IN CASO DI DISGRAZIA
Georges Simenon
(Integrale)
Recensione
Come sempre non si riesce a non restare invischiati nelle sue storie.
Perché leggendo Simenon si viene catturati dai suoi personaggi preda di passioni inspiegabili, personaggi che perdono la loro dignità ma, il momento esatto in cui la perdono è anche il momento esatto in cui raggiungono il loro paradiso.
Amore e morte, salvezza e perdizione si fondono in un amalgama perfetto.
E il brillante avvocato du Palais de Paris Maitre Gobillot, sposato ad una donna raffinata e notevolmente bella e consapevole delle qualche avventure del marito, conoscerà la sua salvezza e la sua perdizione il giorno in cui nel suo studio, priva di appuntamento e di soldi, si presenterà Yvette, giovane donna accusata di rapina che rovesciandosi all’indietro nell’unico angolo della scrivania sgombro di carte e tirandosi su la gonna fino alla cintola offrirà alla vista di lui
le sue cosce magre, il suo ventre tondo da ragazzina e quel triangolo scuro di pube.
"... ses cuisses maigres, son ventre bombé de gamine, le triangle sombre de son pubis et, sans raison précise, le sang m'est monté a la tete..."
E senza una ragione precisa… il sangue gli monterà in testa e l’avvocato Gobillot capirà che non gli sarebbe mai più stato facile sbarazzarsi di lei, né dell'immagine di quel ventre nudo, come l'aveva visto quel giorno di novembre, sulla scrivania del suo studio.
IN CASO DI DISGRAZIA
La sera in cui Lucien Gobillot - uno dei più celebri avvocati di Parigi, la cui brillante carriera deve molto alle relazioni di sua moglie negli ambienti politici e mondani della capitale - riceve la visita di quella ragazza con «un viso da bambina e da vecchia allo stesso tempo, un misto di ingenuità e di astuzia ... di innocenza e di vizio», cinica e palesemente pronta a tutto, ma anche, in un suo strano modo, commovente, che gli chiede di difenderla in un processo per tentata rapina, non immagina che la sua intera esistenza ne sarà sconvolta dalle fondamenta. A cominciare dalla ferrea, incrollabile complicità che per più di vent'anni lo ha legato alla moglie - la bella, la raffinata, la sprezzante Viviane. Con mano da maestro, Simenon ci fa percorrere tutte le tappe di un amour fou turbinoso e funesto, regalandoci uno dei suoi romanzi più intensamente erotici, più strazianti e appassionati.
Scritto a Cannes nel 1955, En cas de malheur fu pubblicato l'anno seguente, e nel 1958 fu portato sullo schermo da Claude AutantLara (in Italia il film, che aveva come protagonisti Jean Gabin e Brigitte Bardot, uscì con il titolo La ragazza del peccato, e con alcune scene parzialmente tagliate dalla censura). Di Georges Simenon (Liegi 1903-Losanna 1989) sono recentemente apparsi presso Adelphi Gli intrusi (2000), I Pitard (2000) e, per la serie delle «Inchieste di Maigret», Maigret va dal coroner (2001).
1.
Domenica 6 novembre.
Appena due ore fa, dopo colazione, nel salotto in cui eravamo passati a prendere il caffè, stavo in piedi davanti alla finestra, abbastanza vicino da avvertire la fredda umidità dei vetri, quando ho sentito mia moglie dire, dietro di me:
«Pensi di uscire, nel pomeriggio?».
Queste parole, così semplici e banali, mi sono parse cariche di significato, come se celassero un sottinteso che né io né Viviane osavamo esprimere. Ho esitato un po’ prima di rispondere, non perché non sapessi che cosa intendevo fare, ma perché per un attimo sono rimasto sospeso in quell’universo un po’ inquietante, anche se in fondo più reale del mondo di tutti i giorni, che dà l’impressione di scoprire l’altra faccia della vita.
Poi devo aver balbettato:
«No, oggi no».
Lei sa che non ho alcun motivo di uscire: l’ha intuito come tutto il resto; forse si tiene anche informata su ogni cosa che faccio. Non ce l’ho con lei, come lei non ce l’ha con me per quello che mi sta succedendo.
Nel momento in cui ha posto la domanda stavo guardando attraverso la pioggia fredda e scura che cade da tre giorni, anzi, dal giorno dei Morti, un barbone che andava e veniva sotto il Pont-Marie battendosi le mani sui fianchi per riscaldarsi. Fissavo soprattutto un mucchio di stracci nerastri addossato al muro di pietra, chiedendomi se si muoveva davvero o se si trattava di un’illusione dovuta al fremito dell’aria e al cadere della pioggia.
In effetti si muoveva, e ne ho avuto la certezza quando dai cenci è uscito un braccio, e subito dopo una testa di donna, gonfia e tutta scarmigliata. L’uomo ha smesso di passeggiare, si è girato verso la sua compagna per dirle qualcosa, e poi, mentre lei si metteva a sedere, è andato a prendere fra due sassi una bottiglia mezza vuota: gliel’ha data, e lei ha bevuto a canna.
In questi dieci anni, da quando siamo venuti ad abitare in quai d’Anjou, sull’île Saint-Louis, mi è capitato spesso di osservare i barboni. Ne ho visti di tutti i tipi, anche donne, ma era la prima volta che ne vedevo due comportarsi come una vera coppia. Perché la cosa mi ha colpito, facendomi pensare a un animale maschio e alla sua femmina rifugiati nella loro tana nel fondo di un bosco?
Alcuni, quando parlano di Viviane e di me, ci paragonano a una coppia di belve, intendendo probabilmente alludere al fatto che, tra gli animali selvatici, la femmina è la più aggressiva.
Prima di girarmi per andare verso il vassoio su cui era stato servito il caffè, ho avuto il tempo di registrare un’altra immagine: un uomo alto e dal viso abbronzato che emergeva dal boccaporto di una chiatta attraccata di fronte a casa nostra. Si era tirato sopra la testa la cerata nera per avventurarsi sotto la pioggia e, con una bottiglia vuota in ciascuna mano, si è inoltrato sulla passerella scivolosa che collegava la barca alla banchina. In quel momento lui e i due barboni, insieme a un cane giallastro incollato a un albero nero, erano i soli esseri viventi che si vedessero nel circondario.
