinò un altro caffè, ma non lo bevve. Rimase seduto finché tutti non ebbero abbandonato la sala, quindi andò alla reception, si fece dare carta e matita e scrisse un messaggio al dottor Herwig, per informarlo che non solo era disposto ad aiutare sua figlia, ma che sarebbe stato un vero piacere.

 

Per non stravolgere gli orari di lavoro di Schrödinger, il dottor Herwig gli propose di tenere le lezioni nella stanza della ragazza, che una porta collegava direttamente a quella del fisico. Il giorno della prima lezione, Schrödinger passò tutta la mattinata a mettersi in ghingheri. Si fece un bagno, si rasò con cura e, prima di pettinarsi, considerò l’idea di lasciare i capelli in disordine, ma poi decise che era meglio darsi un aspetto più formale perché sapeva che la sua fronte alta faceva colpo sulle donne. Fece un pranzo leggero, e alle quattro del pomeriggio sentì il rumore della serratura dall’altro lato della porta, seguito da due colpi quasi impercettibili sul legno che gli provocarono un’erezione, motivo per cui dovette sedersi e aspettare qualche minuto prima di afferrare la maniglia ed entrare nella stanza della signorina Herwig.

Varcata la soglia, l’odore di legno inondò le narici di Schrödinger, anche se il rovere che rivestiva le pareti s’intravedeva appena, poiché i muri erano ricoperti da centinaia di scarabei, libellule, farfalle, grilli, ragni, scarafaggi e lucciole, trafitti da spilli o disposti in piccole campane di vetro che imitavano i loro habitat naturali. In mezzo a quel gigantesco insettario, la signorina Herwig lo aspettava seduta allo scrittoio, guardandolo come se fosse un nuovo esemplare della sua collezione. La giovane emanava una tale autorità che, per una frazione di secondo, Erwin si sentì come un timido scolaro di fronte a una professoressa indispettita dal suo ritardo; le fece un inchino esagerato, e lei non poté fare a meno di sorridere. Il fisico notò i suoi denti piccoli e gli incisivi leggermente separati e, solo allora, la vide per quello che era: poco più di una bambina. Vergognandosi delle fantasie che aveva covato dal loro incontro nella sala da pranzo, Schrödinger avvicinò una sedia e iniziarono subito a esaminare i problemi dell’esame d’ingresso. La ragazza aveva una mente veloce, ed Erwin fu sorpreso di apprezzare così tanto la sua compagnia, anche quando il suo desiderio per lei sembrava essere svanito. Lavorarono per due ore, quasi sempre in silenzio, e, dopo che lei ebbe risolto l’ultimo esercizio, concordarono l’orario della lezione successiva e la ragazza gli offrì una tazza di tè. Schrödinger la bevve mentre la giovane gli mostrava gli insetti che suo padre catturava e che lei si era incaricata di sistemare e preservare. Quando diede a intendere che non voleva rubargli altro tempo, Schrödinger si rese conto che si era fatto buio. Si congedò sull’uscio con una genuflessione identica a quella che aveva fatto al suo ingresso e, nonostante la signorina Herwig gli avesse sorriso anche questa volta, tornò nella sua stanza sentendosi un perfetto idiota.

Era sfinito, ma non riusciva a dormire. Quando chiudeva gli occhi, vedeva la signorina Herwig china sullo scrittoio che arricciava il naso e si inumidiva le labbra con la punta della lingua. Si alzò di malavoglia e raccolse le pagine che aveva buttato per terra la mattina precedente. Cercò di riordinarle, ma anche questo gli costò uno sforzo enorme. Non riusciva a decifrare quale ragionamento portasse a quale risultato; l’unico passaggio chiaro era l’equazione contenuta nell’ultima pagina – che sembrava fotografare perfettamente il movimento di un elettrone all’interno dell’atomo –, benché nulla la collegasse con quanto aveva scritto prima. Non gli era mai capitata una cosa del genere. Come poteva aver creato qualcosa che lui stesso non capiva? Era assurdo! Raccolse le pagine dentro la copertina sbrindellata del quaderno e lo chiuse in un cassetto. Senza darsi per vinto, lavorò a un articolo che aveva iniziato sei mesi prima, in cui analizzava uno strano fenomeno sonoro sperimentato durante la guerra: dopo una grande esplosione, le onde sonore si attenuavano a mano a mano che si allontanavano dal loro punto di origine, ma a circa cinquanta chilometri di distanza riacquistavano improvvisamente intensità e sembravano rinascere con più forza di prima, come se, avanzando nello spazio, tornassero indietro nel tempo. Su Schrödinger, che a volte riusciva a udire i battiti del cuore delle persone intorno a sé, questa ripresa inspiegabile di un suono estinto esercitava un grande fascino, ma, per quanto ci provasse, non riusciva a lavorare per più di venti minuti senza che i suoi pensieri tornassero alla signorina Herwig. Tornò a letto e si imbottì di sonniferi. Quella notte fece due incubi: nel primo, un’onda gigantesca rompeva i vetri della sua finestra e allagava la stanza fino al soffitto; nel secondo, Schrödinger galleggiava in un mare agitato, a pochi metri dalla spiaggia. Era esausto e riusciva a malapena a tenere il naso fuori dall’acqua, ma non osava uscire: a riva lo aspettava una donna bellissima, dalla pelle nera come il carbone, che ballava sul cadavere del marito.

Malgrado quei sogni, si svegliò di buon umore e pieno di energia: sapeva che la signorina Herwig lo aspettava per le undici. Tuttavia, quando la vide, si rese conto che non era in condizioni di seguire una lezione. Pallida e segnata da occhiaie profonde, gli spiegò che aveva passato gran parte della notte insieme a suo padre, a osservare un esemplare di afide femmina che dava alla luce centinaia di piccole creature. L’aspetto straordinario e terribile di quell’evento, gli disse la ragazza, è che gli insetti iniziavano a partorire quando avevano solo poche ore di vita: portavano in grembo delle creature già mentre si trovavano nel corpo della madre primigenia. Le tre generazioni si annidavano l’una dentro l’altra come una matrioska spaventosa, dando vita a un superorganismo che esemplificava la tendenza della natura alla sovrabbondanza, la stessa sovrabbondanza che porta alcuni uccelli a deporre più uova di quanti pulcini potranno sfamare, costringendo il più grande a uccidere i fratelli spingendoli fuori dal nido. Addirittura peggiore era il caso di alcune specie di pescecane, gli spiegò la signorina Herwig, in cui i piccoli squali uscivano dall’uovo mentre erano ancora nel ventre materno, con i denti sufficientemente affilati da poter divorare quelli che nascevano dopo; la predazione fratricida assicurava loro il nutrimento necessario nelle prime settimane di vita, quando erano così vulnerabili da diventare preda degli stessi pesci di cui si sarebbero cibati in età adulta, qualora fossero sopravvissuti. Seguendo le istruzioni del padre, la signorina Herwig aveva separato i membri di ciascuna delle tre generazioni di afidi in diversi barattoli trasparenti, per cospargerli poi di un pesticida che aveva tinto il vetro di una tonalità di blu così bella da sembrarle il colore originale del cielo. Gli insetti erano morti istantaneamente, e lei per tutta la notte aveva sognato le loro zampine ricoperte di polvere blu, motivo per cui non era riuscita a riposare. Gli disse che non si sentiva in grado di concentrarsi abbastanza per una lezione, ma magari Herr Schrödinger aveva voglia di accompagnarla a passeggio in riva al lago, per vedere se l’aria fredda l’avrebbe rinvigorita?

Fuori, l’inverno dominava il paesaggio. Le sponde del lago erano ghiacciate, e Schrödinger si mise a raccogliere pezzetti di ghiaccio che si scioglievano lentamente a contatto con le sue mani. Mentre costeggiavano la punta più lontana del lago, la signorina Herwig gli chiese a che cosa stesse lavorando. Schrödinger le parlò delle idee di Heisenberg e della tesi di de Broglie, poi le raccontò della presunta epifania che aveva avuto la sua prima notte all’istituto e della sua strana equazione. A prima vista, era molto simile alle equazioni utilizzate in fisica per analizzare le onde del mare o la propagazione del suono nell’aria; tuttavia, perché funzionasse all’interno dell’atomo, applicata al movimento degli elettroni, Schrödinger aveva dovuto inserire nella formula un numero complesso, la radice quadrata di meno uno. In pratica, ciò significava che una parte dell’onda descritta dalla sua equazione usciva dalle tre dimensioni dello spazio. Le sue creste e i suoi ventri viaggiavano in più dimensioni, in un regno altamente astratto che poteva essere descritto solo dalla matematica pura. Per quanto splendide, le onde di Schrödinger non appartenevano a questo mondo. Ai suoi occhi era chiaro che l’equazione descriveva gli elettroni sotto forma di onde. Il problema era capire cosa diavolo fosse a ondeggiare! Mentre parlava, la signorina Herwig si era seduta su una panchina in riva al lago. Quando il fisico si sedette accanto a lei, la ragazza aprì il libro che aveva in mano e lesse un brano ad alta voce: «I fantasmi si succedono l’uno dopo l’altro come le onde del mare illusorio della nascita e della morte. Nel corso della vita non c’è altro che il saliscendi delle forme materiali e mentali, mentre la realtà insondabile permane. Dentro ogni creatura dorme un’intelligenza infinita, sconosciuta e occulta, ma destinata a svegliarsi, a strappare la rete inconsistente della mente sensibile, a rompere la sua crisalide di carne e a conquistare il tempo e lo spazio». Schrödinger riconobbe le stesse idee che lo ossessionavano da anni. Lei gli disse che l’inverno precedente uno scrittore aveva soggiornato all’istituto dopo aver vissuto quarant’anni in Giappone, dove si era convertito al buddhismo: era stato lui a impartirle le sue prime lezioni di filosofia orientale. Schrödinger e la signorina Herwig passarono il resto del pomeriggio a parlare di induismo, del Vedānta e del Grande Veicolo del Mahāyāna, con l’entusiasmo di due persone che hanno inaspettatamente scoperto di condividere un segreto. Quando videro dei lampi sullo sfondo delle montagne, la signorina Herwig disse che dovevano tornare immediatamente all’istituto perché di certo sarebbe arrivato un temporale. Schrödinger cercò un pretesto per non separarsi da lei. Non era la prima volta che era ossessionato da una donna così giovane, ma c’era qualcosa di diverso nella signorina Herwig, qualcosa che lo disarmava e annullava tutta la sua sicurezza, tanto che, giunti alla scalinata dell’istituto, fu indeciso se offrirle il braccio come sostegno, e nell’esitazione scivolò sul bordo di un gradino slogandosi la caviglia. Lo riportarono in camera su una barella, con il piede talmente gonfio che lei dovette aiutarlo a togliersi le scarpe perché potesse sdraiarsi sul letto.

I giorni seguenti la signorina Herwig assunse il ruolo di infermiera e allieva. Gli portava da mangiare, gli faceva avere il giornale ogni mattina e lo obbligava a prendere le medicine che suo padre gli aveva prescritto, offrendogli persino la sua spalla cui appoggiarsi per saltellare fino in bagno. Schrödinger si struggeva per quel contatto fugace e arrivava a bere fino a tre litri d’acqua al giorno pur di avere una scusa per sentirla vicino, sprezzante del dolore che quegli inutili spostamenti gli provocavano. Avevano ripreso le loro lezioni pomeridiane. Il primo giorno lei si mise su una sedia ai piedi del letto, ma Schrödinger doveva sforzarsi troppo per vedere il quaderno degli esercizi, così la ragazza gli si sedette accanto, talmente vicino che lui poteva percepire il calore emanato dal suo corpo. Moriva dalla voglia di toccarla, ma si sforzava di rimanere totalmente immobile per non spaventare la ragazza, benché quell’eccesso di intimità non sembrava in alcun modo metterla a disagio. Schrödinger si masturbava non appena lei usciva dalla stanza, quando chiudendo gli occhi poteva ancora vederla al suo fianco; subito dopo, però, veniva assalito da un tremendo senso di colpa. Senza il suo aiuto non riusciva ad arrivare in bagno, per cui doveva pulirsi con un asciugamano che nascondeva sotto il letto, come fosse ancora un adolescente che vive in casa dei genitori. Ogni volta che accadeva si riprometteva che il giorno dopo avrebbe parlato con il dottor Herwig per mettere fine alle lezioni. Poi avrebbe chiamato sua moglie per chiederle di venirlo a prendere e non avrebbe mai più messo piede all’istituto, anche a costo di morire di tosse per strada, come un vagabondo. Qualsiasi cosa era preferibile piuttosto che continuare a sopportare quell’innamoramento infantile, che non faceva che crescere col passare del tempo. Quando lei gli regalò una copia illustrata della Bhagavadgītā, lui trovò il coraggio di confessarle un sogno ricorrente che lo tormentava da quando aveva cominciato a studiare i Veda.

