sabato 29 febbraio 2020


ELOGIO DELLA FUGA 
Henri Laborit
Arnoldo Mondadori Editore
  
A "Elogio della fuga", Alain Resnais si è di dichiaratamente ispirato per girare il film "Mon oncle d'Amérique" (1980).
In questo libro, Henri Laborit ci espone il suo pensiero nella forma più limpida, pronunciandosi su argomenti precisi e di universale interesse: l'amore - la libertà - la morte - il piacere - la felicità il lavoro - l'infanzia - gli altri - la vita quotidiana - il senso della vita - la politica - il passato, il presente, il futuro - la società ideale - la creatività umana.

Henri Laborit, nato ad Hanoi nel 1914, è uno dei maggiori biologi viventi.
Brillante chirurgo, abbandona la carriera per dedicarsi interamente alla ricerca fondamentale. Si occupa di fisiologia del sistema neurovegetativo, di reattività organica, di anestesia; inventa l'ibernazione artificiale (1951); nella terapia delle psicosi, introduce il primo tranquillante, la cloropromazina (1952) ed elabora una serie di prodotti ad azione psicotropa. Nel 1957 riceve negli Stati Uniti il premio Albert Lesker dalla Public Health Association. Dal 1958 dirige il laboratorio di Eutonologia dell'ospedale Boucicaut, a Parigi. Negli anni successivi concentra le sue ricerche sulla reazione organica all'aggressività e, nel contempo, tenta di estendere le leggi strutturali della biologia alle scienze sociali. Così, oltre ai testi di carattere specialistico, comincia a scrivere anche opere destinate a un pubblico più largo, perché dedicate alle regole che condizionano il comportamento umano individuale e collettivo. I suoi interventi sui giornali e alla televisione lo rendono popolare, tanto che il regista Alain Resnais gli propone d'interpretare un film dedicato alle sue stesse teorie ("Mon oncle d'Amérique", 1980).
Fra i moltissimi volumi pubblicati da Laborit, ricordiamo: "L'uomo e la città" (Mondadori, 1973), "Intervista sulle strutture della vita" (1979).
PREFAZIONE

Quando non può più lottare contro il vento e il mare per seguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità: l'andatura di cappa (il fiocco a collo e la barra sottovento) che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il mare in poppa e un minimo di tela. La fuga è spesso, quando si è lontani dalla costa, il solo modo di salvare barca ed equipaggio. E in più permette di scoprire rive sconosciute che spuntano all'orizzonte delle acque tornate calme. Rive sconosciute che saranno per sempre ignorate da coloro che hanno l'illusoria fortuna di poter seguire la rotta dei carghi e delle petroliere, la rotta senza imprevisti imposta dalle compagnie di navigazione.
Forse conoscete quella barca che si chiama "Desiderio". 
AUTORITRATTO

E' la prima volta che un editore mi da il canovaccio di un libro da scrivere. Non avrei probabilmente accettato di seguirlo se non avessi pubblicato recentemente proprio da quell'editore un'altra opera 1 la cui lettura permetterà, suppongo, di capire meglio il codice biologico che adopererò per rispondere alle domande che mi sono state rivolte.
La prima mi chiede di fare il mio autoritratto. Ma chi ha passato trent'anni della propria esistenza a osservare fatti biologici ed è stato guidato dalla biologia generale, un passo dopo l'altro, verso quella del sistema nervoso e dei comportamenti, prova un certo scetticismo nei confronti di ogni descrizione personale espressa con linguaggio cosciente. Tutti gli autoritratti, tutte le memorie sono solo imposture consce o, peggio ancora, inconsce.
Da queste esplorazioni si ricava un'unica certezza: ogni pensiero, ogni giudizio, ogni pseudoanalisi logica esprimono solo i nostri desideri inconsci, il tentativo di valorizzarci di fronte a noi stessi e ai nostri contemporanei. Dei rapporti che si stabiliscono a ogni istante presente tra il nostro sistema nervoso e il mondo che ci circonda, soprattutto il mondo degli altri uomini, ne privilegiamo alcuni che attirano la nostra attenzione; essi divengono per noi significanti, perché corrispondono, o si contrappongono, ai nostri slanci pulsionali incanalati dall'apprendistato socioculturale cui veniamo sottoposti fin dalla nascita. Sono oggettivi solo i fatti riproducibili sperimentalmente e che possono essere riprodotti da chiunque, seguendo le modalità da noi seguite. Sono oggettive solo le leggi generali capaci di organizzare le strutture. Non è oggetti va la valutazione dei fatti che si registrano all'interno del nostro sistema nervoso. Possono essere considerati oggettivi solo i meccanismi invarianti che presiedono al funzionamento dei sistemi nervosi comuni alla specie umana. Tutto il resto non è altro che l'idea che abbiamo di noi stessi, che tentiamo di imporre a coloro che ci circondano e che si riduce quasi sempre (vedremo perché) a quella costruita in noi da coloro che ci circondano.
Viviamo per mantenere la struttura biologica, siamo programmati, fin dalla fecondazione dell'ovulo, a questo fine, la ragion d'essere di ogni struttura vivente è essere. Ma per essere tale struttura può adoperare un solo mezzo, il programma genetico della sua specie. Ebbene, questo programma genetico, nell'Uomo fa capo a un sistema nervoso, strumento dei suoi rapporti con l'ambiente circostante inanimato e animato, strumento dei suoi rapporti sociali, dei suoi rapporti con gli altri individui della stessa specie che popolano la nicchia dove nascerà e si svilupperà. Fin da allora si troverà interamente sottomesso all'organizzazione della nicchia, che penetrerà e si fisserà nel suo sistema nervoso secondo le caratteristiche strutturali di quest'ultimo. Ma il sistema nervoso risponde innanzi tutto alle necessità urgenti che permettono il mantenimento della struttura d'insieme dell'organismo. Così facendo risponde a ciò che chiamiamo "pulsioni", o principio di piacere, o ricerca dell'equilibrio biologico; anche se la nozione di equilibrio avrebbe bisogno di ulteriori precisazioni. Inoltre, per la sua stessa facoltà di "memorizzare", ossia di "imparare", permette di conoscere ciò che è, o non è, favorevole all'espressione di tali pulsioni, tenendo conto del codice imposto dalla struttura sociale che lo gratifica, a seconda dei suoi atti, promuovendolo gerarchicamente. Le motivazioni pulsionali, trasformate dal controllo sociale che consegue all'apprendimento degli automatismi socioculturali (controllo sociale che da una nuova espressione alla gratificazione, al piacere), metteranno in gioco anche l'immaginazione. L'"immaginazione", funzione specificamente umana che permette all'Uomo, e a nessuna altra specie animale, di "informare", 2 di trasformare il mondo che lo circonda; l'immaginazione, unico meccanismo di fuga, unico modo di evitare l'alienazione ambientale, soprattutto sociologica, e perciò utile al drogato, allo psicotico, ma anche a chi crea sul piano artistico o scientifico; l'immaginazione, il cui antagonismo funzionale con gli automatismi e le pulsioni, fenomeni inconsci, è probabilmente all'origine del fenomeno di coscienza.
Sto facendo la caricatura del funzionamento nervoso centrale e mi dispiace. Ma dato che tale funzionamento è alla base di ogni nostro giudizio, di ogni nostra azione, è necessario parlarne. Avremo del resto occasione di tornare su quest'argomento. Purtroppo finché ciò che ne sappiamo, anche se ne sappiamo sempre di più, non diventerà acquisizione fondamentale di tutti gli uomini, come lo è diventato il linguaggio che da esso scaturisce (e che però è l'espressione del nostro inconscio, mascherato da discorso logico), non potremo far molto. Tutto annegherà sempre nel verbalismo affettivo.
Sapendo ciò, come fare il proprio autoritratto senza sorridere? Accettare di farlo, non è forse accettare di esprimere, attraverso un discorso logico, le proprie pulsioni, rese presentabili dall'educazione socioculturale? E la sola lucidità possibile nei nostri confronti, non è forse sapere che travisiamo inconsciamente i fatti a nostro vantaggio, e a vantaggio dell'immagine di come vorremmo essere, e che cerchiamo di offrire agli altri?

A ogni modo, in mezzo alle sconvolgenti modificazioni che si profilano nella società moderna, sono persuaso che la storia di un uomo e la sua finalità non abbiano nessun interesse. Forse sarebbe bene che, quando qualcuno tenta di presentarsi agli altri sotto le parvenze di un preteso rigorismo scientifico, coloro che l'ascoltano o lo leggono (e possono rimanerne influenzati) sapessero che in ogni scienziato vero o presunto si nasconde un uomo coinvolto nella vita quotidiana. La sua vita sociale ha senz'altro profondamente influenzato la visione del mondo che si è organizzata in lui. Un libro come questo offrirà forse argomenti decisivi per rifiutare teorie da me espresse in altre opere, oppure per aderirvi più completamente. Tuttavia queste teorie, vere o false che siano, meritano un po' di attenzione perché hanno la pretesa di affrontare un aspetto nuovo e fondamentale della condizione umana.
Nella storia di una vita può essere interessante, a mio parere, quello che è universale, non i particolari che l'hanno scandita, né l'impasto unico di chi è stato modellato da quei particolari, né la forma mutevole che ne è venuta fuori. Può essere universale il modo in cui il contesto sociale determina un individuo, al punto di farne una sua espressione particolare.
L'unico interesse che il mio autoritratto può offrire, e anche di questo dubito un po', consiste nel mostrare come un uomo,, preso a caso, sia stato plasmato dall'ambiente familiare, poi dal contesto sociale, dalla classe gerarchica, culturale, economica, e sia potuto sfuggire (così crede, almeno!) a quel mondo implacabile solo arrivando fortuitamente a conoscere, grazie al suo mestiere, i meccanismi che regolano i comportamenti sociali. L'aneddoto serve solo a infiorettare, a illustrare. La libido poi si esprime su un palcoscenico tanto gremito di personaggi quanto lo è un elenco telefonico. Ogni attore è spinto dal desiderio di soddisfare la propria libido e, in quel fitto reticolato di libido intrecciantisi, non sono sicuro che la mia mefiti un trattamento particolare, dato che probabilmente ognuna trova la sua espressione personale nel ristretto ambito spazio-temporale in cui si è situata. Nessuno del resto è capace di ricostruire la storia del sistema nervoso di un proprio simile. Può tutt'al più servirsi di quel che lui ha detto per scrivere un romanzo interpretativo.
Pare ormai certo che si nasce con uno strumento, il sistema nervoso, che ci permette di entrare in rapporto con l'ambiente umano circostante, e che tale strumento è in origine molto simile a quello del vicino. A questo punto sembra utile conoscere le regole che stabiliscono le strutture sociali nelle quali l'insieme dei sistemi nervosi degli uomini di un'epoca, temporanei eredi degli automatismi culturali di coloro che li hanno preceduti, imprigionano il bambino fin dalla nascita, lasciando a sua disposizione solo un armadio pieno zeppo di giudizi di valore. Essendo quei giudizi di valore la secrezione del cervello delle generazioni precedenti, la struttura e il funzionamento di questo cervello sono le cose più universali da conoscere. Ma questa è un'altra storia!
Acquisita tale conoscenza, sia pure imperfetta, ogni uomo saprà di esprimere solo una semplice motivazione, "quella di rimanere normale. Normale, non rispetto alla maggioranza che, sottomessa inconsciamente a giudizi di valore con finalità sociologica, è costituita da individui perfettamente anormali rispetto a se stessi. Rimanere normali è prima di tutto rimanere normali rispetto a se stessi. Per questo occorre mantenere la possibilità "di agire" secondo le pulsioni, trasformate dall'esperienza socioculturale, rimessa costantemente in causa dall'immaginazione e dalla creatività. Ora, lo spazio in cui si compie questa azione è occupato anche dagli altri. Bisognerà evitare lo scontro perché da esso scaturirà per forza una scala gerarchica di dominanza che ha poche probabilità di soddisfare, in quanto aliena il proprio desiderio al desiderio altrui. D'altra parte, sottomettersi vuoi dire accettare, con la sottomissione, la patologia psicosomatica che deriva necessariamente dall'impossibilità di agire secondo le pulsioni. Ribellarsi significa rovinarsi con le proprie mani, perché la ribellione, se attuata da un gruppo, ricostituisce subito una scala gerarchica di sottomissione all'interno del gruppo, e la ribellione solitaria porta rapidamente alla soppressione del ribelle da parte della generalità anormale che si crede detentrice della normalità. Non rimane che la fuga.
Ci sono diversi modi di fuggire. Alcuni si servono di droghe dette "psicogene". Altri della psicosi. Altri del suicidio. Altri della navigazione solitaria. Forse c'è un altro modo ancora: fuggire in un mondo che non è di questo mondo, il mondo dell'immaginazione. Qui il rischio di essere inseguiti è minimo. Ci si può ritagliare un vasto territorio gratificante, che taluni chiameranno narcisistico. Non importa, perché, fuggendo nel mondo dell'immaginazione, sottomissione e rivolta, dominanza e conservatorismo perderanno per il fuggitivo il loro carattere ansiogeno e saranno considerati solo un gioco a cui si può partecipare, senza timore, per farsi accettare dagli altri come "normale". In questo mondo della realtà è possibile giocare fino al limite di rottura col gruppo dominante, fuggire stabilendo rapporti con altri gruppi se è necessario, conservando intatta la propria gratificazione immaginaria, la sola essenziale e al sicuro dai gruppi sociali.
Solo il comportamento di fuga permetterà di rimanere normali rispetto a se stessi, fino a quando la maggioranza degli uomini che si ritengono normali tenteranno senza successo di diventarlo cercando di stabilire una dominanza: individuale, di gruppo, di classe, di nazione, di blocco delle nazioni, eccetera. La sperimentazione dimostra infatti che lo stato di allarme dell'ipofisi e della corteccia surrenale, che se perdura da luogo alla patologia viscerale delle malattie dette "psicosomatiche", è propria dei dominati o di coloro che cercano senza successo di affermare la propria dominanza o anche dei dominanti che cercano di mantenere una dominanza contestata. Tutti costoro vanno allora considerati anormali, perché non sembra molto normale soffrire di ulcera allo stomaco, di impotenza sessuale, di ipertensione arteriosa o di una delle tante sindromi depressive oggi così frequenti.
E siccome una dominanza stabile e incontestata è rara, per fortuna, si vede bene che per continuare a essere normali non rimane che fuggire lontano dalle competizioni gerarchiche. Aspettatemi, vengo anch'io!


L'AMORE

Con questa parola si spiega tutto, si perdona tutto, si accetta tutto, perché non si cerca mai di conoscerne il contenuto. E' la parola d'ordine che apre i cuori, i sessi, le sacrestie e le comunità umane. Copre di un velo falsamente disinteressato, persino trascendente, la ricerca della dominanza e il cosiddetto istinto di proprietà. E' una parola che mente continuamente e questa menzogna viene accettata con le lacrime agli occhi, senza discutere, da tutti gli uomini. Procura una veste onorata all'assassino, alla madre di famiglia, al prete, ai militari, ai carnefici, agli inquisitori, agli uomini politici. Chi osasse spogliarla, denudarla lino in fondo dei pregiudizi che la ricoprono, non sarebbe ritenuto lucido, ma cinico. Da tranquillità di coscienza, senza grossi sforzi, né grossi rischi, a tutto l'inconscio biologico. Decolpevolizza: infatti, perché i gruppi sociali sopravvivano, cioè mantengano le strutture gerarchiche, le regole della dominanza, occorre che le motivazioni profonde di tutti gli atti umani vengano ignorate. Conoscerle, metterle a nudo, porterebbe alla rivolta dei dominati, alla contestazione delle strutture gerarchiche. La parola amore è lì pronta per motivare la sottomissione, per trasfigurare il principio di piacere, l'appagamento della dominanza. Vorrei tentare di scoprire che cosa c'è dietro questa pericolosa parola, che cosa nasconde sotto la sua apparenza melliflua, quali sono le ragioni millenarie della sua fortuna. Risaliamo alle origini.
Ricorderemo qual è la funzione essenziale del sistema nervoso: dare all'organismo la possibilità di agire, di realizzare la propria autonomia motoria rispetto all'ambiente, allo scopo di conservare la struttura dell'organismo. Per far questo, necessita di due fonti di informazione: una lo informa delle caratteristiche mutevoli dell'ambiente che vengono captate e trasmesse a lui dagli organi di senso; l'altra lo informa dello stato interno complessivo della comunità organica delle sue cellule, di cui è incaricato di proteggere la struttura, permettendone l'autonomia motoria. Anche se il termine "equilibrio" è falso, o almeno richiederebbe una lunga digressione che ne precisasse il contenuto, parleremo di ricerca dell'equilibrio organico, d'omeostasi o, in linguaggio più psicologico, di benessere, di piacere. Le più primitive strutture del cervello, l'ipotalamo e il tronco cerebrale, bastano ad assicurare il comportamento elementare di un'azione corrispondente a uno stimolo interno che chiameremo "pulsione". E' un comportamento innato che permette di soddisfare la fame, la sete, la sessualità.
Con i primi mammiferi appare il sistema limbico che permette l'accumulo della memoria. Da quel momento le esperienze risultanti dal contatto di un organismo col mondo circostante non andranno perdute, saranno immagazzinate e potranno venire evocate all'interno dell'organismo senza relazioni di causalità evidente con le variazioni che sopraggiungono nell'ambiente esterno. Verranno registrate come piacevoli o spiacevoli; sono esperienze piacevoli quelle che permettono di mantenere la struttura dell'organismo, esperienze spiacevoli quelle pericolose per lui. Le prime tenderanno a essere ripetute, e questo viene chiamato "rinforzo", le altre a essere evitate. L'azione è in ogni caso la conseguenza di un apprendimento. Così definiremo il "bisogno", a cui corrisponde l'attività del sistema nervoso, come la quantità di energia e di informazione necessaria al mantenimento della struttura, sia innata, sia acquisita con l'esperienza. Il modellamento dei reticoli neuronici in seguito a un apprendimento costituisce infatti una struttura acquisita. Essa è alla base delle emozioni che sono accompagnate da adeguamenti vasomotori e da spostamenti della massa sanguigna, secondo le variazioni di attività degli organi coinvolti per realizzare l'azione. Il sistema cardiovascolare controllato dal sistema neurovegetativo permetterà l'adattamento. Sembra dunque che la "motivazione" fondamentale degli esseri viventi sia proprio il mantenimento della struttura organica, ma essa dipenderà sia dalle pulsioni, corrispondenti a bisogni fondamentali, sia da bisogni acquisiti con l'apprendimento. In linguaggio psicoanalitico, la ricerca (pulsionale o risultante dall'apprendimento) della ripetizione dell'esperienza piacevole corrisponde al "principio di piacere", che così non è esclusivamente sessuale, o, anche quando lo è, risulta occultato, trasformato dall'esperienza. La conoscenza della realtà esterna, l'apprendimento dei divieti socioculturali e delle conseguenze spiacevoli della loro infrazione, come di quelle, piacevoli, con cui il gruppo sociale ricompensa l'individuo che li ha rispettati, corrisponde al "principio di realtà".
Infine, con la corteccia, si arriva all'anticipazione, grazie all'esperienza memorizzata degli atti gratificanti o nocicettivi, e all'elaborazione di una strategia capace rispettivamente di soddisfarli o di evitarli. Dunque l'organizzazione dell'"azione" avviene a tre livelli. Il "primo", il più primitivo, attraverso una stimolazione interna e/o esterna, organizza l'azione in modo automatico,-senza capacità di adattamento. Il "secondo" organizza l'azione tenendo conto dell'esperienza precedente, grazie alla memoria che si ha della qualità, piacevole ¢ spiacevole, utile o nociva, della sensazione che ne è derivata. L'intervento dell'esperienza memorizzata maschera quasi sempre la pulsione primitiva e arricchisce la motivazione di ciò che è stato acquisito con l'apprendimento. Il "terzo" è il "livello del desiderio". E' legato alla costruzione immaginaria che anticipa il risultato dell'azione e la strategia da impiegare per assicurare l'azione gratificante o quella che evita lo stimolo nocicettivo. Il primo livello ricorre solo a un procedimento presente, il secondo aggiunge all'azione presente l'esperienza del passato, il terzo risponde al presente grazie all'esperienza passata, anticipando il risultato futuro.
Questa "azione" avviene in uno "spazio" all'interno del quale vi sono oggetti e individui. Gli oggetti e gli individui che permettono un'esperienza gratificante dovranno rimanere a disposizione dell'organismo per garantire il "rinforzo". L'organismo tenderà a impossessarsene e a opporsi nello spazio in cui si trovano, nel suo "territorio", all'appropriazione, da parte di altri, degli stessi oggetti o individui gratificanti. Il "solo comportamento "innato", contrariamente a quanto si è potuto dire, pare dunque che sia l'azione gratificante". La nozione di territorio e di proprietà è quindi secondaria all'apprendimento della gratificazione. Sono acquisizioni sociali in tutte le specie animali, e socioculturali nell'Uomo. Alla stessa stregua è chiaro che, per realizzarsi in situazione sociale, l'azione gratificante si baserà allora sulla costituzione di "gerarchie di dominanza" in cui il dominante impone il suo "progetto" al dominato.

Rimane da precisare ancora un punto. Abbiamo visto che il sistema nervoso comanda in generale un'azione. Se corrisponde a uno stimolo nocicettivo doloroso, essa si risolverà nella fuga, nel tentativo di evitarlo. Se la fuga è impossibile, provocherà l'aggressività difensiva, la lotta. Se questa azione è efficace, cioè permette la conservazione o il ritorno del benessere, dell'equilibrio biologico (se, in altre parole, è gratificante), la strategia impiegata verrà memorizzata, in modo da poter essere ripetuta. Ecco l'apprendimento. Se è inefficace, e ancora una volta solo l'esperienza può dimostrarlo, verrà messo in azione un procedimento di inibizione motoria. Nel primo caso, le aree cerebrali che comandano la risposta innata di fuga e di lotta allo stimolo nocicettivo, alla punizione, saranno organizzate in vie nervose che termineranno nel "periventricular System" (P.V.S.). Nel secondo caso, quello dell'apprendimento della ricompensa, del comportamento gratificante, il fascio che riunisce le zone cerebrali interessate è il "medial forebrain bundle" (M.F.B.). Infine (terzo caso) l'inibizione motoria ricorre al sistema inibitore dell'azione (S.I.A.). Abbiamo potuto dimostrare recentemente (Laborit e coll., 1974) 3 che il sistema inibitore dell'azione, permettendo quello che si suoi chiamare l'"evitamento passivo", da origine alla reazione endocrina di "stress" (Selve, 1936) 4 e alla reazione simpatica vasocostrittoria di attesa dell'azione. La reazione adrenalinica che invece è vasodilatatoria della circolazione muscolare, polmonare, cardiaca e cerebrale, è la reazione di fuga o di lotta; è la reazione di "allarme" che permette di realizzare l'azione. Da questo schema risulta che tutto ciò che si oppone a una azione gratificante, quella che soddisfa il bisogno innato p acquisito, scatena una reazione endocrino-simpatica pregiudizievole, se prolungata, al funzionamento degli organi periferici. Provoca il senso di angoscia e da origine ad affezioni dette "psicosomatiche".
Per illustrare questa idea vorrei ricordare quanta importanza attribuiscono le compagnie d'assicurazione americane a una pressione arteriosa superiore a 90/140 millimetri di mercurio negli ultracinquantenni, dato che vi è un'alta mortalità tra i soggetti che ne sono colpiti. Nel corso di un esperimento di evitamento attivo in una camera a due scompartimenti, realizzato su un topo sottoposto a una stimolazione elettrica plantare preceduta di qualche secondo da segnali luminosi e sonori, abbiamo constatato che se l'animale poteva agire, cioè fuggire nello scompartimento adiacente, la stimolazione, applicata in sedute di 7 minuti al giorno per sette giorni consecutivi, non provocava ipertensione permanente. Se invece la porta tra i due scompartimenti era chiusa e non poteva fuggire, l'animale presentava rapidamente un comportamento di inibizione motoria e, dopo i sette giorni di esperimento soffriva di un'ipertensione arteriosa permanente che perdurava anche dopo un mese, cioè tre settimane dopo la fine dell'esperimento. Ma se, con le stesse modalità, si mettono insieme due animali che non possono scappare, ma possono combattere, esternare l'aggressività con un'azione sull'altro, essi non soffriranno di ipertensione cronica. Lo stesso accade se dopo ogni seduta l'animale è sottoposto a elettrochoc convulsivante che impedisce la memoria a lungo termine, in quanto quest'ultima sul caso esaminato, memorizza l'inefficacia dell'azione in rapporto allo stimolo nocicettivo, ed è dunque necessaria per far entrare in gioco il sistema di inibizione motoria.

Abbiamo detto (Laborit, 1971) 5 che l'aggressione è la quantità di energia capace di aumentare l'entropia di un sistema organizzato o, in altre parole, di farne sparire la struttura. Accanto alle aggressioni dirette, fisiche o chimiche, l'aggressione psicosociale invece passa "obbligatoriamente" attraverso la memoria e l'apprendimento di ciò che può essere nocicettivo per l'individuo. Se non trova soluzione nell'azione motoria adatta, sfocia in un comportamento di aggressività difensiva o, nell'uomo, nel suicidio. Ma se l'esperienza della punizione mette in gioco il sistema inibitore dell'azione, non rimane che la sottomissione con le sue conseguenze psicosomatiche: depressione, fuga nel mondo immaginario della droga, della malattia mentale o della creatività.
Abbiamo messo in evidenza che, in situazione sociale, la gratificazione, cioè l'uso secondo i bisogni degli oggetti e degli esseri che si trovano, nel territorio di un individuo, cioè nello spazio in cui può agire, si ottiene stabilendo una dominanza. Nell'animale essa si stabilisce grazie alla forza fisica. E' stato a lungo così anche per l'Uomo. Ma la proprietà tipica della specie umana, di aggiungere informazione alla materia inanimata, di "metterla in forma" per farne il prodotto di un'industria, ha reso possibili prima gli scambi, poi l'accumulo di capitale che permette di appropriarsi di oggetti e di esseri, dunque di gratificarsi. La dominanza si basa allora sul possesso di capitale e sui mezzi di produzione della merce, le macchine, anch'esse risultato della manipolazione dell'informazione tecnica operata dal cervello umano. Più di recente, l'importanza assunta dalle macchine nel processo produttivo ha favorito coloro che erano capaci di idearle e controllarle, grazie all'acquisizione di un'informazione astratta fisica e matematica. Ha favorito i tecnici. La dominanza allora si è stabilita secondo il grado di astrazione raggiunto da un individuo nella sua informazione professionale. Essa è oggi alla base delle gerarchie, non soltanto professionali, ma di potere economico e politico.
Qual è il posto dell'"amore" in questo schema? E' senz'altro oggettivamente esatto definire l'amore come la dipendenza del sistema nervoso nei confronti dell'azione gratificante, realizzata grazie alla presenza di un altro essere nel nostro spazio. Viceversa, l'odio non nasce forse quando l'altro non ci gratifica più, o quando qualcuno si impadronisce dell'oggetto dei nostri desideri, o si insinua nel nostro spazio gratificante e si gratifica con l'essere o l'oggetto della nostra precedente gratificazione?
Ci chiediamo però se queste osservazioni che hanno la pretesa di essere scientifiche, oggettive, abbiano un qualche valore di fronte alla gioia ineffabile, realtà vissuta, dell'innamorato. Nel descriverla come abbiamo appena fatto, non viene ignorata la parte umana dell'amore, la dimensione immaginaria, creatrice, culturale? Probabilmente sì, per l'amore felice. Ma, qualcun altro l'ha detto, non esiste amore felice. Non c'è uno spazio abbastanza chiuso, che racchiuda per tutta una vita due esseri in loro stessi. Appena questo insieme si apre verso il mondo, esso, richiudendosi su di loro, si insinuerà, come i tentacoli di una piovra, tra le loro relazioni privilegiate. Altri oggetti di gratificazione e altri esseri gratificanti entreranno in rapporto con ciascuno di loro, in un rapporto obiettivo, espresso con l'azione. Allora lo spazio dell'uno non si limiterà più allo spazio dell'altro. Il territorio dell'uno potrà coincidere col territorio dell'altro, ma i due territori non potranno più sovrapporsi. Il solo amore davvero umano è un amore immaginario, che si insegue per tutta la vita, che generalmente trova origine nell'essere amato, ma che presto non ne avrà più né le proporzioni, né la forma palpabile, né la voce, per diventare una vera creazione, un'immagine senza realtà. Allora non bisogna assolutamente cercare di far coincidere questa immagine con l'essere che l'ha suscitata e che è solo un poveruomo, o una povera donna, molto in difficoltà col suo inconscio. Dobbiamo gratificarci con quell'amore, con ciò che crediamo sia e non è, con il desiderio e non con la conoscenza. Dobbiamo chiudere gli occhi e fuggire la realtà. Ricreare il mondo degli dèi, della poesia e dell'arte e non adoperare mai la chiave del ripostiglio in cui Barbablù teneva i cadaveri delle mogli. Perché nella prateria verdeggiante, nella strada polverosa, non vedremo mai arrivare nessuno.
Se quanto ho appena scritto contiene una particella di verità, sono d'accordo con quanti pensano che piacere sessuale e immaginazione amorosa siano due cose diverse e che non abbiano nessuna ragione "a priori" di dipendere l'una dall'altra. Purtroppo l'essere biologico che ci gratifica sessualmente e che non vogliamo perdere solo perché il suo "possesso" rinforza la nostra gratificazione, coincide di solito con colui che è all'origine dell'immaginazione felice. L'innamorato è un artista che non può più fare a meno del suo modello, un artista tanto contento della sua opera da voler conservare la materia che l'ha generata. Eliminando l'opera, rimangono solo un uomo e una donna, eliminando loro, non c'è più l'opera. L'opera, una volta nata, acquista una vita propria, una vita che riguarda l'immaginazione, una vita che non invecchia, una vita fuori del tempo e che sempre più a stento coabita con l'essere di carne, inserito nel tempo e nello spazio, che ci ha gratificato biologicamente. Ecco perché non può esserci amore felice, se si vuole per forza identificare l'opera col modello.
Nondimeno, quando l'amore passa da un rapporto interindividuale unico a quello di un gruppo umano, è probabile che possa umanizzarsi, in quanto diventa più l'amore di un concetto che l'amore dell'oggetto gratificante. Per fare un esempio, l'uomo è il solo animale che conosca il concetto di patria e che possa amarla. Ma anche in questo caso è impossibile far coincidere l'immaginazione amorosa col modello che ne è la causa. Si tratta ancora di un modello biologico, quello dell'insieme umano che popola una nicchia ecologica, con la sua storia e le caratteristiche comportamentali che la nicchia ha condizionato in lui. Quest'insieme umano finora si è sempre organizzato sotto ogni cielo secondo un sistema gerarchico di dominanza e di sottomissione perché le motivazioni degli individui che ne fanno parte sono state sempre la sopravvivenza organica e la ricerca del piacere, e i mezzi per ottenerli dipendono ancora dal possesso di un territorio individuale con gli oggetti e gli esseri che contiene. E l'amore reale e possente per la patria, troppo tardi diventato un ideale nella storia dell'umanità, che ha animato il sacrificio di milioni di uomini fino a un'epoca recente, ha anche permesso che questo sacrificio venisse sfruttato dalle strutture sociali di dominanza che ne costituivano, non il corpo mistico, ma il corpo biologico. I dominanti hanno sempre approfittato dell'immaginazione dei dominati. E' facile, perché solo la facoltà di creazione immaginaria, tipica della specie umana, permette la fuga gratificante da un'oggettività dolorosa. Questa possibilità è dovuta all'esistenza di una corteccia associativa capace di creare nuove strutture, nuove relazioni astratte, tra gli elementi memorizzati nel sistema nervoso. Ma tali strutture immaginarie continuano ad aderire intimamente ai fatti memorizzati, ai modelli da cui scaturiscono. Su scala socioculturale, conviene, per la struttura gerarchica, favorire l'amore del cittadino artista per la sua creazione immaginaria, la patria, che gli fa dimenticare la triste realtà del modello sociale, artefice della sua alienazione. Dicevano che de Gaulle amasse la Francia, ma disprezzasse i francesi. Amava il concetto immaginario che aveva della Francia. L'artista preferiva la sua opera al modello imposto dalla realtà. La cosa più interessante dell'opera è che varia da uomo a uomo, secondo la sua memoria, la sua storia, e una stessa parola nasconde una creazione immaginaria diversa per ogni cervello immaginante, per cui è facile creare un movimento collettivo passionale d'opinione per qualcosa che non esiste al di fuori del prodotto variabile dell'immaginazione di ogni individuo.

La distanza sempre crescente che separa così la realtà oggettiva dalla creazione immaginaria permette di manipolare la prima, sfruttando la seconda a beneficio dei più forti. Con questa interpretazione potrà sembrare che io abbia valorizzato l'immaginazione e non abbia saputo evitare il giudizio di valore. Ma constatare che tutta l'evoluzione della specie è avvenuta sviluppando l'immaginazione e le formazioni nervose che rendono possibili i processi associativi, per arrivare all'Uomo, non significa, secondo me, dare un giudizio di valore. Significa constatare una realtà oggettiva. Riconoscere però che l'immaginazione dipende dalle pulsioni preominidi, dato che esse guidano il nostro inconscio, non significa che ci si debba servire dell'immaginazione per garantire la dominanza di queste pulsioni nell'azione, con l'ambigua protezione del discorso cosciente. E' l'eterna lotta tra la carne (termodinamica) e il punto omega (informazionale), dato che l'uno non può esistere senza l'altra, ma non sarà mai possibile ridurre l'uno all'altra né viceversa, perché, come ha detto Wiener, l'informazione è solo informazione, non è massa, né energia, benché non possa esistere senza di esse.
E' invece possibile sperare che la creazione, l'opera dell'artista, quella dell'innamorato, non si limitino a un sottoinsieme, ma che si rivolgano subito al massimo insieme, alla specie umana. La poca carne di cui siamo fatti, fonte delle nostre motivazioni, di tristezza come di allegria, questa carne che suscita in noi il desiderio di goderne ma anche di fuggirla gratificandoci senza costrizioni nell'immaginazione, che ci da l'angoscia senza la quale non ci sarebbe liberazione, questa poca carne piena di inventiva non deve ingabbiare la propria creatività nella prigione delle socioculture, delle parole, degli inquadramenti prefabbricati, dei gruppi sociali, delle parrocchie, delle lingue, delle classi. Prendere per finalità gratificante uno di questi sottoinsiemi, significa essere profondamente razzisti. Il razzismo è una teoria biologica infondata, allo stadio attuale della specie umana, ma di cui si capisce la generalizzazione dovuta alla necessità, a ogni livello di organizzazione di difendere strutture ormai sorpassate.

Ogni uomo che ha cercato di penetrare nel buio del proprio inconscio, magari solo mentre sta per addormentarsi, sa di aver vissuto per se stesso. Coloro che non possono trovare il piacere nel mondo della dominanza e, drogati poeti o psicotici, salpano verso il mondo immaginario, fanno la stessa cosa.
E il contatto umano, il calore umano non conta?
Gli uomini hanno gli strumenti per comunicare tra loro nei campi della scienza e dell'arte. Io dai miei simili ho ricevuto più cose attraverso i libri che attraverso le strette di mano. Il libro mi ha fatto conoscere il loro lato migliore, il loro prolungamento nella Storia, la traccia che lasciano dietro di sé.
Ma quanti uomini non lasciano traccia scritta che pur sarebbe utile conoscere? Coloro che soffrono e lavorano non hanno il tempo per scrivere.
Siamo sicuri che a prender contatto con loro ci spinga solo il desiderio di conoscerli e di aiutarli a portare la croce? Il paternalismo, il narcisismo, la ricerca della dominanza possono prendere i più svariati aspetti. Nel contatto con l'altro si è sempre in due. E l'altro spesso ci cerca, non per trovarci ma per trovare se stesso, come noi cerchiamo noi stessi nell'altro. Non possiamo uscire dal solco che la nicchia ambientale ha inciso nella cera vergine della nostra memoria da quando è nata al mondo dell'inconscio. Posso dire che mi è capitato a volte di osservare uomini che, a fatti e a parole, sembrano interamente votati al sacrificio, ma le cui motivazioni inconsce mi sono sempre sembrate sospette. E poi taluni, tra i quali io, un bel giorno cominciano a essere stufi di conoscere l'altro solo nella lotta per la promozione sociale e la ricerca della dominanza. Nel nostro mondo molto spesso non si incontrano uomini, ma agenti di produzione, professionisti che non vedono più in noi l'Uomo, ma il concorrente, e appena il nostro spazio gratificante interagisce con il loro cercano di prendere il sopravvento, di sottometterci. Allora se non siamo disposti a trasformarci in hippies o in drogati dobbiamo fuggire, rifiutare, se possibile, la lotta, perché quegli avversari non ci affronteranno mai da soli ma si appoggeranno sempre a un gruppo o a una istituzione. E' finita l'epoca della cavalleria, quando si gareggiava a uno a uno in un campo da torneo. Oggi sono intere consorterie che attaccano l'uomo solo, e se per disgrazia quest'ultimo accetta il confronto, sono sicure di vincere, perché sono l'espressione del conformismo, dei pregiudizi, delle leggi socioculturali del momento. Se ci avventuriamo da soli in una via non incontriamo mai un altro uomo solo ma sempre una compagnia di trasporti collettivi.
Però che gioia quando capita di imbattersi in un uomo che accetta di togliersi l'uniforme e i gradi!
L'Umanità dovrebbe andare in giro nuda come fa anche l'ammiraglio, quando va dal medico, perché dovremmo tutti essere medici l'uno dell'altro. Pochi però sanno di essere malati e pochi vogliono farsi curare! Non hanno forse seguito alla lettera le regole del libro di Igiene e Profilassi che la benevola società ha deposto nella loro culla al momento della nascita?
La distinzione, che ho fatto all'inizio, tra reale e immaginario, la ritroviamo a livello di organizzazione delle società. I rapporti interindividuali che si stabiliscono in esse, basati sul funzionamento del sistema nervoso umano in situazione sociale e facenti capo alle gerarchie professionali e alla dominanza, sono ben reali e vissuti come tali. Ma il funzionamento nervoso è inconsapevole delle origini strutturali innate o acquisite, arriva a noi direttamente dalle tappe preominidi dell'evoluzione alle quali anche l'immaginazione si è sottomessa. La creatività è considerata solo in funzione dell'innovazione tecnica e della produzione, mediante le quali si creano le dominanze, e così gli uomini, tentando di sfuggire al malessere che procura loro un simile stato di cose, adoperano l'immaginazione per proporre strutture sociali in cui spariscano questi rapporti alienanti. Purtroppo, dato che questi rapporti sono il risultato, come abbiamo appena detto, dell'espressione del loro inconscio pulsionale drenato dall'acquisizione socioculturale di cui non tengono mai conto, l'amore per l'opera immaginaria non coincide mai con la realtà amputata delle sue origini profonde. E la parola amore rimane il termine menzognero che giustifica tutti gli sfruttamenti dell'uomo da parte dell'uomo, perché pretende di essere di un'essenza diversa da quella delle motivazioni più primitive, contro le quali del resto è impotente, come è impotente la parola "scudo" nel proteggerci dai proiettili.