«Scendi in studio?» ha chiesto di nuovo mia moglie mentre, in piedi, finivo di bere il caffè.
Le ho detto di sì. Ho sempre aborrito le domeniche, soprattutto le domeniche a Parigi, che mi mettono un’angoscia molto simile al panico. La prospettiva di andare a fare la coda, sotto l’ombrello, davanti a qualche cinema mi dà il voltastomaco, e così pure quella di passeggiare sugli Champsper esempio, o alle Tuileries, o quella di ritrovarmi imbottigliato nel traffico sulla strada per Fontainebleau.
Siamo tornati tardi, ieri sera. Dopo aver assistito a una generale al Théâtre de la Michodière, abbiamo mangiato da Maxim” s, e verso le tre del mattino siamo andati a chiudere la serata in una cantina vicino al Rond-Point in cui si ritrovano gli attori e la gente del cinema.
A differenza di qualche anno fa, non riesco più a fare le ore piccole senza poi risentirne. Viviane, invece, non sembra mai stanca.
Quanto tempo ancora siamo rimasti in salotto senza aprir bocca?
Almeno cinque minuti, direi, e in un silenzio come quello cinque minuti sembrano un’eternità. Guardavo mia moglie il meno possibile.
Sono diverse settimane che evito di guardarla in faccia e riduco al minimo i nostri tête-à-tête. Magari lei aveva voglia di parlare... Ho pensato che stesse per farlo quando, mentre ero voltato quasi di spalle, ha socchiuso le labbra con aria esitante per poi limitarsi a dire, invece di quello che avrebbe voluto:
«Più tardi passerò da Corine. Puoi raggiungermi lì prima di sera, se ne avrai voglia».
Corine de Langelle è una sua amica molto chiacchierata che possiede una delle più belle case di Parigi, in rue Saint-Dominique. Fra le altre idee originali, ha avuto quella di ricevere gli amici la domenica pomeriggio.
«Non è vero che tutti vanno alle corse,» sostiene «e sono ben poche le donne che accompagnano il marito a caccia. Chi ha mai detto che bisogna per forza annoiarsi soltanto perché è domenica?».
Ho girato un po’ in tondo per il salotto, e alla fine ho borbottato:
«A più tardi».
Ho attraversato il corridoio e sono entrato nel mio studio. Dopo tanti anni, mi fa ancora uno strano effetto arrivarci passando dalla galleria. È stata un’idea di Viviane: quando hanno messo in vendita l’appartamento sotto al nostro, mi ha consigliato di comprarlo per sistemarvi il mio studio, perché cominciavamo a stare un po’ stretti, soprattutto in occasione dei ricevimenti. Perciò, dopo aver fatto togliere il pavimento di una delle stanze, la più grande, lo abbiamo sostituito con una galleria che gira tutt’attorno alle pareti del piano superiore.
Ne è risultata una stanza con il soffitto molto alto e due file di finestre, tappezzata di libri sotto e sopra, che assomiglia in certo qual modo a una biblioteca pubblica, e mi ci è voluto un bel po’ per abituarmi a lavorarci e a ricevere lì i miei clienti.
Sono comunque riuscito a ritagliarmi, in una delle camere da letto dell’appartamento, un angolo più intimo, in cui preparo le arringhe e posso fare la siesta tutto vestito sopra un divano di pelle.
Anche oggi ho schiacciato un sonnellino, benché non sia sicuro di aver dormito davvero. Nella penombra, ho chiuso gli occhi e penso di aver continuato a sentire il rumore dell’acqua che gocciolava nella grondaia. Suppongo che anche Viviane abbia fatto la siesta nel boudoir tappezzato di seta rossa che ha ricavato di fianco alla nostra camera.
Sono da poco passate le quattro. In questo momento si starà preparando, e probabilmente passerà a salutarmi prima di andare da Corine.
Mi sento gli occhi gonfi. Da un po’ di tempo ho una brutta cera, e le medicine che mi ha prescritto il dottor Pémal non servono a nulla.
Però continuo a ingurgitare coscienziosamente gocce e pastiglie che a tavola stanno allineate in bell’ordine davanti al mio piatto.
Ho sempre avuto gli occhi sporgenti, e ho la testa grossa, tanto che a Parigi ci sono solo due o tre negozi in cui riesco a trovare cappelli della mia misura. A scuola, dicevano che sembravo un rospo.
Di tanto in tanto si sente uno scricchiolio, perché con l’umidità il legno della galleria si dilata, e ogni volta alzo la testa, come colto in fallo, aspettandomi di veder scendere Viviane.
Non le ho mai nascosto niente, eppure le nasconderò queste pagine, che metterò sotto chiave nell’armadio in stile Rinascimento del mio stanzino. Prima di iniziare a scrivere, mi sono assicurato che la chiave, mai usata finora, non fosse andata persa, e che la serratura funzionasse. Bisognerà anche trovare un posto per nasconderla, dietro qualche libro della biblioteca, per esempio: perché è enorme e in tasca non ci starebbe di certo.
Dal cassetto della scrivania ho preso un fascicolo in carta di Lione beige con sopra stampati il mio nome e il mio indirizzo:
Lucien Gobillot.
Avvocato alla Corte d’appello di Parigi.
17bis, quai d’Anjou – Parigi.
Centinaia di questi fascicoli, più o meno rigonfi dei drammi dei miei clienti, sono racchiusi nello schedario metallico che la signorina Bordenave tiene sempre aggiornato, e ho avuto un attimo di esitazione prima di scrivere il mio nome nello spazio in cui, sugli altri, figura quello del cliente. Alla fine, sorridendo ironicamente, mi sono limitato a tracciare una sola parola, con la matita rossa:
Io.
In fondo, quella che sto istruendo è la mia pratica personale, e non è improbabile che un giorno o l’altro possa servire. Mi ci sono voluti dieci minuti buoni per vincere la timidezza e riuscire a scrivere la prima frase, che ero tentato di formulare, come in un testamento:
«Io sottoscritto, nel pieno possesso delle mie facoltà fisiche e mentali...».