Nell’incubo l’enorme dea Kālī si sedeva sul suo petto come uno scarabeo gigante, schiacciandolo e impedendogli di muoversi. Agghindata con la sua collana di teschi umani e brandendo nelle sue molte braccia spade, asce e coltelli, la dea lo schizzava con gocce di sangue che le cadevano dalla punta della lingua e con zampilli di latte che sgorgavano dal suo seno gonfio, sfregandogli il sesso finché Schrödinger non riusciva più a contenere l’eccitazione, e solo allora lo decapitava e divorava i suoi genitali. La signorina Herwig lo ascoltò imperturbabile e gli disse che quel sogno non era un incubo, ma una benedizione: di tutte le sembianze femminili che la divinità poteva assumere, Kālī era la più compassionevole poiché concedeva il mokṣa – la liberazione – ai suoi figli, per i quali nutriva un amore che andava oltre l’umana comprensione. La sua pelle nera, gli disse, era il simbolo del vuoto che trascende le forme, l’utero cosmico che genera tutti i fenomeni, mentre la sua collana di teschi era composta da tutti gli ego che aveva liberato dal principale oggetto dell’identificazione, ossia il corpo. La castrazione che Schrödinger subiva per mano della Madre Oscura era il più grande regalo che potesse ricevere, una mutilazione necessaria perché affiorasse la sua nuova coscienza.

 

Costretto a letto per ore, senza distrazioni, Schrödinger fece progressi notevoli con la sua equazione. Le sue potenzialità e la sua portata cominciavano a manifestarsi a mano a mano che si avvicinava alla versione definitiva, anche se le implicazioni nel campo della fisica gli sembravano sempre più strane e indecifrabili. Nei suoi calcoli l’elettrone era una sorta di nuvola che sfumava intorno al nucleo, oscillando come un’onda intrappolata fra le pareti di una piscina. Ma quest’onda era un fenomeno reale o solo un espediente per calcolare in che punto si trovava l’elettrone in un dato momento? Ancora più difficile era capire perché la sua equazione non mostrasse una singola onda per ogni elettrone, ma un’enorme varietà di onde sovrapposte. Descrivevano tutte lo stesso oggetto oppure ognuna rappresentava un mondo possibile? Schrödinger contemplò la seconda possibilità: quelle onde multiple potevano essere il primo sguardo su qualcosa di completamente nuovo, ciascuna di esse lo sprazzo di un universo che nasceva ogni qualvolta l’elettrone passava da uno stato all’altro, ramificandosi all’infinito come le gemme della rete di Indra. Ma un’ipotesi del genere era impensabile. Per quanto si spremesse le meningi, non capiva come avesse potuto allontanarsi tanto dalla sua intenzione originaria. Ciò che voleva era semplificare il mondo subatomico, cercare un attributo comune a tutte le cose, e invece aveva creato un mistero ancora più grande. Lo sconforto gli impediva di lavorare, e riusciva a pensare soltanto al dolore alla caviglia e al corpo della signorina Herwig, che negli ultimi due giorni aveva saltato le lezioni per aiutare il padre con i preparativi per il Natale.

Il giorno della vigilia tutti i pazienti dell’istituto, a prescindere dal loro stato di salute, partecipavano a una festa che, con il passare degli anni, era diventata sempre più complessa. Le celebrazioni includevano tradizioni da tutta Europa e persino dell’estremo Oriente, piccoli riti pagani che si perdevano nel tempo e che commemoravano non la nascita di Cristo, ma il solstizio d’inverno, il ritorno della luce dopo la notte del 21 dicembre, la più lunga e buia dell’anno nell’emisfero boreale. L’inflessibile routine dei malati s’interrompeva e, come nei Saturnali romani, i pazienti giravano mezzo nudi per i corridoi, suonando fischietti, tamburi e campane, poi si travestivano e partecipavano a un sontuoso banchetto. Schrödinger odiava i festeggiamenti, e la prima cosa che fece quando la signorina Herwig entrò nella sua stanza per la lezione fu lamentarsi del fatto che il baccano infernale di quel carnevale di imbecilli non l’avrebbe lasciato dormire per tutta la notte. Sotto lo sguardo attonito del fisico, lei si tolse gli orecchini e separò con un morso le perle dai gancetti; le strofinò sull’orlo del vestito, si piegò su di lui e gliele infilò nelle orecchie. Gli spiegò che lo faceva ogni volta che soffriva di emicrania e insistette perché le tenesse, per ringraziarlo del tempo che le aveva dedicato. Erwin le chiese se quell’anno avrebbe partecipato alla festa, immaginandosela nuda e in maschera, ma sapeva che non ci andava mai. Lei confessò che odiava il Natale: era uno dei periodi in cui all’istituto morivano più persone, e né la sbornia della festa né la frenesia del ballo potevano farle dimenticare tutti quei morti. Schrödinger stava per rispondere, quando lei si lasciò cadere sul letto come se le avessero sparato in mezzo al petto. «Sa qual è la prima cosa che farò quando andrò all’università?» gli chiese con un sorriso che le illuminava il volto. «Mi ubriacherò e andrò a letto con l’uomo più brutto che incontrerò». «Perché con il più brutto?» domandò Schrödinger, togliendosi le perle dalle orecchie. «Perché voglio che la prima volta sia solo per me» gli disse, girando il collo per guardarlo negli occhi. Schrödinger le chiese se fosse mai stata con un uomo. «Né uomo né donna, né animale né uccello né bestia, né dio né demonio; né essere materiale né membro incorporeo; né quello né questo né l’altro» recitò la signorina Herwig, alzandosi piano dal letto, come se fosse un cadavere che sta lentamente tornando nel mondo dei vivi. Schrödinger non riuscì più a trattenersi: le disse che era la creatura più affascinante che avesse mai incontrato e che si sentiva posseduto dal momento in cui lo aveva toccato nella sala da pranzo. Il poco tempo che avevano trascorso insieme era stata la gioia più grande dei suoi ultimi dieci anni di vita, e il solo pensiero di lei lo riempiva di energia. L’idea di tornare a Zurigo lo terrorizzava, perché era convinto che lei avrebbe superato l’esame d’ingresso, presto sarebbe partita per il collegio e lui non l’avrebbe più rivista. Mentre parlava, la signorina Herwig non si scompose e continuò a guardare fuori dalla finestra. Di là del vetro, un’interminabile fila di luci saliva per la strada che dal fondo della valle si inerpicava verso la cima del Weisshorn; migliaia di torce risplendevano con sempre maggiore intensità a mano a mano che la processione avanzava e che il sole si nascondeva dietro l’orizzonte. «Da bambina avevo un’incontrollabile paura del buio» gli disse finalmente. «Stavo sveglia tutta la notte, leggendo al lume delle candele che mi regalava mio nonno, e mi addormentavo soltanto quando spuntava il sole. All’epoca ero così fragile che mio padre non si azzardava a mettermi in castigo; la sua soluzione fu dirmi che la luce era una risorsa limitata. Se l’avessi usata troppo, sarebbe finita, e l’oscurità avrebbe regnato su ogni cosa. La paura di una notte senza fine mi convinse a spegnere le candele, però presi l’abitudine ancora più strana di andare a dormire prima che facesse buio. In estate non era difficile, il sole tramontava tardi e io potevo godermi tutta la giornata, ma durante l’inverno dovevo mettermi a letto poche ore dopo pranzo, per cui passavo più tempo dormendo che sveglia. La notte peggiore dell’anno era proprio il solstizio d’inverno. I pochi bambini dell’istituto rimanevano a giocare fino a mezzanotte, ballando e correndo per i corridoi, mentre io dovevo aspettare fino al mattino per raccogliere i dolciumi che, nel buio, avevano sparso ovunque, e per intrecciare ghirlande con i resti delle decorazioni calpestate. Avevo nove anni quando decisi di affrontare la mia paura. Proprio in questa stanza, proprio davanti a questa finestra, rimasi sveglia mentre il sole calava all’orizzonte, così veloce che sembrava trascinato da una forza superiore alla semplice gravità, come se, stanco della propria luce, volesse estinguersi una volta per tutte. Stavo per infilarmi sotto le coperte quando vidi le torce lungo la strada. Pensai che fosse la mia immaginazione, all’epoca era normale per me confondere i sogni con la realtà, ma mentre le luci salivano riuscii a distinguere le sagome delle persone che le reggevano. Quando diedero fuoco a una gigantesca effigie di legno, vidi uomini e donne ballarle intorno; aprii la finestra per ascoltare i loro canti, che arrivavano nitidissimi attraverso l’aria gelida di montagna. Mi vestii più in fretta che potei e pregai mio padre di portarmi alla pira ardente. Fu così sorpreso di vedermi sveglia di notte che abbandonò tutto per accompagnarmi. Camminammo insieme, mano nella mano, il mio palmo che sudava contro il suo nonostante il freddo; e poi lo rifacemmo ogni anno, qualunque fosse il clima o il mio stato di salute, come un patto che dovevamo continuamente rinnovare. Questa è la prima notte in cui non andremo. Non è più necessario: quel fuoco si è acceso dentro di me e sta consumando tutto. Non sento più le cose come una volta. Non ho legami, né ricordi da custodire, né sogni che mi spingano a guardare avanti. Mio padre, il sanatorio, il paese, le montagne, il vento, le parole che escono dalla mia bocca sono tutte cose che percepisco tanto estranee quanto i sogni di una donna morta milioni di anni fa. Questo corpo che lei vede si sveglia, mangia, cresce, cammina, parla e sorride, ma dentro non è rimasto altro che cenere. Non ho più paura della notte, Herr Schrödinger, e dovrebbe smettere di averne anche lei». La signorina Herwig si alzò dal letto e s’incamminò verso la sua stanza. Si fermò un istante sulla soglia, appoggiando contro lo stipite il peso del suo corpo come se all’improvviso avesse perso le forze. Schrödinger la pregò di non andarsene e fece per raggiungerla, ma prima che riuscisse a muovere un passo aveva già richiuso la porta alle sue spalle.

Schrödinger passò il resto della notte con le perle nelle orecchie, senza riuscire a togliersi dalla testa l’immagine della giovane che se le portava alla bocca. Le sue labbra increspate che mordevano il gancetto. Il luccichio della saliva una volta staccate. Umiliato dalla sua confessione ed esasperato dalla mancanza di sonno, si sfilò le perle e si masturbò tenendole nel palmo della mano. Nel momento in cui eiaculò, la signorina Herwig fu colta da un accesso di tosse senza fine, e lui zoppicò fino al lavandino provando ribrezzo per se stesso. Sciacquò le perle a lungo finché non tornarono a brillare, poi se le infilò di nuovo nelle orecchie, per proteggersi non più dal frastuono della festa, ma dagli interminabili colpi di tosse della sua vicina, che sentì tutta la notte senza riuscire a capire se quel penoso staccato provenisse dalla gola della donna che amava o fosse frutto della sua immaginazione. La mattina dopo, infatti, quando si svegliò, non solo li sentiva ancora, regolari e snervanti come un rubinetto che perde, ma sembravano essersi insinuati anche dentro il suo corpo, perché non poteva muoversi senza tossire fino a restare senza fiato.

Si sottopose al regime dei malati.