Ai problemi che la vita pone a ciascuno di noi, non ho trovato nessun catechismo, nessun codice civile o morale in grado di dare risposta. Me l'ha data Cristo, ma oltre a essere un Signore poco raccomandabile, ho il sospetto che cambi volto secondo il cliente. Per coloro che lo conoscono è l'opera perfetta di cui parlavo prima, l'immaginazione incarnata. Sennonché, solo in virtù di questa incarnazione, può essere meglio di quello che siamo? Sarebbe possibile, a patto che rappresentasse l'immaginazione incarnata nella specie come in ogni individuo, elemento dell'insieme. Anche per lui, secondo me, la parola amore è sprecata. Nel contesto in cui è usata andrebbe bene anche la parola odio. C'è tanto amore nell'odio, quanto odio nell'amore, è una questione di endocrinologia.
E' più facile dire che si ama la specie umana, l'Uomo con la U maiuscola, che amare, e non solo far finta di amare, il proprio vicino di casa. Ma è anche più facile amare moglie e figli quando fanno parte degli oggetti gratificanti del nostro territorio spaziale e culturale, che amare il concetto astratto di Umanità nel suo insieme. Bisognerebbe non avere affatto territorio, cioè non avere sistema nervoso oppure considerare territorio l'intero pianeta (opinione che gli altri si affretterebbero a contraddire), per vivere in pace. "Il mio regno non è di questo mondo..." Certo, appartiene al mondo delle strutture, al mondo dell'immaginazione. Disgraziatamente l'immaginazione nasce da un sistema nervoso e le strutture esistono solo per organizzare gli elementi di un insieme: l'opera e il modello, sempre. Bisogna accettare di vivere col modello e di morire per l'opera. E' l'eterno conflitto tra "principio di piacere" e "principio di realtà" diranno gli psicoanalisti, non è altro che "sublimazione". Non si tratta esattamente di questo, a parer mio. La realtà che propongo non è la realtà della nicchia ambientale immediata, la realtà che si tocca, che si sente, che si vede. Quella realtà, anche se ammettiamo la differenza, la non-appropriazione, l'autonomia parziale dell'altro (e tale atteggiamento, d'altronde, sarà considerato una forma di indifferenza), non è ancora abbastanza informata sul suo insieme o piuttosto è troppo deformata dalla cultura per accettare che a nostra volta possiamo godere degli stessi vantaggi. Amare l'altro dovrebbe significare ammettere che possa pensare, sentire, agire in modo non conforme ai nostri desideri, alla nostra gratificazione, accettare che viva secondo il suo sistema di gratificazione personale e non secondo il nostro. Ma l'apprendimento culturale, nel corso dei millenni, ha legato il sentimento amoroso a quello di possesso, di appropriazione, di dipendenza, rispetto all'immagine che ci facciamo dell'altro, a tal punto che colui che si comportasse così nei confronti dell'altro, sarebbe giudicato solo indifferente.
Però esistono altri spazi gratificanti oltre a quello che ci circonda immediatamente: spazi altrettanto reali, benché mediati. Grazie a essi si può raggiungere il collettivo, il sociale. Uno è lo spazio planetario, e le strutture sociali che lo popolano sono una realtà, anche se questa realtà non si può raggiungere con la mano, gli occhi, le labbra, ma si può influenzare solo attraverso i mass media. Si può esercitare su di essa un'autorità, un potere, solo attraverso la simbologia del linguaggio e l'espressione dei concetti. Evidentemente scontrandosi con i linguaggi e i concetti dominanti. Ma la lotta sarà a un livello di organizzazione diverso da quello a cui si trovano i rapporti tra uomo e uomo. Non ci lasceremo più rinchiudere in uno spazio angusto in cui tutto l'inconscio dominatore delle individualità entra in conflitto per ottenere la dominanza. E soprattutto si può fuggire, per raggrupparci a un altro livello di organizzazione, nel punto più remoto del pianeta. Si tratta in definitiva di fare della nostra realtà una struttura aperta, non chiusa dalle frontiere dell'Edipo familiare e sociale.

Siete delusi? Certo, sentir parlare dell'Amore come ne ho parlato io, è piuttosto spiacevole. Ma questo mio discorso dovrebbe rassicurarvi proprio per la sua differenza. Perché lo sapete già che lo spirito trascende la materia, lo sapete già che l'amore individuale, come l'amore universale, elevano l'uomo. L'amore che a volte induce l'uomo al sacrificio della vita. "Parole, Parole, Parole" bisbiglia Dalida con un accento così profondamente umano che va dritto al cuore delle folle del mondo libero. Voi sapete che non sono solo parole, che le generazioni che ci hanno preceduto devono la loro gloria a valori eterni grazie ai quali siamo arrivati alla civiltà industriale, alle torture, alle guerre di sterminio, alla distruzione della biosfera, all'automazione dell'uomo e ai grandi agglomerati urbani. Non sono certo imputabili di questi successi le nuove generazioni, quando venivano fabbricati esse non c'erano ancora. Non sanno più che cosa vuoi dire lavoro, famiglia, patria, e magari prima o poi distruggeranno le gerarchie così indispensabili per ricompensare i meriti e creare l'elite. Gli acuti pensatori che da qualche tempo inondano dei loro scritti le librerie e che sono considerati da tutta la critica grandi umanisti capaci di esprimere con accenti "veridici" tutta la grandezza e la solitudine della condizione umana, ci ripetono: torniamo ai valori che hanno reso felici le generazioni passate e senza i quali nessuna società può sperare di arrivare al punto in cui siamo. Altrimenti, corriamo il rischio di perdere quelle élites a cui essi appartengono e sarebbe un vero peccato. Chi deciderà a chi accordare credito, come investire il plusvalore, chi dirigerà tanto "umanamente" le grandi imprese, le banche, chi avrà in mano le leve dello Stato, del commercio, dell'industria, chi sarà capace di perpetuare il mondo moderno che da loro abbiamo ereditato? E tutti questi giovani che approfittano di questo mondo ideale, pur rifiutandolo, farebbero meglio a mettersi a lavorare, a pensare alla carriera e all'espansione economica che è il mezzo più sicuro per garantire all'uomo la felicità. La violenza non ha mai portato a niente di buono, solo alla rivoluzione, al terrore, alla guerra di Vandea, ai diritti civili. Certo, ci sono le bombe al neutrone, il napalm, i defolianti, i tempi di lavoro nelle fabbriche, i gorilla (per far solo alcuni esempi), ma tutto questo è necessario perché tutti quanti coloro che non conoscono la libertà e la civiltà giudaico-cristiana imparino ad apprezzare il mondo libero. Garantiamo la vita, bene supremo, penalizziamo l'aborto, la contraccezione, la pornografia (che, come ognuno sa, è diversa dall'erotismo) favoriamo, in nome della patria, l'industria bellica, la vendita all'estero di carri armati e di aerei da combattimento, che non hanno mai fatto male a nessuno, dato che li adoperano solo i militari. Può capitare che a volte le bombe uccidano uomini donne e bambini, ma essi muoiono dopo aver conosciuto i vantaggi della vita, dopo aver goduto di gioie familiari e umane. Mentre quei poveri innocenti, vittime del raschiamento o dell'aspirazione, non sapranno mai che gioie hanno perso, non conosceranno mai la felicità di trovarsi tra di noi. E chi ci garantisce che uno di essi non sarebbe potuto diventare addirittura presidente della Repubblica? No, credetemi, lasciamoli vivere perché anche se l'esistenza non è una formula ideale, sappiamo che il dolore nobilita l'uomo e che nessuno conosce se stesso se non ha sofferto. (Quest'ultima frase, essendo la testimonianza di una autentica cultura, avrebbe bisogno di una nota bibliografica.)
Sì, quel che ho scritto sull'amore è triste, e non ha niente di spirituale. Per fortuna ci sono San Francesco d'Assisi, Paolo Sesto e Michel Droit. Per fortuna esistono ancora persone che sanno perché sono vissute e perché vivono. Se glielo chiediamo, risponderanno che vivono in nome dell'Amore con l'A maiuscola, sacrificando se stessi per gli altri. E dobbiamo credergli perché sono persone coscienti e responsabili. Basta guardarli in faccia per capire quanto hanno sofferto nella loro rinunzia!
Avrei potuto dire che la mia profonda aspirazione era stata, fin da piccolo, quella di alleviare le sofferenze dell'umanità, di trovare farmaci efficaci, di operare e di medicare ferite. Avrei potuto dire di non essermi limitato a curare il corpo, ma di aver sempre cercato di raggiungere, al di là del corpo fisico, l'Uomo nel suo insieme, morale e spirituale, a forza di colloqui singoli, da pagare all'uscita, e di cogliere, al di là di ogni individuo che avevo tentato di capire, la condizione umana. Mi aveva predisposto a ciò il mio retaggio familiare. Avrei potuto dire come, in virtù unicamente dei miei meriti, avevo salito i gradini di una carriera onorata nel corso della quale, è ovvio, mi ero scontrato spesso con l'egoismo, a volte con l'imbecillità, ma come tutto questo avesse contato ben poco al confronto del calore umano, dei contatti umani, delle gioie dell'amicizia e dell'amore a cui mi ero perdutamente dedicato, dando il meglio di me. Dalla lettura di un simile libro, avreste tratto un'ottima opinione dell'autore e del suo ideale umano (un ideale non potrebbe essere altrimenti) e, senza por tempo in mezzo, avreste tentato di imitarne l'esempio. Animati da questo nuovo ardore, voi, il gruppo sociale a cui appartenete, il paese, la cultura e, per finire, tutta la specie umana, si sarebbero arricchiti. Avreste permesso, rimanendo al posto giusto (un posto è sempre giusto e meritato) che venissero tutelati gli ideali di Amore, Probità, Onore, Sacrificio, i soli valori capaci di far progredire l'Umanità sofferente (l'Umanità, notate bene, è sempre sofferente).
Invece scoprite un uomo che, secondo i vostri criteri, dice che siamo tutti corrotti, tutti venduti, che non esistono né amore, né altruismo, né libertà, né responsabilità, né merito capaci di rispondere a criteri prefissati, a una scala di valori concepita umanamente, che tutto ciò è una carnevalata per permettere lo stabilirsi delle dominanze, che le cose si contentano di essere, col solo valore attribuito loro da un particolare insieme sociale. Egli non ha, si badi bene, al suo servizio nessun mezzo di coercizione, nessuna inquisizione capace di obbligarvi "liberamente" a credergli e non è certo la sua insignificante esperienza personale che può verosimilmente convincervi.
Forse lo studio della biologia dei comportamenti a cui continua a riferirsi perché così crede di distinguersi, gli ha procurato quell'alibi logico di cui continua a parlare, per nascondere la sua realissima mediocrità sentimentale? Conoscendo degli altri solo i comportamenti, ha creduto che fossero motivati come lo era lui, ma inconsapevoli delle loro motivazioni. Forse tutti sono buoni, generosi, concilianti, tolleranti, semplici, umili e accettano la dominanza, quando viene loro offerta, come un fardello che non hanno cercato di conquistare? Forse tutti sono proprio come ci consigliano di essere, riferendosi a quell' umanismo così confortante, a quelle sublimazioni e trascendenze che guidano le nostre meritevoli élites? Forse, dopo tutto, devono la loro dominanza solo alle loro qualità eccezionali e, per di più, essa viene loro offerta? Anzi, vien quasi da chiedersi se sappiano trame profitto.

Così ho capito che ciò che chiamiamo "amore" nasceva dal rinforzo dell'azione gratificante autorizzata da un altro essere situato nel nostro spazio operativo e che il male d'amore nasceva dal fatto che quella persona rifiutava di essere il nostro oggetto gratificante o diventava quello di un altro, sottraendosi così, più o meno completamente, alla nostra azione. Il rifiuto o la spartizione feriva l'immagine ideale che avevamo di noi stessi, feriva il narcisismo e dava l'avvio alla depressione, all'aggressività o al denigramento della persona amata.
Ho capito anche ciò che tanti altri avevano scoperto prima di me, che si nasce, si vive, si muore soli al mondo, rinchiusi nella propria struttura biologica la cui unica ragione d'essere è conservarsi. Ma ho anche scoperto che, stranamente, la memoria e l'apprendimento facevano penetrare gli altri in questa struttura e che, al livello dell'organizzazione dell'io, essa diventava gli altri. Ho capito infine che l'origine profonda dell'angoscia esistenziale, occultata dalla vita quotidiana e dalle relazioni interindividuali in una società produttiva, era la solitudine della nostra struttura biologica che rinchiude in sé l'insieme, quasi sempre anonimo, delle esperienze che abbiamo tratto dagli altri. Angoscia di non capire ciò che siamo e ciò che essi sono, prigionieri incatenati allo stesso mondo di incoerenza e di morte. Ho capito che quello che chiamiamo amore, poteva essere solo il grido prolungato del prigioniero che va al supplizio, conscio dell'assurdità della sua innocenza; "quel grido disperato che invoca l'altro in aiuto e al quale nessuna eco risponde mai". Il grido del Cristo sulla croce: ""Elo‹, Elo‹, lema sabachtani", Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?". A rispondergli c'era solo il Dio dell'élite e del sinedrio. Il Dio dei più forti. Forse è per questo che coloro che non hanno occasione di lanciare questo grido sono da invidiare: i ricchi, i facoltosi, i contenti di sé, i millantatori del merito, gli eroi dello sforzo ricompensato, i "fate come me", gli "io penso che", gli "è evidente che", i sublimatori, i certi, i giusti. Essi non invocano mai aiuto, si contentano di cercare "appoggi" per la promozione sociale. Perché, fin dall'infanzia, gli è stato ripetuto che solo quest'ultima da la felicità. Non hanno il tempo di amare, occupati come sono a salire i gradini della scala gerarchica. Ma consigliamo fermamente agli altri l'uso di questo "valore supremo" di cui si dicono impregnati. Per gli altri, l'amore comincia col vagito del neonato quando, abbandonata bruscamente la sacca materna delle acque, sente improvvisamente sulla nuca il vento gelido del mondo e comincia a respirare solo, completamente solo, per se stesso, fino alla morte.
Beato colui che è soccorso a volte dal bocca a bocca.
Narciso, sai chi è?


UN'IDEA DELL'UOMO

Ciò che ne ho detto parlando dell'amore e ciò che ne dirò nel corso dei prossimi capitoli, da dell'Uomo un'idea più completa di quella che potrei illustrare in qualche pagina. Mi limiterò a sottolineare alcune nozioni che mi sembrano particolarmente importanti. L'Uomo è un animale. Ne possiede i bisogni, gli istinti primordiali, cioè appagare la fame, la sete, la sessualità, le pulsioni endogene in un certo senso, secondo il rituale tipico della sua specie. Ne possiede anche le possibilità di memorizzazione a lungo termine, le possibilità di apprendimento. Ma queste proprietà che tutti i mammiferi hanno, sono profondamente trasformate dallo svilupparsi di proprietà anatomiche e funzionali dovute probabilmente al passaggio alla posizione eretta, alla marcia bipede, alla liberazione della mano, alla nuova statica del cranio sulla colonna vertebrale e al conseguente sviluppo nasofaringeo, che ha permesso l'articolazione dei suoni e il linguaggio. Con quest'ultimo appaiono il simbolismo e la concettualizzazione. Con le parole, che permettono di tenere a distanza l'oggetto, ci viene data una nuova possibilità di associazione, dunque di creazione immaginaria. La possibilità di creare l'informazione e di foggiare con essa il mondo inanimato fa, insieme all'immaginazione, l'Uomo. Col linguaggio inoltre è stato possibile trasmettere di generazione in generazione l'esperienza acquisita. In tal modo il bambino che nasce ai giorni nostri beneficia, in qualche mese o in qualche anno, di tutta l'esperienza acquisita fin dall'inizio dell'era umana, da tutta la specie. Si è accumulata così l'esperienza, soprattutto quando la scrittura venne ad aggiungersi alla trasmissione orale, più soggetta a deformazioni. Purtroppo il linguaggio da solo un'interpretazione logica dei fatti coscienti. Le pulsioni, l'apprendimento culturale continuano a far parte del mondo dell'inconscio. Sono loro a dirigere il discorso che ammanta di alibi logici l'infinita complessità delle funzioni primitive e degli automatismi acquisiti. Nel sogno, durante il sonno, sembra che questi ultimi ritrovino l'autonomia e spesso ci spaventano, quando rimangono nella memoria ormai tornata allo stato di coscienza, dopo il risveglio. Perché la logica del sogno non è quella del discorso cosciente. Sconcerta per la ricchezza di invenzione e risponde a leggi associative che la coscienza accetta con difficoltà. Questa valvola dell'inconscio, delle pulsioni e dei desideri che la coscienza rifiuta, rimuove, perché non conformi alle regole culturali della società del momento, ha sempre suscitato il timore e la curiosità degli uomini che, appena ritrovavano la coscienza del risveglio e il controllo dell'ambiente, non ne capivano più il meccanismo.
I linguaggi, mediatori d'obbligo delle relazioni umane, hanno ammantato con la loro logica e la loro giustificazione il costituirsi delle gerarchie di dominanza che, come abbiamo detto, sono fondate sulla ricerca inconscia e individuale del piacere, dell'equilibrio biologico. I dominanti hanno sempre trovato "buone" ragioni per giustificare la dominanza, e i dominati "buone" ragioni per accettarli religiosamente o per rifiutarli con violenza. La filosofia e le scienze umane nel loro insieme si sono basate sull'inganno del linguaggio. Inganno, perché non teneva nessun conto di ciò che guida il discorso, l'inconscio. E quando Freud, e forse qualcun altro prima di lui, l'ha smascherato, come poteva convincere dato che, per definizione, l'inconscio è inconscio? Come ammettere la sua esistenza dal momento che la coscienza copre come per magia tutti i rapporti umani, con la sua splendida chiarezza, con la sua ossatura semplice e solida, con la sua coerenza nei confronti del mondo palpabile, tangibile? Come pensare che questo mondo palpabile e tangibile, o meglio l'esperienza che ne abbiamo, quando è penetrata nel reticolo infinitamente complesso del nostro sistema nervoso, si organizza secondo regole pulsionali, divieti culturali e lì ritrova le nostre costruzioni immaginarie, con pii costruire un mondo diverso, nascosto, ma presente? Un mondo che orienterà il discorso, in modo che esso lo protegga dalle intrusioni degli altri?
Sapendo questo, come si fa a non essere attratti da ciò che convenzionalmente chiamiamo "scientismo", questo tentativo, rimasto a lungo infruttuoso, di scoprire leggi e principi invarianti in grado di aiutarci a uscire dalla solita zuppa dei giudizi di valore? E quando lo scientismo, dopo aver brancolato per secoli, approda infine a fatti costanti, riproducibili, riguardanti l'origine biochimica e neurofisiologica dei nostri comportamenti normali e "anormali", come rifiutare di vedere in esso il primo fecondo legame tra fisica e linguaggio? Come non accorgersi che è indispensabile per una certa idea che ci possiamo fare dell'Uomo?
L'Uomo tutto sommato è, si suppone, il, solo animale che sa di dover morire. Le sue giornaliere lotte competitive, la ricerca del benessere attraverso l'ascesa gerarchica, il lavoro opprimente fatto macchinalmente, gli lasciano poco tempo per pensare alla morte, alla sua morte. Peccato, perché l'angoscia che da questo pensiero è forse la più forte motivazione alla creatività. La creatività non è infatti una ricerca della comprensione, del perché e del come del mondo, e ogni scoperta non ci permette forse di strappare un lembo al sudario della morte? E questo non è forse il modo per capire che colui che si "guadagna" la vita senza di lei, la perde?

Rieccoci al tema dell'angoscia. Come dare un'"idea dell'Uomo", senza parlarne? Credo che finora non abbiamo insistito a sufficienza su questa semplice idea: la funzione fondamentale del sistema nervoso è permetterci di agire. Nell'uomo il fenomeno di coscienza, che è stato evidentemente collegato al funzionamento del sistema nervoso centrale, ha assunto una tale importanza che ciò che convenzionalmente chiamiamo "il pensiero" ha fatto dimenticare le sue cause prime e ha fatto dimenticare che accanto alle sensazioni c'è l'"azione". Essa, lo ripetiamo, è così essenziale che quando è resa impossibile, tutto l'insieme dell'organismo vivente ne soffre, a volte fino a morirne. Questo si osserva sia nel topo che nell'uomo, anzi più spesso nel topo che nell'uomo, perché il topo non ha la possibilità di fuggire nell'immaginazione consolatrice o nella psicosi. Per noi, la causa prima dell'angoscia è l'impossibilità di realizzare l'azione gratificante, e sottrarsi a una sofferenza con la fuga o la lotta è anch'esso un modo di gratificarsi, quindi di sfuggire all'angoscia.
Quali possono essere le ragioni che ci impediscono di agire? La più frequente è il conflitto che si crea nelle nostre vie nervose tra le pulsioni e l'apprendimento della punizione che può procurare soddisfarle. La punizione può venire dall'ambiente fisico, ma ancora più spesso, per l'uomo, dall'ambiente umano, dalla sociocultura.
Le pulsioni sono spesso pulsioni fondamentali, soprattutto sessuali. Possono anche essere il risultato di un apprendimento: la ricerca della dominanza, che permette alle pulsioni fondamentali di esprimersi più facilmente in ambiente sociale, o la ricerca della soddisfazione di un bisogno acquisito, nato dalla sociocultura. Lo stesso avviene quando entra in gioco il sistema inibitore di queste pulsioni, che fa appello sia alle leggi civiche e a coloro che hanno il compito di farle rispettare, sia alle leggi morali imposte da una data cultura. Tutte sono orientate, in modo più o meno mascherato, verso la difesa della proprietà privata, delle cose e degli individui.
Altra fonte di angoscia è il deficit informazionale, l'ignoranza delle conseguenze che può avere
per noi un'azione o di ciò che ci riserva il domani. L'esperienza, l'apprendimento ci hanno reso consapevoli che non tutti gli avvenimenti ci sono propizi. Quando se ne verifica uno di cui non sappiamo ancora niente, di cui non abbiamo nessuna esperienza precedente, esso è spesso fonte di angoscia, perché non sappiamo come comportarci efficacemente nei suoi confronti.
Infine, nell'uomo, l'immaginazione, servendosi dell'esperienza memorizzata, può costruire situazioni tragiche, che forse non si avvereranno mai, ma di cui temiamo il possibile verificarsi. Evidentemente in questo caso è difficile agire in anticipo per proteggersi da un avvenimento improbabile, ancorché temuto. Altra fonte di angoscia da inibizione dell'azione.
L'angoscia della morte può scatenare contemporaneamente tutti questi meccanismi. L'ignoranza di quello che può esserci dopo la morte, l'ignoranza del momento in cui sopraggiungerà, oppure la consapevolezza della sua venuta prossima e inevitabile, senza possibilità di fuga o di lotta, la credenza nella necessità di sottomettersi alle regole morali o culturali per potersi guadagnare l'altra vita, il compito dell'immaginazione alimentata dalla civiltà giudaico-cristiana che tenta di tracciare il quadro dell'altra vita o del passaggio, forse doloroso, dalla vita terrestre al cielo, al niente, al purgatorio o all'inferno, tutto questo fa parte, anche per l'ateo più convinto, nell'oscurità del suo inconscio, nel dedalo delle sue rimozioni, dell'acquisizione culturale. E tutto questo non può trovare soluzione nell'azione, nell'azione protettrice, previdente, gratificante.
Anche spalancando gli occhi, l'Uomo non vede niente. Procede a tentoni vacillando sull'oscura strada della vita che non sa da dove viene né dove va. E' angosciato come il bambino chiuso in una stanza buia. Per questo, religioni, miti, oroscopi, guaritori, profeti, chiaroveggenti, magia e scienza odierna, hanno sempre avuto tanto successo nel corso dei secoli. Grazie a queste cianfrusaglie esoteriche, l'Uomo può agire. O almeno vuole crederlo, per calmare l'angoscia. Ma fin dalla nascita è ammanettato alla morte. E lo sa, pur facendo di tutto per non pensarci: proprio per questo, infatti, siamo soliti considerare Uomini i primati solo dal momento in cui hanno cominciato a seppellire i morti mettendogli intorno oggetti familiari che calmassero la loro angoscia.
La possibilità che ha l'uomo di creare informazione partendo dall'esperienza memorizzata, e plasmarne il mondo fisico, creatività che ha decretato il successo della specie sul pianeta, lo induce a considerarsi soprattutto un produttore. I rapporti sociali sono stati considerati rapporti di produzione. Ma siccome la produzione non è solo limitata ai beni di consumo, e la specie sembra aver sempre creato strutture apparentemente gratuite, anche quando esse venivano riprodotte e introdotte nel circuito delle merci, da tempo le attività umane sono state divise in attività artistiche e tecniche. Oggi si parla di lavoro professionale e di cultura. La cultura è, in linea di massima, ciò che non si vende, un bisogno innato dell'Uomo e che dovrebbe farlo accedere alla sua vera "essenza", quella dell'arte e del pensiero. Proprio questa idea dicotomica dell'Uomo, mezzo produttore mezzo culturale, viene diffusa e imposta in tutte le forme d'ideologia politiche. Perché l'idea di un uomo duplice è tanto attraente, per queste ideologie, di destra o di sinistra?
La prima ragione è che tutte le ideologie di qualsiasi tipo ammettono che l'uomo è soprattutto un mezzo di produzione, perché tutte basano le loro scale gerarchiche sul grado di astrazione raggiunto nell'informazione professionale. Ma, come abbiamo constatato prima, questa attività produttiva infinitamente automatizzata, parcellizzata, costituisce un lavoro poco allettante e una motivazione troppo debole per gli strati più "termodinamici" e più numerosi della società. La quale ha così creduto possibile dare uno sbocco al malessere sociale: la cultura. Siccome la cultura non sembra avere alcun rapporto con le professioni, è stata paragonata agli svaghi, la cui unica utilità è tenere occupata la forza lavoro e farle dimenticare il suo malessere.
La cultura è considerata del resto come espressione dell'uomo nelle sue attività* artistiche e letterarie. Si tratta, secondo il linguaggio corrente, di attività che hanno solo un lontano rapporto col principio di realtà, che hanno preso le loro distanze dall'oggetto, e che quindi consentono all'affettività e all'immaginazione di esprimersi, si dice, liberamente. Sennò diventano attività scientifiche o tecniche.
La cultura esige creatori e consumatori. Cerchiamo di vedere da quali meccanismi sono controllate le due parti del dittico.
Il creatore deve essere motivato a creare. Per far questo deve, in generale, non trovare sufficiente gratificazione nella società a cui appartiene. Deve aver difficoltà a inserirsi in una scala gerarchica basata sulla produzione di beni di consumo. Poiché questa esige, da parte di chi vuole garantirsi la promozione sociale, una certa facoltà di adattamento all'astrazione fisica e matematica, molti, a cui manca questa facoltà di adattamento, disgustati però anche dalla forma "insignificante" che ha preso il lavoro manuale nella nostra epoca, si orientano verso le scienze umane e verso le attività artistiche, "culturali". Ma queste scelte sono meno "remunerative" in una società definita produttiva, e offrono meno numerosi sbocchi. In compenso, essendo praticamente impossibile giudicare il valore dell'opera, poiché il criterio di valutazione è mobile, affettivo, non logico, l'artista dispone di un vasto territorio in cui agire e soprattutto di una possibilità di consolazione narcisistica. Se non è stimato, non esistendo alcun criterio oggettivo valido che dimostri che hanno ragione gli altri, può sempre considerarsi incompreso. Vista sotto questo aspetto la creazione è una vera e propria fuga dalla vita quotidiana, una fuga dalle realtà sociali, dalle scale gerarchiche, una fuga nell'immaginazione. Ma prima di raggiungere il cielo cosparso di stelle dell'immaginazione, la motivazione pulsionale, la ricerca del piacere che non si è potuta inserire in una dominanza gerarchica, deve attraversare lo strato nuvoloso della sociocultura presente. L'artista, fin dal concepimento, è per forza legato a lei nel tempo e nello spazio sociale. La fugge, ma ne rimane più o meno impregnato. Per quanto geniale, appartiene alla sua epoca, ed è la sintesi di coloro che lo hanno preceduto e la reazione alle abitudini culturali da essi imposte. E proprio nella reazione può trovare la sua originalità. Anche se questa è la ragione per cui l'arte può sembrare ambigua ai contemporanei. Il bisogno, che ognuno di noi ha, di essere ammirato, stimato, spinge l'artista all'anticonformismo. Rifiuta il "déjà vu", il "déjà entendu". Questo è il prezzo della creazione e anche il prezzo dell'ammirazione che essa suscita. Ma l'opera originale si discosta allora dai criteri di riferimento con cui di solito viene giudicata e, dato che l'arte deve essere non oggettiva, deve mantener le distanze dalla sensazione, dal mondo della realtà, diventa difficilissimo dare di essa un giudizio immediato. L'arte, come la vendetta, è un piatto da consumare freddo. Solo l'imprevedibile evoluzione del gusto potrà in seguito consacrare il genio.
Evidentemente l'artista, o colui che si ritiene tale, può sempre beneficiare dell'approvazione degli snob, per i quali tutto ciò che non è conforme, è arte. Del resto il comportamento dello snob è molto chiaro. Di per sé sterile, può affermare la sua singolarità solo dimostrando di partecipare a ciò che è singolare. Fa sua la singolarità degli altri e finge di capirla e apprezzarla. Fa così parte di un'accorta élite, in mezzo alla calca volgare e omogenea. Se poi, dall'accoppiamento del non conformista con lo snob, può nascere un sistema commerciale, potranno abbinarsi il successo sociale, temporaneo per fortuna, e l'inserimento dell'artista, o supposto tale, nella scala consumatrice e gerarchica. Questo sarà tanto più facile, in quanto l'esperienza storica dimostra che l'innovatore è quasi sempre incompreso dalla maggior parte dei suoi contemporanei. Di qui a pensare che ogni artista incompreso è un genio creatore, il passo è breve.
E questo passo si fa facilmente nella società cosiddetta liberale in cui tutto ciò che si può vendere, ricorrendo ai più svariati mezzi di intossicazione pubblicitaria, trova la sua ragion d'essere.
L'artista però a volte è abbastanza paranoico da non cercare, e neppure apprezzare, quel successo sociale, quel balsamo narcisistico. Ciò non significa che sia un genio creatore. Non c'è un sistema di riferimento che ci permette di stabilirlo. Tuttavia spesso è psicotico, o poco ci manca. Infatti, la sua motivazione non è più inserirsi in un sistema per trame profitto, materialmente e narcisisticamente. Trova la gratificazione nell'immaginazione e nell'opera che ne viene fuori. Ammetterete che quest'ultima è meno sospetta.
L'analisi motivazionale e comportamentale che abbiamo appena fatto dell'artista è approssimativa, e non si può negare che, nel corso della storia, alcuni geni creatori abbiano trovato uno spazio nella società del loro tempo, e che il consenso storico abbia in seguito confermato l'opinione favorevole dei contemporanei. 6 Perché nell'artista esistono due livelli di astrazione. Il primo si potrebbe interpretare come una fuga dalla realtà non gratificante verso un appagante mondo immaginario. Il secondo, che nasce una volta creata l'opera, è un ritorno, mediato da lei, nella realtà sociale, ritorno che per le ragioni appena dette può avere valutazioni diverse, in quanto dipende dal consumatore. Ma il consumatore non è mai solo. Se escludiamo lo snob, di cui abbiamo già parlato, rappresenta l'espressione di un certo tipo di società, in una data epoca. E qui ritroviamo la cultura e il suo ruolo sociale.
Per molte ragioni, le società della noia hanno bisogno dell'arte e della cultura, che vengono tenute nettamente separate dal lavoro e dalla produzione. Prima di tutto l'uomo definito colto è colui che ha tempo per diventarlo, colui che la professione lascia abbastanza disponibile o la cui vita professionale è inserita nella cultura. In una società commerciale, esser colti significa appartenere a quella parte privilegiata della società che può permettersi di diventarlo. Concedere a coloro che non hanno questa fortuna di partecipare alla cultura è in qualche modo permettergli un'ascesa sociale. E' un modo di gratificarli narcisisticamente, di migliorare il loro livello di vita, di arricchire l'immagine che di sé possono dare agli altri. E' probabile che questo processo derivi direttamente dal rammarico del borghese di non appartenere a un'aristocrazia inutile, non produttiva e colta. Ricordiamoci del Borghese Gentiluomo e dei suoi sforzi per acquisire l'infarinatura culturale legata alle caratteristiche della classe alla quale tenta di accedere. Il Borghese Gentiluomo fa parte di una razza prolifica che si è moltiplicata abbondantemente. Ma nella contestazione di classe, ormai dilagante, essendo interesse della borghesia conservare prima di tutto le prerogative gerarchiche di dominanza e non essendo più queste ultime basate esclusivamente sulla nascita e sul comportamento, ma sulla proprietà delle merci, essa accetta di buon grado di diffondere una cultura, soprattutto se vendibile. Pensa così di calmare il rancore suscitato dalle differenze, pur conservando quelle che le sembrano essenziali, il potere, la dominanza gerarchica. Così si sforza, assecondata dalle masse lavoratoci, di valorizzare la cultura, la "sua" cultura, sempre tenendola ostinatamente separata dall'attività professionale produttiva in cui il suo sistema gerarchico continua a essere intransigente. Sarà bene notare che la società industriale, benché abbia da tempo istituito esami e concorsi per stabilire graduatorie gerarchiche in base a cognizioni professionali, non ha mai fatto niente di simile per la cultura, perché essa è per lei solo uno stuzzichino, incapace di garantire un potere sociale. Non ha dunque bisogno di gerarchie né di controlli delle cognizioni "culturali". Essa spera in tal modo di calmare il malessere, di medicare le piaghe narcisistiche di coloro che non hanno potere, tanto più che, mantenendo una differenza di natura, una differenza fondamentale, tra attività produttiva e attività culturale, si può, in seno a quest'ultima, contestare il sistema gerarchico della dominanza che si è affermata nella prima. I campi sono separati, dunque non c'è da temere che l'espressione dell'immaginazione incida sull'oggettività della realtà sociale. Anche nel caso in cui apparisse possibile questo incontro, bisognerebbe ancora trovare, e riuscire a far funzionare, l'organizzazione sociale che permettesse di passare dai concetti alla pratica. D'altra parte, siccome l'accostamento potrebbe essere pericoloso, quasi sempre viene diffusa una cultura il cui contenuto semantico non sembra avere un'incidenza sociale contestatrice del sistema dominante. Ma qualora avesse questa incidenza, si potrebbe sempre sperare che fosse uno sfogo senza conseguenze. Alcuni psicosociologi non sostengono forse, e con un certo fondamento, che i film di violenza, lungi dal costituire un'incitazione alla violenza per lo spettatore, producono invece una trasformazione biologica analoga alla violenza attiva, senza averne gli inconvenienti? Gli chansonniers non sono mai stati un fattore indispensabile allo scoppio della rivoluzione. E la cultura autorizzata, asettica, pastorizzata non è più pericolosa degli chansonniers per l'ideologia dominante. E' come una valvola di sicurezza che non può scuotere la solida struttura delle dominazioni gerarchiche, perché non si fabbricano soldi a parole. Solo nei paesi in cui il potere gerarchico non è più legato al possesso delle cose, ma al conformismo ideologico, le parole riacquistano importanza, e la cultura, che non è in vendita, non può più permettersi di essere deviante. Nei paesi capitalisti, invece, il sistema, cementato dalla potenza adesiva dei beni di consumo, accetta ogni idea, anche rivoluzionaria, purché possa essere venduta. Per questo non fa che aumentare la coesione del sistema ed è la dimostrazione del liberalismo ideologico della società che la permette.