Perché anche questo somiglia a un testamento. O meglio, ignoro a cosa somiglierà, e mi chiedo se avrà i margini pieni di segni indecifrabili come le pratiche dei miei clienti.
In effetti, quando vengono a parlarmi, sono abituato ad annotare l’essenziale di quello che dicono, il vero e il falso, le mezze verità e le mezze bugie, le esagerazioni e le menzogne, e al tempo stesso registro a caldo, con dei segni che risultano comprensibili soltanto a me, le mie impressioni. Alcuni di questi segni sono inconsueti, barocchi, simili alle figurine o agli schizzi informi che certi magistrati tracciano sulla carta assorbente quando le arringhe si protraggono troppo a lungo.
Adesso cerco di scherzarci sopra, di non buttarla troppo sul tragico. Eppure, non è già sintomatico il fatto che io senta il bisogno di spiegarmi per iscritto? Per chi? Perché? Non ne ho idea.
In caso di disgrazia, insomma, come dice chi saggiamente mette dei soldi da parte. Casomai le cose andassero male...
E come possono andare altrimenti? Anche in Viviane intuisco un sentimento che le è sempre stato estraneo e che assomiglia in tutto e per tutto alla pietà. Nemmeno lei sa cosa ci aspetta, ma capisce bene che non si potrà andare avanti così molto a lungo, che qualcosa, comunque, deve succedere.
Lo sospetta anche Pémal, che mi ha in cura da quindici anni, e mi prescrive, sì, delle medicine, ma senza una gran convinzione. Del resto, quando viene a visitarmi, ostenta quel tono allegro e disinvolto che di certo si sente tenuto ad assumere nella stanza di un malato grave.
«Cosa c’è che non va, oggi?».
Niente. Tutto e niente. Allora mi parla dei miei quarantacinque anni e della mole di lavoro che mi sono sempre accollato, e che mi accollo tuttora, poi aggiunge con aria scherzosa:
«Viene il momento in cui anche la macchina più potente e perfetta ha bisogno di qualche piccola riparazione...».
Ha sentito parlare di Yvette? Pémal non frequenta il nostro stesso ambiente, in cui probabilmente nessuno ignora i dettagli della mia vita privata. Di sicuro, però, avrà letto su un settimanale qualche indiscrezione comprensibile solo a pochi iniziati.
Del resto, non si tratta solo di Yvette: è tutta la macchina, per usare la sua stessa espressione, che non funziona bene, e non solo da oggi, né da qualche settimana o da qualche mese.
Con ciò non intendo dire che già da vent’anni io sappia che le cose finiranno male, ma neppure che sia cominciato tutto un anno fa con Yvette.
Ho voglia di...
Mia moglie è appena scesa, con un tailleur nero sotto il visone, e una mezza veletta che conferisce un’aria di mistero alla parte alta del suo viso lievemente sfiorito. Mentre si avvicinava ho sentito il suo profumo.
«Pensi di raggiungermi?».
«Non lo so».
«Poi potremmo cenare fuori, da qualche parte».
«Ti telefonerò da Corine».
Per adesso ho voglia solo di restarmene nel mio angolino, immerso nel mio sudore.
Viviane mi ha posato le labbra sulla fronte e si è diretta con passo rapido verso la porta.
«A più tardi».
Non mi ha chiesto a che cosa sto lavorando. L’ho guardata uscire, poi mi sono alzato per tornare a incollare la fronte sul vetro della finestra.
La coppia di barboni sta sempre sotto il Pont-Marie. Adesso l’uomo e la donna sono seduti l’uno vicino all’altra, appoggiati alle pietre della banchina, e guardano l’acqua scorrere sotto le arcate. Da lontano è impossibile cogliere i movimenti delle loro labbra e quindi sapere se stanno parlando, con la parte inferiore del corpo al calduccio avvolta nelle coperte piene di buchi. E se parlano, cos’avranno mai da dirsi?
Il marinaio dev’essere tornato con la sua razione di vino perché, all’interno della cabina, si intravede la luce rossastra di una lampada a petrolio.
Continua a piovere, e ormai fa quasi buio.
Prima di rimettermi a scrivere, ho fatto il numero dell’appartamento di rue de Ponthieu, e mi si è stretto il cuore al pensiero del telefono che squillava laggiù senza che ci fossi anch’io. È una sensazione che comincio a conoscere bene, una sorta di spasmo che mi induce a portare la mano al petto come un cardiopatico.
Il telefono ha squillato a lungo, come in una casa vuota, e stavo per riattaccare quando ho sentito un clic e una voce impastata di sonno che mormorava:
«Chi è?».
Ero quasi tentato di non aprir bocca. Senza pronunciare il mio nome, ho chiesto:
«Dormivi?».
«Ah, sei tu! Sì, stavo dormendo».
C’è stato un attimo di silenzio. Era perfettamente inutile che le chiedessi che cosa ha fatto ieri sera e a che ora è tornata a casa.
«Non hai bevuto troppo?».
Per rispondere al telefono, è dovuta per forza uscire dal letto perché l’apparecchio non si trova in camera da letto ma in salotto.
Dorme nuda. La sua pelle, al risveglio, ha un odore particolare, odore di donna misto a quello della nicotina e dell’alcol. In questi ultimi tempi beve molto di più, come se anche lei intuisse che sta per succedere qualcosa.
Non ho osato domandarle se lui era lì. Sarebbe stato inutile. Perché non avrebbe dovuto esserci, visto che in certo qual modo gli ho ceduto il mio posto? Probabilmente sta ascoltando, appoggiato su un gomito, mentre con la mano cerca le sigarette nella penombra della camera con le tende ancora chiuse.
C’è un gran disordine: vestiti sparsi sul tappeto e sulle sedie, bicchieri e bottiglie disseminati qua e là. Non appena avrò riattaccato, lei si dirigerà verso il frigorifero per prendere una birra.
Fa uno sforzo per chiedere, come se la cosa le interessasse:
«Stai lavorando?».
E aggiunge, facendomi così capire che non ha ancora tirato le tende:
«Continua a piovere?».
«Sì».
Nient’altro. Cerco qualcosa da dirle, e forse anche lei sta facendo lo stesso. Non riesco a trovare se non un ridicolo:
«Fà la brava».