Fece bagni in piscina, dormì esposto alle intemperie sotto strati di pelliccia, sentì bruciare i polmoni nell’aria ghiacciata di montagna e nel caldo soffocante della sauna; si fece massaggiare la schiena con oli e torturare con ventose, trascinandosi da una sala all’altra insieme agli altri pazienti, provando quel tipo di conforto di chi vede la propria vita ridotta all’inflessibile ripetizione delle cure. L’unico beneficio reale che ebbe da tutto ciò fu la guarigione quasi miracolosa della caviglia. Ben presto tornò a camminare senza doversi appoggiare al bastone, cosa che gli permetteva di passare in camera il minor tempo possibile: un sollievo non da poco, giacché riusciva a sentire i lamenti e i gemiti della vicina come se si trovassero nello stesso letto. Passava le notti con una ragazza che lavorava come bagnina nella piscina dell’istituto, con la quale anche altri pazienti andavano a letto in cambio di denaro – un tacito accordo che il dottor Herwig tollerava. Durante il giorno, quando non doveva sottomettersi alle cure, Schrödinger vagava per l’istituto come un sonnambulo. Percorreva quegli interminabili corridoi cercando di non pensare alla signorina Herwig, alla sua equazione o a sua moglie, che sicuramente nelle ultime settimane, mentre lui fantasticava su un’adolescente, non aveva fatto altro che scopare. Pensò alle lezioni che avrebbe dovuto riprendere una volta guarito, al tedio della ripetizione, agli sguardi vuoti dei suoi allievi, alla consistenza del gessetto che gli si sgretolava fra le dita, e improvvisamente gli sembrò di vedere la sua vita futura sotto forma di scenari paralleli e simultanei, un ventaglio di probabilità che si diramavano in tutte le direzioni possibili. In uno, lui e la signorina Herwig fuggivano per iniziare una vita insieme; in un altro, la sua salute peggiorava all’improvviso e moriva all’istituto soffocato dal proprio sangue; nel terzo, la moglie lo lasciava, ma il lavoro andava alla grande. Nella maggior parte degli scenari, tuttavia, Schrödinger proseguiva il cammino intrapreso fino a quel momento, era sempre sposato con Anny e lavorava come professore, finché la morte non lo sorprendeva in una qualche sconosciuta università europea. Depresso, scese al primo piano e uscì in terrazza a prendere un po’ d’aria fresca. Non era preparato alla desolazione che vide fuori. Sembrava che il mondo fosse stato cancellato. Dove una volta c’era il lago, circondato dagli alberi e incorniciato dal lontano profilo delle montagne, adesso c’era solo un manto funebre, uno strato di neve bianca e uniforme che non permetteva di distinguere nulla in tutto il paesaggio. Tutti i sentieri dovevano essere interrotti. Schrödinger non avrebbe potuto lasciare l’istituto nemmeno se l’avesse voluto. Tornò dentro con un senso di reclusione e claustrofobia insostenibili.

Con l’avvicinarsi dell’anno nuovo, la sua salute peggiorò. Quando la febbre s’impossessò di lui, fu costretto a sospendere le camminate e a rimettersi a letto. Si sentiva la pelle come carne viva e persino il contatto con le lenzuola gli faceva male. Se chiudeva gli occhi, percepiva il tintinnio dei cucchiai nella sala da pranzo, il movimento dei pezzi degli scacchi nella sala da gioco, il fischio delle pentole a vapore in cucina. Anziché scacciarli, si concentrava su quei rumori per soffocare il sibilo della signorina Herwig, quel filo d’aria che a malapena entrava nella sua gola infiammata e non bastava a riempirle i polmoni. Erwin doveva resistere alla tentazione di buttare giù la porta che li separava e prendere la ragazza malata tra le braccia, ma non aveva energia a sufficienza nemmeno per dare un titolo all’articolo nel quale aveva formalizzato la sua equazione. Aveva deciso di pubblicarla così com’era e di lasciare che fosse qualcun altro a sviscerarne il senso, sempre che ne avesse uno. Francamente, non gli importava più: ogni volta che la signorina Herwig tossiva, era scosso da spasmi incontrollabili. La stessa recrudescenza sembrava aver colpito l’intero sanatorio. Gli addetti alle pulizie non passavano a riordinare la sua stanza da due giorni, ma, quando chiamò la reception per lamentarsi, lo informarono che erano tutti impegnati in casi più gravi del suo. Quella mattina erano morti due bambini: la coppia di gemelli che Erwin aveva visto appesi al collo della signorina Herwig nella sala da pranzo. Non potendo dare sfogo alla sua rabbia, chiese solo di essere avvisato non appena avessero sgombrato le strade. Voleva andarsene al più presto.

Il giorno dopo si scatenò una tormenta. Schrödinger passò tutta la mattinata a letto guardando i fiocchi di neve ammucchiarsi sul davanzale della finestra, finché si riaddormentò. Fu svegliato da due colpi alla porta. Il fisico si alzò con i capelli scompigliati e il pigiama sporco di resti di cibo, ma l’uomo che vide quando aprì aveva un aspetto infinitamente peggiore del suo: il dottor Herwig sembrava uno dei soldati che Schrödinger aveva visto tornare dalle trincee con gli occhi offuscati dalle nubi di gas mostarda. Il dottore si scusò per l’imperdonabile disordine in cui si trovava la sua stanza. L’istituto stava attraversando una crisi vera e propria. Dalla reception lo avevano informato della sua intenzione di partire, ed era venuto solo per trasmettergli un messaggio da parte della figlia: avrebbe acconsentito a un’ultima lezione, prima di andarsene? Glielo chiese guardando a terra, come stesse domandando qualcosa di peccaminoso e imperdonabile. Schrödinger non riuscì a nascondere il suo entusiasmo. Mentre il medico diceva che non voleva recargli disturbo e che avrebbe perfettamente capito se pensava fosse una richiesta eccessiva, Schrödinger s’infilò i vestiti a tentoni, rassicurandolo che non c’era alcun problema, anzi, sarebbe stato un piacere e poteva farlo subito, immediatamente, gli bastavano cinque minuti per darsi una pettinata, anche meno se solo fosse riuscito a trovare le scarpe, dove diamine le aveva lasciate? Il dottore lo guardava muoversi freneticamente da una parte all’altra della stanza, con l’espressione indolente di un uomo che ha perso ciò che di più caro aveva al mondo – atteggiamento che Erwin non comprese fino a che non vide lo stato in cui versava la signorina Herwig.

Pallida e scheletrica, stava sprofondata in un’enorme pila di cuscini che l’avvolgevano come i petali di un fiore mostruoso. Era talmente magra che Schrödinger si chiese se il tempo, per loro due, fosse trascorso in maniera diversa: era impossibile che un essere umano subisse una trasformazione tanto radicale in un paio di giorni. La pelle del suo collo era diventata trasparente e le vene erano così marcate che Schrödinger avrebbe potuto misurarle le pulsazioni solo guardandola. Il sudore le imperlava la fronte, le mani le tremavano per la febbre e la sua corporatura sembrava quella di una bambina di nove anni. Schrödinger non ebbe il coraggio di entrare nella stanza. Rimase in piedi sulla soglia, con il dottor Herwig alle sue spalle, finché lei aprì gli occhi e lo guardò con la stessa aria indispettita con cui lo aveva accolto alla loro prima lezione. La giovane chiese a suo padre di lasciarli soli e disse a Schrödinger di sedersi.

Erwin prese una sedia, ma lei diede dei colpetti sul materasso con la mano, invitandolo accanto a sé sul letto. Schrödinger non sapeva dove guardare; non riusciva a conciliare l’immagine della donna che aveva sognato fino a quel momento con quella che ora vedeva. Si sentì enormemente sollevato quando lei gli chiese di leggere il suo quaderno: aveva finito l’ultimo compito. Schrödinger guardò gli esercizi e, dapprima, i numeri gli sembrarono inintelligibili: era così frastornato che non riusciva a risolvere banali equazioni che lui stesso aveva inventato per lei. Per non darlo a vedere, le chiese di spiegare come avesse ottenuto uno specifico risultato, l’unico che presentava un certo grado di difficoltà. La signorina Herwig gli disse che non lo sapeva: la sua mente le mostrava il risultato e poi, con uno sforzo enorme, doveva andare a ritroso e formulare i calcoli. Schrödinger le confessò che aveva un problema simile, ma che aveva abbandonato quell’approccio intuitivo alla matematica quando aveva iniziato l’università, per compiacere i suoi professori. Solo di recente aveva ripreso a dare libero sfogo alla sua intuizione, ed era arrivato così lontano che non riusciva a trovare la via per tornare indietro. La signorina Herwig gli domandò a che punto fosse con la sua equazione. Schrödinger si alzò in piedi e cominciò a camminare su e giù per la stanza, parlandole dell’aspetto più strano della sua formula.

A prima vista, le disse, era semplice: applicata a un sistema fisico, consentiva di descrivere l’evoluzione del suo sviluppo futuro. Se la si utilizzava per una particella come l’elettrone, mostrava tutti i suoi stati possibili. Il problema stava nel suo elemento centrale – l’anima dell’equazione –, che Schrödinger aveva rappresentato con la lettera greca ψ, «psi», e che aveva battezzato «funzione d’onda». Qualsiasi informazione si volesse avere su un sistema quantistico era codificata nella funzione d’onda. Ma Schrödinger non sapeva cosa fosse. Aveva la forma di un’onda, ma non poteva essere un fenomeno fisico reale perché si muoveva al di fuori di questo mondo, in uno spazio multidimensionale. Forse era solo una creatura matematica. L’unica certezza era il suo potere, praticamente illimitato. Teoricamente, Schrödinger poteva applicare la sua equazione all’universo intero: il risultato sarebbe stato una funzione d’onda che racchiudeva l’evoluzione futura di tutte le cose. Ma come avrebbe convinto gli altri dell’esistenza di una cosa del genere? La funzione ψ non era rilevabile: non lasciava tracce su nessuno strumento, e nemmeno il dispositivo più ingegnoso o l’esperimento più innovativo avrebbe potuto captarla. Era qualcosa di nuovo, la cui natura era completamente diversa da quella del mondo che descriveva con sconcertante precisione. Schrödinger sapeva che era la scoperta cui aspirava da tutta la vita, ma non aveva idea di come spiegarla. Per ricavare la sua equazione non era partito da nessuna formula. Non si era basato su nulla di conosciuto. L’equazione stessa era un principio, e la sua mente l’aveva tratta dal nulla. Quando si girò per accertarsi che la signorina Herwig avesse seguito il suo lungo sermone, si accorse che dormiva profondamente.

A Schrödinger parve bella come sempre. Spostò i cuscini che la cingevano per toglierle una ciocca di capelli dal viso e non riuscì a resistere all’impulso di toccarla. Le accarezzò il collo, le spalle, le clavicole, seguì la spallina della sua camicia da notte fino alla minuscola curva del seno e disegnò un cerchio nel punto in cui s’immaginava i capezzoli. Arrivò fino all’ombelico e si fermò tremante a pochi millimetri dal pube. Non ebbe il coraggio di proseguire. Chiuse gli occhi e trattenne il respiro, ascoltando il fiato corto della signorina Herwig, e, quando li riaprì, la vide lanciare in aria il lenzuolo che la copriva e trasformarsi nella dea dei suoi incubi, un cadavere dalla pelle nera ricoperto di piaghe e ferite purulente, con la lingua che usciva dal teschio sorridente mentre con le mani dilatava le strette labbra della sua vagina, dove un enorme scarabeo, intrappolato in un groviglio di peli bianchi, agitava le zampe. L’illusione durò solo un istante, poi il lenzuolo si posò di nuovo sulla signorina Herwig, che dormiva come nulla fosse, ma Schrödinger fuggì via impaurito. Raccolse le sue carte e lasciò l’istituto senza pagare il conto, trascinando le valigie nel vento della tormenta per cercare di raggiungere la stazione ferroviaria, senza sapere se le strade fossero ancora bloccate per la neve.

IV

IL REGNO DELL’INCERTEZZA

A Zurigo Schrödinger non solo si rimise in salute, ma improvvisamente sembrava posseduto dal genio.

Ampliò la sua equazione fino a trasformarla in una meccanica completa, sviluppata in cinque articoli scritti in soli sei mesi, uno più brillante dell’altro. Max Planck, che per primo aveva ipotizzato l’esistenza dei quanti di energia, gli scrisse per dirgli che li aveva letti «con il gusto di un bambino che ascolta la soluzione a un indovinello che lo ha tormentato per anni». Paul Dirac si sbilanciò ancor di più: l’eccentrico genio inglese, le cui abilità matematiche erano leggendarie, disse che l’equazione dell’austriaco conteneva praticamente tutta la fisica conosciuta fino allora e – almeno in teoria – tutta la chimica. Schrödinger aveva raggiunto la gloria.