Ma in realtà la ragione principale, secondo me, del sedicente liberalismo culturale dei paesi occidentali deriva dal fatto che la cultura autorizzata, o addirittura favorita, è un groviglio indescrivibile che permette di infiorare la conversazione con citazioni latine o straniere e di issare sulle drizze le bandiere di riconoscimento della società borghese. E' una cultura per uso esterno, come il bottoncino di metallo che adorna l'occhiello dei membri di un rotary. Facilita, come i gradi, il comportamento altrui nei confronti del livello gerarchico che abbiamo raggiunto, oppure permette, se la vita non ci è stata propizia, di mantenere la nostra appartenenza, pur senza avere un'attività produttiva ricompensata dalla promozione sociale.
Tale è il disordine di questa cultura che essa non può costituire nessun pericolo per un sistema socioeconomico. E' una cultura senza struttura, spezzettata e ognuno può scegliere nel magazzino culturale i pezzi che sembrano adattarsi meglio alla sua gratificazione, secondo l'apprendimento di vita sociale che gli è proprio. In queste condizioni, difficilmente corre il rischio di incontrare contraddizioni reali, generatrici di angoscia e di creatività.
Questa cultura, infine, è un cumulo di giudizi di valore. E come potrebbe essere diversamente, se i meccanismi che mettono l'uomo in grado di vedere, di sentire, di pensare, la chiave dei suoi comportamenti di attrazione o di repulsione, di quelle che vengono chiamate le sue scelte, gli è stata nascosta fin dall'infanzia sotto il guanciale e non gli è mai capitato di rifarsi la culla, perché è compito della madre?
Finché gli uomini ignoreranno che niente nell'umana aderenza al mondo, niente di ciò che si accumula nel loro sistema nervoso è isolato, separato dal resto, che tutto si collega, si organizza, si informa in lui, obbedendo a leggi rigorose, la maggior parte delle quali non sono ancora state scoperte, accetteranno la distinzione tra uomo che produce e uomo di cultura. Anche questa divisione è un fenomeno culturale, come credere nello spirito e nella materia, nel bene e nel male, nel bello e nel brutto, ecc. E tuttavia le cose si limitano a essere. E' l'uomo che le analizza, le separa, le suddivide, e mai disinteressatamente. All'inizio, di fronte all'apparente caos del mondo, ha classificato, costruito i cassetti, i capitoli, gli scaffali. Ha introdotto il suo ordine nella natura per agire. E dopo ha creduto che quello fosse l'ordine della natura, senza accorgersi che era il suo, che era stato stabilito secondo i suoi criteri e che quei criteri provenivano dall'attività funzionale del sistema che gli permetteva di entrare in contatto col mondo: il sistema nervoso.
L'uomo primitivo aveva la cultura della pietra scheggiata che lo univa, oscuramente ma completamente, al cosmo. L'operaio di oggi non ha neppure la cultura del cuscinetto a sfera che costruisce con gesti automatici, tramite una macchina. E per ritrovare il cosmo, per sentirsi parte della natura deve avvicinarsi alle finestrine che l'ideologia dominante accetta di aprire qua e là, nella sua prigione sociale, per fargli arrivare l'aria fresca E' un'aria avvelenata dai gas di scappamento della società industriale, eppure quest'aria viene chiamata Cultura. 


L'INFANZIA

Quando nasce, il bambino non sa di esistere, lo saprà solo molto più tardi, dopo che avrà costituito il suo "schema corporeo". Nel frattempo, si accontenta di essere quello che taluni psichiatri chiamano l'"io-tutto"" che non si differenzia dal mondo che lo circonda. Per differenziarsi, per bisogno di agire, ed è probabilmente questa la ragione per cui il cucciolo dell'Uomo, che agisce così tardi sull'ambiente circostante, costituisce lentamente il suo schema corporeo: non può riuscirci, senza che prima il tatto gli permetta di delimitarsi nello spazio. Sentendo con la punta delle dita il contatto di una parte del corpo che sentirà a sua volta il contatto delle dita, egli avrà la percezione di un circuito chiuso su se stesso, mentre la sensazione rimarrà aperta quando il corpo entrerà in contatto col mondo circostante. Occorre che, agendo sugli oggetti, egli riunisca nel sistema nervoso gli influssi sensori che vi giungono attraverso canali diversi (tatto, vista, udito, odorato, ecc), ma provenendo da uno stesso oggetto, cosa che potrà scoprire attraverso l'azione su tale oggetto. Si tratta di riflessi condizionati di primo grado poiché associano nel sistema nervoso infantile segnali di diversa origine sensoria.
Tuttavia, questo sistema nervoso, per quanto ancora immaturo, possiede già una struttura pulsionale che corrisponde ai bisogni fondamentali, e una struttura che permette l'apprendimento degli automatismi imposti dall'ambiente (in altre parole, che è capace di memoria a lungo termine). Certo, le zone associative corticali non possono ancora servir molto al neonato, perché non avendo egli ancora memorizzato quasi niente, non ha quasi niente da associare.
Le strutture pulsionali lo avvertono dello stato di benessere o di sofferenza dell'organismo: per esempio reagirà strillando alla mancanza di alimentazione. I suoi strilli verranno presto tacitati dalla sollecitudine della madre o della persona che appagherà le sue necessità alimentari. Non sapendo ancora di esistere in un ambiente diverso da sé, memorizza, col ritorno del benessere, le altre stimolazioni sensorie associate all'appagamento della fame: l'odore della madre, la voce della madre, il calore, il volto della madre. Si tratta probabilmente in questo caso di un processo analogo a quello dell'"imprinting" descritto da K. Lorenz nelle sue oche. In poche parole, alcuni riflessi condizionati stabiliscono il rapporto tra una ricompensa, l'appagamento di un bisogno fondamentale, e gli stimoli sensori di origine esterna che l'accompagnano.
Quando, verso l'ottavo o il decimo mese, la sua azione progressiva sull'ambiente gli farà prender coscienza di esistere come qualcosa di distinto dall'ambiente che lo circonda, scoprirà la madre, fonte, fino a quel momento, di ogni ricompensa. Quando -poi, più tardi, scoprirà che quell'oggetto gratificante non appartiene solo a lui, ma anche al padre, ai fratelli e alle sorelle, allora capirà a un tratto che può perdere una parte della sua gratificazione e scoprirà l'edipo, la gelosia e l'amore infelice.
Scoprirà anche molto presto che sottomettersi agli automatismi semplici che gli altri cercano di introdurre nel suo sistema nervoso, riguardo all'alimentazione al controllo degli sfinteri, è oggetto di ricompensa da parte dei genitori. Costoro lo incoraggeranno e loderanno se vi si sottomette, lo puniranno in caso contrario. Egli si servirà dunque del non conformismo come di un mezzo di punizione nei confronti dei genitori e subito si formerà tra lui e l'ambiente che lo circonda una complessa rete di interazioni.
Abbiamo detto che alla nascita il suo cervello è immaturo. Questo significa in particolare che non sono ancora formate tutte le connessioni tra i neuroni, le connessioni "sinattiche". Il sistema nervoso ha una plasticità che gli permette di adattarsi alla ricchezza di informazioni dell'ambiente circostante. E' dimostrato che dei gattini chiusi fin dalla nascita in uno spazio chiuso con le pareti a righe verticali nere, non possono più, dopo alcune settimane, "vedere" righe orizzontali, e viceversa. Gli animali messi fin dalla nascita in un ambiente per così dire "arricchito", cioè occupato da svariati oggetti, saranno capaci da adulti di prestazioni molto più complesse dei soggetti tenuti in un ambiente banalizzato. Numerosi e svariati esperimenti mostrano tutta l'importanza dell'ambiente originario nella formazione del sistema nervoso. Nessun biologo può oggi stabilire con esattezza il limite tra ciò che è innato e ciò che è acquisito nel comportamento umano. Ma se ammettiamo che il sistema nervoso, come tutte le caratteristiche biologiche, si inscrive probabilmente in una curva di Gauss, ciò significa che la maggior parte delle sue strutture originarie sono molto simili e che in esso, fin dalla vita intrauterina, l'influenza dell'ambiente è con ogni probabilità preponderante.
Ma allora bisogna precisare bene che cosa si intende per formazione del sistema nervoso, cioè, in sostanza, per sistema educativo. Gli ambienti sociali possono essere diversissimi e tra un bambino nato in una bidonville di Nanterre e uno nato in una famiglia borghese della sedicesima circoscrizione di Parigi ci sono pochi punti in comune. L'influenza dell'ambiente, nell'un caso e nell'altro creerà quasi sempre automatismi di comportamento, di giudizio, di pensiero e così via, ma solo automatismi. Quelli acquisiti nell'ambiente borghese saranno propizi generalmente a un'ascesa gerarchica che passa quasi sempre attraverso l'Università. A coloro a cui vengono inculcati, forniranno un linguaggio, un atteggiamento, abitudini, giudizi conformi alla struttura gerarchica di dominanza, la quale però di solito non favorisce la creatività, l'originalità di pensiero. E' senz'altro questo conformismo, percepito vagamente come uniformante, che spinge verso un altro conformismo, lo snobismo, ritenuto a torto meno livellatore, più individualizzante.
Il bambino è quasi sempre la completa espressione del suo ambiente anche quando ha un atteggiamento di rivolta, perché allora ne rappresenta l'altra faccia, quella contestatrice. In ogni caso si comporta secondo gli automatismi che gli sono stati imposti. Come può del resto comportarsi un qualunque gruppo sociale che vuoi sopravvivere, se non mantenendo la propria struttura o tentando di appropriarsi di quella che gli sembra più vantaggiosa? Come può un certo gruppo sociale "allevare" i figli se non nel conformismo o nel conformismo-anti?
Sennonché, muovendo dall'esperienza umana di un'epoca, non si può fare qualcosa di meglio che riprodurre schemi antecedenti? Ma come fa l'adulto a liberarsene, se tutta l'educazione ha mirato ad alimentare il suo sistema nervoso di meravigliose certezze non lasciando alcuna indipendenza di funzionamento alle zone associative del cervello? L'educazione alla creatività esige innanzi tutto l'ammissione che non vi sono certezze o almeno che esse sono sempre temporanee, efficaci a un dato istante dell'evoluzione, ma che si devono continuamente riscoprire col solo scopo di abbandonarle appena si sia potuto dimostrare il loro valore operativo. L'educazione che ho chiamato "relativista" mi sembra l'unica degna del cucciolo dell'Uomo. Certo, non è "proficua" sul piano della promozione sociale, ma Rimbaud, Van Gogh o Einstein, per citare solo alcuni che oggi vengono riconosciuti geniali, hanno mai mirato alla promozione sociale? Questa educazione favorirebbe lo sviluppo dell'individualità, e ciò andrebbe a tutto vantaggio della collettività che sarebbe così formata da individui senza uniforme. Penso anche che solo questa educazione potrebbe portare alla tolleranza, perché intolleranza e settarismo sono sempre dovuti all'ignoranza e alla sottomissione incondizionata agli automatismi più primitivi, elevati al rango di etiche, di valori eterni e indiscutibili.
La nozione di relatività dei giudizi porta all'angoscia, è vero. E più semplice avere a nostra disposizione, quando si deve agire, una strategia già pronta, o le istruzioni per l'uso. Le nostre società che esaltano tanto spesso, almeno a parole, la responsabilità, si industriano di non lasciarne affatto all'individuo, per paura che agisca in modo non conforme alla struttura gerarchica di dominanza. E il bambino, per sfuggire all'angoscia, per rassicurarsi, cerca l'autorità delle regole imposte dai genitori. Da adulto farà lo stesso con l'autorità imposta dalla sociocultura in cui è inserito. Si aggrapperà ai giudizi di valore di un gruppo sociale, come un naufrago si aggrappa disperatamente alla ciambella di salvataggio.
Un'educazione relativista non cercherebbe di eludere la sociocultura, ma le restituirebbe la sua giusta dimensione: quella di un modo imperfetto, temporaneo, di vivere in società. Lascerebbe all'immaginazione la possibilità di trovare altri modi, e nella combinato ria concettuale che potrebbe risultarne l'evoluzione delle strutture sociali potrebbe forse accelerarsi, come la combinatoria genetica rende possibile l'evoluzione di una specie. Ma questa evoluzione sociale è appunto il terrore del conservatorismo, perché è il fermento capace di rimettere in discussione i vantaggi acquisiti. E' meglio allora procurare al bambino una "buona" educazione capace innanzi tutto di permettergli una rispettabile "carriera" professionale. Gli insegnano a "servire", in altri termini gli insegnano la servitù nei confronti delle strutture gerarchiche di dominanza. Gli fanno credere che agisce per il bene della comunità, una comunità istituzionalizzata gerarchicamente che lo ricompensa di ogni sforzo compiuto verso la servitù all'istituzione. La servitù diventa allora gratificante. L'individuo è convinto della propria dedizione, del proprio altruismo mentre agisce solo per il proprio appagamento, un appagamento però deformato dal fatto di aver assimilato i dettami della sociocultura.
Col passare degli anni, con tutto quello che ho imparato dalla vita, con l'esperienza che ho di persone e di cose, ma soprattutto grazie al mio mestiere che mi ha messo in grado di conoscere l'essenziale di quanto oggi sappiamo sulla biologia dei comportamenti, sono spaventato dagli automatismi che è possibile inculcare nel sistema nervoso di un bambino. Dovrà avere, nella vita adulta, una eccezionale fortuna per evadere da questa prigione, e chissà se ci riuscirà... E se in seguito i suoi giudizi lo porteranno a respingere con violenza tali automatismi, molto spesso questo avverrà perché un altro discorso logico corrisponderà meglio alle sue pulsioni e offrirà un contesto più favorevole alla sua gratificazione. I suoi giudizi, sebbene antitetici a quelli che gli sono stati inculcati in origine, rimarranno la loro conseguenza diretta. Saranno ancora giudizi di valore.
Egli ci aveva garbatamente avvertito che se volevamo accedere al suo regno, dovevamo essere come bambini. Le sue parole sono diventate un brodo sciropposo in cui sguazzano un infantilismo rinfrollito, un paternalismo puerile, un'arte sdolcinata, un linguaggio grottesco, una caricatura d'affettività. Perché il suo regno non era di questo mondo, era del mondo dell'immaginazione, del mondo dei bambini. Era la pagina immacolata su cui non erano ancora stati vergati i graffiti eprimenti i pregiudizi sociali e i luoghi comuni di un'epoca. Era il mondo del desiderio e non quello degli automatismi, il mondo della creatività e non quello del lavoro o della lezione imparata a memoria. Quello che potrebbe essere il mondo degli Uomini e dei gigli dei campi. Noi gli abbiamo preferito quello di Cesare e del denaro, quello della dominanza e della merce. Gli abbiamo preferito il mondo della "cultura" perché essa non è, in fin dei conti, che l'insieme dei pregiudizi e dei luoghi comuni di un gruppo umano e di un'epoca. Il bambino è incolto, e questa è la sua fortuna. E' energia potenziale e non cinetica, omogeneizzata. Sin dal suo ingresso nella vita le sue potenzialità via via si attuano, si fissano in comportamenti conformi, invase dall'entropia concettuale, incapaci di risalire alle origini, di risalire il corso del tempo e dell'apprendimento. E mentre il terreno vergine dell'infanzia potrebbe far spuntare un bel paesaggio in cui flora e fauna si armonizzano spontaneamente in un sistema ecologico di adattamenti reciproci, l'adulto si preoccupa soprattutto di "coltivarlo", anzi di farne oggetto di una "monocultura" con solchi ben tracciati, dove il grano non si mischi mai col rabarbaro, la colza con la barbabietola, ma dove trattori e betoniere dell'ideologia dominante (o del suo contrario) fissino, una volta per tutte, lo spazio interno.

A ogni modo, se vi imbattete in qualcuno che sostiene di sapere come si debbono allevare i bambini, vi consiglio di non affidargli i vostri. I genitori, almeno a parole, a livello cosciente, desiderano soprattutto che i figli siano felici. Dovremo tornare in seguito sulla nozione di felicità, perché è difficile prevedere che cosa occorra fare per preparare ai bambini una vita felice, senza aver prima stabilito dove si nasconda ciò che viene chiamata felicità. Ci limiteremo dunque a sottolineare che nella stragrande maggioranza dei casi i genitori decidono in anticipo, da adulti esperti della vita, ciò che deve essere insegnato al bambino perché maggiori siano in seguito le sue possibilità di essere felice. Sanno, o credono di sapere, che la felicità sia in funzione del livello raggiunto nella scala gerarchica, che dipenda dalla promozione sociale. Dunque prestissimo il bambino deve entrare in lizza. Deve essere il primo della classe, un alunno modello, fare i compiti, imparare le lezioni miranti a dargli il più presto possibile una formazione professionale. Quanto più alto sarà il grado di astrazione da lui raggiunto, quante più possibilità avrà di integrarsi nel processo di produzione della merce al livello dell'invenzione, del controllo, della gestione delle macchine (le sole capaci di produrre molti oggetti in poco tempo), o nella protezione, legale o armata, della proprietà privata e tanto più godrà di una promozione sociale, garanzia di felicità. Certo, "'prima di tutto ci vuole la salute", tanto più che senza la salute non c'è forza lavorativa efficace. Donde l'importanza che viene data, secondo le scale gerarchiche, beninteso, a ogni attività riguardante l'igiene e la sanità.
Così l'uomo della società industriale insegnerà ai figli a salire i gradini della scala gerarchica, soprattutto quando ha sofferto per essersi dovuto sottomettere alla gerarchia e quando ha dovuto accontentarsi di un gradino molto basso. E' facile per un figlio della borghesia, cioè per un borghese, criticare questo comportamento, dal momento che tutto l'ambiente circostante gli ha facilitato l'accesso a un potere relativo. Nondimeno, la mancanza di indipendenza economica in una società tutta organizzata in base al valore economico degli individui può essere considerata un fattore negativo per la felicità. Come considerare se stessi con una certa tenerezza, se gli altri ci valutano solo attraverso il prisma deformante della nostra ascesa sociale e tale ascesa si è arrestata ai primi gradini? Come si può parlare di eguaglianza quando il potere, che crea ineguaglianze di ogni genere, si ottiene grazie all'efficacia nella produzione, gestione e vendita delle merci?
Così, se i genitori sono convinti che la felicità si raggiunga sottomettendosi alle regole dettate dalla struttura socioeconomica, è comprensibile che impongano ai figli l'acquisizione coercitiva degli automatismi (di pensiero, di giudizio e di azione) conformi a questa struttura. Ma se pensano che la felicità sia una faccenda personale, che l'equilibrio biologico si raggiunga grazie a se stessi e non grazie alla struttura socioeconomica del momento e del luogo, saranno probabilmente, per l'insieme sociale, cattivi educatori, ma saranno considerati bravi genitori dai figli, purché questi ultimi non vengano poi risucchiati dal conformismo a un punto tale da rimproverare i genitori di non averglielo imposto.
E poi, perché mai i genitori dovrebbero essere i più adatti a garantire questa educazione? La sicurezza e l'affetto di cui ha bisogno il bambino non sono un loro privilegio esclusivo. Nel tipo di famiglia patriarcale com'è stata la nostra fino a oggi, l'affetto e la sicurezza derivavano molto spesso dal narcisismo paterno e materno, dal bisogno dei genitori di eludere la morte attraverso la progenitura, dal bisogno di raggiungere attraverso i figli il successo sociale che non erano riusciti a ottenere loro stessi. L'amore per il figlio dipendeva molto spesso da questo successo. Si era fieri di lui quando aveva superato un altro grado di quella gerarchia che non era riuscito a raggiungere chi lo aveva generato. Tutto, in questo tipo di famiglia, era costruito intorno alla proprietà di cose e di persone e alla sua trasmissione ereditaria.
Ebbene, è facile immaginare che possa essere il gruppo sociale nel suo insieme, e non più il gruppo familiare, ad assicurare la protezione e l'educazione del bambino, il quale potrebbe trovare nel gruppo sociale altrettanta sicurezza e affetto, col vantaggio che l'affetto non sarebbe legato a un individualismo parentale che molto spesso esprime un' autoammirazione per interposta generazione. Purtroppo sembra che l'esperimento fatto nei kibbutzim israeliani, molto incoraggiante sotto certi aspetti, lo sia stato meno sotto altri. Almeno finora, quindi, neppure il gruppo sociale è stato capace di non imporre al bambino una struttura conformista. Anzi, ci potremmo chiedere se l'individualismo familiare non sia più polimorfo e più attraente del collettivismo del gruppo. Anche la rivolta contro il padre è più facile, dato che il padre è unico e non collettivo. In seguito la combinatoria concettuale che risulta da un raggruppamento di individui cresciuti in nicchie diverse, anche se tutte sottomesse all'ideologia dominante, potrà senz'altro generare più conflitti, ma anche più creatività, di quella che risulta da individui provenienti dalla stessa nicchia ambientale collettivizzata. Sicché in definitiva possiamo riassumere il compito dell'adulto* affermando che deve favorire nel bambino la coscienza di se stesso e dei rapporti (non solo di produzione) con gli altri, la conoscenza di (e l'interesse per) questi rapporti sotto ogni aspetto (biologico, psicologico, sociologico, economico, in una parola, politico), l'immaginazione per crearne continuamente di nuovi che si adattino meglio all'evoluzione della biosfera o dell'ecologia umana, senza però dimenticare che i mezzi di cui servirsi per raggiungere questo scopo non sono ancora, e c'è da sperare che non siano mai, codificati.
Con la lucida consapevolezza di ciò che siamo è comunque tragico pensare che l'educazione del bambino sia affidata agli adulti, non vi pare? E' la ragione del progresso tecnico, evidentemente. Ma anche quella della riproduzione, attraverso i millenni, dei comportamenti sociali più primitivi, e di rendere istituzionale l'appropriazione indebita. In questa fiera della rapacità potete insegnare ai vostri figli a mostrare i bicipiti, il torso nudo, in una posa tale da far colpo sulla folla. Altrimenti il loro spazio gratificante sarà particolarmente angusto. Forse tenteranno di fuggire. Ma come? Prenderanno la strada della droga o dell'alcool, tossico virile per eccellenza, o quella della nevrosi o dell'aggressività individuale o collettiva? Con un po' di fortuna potrebbero imboccare quella dell'immaginazione creativa. A ogni modo non potete farci molto. Prima di preparare i figli alla felicità, cercate, se potete, di non contribuire a fare la loro infelicità. E l'augurio che vi faccio, difficile da ottenere a meno che, la vostra morte precoce non offra loro l'occasione di trasformarvi in un mito da poter plasmare a loro piacimento.


GLI ALTRI

Sappiamo adesso che il sistema nervoso vergine del bambino, se tenuto lontano da ogni contatto umano, non diventerà mai un sistema nervoso umano. Non basta possedere la struttura iniziale, bisogna che essa venga plasmata dal contatto con gli altri, che essi penetrino in noi, grazie alla memoria che ne abbiamo, e che la loro umanità formi la nostra. Umanità accumulata nel corso dei tempi e attualizzata in noi.
Ma gli altri sono anche coloro che occupano lo stesso spazio, che desiderano gli stessi oggetti o gli stessi esseri gratificanti, e il cui progetto fondamentale, sopravvivere, si oppone al nostro. Sappiamo ora che tutto questo è alla base delle gerarchie di dominanza. Gli altri sono anche coloro insieme ai quali ci si sente più forti, meno vulnerabili. Per stare uniti, come le cellule originate dalla stessa matrice, il legame familiare non fu sempre, fin dall'origine, il più immediato, il più evidente, il più semplice? Da esso è nato il clan primitivo che ha sfruttato la nicchia ecologica molto più efficacemente di quanto avrebbe potuto fare l'individuo isolato. L'individuo, la cui ragione d'essere era la stessa di quella del clan, sopravvivere, si sentiva parte integrante di esso, si viveva forse più come membro di un insieme che come individuo. Si può anche pensare che la proprietà venisse sentita più come quella del clan, contenuto di uno spazio necessario alla sopravvivenza, che non come la proprietà di ogni membro del clan (la cui somma complessiva avrebbe costituito la proprietà del gruppo). Esistevano certamente gerarchie e dominanze come esistono nella società animale, ma esse si basavano verosimilmente sulla forza. Riassumendo, l'assenza di divisione del lavoro, l'identica finalità dell'individuo e del gruppo, davano all'uomo primitivo una concezione dell'altro che noi oggi stentiamo a immaginare. Dal momento in cui l'informazione tecnica ha cominciato a servire di base per stabilire le gerarchie, e la finalità dell'individuo ha cominciato a dissociarsi da quella del gruppo, l'affermazione della dominanza individuale ha prevalso sulla sopravvivenza del gruppo e ha fatto la sua comparsa un forsennato individualismo, in pieno rigoglio ai giorni nostri. Le società povere hanno verosimilmente una coscienza di gruppo più sviluppata delle società opulente. A meno che non siano povere al punto che la migliore possibilità di sopravvivenza sia un "si salvi chi può" individuale, come nel recente caso degli Iks, di cui Colin Turnbull ha raccontato la triste storia, 7 a riprova di come tutto ciò che l'uomo fa abbia un'origine socioculturale e di come tutto dunque possa essere imparato, trasformato, automatizzato. Rimane da chiedersi: a beneficio di chi, per mantenere quale struttura? Ricompare la coscienza di gruppo quando esso è indotto a difendere il proprio territorio dall'invasione di un gruppo antagonista. Allora c'è un'unità sacrosanta. Purtroppo non si difende un territorio vuoto, perché in realtà non viene difeso il territorio, ma il complesso insieme formato da questo e da coloro che lo abitano. Il gruppo difende la propria sopravvivenza in un certo territorio, ma un gruppo è una struttura organizzata. Abbiamo già parlato dell'ideale di "patria". Questa parola esprime l'insieme formato dal quadro ecologico e dal gruppo che lo occupa. Per l'individuo motivato, animato da questa parola, gli altri, i compatrioti, sono coloro che parlano generalmente la stessa lingua, che hanno la stessa storia (anche se, questa storia, il patriota spesso non la conosce bene), gli stessi interessi da difendere. Ma quando una società multinazionale si impadronisce di industrie essenziali alla vita nazionale sul territorio nazionale, si devono mobilitare gli eserciti contro di lei e il cittadino deve pensare che il "suo" territorio è invaso dall'altro? Appare chiaro, in altri termini, che ciò che viene difeso nell'"unità sacrosanta", nella guerra "definita giusta (tutte le guerre lo sono), è prima di tutto una struttura sociale gerarchica di dominanza. Quasi sempre sono guerre tra dominanti i quali spingono il popolo a difendere la loro dominanza, con un discorso logico e convincente. Non si è visto, qualche anno fa, il vescovo cattolico di New York, fare in Vietnam il giro delle mense esortando i G.I. a uccidere quanti più vietcong potevano, perché così facendo avrebbero difeso la civiltà giudaico-cristiana? Era consapevole, lo sciagurato, che per diventare vescovo doveva essere stato animato da un eccezionale bisogno di dominio, in un sistema gerarchico che lo aveva ricompensato della sua sottomissione? Aveva mai sentito il desiderio di essere un prete di campagna, o un prete operaio? In quanto alla sua civiltà giudaico-cristiana, la guerra del Vietnam ne ha dato proprio un bell'esempio!

Dunque senza gli altri non siamo niente, e tuttavia gli altri sono i nemici, gli invasori del nostro territorio gratificante, i concorrenti nell'appropriarsi di oggetti e di esseri. A volte, ingannando grossolanamente l'individuo, si riesce, in periodi di crisi, a persuaderlo che sta difendendo l'interesse del gruppo e sta sacrificandosi per un insieme, mentre egli in realtà sacrifica la vita per difendere un sistema gerarchico, dato che quell'insieme è già organizzato in una gerarchia di dominanza. Il gruppo, insomma, costituendo un sistema chiuso, si trova a competere con sistemi chiusi costituiti da altri gruppi corporativi, funzionali (di classe), nazionali, eccetera, e un discorso logico trova sempre un alibi indiscutibile per giustificare l'uccisione dell'altro o la sua sottomissione.
E non si cambierà certo qualcosa a questa situazione predicando l'amore. Abbiamo già detto che cosa ne pensiamo. Da millenni, ogni tanto, qualcuno parla dell'amore che deve salvare il mondo. E' una parola in contraddizione con l'attività del sistema nervoso in situazione sociale. Viene pronunciata solo da dominanti a cui il benessere da un senso di colpa e che sentono l'odio dei dominati, oppure da dominati che si sono rotti le ossa contro la fredda indifferenza dei dominanti. Non c'è un'area cerebrale dell'amore. Peccato. C'è solo un fascio di nervi del piacere, un fascio di nervi della reazione aggressiva, o della fuga davanti alla punizione o al dolore, e un sistema inibitore dell'azione motrice quando quest'ultima si è rivelata inefficace. E l'inibizione globale di tutti quei meccanismi sfocia non nell'amore, bensì nell'indifferenza.
L'unica soluzione possibile sarebbe ricuperare il comportamento originario, cioè far coincidere la finalità individuale con quella del gruppo. Ma il gruppo ormai ha assunto una dimensione planetaria e si chiama specie. Ogni finalità individuale, conforme all'interesse di un sistema chiuso, quello di un qualsiasi gruppo, può portare solo alla distruzione, alla negazione, alla sparizione del gruppo antagonista. E i buoni sentimenti non serviranno a nulla.
"Perché interessarsi tanto della specie"? Non si tratta di un atteggiamento idealista, di una scappatoia che permette di disinteressarsi del "prossimo" considerando gli altri secondo una prospettiva cosmica che non impegna a niente per il momento? Una fuga dalla vita quotidiana verso un mondo immaginario gratificante e irrealizzabile? Che cosa può importarci l'avvenire della specie, se noi non ci parteciperemo? In realtà ognuno di noi partecipa a questo avvenire, anzi, se non l'immaginiamo, l'avvenire non ci sarà. Ci sarà solo un perenne ritorno al passato, che si trasformerà subendo le implacabili leggi della necessità. Affettivamente, me ne infischio dell'avvenire della specie, è vero. Se vengono a dirmi che dovrei augurarmi un mondo diverso per i miei figli e i figli dei miei figli e che questo sarebbe "bello" da parte mia, rispondo che questa sarebbe solo l'espressione del mio narcisismo, del bisogno di proiettarmi nel futuro, di barare con la morte, attraverso una discendenza che mi interessa solo perché l'ho generata. Non è meglio allora rimanere celibi, non riprodursi piuttosto che limitare "gli altri" a una minuscola frazione di noi stessi che presto si mescolerà agli altri e diventerà indistinguibile? Siamo così interessanti da dover infliggere la nostra presenza al mondo futuro attraverso la nostra progenitura? Da quando ho capito tutto questo, niente mi rattrista più del narcisistico attaccamento degli uomini alle poche molecole d'acido deossiribonucleico uscite un giorno dai loro organi genitali.
No, non credo che l'interesse per la specie derivi da un idealismo di gran cuore, da un umanesimo generoso soprattutto verso noi stessi, come non credo che rappresenti una facile soluzione perché non procura nessun vantaggio, contrariamente all'interesse per un sottogruppo dominante. Deriva invece da una costruzione logica, da una evidenza spoglia di ogni affettività. Fa semplicemente parte dei mezzi che una struttura può utilizzare per sopravvivere, senza sapere se sia "bene" o "male" che sopravviva, e, senza sapere nemmeno se riuscirà a sopravvivere. Sono d'accordo però che si tratta ancora una volta di sottomettersi a una pressione di necessità, e che è al livello di coscienza raggiunto dall'uomo in un certo momento storico. Si tratta cioè di una pressione di necessità commisurata ai suoi lobi associativi, orbito-frontali. Non è più quella delle specie che ci hanno preceduto e che non hanno la coscienza di specie. 
LA LIBERTA'

Nel corso delle numerose conferenze che ho fatto, mi sono reso conto che parlare di assenza di libertà umana sconvolge sempre l'uditorio, che sembra non afferrare il concetto qualunque sia la sua struttura sociale. La nozione di libertà è confusa perché non si precisa mai in che cosa consista la libertà di cui si parla, che rimane così un concetto vago e affrontato passionalmente. Ammettere che là libertà umana non esiste è difficile, perché provoca il crollo di tutto un mondo di giudizi di valore senza i quali la maggioranza degli individui rimane disorientata. Assenza di libertà vuoi dire assenza di responsabilità, e quest'ultima significa a sua volta assenza di merito, negazione del suo riconoscimento sociale, crollo delle gerarchie. Pur di non perdere il quadro concettuale in cui si è sviluppato il narcisismo, dalla nascita in poi, la maggior parte degli individui preferisce addirittura rifiutare di discutere l'argomento. Si ammette che la libertà sia "un dato immediato della coscienza". Ebbene, noi "chiamiamo libertà la possibilità di realizzare atti che ci gratificano, di realizzare il nostro progetto, senza scontrarsi col progetto altrui. Ma lo spazio gratificante non è libero". Anzi è completamente determinato. Per agire, bisogna essere motivati e sappiamo che la motivazione, quasi sempre inconscia, viene da una pulsione endogena, o da un automatismo acquisito, e cerca solo la soddisfazione, il mantenimento dell'equilibrio biologico, della struttura organica. L'assenza di libertà è dunque il risultato dell'antagonismo di due determinismi comportamentali e della predominanza di uno sull'altro. In un insieme sociale, si potrebbe ottenere l'ingannevole sensazione di essere liberi, facendo in modo che, grazie agli automatismi culturali, il determinismo comportamentale di ogni individuo avesse la stessa finalità, ossia facendo in modo che la programmazione di ogni individuo avesse lo stesso scopo, ma posto al di fuori di lui. Anche questa sarebbe solo apparenza, perché in realtà l'individuo agirebbe ancora nel proprio interesse, per evitare la punizione sociale o meritare la ricompensa, in definitiva per gratificarsi. Ciò è possibile in periodo di crisi, in qualunque regime socioeconomico, cioè in un sistema gerarchico di dominanza.
L'ingannevole sensazione di libertà si spiega col fatto che generalmente ciò che condiziona la nostra azione appartiene alla sfera dell'inconscio, mentre il discorso logico appartiene alla sfera della coscienza. E il discorso ci permette di credere alla libertà di scelta. Ma come fa una scelta a essere libera, se siamo inconsapevoli dei motivi di tale scelta, e come si fa a credere all'esistenza dell'inconscio, che per definizione è, appunto, inconscio? Come si fa a diventare coscienti delle pulsioni primitive, trasformate e controllate dagli automatismi socioculturali, quando questi ultimi, puri giudizi di valore di una data società in una determinata epoca, sono innalzati al rango di etica, di principi fondamentali, di leggi universali, mentre sono solo strategie messe in atto da una struttura sociale di dominanza allo scopo di perpetuarsi, di sopravvivere? Le società liberali sono riuscite a convincere l'individuo che la libertà consiste nell'obbedienza alle regole delle gerarchie del momento, e nell'istituzionalizzazione delle regole da rispettare per salire di grado in queste gerarchie.
I paesi socialisti sono riusciti a convincere l'individuo che sarebbe diventato libero quando fosse stata soppressa la proprietà privata dei mezzi di produzione e di scambio ed egli non avesse più dovuto alienare la sua forza di lavoro al capitale, mentre in realtà egli rimane imprigionato come prima in un sistema gerarchico di dominanza.
L'ingannevole sensazione di libertà deriva anche dal fatto che il meccanismo dei nostri comportamenti sociali è entrato da poco a far parte delle conoscenze scientifiche, sperimentali, e questi meccanismi sono così complessi, e i fattori che li compongono sono così numerosi nella storia del sistema nervoso di un essere umano, che il loro determinismo sembra inconcepibile. Così il termine "libertà" non si oppone al termine "determinismo", perché si pensa al determinismo del principio di causalità lineare, il principio di causa-effetto. Per fortuna i fatti biologici ci fanno penetrare in un mondo in cui lo studio dei sistemi, dei livelli di organizzazione, delle retroazioni, dei servomeccanismi, rende questo tipo di causalità desueto e senza alcun valore operativo. Ciò non significa che un comportamento sia libero. Semplicemente i fattori in causa sono troppo numerosi, i meccanismi in gioco troppo complessi, perché esso sia prevedibile in tutti i casi. Ma le regole generali che abbiamo esaminato prima schematicamente ci permettono di capire che i comportamenti sono programmati interamente dalla struttura innata del sistema nervoso e dall'esperienza socioculturale.
Come essere liberi quando un'implacabile falsariga esplicativa ci impedisce di concepire il mondo in modo diverso da quello imposto dagli automatismi socioculturali che essa comanda? Quando la sedicente scelta dell'uno o dell'altro deriva dalle pulsioni istintive, dalla ricerca del piacere attraverso la dominanza e dagli automatismi socioculturali determinati dalla nicchia ambientale? Come essere liberi quando sappiamo che nel nostro sistema nervoso ci sono solo, interiorizzati, i rapporti con gli altri? Quando sappiamo che un elemento non è mai separato da un insieme? Che un individuo, isolato da ogni ambiente sociale, inselvatichisce e non diventerà mai un uomo? Che l'individuo non esiste al di fuori della sua nicchia ambientale, diversa da ogni altra, che lo condiziona interamente a essere ciò che è? Come essere liberi sapendo che l'individuo, elemento di un insieme, dipende anche dagli insiemi più complessi che inglobano l'insieme a cui appartiene? Quando sappiamo che l'organizzazione delle società umane fino all'insieme più vasto, la specie, avviene secondo livelli di organizzazione ciascuno dei quali rappresenta il comando del servomeccanismo che controlla la regolazione del livello sottostante? La libertà, o perlomeno l'immaginazione creatrice, si trova solo a livello della finalità del più grande insieme, e probabilmente anche a questo livello obbedisce a un determinismo cosmico che ci sfugge perché non ne conosciamo le leggi.
"La libertà comincia dove finisce la conoscenza" (J. Sauvan). Prima, non esiste, perché la conoscenza delle leggi ci obbliga a rispettarle. Dopo esiste solo per l'ignoranza delle leggi future e per la nostra convinzione che esse non ci comandino, dato che le ignoriamo. In realtà, ciò che può chiamarsi "libertà" (se proprio teniamo a questa parola) è l'indipendenza, molto relativa, che l'uomo può acquistare scoprendo parzialmente e progressivamente le leggi del determinismo universale. Allora, ma soltanto allora, diventa capace di immaginare un modo di servirsi di queste leggi per sopravvivere meglio, e ciò lo immette in un altro determinismo, tipico di un altro livello di organizzazione, fino a quel momento ignorato. E' compito della scienza raggiungere nuovi livelli di organizzazione delle leggi universali. Finché ha ignorato le leggi della gravitazione, l'uomo ha creduto di poter essere libero di volare. Ma, come Icaro, si è sfracellato al suolo. O meglio, ignorando che aveva la possibilità di volare, non sapeva di essere privo di una libertà che per lui non esisteva. Una volta scoperte le leggi della gravitazione, l'uomo è potuto andare sulla luna. Così facendo, non si è liberato da quelle leggi, ma le ha adoperate a suo favore.
Neppure quando l'uomo assolve pienamente al suo compito di Uomo arrivando, grazie alla sua immaginazione creatrice, non a sottrarsi ai determinismi che lo alienavano, ma, applicando le loro leggi, a servirsene nel modo migliore per la sua sopravvivenza e il suo piacere, neppure in questo caso compie una scelta, una libera scelta. Perché la sua immaginazione funziona solo se lui è motivato, dunque animato da una pulsione endogena o un avvenimento esterno. E la sua immaginazione può funzionare solo adoperando un materiale memorizzato che non ha scelto liberamente ma che gli è stato imposto dall'ambiente. E infine quando una o più soluzioni nuove saranno in apparenza offerte alla sua "libera scelta", agirà ancora una volta rispondendo alle sue pulsioni inconsce e ai suoi automatismi di pensiero, altrettanto inconsci.