Mi sembra di vederla, seduta sul bracciolo della poltrona verde, i seni appuntiti, il dorso magro da bambina gracile, il triangolo scuro del pube che suscita sempre in me, chissà per quale motivo, una grande commozione.
«A domani».
«Certo, a domani».
Sono tornato alla finestra: ormai si vedono solo le ghirlande di lampioni lungo la Senna, i loro riflessi nell’acqua, e qua e là, sulle oscure facciate bagnate di pioggia, il rettangolo di una finestra illuminata.
Rileggo il passaggio che stavo scrivendo quando mia moglie mi ha interrotto.
«Ho voglia di...».
Non riesco a ricordare a che cosa stessi pensando. D’altronde, se intendo continuare quella che chiamo già la mia pratica, sarà meglio non rileggere niente, nemmeno una frase.
«Ho voglia di...».
Ah, sì, forse è questo: ho voglia di trattarmi come tratto i miei clienti. A Palazzo di Giustizia dicono che sarei stato tremendo come giudice istruttore, perché riesco a far parlare anche i tipi più coriacei. Il mio atteggiamento non cambia mai, e devo ammettere che mi aiuta anche il fisico, con questa mia faccia da rospo e gli occhi a palla che, fissando le persone come se non le vedessero, fanno una certa impressione. La bruttezza mi risulta utile, conferendomi l’aspetto grottesco e misterioso di certe statuine cinesi.
Per un po’ li lascio parlare, e prendo distrattamente qualche appunto mentre loro sgranano il rosario di frasi che si sono preparati prima di suonare alla porta. Poi, quando meno se lo aspettano, li interrompo, senza fare il minimo gesto, con il mento sempre appoggiato sulla mano sinistra:
«No!».
Con quel semplice monosillabo, pronunciato senza alzare la voce, come isolato dal contesto, riesco quasi sempre a smontarli.
«Le assicuro...» tentano di ribattere.
«No».
«Pensa che stia mentendo?».
«Le cose non sono andate come dice lei».
Con alcuni, in particolare con le donne, basta questo: sorridono subito con aria complice. Altri invece continuano a protestare.
«Eppure le giuro...».
Con tipi del genere mi alzo, come se l’incontro fosse finito, e mi dirigo verso la porta.
«Mi lasci spiegare» balbettano con aria preoccupata.
«Non ho nessun bisogno delle sue spiegazioni, voglio la verità. Le spiegazioni le devo trovare io, non lei. Dal momento che preferisce mentire...».
È raro che debba posare la mano sulla maniglia.
Con me stesso, non posso certo recitare una commedia simile. Ma se scrivessi ad esempio: «Tutto è cominciato un anno fa, quando...», potrei sempre interrompermi, come faccio con gli altri, con un semplice e categorico: «No!».
Di fronte a questo ennesimo «no», loro rimangono ancor più disorientati e perdono la testa.
«Eppure,» protestano «è quando l’ho incontrata che...».
«No».
«Perché dice che non è vero?».
«Perché bisogna risalire più addietro».
«A quando?».
«Non lo so. Cerchi lei».
Cercano e quasi sempre scoprono un avvenimento anteriore idoneo a spiegare il loro dramma. Ne ho salvati molti così, non, come dicono in tribunale, con marchingegni procedurali o prendendo per il naso i giurati, ma perché sono riuscito a fargli individuare le cause del loro comportamento.
Anch’io, come loro, stavo per scrivere:
«“Tutto è cominciato...”».
Quando? Con Yvette, la sera in cui, rientrando dal Palazzo di Giustizia, l’ho trovata seduta tutta sola in sala d’attesa? È la soluzione più facile, quella che sarei tentato di definire romantica.
Se non ci fosse stata Yvette, probabilmente ci sarebbe stata un’altra. Chissà poi se era davvero necessaria l’intrusione di un elemento nuovo nella mia vita.
Purtroppo, al contrario dei miei clienti quando si siedono su quella che chiamiamo la poltrona delle confessioni, io non ho nessuno davanti a me che mi aiuti a discernere la mia verità, magari con un semplice: «No!».
A loro non permetto mai di cominciare dalla fine, né da metà, eppure è quello che farò io, perché la faccenda di Yvette mi sta ossessionando e ho bisogno di liberarmene. Dopo, se me ne resteranno la voglia e il coraggio, mi sforzerò di scavare più in profondità.
Era un venerdì di metà ottobre, ossia poco più di un anno fa.
Tornavo a casa dopo aver discusso una causa di ricatto la cui sentenza era stata rinviata di una settimana, e ricordo che io e mia moglie dovevamo cenare in un ristorante in avenue du Président-Roosevelt con il prefetto di polizia e altre personalità.
Ero rientrato a piedi dal Palazzo di Giustizia, che è a due passi da casa mia, mentre cadeva una pioggerellina sottile, quasi tiepida, ben diversa da quella di oggi.
La signorina Bordenave, la mia segretaria - che non mi è mai passato per la mente di chiamare per nome e che perciò, al pari degli altri, chiamo Bordenave come farei con un uomo -, aspettava il mio ritorno, mentre il giovane Duret, che lavora con me da più di quattro anni, era già andato via.
«C’è qualcuno che la sta aspettando di là in sala d’attesa» mi annunciò Bordenave alzando la testa da sotto la lampada verde.
È più bionda che rossa, ma il suo sudore ha nettamente l’odore delle rosse.
«Chi è?».
«Una ragazzina. Non ha voluto dire il suo nome, né lo scopo della visita. Desidera parlarle personalmente».
«In quale sala?».
Ci sono due sale d’attesa, la grande e la piccola, come le chiamiamo noi, e sapevo che la mia segretaria avrebbe risposto:
«In quella piccola».
Non le piacciono le donne che insistono per parlarmi personalmente.
Avevo ancora la cartella sotto il braccio, il cappello in testa e il soprabito bagnato addosso quando spinsi la porta e la vidi sprofondata in una poltrona, con le gambe accavallate, intenta a leggere una rivista di cinema e a fumare una sigaretta.
Balzò subito in piedi guardandomi come avrebbe fatto se si fosse trovato davanti, in carne e ossa, l’attore ritratto sulla copertina della rivista.