Nessuno osò negare l’importanza della nuova meccanica ondulatoria, benché qualcuno cominciasse a porsi le stesse domande di Schrödinger a Villa Herwig. «È una teoria davvero splendida. Una delle più perfette, precise e belle che l’uomo abbia mai scoperto. Ma al suo interno c’è qualcosa di molto strano. È come se ci stesse avvertendo: “Non prendetemi troppo sul serio. Io mostro un mondo che non è quello che voi avete in mente quando mi usate”» scrisse Robert Oppenheimer, uno dei primi a mettere in discussione ciò che la funzione d’onda sembrava dire della realtà. Schrödinger si dedicò a girare l’Europa per presentare le sue idee, riscuotendo applausi dappertutto, finché non s’imbatté in Werner Heisenberg.

Nella sala congressi di Monaco, l’austriaco non aveva nemmeno concluso la sua presentazione quando il giovane rivale saltò sul palco e iniziò a cancellare i calcoli alla lavagna, sostituendoli con le sue orribili matrici. Ciò che proponeva Schrödinger era per Heisenberg un’imperdonabile passo indietro. Non si potevano usare i metodi della fisica classica per spiegare il mondo quantistico. Non erano mica biglie, gli atomi! Gli elettroni non erano gocce d’acqua! L’equazione di Schrödinger poteva essere bella e utile, ma aveva un difetto di fondo, poiché non riconosceva la radicale alterità di quella scala della materia. A far infuriare Heisenberg non era la funzione d’onda (per quanto, in effetti, chi diavolo sapeva cosa fosse quella roba?), ma una questione di principio: anche se tutti erano ammaliati dallo strumento che l’austriaco aveva messo loro in mano, lui sapeva che quella era una strada senza sbocco, un vicolo cieco che li avrebbe solo allontanati dalla vera comprensione. Perché nessuno aveva il coraggio di fare quello che era riuscito a fare lui durante il calvario di Helgoland: non solo calcolare, ma pensare in maniera quantistica. Heisenberg gridò sempre più forte per cercare di sovrastare i fischi del pubblico, ma invano. Schrödinger, invece, rimase perfettamente tranquillo: per la prima volta in vita sua, aveva un dominio assoluto delle proprie facoltà. Era talmente convinto del valore indiscusso del suo lavoro che la scenata del giovane tedesco non gli fece nemmeno il solletico. Prima che gli uomini della sicurezza, incitati dai presenti, cacciassero Heisenberg a spintoni, Schrödinger gli disse che indubbiamente al mondo esistevano cose che non potevano essere pensate attraverso metafore del senso comune, ma la struttura interna dell’atomo non era fra quelle.

 

Heisenberg tornò a casa sconfitto, ma non si diede per vinto. Per due anni attaccò le idee di Schrödinger in qualsiasi conferenza e pubblicazione. Il suo avversario, però, sembrava baciato dalla grazia, e il colpo finale venne con l’articolo in cui Schrödinger dimostrava che il suo approccio e quello di Heisenberg, in termini matematici, erano equivalenti. Applicati a un problema, davano esattamente gli stessi risultati. Si trattava solo di due modi diversi di porsi di fronte a un oggetto; il suo, tuttavia, aveva l’enorme vantaggio di permettere una comprensione più intuitiva. Per vedere le particelle subatomiche non c’era bisogno di cavarsi gli occhi, come amava dire Heisenberg: bastava chiuderli e immaginare. «Quando discutiamo delle teorie subatomiche,» chiosò Schrödinger alla fine dell’articolo, come per farsi beffe di Heisenberg «possiamo tranquillamente parlare al singolare».

La meccanica delle matrici di Heisenberg era condannata all’oblio. L’epifania di Helgoland non sarebbe apparsa nemmeno come postilla sugli annali di scienza. Aveva l’impressione che ogni giorno uscisse un nuovo studio i cui risultati erano stati ottenuti grazie alle sue matrici, ma tradotti nell’elegante lingua delle onde di Schrödinger. Quando Heisenberg stesso non riuscì a ricavare dalle sue matrici lo spettro di un atomo di idrogeno e fu costretto a ricorrere alla teoria del rivale, il suo odio raggiunse il parossismo: mentre calcolava, digrignava i denti come se glieli stessero strappando a uno a uno.

Benché fosse ancora molto giovane, i suoi genitori premevano perché smettesse di sprecare il suo talento e accettasse una cattedra in Germania. Heisenberg si era trasferito in Danimarca, dove lavorava come assistente di Niels Bohr e viveva in una piccola mansarda all’ultimo piano dell’Istituto Bohr di fisica teorica dell’Università di Copenaghen, il cui tetto spiovente lo obbligava a muoversi a capo chino – un promemoria quotidiano di quello che suo padre chiamava la sua «condizione di subalterno» rispetto al fisico danese.

Bohr e Heisenberg avevano parecchie cose in comune: come il suo pupillo, il danese era famoso per l’oscurità quasi intenzionale dei suoi argomenti e, nonostante fosse rispettato da tutti, in molti sostenevano che le sue idee rientrassero più spesso nell’ambito della filosofia che in quello della fisica. Bohr fu tra i primi ad accogliere gli assunti di Heisenberg, ma allo stesso tempo era una costante fonte di frustrazione per il suo assistente, giacché proponeva di prendere in considerazione sia le onde di Schrödinger sia le matrici di Heisenberg unite sotto un nuovo principio che chiamava «di complementarità».

Invece di cercare di risolvere le contraddizioni fra le due meccaniche, Bohr le abbracciava. Gli attributi delle particelle elementari, secondo lui, nascevano da una relazione e valevano solo in un determinato contesto. Non si potevano ridurre a uno sguardo unico. Se misurate con un tipo di esperimento, mostravano le proprietà di un’onda; con un altro, apparivano come particelle. Le due prospettive erano mutualmente esclusive e antitetiche, ma complementari: né l’una né l’altra era un riflesso perfetto del mondo, ma solo un modello. Sommate, ci davano un’idea più completa della natura. Heisenberg detestava la complementarità. Era convinto che bisognasse sviluppare un sistema unico di concetti, non due in contraddizione. E per farlo era pronto a tutto: se il prezzo per capire la meccanica quantistica era smontare il concetto stesso di realtà, era disposto a pagarlo.

Quando non lavorava chiuso nella sua stanza, camminando da una parte all’altra, a testa bassa e con le spalle incurvate, discuteva con Bohr fino all’alba. La polemica tra i due andò avanti per mesi e si fece sempre più violenta. Il giorno in cui Heisenberg rimase senza voce per aver gridato troppo, Bohr decise di anticipare le vacanze invernali per riposarsi dal suo rabbioso pupillo, la cui ostinazione poteva competere soltanto con la propria, e il cui carattere ormai detestava. Senza il contraddittorio di Bohr, Heisenberg rimase solo con i suoi demoni e ben presto divenne il peggior nemico di se stesso. S’impantanava in lunghi soliloqui durante i quali si scindeva in due, argomentando la sua posizione e poi quella di Bohr, con un tale trasporto che imparò a imitare alla perfezione l’insopportabile pedanteria del maestro, come se soffrisse di un disturbo di personalità multipla. Tradendo la sua intuizione, mise da parte le sue colonne di numeri e le matrici e cercò di immaginare un elettrone come un groviglio di onde. Cosa descriveva realmente l’equazione di Schrödinger, se la si applicava a un elettrone che gira intorno al nucleo? Non un’onda reale, su questo non c’era dubbio: possedeva troppe dimensioni. Forse mostrava tutti gli stati in cui poteva essere un elettrone – i suoi livelli di energia, le velocità, le coordinate –, ma tutti insieme, come tante fotografie sovrapposte. Alcune erano più a fuoco di altre: erano gli stati dell’elettrone più probabili. Che fosse un’onda di probabilità? Una distribuzione statistica? I francesi avevano tradotto la funzione d’onda come densité de présence. Ecco tutto quello che la meccanica di Schrödinger consentiva di vedere: immagini sfuocate, una presenza fantasmatica, diffusa e indefinita, tracce di qualcosa che non apparteneva a questo mondo. Ma cosa succedeva se si prendevano in considerazione contemporaneamente quella prospettiva e la sua? La risposta gli sembrò così assurda da essere interessante: un elettrone che era simultaneamente una particella collocata in un punto e un’onda estesa nel tempo e nello spazio. Stordito da tutti quei paradossi e inferocito dalla propria incapacità di demolire le idee di Schrödinger, uscì a camminare nel parco che circondava l’università.

Non si accorse che era mezzanotte finché il freddo non lo costrinse a rifugiarsi nell’unico posto ancora aperto a quell’ora, un bar che attirava i più loschi bohémien di Copenaghen, dove artisti, poeti, criminali e prostitute si procuravano hashish e cocaina. Heisenberg era di una sobrietà che rasentava il puritanesimo e, nonostante passasse lì davanti tutti i giorni e molti dei suoi colleghi fossero clienti abituali, non ci era mai entrato. Il tanfo che sentì quando aprì la porta lo colpì come uno schiaffo. Non fosse stato per il freddo, sarebbe tornato immediatamente in camera. Si piazzò in fondo al locale e si sedette all’unico tavolo libero. Immaginando fosse un cameriere, alzò la mano per chiamare un uomo vestito di nero, il quale però, invece di prendere l’ordinazione, si sedette dall’altra parte del tavolo e lo fissò con uno sguardo di fuoco. «Cosa posso offrirle questa sera, professore?» gli chiese mentre tirava fuori una boccetta dall’interno della giacca. L’uomo si guardò indietro e si posizionò in modo tale che il proprietario del locale non potesse accorgersi dei timidi tentativi di Heisenberg di attirare la sua attenzione. «Non si preoccupi di lui, professore, qui sono tutti i benvenuti, anche la gente come lei» gli disse facendogli l’occhiolino e appoggiando la boccetta sul tavolo. Heisenberg provò subito ribrezzo per quello sconosciuto. Perché gli si rivolgeva in modo così formale, se era almeno dieci anni più vecchio di lui? Continuò a cercare di chiamare il barman, ma le spalle dell’estraneo, sbracatosi sul tavolo come un gigantesco orso ubriaco, gli coprivano quasi tutta la visuale. «Non mi crederà, professore, ma fino a poco fa al suo posto era seduto un bambino di sette anni che piangeva a dirotto. Il bambino più triste del mondo, glielo assicuro, mi pare ancora di sentirlo piagnucolare. E come ci si può concentrare a scrivere, così? Ha mai provato l’hashish? No, certo che no. Nessuno ha tempo per l’eternità, oggi. Solo i bambini, i bambini e gli ubriaconi, ma non le persone serie come lei, professore, quelle che sono sul punto di cambiare il mondo. O forse mi sbaglio?». Heisenberg non rispose. Non voleva prendere parte a quel gioco e stava per alzarsi in piedi, quando vide un luccichio metallico nella mano dell’uomo. «Non c’è nessuna fretta, professore, la notte è giovane. Si rilassi, mi permetta di offrirle un bicchierino. Anche se credo che lei avrebbe bisogno di qualcosa di più forte, vero?». Versò il contenuto della boccetta in quello che rimaneva della sua birra e allungò il bicchiere verso Heisenberg. «Sembra stanco, professore. Deve prendersi più cura di sé. Sa che il primo segnale di un serio disturbo psicologico è l’incapacità di affrontare il futuro? Provi a rifletterci, e si renderà conto quanto è inverosimile che si possa esercitare il controllo anche solo su un’ora delle nostre vite. Quanto è difficile controllare i nostri pensieri! Lei, per esempio, si vede che è posseduto. Dominato dal suo intelletto come un depravato dalla fica. È sotto incantesimo, professore, è stato risucchiato dalla sua stessa mente. Forza, beva. Non se lo faccia ripetere due volte». Il fisico si ritrasse, ma l’estraneo lo afferrò per la spalla e sollevò il bicchiere all’altezza delle labbra di Heisenberg, che si guardò attorno in cerca di aiuto e si accorse che tutto il bar lo stava guardando senza un briciolo di stupore, come se stessero assistendo a un rito che tutti avevano dovuto superare. Aprì la bocca e bevve quel liquido verde in un sorso. L’uomo sorrise, si appoggiò allo schienale della sedia e intrecciò le mani dietro la nuca: «Adesso sì che possiamo parlare come due persone civili, professore. Mi creda, so come vanno queste cose. Bisogna permettere allo spazio e al tempo di intrecciarsi come un’unica fibra, bisogna mantenersi sempre in movimento. Chi riuscirebbe a restare tutta la vita nello stesso posto? Un sasso potrebbe farcela, ma non un uomo come lei, professore. Non ha ascoltato la radio, di recente? Io conduco un programma che potrebbe interessarla. È pensato per i bambini, ma per i bambini curiosi e coraggiosi come lei. Racconto loro tutte le grandi catastrofi della nostra epoca. Tutte le tragedie, i massacri, gli orrori. Sapeva che il mese scorso sono morte cinquecento persone per l’alluvione del Mississippi? L’acqua era tanto impetuosa che ha rotto gli argini e la gente è affogata mentre dormiva. C’è chi pensa che i bambini non debbano saperle, certe cose, ma a me non è questo che preoccupa. La cosa terrificante non sono i corpi putrefatti che galleggiano nell’acqua mentre la carne gonfia si stacca dalle ossa. No. La cosa davvero atroce è che io sono venuto a sapere di tutto ciò quasi istantaneamente. Dall’altra parte del pianeta sono venuto a sapere che il mio adorato zio Willy e la mia cara zia Clara, una coppia di vecchi schifosi, si erano salvati dall’acqua salendo sul tetto di un negozio di caramelle. Caramelle! Se questa non è magia nera, mi dica lei che cos’è! Al di là di quanta gente è morta e quanta si è salvata, oggi siamo tutti vittime, professore. Lei è troppo intelligente per non rendersene conto. Ricordo ancora la prima volta che ricevetti una telefonata. Ero in casa di mio nonno, e mia madre mi chiamò dall’hotel dove andava in vacanza per prendersi una po’ di riposo da me. Appena sentii squillare, afferrai la cornetta, appiccicai la mia testolina al ricevitore e rimasi in balìa della voce che risuonava là dentro, senza che nulla potesse attenuare quella violenza. Soffrii impotente mentre assistevo alla distruzione della mia consapevolezza del tempo, della mia incrollabile determinazione, del mio senso del dovere e della proporzione! E a chi dobbiamo questo meraviglioso inferno, se non a voi? Mi dica quando ha avuto inizio tutta questa follia, professore. Quand’è che abbiamo smesso di capire il mondo?». L’uomo si prese la testa fra le mani, si stirò la pelle ai lati fino a rendersi deforme e si lasciò cadere sul tavolo, come se all’improvviso non potesse sostenere l’enorme peso del suo corpo. Heisenberg approfittò di quel momento per fuggire.