E' interessante cercar di capire le ragioni per cui gli uomini si attaccano disperatamente al concetto di libertà. Per prima cosa occorre notare che per l'individuo è rassicurante pensare di esser libero, di poter "scegliere" il proprio destino, di poterlo costruire con le proprie mani. Stranamente, appena viene al mondo cerca invece una rassicurazione nell'appartenenza a un gruppo (familiare, poi professionale, di classe, di nazione, eccetera) che limiterà per forza la sua presunta libertà, poiché le relazioni che si stabiliranno con gli altri individui del gruppo si formeranno secondo un sistema gerarchico di dominanza, L'uomo libero desidera soprattutto essere paternalizzato, tutelato dal numero, dall'eletto, o dall'uomo della provvidenza, dall'istituzione, in virtù di leggi protettive stabilite dalla struttura sociale di dominanza.
Gli piace anche pensare che, essendo libero, è "responsabile". Si può notare che questa supposta responsabilità aumenta col livello raggiunto nella scala gerarchica. Sono i dirigenti e i padroni, naturalmente, a essere responsabili, e la responsabilità è alla base del corrispettivo di dominanza concesso a coloro a cui tocca la responsabilità.
Infatti, grazie alla responsabilità possiamo acquistare un "merito" che viene allora ricompensato con la dominanza concessa dalla struttura sociale che abbiamo contribuito a consolidare.
E l'uomo, libero di sottomettersi al conformismo imperante, fa sfoggio, bene impettito, delle sue decorazioni, si pavoneggia e può così soddisfare l'immagine ideale che si è fatto di se stesso guardandosi riflesso, come Narciso, sulla superficie limpida di un ruscello: si rispecchia nella comunità umana di cui fa parte.
Ma non esistendo libertà di decisione, non può esistere neppure responsabilità. Tutt'al più si può dire che, dal punto di vista professionale, l'adempimento di una funzione esige un certo livello di astrazione, determinate cognizioni tecniche e una certa quantità di informazioni professionali che permettono di garantire questa funzione. In possesso di queste acquisizioni la decisione diventa obbligatoria, ecco perché ci si affida sempre più ai calcolatori. Oppure, se c'è la possibilità di più scelte, la soluzione adottata riguarda la sfera dell'inconscio pulsionale o dell'acquisizione socioculturale. Fanno la guerra nel Vietnam con i calcolatori e la perdono perché la scelta delle informazioni date al calcolatore non è libera, ma comandata dagli stessi meccanismi inconsci.
Si può obiettare che raccogliere le informazioni è un lavoro duro che esige una "volontà" particolarmente tenace. Ma nei meccanismi nervosi centrali, dove è situata questa volontà così tipica degli uomini forti? Non rappresenta forse unicamente la potenza della motivazione più volgare, la ricerca del piacere e il suo conseguimento, quasi sempre attraverso la dominanza? Più l'appagamento del desiderio è sentito come indispensabile alla sopravvivenza, all'equilibrio biologico, alla "felicità", più la motivazione, cioè la volontà, sarà tenace nello sforzo di appagarlo. Chi può negare quella parte dell'apprendimento socioculturale che, dall'infanzia, di generazione in generazione, segnala ai cuccioli dell'Uomo che lo sforzo, il lavoro, la volontà sono la base del successo sociale, dell'ascesa nelle gerarchie, dunque della felicità? L'ideale dell'io non può affermarsi in tale contesto senza favorire la "volontà". Ma chi avrà la tracotanza di sostenere che essa è espressione di libertà?
Ricapitolando, la libertà, lo ripetiamo, è concepibile solo quando ignoriamo ciò che ci fa agire. Può esistere, a livello cosciente, solo se ignoriamo ciò che popola e anima l'inconscio. Ma l'inconscio stesso, parente del sogno, potrebbe far credere di aver scoperto la libertà. Purtroppo le leggi che regolano l'inconscio e il sogno sono altrettanto rigide, ma non possono essere espresse sotto forma di discorso logico. Sono la rigorosa espressione della complessa biochimica che stabilisce, dal momento della nascita, il funzionamento del nostro sistema nervoso.
Bisogna riconoscere che questa nozione di libertà ha favorito invece l'istituzione di gerarchie di dominanza perché, ignorando ancora le regole che ne governano l'istituzione, gli individui hanno potuto credere che le avevano scelte liberamente e che nessuno gliele aveva imposte. Quando esse diventano insopportabili, credono di cercare liberamente di disfarsene.
Combattere l'ingannevole idea di Libertà significa sperare di conquistarne un po' sul piano sociologico. Ma per far questo non basta affermare la sua assenza. Occorre anche smontare i meccanismi comportamentali, mettendoli in evidenza, per far capire perché essa non esiste. Solo allora sarà possibile controllare questi meccanismi e arrivare a un nuovo stadio del determinismo universale che per qualche millennio avrà un buon odore di Libertà, paragonato all'odore che c'è sul pianerottolo in cui l'umanità si trova ancora.
Abbiamo mai pensato poi che, appena si abbandona la nozione di libertà, si arriva immediatamente, senza sforzo, senza inganno di linguaggio, senza esortazioni umaniste, senza trascendenza, alla semplicissima nozione di "tolleranza"? Ma anche in questo caso si tratta di togliere a essa l'apparenza di gratuità, di dono magnanimo di levare ogni merito a colui che pratica questo comportamento lusinghiero pervaso di umanità, sempre consigliabile, anche se mai messo in pratica, perché, in quanto liberi, non siamo obbligati a praticarlo. Eppure è probabile che la causa dell'intolleranza, in ogni campo, sia proprio credere l'altro libero di agire come agisce, cioè non conformemente ai nostri progetti. Lo crediamo libero, quindi responsabile delle sue azioni, dei suoi pensieri, dei suoi giudizi. Lo crediamo libero e responsabile di non aver scelto la via della verità, che è evidentemente quella da noi scelta. Ma se immaginiamo che ognuno di noi fin dal concepimento è stato messo su binari da cui non può allontanarsi, se non "deragliando", come possiamo provar rancore per il suo comportamento? Come non tollerare, anche se ci da fastidio, che non transiti dalle nostre stesse stazioni? Stranamente siamo più tolleranti proprio con coloro che "deragliano", i malati di mente, coloro che non sopportano il percorso imposto dalle ferrovie dello Stato, dal destino sociale. E' vero che è facile sopportarli in quanto stanno rinchiusi nelle prigioni degli ospedali psichiatrici. Da notare inoltre che gli altri sono intolleranti nei nostri confronti perché ci credono liberi e responsabili delle opinioni, contrarie alle loro, che esprimiamo. Lusinghiero no?


LA MORTE

La morte di che? Di un "involucro di carne", come si dice, di cui sappiamo che le caratteristiche specifiche, quelle che lo fanno appartenere al gruppo "homo sapiens", sono solo il risultato di una lunga serie di eventi evolutivi ai cui determinismi non partecipiamo. Il pezzetto di carne che ognuno di noi è, rappresenta, da due o tre miliardi di anni, il risultato dell'evoluzione della specie nella biosfera. In epoca più recente è il risultato, dall'inizio dell'evoluzione della storia umana, di una combinatoria genetica che, attraverso le generazioni, ha portato la specie fino a noi. Oggi come oggi, non abbiamo ancora modo di influenzare la combinazione fra il patrimonio genetico dello spermatozoo e quello dell'ovulo, la cui unione ha dato vita all'individuo che siamo. Anzi, cera vergine con tutte le caratteristiche e i requisiti per essere incisa, se viene abbandonata subito dopo la nascita, si indurirà a tal punto che dopo qualche anno non sarà più possibile imprimerci niente. Questa matrice biologica rimarrà allo stadio a cui l'hanno portata le specie che ci hanno preceduti.
Adopererà nel suo comportamento il cervello del rettile, quello degli antichi mammiferi, persino quello dei mammiferi più recenti, ma non potrà mai adoperare efficacemente le zone associati ve della corteccia prefrontale. E' quel che avviene nei cosiddetti "ragazzi selvaggi": non sono uomini perché non hanno potuto giovarsi del linguaggio e, attraverso il linguaggio, dell'esperienza degli adulti. In altre parole, la matrice biologica deve interiorizzare prestissimo, nel suo sistema nervoso perfezionato, alcune attività funzionali provenienti dagli altri. E gli altri non sono solo gli esseri umani che popolano la sua "nicchia" presente, ma, attraverso di loro e in virtù del linguaggio, anche tutti gli "altri" che, dall'inizio delle età umane fino alle nostre società moderne, hanno trasmesso, di generazione in generazione, la loro esperienza accumulata.
Così la morte, insieme alla matrice biologica che da sola non può garantire la creazione di una personalità, farà sparire "gli altri". Ma allora si può forse dire che "noi siamo quello che siamo" soltanto perché gli altri si sono presentati in un certo ordine, temporale, variabile, ciascuno secondo certe caratteristiche, variabili essenzialmente con l'ambiente, con la nicchia che una nascita casuale ci ha imposto?
Si può forse dire che esistiamo come individui quando niente, di ciò che ci costituisce come individui, ci appartiene? Quando l'individuo rappresenta solo una confluenza, un particolare punto di incontro "degli altri"? La nostra morte non è forse, in definitiva, la morte degli altri?
Questa idea viene espressa perfettamente dal dolore che proviamo per la perdita di una persona cara. Abbiamo introdotto, nel corso degli anni, questa persona cara nel nostro sistema nervoso, essa fa parte della nostra nicchia. Le innumerevoli relazioni stabilitesi fra lei e noi, e da noi interiorizzate, la rendono parte integrante di noi stessi. Sentiamo il dolore per la sua perdita, come un'amputazione del nostro io, cioè come la soppressione brutale e definitiva dell'attività nervosa (di una parte, si può dire, del nostro sistema nervoso, dato che la sua attività è sostenuta dalla materia biologica) che avevamo ricevuto da lei. Non piangiamo lei, ma noi stessi. Piangiamo quella parte di lei che era in noi e che era necessaria al funzionamento armonico del nostro sistema nervoso. Il dolore "morale" è il dolore di un'amputazione senza anestesia.
Così portiamo nella tomba essenzialmente ciò che gli altri ci hanno dato. E che cosa gli abbiamo reso? Quasi sempre ci siamo limitati a trasmettere, da una generazione all'altra, l'esperienza accumulata. Per questo non serve essere professori, vincere concorsi. Basta vivere e parlare. In questo senso ogni uomo insegna, trasmette agli altri ciò che ha imparato. Trasmette agli altri la visione della sua nicchia, come gli altri gliel'hanno preparata, come gli altri gliel'hanno descritta, come lui l'ha accettata. Per questo non ha neppure bisogno di riprodursi, di trasmettere l'acquisizione genetica. La tradizione orale fu a lungo la sola parte, e per la maggioranza degli uomini rimane l'unica, da interpretare nel breve passaggio sul pianeta. E' abbastanza per essere esigenti, per aspettare dagli altri più di quanto ci hanno dato? Siccome quasi sempre ci limitiamo a trasmettere un messaggio tecnico, un'esperienza, possiamo esigere dagli altri qualcosa di più della trasmissione di un messaggio tecnico che è stato loro trasmesso? Quel che possiamo esigere è che il messaggio ci venga trasmesso integralmente, senza venire amputato dei segni indispensabili alla sua comprensione dal determinismo sociale della nostra nascita. Possiamo anche esigere che non ci obblighino a imparare a memoria un messaggio da trasmettere pari pari, senza cambiarne una sola parola. Se fosse stato così per tutti dall'alba dell'umanità staremmo ancora a lavorare la selce, all'ingresso di buie caverne. Le conoscenze dell'Uomo attraverso i secoli si sono arricchite fino a sfociare nel nostro mondo moderno, proprio perché il messaggio è diventato sempre più complesso dalle origini in poi. Si deve ciò ad alcuni uomini che hanno aggiunto a quanto avevano ricevuto dagli altri, qualcosa che scaturiva da loro stessi, che il messaggio prima non conteneva. Gli altri sono morti, stramorti, mentre loro vivono ancora in noi, spesso sconosciuti ma presenti... Vivono ancora in noi perché il loro contributo al mondo umano continua la sua carriera nel nostro sistema nervoso. E' una costruzione nuova che essi hanno fatto sorgere dalle associazioni rese possibili dalle zone associative della corteccia orbito-frontale. Non sono forse i soli in realtà a cui spetta appieno il nome di "Uomini"?
A che serve conservare una salma tutta avvolta in bende o immersa nell'azoto liquido, se quella matrice biologica nel corso della vita ha solo ricevuto, senza mai dare niente? Se si è solo limitata a trasmettere, spesso alterandolo, il messaggio che gli era stato affidato e che chiunque altro avrebbe trasmesso al posto suo? Del resto, per il semplice fatto che il numero degli uomini è in aumento, il messaggio corre sempre meno il rischio di perdersi. Ma l'essenziale sarebbe che, proprio per via del numero sempre maggiore di uomini, il messaggio potesse arricchirsi costantemente col contributo originale di tutti. Questo sarà possibile solo il giorno in cui avremo trovato il modo di non paralizzare fin dall'infanzia il funzionamento delle zone associative. Il giorno in cui avremo imparato a non costringere ogni individuo nella sua nicchia. Il giorno in cui gli avremo insegnato il modo di arricchirsi con nuove acquisizioni che potrà trasmettere intorno a lui e dopo di lui. La sola eredità che conta non è l'eredità familiare di beni materiali o di tradizioni e di valori mutevoli e discutibili, ma l'eredità umana della conoscenza. Come il contadino di un tempo tentava nella sua breve vita di arricchire il patrimonio familiare di un pezzetto di terra in più, ogni uomo di domani dovrà essere capace di arricchire il campò della conoscenza umana col suo contributo unico e insostituibile.
Così si potrà vincere realmente la morte. Finora la nostra morte è stata solo la morte di coloro che sono in noi. Ma da quel momento ogni uomo lascerà la sua traccia indelebile nel sistema nervoso di coloro le cui matrici biologiche gli sopravviveranno e trasmetteranno attraverso i secoli quella piccola particella di novità incorruttibile che è ogni contributo originale alla conoscenza umana.
Ma che sia ancora più semplice, il compitò di ogni uomo? Forse è consistito, fin dall'origine della Storia, nel vivere, perché così facendo l'uomo penetra nella nicchia di coloro che lo circondano e questa nicchia, proprio per la sua presenza, non sarà più né del tutto la stessa né del tutto diversa?
In tal caso, però, si può ancora parlare di individui senza sorridere?
Nel nostro organismo alcune cellule, ogni giorno, nascono, vivono e muoiono senza che per questo l'organismo smetta di vivere. Ogni giorno, nella specie umana, nascono, vivono e muoiono individui, senza che per questo la specie interrompa il suo destino. Ogni cellula, durante la sua breve vita, assolve la funzione che le compete, integrandosi nella finalità della specie. Se non ci rattristiamo per la sorte di queste cellule passeggere, perché dovremmo rattristarci per quella degli individui che hanno contribuito alla già lunga evoluzione della specie umana? Tale analogia sta a dimostrare che l'individuo isolato non significa niente. Sul piano biologico, come sul piano culturale, rappresenta solo un sottoinsieme cellulare, l'elemento isolato di un tutto. Non ha una propria esistenza autonoma. Solo l'ignoranza di ciò che siamo ha potuto farci credere possibile l'esistenza dell'individuo isolato in un ambiente di cultura non umano e capace di conservare malgrado tutto le sue caratteristiche personali, mentre esse sono soltanto la conseguenza dell'azione esercitata su di lui dall'ambiente umano.
Altrove 8 abbiamo detto ciò che rappresenta l'"informazione-struttura", come l'abbiamo definita, la "messa in forma" della materia negli organismi viventi. Abbiamo ricordato che non era né massa, né energia, come ha sottolineato Wiener, parlando dell'informazione in generale. Ma anche che aveva bisogno di massa ed energia come sostegno. Questa "messa in forma" dell'organismo umano, in particolare del suo sistema nervoso, si arricchisce, via via, probabilmente fin dal concepimento, dell'esperienza acquisita nel contatto con l'ambiente circostante. Si sovrapporrà così alla forma di base, una forma nuova modellata dall'ambiente. Ma il cervello della nostra specie ha la possibilità tipicamente umana di dare origine, attraverso un lavoro associativo dei fatti memorizzati, a un terzo livello di struttura che va ad aggiungersi alle strutture innate, poi acquisite. Sono le strutture immaginarie. L'Uomo aggiunge informazione alla materia. Può anche, in virtù del linguaggio, estrinsecarla, farvi partecipare gli altri. Farli partecipare, cioè informarli, strutturare il loro sistema nervoso, partendo dalla struttura che si è formata nel suo. Questa nuova struttura, questa informazione, circolando, non è più legata alla forma biologica mortale da cui è nata. La forma innata e la forma acquisita possono morire, essa vivrà nei sistemi nervosi degli altri. Potrà persino crescervi e moltiplicarvisi, cosa impossibile a un organo trapiantato, anche se il trapianto riesce bene. Perché l'organo trapiantato continuerà il suo ineluttabile cammino verso la morte, in cui lo ha preceduto l'organismo da cui è stato prelevato. Il solo modo per sopravvivere, per non morire è, chiaramente, incrostarsi negli altri, come per gli altri, il solo modo di sopravvivere è incrostarsi in noi. Non è l'incrostazione dell'immagine tronca che un individuo ha potuto dare di se stesso, sempre passeggera e fuggevole, ma quella dei concetti che ha potuto generare. "La vera famiglia dell'Uomo sono le sue idee e la materia e l'energia che le sostengono e le trasportano, sono i sistemi nervosi di tutti gli uomini che attraverso i secoli verranno "informati" da esse. Muoia pure la nostra carne, l'informazione rimane, trasportata dalla carne di coloro che l'hanno accolta, e la trasmettono, arricchendola, di generazione in generazione".
Comunque, la morte è sicuramente un'esperienza che nessun individuo ha mai fatto e riguardo alla quale il deficit informativo è totale. Totale e definitiva è anche l'angoscia che ne deriva, perché l'angoscia sopraggiunge quando non si può agire, cioè né fuggire, né lottare. Allora l'Uomo ha escogitato alcuni "trucchi" per occultare l'angoscia. Innanzi tutto, non pensarci, e a questo scopo agire, fare qualcosa, qualunque cosa. Il combattente sente l'angoscia della morte prima della battaglia, ma non durante la lotta, appunto perché lotta, agisce. La credenza in un altro mondo che ci accoglierà appena avremo voltato la pagina in cui è scritta la nostra esistenza terrena, è un mezzo molto sfruttato per fare una bella morte, una morte edificante, anche se non si capisce bene perché una morte simile dovrebbe essere edificante, dato che chi la subisce non ha niente da perdere e tutto da guadagnare. Non c'è di che suscitare l'ammirazione delle folle. La credenza (qualunque opinione si abbia dell'"aldilà") che la propria morte "servirà" a qualcosa, che permetterà l'avvento di un mondo più giusto, che si inserirà nella lenta evoluzione dell'umanità, presume che si sappia come è orientata l'umanità. Quanti sono morti nello stesso istante convinti di saperlo, in campi avversi, difendendo ideologie opposte, ognuno sicuro di difendere la verità. Morire per qualcosa al di sopra di noi, qualcosa più grande di noi, molto spesso significa invece morire per un sottoinsieme, aggressivo e dominatore, dell'insieme umano. Se si escludono Cristo e Socrate, non conosco individui morti per la specie, e anche quei due l'hanno fatto a malincuore. Probabilmente avevano abbastanza senso critico per immaginare quale uso avrebbero poi fatto le socioculture del loro assassinio. L'aut aut è semplice: o siamo tanto automatizzati da una di queste socioculture da non poter vivere al di fuori di essa, e in tal caso l'eroe non è essenzialmente diverso dal suicida, nel senso che si sacrifica, se non per il piacere, almeno perché ha scelto il male minore; oppure siamo consapevoli del determinismo implacabile dei destini umani e moriamo da eroi o da vigliacchi, a seconda di quello che ci sembra più conforme al nostro ideale dell'io, a come vogliamo apparire, all'immagine che vogliamo dare di noi, a noi stessi e agli altri, e anche a seconda delle nostre ghiandole surrenali. Tuttavia io trovo che l'istrionismo, in punto di morte, ha una sua eleganza, e qualunque causa si sostenga mi pare che si addica di più un sorriso del ghigno dell'odio o della paura. Ma questa è solo un'opinione, non si può far sempre ciò che si desidera. Del resto non tutti hanno la fortuna di morire per una causa, condizione che probabilmente rende più facile il trapasso. La maggior parte di noi muore così, per un incidente cardiaco o stradale, o dopo una malattia più o meno lunga, più o meno dolorosa, senza farlo apposta. Anche gli altri, del resto, ma loro credono di no. Non mi permetterei mai di consigliare un tipo di comportamento, ricorrendo al discorso logico, tanto più che non ho nessuna esperienza del problema. Auguro a tutti noi che il trapasso sia il più svelto possibile e il più inaspettato. Invece, ciò su cui possiamo discutere è l'atteggiamento da assumere nei confronti della morte lenta, prevedibile, ineluttabile di qualcuno. Bisogna tener presente prima di tutto che, dolore a parte, la morte lenta, prevedibile, ineluttabile è tipica di tutti i viventi, è la loro unica certezza. Dobbiamo allora, ogni giorno ripeterci in coro: "Fratello, devi morire?". Quando si ha un po' di tempo davanti, questo richiamo è senza dubbio più efficace, come motivazione alla creatività e quindi come fattore dell'evoluzione umana, di quanto non lo siano le scommesse sui cavalli o la televisione a colori. Abbiamo già avuto occasione di. spiegare perché, secondo noi, la creatività derivasse direttamente dal desiderio inconscio di fuga di fronte alla morte. Forse non sarebbe così se conoscessimo il momento preciso del suo arrivo. Perché non essendo possibile la fuga, l'angoscia raggiungerebbe il culmine e porterebbe all'inibizione comportamentale. D'altra parte la malattia trasforma lentamente l'equilibrio biologico, quindi psicologico, in modo da far progressivamente diminuire la resistenza alla morte. E' tanto più facile morire, sembra, quanto più si è biologicamente 'vicini alla morte. Per quale sadismo allora dovremmo dire in anticipo la verità a colui che sappiamo condannato? Anche il criminale, non viene forse avvertito dell'esecuzione solo all'ultimo momento? Perché comportarsi diversamente con i malati? Ripeto, che cosa ci guadagna l'individuo o la specie, se non un piacere sadico? In quanto al dolore, non riesco a convincermi che nobiliti, gli uomini che ho visto soffrire mi sono sempre parsi chiusi nel loro dolore e non aperti verso spazi cosmici. Se il dolore eleva, vorrei sapere verso che cosa. Verso un Dio a cui chiediamo consolazione? Verso gli altri, che non possono partecipare al nostro dolore dato che esso è una costruzione strettamente personale, a cui partecipa tutta la storia del nostro sistema nervoso, diversa da ogni altra? Il dolore può essere solo la conseguenza di un disaccordo tra organismo e ambiente.
Dato che non sempre siamo in grado di agire sull'ambiente, non ci rimane che agire sull'organismo con gli analgesici e gli psicotropi che abbiamo a disposizione. Se anche questa azione sul dolore dovesse accelerare una morte ineluttabile (tanto è sempre ineluttabile), l'analgesia mi sembra un atto su cui non si possa transigere. Come si vede siamo quasi arrivati al problema dell'eutanasia. Ma neppure io pretendo di detenere la verità e non sono sicuro in questo caso di poter applicare la regola di non fare agli altri ciò che non vorremmo fosse fatto a noi, e neppure quella di fare agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi, perché noi siamo gli altri, ma l'altro non è noi. Non vengano però a parlarci di amore perché, sia che uccidiamo, sia che cerchiamo di tenere in vita, non agiamo mai per l'altro, ma per noi stessi. Non agiremmo se l'altro ci fosse indifferente, e se non ci è indifferente, vuoi dire che è entrato nel nostro spazio gratificante e che abbiamo stabilito con lui relazioni privilegiate, oppure che è oggetto dei nostri automatismi culturali. Sono essi che ci fanno agire, perciò non esiste una tavola logica e stabile di valori che permetta di giudicare un comportamento intessuto dei teneri e innumerevoli legami che uniscono due esseri nello spazio e nel tempo. Ogni giudizio non è altro che l'applicazione di regole stabilite dalla sociocultura, variabili secondo le epoche e gli interessi del momento.
Non siamo liberi di scegliere la vita, ma neppure di scegliere la morte. Lo stesso Inno alla morte del suicida è solo l'ultimo inno alla vita di un uomo la cui voce è stata soffocata dal sordo brontolio del mondo che gira su se stesso. Questo rumore di fondo, per Beethoven, era in fa. 


IL PIACERE.

"E' bene notare come le parole "benessere", "gioia", "piacere", abbiano una diversa carica affettiva. Il benessere è accettabile, la gioia è nobile, il piacere invece è sospetto, odora di zolfo. Proviamo benessere quando la pulsione o l'automatismo acquisito sono soddisfatti e ci sentiamo sazi, proviamo gioia quando ci sembra di partecipare con l'immaginazione all'appagamento, mentre il piacere è legato al presente, alla realizzazione dell'atto gratificante. Non è né più sporco, né più brutto, né più amorale degli altri due. Come non accorgersi che il diverso significato comunemente attribuito a queste parole proviene da automatismi sociali e culturali, da giudizi di valore derivanti prima di tutto dalla repressione sessuale che si è abbattuta sulle società occidentali per millenni e la cui causa principale potrebbe essere il timore dell'ignoto bastardo che rivendica la sua parte di eredità".9
Tali sono i nostri automatismi di pensiero che oggi spesso ci è difficile immaginare un piacere non sessualizzato. Se anche poi non lo è, rimane pur sempre poco raccomandabile: lo si contrappone alla sofferenza che, si sa, ha il privilegio di nobilitare l'uomo. Così, nel corso dei secoli, è nata tutta una ideologia della sofferenza che ha permesso ai dominanti di abbeverarsi alle fonti del piacere, convincendo i dominati a reputarsi fortunati di soffrire perché sarebbero stati ripagati cento volte della loro sofferenza nell'altro mondo. Poiché nel nostro, dove regnano i mercanti, tutto si contratta e si paga, e il dolore può essere solo una cambiale firmata per un futuro di felicità celestiale. Hanno fatto di meglio in India, dove chi appartiene alla casta degli "intoccabili" (probabilmente perché ricoperto di parassiti) è felicissimo di appartenervi perché così prepara la sua elevazione gerarchica e la sua promozione sociale metempsicotica in un'altra vita. Ma per quel che riguarda la nostra civiltà giudaico-cristiana, questa ammirevole strategia si è basata su una curiosa interpretazione dei Vangeli e del Discorso della Montagna. Si è preferita l'immagine del Cristo che soffre sulla croce a quella del Cristo sul Monte degli Ulivi che chiede al padre di risparmiargli, se possibile, di bere il calice fino alla feccia. Si è preferito dimenticare che era venuto ad annunciare la buona novella e ad alleviare, per quanto poteva, la sofferenza fisica di chi incontrava: offrire loro vino se occorreva, come a Cana, quando non ne avevano più. Certo, il suo mondo apparteneva alla sfera dell'immaginazione, della creatività, ma come salpare verso un mondo immaginario quando una nevralgia del trigemino ci strappa grida di dolore che escono dalla nostra stessa carne? In quanto alla sofferenza morale ci è già capitato di dire che non è altro che una sofferenza fisica, un'amputazione senza anestesia nelle relazioni neuronali gratificanti forgiate dall'apprendimento nel nostro sistema nervoso.
Ô divertente notare che le religioni cosiddette riformate, sorte come contestazione logica e intellettualizzata contro gli eccessi carnali del clero del Rinascimento, hanno portato al puritanesimo contemporaneo secondo il quale il piacere è sinonimo di peccato. Come ogni ideologia
smaterializzata, istituzionalizzata, nelle sue forme più caricaturali il puritanesimo è diventato settario e castrante, dato che considera il successo sociale una prova evidente del merito personale e della volontà di Dio. E' nata una nuova generazione di farisei, di cui è legittimo chiedersi se non siamo anche responsabili della discutibile qualità della cucina anglosassone. Mangiar bene è un piacere, e ogni piacere carnale deve essere messo al bando. La vita è un lungo calvario, solo le soddisfazioni gerarchiche sono onorevoli, in quanto prova del merito conseguito con la sottomissione a quei principi e riconosciuto dai concittadini.
Viceversa il piacere è legato alla realizzazione dell'azione gratificante. Ebbene, dato che solo essa ci permette di sopravvivere, la ricerca del piacere non è forse la legge fondamentale che governa i processi vitali? Si può preferire il termine più lambiccato di omeostasi (Cannon), del mantenimento di condizioni costanti di vita all'interno di noi stessi (Claude Bernard), non importa... Coloro che negano di non avere come motivazione fondamentale la ricerca del piacere, sono degli incoscienti, che sarebbero già spariti da tempo dalla biosfera, se dicessero la verità. Sono tanto incoscienti dei giudizi di valore e degli automatismi culturali che il loro inconscio si trascina dietro, da accontentarsi dell'immagine narcisistica che hanno di loro stessi e alla quale cercano di farci credere, immagine che si inserisce, secondo loro, in modo armonioso nella cornice sociale a cui aderiscono, oppure che rifiutano. Anche il suicida si uccide per piacere, perché la soppressione del dolore mediante la morte equivale al piacere.
Purtroppo l'azione gratificante si scontra spesso con l'azione gratificante dell'altro per lo stesso oggetto o la stessa persona, perché non ci sarebbe piacere se lo spazio fosse vuoto, se non contenesse oggetti e persone capaci di gratificarci. Ma appena si entra in competizione per loro, ecco costituirsi un sistema gerarchico. Nell'Uomo, grazie ai linguaggi diventa istituzione. Viene scritto sulle tavole della legge, che chiaramente sono formulate non dai dominati ma dai dominanti. La ricerca del piacere diventa quasi sempre un sottoprodotto della cultura, un'osservanza delle regole sociali degna di ricompensa, e ogni deviazione diventa punibile e fonte di dispiacere. Aggiungiamo che i conflitti tra le pulsioni più banali e i divieti sociali, non possono sfiorare la coscienza senza provocare un'umiliazione comportamentale difficilmente sopportabile, e allora, ciò che convenzionalmente viene chiamata rimozione, sequestra nella sfera dell'inconscio o del sogno le immagini gratificanti o dolorose. Ma la carezza sociale che lusinga il bravo cagnolino che ha progredito nella carriera non è in genere sufficiente, neppure con l'aiuto dei tranquillanti, a far sparire il conflitto. Il quale continua in profondità la sua opera devastatrice e si vendica affondando nella carne sottomessa il ferro rovente delle malattie psicosomatiche.
Ci vogliono far credere che la parola piacere esprima solo il soddisfacimento di una pulsione primitiva e che con esso ci abbassiamo al livello degli animali; e che il piacere si nobiliti quando risponde a una pulsione identica, sì, ma deformata, legalizzata, incanalata dalla cultura imperante, cioè dall'apprendimento del codice civile e onesto. Eppure anche questo comportamento è bestiale, perché anche l'animale è capace, come noi, di memoria e di apprendimento. La sola differenza è che un cane, anche se sapiente, non parla, e così non può trovare l'alibi dei giudizi di valore per mascherare i suoi automatismi inconsci.
Infine il piacere che deriva dal soddisfacimento di una pulsione che attraversa il campo degli automatismi culturali senza lasciarsi catturare da essi e che sfocia in una creazione immaginaria, pulsione che per noi diventa allora "desiderio", è un piacere specificamente umano, sebbene non sia conforme al codice dei valori imperanti. Il caso è molto frequente, poiché un atto creatore ha raramente modelli sociali di riferimento.
Il fascio del piacere, della ricompensa, riunisce anatomicamente e funzionalmente formazioni situate a tutti i livelli sovraggiunti del cervello. Lo stesso avviene per il fascio che permette di fuggire o di sopprimere la punizione, il dispiacere. Questi fasci non fanno distinzione di valore tra l'attività ipotalamica (pulsionale), limbica (apprendimento e memoria) e corticale (immaginazione), e l'esperienza dimostra che quest'ultima attività non funziona efficacemente se è separata dalle altre due. Ma grazie all'apprendimento sappiamo che il fascio della ricompensa, se entra in contraddizione con le regole sociali, può portare alla punizione, alla stimolazione del fascio della punizione, e che viceversa un'azione dolorosa che coinvolge quest'ultimo può essere ricompensata e favorire, di rimando, secondo un'altra modalità di piacere, la stimolazione del fascio della ricompensa.
La scimmia dominata non si sottomette al leader per suo piacere, come dimostrano le profonde perturbazioni del suo funzionamento neurobiochimico ed endocrino, ma per evitare un dispiacere più grande che deriverebbe dall'aggressione di cui sarebbe oggetto se non si sottomettesse. Se le scimmie parlassero, è probabile che esisterebbe un discorso logico per permettere alla scimmia dominata di "sublimare" la sottomissione, un discorso logico per convincerla che la sofferenza la innalza al di sopra di se stessa per il bene del clan, per la sopravvivenza del gruppo e che il suo sacrificio non è inutile. La sofferenza diventerebbe amore e le sue origini sarebbero ormai lontane, offuscate dall'apprendimento della sottomissione alle regole sociali, ai costumi, ai pregiudizi necessari al mantenimento della struttura gerarchica di dominanza. Probabilmente solo a chi, caso raro, è capace di evadere da questa prigione, l'appagamento del "desiderio" procura un piacere davvero umano, benché profondamente radicato nella carne preominidica, (l'una farà sempre parte dell'altra): infatti non siamo né angeli né bestie, ma semplicemente Uomini. 