«Prego, è di qua».
Avevo notato il cappotto a buon mercato, le scarpe con i tacchi consumati, e soprattutto i capelli raccolti a coda di cavallo come li portano le ballerine e certe ragazze della Rive Gauche.
Nello studio mi tolsi soprabito e cappello, e andai a sedermi al solito posto indicandole la poltrona di fronte a me.
«La manda qualcuno?» le chiesi.
«No. Sono venuta di mia iniziativa».
«Come mai si è rivolta a me piuttosto che a un altro avvocato?».
Faccio spesso questa domanda, anche se la risposta non è sempre lusinghiera per il mio amor proprio.
«Non se lo immagina?».
«È da parecchio che non gioco più agli indovinelli».
«Mettiamo che sia perché ha l’abitudine di far assolvere i suoi clienti».
Un giornalista, di recente, ha espresso il concetto in un altro modo, e da allora la frase è stata ripresa da tutti i giornali:
«Se siete innocenti, scegliete un qualsiasi buon avvocato. Se siete colpevoli, rivolgetevi a Gobillot!».
Sul volto della ragazza, dalla lampada puntata sulla poltrona delle confessioni, cadeva una luce violenta, e nel descriverlo mi torna alla mente il disagio che allora provai, perché era un viso da bambina e da vecchia allo stesso tempo, un misto di ingenuità e di astuzia, e mi verrebbe da aggiungere di innocenza e di vizio, ma non amo questi termini, che tengo in serbo per i giurati.
Era magra e patita, come tutte le ragazze della sua età che vivono a Parigi in condizioni igieniche precarie. Chissà perché, mi ritrovai a pensare che doveva avere i piedi sporchi...
«Ha problemi con la giustizia?».
«Sicuramente li avrò molto presto».
Era tutta contenta di stupirmi, e sono sicuro che faceva apposta ad accavallare le gambe scoprendole fin sopra il ginocchio. Il trucco, che aveva rinfrescato mentre mi aspettava, era eccessivo e maldestro come quello delle prostitute di bassa lega o di certe servette appena sbarcate a Parigi.
«Nel momento in cui tornerò al mio albergo, se ci tornerò, mi arresteranno, e probabilmente tutti i poliziotti, per strada, hanno già i miei dati segnaletici».
«Mi ha voluto vedere prima?».
«Direi! Dopo, sarebbe troppo tardi».
Non riuscivo a capire e cominciavo a essere incuriosito.
Evidentemente era quello che lei voleva, e colsi un sorriso furtivo sulle sue labbra sottili.
Iniziai azzardando:
«Immagino che sia innocente...».
Doveva aver letto quello che si scriveva di me, perché rispose senza esitare:
«Se fossi innocente, non sarei qui».
«Per quale reato è ricercata?».
«Rapina».
Lo disse in tono semplice, asciutto.
«Ha commesso un’aggressione a mano armata?».
«È questo che si chiama una rapina, no?».
Allora mi sprofondai nella poltrona assumendo la mia posa abituale: il mento appoggiato sulla mano sinistra mentre la destra tracciava parole e arabeschi su un blocco, la testa leggermente inclinata, gli occhi sporgenti e inespressivi piantati su di lei.
«Dica pure».
«Che cosa?».
«Tutto».
«Ho diciannove anni».
«Gliene avrei dati diciassette».
Facevo apposta a stuzzicarla, non so bene perché. Potrei dire che, fin dal nostro primo incontro, c’era stato fra di noi una specie di antagonismo. Lei mi sfidava e io la sfidavo. In quel momento, le nostre chance potevano ancora sembrare alla pari.
«Sono nata a Lione».
«E poi?».
«Mia madre non fa né la donna delle pulizie, né l’operaia, né la prostituta».
«Perché lo dice?».
«Perché di solito è così, no?».
«È abituata a leggere romanzetti rosa?».
«Solo i giornali. Mio padre fa il maestro di scuola e prima di sposarsi mia madre lavorava alle Poste».
Sembrava attendere una domanda che non venne, il che la lasciò per un attimo disorientata.
«Sono andata a scuola fino a sedici anni, ho preso il diploma e ho lavorato per un anno come dattilografa a Lione, in una ditta di autotrasporti».
Avevo scelto la tattica del silenzio.
«Un giorno ho deciso di venire a Parigi per tentare la sorte e ho convinto i miei genitori che avevo trovato un posto per corrispondenza».
Io perseveravo nel mio mutismo.
«Non le interessa?».
«Continui».
«Sono venuta qui, senza un lavoro, e mi sono arrangiata, visto che sono ancora viva. Non mi chiede in che modo mi sono arrangiata?».
«No».
«Glielo dico lo stesso. In tutti i modi. Con tutti i mezzi».
Io non battei ciglio e lei insistette:
«Tutti, capisce?».
«E poi?».
«Ho incontrato Noémie, che si è fatta beccare non so dove e che in questo momento staranno ancora interrogando. Siccome sanno che a fare il colpo siamo state in due, scopriranno, a meno che non gliel’abbiano già detto, che dividevamo la stessa camera d’albergo, e mi staranno aspettando là. Conosce l” Hôtel Alberti, in rue Vavin?».
«No».
«È quello».
Il mio atteggiamento cominciava a farle perdere la pazienza, oltre che a metterla in imbarazzo. Quanto a me, facevo apposta a darmi un’aria più dura, più indifferente.
«Lei si comporta sempre così?» chiese con disappunto la ragazza.
«Pensavo che il suo ruolo fosse quello di aiutare i clienti».
«Prima però devo sapere in che cosa posso aiutarli».
«A farci assolvere entrambe! E a che cosa sennò?».
«Vada avanti».
Esitò, scrollò le spalle, e riprese:
«E va bene! Ci proverò. Alla fine ne abbiamo avute piene le scatole tutt’e due».
«Di che?».
«Vuole che le faccia un bel quadretto? Per me non c’è problema e, se le piacciono le storie rivoltanti...».
Nella sua voce c’erano disprezzo e delusione, e per la prima volta la incoraggiai, un po’ dispiaciuto di essermi mostrato ancora più duro del solito.
«Chi ha avuto l’idea della rapina?».