Corse senza vedere dove stesse andando, perso nella nebbia, tastando l’aria come un cieco con le braccia protese in avanti e, quando fu colto da crampi alle gambe, crollò sulle radici di una quercia gigantesca sentendosi il cuore esplodere. Si era addentrato troppo nel parco e non distingueva più la luce dei lampioni. Che cosa gli aveva dato quel bastardo? Tremava dal freddo, aveva la lingua secca, la vista annebbiata, l’adrenalina gli scorreva in tutto il corpo e aveva una gran voglia di piangere. La sola cosa che voleva era tornare nella sua mansarda, ma la nausea gli impediva di alzarsi. Ci provò, e il paesaggio cominciò a vorticargli intorno così velocemente che dovette abbracciarsi al tronco dell’albero e chiudere gli occhi.

Quando li riaprì, piccole lingue di fuoco fluttuavano nell’aria, scintillando come un corteo di lucciole. Non aveva più freddo, le gambe non gli tremavano più. Era lucido e disorientato allo stesso tempo, come se si fosse svegliato dentro un sogno. Il bosco era irriconoscibile: le radici pulsavano come vene, i rami oscillavano senza che il vento soffiasse e la terra pareva respirare sotto i suoi piedi, ma lui non provava alcun tipo di ansia. Si sentiva invaso da una straordinaria sensazione di pace e – date le circostanze – gli sembrò talmente assurdo da temere che quella calma, all’improvviso, si trasformasse in panico. Onde evitarlo, concentrò la sua attenzione sul gioco delle luci: coprivano tutto lo spazio, cadendo dalla chioma degli alberi o spuntando in mezzo alle foglie che ammantavano il suolo. La maggior parte di esse scompariva subito, ma alcune duravano abbastanza a lungo da formare una piccola scia. Con le pupille dilatate, Heisenberg notò che quelle scie non erano linee continue, ma singoli punti. Era come se le lucine saltassero da un luogo all’altro istantaneamente, senza passare per lo spazio intermedio. Ipnotizzato da quelle allucinazioni, sentì la sua mente fondersi con ciò che stava osservando: ogni punto luminoso sorgeva senza causa, e la scia esisteva solo nella sua mente che collegava i punti. Heisenberg si concentrò su uno di questi, ma quanto più si sforzava di fissarlo, tanto più si faceva nebuloso. Si trascinò per terra a quattro zampe, tentando di afferrare una lucina tra le mani, ridendo come un bambino che insegue una farfalla, e quando stava per riuscirci si accorse che era stato accerchiato da una legione di ombre.

Un numero incalcolabile di uomini e donne dagli occhi a mandorla, i corpi scolpiti di fuliggine e cenere, tendevano le braccia per toccarlo. Si ammassavano intorno a lui senza poter avanzare, ronzando come uno sciame di api sui fili di una rete invisibile. Heisenberg fece per prendere la manina di un neonato che aveva rotto il cerchio e gattonava verso di lui, ma un’esplosione polverizzò le figure e lo lasciò in ginocchio, intento a scavare tra le foglie in cerca di qualche traccia, di qualche resto di quei fantasmi. Trovò solo una lucina minuscola, l’unica sopravvissuta. La raccolse con estrema cura, la strinse al petto e s’incamminò verso casa, lottando contro la tempesta di vento che gli scompigliava i capelli e gli frustava le falde della giacca, deciso a non lasciarla spegnere per nulla al mondo. Trovò l’uscita del parco e si diresse verso l’edificio dell’università. Quando scorse la finestra della sua stanza, ebbe la sensazione che qualcosa di enorme lo stesse pedinando. Guardò dietro di sé con la coda dell’occhio e vide una figura nera che oscurava tutto. Si mise a correre terrorizzato, ma inciampò, e allora si rese conto che a seguirlo era la sua stessa ombra, proiettata alle sue spalle dalla luce che aveva fra le mani. Si girò per affrontare lo spettro di se stesso, allungò le braccia e aprì i palmi. La luce e l’ombra si spensero all’unisono.

 

Quando Bohr tornò dalle vacanze, Heisenberg gli disse che c’era un limite assoluto a ciò che si poteva sapere di questo mondo.

Appena il suo capo varcò la porta dell’università, Heisenberg lo prese sottobraccio e lo portò a fare un giro per il parco, senza nemmeno dargli il tempo di posare i bagagli o scrollarsi la neve dal cappotto. Aveva messo insieme le sue idee con quelle di Schrödinger – gli disse, mentre si addentrava fra gli alberi trascinando la valigia di Bohr e ignorando le sue proteste – e aveva capito che gli oggetti quantistici non avevano un’identità definita, bensì abitavano uno spazio di possibilità. Un elettrone, spiegò Heisenberg, non esisteva in un luogo solo, ma in molti; non aveva una sola velocità, ma varie. La funzione d’onda mostrava tutte queste possibilità sovrapposte. Heisenberg aveva messo da parte la maledetta diatriba tra onde e particelle e, per trovare una via d’uscita, si era concentrato ancora una volta sui numeri. Analizzando la matematica di Schrödinger e la sua, aveva scoperto che alcune proprietà di un oggetto quantistico – come la posizione e la quantità di moto – erano accoppiate e obbedivano a una stranissima relazione. Quanto più precisa era l’identità di una di esse, tanto più incerta era l’altra. Se per esempio un elettrone si trovava in una posizione sola con assoluta certezza, fisso nella sua orbita come un insetto trafitto da uno spillo, la sua velocità risultava del tutto indefinita: poteva rimanere immobile o spostarsi alla velocità della luce, senza che ci fosse modo di saperlo. E all’opposto era la stessa cosa! Se l’elettrone presentava una quantità di moto esatta, la sua posizione risultava talmente indeterminata da poter essere nel palmo della tua mano così come dall’altra parte dell’universo. Queste due variabili erano matematicamente complementari: se si fissava l’una, si dissolveva l’altra.

Heisenberg si fermò per riprendere fiato. Aveva parlato ininterrottamente ed era sudato fradicio per lo sforzo di trascinare la valigia sulla neve. Era talmente perso nei suoi pensieri che non si era accorto che Bohr era rimasto indietro di qualche metro, con lo sguardo a terra, estremamente concentrato. Heisenberg poteva quasi sentire il macinio dei meccanismi cerebrali del suo maestro, capaci di triturare le idee fino a estrarne il midollo. Quando si avvicinò, Bohr gli chiese se le relazioni binarie riguardavano solo quelle due variabili, e Heisenberg, ancora ansimante, gli disse di no: regolavano molti aspetti del mondo quantistico, come il tempo in cui l’elettrone rimaneva in uno stato e l’energia che in quello stato possedeva. Bohr volle sapere se quelle relazioni si presentavano a qualsiasi scala della materia o solo a livello subatomico; Heisenberg gli assicurò che funzionavano per gli elettroni esattamente come per loro stessi, benché l’effetto negli oggetti macroscopici fosse impercettibile, e in una particella gigantesco.

Heisenberg tirò fuori le pagine su cui aveva sviluppato le formule matematiche della sua nuova idea, e Bohr si sedette sulla neve a leggerle. Esaminò i calcoli in silenzio, per un tempo che a Heisenberg sembrò eterno, e quand’ebbe finito gli chiese di aiutarlo ad alzarsi in piedi. Ripresero a camminare per vincere il freddo. Bohr volle sapere se si trattava di un limite empirico che le generazioni future avrebbero potuto superare con l’aiuto di tecnologie avanzate. Heisenberg disse di no: era costitutivo della materia, un principio che sanciva il modo in cui erano fatte le cose ed escludeva che i fenomeni potessero avere più attributi perfettamente definiti simultaneamente. La sua prima intuizione era stata giusta: era impossibile «vedere» un’entità quantistica per la semplice ragione che non aveva un’identità sola. Fare luce su una delle sue proprietà significava oscurarne un’altra. La migliore descrizione di un sistema quantistico non era un’immagine o una metafora, ma una serie di numeri.

Uscirono dal parco e si addentrarono nelle strade della città dibattendo le conseguenze della scoperta di Heisenberg, che Bohr considerava già la pietra angolare su cui fondare una fisica completamente nuova. In termini filosofici, gli disse prendendolo sottobraccio, era la fine del determinismo. L’indeterminazione di Heisenberg mandava in frantumi la speranza di coloro che avevano creduto nell’universo a orologeria promesso dalla fisica di Newton. Secondo i deterministi, per poter conoscere il passato più remoto e predire il futuro più lontano era sufficiente scoprire le leggi che governavano la materia. Se tutto ciò che accadeva era la conseguenza diretta di uno stato precedente, bastava guardare al presente e mettere in marcia le equazioni per giungere a una conoscenza simile a quella divina. Una visione che diventava una chimera alla luce della scoperta di Heisenberg: a essere al di là della nostra comprensione non era il futuro. E nemmeno il passato. Era il presente. Neppure lo stato di una misera particella poteva essere afferrato in pieno. Si sarebbero potuti scandagliare in lungo e in largo i fondamenti, ma qualcosa di confuso, indeterminato e incerto sarebbe rimasto sempre, come se la realtà ci lasciasse vedere il mondo chiaramente solo con un occhio per volta, e mai con tutti e due.