LA FELICITA'

Se il piacere è legato alla realizzazione dell'atto gratificante, se il benessere è procurato dal suo appagamento, ed è uno stato di equilibrio che però non dura molto, perché scompare quando riappare il bisogno, pulsionale o acquisito dall'apprendimento, la felicità può dirsi anch'essa uno stato d'equilibrio ma meno passeggero, perché abbraccia la successione ripetuta di desiderio, piacere e benessere. Essere felici vuoi dire essere al tempo stesso capaci di desiderare, capaci di provare piacere per l'appagamento del desiderio e di provare benessere quando il desiderio è soddisfatto, e pronti a ricominciare daccapo col ritorno del desiderio. Non si può essere felici se non si desidera niente. La felicità è ignorata da chi desidera senza appagare il desiderio, senza conoscere il piacere che c'è nell'appagarlo, e il benessere che si prova dopo averlo appagato.
Le "Happy pills", o pillole della felicità, hanno un nome sbagliato. Diminuendo l'attività pulsionale dell'ipotalamo, la motivazione alla ricerca del piacere, non possono dare la felicità, ma l'indifferenza e l'indifferente non può essere felice. Tuttavia l'indifferente non può neppure essere davvero infelice, e sappiamo che l'eliminazione di una sofferenza può essere considerata un piacere. Nell'animale, la frustrazione, cioè il veder diminuita o abolita la ricompensa, mette in causa le stesse aree cerebrali che inibiscono l'azione nell'apprendimento della punizione. Si può dire che l'abolizione di una ricompensa attesa equivale a una punizione e ha come conseguenza un'inibizione del comportamento.
In tutte le specie animali, uomo incluso, la ricompensa si ottiene solo con l'azione. Solo eccezionalmente la felicità può pioverci pari pari dal cielo. Bisogna andarle incontro, bisogna essere motivati a scoprirla, a tal punto che se la raggiungiamo senza averla desiderata sembra meno intensa. E' indispensabile la pulsione originaria, quella della ricerca del piacere, dell'equilibrio biologico.
Abbiamo già detto nel capitolo precedente che la ricerca del piacere è guidata dall'apprendimento socioculturale, perché la sociocultura decide per noi quale forma debba assumere, per essere tollerata, l'azione che ci gratificherà. Accade così che si possa trovare la felicità nel conformismo, dato che esso evita la punizione sociale e crea quei bisogni acquisiti che sarà in grado di soddisfare. Alcune società che hanno basato le loro scale gerarchiche di dominanza, cioè di felicità, sulla produzione di beni, insegnano agli individui che le compongono a essere motivati solo dalla promozione sociale in un sistema di produzione di beni. Sarà la promozione sociale a decidere la quantità di beni a cui ogni individuo ha diritto e il compiacimento che potrà provare nei confronti di se stesso. Soddisferà il suo narcisismo. Dato che gli automatismi creati fin dall'infanzia nel suo sistema nervoso hanno l'unico scopo di farlo entrare al più presto in un processo di produzione, questi automatismi si troveranno senza oggetto all'età della pensione. Ecco perché molto spesso quest'età non solo non è felice, ma è addirittura disperata.
Devo confessare che finora la felicità, come abbiamo tentato di definirla, ci sfugge. Limitata all'appagamento delle pulsioni, si trova di fronte a un avversario imbattibile: le regole stabilite dai dominanti. Se si sottomette a quelle regole, nonostante le compensazioni narcisistiche, gerarchiche, consumistiche e via dicendo, che tenteranno di distorglierla dalle motivazioni primarie, la felicità sarà sempre incompleta, frustrata, perché legata a una ricerca mai soddisfatta di dominanza in un processo di produzione di beni.
Per fortuna all'Uomo rimane l'immaginazione. Certo per ricorrervi bisogna essere motivati e sono sempre necessarie le pulsioni primitive. Ci vogliono anche memoria ed esperienza per procurare materiale all'immaginazione. Il bambino appena nato non può immaginare niente, perché non ha ancora memorizzato niente. Ma l'immaginazione non può nascere neppure se memoria e apprendimento creano automatismi così potenti e così numerosi da sottomettere completamente l'azione.
L'immaginazione può essere paragonata a una terra di esilio dove si trova rifugio quando è impossibile trovare la felicità perché l'azione gratificante corrispondente alle pulsioni non può venir soddisfatta nel conformismo socioculturale. E' stata l'immaginazione a creare il desiderio di un mondo che non sia di questo mondo. Penetrarvi significa "scegliere la parte migliore, quella che non potrà esserci tolta". Quella in cui scompaiono le competizioni gerarchiche per ottenere una dominanza, il giardino segreto che ognuno modella come gli pare e in cui può invitare gli amici senza chiedergli, all'ingresso, diplomi, titoli o passaporti. E' l'Eden, il paradiso perduto dove i gigli dei campi non filano e non tessono. Lì, si può dare a Cesare quel che è di Cesare e all'immaginazione ciò che compete solo a lei. Si possono guardare, di lì, gli altri che invecchiano prematuramente, con la bocca deformata dal ghigno dello sforzo competitivo, esausti per la corsa verso una felicità obbligatoria che non riusciranno mai a raggiungere.
Certo il mondo dell'immaginazione e la sua felicità non sono oggi accessibili se non a un ristretto numero di piccolo-borghesi, come chi vi parla. Ma forse non sono proprietà esclusiva di una classe sociale perché, fra quei pochi che ne approfittano, i borghesi non sono in maggior numero dei proletari, e i più finiscono nel tritatutto dell'economia. Peraltro, spesso maldestramente, in modo inadeguato e infantile, un numero sempre più grande di giovani riscoprono la ricchezza del desiderio e tentano di abbandonare questo mondo di mascalzoni incoscienti, di condottieri impotenti incatenati alle loro pulsioni dominatrici, ai loro beni, alla loro conquista di mercati dove vendere qualsiasi cosa, alla loro promozione sociale. Altri, ancor più maldestri, si costruiscono con la droga un surrogato di immaginazione che procura loro una fuga farmacologica da questo mondo demenziale. Altri, poi, trovano rifugio solo nella psicosi.
Ci sono anche i rivoluzionari o presunti tali, ma sono così poco abituati a far funzionare quella parte del cervello che è propria dell'uomo, da limitarsi di solito sia a difendere scelte contrarie a quelle imposte dai dominanti, sia a tentare di mettere in pratica oggi quello che creatori del secolo scorso hanno immaginato per i loro contemporanei. Tutto ciò che non rientra nei loro schemi prefabbricati è, a sentir loro, utopia, smobilitazione delle masse, idealismo piccolo-borghese. E tuttavia dovrebbero riconoscere che le sfaccettate ideologie che propugnano sono state tutte quante proposte da piccolo-borghesi che avevano il tempo di pensare e di ricorrere all'immaginazione. Ma nessuna di queste ideologie rimette in discussione i sistemi gerarchici, la produzione, la promozione sociale, le dominanze. Ci parlano di società nuove, ma coloro che le preconizzano si augurano di beneficiare di un ruolo di spicco in queste società future. Una volta eliminato il profitto capitalistico, l'operaio avrà accesso alla cultura. E' chiaro che si tratterà di una cultura che non avrà il diritto di rimettere in discussione le nuove gerarchie, una cultura asettica, galvanizzata, conforme. Guai a dire che il profitto capitalistico non è un fine in sé, ma solo un mezzo per garantire le dominanze, e che il desiderio di potere avrà ben altri mezzi per esprimersi quando la nuova struttura sociale si sarà organizzata, istituzionalizzata, a favore di un nuovo sistema gerarchico. E l'Uomo continuala inseguire la felicità. Pensa che basti istituzionalizzare nuovi rapporti sociali per raggiungerla. Ma appena soppressa la proprietà privata dei mezzi di produzione, ecco spuntare la dominanza dei burocrati, dei tecnocrati e delle nuove gerarchie. Appena si mettono insieme due uomini sullo stesso territorio gratificante, si trasformano subito in sfruttatore e sfruttato, padrone e schiavo, felice e infelice, e non vedo come si possa metter fine a questo stato di cose, se non spiegando a entrambi perché succede così. Come si può agire su un meccanismo se non se ne conosce il funzionamento? Ma evidentemente chi approfitta di questa ignoranza, in tutti i regimi, non è disposto a permettere che si diffonda una corretta informazione. Soprattutto perché il deficit informazionale, l'ignoranza, sono fattori di angoscia e coloro che soffrono, invece di fare l'impegnativo sforzo di informarsi, sono portati ad accordare fiducia a coloro che dicono di sapere, che si proclamano competenti e assumono un atteggiamento paternalistico. Gli affidano la loro difesa, vogliono che pensino e parlino al posto loro, quegli uomini provvidenziali, che per i loro presunti meriti hanno una posizione di dominanza, e poi dicono con malcelata fierezza: "Sa, io non faccio politica", come se la politica degradasse, avvilisse chi se ne occupa. Insomma, è lecito chiedersi se il problema della felicità non sia un falso problema. La mancanza di sofferenza non garantisce la felicità. D'altra parte la scoperta del desiderio non da la felicità se il desiderio non è realizzate, Ma appena realizzato il desiderio sparisce, e sparisce la felicità. Non rimane che una perenne costruzione immaginaria capace di accendere il desiderio, e la felicità consiste forse nel sapersene accontentare. Le nostre società moderne vogliono eliminare ogni immaginazione che non vada a vantaggio dell'innovazione tecnica. L'immaginazione al potere, non per riformare ma per trasformare, sarebbe un despota troppo pericoloso per tutti quelli che stanno bene dove sono. Non potendo più immaginare, l'uomo moderno confronta. Confronta la sua sorte con quella degli altri, e non è soddisfatto. Una struttura sociale le cui gerarchie di potere, di consumo, di proprietà, di notabilità, sono stabilite interamente sulla produttività di beni, può solo favorire la memoria e l'apprendimento di concetti e di gesti efficaci al processo produttivo. Sopprime quello che chiamiamo desiderio, e lo sostituisce con la voglia che stimola non la creatività, ma il conformismo borghese o pseudorivoluzionario.
Il risultato è un diffuso senso di malessere. L'impossibilità di realizzare l'atto gratificante crea angoscia, che a sua volta può generare aggressività e violenza. Queste rischiano di abbattere l'ordine costituito, i sistemi gerarchici, per sostituirli immediatamente con altri. Il timore di una rivolta dei disperati ha sempre spinto i sistemi di dominanza a chiedere l'appoggio delle religioni perché esse insegnano a cercare nell'aldilà una felicità irraggiungibile sulla terra, in una struttura socioeconomica concepita per stabilire e mantenere le differenze tra gli individui. Differenze basate sul possesso materiale di persone e di cose, grazie all'acquisizione di un'informazione strettamente professionale, più o meno astratta. Questa scala di valori imprigiona l'individuo per tutta la vita in un sistema di caselle che corrisponde raramente all'immagine che egli ha di se stesso e tenta invano di imporre agli altri. Ma non gli verrà mai in mente di contestare questa scala. Si accontenterà il più delle volte di accusare la struttura sociale di avergli impedito l'accesso ai gradi superiori. Con uno sforzo di immaginazione si limiterà a proporre di buttar giù la scala per poi rimetterla in piedi alla rovescia, in modo che coloro che producono stiano finalmente in alto e possano approfittarne. Ma in cima alla scala oggi ci sono coloro che immaginano le macchine, unico mezzo per produrre molta merce in poco tempo. Se si rovescia la scala, siccome tutto continua a ruotare intorno alla produzione, coloro che prima erano ricompensati dalla produttività si sentiranno demotivati e sarà la fine di ogni produttività. Pare proprio che non si possa uscire dal dilemma se non procurando agli uomini un'altra motivazione, un'altra strategia, nella ricerca della felicità.
Dato che all'individuo sta tanto a cuore dimostrare la sua differenza, dimostrare che è unico (e questo è vero) in una società globale, non si potrebbe dirgli che, nell'espressione del suo pensiero, diverso e simile a quello degli altri, nell'espressione delle sue costruzioni immaginarie, potrà in definitiva trovare la felicità? Ma per questo bisognerà che la struttura sociale non ne abbia, fin dall'infanzia, castrato l'immaginazione affinché la sua voce evirata si unisca senza discordanza ai cori che cantano le lodi della società espansionistica. 


IL LAVORO

Ne abbiamo già esaminato alcuni aspetti. Originariamente era il lavoro liberato da quella macchina metabolica che è l'organismo. Grazie a questa attività termodinamica, la macchina agisce sull'ambiente in modo da conservare la propria struttura. L'ambiente la rifornisce di substrati alimentari, necessari all'esecuzione del lavoro stesso e, di conseguenza, al mantenimento della struttura d'insieme, stabilita secondo livelli di organizzazione, dell'organismo. Questa struttura, nell'uomo, fa capo a un sistema nervoso capace di aggiungere informazione al mondo circostante. Il lavoro dell'individuo umano si arricchisce di questa informazione che migliora considerevolmente la protezione della sua struttura organica, tanto più che, come abbiamo detto, grazie al linguaggio, l'esperienza delle generazioni si accumula e si attualizza. Così nel lavoro umano la parte di informazione è andata via via aumentando nel corso dei secoli, ma solo per il lavoro inteso globalmente. Infatti per quel che riguarda l'individuo, l'informazione si è invece sparpagliata attraverso le scale gerarchiche di dominanza che essa ha contribuito a formare. Tanto che oggi, per via della "parcellizzazione" (Friedman) del lavoro, un numero considerevole di individui adoperano solo una piccolissima frazione di questa informazione tecnica, per cui il loro lavoro perde ogni significato. Ha perduto la sua semantica. Il significante non ha più significato.
Ma per eseguire un certo lavoro un organismo ha bisogno di una motivazione. Agli albori dell'umanità era chiarissima: il lavoro permetteva all'uomo di sopravvivere, di conservare la propria struttura. L'urbanizzazione, come abbiamo visto, ha reso il lavoro di ogni individuo dipendente da quello degli altri. Per secoli l'artigiano e il contadino sono rimasti a diretto contatto col mondo, la parcellizzazione del loro lavoro era minima. Non bastava a nasconderne il significato profondo, i legami col lavoro dell'insieme sociale. Con l'industrializzazione quei legami si sono perduti. L'operaio adesso si sente obbligato a lavorare per assicurarsi l'appagamento dei bisogni fondamentali. Siccome poi questi ultimi sono garantiti in qualche modo dall'insieme sociale che malgrado tutto, gli da una certa sicurezza, la motivazione pulsionale, quella che permette di garantire i bisogni fondamentali, si indebolisce notevolmente. Invece, la motivazione derivante dall'apprendimento socioculturale continua a rafforzarsi. Una gran frenesia di possedere oggetti, segni di distinzione narcisistica, è scatenata dalla pubblicità e dall'attenzione di cui sono oggetto gli "status symbols". Ma questa motivazione si scontra con le regole della proprietà, imposte dal sistema gerarchico di dominanza. Il lavoro parcellizzato, povero di informazione, non permette di accedere alla dominanza, né alle soddisfazioni narcisistiche. Il lavoro senza motivazione è sentito sempre più come un'alienazione al sistema sociale che pretende un continuo aumento di produzione a beneficio di alcuni e non di tutti. Fino a pochi anni fa, anche lo scemo del villaggio aveva un posto nella comunità. Oggi invece l'insieme sociale si mette la coscienza a posto parcheggiando da qualche parte gli handicappati mentali, inutili in un sistema di produzione. E' abbastanza ricco da permettersi questi zoo umanitari.
Il lavoro umano, sempre più automatizzato, diventa come quello dell'asino attaccato al bindolo.
Non ha più caratteristiche umane, cioè non risponde più al desiderio, alla costruzione immaginaria, all'anticipazione originale del risultato. Si poteva sperare che una volta liberati dalla carestia e dalla penuria i popoli industrializzati ritrovassero l'angoscia esistenziale, non quella per il domani, ma quella derivante dagli interrogativi sulla condizione umana. Si poteva sperare che il tempo libero, reso possibile dall'automazione, invece di essere impiegato a produrre un po' di più, e quindi a cristallizzare ancora di più le dominanze, venisse lasciato all'individuo per dargli modo di evadere dalla specializzazione tecnica e professionale. In realtà si induce l'individuo ad adoperarlo per riciclarsi nell'ambito di questo stesso tecnicismo, facendogli intravedere, grazie a un aumento e a un aggiornamento di cognizioni tecniche, una facilitazione nell'ascesa gerarchica, una promozione sociale. Oppure gli viene promessa una civiltà di svaghi. Perché non venga in mente a nessuno di interessarsi ai meccanismi delle strutture sociali, e di discuterne la validità, fino a rimettere in discussione l'esistenza di tali strutture, tutti coloro che oggi ne traggono beneficio si sforzano di mettere a disposizione di tutti divertimenti insignificanti, anch'essi espressione dell'ideologia dominante, merce in conformità delle vigenti leggi e molto redditizia.
D'altra parte è lecito domandarsi se il lavoro umano, quando corrisponde al desiderio, cioè all'interrogativo esistenziale che mette in gioco l'immaginazione, possa ancora chiamarsi con questo nome? In effetti ben pochi uomini possono agire così specie se si considera l'attività umana nel suo insieme, perché allo stadio attuale di evoluzione della specie occorre che questa specie produca ancora una certa quantità di lavoro meccanico, povero di informazione. Ma neppure il lavoro dell'intellettuale è molto attraente, perché focalizzato, parcellizzato, quanto il lavoro manuale, anche se più astratto, più informazionale che termodinamico. E' altrettanto lontano dall'approccio globale delle strutture e quindi altrettanto dipendente dagli automatismi di pensiero esistenti. Il tecnico si annoia, e solo le ricompense gerarchiche, le gratificazioni narcisistiche possono ancora motivarlo. E' così che questo mondo nell'insieme si annoia, cerca se stesso e una ragion d'essere. Ogni individuo si sente manipolato, e ne prova disagio, da un destino implacabile al quale tenta maldestramente di rimediare, con piccole riforme qua e là, qualche incerottatura, ed è sorpreso quando, tappando un buco nello scafo marcito, vede l'acqua infiltrarsi da un altro. Ho già proposto in un'altra occasione 10 di concedere a ogni uomo due ore al giorno per informarsi, non dal punto di vista professionale, ma sugli argomenti che interessano la sua vita e quella dei suoi contemporanei. Informarsi non in modo analitico ma globale, con informatori tendenti a fare sintesi, non dissezioni. Informarsi in modo non pilotato, ma contraddittorio. Bisognerebbe poter fare partecipare ogni individuo all'evoluzione generale del mondo, invece di manipolare i mass-media per rassicurarlo, per fargli credere che c'è chi pensa a lui, che non deve preoccuparsi, che chi sa vigila. Ma coloro che sanno, sanno probabilmente molte cose in un determinato campo e niente negli altri. E anche quando sono politecnici, manca loro la conoscenza delle scienze cosiddette umane, che comincia dalle molecole e finisce con l'organizzazione delle società umane sul pianeta. E' mai possibile sentir dire, come io stesso ho sentito, da un responsabile di un canale televisivo "Cerco di essere obiettivo, non faccio politica, io"? Non far politica non significa forse farne, interpretare i fatti attraverso la lente deformante e non "oggettiva" di un'acquisizione socioculturale di cui non ci si riesce a liberare?
Riassumendo, sono tentato di dire che l'uomo ha sul pianeta un compito esclusivamente politico: stabilire strutture sociali, rapporti interindividuali e tra gruppi che permetteranno alla specie di sopravvivere sul suo vascello cosmico. Il lavoro non può essere fine a se stesso. Non può servire come punto di riferimento per istituzionalizzare i rapporti sociali. Se lo diventa, il gruppo o l'insieme umano che lo considerano una finalità, dimenticano, nello sforzo di produrre sempre più beni di consumo, lo scopo essenziale della loro esistenza, cioè le relazioni tra gli elementi individuali da cui sono costituiti. Trascurano la legge fondamentale che governa l'esistenza degli organismi viventi, l'evoluzione controllata della loro struttura, la produzione diventa anzi il modo di immobilizzare per sempre la struttura gerarchica di dominanza che l'ha originata.
Ma per motivare l'individuo al di fuori del lavoro per cui non sente motivazione, bisogna introdurlo, muovendo dal suo angusto spazio operativo, nella dinamica delle strutture sociali, facendogli conoscere quelle dei diversi livelli d'organizzazione e l'"apertura" di questi sistemi chiusi nei sistemi inglobanti. Partendo da lui, dal suo gruppo familiare, dalle piccole imprese all'industria, farlo arrivare all'organizzazione termodinamica e informazionale degli insiemi nazionali, fino all'insieme umano di tutto il pianeta. Insegnargli il ruolo dell'informazione strutturante e quello del grande flusso di energia che percorre la biosfera. Dargli di nuovo il gusto della sua attività cosmica, del suo ruolo nell'evoluzione della specie. Fargli capire l'azione frenante del vecchio individualismo dei gruppi, dei corporativismi, dei nazionalismi. Fargli capire che cosa ha dato il via alle dominanze, insegnargli a ergersi contro la violenza reazionaria dell'ordine costituito per il quale è violento solo il rifiuto all'obbedienza. Renderlo consapevole dei meccanismi che governano la nostra animalità, del pericolo dei discorsi altruistici, paternalistici, fargli riscoprire il piacere di inventare una vita diversa e di discuterne con i suoi contemporanei. Ma, obietterete, questa non è l'istituzionalizzazione del maggio del '68? Un mese così di tanto in tanto, sarebbe probabilmente meglio del carnevale, a condizione che non venisse sfruttato come rimedio di fortuna, come una valvola in grado di riportare la pressione dell'insoddisfazione al volume di prima, di modo che i poteri preesistenti e la rigidezza degli automatismi socioculturali ne uscissero consolidati. Effettivamente, però, l'ordine nasce solo dal disordine, in quanto solo il disordine permette nuove associazioni. Occorre tuttavia che al primitivo insieme culturale si aggiungano nel frattempo nuovi elementi che permettano di accrescere la complessità del nuovo insieme formato, se no si corre il rischio di ricadere in una struttura più coercitiva di quella che si è voluta distruggere. Il contributo informazionale deve darlo l'immaginazione.
In definitiva, all'uomo contemporaneo occorre, per sopportare la parte di lavoro che gli rimane da fare, una "nuova falsariga" ("nouvelle grille") che renda significante per lui l'insieme dei dati tecnici, sociali e culturali che ogni giorno l'assalgono e l'angosciano. L'angoscia deriva, come abbiamo detto, dall'impossibilità di agire con efficacia allo scopo di ottenere un equilibrio di appagamento. Ma come agire con efficacia quando dati, situazioni, avvenimenti spuntano e si accumulano senza alcuna relazione tra di loro, senza ordine, senza struttura? Quando esiste una falsariga, di solito è superata, può essere rassicurante ma non basta a rendere efficace l'azione. I dati non compatibili con la falsariga vengono ritenuti non significanti, non interessanti da chi l'adopera, e vengono quindi rifiutati. Ne risulta il settarismo tipico di ogni sistema chiuso, incapace di accogliere la diversità e di vedere in essa una linea comportamentale logica. Si arriva così all'aggressività, alla certezza di essere nel giusto e dalla parte della verità. Si arriva all'intolleranza. All'uomo contemporaneo occorre una nuova falsariga che inglobi le altre senza negarle, che sia aperta a ogni apporto strutturale contemporaneo. Ma se non viene adottata da tutti gli uomini del pianeta, colui che la possiede si troverà sempre davanti l'intransigenza del non-iniziato. Allora, se non è disposto a scomparire, non gli rimarrà che fuggire nell'immaginazione. Il suo lavoro si limiterà a esprimere un'apparente sottomissione al conformismo castrante e trionfante.

"L'Uomo è un essere di desiderio. Il lavoro può solo soddisfare i suoi bisogni". Sono rari i privilegiati che riescono a soddisfare i bisogni dando retta al desiderio. Costoro non lavorano mai.

La vita è detta "quotidiana" perché è ritmata dall'alternarsi del giorno e della notte. Ma anche da quello delle stagioni, degli anni che passano. I cicli cosmici regolano innanzi tutto la veglia e il sonno, che non corrispondono necessariamente a lavoro e riposo. In realtà, per il nostro sistema nervoso, il sonno significa un notevole lavoro metabolico di restaurazione, mentre ci si può benissimo riposare anche da svegli. Questo significa che già in partenza inciampiamo nel contenuto semantico delle parole, "lavoro", "riposo", (e altre in qualche modo collegate, "tempo libero", "veglia", "sonno"): tutte parole frequentissime nella nostra vita quotidiana, da noi in Francia riassumibili nella ben nota formula "metro, boulot, dodo" ("metropolitana, lavoro, nanna"). Che cos'è il lavoro? Per il sistema nervoso, è liberare energia sotto forma di influsso nervoso. Per i muscoli è liberare energia sotto forma meccanica, contrattile. Per le ghiandole, è liberare energia sotto forma chimica, quella delle secrezioni. In ciascuno di questi casi, lavorare significa adoperare substrati, cioè elementi energetici presi all'ambiente e che permettono di agire su di esso. Tale azione, qualunque sia la sua forma più o meno elaborata, consisterà in gran parte nel procurarsi quei substrati alimentari. Quando si parla di "forza lavoro" si allude a ciò. Ma i substrati del lavoro cellulare hanno in realtà una funzione fondamentale, mantenere la struttura cellulare, ossia organica. In altre parole, l'azione sull'ambiente ha una sola finalità: mantenere la struttura dell'organismo che agisce, il quale a sua volta agisce, lavora, solo per mantenere la sua struttura. Ecco di cosa è fatta innanzi tutto la vita quotidiana. Quel genio di Marx, ha attirato l'attenzione sul fatto che gran parte del lavoro non serviva a questo scopo bensì, attraverso il plusvalore, a mantenere (se usiamo il linguaggio della biologia dei comportamenti) una struttura sociale di dominanza. Se c'è una struttura, è chiaro che occorre trovare una certa energia capace di mantenerla. L'insieme delle cellule di un organismo libera non solo una data quantità di energia da adoperare per conservare la struttura di ogni cellula, ma anche un'energia supplementare, un plusvalore energetico che verrà adoperato per mantenere ogni cellula considerata isolatamente e, nel contempo, la struttura dell'intero organismo. Anche in uno stato socialista ogni individuo lavora più di quanto gli occorrerebbe per mantenere la sua struttura, e il plusvalore serve alla struttura sociale. Cambiano, rispetto al sistema capitalistico, l'orientamento dell'impiego del plusvalore e le basi del sistema gerarchico che lo decidono. Aver abolito il profitto quale "mezzo" per stabilire le dominanze è certo un progresso per la costituzione delle strutture sociali e per la vita quotidiana degli individui che vi partecipano. Purtroppo sono stati presto scoperti altri mezzi sostitutivi e sono apparse altre strutture di dominanza. Questo aspetto termodinamico, energetico, è applicabile a tutti i sistemi viventi, individuali e sociali, a tutte le specie viventi, Uomo compreso. Che cosa ha aggiunto di più, di nuovo, la specie umana a questo sistema di scambi energetici necessario al mantenimento delle strutture? Cerchiamo di non tirare in ballo l'amore, la cultura, la dimensione spirituale, l'arte, la coscienza riflessa, la morale, l'etica, la trascendenza, il progresso, la prosperità, ecc. Con queste parole si riesce sempre a far uscire un coniglio dal cappello, mai a sapere come si fa per riuscirci.
L'informazione è ciò che l'Uomo aggiunge di nuovo all'aspetto puramente energetico della sua esistenza. Egli mette in forma, informa la materia inanimata. E' capace, grazie all'esperienza memorizzata, di dar vita a nuove strutture immaginarie di cui può verificare l'efficacia mediante la sua azione sull'ambiente. E' capace di fare ipotesi di lavoro e di verificarne, sperimentandole, la validità. La manipolazione dell'informazione gli ha permesso di migliorare la vita quotidiana fin dagli albori dell'umanità, proteggendola da un ambiente ostile. Poi gli ha permesso un risparmio di energie sempre più notevole. Grazie a questa creazione di informazione, ha saputo ben presto utilizzare efficacemente con l'agricoltura e l'allevamento l'energia solare, di cui aveva a quei tempi una conoscenza puramente empirica. Ha saputo in seguito (molto più tardi) utilizzare l'energia animale per spostarsi più in fretta e per spostare grandi masse, una volta inventata la cavezza. La scoperta dei metalli gli ha permesso un uso più efficace delle braccia. Riassumendo, la capacità del suo cervello di creare informazione gli ha permesso di garantirsi con più efficacia il bilancio energetico (assunzione di alimenti più regolare e meno sottoposta alle incertezze dell'ambiente, ma anche minor lavoro, minor dispendio di energia per procurarseli, dunque di proteggere la sua struttura organica meglio e con minor dispendio energetico. Il beneficio derivante dal lavoro così facilitato fu adoperato nella costituzione delle prime strutture sociali complesse. L'informazione, divenuta più elaborata, si specializzò in mestieri diversi, contribuendo alla creazione di organismi sociali pluricellulari, dalle molteplici attività funzionali. A questo punto nessun individuo era più capace, da solo, di far fronte interamente ai suoi bisogni. Dipendeva dagli altri per ciò che non sapeva fare, come gli altri dipendevano da lui per ciò che sapeva fare. Si passò così a un nuovo livello di organizzazione, quello delle città. Trascorrono i secoli, l'informazione accumulata nel corso delle generazioni e trasmessa mediante il linguaggio diventa sempre più elaborata.
Nell'epoca moderna, l'invenzione di macchine sempre più sofisticate è dovuta alla possibilità di utilizzare l'informazione che la specie umana è capace di creare, per informare, trasformare materia ed energia. Si è giunti così all'impiego dell'atomo.
L'invenzione e l'uso delle macchine permette di produrre una quantità di oggetti che abbiamo chiamato "meccanofatti" per distinguerli dagli oggetti "manufatti" dell'epoca preindustriale. 11 Un oggetto meccanofatto esprime tutta l'informazione che l'Uomo ha trasmesso tutta in una volta alle macchine che l'hanno fabbricato. Un oggetto manufatto esprime l'informazione che è arrivata, attraverso l'apprendimento, in un cervello umano, ma esige che ogni volta l'uomo metta in atto questa informazione e liberi l'energia nervosa e neuromuscolare necessaria a ogni tappa della lavorazione. Nella lavorazione a macchina, egli interviene soprattutto per dare informazione alle macchine.
L'informazione che permette l'invenzione, la costruzione e l'uso delle macchine è una conoscenza astratta. Trae origine da nozioni di fisica e di matematica (il linguaggio che formula le leggi della fisica) elaboratissime. Il contributo del lavoro termodinamico umano diventa frammentario, senza alcun rapporto evidente col significato dell'oggetto prodotto, col suo compito sociale. E sarà fornito da uomini che non hanno potuto accedere all'informazione astratta. Quest'ultima diventerà monopolio dei tecnici. Più l'informazione tecnica è astratta e può essere adoperata in modo globale e diversificato, più permetterà l'invenzione di macchine complesse che potranno produrre un gran numero di oggetti in sempre minor tempo.
Ritorniamo al concetto di plusvalore necessario al mantenimento, non più della struttura individuale, ma della struttura sociale. E' evidente che se l'Uomo è considerato solo un produttore di beni di consumo, di materia e di energia, 12 trasformati dalla sua informazione, produrrà maggior quantità di plusvalore chi permetterà la produzione del maggior numero di oggetti nel minor tempo possibile, 13 dunque chi possiederà l'informazione più astratta e più utile nella produzione di oggetti di consumo o di macchine necessarie a produrli. In altre parole, se l'Uomo è considerato solo un produttore di beni, chi, possedendo l'informazione, produce il maggior plusvalore sarà il meglio ricompensato, in quanto più utile, da una struttura sociale basata sulla produzione.
Così, passando da una struttura individuale a una struttura sociale, l'individuo deve produrre una certa quantità di lavoro che riguarda solo indirettamente il mantenimento della sua struttura, perché necessario, innanzi tutto, al mantenimento della più complessa struttura sociale. Ma questo lavoro presenta una caratteristica propria della specie, si compone di due aspetti complementari collegati tra loro indissolubilmente per via della particolare attività funzionale del cervello umano: un aspetto termodinamico, puramente energetico, di cui si potrebbe calcolare con esattezza il bilancio, come si calcola quello dell'asino che fa girare il bindolo per tirar su l'acqua dal pozzo, e un aspetto informazionale, che non si calcola in chilogrammetri, quello dell'immaginazione umana che ha portato all'invenzione del bindolo, cosa di cui nessun animale è capace. Il lavoro dell'asino si valuta secondo la quantità di alimenti di cui necessita, da una parte per sollevare un certo peso d'acqua dal fondo del pozzo alla superficie, e dall'altra per non dimagrire, per mantenersi sano, per mantenere la sua struttura di asino (se vogliamo che quella struttura di asino sia in grado di fare domani la stessa quantità di lavoro). Invece l'informazione data dall'uomo che ha inventato il principio del bindolo, rimane dopo la sua morte e verrà utilizzata in tutto il mondo. In realtà, in questo secondo aspetto del lavoro umano, in questo aspetto informazionale, si possono a loro volta distinguere due forme diverse. Una è il risultato dello sfruttamento, di cui solo il cervello umano è capace, dell'informazione più o meno astratta, trasmessa dal linguaggio e acquisita attraverso l'apprendimento. Permette, in virtù dell'esperienza accumulata nel corso del tempo, di rendere più efficace l'azione, via via che le generazioni si succedono. Ma questa forma non aggiunge niente all'esperienza precedente, si limita a riprodurre e a trasmettere l'informazione. Se fosse esistita solo lei staremmo ancora lavorando le pietre per farne degli utensili. Perché l'esperienza si accumuli bisogna che vadano ad aggiungersi, alle cognizioni già esistenti, cognizioni supplementari. Bisogna che un'ipotesi di lavoro, prodotto dell'immaginazione, permetta di elaborare una nuova struttura astratta che l'esperienza, agendo sull'ambiente, potrà o meno concretare e confermare. La prima forma di impiego dell'informazione da parte del cervello umano fa ricorso soltanto all'astrazione e alla memoria, la seconda aggiunge a esse l'immaginazione.

Adesso rifacciamoci a un capitolo precedente, quello in cui si parla dell'amore. Per parlarne abbiamo tracciato uno schema delle proprietà funzionali del sistema nervoso umano. Abbiamo detto che, come tutti gli animali, l'Uomo realizzava la sua finalità, il mantenimento della struttura, agendo sull'ambiente circostante, cioè mangiava beveva e procreava. Che agiva così in un determinato spazio dove si trovavano gli oggetti e gli esseri necessari a soddisfare i suoi bisogni fondamentali e dei quali, per gratificarsi, cioè per sopravvivere, tendeva ad appropriarsi. Che per appropriarsi di oggetti ed esseri necessari alla sua gratificazione, entrava in competizione con altri uomini alla cui sopravvivenza gli stessi oggetti e gli stessi esseri erano altrettanto indispensabili. Abbiamo detto che a questo punto nella specie umana, come in tutte le specie animali, apparivano sistemi gerarchici. All'inizio furono i più forti e i più aggressivi a imporre agli altri la dominanza. Ormai però da molto tempo la forza fisica non è più indispensabile, e l'aggressività non si serve più della violenza esplosiva e gestuale per garantirsi le dominanze. Non appena l'informazione tecnica, l'applicazione delle leggi della fisica permise di produrre un numero di oggetti superiore a quello necessario per sopravvivere, tali oggetti vennero scambiati e permisero l'accumulo di capitale. Il capitale permise a sua volta a chi lo possedeva di appropriarsi di un numero sempre maggiore di oggetti gratificanti e di macchine, che erano i mezzi per produrli. Gli uomini che nel lavoro dipendevano sempre di più dall'informazione contenuta nelle macchine diventarono, per questo, sempre più dipendenti da colerò che le possedevano. Ne divennero gli schiavi. Il processo di capitale fu il nuovo modo di stabilire le dominanze. Il plusvalore prodotto dal lavoro termodinamico umano rendeva dunque stabile la struttura sociale e il livello di organizzazione dei gruppi umani basati sulle dominanze.
Ma con la rivoluzione industriale, l'insieme delle strutture sociali si basò sempre più sull'innovazione tecnica che permetteva una produzione sempre più abbondante. Il possesso della massa e dell'energia non da grandi vantaggi senza l'informazione capace di trasformarle in oggetti. Prova ne sia che esse furono sempre a disposizione degli uomini, ma per secoli è mancata loro l'informazione tecnica che li mettesse in grado di utilizzarle. L'informazione tecnica è dunque diventata la proprietà più indispensabile per garantire le dominanze tra individui, come tra gruppi sociali, nazioni, blocchi di nazioni. Ha permesso alle nazioni che la detenevano di impadronirsi delle materie prime e dell'energia che si trovavano nello spazio ecologico di gruppi umani che ne erano sprovvisti. Ha permesso la costruzione di armi sempre più micidiali e ha generato l'imperialismo. Il progresso tecnico, essendo il solo ad avere una sufficiente motivazione poiché creava dominanze, fu considerato un bene in sé e fu considerata giusta e meritata la dominanza che ne derivava, Effettivamente ricompensava il funzionamento di ciò che nell'Uomo è specificatamente umano: l'immaginazione creatrice. La parola "Progresso" divenne sinonimo di progresso tecnico. La causa prima, la ricerca della dominanza, che non ha niente di specificatamente umano, fu progressivamente occultata, sostituita da un giudizio di valore nei suoi confronti, e il progresso diventò per definizione il bene assoluto. Vi contribuì l'idea di evoluzione delle specie, poiché la specie umana era l'unica a evolversi. Il progresso avrebbe garantito il suo destino cosmico. Per ora e purtroppo, questo si è rivelato vero solo in parte.
Siccome ciò che abbiamo chiamato il plusvalore, energia necessaria al mantenimento della struttura sociale di dominanza, si è caricata sempre più di informazione tecnica, è normale che i possessori di questa informazione tecnica siano favoriti nell'ascesa delle scale gerarchiche di dominanza, e che gli individui il cui lavoro contiene poca informazione di questo tipo, manovali e operai specializzati, rimangano ai gradini più bassi della scala. Invece individui che grazie all'apprendimento possono introdursi efficacemente nei processi produttivi, anche se non aggiungono niente al capitale di cognizioni della specie e si limitano a riprodurre, si trovano tanto più avvantaggiati, quanto più alto è il loro livello di astrazione nell'informazione tecnica e professionale che sono capaci di adoperare. Anzi, ogni attività non riproduttiva ma creatrice di nuova informazione, se non ha attinenza con un processo di produzione di merce, ha poche possibilità di procurare a colui che la svolge una posizione gerarchica di dominanza.