«Io. Noémie è troppo stupida per avere una qualche idea. È una brava ragazza, ma ha poco cervello. Leggendo i giornali, mi è venuto in mente che con un po’ di fortuna potevamo guadagnare in una volta sola quel che bastava per settimane, e forse per mesi interi. Mi capita spesso di battere il marciapiede, la sera, nei dintorni della Gare Montparnasse, e ormai conosco abbastanza il quartiere. In rue de l’Abbé-Grégoire ho notato la bottega di un orologiaio che resta aperta tutte le sere fino alle nove o alle dieci.
«È un negozietto piccolo e buio. In fondo, si intravede una cucina dove una vecchia lavora a maglia o pulisce le verdure ascoltando la radio.
«L’orologiaio, vecchio come lei e calvo, lavora vicino alla vetrina, con una lente d’ingrandimento cerchiata di nero applicata a un occhio. Allora ho cominciato a passare là davanti tantissime volte, apposta per osservarli.
«Quel pezzo di strada è mal illuminato, e nelle vicinanze non ci sono altri negozi...».
«Era armata?».
«Ho comprato una di quelle pistole giocattolo che assomigliano in tutto e per tutto a una pistola vera».
«È successo ieri sera?».
«L’altro ieri, mercoledì».
«Continui».
«Qualche minuto dopo le nove siamo entrate tutt’e due nel negozio, e Noémie ha finto di avere un orologio da riparare. Io stavo vicino a lei e mi sono un po’ preoccupata perché non vedevo la vecchia in cucina. Ero quasi tentata di mandare tutto all’aria, ma poi, nel momento in cui l’uomo si è chinato per guardare l’orologio della mia amica, gli ho mostrato la pistola dicendo:
«“È una rapina. Non gridi. Mi dia il denaro e non le farò del male”.
«Lui ha capito che facevamo sul serio e ha aperto la cassa, mentre Noémie, come stabilito, arraffava gli orologi appesi intorno al bancone e se li infilava nelle tasche del cappotto.
«Stavo per stendere la mano e prendere i soldi quando ho sentito una presenza dietro di me. Era la vecchia, con indosso cappello e soprabito, che tornava da chissà dove e che, in piedi sulla soglia, stava già chiamando aiuto.
«Non sembrava intimorita dalla pistola e ci sbarrava il passaggio con le braccia aperte, urlando:
«“Al ladro! Correte! All’assassino!”.
«In quel momento ho visto la manovella che serve per alzare e abbassare la saracinesca, l’ho afferrata e mi sono precipitata sulla vecchia gridando a Noémie:
«“Via di qua, presto!”.
«Ho colpito la vecchia dandole uno spintone, e lei è caduta all’indietro sul marciapiede, tanto che abbiamo dovuto scavalcarla.
Poi siamo corse via, una da una parte e una dall’altra.
«Eravamo d’accordo che, se avessimo dovuto separarci, ci saremmo ritrovate in un bar di rue de la Gaîté, ma io prima di andarci ho vagato per più di un’ora, e ho anche preso il métro fino a Châtelet.
Ho chiesto a Gaston:
«“La mia amica non è venuta?”.
«“Stasera non l’ho vista” mi ha risposto.
«All’alba, dopo aver passato fuori buona parte della notte, sono tornata all’Hôtel Alberti ma Noémie non c’era. Non l’ho più rivista.
Ieri mattina il giornale raccontava la storia in poche righe, aggiungendo che la moglie dell’orologiaio è stata ricoverata in ospedale con lesioni alla fronte e a un occhio.
«Tutto qui: neanche una parola su di noi, né ieri sera, né stamattina. Non precisano nemmeno che il colpo è stato effettuato da due donne.
«La cosa non mi piace affatto. Stanotte non sono tornata all’Hôtel Alberti, e verso mezzogiorno, mentre mi dirigevo verso il bar di rue de la Gaîté, ho fatto appena in tempo a scorgere due piedipiatti in borghese.
«Sono andata avanti per la mia strada, girando la testa dall’altra parte. Poi, da un bistrot di rue de Rennes dove non mi conoscono, ho telefonato a Gaston».
La ascoltavo, restando sempre immobile, senza manifestare alcun segno di quell’interesse che lei certamente si aspettava.
«Pare che gli abbiano mostrato una foto di Noémie, come quelle che fanno alle persone arrestate, chiedendogli se la conosceva, e lui ha detto di sì. Allora gli hanno domandato se conosceva la sua amica e ha detto ancora di sì, ma che non sapeva dove abitiamo. Probabilmente hanno fatto la stessa cosa in tutti i bar dei dintorni e forse anche negli alberghi. Ho supplicato Gaston, che è un amico, di farmi un favore, e lui ha accettato».
Mi guardò come se il resto non mi rimanesse che capirlo da solo.
«Sto aspettando» ho detto, sempre freddo.
Non so bene perché, ma ce l’avevo con lei.
«Quando lo interrogheranno di nuovo, ed è certo che lo faranno, sosterrà che giovedì sera all’ora della rapina eravamo tutt’e due nel suo bar, e troverà qualche cliente disposto a riconoscerci. Questo, però, Noémie lo ignora, e bisogna assolutamente che lo sappia. La conosco bene: se ne sarà stata lì zitta e muta e li avrà guardati con la sua aria ostinata. Ora che lei è il nostro avvocato, può andare a parlarle e darle l’imbeccata. Potrà anche mettere a punto i dettagli con Gaston, che troverà nel suo bar fino alle due del mattino. L’ho già avvertito per telefono. Al momento non posso darle quattrini, perché non ne ho, ma so che a volte le è capitato di difendere qualcuno senza chiedergli un soldo».
Credevo di sapere tutto, di avere visto e sentito tutto.
Mi rendevo conto che esitava a concludere, che non aveva vuotato il sacco, che le restava da dire o da fare qualcosa che adesso, tutt’a un tratto, le sembrava difficile. Forse temeva che non funzionasse, che quella scena (che doveva aver preparato minuziosamente come la rapina) facesse fiasco.