Ebbro d’entusiasmo, Heisenberg notò che il tragitto che avevano compiuto all’interno del parco era quasi esattamente l’inverso di quello da lui percorso la notte della sua epifania. Lo raccontò a Bohr, e il danese lo collegò subito all’argomento di cui stavano parlando: se non era possibile conoscere simultaneamente cose semplici come il luogo in cui si trovava e il modo in cui si muoveva un elettrone, non si poteva prevedere nemmeno l’esatto tragitto che avrebbe seguito da un punto all’altro, ma solo dei percorsi possibili. In questo stava la genialità dell’equazione di Schrödinger: in qualche modo, riusciva a cucire insieme gli infiniti destini di una particella, tutti i suoi stati, tutte le sue traiettorie, in un’unica trama – la funzione d’onda – che li mostrava sovrapposti. Una particella aveva molti modi di attraversare lo spazio, ma ne sceglieva uno solo. Come? Per puro caso. Secondo Heisenberg, di nessun fenomeno subatomico si poteva più parlare con assoluta certezza. Dove prima c’era una causa per ogni effetto, adesso esisteva un ventaglio di probabilità. Nel sostrato più profondo delle cose, la fisica non aveva trovato una realtà solida e inequivocabile come quella a cui ambivano Schrödinger e Einstein, regolata da un dio razionale che muoveva i fili del mondo, ma un regno di stupore e stranezza, figlio del capriccio di una dea dalle tante braccia che giocava con il caso.

Quando passarono davanti alla porta del bar da cui Heisenberg era scappato, Bohr disse che quel momento andava celebrato con una birra. Il proprietario aveva appena aperto e il locale era vuoto, ma a Heisenberg l’idea fece rivoltare lo stomaco. Gli propose invece di andare a prendere un caffè e magari un pasto caldo. Il danese gli disse che non si festeggia con il caffè, e lo spinse dentro.

Si sedettero allo stesso tavolo che Heisenberg aveva occupato quella notte. Bohr ordinò due birre, che bevvero lentamente, e poi altre due, che bevvero d’un fiato. Alla terza, Heisenberg gli confessò cos’era successo lì dentro: gli parlò dello sconosciuto che lo aveva drogato, dello spavento, della boccetta sul tavolo, delle mani da orso di quell’estraneo e del luccichio della lama del suo coltello; gli descrisse l’amaro dell’intruglio verde, le storie che l’uomo gli aveva raccontato, il suo attacco di emotività incontenibile e la sua fuga vigliacca; gli parlò del freddo che faceva fuori, di quanto fossero belle le sue allucinazioni, delle radici pulsanti degli alberi, della danza delle lucciole, della lucina che aveva protetto fra i palmi delle mani e dell’ombra gigantesca che l’aveva seguito fino all’università. Gli parlò di tutto quanto e della sua vita nelle settimane precedenti, di quello che sentiva sarebbe successo, della tempesta di idee che si era scatenata nella sua mente e dell’entusiasmo incontenibile che quella notte si era impossessato di lui. Tuttavia, per una strana ragione che non seppe spiegarsi, e che non avrebbe saputo spiegare nemmeno a Bohr, giacché l’avrebbe capito solamente decenni dopo, non riuscì a confessare la visione del neonato morto ai suoi piedi né quella delle mille figure che lo avevano circondato nel bosco come per avvertirlo di qualcosa, carbonizzate in un istante da un bagliore cieco.

V

DIO E I DADI

La mattina di lunedì 24 ottobre 1927, sotto il cielo grigio di Bruxelles, ventinove fisici attraversarono il prato coperto di brina del Parc Léopold e si rifugiarono in una sala dell’Istituto di fisiologia, senza sospettare che cinque giorni dopo avrebbero scosso le fondamenta della scienza.

L’istituto era stato creato dall’industriale Ernest Solvay con il fine dichiarato di dimostrare, per quanto possibile, «che il fenomeno della vita può e deve essere spiegato dalle leggi fisiche che governano l’universo, leggi che possiamo conoscere attraverso l’osservazione e lo studio oggettivo dei fatti di questo mondo». Vecchi maestri e giovani rivoluzionari erano arrivati da tutta Europa per partecipare al quinto Congresso Solvay. Mai, prima e dopo di allora, si vide una tale concentrazione di genii sotto lo stesso tetto: diciassette di essi avevano o avrebbero ricevuto il Premio Nobel, tra i quali Paul Dirac, Wolfgang Pauli, Max Planck e Marie Curie, che lo aveva vinto due volte ed era nel comitato del congresso insieme a Hendrik Lorentz e Albert Einstein.

Anche se il titolo del congresso era «Électrons et photons», tutti sapevano che il suo vero scopo era analizzare la meccanica quantistica, che stava mettendo in dubbio la solidità dell’edificio teorico su cui la fisica poggiava.

Il primo giorno intervennero tutti. Tutti tranne Einstein.

La mattina del secondo, Louis de Broglie espose la sua nuova teoria sulle «onde pilota», che spiegava il movimento dell’elettrone presumendo che viaggiasse sulla cresta di un’onda come un surfista. Fu attaccato senza pietà, sia da Schrödinger sia dai fisici di Copenaghen. Incapace di difendersi da solo, de Broglie lanciò un’occhiata verso Einstein, ma il tedesco rimase in silenzio e il timido principe non aprì più bocca per il resto dell’incontro.

Il terzo giorno si confrontarono le due versioni della meccanica quantistica.

Schrödinger difese le sue onde, molto sicuro di sé. Spiegò che descrivevano perfettamente il comportamento di un elettrone, benché, dovette ammettere, per rappresentarne due ci volevano almeno sei dimensioni. Schrödinger era convinto che la sua onda esistesse realmente e che non fosse una mera distribuzione di probabilità, ma non riuscì a persuadere gli altri. Alla fine della sua presentazione, Heisenberg, compiaciuto, gli diede il colpo di grazia: «Herr Schrödinger confida che, quando avremo una conoscenza più profonda, sarà in grado di spiegare e comprendere in tre dimensioni i risultati prodotti dalla sua teoria multidimensionale. Io non vedo nulla nei suoi calcoli che giustifichi tale speranza».

Durante il pomeriggio Heisenberg e Bohr presentarono la loro versione della meccanica quantistica, che diverrà nota come l’«interpretazione di Copenaghen».

La realtà, dissero ai presenti, non esiste come qualcosa che prescinde dall’atto dell’osservazione. Un oggetto quantistico non ha proprietà intrinseche. Un elettrone non si trova in nessun luogo fisso finché non lo si misura: appare soltanto in quell’istante. Prima della misurazione non possiede alcun attributo; prima dell’osservazione non lo si può nemmeno pensare. Esiste in modo determinato solo quando viene rilevato da un determinato strumento. Tra una misurazione e l’altra non ha alcun senso chiedersi come si muove, cos’è o dove si trova. Come la luna per il buddhismo, una particella non esiste: è l’atto della misurazione a trasformarla in un oggetto reale.

La rottura che si annunciava era brutale. La fisica non doveva più preoccuparsi della realtà, ma di ciò che si può dire della realtà. L’essenza degli atomi e delle loro particelle elementari era diversa da quella degli oggetti dell’esperienza quotidiana. Vivono in un mondo di potenzialità, spiegò Heisenberg: non sono cose, ma possibilità. La transizione dal «possibile» al «reale» avveniva solo durante l’atto dell’osservazione o della misurazione. Nessuna realtà quantistica, dunque, esisteva in maniera indipendente. Misurato come un’onda, un elettrone sarebbe apparso tale; misurato come una particella, avrebbe assunto quest’altra forma.

Poi si spinsero oltre.

Nessuno di questi limiti era teorico: non si trattava di una falla nel modello, di un limite empirico o di un problema tecnico. Semplicemente, là fuori non esisteva un «mondo reale» che la scienza potesse studiare. «Quando parliamo della scienza della nostra epoca,» spiegò loro Heisenberg «parliamo della nostra relazione con la natura non come osservatori obiettivi e separati, ma come attori del gioco tra l’uomo e il mondo. La scienza non può più confrontarsi con la realtà nello stesso modo. Il metodo basato sull’analizzare, spiegare e classificare il mondo ha preso coscienza dei propri limiti, limiti che nascono dal fatto che il nostro intervento altera gli oggetti che indaga. La luce che la scienza getta sul mondo non cambia soltanto la nostra visione della realtà, ma il comportamento delle sue unità fondamentali». Il metodo scientifico e il suo oggetto di studio non si potevano più separare.

I creatori dell’interpretazione di Copenaghen terminarono la loro esposizione con un verdetto categorico: «Consideriamo la meccanica quantistica una teoria chiusa, i cui presupposti fisici e matematici non sono più suscettibili di modifiche».

Era più di quanto Einstein fosse disposto a tollerare.

Il fisico iconoclasta per antonomasia si rifiutò di accettare un mutamento così radicale. Che la fisica smettesse di parlare di un mondo oggettivo non significava solo cambiare punto di vista, significava tradire l’anima stessa della scienza. Per Einstein, la fisica doveva parlare di cause e di risultati, e non solo di probabilità. Si rifiutava di credere che i fatti del mondo obbedissero a una logica contraria al senso comune. Non si poteva incoronare il caso e abbandonare la nozione di leggi naturali. Doveva esserci qualcosa di più profondo. Qualcosa che ancora non conoscevano. Una variabile occulta che avrebbe dissipato la nebbia di Copenaghen e mostrato l’ordine che soggiaceva al comportamento aleatorio del mondo subatomico. Ne era certo, e nei tre giorni seguenti propose situazioni ipotetiche che sembravano trasgredire il principio di indeterminazione di Heisenberg, che stava alla base del ragionamento dei fisici di Copenaghen.

Ogni mattina, a colazione (al di fuori delle discussioni ufficiali), Einstein poneva i suoi rompicapi, e ogni sera Bohr arrivava con la soluzione al problema. Il duello tra i due dominò il congresso e divise i fisici in due fazioni inconciliabili, ma l’ultimo giorno Einstein capitolò. Non era riuscito a trovare una sola incoerenza nei ragionamenti di Bohr. Accettò la sconfitta suo malgrado e condensò tutto il suo odio verso la meccanica quantistica in una frase che negli anni a venire avrebbe ripetuto spesso, e che, prima di andarsene, sputò in faccia al danese: «Dio non gioca a dadi con l’universo!».

EPILOGO

Einstein fece il viaggio di ritorno da Bruxelles a Parigi insieme a de Broglie. Quando scesero dal treno, lo abbracciò e gli disse di non scoraggiarsi e di portare avanti le sue idee: la sua era indubbiamente la strada giusta. Ma in quei cinque giorni de Broglie aveva smarrito qualcosa. Nonostante il Premio Nobel vinto nel 1929 per la sua tesi di dottorato sulle onde di materia, si arrese alla visione di Heisenberg e Bohr e passò il resto della sua carriera da semplice accademico, separato da tutti come da una sorta di velo, un pudore che costituiva una barriera tra lui e il mondo che nemmeno l’amata sorella riuscì più ad abbattere.

 

Einstein divenne il più acerrimo nemico della meccanica quantistica. Innumerevoli furono i suoi tentativi di trovare la strada per tornare a un mondo oggettivo, ricercando un ordine occulto che consentisse di coniugare la sua teoria della relatività con la meccanica quantistica, per spodestare il caso che si era insinuato nella più esatta di tutte le scienze. «Questa teoria della meccanica quantistica mi ricorda un po’ il sistema delirante di un paranoico dotato di una straordinaria intelligenza. È un vero cocktail di pensieri incoerenti» scrisse a un amico. Si fece in quattro per trovare una grande teoria unificata, ma morì senza riuscirci, stimato da tutti benché totalmente alieno dalle nuove generazioni, che sembravano aver accettato come principio la risposta che al Congresso Solvay, decenni prima, Bohr aveva dato alla sua amara protesta su Dio e i dadi: «Non spetta a noi dire a Dio come manovrare il mondo».