LA VITA QUOTIDIANA

Nel quadro appena tracciato, di cosa è fatta la vita quotidiana dell'uomo contemporaneo nella società industriale? Grazie al progresso tecnico, è raro che muoia di fame. La struttura sociale a cui appartiene gli permette di soddisfare, anche se spesso in minima parte, i bisogni fondamentali. Se il determinismo a cui la nicchia ambientale l'ha sottoposto dalla nascita non gli ha permesso di raggiungere un decoroso livello di astrazione nella sua attività professionale, riuscirà a mantenere la sua struttura a costo di un duro lavoro energetico nel processo produttivo. Nei paesi capitalisti dipenderà quasi completamente da coloro che detengono i mezzi di produzione e di scambio i quali decideranno il suo salario, i movimenti che dovrà compiere, il suo tasso di produttività e gli procureranno il minimo indispensabile al mantenimento della sua forza lavoro. Nei paesi socialisti, benché sia lo Stato, dunque in linea di massima l'insieme umano, a detenere i mezzi di produzione e di scambio, non sarà né più autonomo né più in grado di esprimere e realizzare i suoi desideri, se essi non si inseriscono nell'ordine istituzionale ben custodito dai burocrati. Nell'un caso e nell'altro, essendo giudicato solo in quanto agente di produzione, entrerà in una scala gerarchica fondata sul grado di astrazione da lui raggiunto nell'informazione professionale. Il plusvalore da lui prodotto sarà sempre impiegato per assicurare il mantenimento di una struttura sociale di dominanza e non sarà mai lui a deciderne l'impiego. La sua motivazione del resto sarà sempre la stessa: garantirsi la promozione sociale, l'ascesa gerarchica. Anche il mezzo per arrivarci sarà sempre lo stesso: accedere a un'informazione professionale il più possibile astratta. L'unica differenza dei paesi socialisti è che la ricompensa che permette il rinforzo dell'azione gratificante, la ricompensa dello sforzo compiuto per acquisire l'informazione astratta, non è più il profitto, ma la dominazione gerarchica stessa e le soddisfazioni narcisistiche che procura. Lo stesso avviene per i gruppi sociali. Tutto questo fa sì che "l'ingiustizia sociale", come viene definita, sia meno apparente, meno sbandierata pubblicamente, dato che non è espressa solo con la proprietà di oggetti. Le scale gerarchiche non sono tanto indicate dallo standing, dal benessere materiale raggiunto dall'individuo, quanto da un potere derivato ufficialmente solo dal "merito". Ma il merito viene giudicato sempre in base alla partecipazione alla produttività e al conformismo nei confronti dei concetti che garantiscono la sopravvivenza delle strutture sociali, cioè in base alle leggi che stabiliscono le dominanze.
In entrambi i sistemi sociali l'urbanizzazione galoppante e l'industrializzazione producono gli stessi risultati: l'allontanamento dell'atto professionale dall'oggetto prodotto, la monotonia e l'automatismo dei gesti professionali, manuali o intellettuali (perché un gesto automatico è più rapido e più efficace, quindi più produttivo), la mancanza di spontaneità, d'innovazione, dunque di immaginazione e di creatività nell'atto professionale, e in definitiva la noia. L'impossibilità di sottrarsi all'ingranaggio della macchina sociale, l'impossibilità di agire per gratificarsi, se non sottomettendosi e conformandosi al sistema di produzione (che garantisce l'ascesa gerarchica e la dominanza e medica le ferite narcisistiche), porta alla depressione o alla violenza.
Così per la maggioranza la vita quotidiana è riempita da un lavoro senza gioia che permette di rifornirsi di substrati, e per alcuni da una speranza di soddisfazione narcisistica, di gratificazione materiale o di esercizio della dominanza. Questo potere del resto può essere esercitato solo nell'ambiente professionale immediatamente vicino e non può influenzare l'evoluzione della struttura sociale perché deve conformarsi alle regole di quella struttura, pena l'esclusione o l'emarginazione. Quando la vita professionale non da le soddisfazioni materiali o narcisistiche attese, l'individuo può ancora ripiegare sulla struttura di base della società, la famiglia. Ritroverà tra i suoi componenti un sistema gerarchico che accorda al maschio una dominanza sulla quale è strutturato l'insieme dell'edificio sociale. Al punto che la donna, che ora rivendica la parità con l'uomo, molto spesso mira alla parità solo sul piano dell'ascesa gerarchica professionale, quello delle soddisfazioni materiali legate allo statuto gerarchico, anch'esso basato sul grado di astrazione raggiunto nell'informazione professionale. La donna esige prima di tutto di entrare ad armi pari nel processo di produzione e di ottenere le stesse gratificazioni che questo processo offre all'uomo. Siccome una simile vita quotidiana basata sull'ascesa gerarchica non potrà mai soddisfare la maggioranza perché la base della piramide è molto larga, si cerca di compensare, nei paesi capitalisti, l'insoddisfazione narcisistica col possesso di oggetti sempre più numerosi, prodotti dall'espansione industriale e per i quali viene messa in moto una pubblicità sfrenata che faccia venir voglia di possederli. Infatti è necessario che la massa consumi sempre di più, perché, aumentando il profitto in conseguenza di un consumo più generalizzato, aumentino gli investimenti e si perpetui la scala gerarchica di dominanza. E' il principio seguito dalla società dei consumi, da cui tutti traggono profitto, come si sa. Non avendo mai insegnato loro che possono esistere altre attività oltre al produrre e al consumare, gli uomini quando arrivano all'età della pensione non hanno più nulla, né motivazione gerarchica o di accrescimento del benessere materiale, né soddisfazione narcisistica. Rimane loro soltanto un rapido declino in mezzo ai trastulli della terza età. Possono ancora considerarsi felici quando le generazioni giovani, cresciute nella stessa ottica, accettano di tenersi i loro vecchi circondandoli di un rispetto accondiscendente, affettuoso e paradossalmente paternalistico. Consapevoli di esseri inutili, se non addirittura di peso, alla società che li sopporta ancora, si spengono, chiusi nei loro ricordi, spesso carichi di aggressività e di rancore.
Infine, preoccupata di riscuotere l'approvazione delle masse lavoratrici ancora indispensabili alla produzione espansionistica, la società industriale propina svaghi che le masse ingurgitano a comando e che costituiscono a loro volta una nuova fonte di profitto, dunque di mantenimento delle dominanze, e distolgono al tempo stesso le masse dai problemi esistenziali fondamentali. Ecco di cosa è fatta la vita di milioni di uomini: lavoro, famiglia... e svaghi organizzati.
Certo, chiunque è libero di "sublimare" la propria vita, di cercare la "trascendenza", di sorbirsi la cultura vigente per trovarci un rimedio all'assurdità della vita quotidiana. Così, in mancanza di un'azione gratificante, la valvola dell'impegno politico o sindacale, della militanza può dare all'individuo l'impressione di avere uno scopo, di lavorare per il bene comune e per un mondo migliore, ma, in quest'ultimo caso, di solito gli è vietato di pensare con la sua testa, di cercare fonti di informazione al di fuori dei breviari recitati in continuazione nel corso delle riunioni pubbliche dove, come dappertutto, le qualità più apprezzate sono la memoria e il conformismo. In genere gli è proibito far funzionare la sua immaginazione se vuole godere della rassicurazione implicita nell'appartenenza al gruppo e vuole evitare di farsi dare dell'anarchico, del sinistrorso e magari dell'utopista. Deve obbedienza ai leader, ai padri ispirati, agli uomini della provvidenza, ai capi spirituali. Persino quando contesta le strutture gerarchiche di dominanza, deve ancora una volta inserirsi in una struttura gerarchica di dominanza. Esiste un conformismo rivoluzionario, come esiste un conformismo conservatore.
Fino a meno di. un secolo fa, molti uomini, nei paesi europei, non si erano mai allontanati dai loro villaggi. Le fonti d'informazione e le possibilità di azione di un individuo erano limitate allo spazio sensorio in cui trascorreva la vita. Aveva così l'impressione di poter sempre dominare la situazione o almeno di poter agire efficacemente per controllarla. Oggi l'informazione planetaria penetra a profusione nel più piccolo spazio e l'uomo che vi si trova rinchiuso non ha la possibilità di reagire efficacemente. Ne deriva un'angoscia che nessun atto gratificante o rassicurante riesce a calmare. L'unica speranza è tentare di porvi rimedio con l'impegno politico che renda possibile un'azione di massa.
Così la vita quotidiana dell'uomo odierno è imprigionata tra un lavoro che gli garantisce la sopravvivenza nel quadro di un processo produttivo, e le ideologie che tentano di organizzare la struttura sociale di cui fa parte. Queste ideologie vengono espresse in un linguaggio, in un discorso logico, in "analisi" sempre tendenti a ricuperare le pulsioni e gli automatismi acquisiti che nei loro meccanismi e nel loro significato rimangono inconsci. Le pulsioni però orientano l'azione verso il benessere individuale e gli automatismi acquisiti la improntano nel modo migliore per il mantenimento della struttura sociale. Quest'ultima, inconsapevole dei meccanismi che dirigono la sua organizzazione, non può essere che una struttura di dominanza. In altri termini, tra la fisica, applicata alla produzione, e il discorso, non c'è nulla.
In realtà dovrebbe esserci la conoscenza di ciò che ha permesso la costruzione della fisica e di ciò che il discorso nasconde. Ma questa conoscenza è ancora agli inizi, perché prima di essa doveva costituirsi la scienza dell'inanimato, ed è così complicata perché riguarda strutture in cui i processi termodinamici non sono i soli chiamati in causa, e soprattutto è così nascosta perché la biologia dell'inconscio, la conoscenza dei processi che animano il nostro sistema nervoso fanno una gran fatica a liberarsi della maschera dei processi di coscienza intrisi di discorsi, tanto che solo di recente è potuta venire alla luce.
Quando le società procureranno a ogni individuo fin dalla più tenera età, e per tutta la durata della vita, informazioni su ciò che è, sui meccanismi che gli permettono di pensare, di desiderare, di ricordarsi, d'essere lieto o triste, calmo o angosciato, furibondo o bonaccione, insomma sui meccanismi che gli permettono di vivere, di vivere con gli altri, quando gli procureranno informazioni su quel curioso animale che è l'Uomo, come si sforzano da sempre di procurargliene sul modo più efficace di produrre merci, la vita quotidiana di quest'individuo correrà il rischio di trasformarsi. Dato che niente può interessarlo più intensamente che se stesso, quando si accorgerà che l'introspezione gli ha nascosto l'essenziale e deformato il resto, che le cose si limitano a essere e che siamo noi, per il nostro personale interesse o per quello del gruppo, ad attribuire loro un "valore", la sua vita quotidiana sarà trasfigurata. Non si sentirà più isolato, ma accomunato nel tempo e nello spazio, simile agli altri ma diverso, unico e molteplice al tempo stesso, conforme e singolare, passeggero ed eterno, proprietario di tutto senza possedere niente, e cercando la gioia, potrà darne agli altri.
Ma soprattutto, liberato dall'ammasso ingombrante dei valori eterni, giovane e nudo come nella prima età, e tuttavia ricco delle acquisizioni delle generazioni passate, ogni uomo potrà forse allora dare al mondo il contributo 'della sua creatività. Speriamo che essa gli faccia scoprire utensili per là conoscenza anche se finora gli ha fatto forgiare soprattutto utensili di lavoro. La creatività, del resto, non può essere un lavoro perché secondo il contenuto semantico che abbiamo dato prima a queste parole, appaga un desiderio e non un bisogno. Risponde, sì, alle pulsioni ma attraversando la fascia iridata dell'immaginazione e questo le evita di sottomettersi, ammanettata, all'autorità della sociocultura che ha deformato a suo vantaggio i sistemi nervosi nel corso dell'apprendimento delle vigenti leggi del comportamento sociale. Non si tratta di un rousseauismo utopistico, di un ritorno alla "buona" natura, al "buon" selvaggio, ad Adamo ed Eva prima del peccato originale, prima dell'ingestione dell'acido malico, il veleno della conoscenza. No, si tratta piuttosto di non confondere "creazione di informazione", fatto tipicamente umano, con "mineralizzazione dello spazio culturale". La cultura finora ha progredito nella sua forma non commerciale solo per i calci in culo che gli ha dato la cieca pressione di necessità. La vita quotidiana del cittadino l'ha seguita a passo di marcia. Io spero in una cultura che marini la scuola e che, col naso imbrattato di marmellata, i capelli arruffati, pantaloni sformati, cerchi tra i cespugli dell'immaginazione il sentiero del desiderio. 


IL SENSO DELLA VITA

Cioè, che cosa significa? Chiediamolo a una delle mie cellule epatiche, il senso della vita. Eppure anche lei vive, dal momento che io vivo con lei. Temo proprio che non ci risponderà. Chiediamolo agli animali della terra, il mare, l'aria, il senso della vita. Eppure vi partecipano. Ma temo che non ci risponderanno. Chiediamolo nella nostra lingua a un cinese che parla solo cinese, qual è il senso della vita. Temo che non risponderà. Perché ci sia un senso, occorre che ci sia un messaggio. Perché ci sia un messaggio deve esserci una coscienza che lo formula secondo un certo codice, un sistema di trasmissione, e una coscienza che lo riceve e lo decifra. Se scrivo: "La carne è triste, ahimè, e ho letto tutti i libri", ho scritto una serie di lettere messe giù non a caso, bensì in un dato ordine le une rispetto alle altre, in modo da formare parole che abbiano ognuna una funzione nella frase: soggetto, predicato, complemento, ecc. L'organizzazione dell'insieme costituisce il messaggio, il significante. E' il sostegno della semantica, del significato che a sua volta costituisce l'informazione che voglio trasmettere. Dire che la vita ha un senso può tradursi dicendo che è il sostegno strutturato, il messaggio, il significante di una semantica, di un significato. Ma allora si può affermare che questo messaggio non è comprensibile né per la mia cellula epatica né per l'animale, ma per l'Uomo. Come dire che si esprime in un linguaggio universale per l'Uomo, ma solo per lui, a meno che... a meno che non ammettiamo che la coscienza umana sia "La Coscienza" perfetta, la cui struttura sia il modello dell'insieme delle strutture universali. Questa ipotesi è molto antropocentrica e poco probabile. Sarei persino portato a credere che, come la mia cellula epatica non ha coscienza del discorso che sto facendo, così noialtri individui non avremo coscienza del discorso che farà l'organismo planetario quando forse un giorno costituirà, ammesso che già non costituisca, l'insieme degli individui, morti e vivi, riuniti nella specie umana. Perché la specie è fatta di morti e di vivi, come un organismo che sopravvive benché a ogni secondo in lui spariscano alcune cellule.
D'altra parte, la Vita con la V maiuscola è un concetto criticabile. Esistono organismi diversi, più o meno complessi, e se le leggi strutturali che regolano la loro organizzazione sembrano le stesse in basso e in cima alla scala, se la sorgente energetica che le anima sembra essere per tutti l'energia solare, se in definitiva l'insieme dei sistemi viventi della biosfera sembra costituire un tutto coerente, malgrado la variabilità delle forme dei suoi elementi, nulla ci autorizza a considerare questo insieme "animato" da una forza particolare, indipendente dalle leggi della natura, da uno slancio vitale definibile simbolicamente con il nome "Vita". Mi sembra dunque che la ricerca del "senso della vita" debba essere intesa come ricerca di una finalità dell'insieme dei processi viventi in questa parte infinitamente limitata dell'universo che è la biosfera. Se esistono altre strutture complesse organizzate secondo "livelli di organizzazione", altri mondi nel cosmo, con quali criteri stabiliremo se appartengono alla "Vita"?
Potremo farlo solo quando conosceremo alla perfezione ciò che solo adesso cominciamo a scoprire, ossia le leggi e i meccanismi strutturali che sovrintendono all'organizzazione degli esseri viventi nel nostro mondo, e cercheremo poi una possibile analogia con le leggi e i meccanismi delle forme nuove che ci sarà dato di osservare. Se ci limitiamo a rilevare talune proprietà funzionali di questa materia organizzata, come quelle che etichettiamo con le parole coscienza, immaginazione, memoria, non si può essere certi che meccanismi diversi da quelli finora conosciuti sottendano le stesse funzioni. A ogni modo è quasi sicuro che potremo capire solo ciò che l'organizzazione della nostra struttura nervosa ci permetterà di capire, proprio come la cellula epatica può accogliere solo i segnali che la sua struttura di cellula epatica le permette di decifrare e non i discorsi cosiddetti logici che sto elaborando. Dopo questo preambolo, possiamo tentare di capire il "senso" (cioè il significato, il contenuto semantico retto dall'organizzazione d'insieme dei processi viventi) offerto alla nostra osservazione dagli individui che costituiscono le specie viventi della biosfera? E tra queste specie, il "senso" della vita di una specie che ci sta particolarmente a cuore, la specie umana? La struttura del messaggio, del significante, e la teoria dell'evoluzione dimostrano che essa è molto cambiata nel corso dei secoli. Ma pur trovandoci di fronte a un dato di fatto, non ne conosciamo ancora i meccanismi. Anche se riusciamo a precisarli, in quanto il fenomeno è situato nel tempo, dovremo mettere in discussione la nozione umana di tempo. L'insieme dei processi viventi ci ha già dato alcune indicazioni, nel corso degli ultimi decenni, sui meccanismi puramente fisici, termodinamici, della sua esistenza. Ancora più recentemente ci ha dato indicazioni sui meccanismi strutturali che ne costituiscono il carattere specifico. Nozioni e dati connessi alla conoscenza della materia, dell'energia e dell'informazione, ci hanno consentito di capire meglio in che modo erano disposte le lettere del messaggio. Siamo arrivati, con la fisica e la biologia contemporanea, alla sintassi dei processi viventi. Saremo un giorno capaci di comprenderne la semantica? Che cosa vuoi dire il messaggio di cui analizziamo la struttura? Ha un significato da trasmettere? Finché lo ignoriamo, la Vita può avere un senso? Siamo come chi, avendo tra le mani un foglio pieno di segni e credendosi il depositario di un messaggio scritto in una lingua che ignora, è convinto che occorra portarlo nel minor tempo possibile a un ignoto destinatario sconosciuto: ha un bel conoscere la struttura chimico-fisica dell'inchiostro e della carta, quella del mezzo di trasporto prescelto (il principio del motore a scoppio per esempio), egli non può tuttavia essere sicuro che il pezzo di carta che ha tra le mani sia un messaggio, che tale messaggio sia stato scritto da qualcuno che vuole informare qualcun altro, come non può essere sicuro del senso di quell'informazione. Oppure si abbandona il campo della scienza per entrare in quello della Fede.
Facendo questa distinzione non esprimo nessun giudizio di valore sull'una o sull'altra. Cerco soltanto di definire i generi, e aggiungo che possiamo scegliere l'uno o l'altro campo oppure entrambi contemporaneamente pur conoscendone le caratteristiche incompatibili, ma non abbiamo nessuna ragione logica di imporre agli altri il nostro atteggiamento. Ricordiamoci di dare a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio.
Poiché il contenuto semantico del significante non rientra nel campo della scienza, sarà mai possibile, limitandosi alla sintassi del significante, scoprire alcune nozioni limitate che chiariscano l'agire, alcune nozioni che ci permettano di scoprire una finalità ristretta, dal momento che la finalità globale e generalizzata ci sfugge? La finalità è intesa qui in senso cibernetico, cioè come "scopo che permette di rendere efficace l'azione". Dato che i processi viventi sono programmati, il problema non è sapere chi li abbia programmati né come siano stati programmati, ma a quale azione porti questo programma che s'impone all'osservatore.
Comunque si rigiri il problema, si arriva sempre alla nozione che,la finalità di una struttura vivente è mantenere la propria struttura, struttura complessa in un ambiente meno complesso. Un'altra finalità immediata non è pensabile, altrimenti non sarebbero mai esistite strutture viventi perché sarebbero state interamente soggette all'entropia. Ebbene, mentre i sistemi viventi della biosfera corrispondono al principio di Carnot-Clausius perché traggono la loro esistenza dall'entropia solare (mentre in altre parole, non contraddicono il secondo principio della termodinamica), nel campo dell'informazione, al contrario, l'intera evoluzione e l'esistenza, anche passeggera, degli organismi viventi costituiscono un ritardo, una battuta d'arresto nel processo di omogeneizzazione, nel livellamento termodinamico.
Dopo i primi esseri unicellulari, l'evoluzione è continuata con società cellulari di individui, poi con esseri pluricellulari sempre più perfezionati, fino all'Uomo. La specializzazione delle funzioni è apparsa fin dai primi tentativi di socializzazione cellulare. Ma in questi organismi pluricellulari ogni cellula, od ogni gruppo di cellule partecipanti alla stessa funzione, hanno avuto da quel momento la finalità di assicurare il mantenimento della struttura dell'organismo così creato. La funzione specializzata si è piegata alle esigenze della sopravvivenza della comunità organica. Siamo passati dai livelli di organizzazione intercellulare, a quelli delle cellule, degli organi, dei sistemi e infine degli organismi.
Se questa legge dell'organizzazione (che non si è mai smentita, dalle origini in poi) continuerà superando lo stadio attuale della specie umana, dovremo prevedere la comparsa di un nuovo livello di organizzazione inglobante l'insieme degli individui umani in un organismo planetario. Questa opinione può sembrare utopistica, perché allora potremmo prevedere anche la comparsa di un organismo planetario per ogni specie animale attualmente presente sulla terra. Sennonché, nessun individuo appartenente a tali specie sembra aver coscienza d'essere e di appartenere a una specie. Non aggiungono informazione alla materia e forse è lecito sperare che la specie umana dopo aver passato secoli a informare la materia inanimata, a produrre merci, si metta un giorno a informare la materia vivente. Non solo per trasformare il codice genetico, cosa molto probabile dopo i più recenti esperimenti di manipolazione genetica, ma soprattutto per raggiungere un nuovo livello di organizzazione, quello della specie umana. Così facendo, avremo affrontato solo il problema della sintassi, non quello della semantica. Ci saremo sottomessi, ma col nostro particolare livello di coscienza, a una legge generale d'organizzazione dei processi viventi. Avremo obbedito a una pressione di necessità, che è tale solo per l'Uomo perché è l'unico ad aver coscienza della sua dispersione planetaria, cosa che non accadrà mai alle società di api. lì senso della vita non può essere quello dell'individuo isolato dal suo contesto sociale, perché abbiamo già detto che l'Uomo non esiste al di fuori degli altri, che egli è fatto dagli altri. Ma non si può immaginare che tale contesto sociale si limiti a dei sottoinsiemi che difendono la loro struttura gerarchica di dominanza e il territorio materiale ed energetico, la nicchia ecologica in cui essa si è instaurata. Infatti, aumentando di giorno in giorno la propria informazione tecnica, alcuni sottoinsiemi sono andati a cercare in altre nicchie ecologiche la materia e l'energia di cui scarseggiavano, per mettere a frutto la loro informazione personale. Così è nato l'imperialismo, così hanno proliferato guerre e genocidi. Si può dire che, agendo in tal modo, quei gruppi sociali abbiano obbedito a una pressione di necessità, ma era quella tipica delle specie che hanno preceduto l'Uomo, nelle quali vince il più forte, sopravvive il più adatto. Ebbene non è detto che il più adatto per un'epoca lo sia anche per l'epoca successiva. Per questa ragione i grandi sauri del secondario non sono più tra noi. I gruppi sociali di cui parlavamo prima hanno trasformato l'ambiente con la loro dominanza. Ma adesso stanno distruggendolo, e tutta la specie corre il rischio di sparire con loro. Essendo consapevoli di aver obbedito a una pressione di necessità che ha governato finora l'evoluzione delle specie, Uomo compreso, saremo abbastanza coscienti da controllare questo determinismo, da controllare le nostre pulsioni ancestrali, prevedendo l'avvenire che ci preparano?
Dal punto di vista scientifico si può capire il senso della vita di un essere umano solo se non lo si separa da quello della specie. Non può essere limitato alla sopravvivenza di un sottogruppo predatore e aggressivo che cerca di impadronirsi di un territorio spaziale, economico, linguistico o culturale. La terra appartiene a tutti quelli che ci vivono. E' tonda e i suoi confini sono i confini dello spazio che essa occupa nel sistema solare. Non ha muri divisori, proprietà private, sbarramenti, cancellate. La materia e l'energia che racchiude sono state finora solo di chi era capace di creare l'informazione tecnica necessaria a utilizzarle. Questa informazione ha procurato a coloro che la possedevano armi perfezionate per asservire gli altri. Ha permesso loro di sfruttare terra, mare e aria lasciando agli altri solo i rifiuti.
Ma come arrivare a un'organizzazione planetaria della specie umana, se non si conoscono le strutture nervose e il meccanismo del loro funzionamento che impongono a ciascun individuo di contrastare la gratificazione dell'altro e di assicurare la propria gratificazione tentando di instaurare la propria dominanza? Dominanza, fra l'altro, sempre mimetizzata dall'espressione verbale di buoni sentimenti o di paternalismo protettivo. Tra l'individuo e la specie ci sono stati sempre i gruppi sociali, equivalente delle forme imperfette che negli stadi precedenti la comparsa dell'Uomo nel corso dell'evoluzione hanno via via tentato di dominare la nicchia ecologica che li aveva visti nascere. Ma la pressione di necessità ha fatto sì che si stabilisse tra esse un certo equilibrio, persino una certa cooperazione, che ha portato ai precari equilibri ecologici ora in via di estinzione. Con l'Uomo, la dominanza omicida oltrepassa il quadro intraspecifico per penetrare nel quadro interspecifico: la specie umana è l'unica che trae profitto dall'uccisione dei suoi simili. Se il senso della vita dell'individuo è vivere, mantenere la propria struttura, e così facendo partecipare evidentemente alla sopravvivenza della specie, questa finalità non può fermarsi a mezza strada ed entrare in sinergia con la sopravvivenza di un gruppo sociale limitato, qualunque esso sia, anche se un interesse apparentemente comune unisce gli individui del gruppo. Si cade nel razzismo spesso mascherato da ciò che potrebbe sembrare antirazzismo, ancor più pericoloso perché approfitta della cattiva coscienza degli altri. Tutte le idee, le ideologie, i concetti, i sentimenti, gli automatismi culturali che fermano gli individui lungo il percorso che porta alle specie e li rassicurano mediante l'appartenenza a un gruppo sociale, fanno parte della preistoria della specie umana. E di solito è proprio in nome della Storia, di una cultura gretta e superata dal corso stesso dell'evoluzione, che si mobilitano gli individui e si spingono all'assassinio intraspecifico.
Il senso della vita, la sua semantica, ci sfugge, e probabilmente ci sfuggirà sempre. Invece con quanto già sappiamo del significante, con quanto l'evoluzione e la recente biologia dei comportamenti cominciano a farci intravedere riguardo alla sua struttura, alla sintassi di cui stiamo scoprendo le leggi, presto non saremo più perdonabili se continuiamo a far errori di grammatica. Probabilmente non sapremo se il messaggio è comprensibile, chi lo manda, a chi è destinato. Ma saremo almeno sicuri di non disturbarne con rumori e interferenze la trasmissione. Saremo come un ingegnere delle telecomunicazioni. Allora ciascuno potrà trovare nel messaggio, magari per sentirsi rassicurato, una coscienza che trasmette per un fine cosmico. Non ci rompano, però, le scatole con tutte le parole vuote che hanno fino a oggi permesso di spingere le masse verso un ideale di delitti e di dominanza, sempre in nome della giusta causa: amore, responsabilità, libertà, fraternità, speranza. Non sarebbe più facile raggiungere la pace e la tolleranza, lodando odio, irresponsabilità, schiavismo, egoismo e disperazione? Mi fanno paura le parole pronunciate per mettersi la coscienza a posto, per esorcizzare il destino, per coprirsi gli occhi, per lasciare le cose come stanno. Finiamola con i belanti umanisti che tentano di farci credere alla Befana e all'efficacia delle parole. Non gli costa molto pronunciarle. Il senso della vita umana non è altro che l'accesso alla conoscenza del mondo vivente. Senza tale conoscenza, quella del mondo inanimato porta solo all'espressione individuale e sociale, delle dominanze coperte da chiacchiere mistificatorie. 


LA POLITICA

La politica dovrebbe essere la più elaborata delle attività umane. La specie umana, unica ad aver coscienza di specie, cerca ancora un modo di organizzazione planetaria. Immaginare rapporti interindividuali che consentano la costituzione di gruppi umani, capaci a loro volta di integrarsi senza antagonismo, in insiemi umani sempre più vasti per giungere finalmente a costituire un organismo planetario dal funzionamento armonioso e in grado di lasciare operare ognuno in modo che, assicurando la sua breve vita, assicuri anche quella della specie: questo è, in definitiva, l'oggetto della politica, prima di tutto scienza dell'organizzazione della struttura sociale, cioè di quella che regola i rapporti interindividuali. E' l'aspetto termodinamico, detto anche economico, dei rapporti sociali. Ritroviamo qui le nozioni di cui abbiamo già parlato: un organismo ha bisogno di prendere dall'ambiente materia ed energia per mantenere la sua struttura. Nel regno animale una parte dell'energia presa all'ambiente viene trasformata dagli organismi in lavoro e calore, che permettono di agire sull'ambiente, rendendo più facile procurarsi cibo, fuggire o lottare per la protezione dell'organismo, cioè per la conservazione della sua struttura. L'uomo, grazie ai suoi meccanismi associativi e ai suoi processi immaginativi, tradotti poi in azione, è capace di aggiungere informazione, cioè di trasformare materia ed energia nel modo migliore per la sua sopravvivenza, per il mantenimento della sua struttura.
Abbiamo anche visto che, appena si creano relazioni interindividuali e si costituisce una struttura sociale, una parte del lavoro viene destinata al mantenimento di quest'ultima e abbiamo paragonato questo lavoro, che solo indirettamente è utile al mantenimento della struttura individuale, al plusvalore. Questo lavoro, sottratto all'individuo, gli viene restituito solo indirettamente. Siccome l'individuo isolato è inconcepibile, siccome ciascuno è per forza insito in una società, siccome la struttura di tale società può trovare un sostegno energetico solo nei singoli, è evidente che il plusvalore è il fondamento della società.
Il problema comincia a profilarsi quando ci domandiamo a quale struttura sociale darà vita il plusvalore, che genere di rapporti interindividuali renderà possibili. Come si vede il problema economico è strettamente legato al problema sociologico. Ebbene, il problema sociologico riguarda rapporti interindividuali e di gruppo guidati da una biologia dei comportamenti di cui, finora, non si è tenuto conto. Che i nostri sistemi nervosi siano programmati in modo da permetterci di agire in un determinato spazio e di conservare, grazie all'azione, la struttura dell'organismo a cui appartengono; che cerchino in questo spazio di avere a disposizione gli oggetti e gli esseri gratificanti indicati dall'esperienza come adatti al mantenimento della loro struttura organica, del piacere; che a questo punto entrino inevitabilmente in gara con gli altri per ottenere la "proprietà" di quegli oggetti e di quegli esseri: che da tutto ciò scaturisca inevitabilmente una gerarchia; che nel mondo umano tale gerarchia avvantaggi coloro che manipolano l'informazione tecnica astratta, necessaria alla creazione di macchine o alla produzione intensiva di merce; ecco alcuni fattori, per esempio, che non vengono mai menzionati per chiarire l'origine delle disparità socioeconomiche e delle dominanze intra e internazionali. Abbiamo sviluppato molto più ampiamente questi concetti in un recente libro, già citato.14
Eliminare la proprietà privata dei mezzi di produzione e di scambio, che incatena colui che non ha alla dominanza di chi ha, è evidentemente un fattore indispensabile alla trasformazione dei rapporti socioeconomici. Ma non faremo alcun progresso fin tanto che a ogni individuo mancheranno le informazioni, non più tecniche e professionali, bensì generali, riguardanti le leggi biologiche di organizzazione delle società, e finché il plusvalore continuerà a essere adoperato secondo le decisioni di pochi, burocrati e tecnocrati, che così esprimono la loro dominanza e soddisfano il loro narcisismo. L'alienazione gerarchica causa certo più malessere sociale delle disparità economiche. Se nei paesi capitalisti le disparità economiche corrispondono alle disparità gerarchiche, nei paesi socialisti in cui le disparità economiche, pur esistendo, sono meno flagranti, rimangono le disparità gerarchiche, e non basta chiamarsi tutti "compagni" per far sparire dominanti e dominati, classe dirigente e classe diretta, onnipotenza del partito rispetto alla base.
Parlare di politica, oggi, vuoi dire nascondere sotto un discorso logico, mutuato dai partiti politici che vanno per la maggiore, un'affettività inconscia, quella delle pulsioni e degli automatismi culturali, del narcisismo soddisfatto o insoddisfatto, nella struttura gerarchica dominante. Il conservatore è soddisfatto del suo status sociale, il rivoluzionario è insoddisfatto. Entrambi parlano in nome di grandi principi generali e generosi ed entrambi considerano le loro scelte come necessarie al bene dell'insieme umano di cui fanno parte, se non dell'intera umanità. Entrambi sembrano perfettamente disinteressati e abbondano di argomenti, tutti perfettamente logici, di analisi, tutte molto pertinenti, dei fatti sociali ed economici, validi non solo per loro, ma per tutto il pianeta. Nessuno di loro ammette di difendere il suo stato sociale, il suo interesse, il suo posto gerarchico nella società e forse non si rende nemmeno conto di farlo. Ciò che viene chiamata coscienza di classe non mi sembra invece c'entri gran che con la "coscienza" ma sia semmai un fenomeno affettivo, espressione di innumerevoli fattori inconsci. Tra gli argomenti invocati per difendere una scelta politica, alcuni sono tratti da una corretta osservazione dei dati economici e sociali ed è difficile criticarli. Del resto è illogico criticare i dati di fatto, mentre si può benissimo criticare la loro interpretazione, spacciata per logica, e la scelta, spacciata per consapevole e disinteressata, dell'azione politica conseguente. Come sempre il contenuto del discorso non è più importante della sua motivazione. Ciò che spinge a dire, e che rimane soggiacente al discorso, è indispensabile all'interpretazione dei dati osservati quanto ciò che è detto. I fenomeni sociali ed economici possono essere decifrati solo secondo la falsariga generale dei comportamenti umani in situazione sociale. Se dalle attività umane togliamo l'uomo, rimane solo una struttura gratuita, un modello senza autenticità, un'ideologia, e si riproducono nel corso dei secoli gli stessi sistemi gerarchici di dominanza.
Credere di esserci liberati dall'individualismo borghese perché esprimiamo il nostro pensiero all'ombra protettiva delle classi sociali e delle loro lotte, perché ci illudiamo di agire contro il profitto, lo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo, le potenze finanziarie, i poteri costituiti, significa ignorare totalmente ciò che motiva, dirige, orienta le azioni umane e innanzi tutto ciò che motiva, dirige, orienta i nostri giudizi e le nostre azioni. Ciò non vuol dire che si debba esprimersi e agire diversamente, ma bisogna sapere che dietro un discorso dichiaratamente altruista e generoso si nascondono motivazioni pulsionali, desideri inappagati di dominanza, apprendimenti culturali, sottomissioni (ricompensate) ai loro divieti o ribellioni inefficaci contro l'alienazione all'ordine sociale dei nostri atti gratificanti, ricerche di soddisfazioni narcisistiche, eccetera. Di modo che, quando interessi comuni permettono a un gruppo umano di abbattere il potere costituito, subito si scatena in seno al nuovo potere una lotta per la dominanza, appare e si insedia un nuovo sistema gerarchico e il ciclo ricomincia.
Si capisce anche quale inganno costituisca ciò che siamo soliti chiamare democrazia. Perché l'opinione "politica" di un individuo è generalmente l'espressione della sua soddisfazione, o insoddisfazione, a seconda del livello da lui raggiunto nella scala gerarchica, a seconda dell'immagine che ha di se stesso, e l'opinione di una "maggioranza" non è mai il risultato di una conoscenza estesa, globalizzante e analitica al tempo stesso, dei problemi socioeconomici, ma il risultato dell'integrazione di innumerevoli fattori affettivi individuali e di gruppo, che trova poi sempre un discorso logico per convalidare la sua esistenza.

All'insoddisfazione di origine economica si rimedia generalmente aumentando il potere di acquisto della maggioranza, che può così procurarsi un maggior numero di oggetti gratificanti. Per far questo bisogna produrre di più, e ciò permette, a quanto pare, di lottare efficacemente contro la disoccupazione. Ma, d'altra parte, dato che la scala gerarchica rimane la stessa, e in parte si basa, nei paesi capitalisti, sulla quantità di oggetti che ogni individuo può consumare in funzione del livello da lui raggiunto in questa scala, si perpetuano le disparità economiche, benché si elevi il livello di vita in generale. I criteri materiali del benessere variano evidentemente da epoca a epoca e da regione a regione, e dipendono molto più dai bisogni appresi che dai bisogni fondamentali. D'altra parte, sempre per i paesi capitalisti, essendo le disparità economiche uno degli elementi essenziali per mantenere le differenze tra gli individui, la finalità del lavoro umano non è più l'appagamento dei bisogni fondamentali ma l'appagamento dei bisogni acquisiti, e deve fare i conti col profitto, il quale permette di mantenere le differenze, pur elevando il livello di vita generale. Ecco allora una pubblicità sfrenata per creare nuovi bisogni che a loro volta permettano nuovi profitti e mantengano la scala gerarchica di dominanza economica. Ebbene, questo mondo di espansione economica adopera, per la produzione dei beni di consumo, materia (detta prima), energia e informazione tecnica (quella dei brevetti e quella dell'apprendimento umano). I paesi altamente industrializzati non trovano più nella loro nicchia ecologica la materia e l'energia sufficienti a impiegare la loro informazione tecnica e ad appagare i loro bisogni acquisiti, così, per continuare a espandersi, disponendo dell'informazione tecnica, la sola capace di trasformare e utilizzare materia ed energia, sono andati a cercare queste ultime fuori della loro nicchia ecologica. Questa fu la causa fondamentale dell'imperialismo e di una nuova scala di dominanza internazionale, perché i paesi più ricchi di informazione tecnica avevano la potenza delle armi e del capitale internazionale, e sfruttavano la loro inflazione, il loro modo di vivere, il loro successo materiale, incitando gli altri popoli a imitare le loro strutture sociali ed economiche per partecipare alla loro dominanza.
E' divertente constatare come i potenti cerchino di persuaderci che occorre destreggiai si tra inflazione e disoccupazione per raggiungere il sospirato scopo del benessere nella società in espansione. Ebbene, utilizzare il profitto per mantenere le scale gerarchiche di dominanza significa permettere, grazie alla pubblicità, un'orgia insensata di prodotti inutili, incitare a dilapidare, per produrli, il capitale materiale ed energetico del pianeta, senza preoccuparsi per la sorte di coloro che non possiedono l'informazione tecnica e i molteplici modi per diffonderla. Ciò significa arrivare alla creazione di mostri economici multinazionali la cui unica regola è la propria sopravvivenza economica, realizzabile solo con una dominanza planetaria. Significa in definitiva far sparire ogni potere non conforme al desiderio di potenza puramente economica di quei mostri della produzione.
Quando un popolo non trova più materia ed energia in quantità sufficiente nella sua superficie geografica, se non può, come faceva un tempo grazie all'imperialismo, procurarsele a basso prezzo, sottraendole ad altri popoli a cui l'insufficiente sviluppo dell'informazione tecnica non ha permesso di utilizzarle, esso ha ancora una possibilità: esportare le sue conoscenze tecniche. Tali conoscenze permettono di trasformare materia ed energia in beni di consumo, quindi sono commerciabili come beni di consumo. Ecco perché prospera tanto lo spionaggio industriale che permette di entrare in possesso senza spese di nuove tecniche di fabbricazione.