La rivedo alzarsi, più pallida, sforzandosi di sorridere con aria sicura, pronta a giocare con grinta la partita decisiva. Si guardò intorno fermando lo sguardo sull’unico angolo della mia scrivania che non fosse ingombro di carte, poi, tirandosi su la gonna fino alla cintola, si lasciò cadere all’indietro mormorando:
«Tanto vale che ne approfitti prima che mi mettano in prigione».
Non portava mutandine. Vidi per la prima volta le sue cosce magre, il ventre tondo da ragazzina, il triangolo scuro del pube e, senza una ragione precisa, sentii il sangue montarmi alla testa.
Scorgevo il suo viso rovesciato vicino alla lampada, al vaso di fiori che Bordenave rinnova ogni mattina, e anche lei si sforzava di guardarmi, aspettava e, avvertendo la mia immobilità, perdeva a poco a poco quella sua sicurezza.
Ci volle un po’ perché i suoi occhi si riempissero di lacrime; tirò su col naso, e infine la sua mano cercò l’orlo della gonna senza ancora abbassarla, mentre lei chiedeva con voce delusa e umiliata:
«Davvero non le interessa?».
Si rialzò lentamente voltandomi le spalle e, senza guardarmi in faccia, domandò, rassegnata:
«Allora è proprio no?».
Accesi una sigaretta e dissi a mia volta, con lo sguardo rivolto altrove:
«Si sieda».
Non lo fece subito e, prima di girarsi verso di me, si soffiò il naso rumorosamente, come fanno i bambini.
È a lei che ho appena telefonato in rue de Ponthieu: lì, nel suo letto, c’è un uomo, un uomo che conosco e al quale sono io, in qualche modo, a chiedere di diventare il suo amante.
Il telefono ha squillato mentre ancora non sapevo se oggi sarei andato avanti a scrivere. Ho riconosciuto la voce di mia moglie.
«Stai ancora lavorando?».
Un attimo di esitazione e poi:
«No».
«Non mi raggiungi? C’è anche Moriat, e se vieni qui Corine ha intenzione di trattenerci a cena con quattro o cinque amici».
Ho detto di sì.
Quindi chiuderò la «mia» pratica nell’armadio e deciderò dietro quali libri della biblioteca nascondere la chiave, poi salirò a vestirmi.
Chissà se quella coppia di barboni è ancora sdraiata sotto il Pont-Marie...
2.
Martedì 8 novembre, sera.
Sono salito in camera mia per cambiarmi e ho chiamato Albert.
«Tiri fuori la macchina: andiamo in rue Saint-Dominique. La signora avrà preso la quattro cavalli, immagino».
«Sì, signore».
Viviane e io abbiamo due macchine e un autista-maggiordomo, ma è soprattutto l’autista che fa chiacchierare la gente, come se fossimo due parvenu vanitosi e provinciali, mentre io l’ho assunto per una ragione alquanto banale.
Se avessi davanti a me un cliente che mi dicesse la stessa cosa, lo interromperei di sicuro con un:
«Si limiti ai fatti».
Già che ci sono, però, ci tengo a chiarire come stanno le cose.
L’avvocato Andrieu, il mio primo - e ultimo - datore di lavoro, che è stato anche il primo marito di Viviane, era uno dei pochi avvocati di Parigi che si facevano portare al Palazzo di Giustizia da un autista in livrea. Ecco da dove è nata la leggenda che io voglia imitarlo, che chissà quale complesso mi spinga a dimostrare a mia moglie...
All’inizio, quando abitavamo in place Denfert-Rochereau, e le nostre finestre affacciavano proprio sul Leone di Belfort, prendevo il métro. La cosa, però, è durata non più di un anno, dopodiché ho potuto concedermi qualche taxi. In seguito abbiamo comprato una macchina usata; Viviane aveva già la patente, io invece non sono mai riuscito a passare l’esame di guida. Mi manca il senso della meccanica, e forse anche la prontezza di riflessi. Sono così teso, al volante, così sicuro di andare incontro a una catastrofe, che l’istruttore mi ha consigliato:
«Lasci perdere, avvocato. Ne ho visti altri come lei, e quasi sempre si tratta di persone dotate di intelligenza superiore.
Ripresentandosi due o tre volte, magari riuscirebbe a passare l’esame, ma prima o poi le capiterebbe un incidente. Non fa per lei».
Ricordo ancora il tono rispettoso con cui pronunciò queste ultime parole, perché all’epoca cominciavo a godere di una certa reputazione.
Per molti anni, finché non ci stabilimmo sull’île Saint-Louis, Viviane mi fece da autista, accompagnandomi al Palazzo di Giustizia e venendo a riprendermi la sera. Solo quando Albert, il figlio del nostro giardiniere di Sully, dopo il servizio militare cominciò a cercare lavoro, ci venne l’idea di assumerlo.
Nel frattempo, infatti, la nostra vita era diventata più complessa, e ciascuno di noi doveva far fronte a impegni sempre crescenti.
Alla gente parve strano non vederci insieme come prima, perché eravamo diventati una sorta di leggenda, e sono convinto che alcuni, ancora oggi, immaginano che Viviane mi aiuti a istruire le pratiche, se non addirittura a preparare le arringhe.
Non mi do delle arie nel senso in cui intendono i miei colleghi, e se...
«I fatti!».
Perché ritorno sempre alla sera di domenica scorsa, durante la quale non è successo nulla di particolare? Oggi è martedì. Non pensavo che la voglia di immergermi di nuovo nella mia pratica mi sarebbe venuta così presto.
Dunque Albert mi ha portato in rue Saint-Dominique. Nel cortile interno ho visto la macchina blu di mia moglie e gli ho detto di non aspettarmi. Da Corine de Langelle, ho trovato una decina di persone in uno dei salotti e tre o quattro nella stanzetta circolare adibita a bar, dove la padrona di casa officiava personalmente.
«Uno scotch, Lucien?» mi ha chiesto prima di baciarmi. Lei bacia sempre tutti. Fa parte del rituale di casa sua.
Poi, quasi immediatamente, ha aggiunto:
«Quale mostro di crudeltà il nostro grande avvocato sta sottraendo alle grinfie della giustizia?».