 

Anche Schrödinger finì per odiare la meccanica quantistica. Ideò un elaborato esperimento mentale, un Gedankenexperiment, che dava come risultato una creatura apparentemente impossibile: un gatto che era vivo e morto allo stesso tempo. Voleva dimostrare l’assurdità di questo modo di pensare. Il gruppo di Copenaghen disse a Schrödinger che aveva ragione: il risultato non era solo assurdo, era anche paradossale. Ma era giusto. Il gatto di Schrödinger, come qualsiasi particella elementare, era vivo e morto (almeno finché non lo si fosse misurato), e così il nome dell’austriaco rimase per sempre associato al fallito tentativo di smentire le idee che egli stesso aveva concorso a formulare. Schrödinger diede il suo contributo alla biologia, alla genetica, alla termodinamica e alla relatività generale, ma non riuscì più a produrre qualcosa di paragonabile a quanto aveva fatto nei sei mesi successivi al suo soggiorno a Villa Herwig, dove non mise mai più piede.

La fama lo accompagnò fino alla morte, provocata da un ultimo attacco di tubercolosi, che lo stroncò a Vienna, a settantatré anni, nel gennaio del 1961.

La sua equazione rimane una pietra angolare della fisica moderna, malgrado nessuno, in cent’anni, sia riuscito a decifrare il mistero della funzione d’onda.

 

Heisenberg fu nominato professore all’Università di Lipsia all’età di venticinque anni, il più giovane nella storia della Germania. Nel 1932 vinse il Premio Nobel per la creazione della meccanica quantistica, e nel 1939 il governo nazista gli diede ordine di indagare la fattibilità di costruire una bomba atomica; dopo due anni concluse che un’arma di quel tipo non fosse alla portata della Germania né di uno qualunque dei suoi nemici – non durante la guerra, almeno –, e non riuscì a credere alla notizia dell’esplosione nel cielo di Hiroshima.

Heisenberg continuò a sviluppare le sue idee provocatorie per il resto della sua vita, ed è considerato uno dei fisici più importanti del XX secolo.

Il suo principio di indeterminazione ha superato tutte le prove a cui è stato sottoposto .

EPILOGO

IL GIARDINIERE NOTTURNO


2

Lo conobbi in montagna, in un villaggio che è sempre deserto, fuorché nei mesi estivi. Stavo portando fuori il cane, di notte, e lo vidi che scavava nel suo giardino. La mia cagna si intrufolò sotto i cespugli che circondavano il suo terreno, gli corse incontro nel buio, un lampo bianco sotto la luce della luna. L’uomo si chinò, le accarezzò la testa, si mise in ginocchio per grattare la pancia che l’animale gli offriva. Gli chiesi scusa, e lui mi disse che non c’era alcun problema, adorava gli animali. Gli domandai se stesse facendo giardinaggio notturno. Sì, è il momento migliore per farlo. Le piante dormono, non sentono granché, e se devi spostarle soffrono meno, come un paziente sotto l’effetto dell’etere. Bisogna fare attenzione con le piante, mi disse. Da bambino c’era una quercia che lo terrorizzava. Sua nonna si era impiccata a uno dei suoi rami. Allora, disse, era un albero sano, forte e vigoroso, ma dopo sessant’anni il suo enorme tronco era infestato dai parassiti e stava marcendo: presto avrebbe dovuto tagliarlo perché si trovava sopra il tetto di casa sua, e se fosse caduto durante uno dei temporali invernali l’avrebbe distrutta. Ciò nonostante non riusciva a trovare il coraggio di prendere in mano la scure e abbattere quel gigante, uno dei pochi esemplari sopravvissuti di quella che un tempo era un’enorme foresta vergine, scura, splendida e sinistra, che i fondatori del villaggio avevano disboscato per costruire le loro case. Puntò il dito verso l’albero, ma nell’oscurità non riuscii a vedere nient’altro che la sua ombra colossale: È marcio e mezzo morto, eppure continua a crescere. Mi raccontò che i pipistrelli avevano fatto il nido al suo interno e che i colibrì si cibavano dei fiori scarlatti della pianta ermafrodita che cresceva sui rami più alti, il parassita Tristerix corymbosus, che sua nonna recideva ogni anno solo per vederlo spuntare di nuovo e rifiorire con più forza, traboccante della linfa che succhiava dal tronco e che poi trasformava nel nettare di cui legioni di uccelli e insetti si inebriavano. Non ho mai saputo il motivo per cui si ammazzò. Non mi dissero che si era suicidata, era un segreto di famiglia: io ero un bambino, non avevo più di cinque o sei anni. Solo decenni più tardi, quando nacque mia figlia, fu la mia vecchia bambinaia, la donna che si prendeva cura di me mentre mia madre era al lavoro, a dirmelo: Tua nonna si impiccò a quel ramo, nel cuore della notte. Fu tremendo, orribile, non volevano che la tirassimo giù finché non fosse arrivata la polizia, o almeno così ci dissero: Non tiratela giù, lasciatela lì, ma tuo padre non poteva lasciarla appesa a quel modo e si arrampicò sull’albero, su, fino in cima – nessuno si capacitava di come lei fosse riuscita ad arrivare tanto in alto –, per liberarle il collo dalla corda. Cadde dai rami e atterrò con un tonfo sordo, come se da morta pesasse il doppio, il triplo che in vita. Tuo padre iniziò a tagliare il tronco con l’ascia, ma tuo nonno lo fermò: gli disse che lei aveva sempre amato quell’albero. Lo aveva visto crescere, lo aveva curato e concimato, annaffiato e potato, si era fin troppo preoccupata di ogni minimo dettaglio, di ogni malattia e parassita, di ogni fungo o macchia che fossero comparsi sul suo tronco. Così lo lasciarono lì, mi disse, dove si trova ancora. Ma prima o poi dovremo liberarci di lui. Meglio prima che poi.

3

La mattina dopo andai a camminare nel bosco con mia figlia di sette anni, e trovammo due cani morti. Li avevano avvelenati. Non avevo mai visto niente di simile. Avevo già incontrato, sulle strade, i cadaveri di cuccioli smembrati dal traffico incessante, avevo visto un gatto avvolto nelle sue viscere dopo essere stato attaccato da un branco di cani, e avevo persino ucciso un agnello con le mie mani – gli avevo conficcato un coltello in gola fino al manico, di fronte ai gauchos che poi lo avevano crocifisso sulle braci di un asado –, ma tutte queste morti, per quanto ripugnanti, impallidivano di fronte agli effetti del veleno. Il primo cane era un pastore tedesco, riverso in mezzo al sentiero che attraversava il bosco. Aveva la bocca aperta, le gengive nere e gonfie, la lingua penzoloni cinque volte più grossa del normale. Mi avvicinai con cautela e dissi a mia figlia di non seguirmi, ma lei non seppe resistere, s’incollò alla mia schiena e affondò la faccia nelle pieghe della mia giacca, sporgendosi per guardare. Le zampe del cane erano rigide e puntavano verso il cielo, il suo stomaco era gonfio di gas e gli tirava la pelle dell’addome come fosse la pancia di una donna incinta. Tutto il cadavere pareva sul punto di scoppiare e rovesciare le sue viscere su di noi, ma quello che più mi spaventò fu l’espressione di inconcepibile dolore che gli aveva completamente deformato il muso. La sua agonia era stata talmente insopportabile che sembrava abbaiare anche da morto. Il secondo cane era a circa venti metri, su un lato del sentiero, in parte nascosto dalle erbacce. Era un meticcio, un incrocio tra un beagle e un segugio, con la testa nera e il corpo bianco, e benché fosse sicuramente morto a causa della stessa sostanza che aveva ucciso il pastore tedesco, non aveva subìto gli effetti deformanti del veleno. Non fosse stato per le mosche che gli coprivano le palpebre, avrei potuto pensare che stesse dormendo. Il primo cane non lo conoscevamo, ma il secondo era nostro amico: mia figlia giocava con lui da quando aveva quattro anni, ci accompagnava nelle nostre passeggiate o veniva a grattare alla nostra porta in cerca di cibo. Lei lo chiamava Manchas e, anche se non scoppiò a piangere appena lo riconobbe, quando lasciammo il sentiero nel bosco ed entrammo nella radura crollò tra le mie braccia. La strinsi più forte che potei. Mi disse che aveva paura – la stessa paura che avevo io – per il suo cane, l’animale più dolce, gentile e affettuoso che abbia mai conosciuto. Perché, mi chiese, perché li avevano avvelenati? Le dissi che non lo sapevo, ma che con ogni probabilità si era trattato di un incidente: veleno per topi, oppure veleno per chiocciole e lumache, perché la gente nei propri giardini usava una gran quantità di sostanze chimiche letali, e il villaggio era pieno di bei giardini. Forse avevano ingerito del veleno senza accorgersene, o forse avevano dato la caccia a un ratto moribondo, stordito dopo aver rosicchiato una di quelle zollette di cera imbevute di veleno che le persone infilavano dentro tubi di plastica intorno alle proprie case. Ciò che non le dissi era che succedeva tutti gli anni. Una o due volte all’anno morivano cani. A volte solo uno, altre volte molti di più, ma sta di fatto che l’inizio dell’estate e la fine dell’autunno portavano immancabilmente cani morti. La gente che vive qui tutto l’anno sa che il responsabile è uno di loro, uno degli abitanti del villaggio, ma nessuno sa chi. Lui o lei sparge il cianuro, e per due settimane, per strada e sui sentieri, spuntano cadaveri. Quasi sempre sono meticci e cuccioli, perché molta gente della zona viene qui in montagna per abbandonare i cani indesiderati, ma anche i nostri animali muoiono. Ci sono un paio di sospettati, individui che in passato hanno minacciato qualcuno. Una volta un mio vicino, un uomo che vive nella mia stessa via, disse a un mio amico che avrei dovuto tenere il mio cane al guinzaglio. Forse non sapevo che ogni estate c’era qualcuno che avvelenava i cani? Quest’uomo vive a tre case dalla mia, ma non ci siamo mai rivolti la parola; l’ho visto un paio di volte in tutto, che fumava in piedi davanti alla sua automobile. Lui mi saluta, io lo saluto, ma non ci diciamo niente.

4

La lentezza con cui cresce il mio giardino mi esaspera. Gli inverni in montagna sono rigidi, la primavera e l’estate sono corte e molto aride, e la terra del mio giardino è povera, perché poggia su detriti. Il proprietario precedente, l’uomo che costruì il capanno e da cui lo comprai, dovette livellare il terreno con materiali di scarto e rifiuti, per cui ogni tanto, quando scavo per piantare fiori o alberi, trovo tappi di bottiglia, pezzi di cemento, cavi e schegge di plastica triturata. Ci sono un sacco di fertilizzanti e concimi che potrei usare, ma i miei alberi mi piacciono come sono, anche se non diventano molto alti. Le loro radici non hanno dove espandersi: sotto il misero strato di terra con cui ho coperto la spazzatura ci sono calce e argilla compattata, per cui la maggior parte di loro resta rachitica, con una strana bellezza da bonsai, ma comunque atrofica. Il giardiniere notturno mi raccontò che lo scienziato che inventò i fertilizzanti azotati moderni – un chimico tedesco di nome Fritz Haber – fu anche il primo uomo a creare un’arma di distruzione di massa, il gas cloro, che riversò nelle trincee della prima guerra mondiale. Il suo veleno verdastro uccise migliaia di persone e si abbatté su un numero incalcolabile di soldati che, mentre il gas ribolliva nei loro polmoni, si graffiavano la gola e soffocavano nel proprio muco e nel proprio vomito; il fertilizzante che riuscì a ricavare dall’azoto presente nell’atmosfera, invece, salvò centinaia di milioni di persone dalla carestia e rese possibile l’esplosione demografica attuale. Oggi l’azoto abbonda, ma nei secoli passati si combatterono guerre sanguinose per controllare il traffico degli escrementi di pipistrelli e di volatili, e le tombe dei faraoni vennero saccheggiate da ladri che non erano in cerca di oro o gioielli, ma dell’azoto nascosto nelle ossa delle mummie e delle migliaia di schiavi sepolti con loro. Secondo il giardiniere notturno, i Mapuche trituravano gli scheletri dei loro nemici e spargevano quella polvere nei propri terreni come concime, e lo facevano sempre di notte, mentre gli alberi dormivano profondamente, perché credevano che alcuni di essi – la corteccia di Winter o l’araucaria –potessero vedere l’anima di un guerriero, rubare i suoi più intimi segreti e diffonderli attraverso le radici del bosco, dove i pallidi miceli dei funghi sussurravano ai rizomi delle piante, gettando discredito sul guerriero di fronte a tutta la comunità. Una volta che la sua vita segreta era persa, denudata ed esposta agli occhi del mondo, l’uomo iniziava ad appassire lentamente, seccandosi dentro e fuori, senza sapere perché.