Mi spiace, in questo capitolo dove ero tenuto a parlare di "Politica", di aver fatto un riassunto striminzito d'economia politica. Mi rendo conto di quanto sia insufficiente, ma avevo solo l'intenzione di dimostrare come - che si tratti di sottogruppi umani, di imprese, di città, di corporazioni, di regioni, di nazioni o di gruppi di nazioni - tutta l'organizzazione planetaria delle società degli uomini sia, oggi come ieri, basata sulla ricerca della dominanza e come la ricerca della dominanza tra individui diventi poi ricerca di dominanza tra gruppi umani, a tutti i possibili livelli di organizzazione. Abbiamo cercato di dimostrare che, quando si ottiene la dominanza mediante il profitto, la finalità è quasi esclusivamente economica, perché il profitto diventa pressappoco l'unico mezzo per mantenere la scala di dominanza.
Si può così discutere all'infinito con serie argomentazioni in favore o contro le società multinazionali. Ma in realtà i loro dirigenti sono generalmente dei tecnocrati che vogliono solo esprimere il loro bisogno di prestigio e di potenza con lo sviluppo crescente e tentacolare della industria di cui fanno parte. Si scontrano con capi di governo o con dirigenti sindacali che sono animati da identiche pulsioni e il cui discorso logico, pur fondandosi su un diverso bagaglio culturale, è però altrettanto convincente. In quanto a coloro che si è soliti chiamare intellettuali, coloro le cui innovazioni tecniche sono indispensabili all'estendersi della potenza commerciale di queste industrie, o giudicano che il loro apporto non è valutato abbastanza dagli altri protagonisti e criticano amaramente il sistema da cui dipendono, senza arrivare però allo sciopero che li priverebbe di vantaggi economici e gerarchici non trascurabili; oppure si considerano abbastanza gratificati dalle promozioni gerarchiche che via via ottengono e diventano fedeli paladini del sistema.

"Dal punto di vista economico, è chiaro che fino a quando non sarà stata eliminata la proprietà (privata o statale) delle materie prime, dell'energia e dell'informazione tecnica, fino a quando non sarà stata organizzata o istituita una gestione planetaria di questi tre elementi, rimarranno disparità internazionali che favoriranno le disparità intra-nazionali". Ma anche supponendo che queste proprietà private o statali vengano alimentate, rimarrà da risolvere il sistema gerarchico planetario di dominanza che di sicuro assumerà l'aspetto di una "democrazia" planetaria.

Se, abbandonando questo punto di vista totalitario, ritorniamo al problema individuale e tentiamo di percorrere il cammino inverso, dal particolare al generale, ci accorgiamo subito che allo stadio attuale della specie non sono più realizzabili isolati umani e si potrà avere una trasformazione profonda della condizione individuale solo se essa sarà accompagnata da una trasformazione sinergica di tutti gli insiemi sociali fino al massimo insieme che è la specie.
La rivoluzione socialista del 1917 ha dovuto il suo successo all'isolamento, alla completa autarchia resa possibile dalla vastità della nicchia ecologica in cui è scoppiata. La cortina di ferro non è stata una scelta, ma una necessità. In Cile o in Portogallo la rivoluzione socialista non riesce a prendere piede perché non si inserisce, come invece è avvenuto a Cuba, in un sistema inglobante che può proteggerne la struttura. D'altra parte la sperimentazione delle rivoluzioni socialiste contemporanee, anche tenendo conto degli indiscutibili progressi fatti dai paesi in cui hanno potuto istituzionalizzarsi, non offre esempi di comportamenti sociali tali da poter accettare senza esitazioni quel sistema di dominanza.
Bisogna inventare un nuovo sistema di relazioni interindividuali, che tragga insegnamento dal fallimento dei sistemi precedenti e sia capace di limitare i danni provocati dalle scale gerarchiche di dominanza. Le rivoluzioni socialiste si sono servite pochissimo, o non si sono servite affatto, del profitto come mezzo per affermarsi. Ma il prestigio, la conquista del potere, generalmente legati al conformismo nei confronti di un'ideologia settaria, sono stati mezzi altrettanto efficaci per stabilire scale gerarchiche. Sono cambiati i mezzi, ma la gerarchia rimane. La maggioranza non è padrona del suo destino, come non lo era prima. Non ha maggiori possibilità di portare a termine il suo progetto personale se esso non è conforme al progetto dei maestri di pensiero del momento. La soluzione potrebbe essere un progetto di autogestione a livello planetario. Abbiamo spiegato, in un altro libro,
15 perché questa struttura socioeconomica sarebbe efficace solo se l'insieme delle popolazioni acquisisse la conoscenza di ciò che abbiamo chiamato informazione generalizzata e non più tecnica. Solo un'informazione di questo tipo può definire non i "mezzi per ottenere una certa struttura sociale", ma innanzi tutto la "finalità perseguita" da quella struttura, e farla accettare a livello mondiale. Sennò c'è il rischio di ricadere in una ricerca di dominanze a tutti i livelli di organizzazione della società umana. Dire che la specie umana si trova oggi di fronte a una scelta di civiltà, è banale, e inoltre può sembrare strano che proprio io parli di scelta. In realtà non sarà certo una scelta. Si tratterà, una volta che tutti saranno arrivati alla conoscenza, di una consapevolezza diffusa delle conseguenze dei nostri vecchi comportamenti, della tardiva comprensione dei meccanismi che li governano, di una nuova pressione di necessità alla quale dovremo obbedire per far sopravvivere la specie. Non si tratta di sapere se è bene che sopravviva, non sappiamo neppure se ciò avverrà. Ma sembra certo che la sua eventuale sopravvivenza implicherà una profonda trasformazione del comportamento umano. E tale trasformazione sarà possibile solo se tutti gli uomini conosceranno i meccanismi in base ai quali pensano, giudicano e agiscono.
Se saranno pochi a essere informati, quei pochi andranno a sbattere contro il muro compatto del desiderio di dominanza di coloro che non lo sono, e la loro salvezza individuale e la loro tranquillità nel breve passaggio su questa terra sarà affidata unicamente alla fuga lontano dalle competizioni gerarchiche e di dominanza, sempre che non siano, loro malgrado, trascinati nelle stragi intraspecifìche che le competizioni gerarchiche continuano a provocare in tutto il mondo.

Forse esiste tra i discorsi logici, tra le ideologie suscettibili di orientare l'azione, una gerarchia di valori. Ma tutto sommato l'unico criterio da seguire per stabilire questa gerarchia è la difesa "dell'infanzia abbandonata". Don Chisciotte aveva ragione. Solo la sua posizione è sostenibile. Bisogna combattere ogni autorità imposta con la forza. Ma la forza e la violenza non sempre sono dove sembra che siano. La violenza istituzionalizzata, quella che proclama di basarsi sulla volontà della maggioranza, della maggioranza rimbambita non per effetto della marihuana, ma per intossicazione da mass-media e da automatismi culturali che strascicano la spada sul terreno polveroso della Storia, la violenza dei giusti e dei benpensanti, di quelli stessi che mandarono Cristo sulla croce, ben abbarbicati al loro tempio, alle loro decorazioni e alle loro mercanzie, la violenza inconscia o che si crede giustificata, è fondamentalmente contraria all'evoluzione della specie. Bisogna combatterla e perdonarla perché non sa quello che fa. Non ci si può arrabbiare con gli incoscienti, anche se spesso sono insopportabili con le loro pretese. Schierarsi per principio dalla parte del più debole è una regola che può evitare molti rimorsi. Bisogna però stare molto attenti a non sbagliarsi nel diagnosticare qual è il più debole. Non sempre basta la nozione di classe. Anche in questo caso, la logica del discorso può riuscire a mascherare il rapporto di forza. Direi che è buona regola evitare di schierarsi dalla parte della maggioranza trionfante e se per caso succede che una minoranza diventi una maggioranza, e trionfi, è meglio cercare altrove. Bisogna creare una minoranza che non sia né quella vecchia né quella nuova ma qualcosa d'altro. Consiglio tutto questo solo a chi non ne può fare a meno. In altre parole solo a chi è fondamentalmente masochista. Altrimenti continuo a raccomandare la fuga, nell'immaginazione, naturalmente. Non occorre passaporto.
Una volta capito che gli uomini si uccidono l'un l'altro per stabilire una dominanza o per mantenerla, vien voglia di concludere che la malattia più pericolosa per la specie umana, non è né il cancro né le malattie cardiovascolari, come cercano di farci credere, ma il senso delle gerarchie, di tutte le gerarchie. Non c'è guerra in un organismo perché nessun organo cerca di dominare l'altro, di comandarlo, di essergli superiore. Tutti funzionano in modo da far sopravvivere l'organismo. Quando mai capiranno, i gruppi umani appartenenti al grande organismo della specie umana, che il loro scopo è la sopravvivenza dell'insieme e non l'affermazione della loro dominanza sugli altri? Nessuno, da solo, rappresenta la specie e nessuno ha il monopolio della verità.
Secondo me, è stata una carenza del marxismo focalizzare l'attenzione sui rapporti di produzione e considerarli come base di tutti i rapporti umani. Ha preso in esame l'uomo termodinamico, l'uomo che produce, mentre le strutture sociali sono un "mettere in forma", scaturiscono da un'informazione, e i rapporti di produzione secondo me sono solo un risultato secondario di questa informazione primaria. Come se, per fare un paragone biologico, il biologo si interessasse solo di metabolismo (del resto, così è stato per molti anni) ignorando la struttura che ne permette la manifestazione e la cui origine si trova nella struttura dei geni del nucleo. Come abbiamo affermato altrove, la difficoltà consiste nel fatto che non può esserci struttura senza elementi materiali ed energetici da associare, e così capita spesso di confondere l'una con gli altri. Ebbene, in politica la struttura che sottende i rapporti di produzione è la struttura dei sistemi nervosi umani in cerca del potere e della dominanza necessari per portare a termine il progetto individuale, da preferire a quello dell'altro. I rapporti di produzione sono solo un modo, anche se non trascurabile, di espressione funzionale. Attribuire loro una parte essenziale nei rapporti umani significa ricadere nella dicotomia di uomo che produce e uomo di cultura: significa obbligare l'individuo ad affidare il proprio potere di organizzazione dei rapporti sociali a un partito o ai leader ispirati, a coloro che sanno o, ancor più spesso, a un conformismo tendente a mantenere antiche strutture. Significa, di conseguenza, continuare a considerarlo sotto l'aspetto termodinamico e credere che lo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo avvenga solo mediante la produzione di beni, la ricchezza del mondo, di cui viene privato proprio il lavoratore che la produce. Ma la vera ricchezza che egli potrebbe produrre e di cui viene privato, anche nei paesi socialisti odierni, è la conoscenza. Non solo la conoscenza scientifica o "culturale" ma la conoscenza di se stesso e degli altri che potrebbe indurlo a inventare nuovi rapporti sociali e a organizzarli in modo diverso da come gli viene imposto. La cosa più importante da conoscere, prima della quantità di energia assorbita e liberata da una struttura vivente e il modo di distribuire il plusvalore, è la forma, la funzione, il compito di questa struttura vivente. E' fondamentale acquisire la conoscenza di questa informazione, la consapevolezza di far parte di un insieme, di partecipare, attraverso l'azione individuale, alla finalità di questo insieme, di potere, come individui, influenzare la traiettoria del mondo. Ha fatto più Marx per influenzare questa traiettoria, di quanto non abbia fatto tutto il lavoro compiuto in seguito dagli operai che hanno adottato la sua dottrina. Proprio perché lui ha dato un'informazione nuova, capace di capire e di organizzare in modo diverso il lavoro umano. Anzi, si può dire che è l'esempio vivente del fatto che i rapporti umani non sono solo rapporti di produzione, ¢ almeno che informazione e lavoro non vanno confusi.




PASSATO PRESENTE FUTURO

E' impossibile affrontare il problema del tempo, se non si è fisici. Il mio amico Joel de Rosnay lo ha fatto tempo fa nella nostra rivista "Agressologie" e più di recente nel suo ultimo libro. 16 Confesso francamente di aver trovato parte delle sue argomentazioni incomprensibili pur conoscendo tutti gli elementi di base. Esito a parlare di un tale argomento, perché è facile fare errori di concetto e poi non mi allontano volentieri dall'ambito del mio lavoro di ogni giorno che conosco bene. Se nonostante tutto mi inoltro su questo terreno minato è più per far domande che per dare risposte.
Non ci vuoi molto ad ammettere che concepiamo il tempo come il nostro livello di coscienza ci permette di farlo. Non ho detto prima che potevamo accedere al significante dei processi viventi, senza per questo poter accedere al significato? Immagino per esempio, con un'ipotesi fantascientifica, che l'universo sia dotato di una coscienza di essere di cui sappiamo solo che è analoga alla coscienza che noi stessi abbiamo della nostra esistenza. Questa coscienza universale non avrà naturalmente la nostra stessa nozione di tempo legata alla nozione di spazio. Dopo Einstein sappiamo che possiamo parlare solo di spazio-tempo. Non possiamo più riferirci a uno spazio assoluto e a un tempo universale. Le proprietà dello spazio dipendono dalla velocità impiegata a percorrerlo. Abbiamo già avanzato l'ipotetica ipotesi di questa "coscienza universale", nell'epilogo della "Nouvelle grille". Dicevamo che per essa non esistevano più né spazio né tempo, perché essa era spazio e tempo, né doveva quindi spostarsi in un certo tempo per percorrere un certo spazio: la "coscienza universale è quello che è".
Abbiamo avanzato questa ipotesi solo per dimostrare, partendo da essa, che ogni insieme da lei inglobato (secondo diversi livelli di organizzazione, dalle galassie ai sistemi solari, dai pianeti agli atomi) avrà un tempo al suo interno, un tempo proprio, perché entra in relazione con altri insiemi e queste relazioni impiegheranno un certo tempo per coprire lo spazio che le separa. La nozione di tempo sarà dunque relativa e dipenderà dalle caratteristiche fisiche dell'insieme preso in esame. Per noi ci sarà un tempo umano individuale, un tempo della cellula, un tempo della molecola, un tempo dell'elettrone. Così il tempo sociale e il tempo della specie non scorrono alla stessa velocità del tempo dell'individuo, e anche per quest'ultimo il tempo dell'infanzia è molto più lento di quello della vecchiaia. Ognuno può constatarlo.
Fin qui non credo di essermi discostato troppo dalla prospettiva di J. de Rosnay. Il quale invece mi diventa più difficile, anche se rimane affascinante, quando cita i lavori di Costa de Beauregard, probabilmente perché mi manca una cultura fisica e matematica. Costa parte dall'equivalenza che taluni fanno, tra entropia negativa e informazione. Personalmente non trovo tale equivalenza convincente perché i processi viventi, sempre invocati quando si parla di entropia negativa, sono una "messa in forma" realizzabile solo con un aumento di entropia solare, e sarei tentato di seguire l'opinione di Wiener che insiste sul fatto che l'informazione è solo informazione, che non è né massa né energia, anche se per esistere le sono necessarie massa ed energia. Il significato non può fare a meno del significante. Dire che l'informazione è equivalente a entropia negativa significa che si acquisisce dall'entropia positiva e porta alla tesi che si può creare ordine dal disordine. In un sistema chiuso l'aumento dell'entropia, del disordine, aumenterà le possibilità che si incontrino elementi atomici e molecolari, e quindi le possibilità che appaia l'ordine. Ciò vuoi dire, a quanto pare, che aumentando l'entropia aumenterà l'informazione. Cioè deve crearsi un equilibrio dinamico tra ordine e disordine, neg-entropia ed entropia. Non si può concepire un mondo interamente neg-entropico riempito di informazione, perché non ci sarebbe più entropia positiva per mantenere la struttura. Il punto omega theilardiano, inteso come universo unicamente informazionale, mi sembra inconcepibile per una coscienza umana, o più umilmente per la mia. Il problema si complica ulteriormente quando passiamo dalla neg-entropia (che rappresenta in certo qual modo l'ordine, la sintassi del messaggio di cui parlavamo in un precedente capitolo, e non ne presuppone per forza la comprensione) alla semantica, al significato del messaggio. Ci ritroviamo di fronte al problema affrontato prima riguardo alla semantica, che si presume sia l'espressione di una coscienza che trasmette un'informazione significante a un interlocutore sconosciuto, in grado però di decifrarla. Si passa dalla scienza alla Fede. De Rosnay dice che la neg-entropia è "neutra e oggettiva", noi diciamo che è come la sintassi. L'informazione ha un senso "soggettivo" valido per chi è in grado di decifrarla, di renderla significante.
Ritorniamo alla nozione di tempo. J. de Rosnay dimostra che l'unica nozione di tempo che abbiamo è legata al principio di causalità, di "prima" e "dopo", ed è quindi legata al secondo principio della termodinamica, all'entropia universale. Le informazioni raccolte e accumulate nel nostro cervello sono legate a variazioni energetiche, verificatesi nell'ambiente esterno e soggette all'entropia, dunque a un tempo unidirezionale orientato verso il disordine crescente, la diminuzione dell'informazione, J. de Rosnay lo chiama processo di osservazione, d'acquisizione di conoscenza. E' da notare che questo processo è accompagnato da una "messa in forma" delle vie neuronali del cervello, dalla costituzione di una sintassi neuronale, dalla creazione di un significante. J. de Rosnay contrappone questo tipo di informazione al processo inverso, la trasformazione di informazione in neg-entropia, processo di creazione e di azione nel corso del quale il cervello, invece di informarsi, informa e organizza. Confesso di non capire la distinzione che fa a questo punto tra tempo che "espone", attualizza (in cui il cervello si informa), e tempo che "aggiunge", quello della creazione. Per creare occorre infatti molto tempo, perché la creazione può nascere solo dall'accumulo dell'esperienza memorizzata. La registrazione invece è rapida, mentre l'associazione di registrazioni in una nuova struttura è molto più lunga perché risulta dall'accumulo, nel tempo, dei fatti registrati.
Egli si rifà poi alla cibernetica per convincerci che in un regolatore "sembra che la freccia del tempo si richiuda su se stessa". In una regolazione infatti possiamo chiederci "se la causa precede l'effetto o viceversa", perché "la causalità circola lungo l'anello", mentre si apre l'anello, lo si allunga, con un inizio e una fine, si ricade nella causalità lineare, con un "prima" e un "dopo". E' come se nel regolatore ci fosse la "conservazione del tempo". E' da notare che dal punto di vista temporale, dato che tra il fattore e l'effetto si frappone la struttura dell'effettore, generalmente c'è un "ritardo di efficacia", e tra l'effetto e la correzione dei fattori, correzione necessaria per raggiungere lo scopo, esiste un'"isteresi", due elementi che evolvono nel tempo. Ma soprattutto abbiamo continuato a insistere sul fatto che un tale regolatore "non fa niente". In una reazione enzimatica isolata "in vitro", una volta raggiunto l'equilibrio tra quantità di substrato e quantità di prodotto di reazione, sembra, a un'osservazione sommaria, che non avvenga più niente nel tempo. Invece, a una osservazione più minuziosa, una certa quantità di substrato continua a trasformarsi in prodotto della reazione e viceversa, e questo avviene in "un determinato tempo", quello degli spostamenti elettronici.
Per finire, i sistemi viventi sono rappresentati da catene di servomeccanismi, in cui l'attività dei livelli di organizzazione, regolata, è comandata dal livello di organizzazione soprastante, da un comando esterno al sistema. Essa sfocia nell'attività dell'insieme organico che si evolve in un dato spazio in un determinato tempo.
Così, la differenza tra biologo e fisico sta forse soprattutto nel fatto che il primo, in quotidiano contatto con i livelli di organizzazione (situati in un sistema relativamente chiuso, la biosfera, compresa nel sistema solare), vede evolversi le cose nel tempo, e vede l'informazione sostenuta da un'entropia crescente, l'entropia solare, mentre il fisico può immaginare una struttura d'insieme in cui il tempo non è più legato ai sottoinsiemi, ai livelli di organizzazione, allo spazio, e acquista la stessa dimensione di quest'ultimo in un continuo spazio-tempo. Ho ripetuto spesso che secondo me la caratteristica essenziale per il funzionamento del cervello umano è la facoltà di immaginare, cioè la capacità di creare nuove strutture. E' probabile però che tutte le forme viventi, dalle più elementari alle più complesse, dal momento che sono capaci di memoria, cioè di una trasformazione persistente della loro struttura somatica attraverso l'esperienza, siano anche capaci, in diversa misura, di una certa immaginazione, cioè di un certo potere di anticipazione. L'anticipazione è resa possibile solo dalla memorizzazione. Ma l'anticipazione rappresenta anche la possibilità di prevedere, di programmare un'azione la cui finalità è proteggere la struttura. Abbiamo anche ammesso che questa anticipazione, gonfia di determinismi acquisiti e di motivazioni legate alla struttura da mantenere, possa venir chiamata libertà. Ma questa anticipazione creatrice di strutture immaginarie che dovranno essere verificate dall'esperienza, si costruisce anche nel tempo, non solo quello dell'acquisizione delle immagini memorizzate, ma anche quello della loro associazione originale. E' il tempo della biochimica cerebrale, forse il tempo dell'elettrone. E quando l'anticipazione si esprime in un'azione, lo fa ancora una volta nel tempo, quello in cui un essere umano è consapevole di agire, come è consapevole di agire in un certo spazio.
Quanto abbiamo scritto sulla relatività del tempo e dello spazio e sull'informazione, non riguarda solo il discorso. La nostra vita quotidiana è piena di queste relazioni, esse sono all'origine di problemi non risolti che hanno gravi conseguenze. Infatti la nostra azione si realizza in un determinato spazio, ma, attraverso gli organi dei sensi, riceviamo informazioni da un altro spazio non sovrapponibile al precedente. Esso si è allargato, negli ultimi decenni, fino ai confini del pianeta e anche oltre. Da tutte le parti del mondo ci giungono informazioni visive e auditive, alla velocità delle onde elettromagnetiche. Ebbene, quasi sempre i mezzi di azione diretta individuale rimangono limitati a uno spazio ristretto. Vediamo alla televisione i bambini scheletriti del Sahel, o di altrove, morire di fame. Che possiamo fare per porvi rimedio? Non si tratta di altruismo, è che l'immagine della morte, di una morte non finta, ci ricorda che dobbiamo morire. Ebbene, abbiamo dimostrato che l'inibizione dell'azione da origine alle più profonde turbe dell'equilibrio biologico. Abbiamo contratto lo spazio-tempo in cui ci arriva l'informazione, ma non abbiamo quasi mai contratto lo spazio-tempo in cui la nostra azione personale può risultare efficace.
Ugualmente, i mass-media diffondono un'informazione, che non può essere obiettiva, a masse umane passive che non hanno nessun modo di agire sulla fonte delle informazioni, che così non può evolversi, "informarsi" a sua volta, trasformarsi.
Invece, nel combattimento a corpo a corpo, captare informazioni, agire e osservare il risultato, tutto avviene nello stesso spazio. Oggi il pilota di un bombardiere sgancia le bombe da una tale altezza che non gli permette di osservare i particolari sconvolgenti dell'esplosione, non può quindi rimanerne impressionato. E non parliamo dei missili con testata atomica che contraggono il tempo di dispersione della morte, come lo spazio percorso, senza che lo spazio-tempo di colui che non li possiede venga per niente contratto.
Del resto l'Uomo utilizza lo spazio, senza tener in nessun conto la sua equivalenza con un tempo che varia, come abbiamo detto, col livello di organizzazione. Così, mineralizziamo lo spazio con un'urbanizzazione selvaggia. Quando il tempo sociale era lento, perché le informazioni tecniche e socioculturali si accumulavano lentamente, la mineralizzazione dello spazio poteva adattarsi al tempo sociale. Ma oggi che il tempo sociale si è molto accelerato, costruiamo col tempo della materia, grazie a un'anticipazione che riguarda un tempo individuale, per una società che cambia a vista d'occhio, più velocemente degli individui che la compongono.
Così, costruire l'avvenire, studiarlo, come proponeva Gaston Berger, non è semplice. Bisogna scegliere un obiettivo e correggere a ogni istante la traiettoria dell'azione, come si fa quando si spara con l'antiaerea. Ma sparare con l'antiaerea è abbastanza semplice, perché l'obiettivo, per quanto mobile, è evidente. Invece nelle prospettive umane, l'obiettivo di oggi quasi sicuramente non sarà quello di domani perché oggi possiamo immaginare un obiettivo da raggiungere solo con i criteri di valutazione della società contemporanea. I nostri desideri del futuro sono solo la pallida immagine poetizzata della nostra conoscenza del presente. Certo, cominciamo a capire che le leggi della balistica che permettono di colpire un obiettivo fisso, come si accontentava di fare l'artiglieria dell'inizio del secolo in base al principio di causalità lineare non hanno niente a che vedere con le applicazioni pratiche dell'inseguimento cibernetico di un mobile. Ma come colpire un obiettivo non solo mobile, ma inimmaginabile dalla nostra immaginazione odierna? Un obiettivo creato, a ogni istante, dalla nostra azione? Un obiettivo situato contemporaneamente in tutti i tempi dei livelli di organizzazione e concepibile solo nel tempo della coscienza umana individuale e non della coscienza collettiva che ci sfugge? Dove è finito il determinismo semplicistico dei nostri padri? Dove sono finite le certezze ideologiche settarie e rigide? Ciò non significa del resto che non si debba agire. Significa solo che non si può prevedere con certezza il risultato dell'azione. Quindi mi sembra prematuro voler imporre questa azione come modello universale per i comportamenti umani. Ma ciò vuoi dire anche che ogni azione fondata sull'utopia ha più possibilità di rivelarsi efficace della riproduzione balistica dei vecchi comportamenti. Di una cosa possiamo essere sicuri: per le società umane, l'evoluzione esiste. Ma dove ci porta? E come correggerne la traiettoria? Ammiro molto coloro che non sono tormentati da nessun dubbio, che risolvono tutto con analisi logiche adoperando il cannone della Storia e la balistica dei padri.
Nel semplice gesto che ci permette di raggiungere un oggetto con la mano, riusciamo a immaginare quante correzioni successive sono necessarie, tutte operate da processi nervosi infinitamente complessi, nel tempo del millesimo di secondo? Il minimo gesto umano o animale diretto verso qualcosa, è un processo perfezionate e dinamico, che cerca di cogliere l'obiettivo. Ma siamo sicuri che il mondo ideale che vorremmo stringere tra le mani, ci aspetterà, come un'immagine fissa, pietrificata? Siamo sicuri che mentre compiamo il gesto rivoluzionario per raggiungerlo, non verrà sostituito da un altro? La traiettoria gestuale senza correzioni non corre il rischio di incontrare il vuoto? Le nostre azioni rivoluzionarie sono forse capaci di autocorrezioni successive per raggiungere un obiettivo che non sarà quello che abbiamo immaginato, ma un altro che, a sua volta, non sarà più lo stesso quando diventerà oggetto dei nostri desideri? C'è da augurarselo, dato che perseguire un obiettivo che cambia continuamente e che non è mai raggiunto è forse l'unico rimedio all'abitudine, all'indifferenza, alla sazietà. E' tipico della condizione umana ed è l'elogio della fuga, non per indietreggiare ma per avanzare. E' l'elogio dell'immaginazione, di un'immaginazione mai attuata e mai soddisfacente. E' la Rivoluzione permanente, ma senza uno scopo obiettivo, consapevole di certi meccanismi e capace di adoperare mezzi sempre più perfezionati ed efficaci, in grado di utilizzare leggi strutturali senza mai accettare una struttura chiusa, uno scopo da raggiungere. Forse è questo che rende l'Uomo diverso dalle macchine che egli costruisce a sua immagine. A esse da uno scopo che, come ha detto Couffignal, è necessario per l'efficacia dell'azione. Ma lui corre ciecamente verso una finalità che ignora perché, ripetiamo, non sembra che la sua coscienza sia in grado di dargli la semantica del messaggio. Gioca con la sintassi e compone frasi che crede definitive mentre sono piene di barbarismi, di errori di ortografia e di grammatica. Ma non c'è nessun professore che gliele corregga con la matita blu, secondo i criteri di un'antica grammatica, come si correggono le versioni latine dei liceali di questo secolo borghese. 


RICOMINCIARE DA CAPO

Confesso di non saper rispondere alla domanda: ricominciare da capo che cosa? La mia vita? Dovrei rinascere, nudo come il primo giorno, col sistema nervoso intatto del bambino, e sarei subito messo su determinati binari: quelli della mia nuova eredità, soprattutto quelli della mia nuova famiglia, del mio nuovo ambiente sociale, e non ricomincerei niente. Ancora una volta subirei, anche se in modo diverso, perché nel frattempo sarebbe cambiato tutto. Seguirei i binari verso un'ignota destinazione, con la sola certezza di trovare, al termine di una strada più o meno lunga, la morte. Non ricomincerei, perché non sarei io a cominciare, ma un altro, foggiato da un altro ambiente.
Ricominciare dall'infanzia con le acquisizioni e l'esperienza della mia età? Non è altrettanto inimmaginabile? Certo, l'esperienza, l'apprendimento permettono di comportarsi in modo diverso. Però le situazioni non si ripetono mai. Quasi sicuramente non ritroverei intorno a me i comportamenti di coloro che ho incontrato durante la vita. Ma siccome non si è verificato un taglio netto nell'evoluzione storica della sociocultura dalla mia adolescenza in poi, e siccome le pulsioni umane continuano a essere inconsce, anch'io agirei secondo gli stessi determinismi inconsci che mi hanno sempre guidato in mezzo all'incoscienza dei miei contemporanei. Ricominciare da capo? In questa domanda è sottinteso che potremmo fare cose diverse da quelle che abbiamo fatto, che potremmo scegliere. Rileggete il capitolo in cui parlo di Libertà e capirete che, secondo me, non abbiamo mai scelta. Agiamo sempre secondo una pressione di necessità, che però sa tenersi ben nascosta, nell'ombra della nostra ignoranza. L'ignoranza dell'inconscio che ci guida, quella delle nostre pulsioni e del nostro apprendimento sociale.
Ricominciando da capo, farei sicuramente qualcos'altro, ma non dipenderebbe da me. Farei qualcos'altro perché la vita di ogni Uomo è unica, situata in un determinato punto dello spazio-tempo, diverso da ogni altro. Verso quel punto convergono e da quel punto si allontanano tanti fattori intrecciati e lì, come in un groviglio di vipere, non c'è spazio per la libera scelta.
Però consoliamoci: anche se non ricominceremo da capo, altri faranno quello che non abbiamo fatto, perché la nostra esperienza di un tempo ormai trascorso, di un passato e di un presente effimeri, non può essere adoperata tale e quale per costruire un avvenire diverso. Anche se fosse possibile trasmettere integralmente alle altre generazioni la nostra esperienza, esse la userebbero diversamente da come avremmo fatto noi se ne avessimo avuto il tempo. E, soprattutto, che cosa si può cominciare, o ricominciare, da soli? Unicamente ciò che gli altri possono fare con noi. Se potessimo ricominciare, ricominceremmo tutti insieme ma in modo diverso; che non vuoi dire migliore o peggiore, perché per giudicare occorre riferirsi a una scala di valori assoluta e non affettiva, che consenta di "dare un voto" a ogni nostra azione. "Non giudicare se non vuoi essere giudicato." Non è implicita, in questa frase, la mancanza di una scala di valore umano assoluta?
Purtroppo "non giudicare" significa giudicare che non c'è da giudicare.

LA SOCIETA' IDEALE

Dire che non esisterà mai non è pessimismo, ma ottimismo. Sappiamo che possiamo immaginare solo in base al materiale memorizzato, all'esperienza acquisita. Possiamo immaginare solo ciò che sappiamo già. La struttura nuova è composta di vecchi elementi ma ci permette la scoperta di elementi che non conoscevamo, ignorando i quali dobbiamo accontentarci di immaginare a breve distanza, a portata di mano. Per progredire non si può fare a meno di questo duplice procedimento: l'ipotesi di lavoro fondata su fenomeni conosciuti che porta alla scoperta di fenomeni nuovi i quali, a loro volta, permetteranno la creazione di nuove ipotesi. Possiamo progredire dunque a piccoli passi, una tappa dopo l'altra, a tentoni. Ciò significa che possiamo immaginare solo una società a nostra misura, per questo giorno, di quest'anno, di questo secolo. Non sappiamo quale sarà la società ideale di domani. Ogni società del giorno presente è stata un passo verso la società dell'indomani, e probabilmente è stata la società ideale desiderata il giorno prima. Appena vent'anni fa l'"American way of life" aveva conquistato il mondo occidentale. Si parlava di sfida americana. Milioni di uomini pensavano che rappresentasse la società ideale, e ignoravano ostinatamente i molteplici fermenti che cominciavano ad agitarla. Nello stesso periodo, la società socialista era, per milioni di uomini, che non la conoscevano a fondo o che, pur conoscendola, si lasciavano accecare dall'affettività pulsionale nascosta dalla logica del discorso, la società ideale. Altri, delusi dalla civiltà occidentale, pensano di averla trovata in India o in Estremo Oriente. Altri ancora pensano che, se non esiste, si può sempre crearla tenendo conto degli errori del passato, e studiando i fallimenti della Storia. Tutti rimangono nel tempo della Storia, il tempo relativo dell'Uomo, quello della causalità lineare, o quello della Libertà, che è lo stesso.
Come parlare di una società ideale se la possiamo ideare solo in base all'esperienza presente?
Da alcuni anni non si parla più di programmazione ma di prospettiva. E' sicuramente un passo avanti.
Si è capito che non è più possibile prevedere l'avvenire continuando l'esperienza del passato. Ma non si è ancora capito che si può immaginare e prospettarsi un avvenire solo partendo dagli elementi del nostro presente, e ciò significa che quegli elementi saranno sempre incompleti e che solo procedendo potremo via via scoprirne altri. Ebbene, saranno questi altri a cambiare completamente la prospettiva elaborata in un momento già superato. La prospettiva lungimirante non è possibile. Dobbiamo accontentarci di una "prossimospettiva" per sfuggire alla retrospettiva. Abbiamo un compito limitato, che non consiste nell'immaginare una società ideale; neppure le generazioni che ci succederanno avranno questo compito, per la semplice ragione che il desiderio non può superare la conoscenza.
La speranza non è, non può essere riposta nella realizzazione di una società ideale, planetaria, dai contorni già delineati. Ogni generazione cambierà quello che è stato costruito dalla generazione precedente e, così facendo, sposterà l'ideale verso un obiettivo (o una direzione) che non sarà in grado di capire. E un passo dopo l'altro, con gli occhi bendati, credendo sempre di agire "bene", evitando le carreggiate del passato, ne incontrerà altri che prima non esistevano. Ma scoprirà anche sentieri sconosciuti, nuove vie, che nessuna immaginazione poteva prevedere, perché non esisteranno neppure quando le nuove generazioni ci daranno il cambio e prenderanno il bastone del pellegrino.
Abbiamo un compito limitato, come quello di chi verrà dopo di noi. Si tratta di mettere a punto la grammatica, tenendo conto che non possiamo capire la semantica. Si tratta di procedere a passo a passo verso un obiettivo che non conosciamo, continuando a fare le ipotesi di lavoro che la nostra esperienza crescente ci permette di formulare. Ma allora, anche se non saremo in grado di capire il senso della frase scritta dall'Umanità sul libro dell'Eternità, avremo almeno la soddisfazione di uniformarci sempre di più alla sintassi cosmica, quella che forse un giorno ci permetterà di scrivere, senza capirla, la frase che racchiude il segreto dell'universo, sul frontone della porta della città umana.
La Storia non si ripete mai, perché trasforma. L'unico fattore invariante della Storia è il codice genetico che fabbrica i sistemi nervosi umani. Ma essi hanno una proprietà unica: portano inscritto in loro mediante il linguaggio il lento volgersi del tempo. L'esperienza che l'Uomo comincia ad avere, anche se ancora agli esordi, e che riguarda i meccanismi dei suoi comportamenti fa anch'essa parte della Storia. Finora l'Uomo ha fatto la Storia senza saper come. Trasformava il mondo e si stupiva che il risultato non fosse conforme ai suoi desideri. Immaginava società ideali e continuava a imbattersi in guerre, particolarismi, dominanze. Non aveva ancora capito che il funzionamento del suo sistema nervoso faceva parte della sintassi e continuava a fare gli stessi errori perché ignorava una delle regole fondamentali della combinatoria linguistica: il peso dell'inconscio. Credo che con la traduzione delle prime pagine del Gran Libro del mondo vivente sia iniziata per lui una nuova era. Speriamo che se ne serva per costruire non una società ideale, ma almeno una città nuova, e che non cerchi ancora una volta di rispolverare la pianta della Torre di Babele.

Se l'utopista è colui che immagina un modello che è incapace di realizzare, io non posso essere chiamato utopista perché non propongo modelli. Se si dovesse presentare un modello, come per il Concorso Lepine, 17 nessuno sarebbe capace di immaginare un modello sociale e di realizzarlo da solo, potrebbe tutt'al più convincere un gruppo ristretto ad attuare quello da lui proposto. Secondo me, però, è inconcepibile al giorno d'oggi la sopravvivenza di un "isolato umano", anche se ha le dimensioni di una nazione, quando i sistemi inglobanti hanno strutture economiche diverse dalla sua. Un sistema, per sopravvivere, deve essere applicato su scala mondiale, e per realizzare una simile impresa non basta l'aiuto degli altri, ci vuole quello di "tutti" gli altri.
D'altra parte, come abbiamo detto prima, anche quando la vastità del territorio e l'isolamento geografico lo permettono, come è successo per l'URSS all'inizio del secolo, accingersi a realizzare un modello fa sì che si scoprano nuovi elementi non previsti che ne intralciano la realizzazione. Lo so che taluni sostengono che lo stalinismo era stato previsto. Ma allora perché non è stato evitato? Il pericolo della storia è far credere, a cose fatte, in una causalità lineare che non esiste.
Non ci rimane che accumulare dati sperimentali che ci facciano scoprire leggi generali a cui dovremo poi conformarci. Devo ripetere ancora una volta che, non essendo mai stati presi in considerazione né i primi dati conosciuti sul comportamento umano in situazione sociale, né le leggi generali di organizzazione delle strutture viventi, non possiamo certo utilizzare un modello socioeconomico che si fermi al livello del discorso logico incompleto. O quanto meno bisogna aspettarsi che nuovi fattori vengano a opporsi alla realizzazione, in questo caso realmente utopistica, del modello.
Ciò significa che l'Uomo può tentare di realizzare solo modelli utopistici, del resto irrealizzabili così come lui li ha immaginati (cosa di cui si rende conto non appena tenta di realizzarli). A questo punto però commette un errore di giudizio e un errore operativo: si ostina a realizzare l'irrealizzabile, a rifiutare di introdurre nell'equazione elementi nuovi non previsti dalla teoria e che il fallimento ha messo in luce, oppure che l'evoluzione della scienza (o ancor più semplicemente delle cognizioni umane) ci permette di utilizzare, tra il momento in cui il modello viene immaginato e quello in cui la realizzazione si rivela inadeguata al modello. L'Utopia non è pericolosa, anzi è indispensabile all'evoluzione. E' pericoloso invece il dogmatismo adoperato da alcuni per mantenere il potere, le prerogative e la dominanza.
Non esiste società ideale perché non esistono uomini ideali, o donne ideali, che possano costruirla. La donna che crede di aver trovato l'uomo ideale non ha esperienza né immaginazione (l'una deriva dall'altra). L'uomo ideale per una donna, come la donna ideale per un uomo, possono per definizione essere solo una costruzione immaginaria, limitata alle loro nozioni, chiusa nella loro "cultura". Più nozioni e cultura aumentano, più è difficile incontrare l'uomo e la donna ideali, perché la cultura non è fatta solo di concetti, ma anche di tutto ciò che le parole non potranno mai tradurre. II fiore del desiderio cresce solo nel terreno dell'inconscio, reso ogni giorno più fertile dai resti degli amori morti o degli amori solo immaginati. 