5

La forma in cui è costruito questo villaggio è molto strana. Qualsiasi strada tu prenda ti porterà invariabilmente a un pezzetto di bosco nascosto nella sua estremità inferiore, una delle poche zone sopravvissute al gigantesco incendio che devastò gran parte della regione alla fine degli anni Novanta, minacciando l’esistenza stessa del villaggio. Il fuoco ruggì fino a consumare tutto. Si spense quando ormai non c’era più nulla da bruciare. Un bosco che si ergeva da più di duecento anni sparì in meno di una settimana. Lo ripiantarono, principalmente con alberi di pino, ma le specie native originali andarono perse, a eccezione di quest’oasi in miniatura, la cui natura selvaggia e intricata contrasta con le siepi potate e i giardini ornamentali che la circondano. Ha uno strano potere magnetico su di me, mi attrae verso il basso e mi spinge sulla vecchia strada che conduce alla laguna. Ho passato giorni interi a camminare tra i suoi alberi, sempre da solo, giacché la gente del posto sembra evitare questa zona, cosa di cui non mi capacito, e i forestieri, le famiglie benestanti che durante l’estate prendono case in affitto, ci vanno molto raramente o lo vedono solo da lontano, quando sono di passaggio. In mezzo al bosco c’è una piccola grotta di roccia calcarea. Il giardiniere notturno mi disse che, anni prima, nel villaggio esisteva un vivaio, e che il proprietario teneva i suoi semi nella bocca della grotta, in perpetua oscurità. Adesso è vuota, ci vanno solo alcuni adolescenti che lasciano le loro scatole di preservativi, o turisti che abbandonano spazzatura, che tocca a me raccogliere. Più avanti c’è la laguna, e lì, su quella piccola distesa d’acqua, si riuniscono le famiglie. È artificiale, più simile a uno stagno che a un lago, ma sufficientemente naturale, all’apparenza, per la dozzina di anatre che la scelgono per nidificare. Una poiana codarossa pattuglia il versante meridionale, una gru bianca regna sul lato opposto, più scuro e paludoso. Nei mesi estivi i ruscelli che la alimentano cantano e gorgogliano, ma poi si prosciugano, vengono invasi dalle erbacce e spariscono come non fossero mai esistiti. La laguna non gela da decenni; mi hanno raccontato che durante l’ultima gelata, all’epoca in cui Pinochet aveva appena preso il potere, un bambino cadde nel ghiaccio e affogò, ma nessuno è stato in grado di dirmi il suo nome. Probabilmente è solo una leggenda per far sì che i bambini, di notte, restino lontano dalla laguna – una storia che è sopravvissuta nonostante il clima sia cambiato e il ghiaccio non si formi più.

Il villaggio fu fondato da immigrati europei. Ha un’aria decisamente esotica, insolita rispetto al resto del paese, anche se in alcune cittadine del Sud si possono vedere bambine con gli occhi azzurri e i capelli d’oro correre in mezzo alla nostra gente così omogenea e meticcia, frutto dell’incrocio tra Mapuche e spagnoli. Questo posto venne costruito come un rifugio, nascosto in cima alla montagna. Una delle cose che da sempre mi sorprende del Cile è la nostra avversione per la Cordigliera. Non abitiamo sulle montagne. Le Ande sono una spada che attraversa la nostra spina dorsale, ma ignoriamo quelle vette ciclopiche e ci insediamo nelle valli o sulla costa, come se tutto il paese soffrisse di vertigini – un terrore dell’altura che ci impedisce di vivere l’aspetto più imponente del nostro paesaggio. A meno di un’ora da qui, proprio dove finisce la strada e inizia il sentiero sterrato che s’inerpica sulla montagna, c’è un’enorme caserma militare; la casa che comprai fu costruita da un tenente dell’esercito in pensione. Feci qualche ricerca su di lui, per pura curiosità, e trovai articoli di giornale in cui lo si accusava di essere implicato nella sparizione di numerosi prigionieri politici durante la dittatura. Io lo vidi solo un paio di volte, quando mi mostrò la casa e quando firmammo i documenti. All’epoca non lo sapevo, anche se il prezzo stracciato che chiedeva mi aveva insospettito, ma era un malato terminale. Morì poco più di un anno dopo. Il giardiniere notturno mi disse che era un uomo odioso, detestato da tutti nel villaggio. Andava in giro con la sua vecchia pistola di servizio alla cintura e si rifiutava di pagare chi gli faceva lavori in casa. Quando ci trasferimmo lì, trovai una bomba a mano senza percussore su uno dei tavoli del soggiorno. Per quanto mi sforzi, non riesco a ricordarmi cosa ne feci.

6

Il giardiniere notturno era stato un matematico e parlava della matematica come gli ex alcolisti parlano dell’alcol, con un misto di brama e terrore. Mi disse che ai suoi esordi aveva avuto una carriera brillante, ma che ci aveva rinunciato dopo aver conosciuto il lavoro di Alexander Grothendieck, un autentico genio che negli anni Sessanta aveva rivoluzionato la geometria come non avveniva dai tempi di Euclide, e che poi, inspiegabilmente, a quarant’anni e all’apice della fama internazionale aveva abiurato la matematica, lasciando dietro di sé un’eredità unica e sconcertante la cui onda d’urto continua a scuotere tutte le branche della disciplina, benché Grothendieck si sia rifiutato di parlarne, o anche solo di farne cenno, fino al giorno della sua morte, quarant’anni dopo. Nel mezzo del cammino della sua vita, esattamente come il giardiniere notturno, aveva lasciato la sua casa, la sua famiglia, la sua carriera e i suoi amici e aveva iniziato a vivere come un eremita, isolato sui Pirenei. Un po’ come se Einstein avesse lasciato la fisica dopo aver pubblicato la teoria della relatività, o come se Maradona avesse giurato di non toccare più un pallone dopo aver vinto la Coppa del Mondo. Naturalmente la decisione del giardiniere notturno di abbandonare la vita sociale non era stata dettata solo dalla sua ammirazione per Grothendieck. Aveva anche affrontato un divorzio che lo aveva gettato sul lastrico, aveva rotto i rapporti con la sua unica figlia e gli avevano diagnosticato un tumore della pelle, ma lui insisteva che tutto ciò, per quanto doloroso, era stato secondario rispetto all’improvvisa constatazione che era la matematica – non le bombe atomiche, i computer, la guerra biologica o l’apocalisse climatica – che stava cambiando il nostro mondo, al punto che, nel giro di vent’anni al massimo, non saremmo più stati capaci di capire che cosa significa essere umani. Non che in passato l’avessimo capito, mi disse, ma adesso le cose stanno peggiorando. Possiamo scindere gli atomi, ammirare la prima luce e predire la fine dell’universo con un pugno di equazioni, scarabocchi e simboli arcani che le persone normali, che pure controllano ogni minimo dettaglio della propria vita, non comprendono. Ma non si tratta solo della gente comune: nemmeno gli scienziati capiscono più il mondo. Prenda la meccanica quantistica, per esempio, la gemma sulla corona della nostra specie, la teoria fisica più precisa, più bella e di più vasta portata che sia mai stata concepita. Sta alla base di Internet, dei telefoni cellulari che dominano la nostra vita, e offre la promessa di un potere digitale paragonabile solo all’intelligenza divina. Ha trasformato il nostro mondo fino a renderlo irriconoscibile. Sappiamo come usarla, funziona per una sorta di miracolo, e tuttavia su questo pianeta non c’è una sola anima, viva o morta, che la capisca veramente. La mente non è in grado di districare i suoi paradossi e le sue contraddizioni. Sembra che questa teoria sia caduta sulla Terra come un monolito proveniente dallo spazio, e noi le giriamo attorno a quattro zampe tipo scimmie, giocandoci, lanciandole contro sassi e bastoni, ma senza un’autentica cognizione.

Per questo si è dato al giardinaggio, e non si prende cura solo del proprio giardino, ma lavora anche in altre proprietà del villaggio. Che io sappia non ha amici, e i suoi vicini lo considerano un tipo strano. A me, invece, piace pensare che siamo amici: a volte lascia un secchio di compost fuori da casa mia, come regalo per le mie piante. L’albero più vecchio del mio terreno è un limone, la cui chioma è un fitto nugolo di rami. Poco tempo fa il giardiniere notturno mi chiese se sapessi come morivano le piante di agrumi: quando raggiungono la vecchiaia, se riescono a sopravvivere a siccità, malattie e innumerevoli attacchi di parassiti, funghi e specie infestanti, soccombono per sovrabbondanza. Alla fine del loro ciclo di vita producono una gigantesca quantità di limoni. Durante la loro ultima primavera spuntano fiori che si schiudono in grappoli enormi e riempiono l’aria di una dolcezza così pungente da far pizzicare la gola e il naso a centinaia di metri di distanza; i loro frutti maturano tutti insieme, i rami si spezzano sotto quel peso e, dopo un paio di settimane, la terra ai loro piedi si ricopre di limoni marci. È strano, mi disse, vedere tanta esuberanza di fronte alla morte. Uno se la immagina nel regno animale, come quei milioni di salmoni che copulano prima di morire, o i miliardi di aringhe che, per centinaia di chilometri, imbiancano le acque delle coste del Pacifico con il loro seme e le loro uova. Gli alberi, tuttavia, sono organismi molto diversi, e si direbbe che simili spettacoli di mostruosa fecondità non si confacciano a una pianta; assomigliano piuttosto agli eccessi della nostra specie, con la sua crescita esorbitante e fuori controllo. Gli chiesi quanto tempo rimanesse da vivere al mio limone. Mi disse che non c’era modo di saperlo, non senza tagliare il suo tronco per contarne gli anelli. Ma chi mai avrebbe voluto fare una cosa del genere?

RINGRAZIAMENTI

Ringrazio Costanza Martínez per l’inestimabile contributo che ha dato a questo libro, per il quale ci siamo scontrati su ogni minimo dettaglio. Questa è un’opera di finzione basata su fatti reali. La quantità di finzione va aumentando nel corso del libro: se in «Blu di Prussia» solo uno dei paragrafi è frutto di invenzione, nei testi successivi mi sono preso maggiori libertà, cercando di rimanere fedele alle idee scientifiche al centro di ognuno di essi. Quello di Shinichi Mochizuki, uno dei protagonisti del capitolo «Il cuore del cuore», è un caso particolare: mi sono ispirato ad alcuni aspetti del suo lavoro per entrare nella mente di Alexander Grothendieck, ma gran parte di ciò che riguarda la sua persona, la sua biografia e le sue ricerche è frutto d’invenzione. La maggior parte dei riferimenti storici e biografici presenti in quest’opera si possono trovare nei seguenti libri e articoli, i cui autori vorrei altresì ringraziare, sebbene un elenco completo sarebbe troppo lungo: Walter Moore, Schrödinger. Life and Thought; Manjit Kumar, Quantum. Da Einstein a Bohr, la teoria dei quanti, una nuova idea della realtà; Christianus Democritus, Vitae Animalis Morbus et Medicina; John Gribbin, Erwin Schrödinger. La vita, gli amori e la rivoluzione quantistica; Erwin Schrödinger, La mia visione del mondo; Alexander Grothendieck, Récoltes et Semailles. Réflexions et témoignage sur un passé de mathématicien; Arthur I. Miller, Erotica, Aesthetics and Schrödinger’s Wave Equation, in Graham Farmelo (a cura di), It Must Be Beautiful. Great Equations of Modern Science; Werner Heisenberg, Fisica e filosofia; David Lindley, Incertezza. Einstein, Heisenberg, Bohr e il principio di indeterminazione; Winfried Scharlau, Wer ist Alexander Grothendieck? Anarchie, Mathematik, Spiritualität, Einsamkeit. Eine Biographie; Ian Kershaw, Hitler; W.G. Sebald, Gli anelli di Saturno; Karl Schwarzschild, Gesammelte Werke; Jeremy Bernstein, Il recalcitrante padre dei buchi neri, in «Le Scienze», 336, agosto 1996.