UNA FEDE

L'Uomo non può, applicando il metodo scientifico, decifrare il messaggio trasmesso dai processi viventi e da lui medesimo, sempre che il messaggio esista. Può, applicandosi molto, analizzarne la sintassi, ma non può capirne la semantica e neppure accertarsi che abbia un senso, questo messaggio, cioè che provenga da una coscienza trasmittente, si serva dei processi viventi come canale di trasmissione e arrivi a una coscienza ricevente capace di utilizzare l'informazione trasmessa. In proposito esiste solo la certezza data dalla fede. Certo, non è scientifico negare l'esistenza della fede solo perché non fa parte delle Scienze. Ma la fede a sua volta non può ricorrere ad argomenti scientifici, per convincere. Del resto ha il grosso svantaggio di presentarsi sotto spoglie piuttosto sospette.
L'Uomo ha cercato con la sua logica umana una spiegazione all'incoerenza della vita e all'ingiustizia della morte. Oppresso dall'angoscia di un mondo incomprensibile si è messo a osservarlo senza ricavarne una spiegazione. Ha trovato nel mito una cura per l'angoscia, senza sospettare che quello stesso mito sarebbe diventato fonte di nuova e più grande angoscia. Chi può dire se è nata prima la Fede o l'Angoscia? Sarei tentato di dire che l'Angoscia ha dato origine alla Fede. Infatti la fede ha avuto per molto tempo, e ha ancora, l'enorme vantaggio di proporre una regola a chi non può agire perché non sa. Abbiamo detto prima che l'angoscia nasce in noi dall'impossibilità' di agire. Una causa fondamentale dell'impossibilità di agire è sicuramente il deficit informazionale, l'ignoranza delle conseguenze di un'azione, in risposta a un avvenimento nuovo o incomprensibile nel linguaggio della causalità lineare in cui l'Uomo è cresciuto. La fede da le regole, le avvertenze e le modalità d'uso. Dunque è capace di guarire l'angoscia. Ma è anche suscettibile di farne nascere un'altra: prevedendo una punizione nel caso in cui non siano state rispettate le regole, da l'angoscia del Peccato da scontare nell'altro mondo. Ecco la Fede trasformata così in religione scritta sulle Tavole della legge. Più frequente è l'angoscia, più si ricorre ai dogmi. I dogmi hanno tra loro una sola analogia: sono sempre all'origine di settarismi, di scale di valori valide soltanto per i credenti nel dogma in questione, e di un sistema chiuso, destinato così alla disgregazione e alla morte. Per queste stesse ragioni si può trovare un'origine comune al dogmatismo religioso e politico, e riscontrarvi la stessa intransigenza. D'altra parte, la maggioranza non può trovare soddisfazione nelle scale gerarchiche di dominanza che sono sempre servite come base all'organizzazione delle società umane. Permettendo ai più di aspettare una ricompensa nell'altro mondo, la fede finisce per renderli più concilianti in questo, più inclini a sopportare di buon grado le pene, ad accettare meglio la mancanza di gratificazione. I dominanti favoriscono questo mito e se ne trovano bene perché esso smorza la ribellione dei dominati. Ecco da dove nasce la collusione, il reciproco aiuto tanto frequente fra gerarchia religiosa e politica che si appoggiano l'un l'altra per mantenere ognuna la propria struttura. Ma quando il potere religioso diventa temporale o il potere politico si "mitizza" e ognuno di loro vuole proporre una falsariga esplicativa alle attività umane, falsariga che permetta lo stabilirsi di nuove scale di dominanza, si crea un serio antagonismo che sfocia poi in un nuovo equilibrio dei rapporti di forza, un equilibrio che rende di nuovo possibile la cooperazione.
Eppure è innegabile che esista nell'uomo a livello conscio un'inclinazione per il cosmico, un'insoddisfazione derivante dal non poter guidare il discorso verso le sue origini e i suoi fini. Ma perché possa nascere, questa inclinazione, che è forse una forma elaborata dell'angoscia di cui parlavamo prima e che possiamo chiamare angoscia esistenziale, bisogna aver il tempo di pensare all'esistenza. Ci si meraviglia che le chiese siano oggi semivuote. Ma la società espansionistica lascia poco tempo per andarci. Ebbene, quando parlo di chiese, non alludo a quelle che occupano uno spazio nelle città, ma a quelle che ogni uomo può costruire nella sua mente, quelle in cui si rimane in piedi e si chiede, come Cristo chiedeva al soldato che lo schiaffeggiava davanti al sinedrio: "Perché mi colpisci?"; non quelle in cui ci si prostra per pregare. Ma le domande non sono mai piaciute alle ortodossie politiche e religiose, come non piacciono le domande dei figli ai padri di famiglia. Forse hanno paura che una risposta non esauriente distrugga l'immagine ideale che tentano di imporre di loro stessi, o che una domanda richieda una risposta pericolosa per la dominanza paternalistica da cui si sentono gratificati.
Ho ricevuto un'educazione religiosa non troppo alienante anche se conformista. Ho scoperto il vero cristianesimo solo più tardi, grazie a un amico che quando ero adolescente ha avuto su di me una grande influenza. Ma era un cristianesimo molto diverso dal catechismo autoritario e castrante della mia prima comunione. In seguito mi sono costruito un'immagine di Cristo, come mi ero costruito un'immagine di mio padre morto a trentun anni, quando io ne avevo cinque. Un padre che non avevo dovuto uccidere per diventare adulto (secondo il linguaggio analitico) perché mi era bastato essere lui, o almeno essere l'immagine che mi ero fatto di lui. Non ho sofferto per la morte tragica di mio padre, giovane medico dell'esercito coloniale, ucciso dal tetano a Mana, nella Guiana francese, perché, inconsciamente, tutti hanno agito in modo che continuasse a vivere in me, che io fossi lui. Ancora oggi, consapevole di tutto questo, mio padre, o almeno il mito che si è formato in me, è sempre presente. Egli è opera mia, e non ho mai dovuto scontrarmi col modello.
L'immagine di Cristo che si è formata in me è quella di un amico che acconsento di buon grado di spartire con gli altri, ben sapendo che ogni uomo ha un suo Cristo, anche, anzi soprattutto, se lo rifiuta, o almeno ne rifiuta l'immagine che la nicchia ambientale ha tentato di imporgli. Se fossi nato in Cina, alcune migliaia di anni prima della sua nascita, non ne avrei mai sentito parlare. C'è dunque un determinismo storico nella conoscenza che ho di lui. Ma la mia amicizia per lui è aumentata molto quando la mia vita scientifica e sociale mi ha fatto capire che la sua crocifissione non è stata niente in confronto alle torture che i suoi promotori hanno fatto subire al suo messaggio. Ancora una volta hanno adoperato la grammatica, una grammatica interessata, e non la semantica. Da un amico non ci si aspetta né morale, né regolamenti, né principi, né leggi. Gli si chiede solo amicizia e si lascia che i suoi peggiori nemici inventino il resto. Lascio loro il compito di armonizzare i Vangeli con i principi immortali del 1789, di organizzare le polizie e gli eserciti che difendano i diritti civili, con le basi della civiltà giudaico-cristiana. Quanto a me, mi accontento di andare a salutare, quando ho tempo, colui che diceva a quella brava Marta, occupata davanti ai fornelli, che perdeva il suo tempo e lodava Maria che, ai suoi piedi, lo ascoltava, per aver scelto la conoscenza, la parte migliore che nessuno avrebbe mai potuto toglierle. Colui che ci consigliava di fare come i gigli dei campi che non filano e non tessono, e che avevano già raggiunto, a quell'epoca, la crescita zero. Colui che cacciava i mercanti dal tempio, il tempio che è la casa di Dio, cioè noi stessi. Colui che amava ugualmente il giovane ricco, quel giovane, ricordate, che faceva tutto quello che Cristo gli consigliava e chiedeva che cosa poteva fare di più: "Abbandona tutto e seguimi". Il giovane non osò e rimase, tristemente.
Cristo lo amò, perché era forse l'unico a saperlo incatenato dai meccanismi socioculturali. Colui che chiedeva al Padre, sul Monte degli Ulivi, di evitargli di bere l'amaro calice fino alla feccia, dimostrando così un'assoluta mancanza di virilità e di coraggio. Colui che era venuto a portarci non la tristezza ma la gioia della buona novella. Colui che prima di Freud sapeva che gli uomini devono essere perdonati perché non sanno quel che fanno e obbediscono al loro inconscio. Colui che non ebbe il soccorso paternalistico del padre Giuseppe, ai piedi della Croce. (Dov'era finito costui?) Colui che si opponeva alla lapidazione dell'adultera e consigliava di non giudicare se non si voleva essere giudicati. Colui che a quattordici anni rifiutava di seguire il padre e la madre e affermava di non conoscerli. Sacra Famiglia e dolce Gesù! Colui che è venuto a portare la spada e non la pace, a mettere il figlio contro il padre, a raccontare inverosimili storie in cui gli operai dell'ultima ora erano pagati quanto quelli della prima. Sacre scale gerarchiche! Ecco perché in seguito hanno preferito che queste cose riguardassero l'altro mondo, ma non questo, per carità! Colui che pronunciava il Discorso della Montagna (Beati coloro che... Beati coloro che...), discorso che liquidava i comandamenti e gli ammonimenti di un Dio vendicatore. Come ha potuto nascere, da una simile poesia, un sistema tanto primitivo di coercizione dominatrice?
Non so fino a che punto la mia educazione cristiana, magari un po' abborracciata, abbia potuto influenzare la mia pratica professionale, anche se a livello logico e cosciente mi rifiuto di vedere una relazione tra le due cose. Ci saranno certo delle relazioni, solo che la mia vita scientifica e non più semplicemente professionale è cominciata molto più tardi. Essa mi ha dato le interpretazioni che mi mancavano del mio comportamento e di quello dei miei simili. Fino a quel momento mi ero limitato a esprimere, alla meglio, la zuppa di giudizi di valore che la sociocultura aveva laboriosamente introdotto nel mio sistema nervoso. Magari ero un po' recalcitrante, ma tutto sommato conforme. E stranamente, proprio grazie alla scienza, ho ritrovato l'amico, il Cristo poetico e asociale che aspetta da duemila anni che coloro che possono capire capiscano, che coloro che hanno orecchie ascoltino. Ma l'incontro è avvenuto proprio per merito della scienza? E, come lui stesso diceva, lo avrei mai cercato se non l'avessi già trovato prima? La Scienza delle Scienze, quella delle strutture, l'estetica, non può avere vademecum più completo dei Vangeli. Essi mi hanno permesso di ignorare i mercanteggiamenti, la deprimente scommessa di Pascal, il do ut des da bottegai meschini tra questa vita e la vita eterna. Non mi aspetto da lui che mi resusciti e assicuri la mia promozione sociale in un altro mondo.
A un amico si chiede, e si da, solo amicizia. Ma che cos'è l'amicizia? Non è forse, per due uomini che si trovano nello stesso spazio, essere oggetto di gratificazione reciproca ed è forse possibile questo se in loro c'è desiderio di dominanza o accettazione di sottomissione? L'amicizia non esige una comunicazione che prescinda dal linguaggio logico, deformante e traditore? Non esige finalità inserite nella finalità di uno stesso insieme, una reciproca scoperta pratica al di fuori delle regole imposte, in un luogo dove non esiste competitività, perché esso non fa parte di questo mondo ma di quello dell'immaginazione?
Dire che la Scienza ha ucciso la Fede, che ha ucciso gli antichi Dèi, è un luogo comune. E' giusto invece dire che ha sostituito la Fede nella terapia dell'angoscia. L'Uomo si aspetta che la scienza lo faccia diventare immortale, in questo mondo, non nell'altro. Ma rimarrà deluso perché la Scienza vive nel tempo e se può risolvere alcuni problemi materiali dell'uomo, non offre soluzioni per il suo destino. Lo abbiamo detto: non da un "senso alla vita". Si limita a organizzarla, oppure a darle il senso di non avere senso, di essere un processo fortuito ed estremamente improbabile. Eppure molti fenomeni scientifici dimostrano che il caso, e la libertà, cominciano dove incomincia la nostra ignoranza. Ma questo universo ordinato che stiamo scoprendo, è il solo? Il lato tragico del destino umano è proprio questo: capire che ne sappiamo abbastanza per sapere che non sappiamo niente del nostro destino, e che non ne conosceremo mai abbastanza per sapere se c'è altro da conoscere.
Ma se c'è altro da conoscere, non lo impareremo certamente nei catechismi, di qualunque tipo. Lazzaro resuscitato non ha chiesto niente, ha solo ricevuto. Non posso chiedere a Cristo di calmare la mia angoscia, noi non abbiamo fatto niente per calmare la sua. Gli chiedo solo di essere come me lo immagino, diverso da ogni altro uomo, e non come ce lo rappresenta la Storia. Credo che sia colui che capisce, nel senso etimologico del termine. Il catechismo che cosa ha capito?

Molti cristiani oggi aderiscono alla dottrina marxista. Infatti molti cristiani si sono accorti che, finita l'epoca dei primi martiri, l'istituzione ecclesiastica non ha fatto che firmare concordati col potere, quando non ha potuto esercitarlo in prima persona. Si è alleato con i dominanti di tutti i tempi, mentre Cristo ha girato per il mondo raccogliendo intorno a lui i deboli e i dominati. La Chiesa ragiona così: il regno di Cristo non è di questo mondo, lasciamo come sono le scale di dominanza terrestri, e prepariamo quelle dell'aldilà. Chissà poi perché Cristo si è incarnato: non dobbiamo occuparci della vile carne, lavoriamo per il puro spirito, e lasciamo farisei e sinedri di ogni epoca liberi di esercitare il potere con lo sfruttamento e la tortura. Impariamo a soffrire, saremo cento volte ricompensati nell'altro mondo: imitiamo Gesù Cristo. Però con un altro discorso, altrettanto logico, si potrebbe arrivare alla conclusione che la vita e la morte di Cristo sono l'esempio di quello che il potere indiscusso è capace di fare, un esempio da non ripetere assolutamente. Dunque le parole e la morte di Cristo dovrebbero spingerci soprattutto a lottare contro quei ricchi che entreranno in Paradiso più difficilmente di quanto un cammello non riesca a passare dalla cruna di un ago, e a far di tutto perché quei giusti che detengono la verità e il potere spariscano definitivamente dalla collettività umana.
I cristiano-marxisti hanno trovato in Marx la descrizione di alcuni meccanismi che portano allo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo, e sono stati sedotti dalla somiglianza degli obiettivi perseguiti. Subito sono stati accusati di dissacrare, di politicizzare il trascendentale, di voler riportare sulla terra ciò che stava tanto bene nell'aldilà, dove non dava noia a nessuno. Alcuni cristiani, a parole, arrivano fino a sbandierare un sinistrismo di moda, di cui cantano le lodi, senza però abbandonare un mondo dove si trovano benissimo. Dal momento che sanno di non compromettere il loro avanzamento gerarchico, si permettono atteggiamenti da grandi mistici, da santoni del motore a scoppio, e fanno la predica a quei cristiano-marxisti che secondo loro stanno distruggendo le belle chiese del passato dove i mercanti scacciati dal tempio sono tornati pari pari, appena Cristo ha voltato le spalle, a crescere e a proliferare. Sappiamo a memoria i loro argomenti: il marxismo (che li infastidisce davvero) è un'ideologia superata, che ha portato allo stalinismo e al disprezzo totale della personalità umana (nel dire questo, pensano alla loro, di personalità, che sarebbe proprio un peccato disprezzare). Si badi bene che anche l'ideologia cristiana ha portato all'Inquisizione, alle guerre sante, alle crociate, all'avallo di ogni tipo di imperialismo. Probabilmente non sanno che i dogmi, da qualunque parte vengano, sono sempre interpretati da uomini, inconsapevoli delle loro pulsioni dominatrici, del loro bisogno narcisistico di farsi notare, e soprattutto inconsapevoli dell'apprendimento delle socioculture che impregna ogni molecola del loro sistema nervoso. Mi capita a volte di incontrare, o di vedere, in televisione per esempio, alcuni di questi grandi mistici illuminati dalla grazia. Quasi subito, nonostante li senta parlare con eleganza e "fascino (del resto parlano solo loro e non lasciano dire una parola ai loro avversari) cerco di osservarne atteggiamento, gesti, volto, sguardo, voce, per tentare di scoprire, dietro ai discorsi, la motivazione, l'angoscia nascosta, l'incertezza celata sotto l'involucro del personaggio. A volte mi chiedo se una buona analisi potrebbe aiutarli a scoprire meglio se stessi. Spesso provo per loro una grande pietà, con tutta l'aggressività che c'è in questa parola. La pietà, come l'amore, è un sentimento sospetto. Vi ricordate di quel film di prima della guerra, "I verdi pascoli del cielo"? Alla fine, Domineddio armato di bastone, lo Iahvè irascibile e vendicativo seduto su una nuvola, assiste alla propria crocifissione nella persona del figlio, su un lontano pianeta chiamato terra. Sta molto male, come è ovvio, e nel momento in cui la sua seconda persona esala l'ultimo respiro, col volto rasserenato dice: "E' questa la pietà!"... o qualcosa di simile. Non essendo il Padreterno, provo questo sentimento quando non riesco a reagire alla mia intolleranza e non riesco nemmeno a imporre la mia dominanza di pensiero. La Pietà permette a colui che la prova di trovarsi in condizioni di dominanza soggettiva e di mettere chi ne è oggetto in condizioni di dipendenza. E' un sentimento confortante. Non dovremmo al contrario provare una certa tenerezza per colui che tenta di convincere gli altri, anche se lo fa con aria di sufficienza, per convincere se stesso? Perché non ci sarebbe angoscia senza deficit informazionale, e senza angoscia, nessuna certezza mitica da far condividere.
Per esprimere il mio pensiero riguardo al cristiano-marxismo, vorrei adoperare ancora una volta il paragone linguistico di cui mi sono servito per rispondere alla domanda sul "senso della Vita". Avevo cercato di dimostrare che la semantica del messaggio vivente apparteneva all'ambito della Fede, perché l'Uomo non poteva arrivarci col ragionamento. Credo che Cristo ci abbia dato la semantica, ma ho già detto che non avevo prove da darvi e che non volevo invocare, per convincere, l'angoscia che invade oscuramente ogni uomo, se gli lasciamo il tempo di essere cosciente. Questa angoscia rende sospetta ogni Fede, ed è su di lei purtroppo che hanno fatto leva tutte le religioni. Angoscia che trasuda dai muri della prigione che si chiama ingiustizia, sofferenza, morte. Cristo ha avuto la scaltrezza di incarnarsi, di mettere la semantica in un messaggio, in un significante comprensibile per gli uomini. Purtroppo il significante varia a seconda delle epoche dell'evoluzione umana, mentre il significato rimane tale e quale. Per questo si può esprimere la stessa idea in molte lingue. Il messaggio è legato alla vastità delle nostre cognizioni. Sicuramente per questo Cristo si è servito di parabole, che erano il significante adatto a quei tempi, non potendo servirsi delle nozioni di plusvalore, di lotta di classe, di rapporti di produzione. Marx invece si è occupato solo della sintassi, del significante. Del resto si è servito dell'alfabeto e della grammatica del suo tempo, a cui mancavano lettere e regole, e che la biologia comportamentale, l'idea di informazione, la teoria dei sistemi e la nuova matematica hanno, poi, considerevolmente arricchito. Ma rispondeva solo in parte all'angoscia esistenziale, perché il suo messaggio aveva pretese scientifiche ed era quindi suscettibile di continue revisioni. Ebbene, i suoi epigoni avevano così tanto bisogno di un mito consolatore, che hanno divinizzato Marx e si sono comportati con la sua opera come i teologi si erano comportati con i Vangeli. A forza di analizzarla, ci hanno trovato ciò che il loro inconscio frustrato voleva trovarci e il significante così torturato è diventato un fermento, come lo era stato il significato dei Vangeli, di violenza, di dominazioni sociologiche, economiche e politiche. Non l'analisi del significante marxista ha portato a tutto questo ma la disperata ricerca di un significato, che i marxisti hanno voluto trovarci a ogni costo. Hanno cercato di vederci il "senso" della vita umana, ma nell'"homo faber" marxista, nell'uomo produttore di utensili e merci, nel rapporto di quest'uomo con la produzione, non hanno potuto trovare al messaggio una origine, come non avevano potuto trovare la semantica di cui il messaggio era il sostegno, sostegno organizzato in modo logico dal contributo marxista. Non hanno neppure trovato il destinatario in grado di decifrarlo. Gli uomini sono rimasti a bocca asciutta perché, pur avendo scoperto la strategia, non potevano prender parte alle decisioni dello stato maggiore mistico. I cristiani, invece, in possesso del significato cristico, hanno cercato nel significante marxista una materia più aggiornata su cui lavorare, un mondo presente, più adatto di quello delle parabole a trasmettere il significato. Ritengo che l'incontro tra marxisti e cristiani sia nato da questo. Ma ancora una volta possiamo chiederci se è possibile far coincidere realtà e immaginazione, opera e modello. Perché il significato che crediamo oggi di vedere nel messaggio di Cristo, è quello che le nostre attuali conoscenze del significante ci permettono di capire. Tuttavia, che questo immaginario incarnato, il quale "quindi è ciò che siamo", possa contenere un invariante tanto essenziale da poter sempre e ovunque guarire l'angoscia congenita dell'uomo, rimane il fenomeno più sconvolgente. 


INOLTRE...

Sole! Minuscola stella di una galassia perduta in mezzo a un numero sterminato di galassie che ruotano, nascono, scompaiono, dall'esplosione del nucleo originario in poi, esplosione che proiettò il mondo fino alle curve lontane, mondo finito ma che continua a ingrandirsi. Sole! Unica fonte di vita su questa terra, che sarebbe un ciottolo gelido senza di te. Sole! Splendi e tutto si muove, si anima. Il popolo degli atomi si agita alla tua luce calda e dalla sua rivoluzione nasce un popolo nuovo, quello delle molecole che si cercano e si uniscono secondo oscure leggi, come un uomo e una donna perduti tra la folla si incontrano e si amano, si riproducono e si perpetuano. Ecco, gli esseri hanno preso forma: dall'energia è nata la materia e da questa materia, le prime molecole viventi, particelle incredibili e gracili, capaci di assimilare il mondo inanimato nella loro immagine e di sottoporlo alla riproduzione. Che il ciottolo sia grande come un chicco di grano o come una montagna coperta di neve non conta, in lui gli stessi atomi e le stesse molecole continuano ad associarsi monotonamente e senza gioia. Rimane solido come una roccia, mentre gli esseri, instabili e in continuo movimento, nascono, crescono e muoiono per tornare, atomi e molecole che non appartengono più a nessuno, al pool comune della materia organizzata. Altri esseri se ne impadroniranno per costruire il loro edificio. Ma dalla nascita alla morte ogni pietra dell'edificio continuerà a essere sostituita, in un perenne rinnovamento.
Forze e cose sono un tutto unico. Materia ed energia sono la stessa cosa. Cambiano senza posa, di stato e di forma. Di forma perché è l'energia che mette la materia in forma, che la informa. E questi granelli di materia e di energia sembra che si riuniscano a caso, solo perché ignoriamo il codice civile cui obbediscono. Ma lo spazio e il tempo intorno a loro non sono mai liberi, sono sottomessi alle loro leggi. E le leggi della "messa in forma", le leggi dell'informazione strutturante fissano per un certo tempo materia ed energia in rapporti privilegiati.

Uomo! Con la poca materia in cui è scolpita la tua forma riassumi tutta la storia del mondo vivente. Come una cattedrale, a cui nei secoli sono state aggiunte nuove parti, i millenni hanno partecipato alla costruzione del tuo cervello, che custodisce nelle fondamenta l'architettura romanica semplice e primitiva del cervello di pesci e di rettili. Quando essi apparvero, prima di tutto dovettero fare in modo di sopravvivere. L'atmosfera era calda e umida, il cielo gravido di tempesta. Piante, fiori e alberi dai grossi tronchi erano rigogliosi sotto la calda potenza del sole, sorgente di ogni vita terrestre. Per costruire il loro corpo, mangiarono erbe e piante che non erano altro che sole trasformato, materia organizzata grazie alla sua energia. Dovettero anche riprodursi. Avevano un enorme vantaggio rispetto alle piante, si potevano spostare, potevano percorrere lo spazio, mentre le piante non potevano muoversi. Le piante dovevano aspettare il vento compiacente o un insetto che volasse dall'una all'altra per portare il seme di fiore in fiore. Dovevano accontentarsi della terra in cui affondavano le radici per organizzare la loro materia vivente. Gli animali, grazie al loro sistema nervoso, erano mobili. Incapaci di fare come le piante, di trasformare la luce del sole nella loro struttura si nutrivano di energia solare, assorbendola dalle piante che l'avevano imprigionata nella loro forma. Il loro sistema nervoso appagava così i loro bisogni fondamentali. Indicava loro, grazie agli organi dei sensi, dove era la sorgente dell'acqua da bere, l'erba o l'insetto da divorare, la femmina con cui accoppiarsi. Il sistema nervoso permetteva loro di agire nello spazio. Ma così facendo esso obbediva ai desideri dell'insieme della società cellulare da cui era formato il loro corpo. Perché esso era già il risultato di una lunga evoluzione, iniziata molto tempo prima, negli oceani, quando cellule isolate si erano riunite in colonie compatte. Come in una società, le funzioni si erano differenziate. Alcune cellule assorbivano, trasformavano e immagazzinavano alimenti per distribuirli poi a tutte le cellule della colonia, secondo i loro bisogni che variavano in base al lavoro effettuato. Altre si incaricavano di rendere possibile col loro movimento lo spostamento dell'insieme della colonia verso il rifugio protettore o la preda alimentare. Fuggire o attaccare per difendersi, cercare il cibo per nutrirsi, l'animale del sesso opposto per accoppiarsi, tutte queste azioni erano orchestrate dal sistema nervoso primitivo, incapace però di elaborare strategie diverse da quella per cui era stato programmato nella specie.
Passarono ancora molti millenni, prima che i pilastri della cattedrale nervosa venissero dotati di volte e archi a opera dei primi mammiferi. In queste sovrastrutture misero l'esperienza, la memoria di ciò che avveniva intorno, delle gioie e delle pene, dei dolori passati e di quanto bisognava fare perché non si ripetessero. Anche di quanto bisognava fare per ritrovare continuamente il piacere, il benessere e la gioia. Naturalmente, non avevano scelta. Bisognava vivere o morire, e la motivazione era sempre sopravvivere. Ma per appagarla, i gesti semplici, gli unici fino a quel momento autorizzati dal sistema nervoso primitivo, si complicarono di tutta l'esperienza acquisita nel corso della vita dall'individuo, capace persino, attraverso l'esempio, di trasmetterla ai suoi discendenti. Lo spazio in cui si trovava, in cui voleva gratificarsi, grazie alla presenza, lì di cose e di esseri necessari alla sua sopravvivenza, divenne il suo territorio, e dato che aveva bisogno delle cose e degli esseri che conteneva per sopravvivere, essi divennero ciò che l'uomo chiamò in seguito "la proprietà". Così per vivere gli animali agiscono nello spazio sulle cose e sugli esseri che lo popolano per mantenere la propria struttura, cioè per mantenere quei particolari rapporti che uniscono gli atomi in molecole e le molecole in cellule, in organi, gli organi in sistemi per terminare nella struttura complessiva dell'essere che essa "mette in forma". Con la memoria, l'azione non rimane più isolata nel presente, si organizza in base a un tempo passato ma che esiste ancora, doloroso o piacevole, da evitare o da cercare, nella biblioteca della cattedrale nervosa. Ma l'opera non era finita. Rimanevano da aggiungere le torri e i campanili in grado di scoprire l'orizzonte futuro, per immaginare e prevedere. Ciò avvenne lentamente, progressivamente, e portò alla forma attuale del cranio umano con la fronte dritta, trasformazione della fronte sfuggente delle scimmie antropoidi avvenuta lentamente nel corso dei secoli. Dietro questa fronte, i lobi orbito-frontali furono il luogo privilegiato in cui le immagini memorizzate, salendo dalle aree sottostanti, potevano mescolarsi, associarsi in modo originale, permettendo la creazione di nuove forme e di nuove strutture. Rimaneva da vedere se il mondo avrebbe approvato quelle strutture immaginarie. L'azione permise di verificarlo. La sperimentazione permise di controllare quali ipotesi erano esatte, e quali invece non erano utilizzabili per la sopravvivenza.
Ma via via che la cattedrale si innalzava, si innalzava anche il mondo della materia che le stava intorno. Generazioni e generazioni avevano accumulato sul terreno nuovo materiale. Piano piano le fondamenta romaniche erano rimaste sepolte e nessuno sapeva più che erano esistite. Anche la volta accumulava ricordi senza sapere che ciò avveniva secondo un ordine che chi stava in cima al campanile non poteva conoscere. E coloro che stavano in cima al campanile, gli unici che potevano ancora vedere il paesaggio, non sapevano che sotto di loro un antico mondo di pulsioni e di esperienze automatizzate continuava a vivere. Parlavano, parlavano di amore, di giustizia, di libertà, di uguaglianza, di dovere, di disciplina liberamente accettata, di sacrifici, perché vedevano in lontananza lo spazio libero in cui pensavano di poter agire. Ma erano soli, isolati con le loro campane che suonavano la messa e l'Ave Maria, e non sapevano che per uscire dal campanile dovevano ridiscendere nella biblioteca dei ricordi automatizzati e passare dalle fondamenta sepolte delle loro pulsioni. Sennonché laggiù l'architetto primitivo non aveva costruito nessun sotterraneo per arrivare all'aria aperta. Gli stessi gradini, tutti tarlati, non permettevano più di tornare indietro nel tempo e nello spazio interno. Essi erano condannati a vivere nel mondo della coscienza, con un linguaggio cosciente, il linguaggio logico, senza sapere che esso era sostenuto dalle antiche strutture che lo avevano preceduto.
E l'uomo cominciò a gridare fin dall'inizio dell'era umana: "Spazio, nel tuo grembo voglio costruire, nel tuo grembo voglio toccare e sentire, nel tuo grembo devo vivere! Bacco, Eros, dei del vino e dell'amore, datemi il grappolo e il seno che spremerò tra le dita; il sesso e il vino, il piacere e la gioia. E se qualcuno vuoleapprofittare prima di me dei doni dello spazio, che Marte mi protegga e mi dia la vittoria! Spazio, in te allungherò il mio braccio per aggredire mio fratello e garantirmi la dominanza. Spazio, quando sono nato, non ti conoscevo; con le mani e le labbra, a tentoni, ho scoperto il seno materno, che ha placato con il suo latte la mia fame e la mia sete. Nell'appagamento del piacere ritrovato ho sentito il suono carezzevole della Voce di mia madre, il fresco profumo e il contatto della sua pelle. Essa fu il primo oggetto del mio desiderio, la prima sorgente che mi dissetò. E quando i miei occhi meravigliati hanno scoperto intorno a lei, che credevo solo mia, che credevo me, il mondo, ho odiato il mondo che poteva togliermela. Il timore di perdere la causa del mio piacere, mi fece scoprire, con l'amore, la gelosia, il possesso, l'odio, l'angoscia". Questo dice l'uomo nel suo linguaggio.
L'angoscia era nata dall'impossibilità di agire. Finché le gambe mi permettono di fuggire, finché le braccia mi permettono di combattere, finché l'esperienza che ho del mondo mi permette di sapere che cosa devo temere o desiderare, niente paura: posso agire. Ma quando il mondo degli uomini mi costringe a osservare le sue leggi, quando il mio desiderio si scontra col mondo dei divieti, quando mi trovo imprigionato, mani e piedi, dalle catene implacabili dei pregiudizi e delle culture, allora tremo, gemo e piango. Spazio, ti ho perduto e mi rinchiudo in me stesso. Ritorno sulla cima del campanile dove, con la testa tra le nuvole, fabbrico arte, scienza e follia.
Ahimè! Non ho potuto tenere per me neppure quelle. Non ho potuto tenerle nel mondo della conoscenza. Sono state subito adoperate per occupare lo spazio e stabilire la dominanza, la proprietà privata di oggetti e di esseri, e dare piacere ai più forti. Dall'alto del mio campanile potevo scoprire il mondo, contemplarlo, trovare le leggi che governano la materia, senza però conoscere quelle che avevano presieduto alla costruzione della mia cattedrale: non sapevo niente della volta romanica o dell'ogiva gotica. Quando con la mia immaginazione trasformavo il mondo e occupavo lo spazio, lo facevo col cieco empirismo delle prime forme viventi.
I mercanti invasero il sagrato della mia cattedrale, e occuparono lo spazio fino all'orizzonte delle terre emerse. Invasero mare e cielo, e gli uccelli dei miei sogni non poterono più volare. Rimanevano imprigionati nelle reti del popolo dei mercanti che abitava la terra, il cielo e l'aria, e che vendeva le loro piume ai più ricchi perché le mettessero tra i capelli come ornamento narcisistico, per farsi adorare dalle folle asservite.
Il ghiacciaio dei miei sogni servì solo ad alimentare il fiume della tecnica che andò a gettarsi nell'oceano dei manufatti. Lungo il suo percorso sinuoso, arricchito da numerosi affluenti, cosparso di bacini artificiali e di tratti pianeggianti dove l'acqua scorreva lenta, si insediarono le gerarchie.
Occuparono lo spazio umano, distribuirono oggetti ed esseri, lavoro e sofferenza, proprietà e potere. Le piume multicolori degli uccelli dei miei sogni riempirono lo spazio disordinatamente come la nuvola di piume che esce dal cuscino squarciato da un coltello. Invece di rispettare il maestoso assetto della vallata dove essi erano nati, le piume si sparpagliarono in ogni direzione, rendendo l'aria irrespirabile, la terra inabitabile, l'acqua incapace di dissetare. I raggi del sole non riuscirono più ad aprirsi un varco per raggiungere il mondo microscopico che serviva loro per generare la vita. Le piante e i fiori asfissiavano, le specie sparirono e l'uomo rimase solo al mondo.
Si alzò orgogliosamente di fronte al sole, troneggiarne su un mare di rifiuti e di uccelli morti. Ma per quanto tendesse le braccia e cercasse di afferrare i raggi impalpabili, non poté trame nessun miele.
E dalla cima del campanile della cattedrale lo vidi sdraiarsi e morire. La nuvola di piume lentamente si adagiava al suolo.
Dopo un po' di tempo si vide spuntare, attraverso il tappeto multicolore che copriva la terra, uno stelo che presto si guarnì di un fiore. Ma non c'era più nessuno che potesse accorgersene.



  
1)
Henri Laborit, "La nouvelle grille", Laffont, Parigi 1974  ↵ 
2)
"Informare", per Laborit, significa "mettere in forma", "modellare". N.d.T.  ↵ 
3)
Henri Laborit, "Action et réaction. Mécanismes bio et neurophysiologiques", in "Agressologie", 1974, 15, 5  ↵ 
4)
H. Selye, "A Syndrome Produced by Diverses Noxious Agents", in "Nature", Londra 1936, 138, p. 32.  ↵ 
5)
Henry Laborit, "L'homme et la ville", N.B.S., Flammarion, Parigi 1971 (trad. it.,
"L'uomo e la città", Mondadori, Milano 1973).  ↵ 
6)
Posso dire che, ai giorni nostri, artisti come Salvador Dal¡ o Georges Mathieu (per esempio) di cui mi sembra difficile mettere in dubbio la genialità, sono al tempo stesso "fuggiaschi" e "arrivati"? Resta comunque il fatto che, se sono arrivati, non dipende da loro ma dal pubblico  ↵ 
7)
Colin Turnbull, "Un peuple de fauves", Stock, Parigi 1973.  ↵ 
8)
H. Laborit, "La nouvelle grille", cit.  ↵ 
9)
H. Laborit, "La nouvelle grille", cit., p. 80.  ↵ 
10)
H. Laborit, "La nouvelle grille", cit.  ↵ 
11)
Henri Laborit, "L'Homme imaginant", Union Generale d'éditions, Parigi 1970, Col.
10/18, p. 52  ↵ 
12)
Benché la formula E = m per c al quadrato indichi, da Einstein in poi, l'equivalenza tra massa ed energia, continueremo a usare entrambe queste parole per indicare le forme in cui l'energia si presenta nella "vita quotidiana".  ↵ 
13)
Henri Laborit, "Société informationnelle. Idées pour l'autogestion", ìditions du Cerf, Parigi 1973.  ↵ 
14)
H. Laborit, "La nouvelle grille", cit.  ↵ 
15)
H. Laborit, "Société informationnelle. Idées pour l'autogestion", cit.  ↵ 
16)
Joel de Rosnay, "L'évolution et le temps", in "Agressologie", 1965, 6, 3: pp. 237254.  ↵ 
17)
Il concorso Lepine è, in Francia, il concorso annuale delle invenzioni. N.d.T  ↵