C’era Jean Moriat, seduto in una poltrona enorme e intento a conversare con Viviane, e io ho stretto la mano agli habitué:
Lannier, proprietario di tre o quattro giornali, il deputato Druelle, un giovane di cui non ricordo mai il nome e di cui ignoro la professione, ma che incontro sempre dove c’è Corine - «uno dei miei protetti» dice lei -, e due o tre belle donne ultraquarantenni, di rigore in rue Saint-Dominique.
Non è successo niente, come ho già detto, se non quello che succede di solito in questo genere di serate. Abbiamo continuato a bere e a chiacchierare fin verso le otto e mezzo, quando, come mi aveva predetto Viviane, è rimasto solo un gruppetto di cinque o sei persone, tra cui Lannier e, naturalmente, Jean Moriat.
È proprio a causa sua che ci ripenso. Infatti, almeno un paio di volte i nostri sguardi si sono incrociati, dandomi l’impressione - magari infondata, anche se la cosa mi stupirebbe - che tra noi si fosse stabilita una sorta di contatto.
Tutti conoscono Moriat, che è stato ministro una decina di volte, due volte presidente del Consiglio, e che lo ridiventerà. Le sue fotografie, le sue caricature occupano le prime pagine dei giornali con la stessa frequenza di quelle delle star del cinema.
È un uomo corpulento, massiccio, brutto quasi quanto me, ma che rispetto a me ha il vantaggio di essere alto e di avere una certa qual rudezza contadina che gli conferisce un’aria di nobiltà.
Le vicende della sua vita sono più o meno note a tutti, almeno in quella cerchia di parigini che si autodefiniscono «iniziati».
A quarantadue anni, sposato e padre di tre bambini, faceva ancora il veterinario a Niort e non sembrava nutrire altre ambizioni quando, in seguito a uno scandalo politico, si presentò alle elezioni e venne eletto.
Probabilmente, se non avesse incontrato Corine, sarebbe rimasto per tutta la vita un solerte deputato costretto a fare la spola tra un modesto appartamento della Rive Gauche e la sua circoscrizione.
Quanti anni poteva avere allora Corine? Difficile parlare della sua età; da quanto si può capire adesso, all’epoca doveva essere intorno alla trentina. Suo marito, il vecchio conte di Langelle, era morto due anni prima e lei cominciava a trascurare l’ambiente aristocratico del faubourg Saint-Germain, dov’era vissuta con lui, per frequentare direttori di giornali e uomini politici.
A quanto si dice, che la scelta cadesse su Moriat non fu affatto casuale, e il sentimento non c’entra per nulla. Prima di lui ne aveva già provati e rifiutati un paio, e solo dopo aver osservato a lungo il deputato di Niort gli accordò la sua preferenza.
Comunque sia andata, lo si è visto sempre più spesso a casa di lei, sempre meno in viaggio per il dipartimento delle Deux-Sèvres, e due anni più tardi aveva già ottenuto un mezzo portafoglio, per poi diventare ministro poco tempo dopo.
Da allora sono passati più di quindici anni, quasi venti - le date precise non m’interessano granché -, e oggi la loro relazione è ormai accettata, direi quasi a livello ufficiale, visto che è in rue Saint-Dominique che il presidente del Consiglio, mettiamo, o addirittura l’Eliseo telefonano quando hanno bisogno di Moriat.
Lui non ha rotto con sua moglie, che vive a Parigi, nei dintorni dello Champ-de-Mars. L’ho incontrata più volte: è rimasta una donna goffa, insignificante, sempre con l’aria di scusarsi per essere così poco degna di quel grand’uomo. I loro figli sono sposati e credo che il maggiore sia un funzionario della Prefettura.
In casa di Corine, Moriat non si dà le arie del politico né di chi è votato alla fama. Si mostra così com’è, e spesso mi ha dato l’impressione di uno che si annoia, o più esattamente di uno che fa di tutto per non deludere gli altri.
Domenica, quando i nostri sguardi si sono incrociati una prima volta, mi stava osservando con la fronte aggrottata, come se scoprisse in me un elemento nuovo, direi quasi un segno.
Non mi andrebbe sicuramente, per pudore e per paura del ridicolo, di dover ripetere a voce quello che ora mi accingo a scrivere, ma domenica ho cominciato a credere al segno, a un marchio invisibile che può essere notato solo dagli iniziati, da coloro che lo portano anch’essi.
Non so se riuscirò a esprimere fino in fondo il mio pensiero...
Quel segno possono averlo solo determinate persone, che hanno vissuto molto e visto molto, che hanno avuto ogni tipo di esperienze e che soprattutto hanno fatto uno sforzo eccezionale per raggiungere il loro scopo, o arrivarci molto vicino, e non penso che se ne possa essere marchiati prima di una certa età, diciamo intorno ai quarantacinque anni.
Anch’io ho osservato Moriat, dapprima durante la cena, mentre le signore chiacchieravano, e poi in salotto, dove l’amante del proprietario di giornali si era seduta su dei cuscini e cantava accompagnandosi con la chitarra.
Era evidente che anche lui, come me, non si divertiva. Guardandosi attorno, probabilmente si stava chiedendo per quale capriccio della sorte si trovasse in un ambiente che costituiva in certo qual modo un insulto alla sua personalità.
Si dice che sia ambizioso, e ci accomuna la stessa leggenda: lui gode fama di essere un duro in politica come lo sarei io in tribunale.
E invece non credo che sia ambizioso, oppure, se lo è stato in un certo periodo, in modo piuttosto infantile, adesso non lo è più: è succube del proprio destino, del proprio personaggio, come certi attori sono condannati a recitare per tutta la vita lo stesso ruolo.
L’ho visto mandar giù un bicchiere dopo l’altro, senza piacere, senza allegria, e senza neanche l’avidità di un alcolista, e sono convinto che, ogni volta che chiedeva da bere, lo faceva per darsi il coraggio di restare.
Corine, che ha quasi quindici anni meno di lui, lo coccola come un bambino, facendogli sempre trovare ciò che desidera.
Anche lei, che lo conosce meglio di chiunque altro, dev’essersi accorta, domenica, del suo progressivo intorpidirsi e obnubilarsi a mano a mano che passavano le ore.
Io non sono ancora a questo punto. È raro che mi capiti di bere, e mai in modo così sistematico.
Eppure Moriat ha riconosciuto in me il segno, che deve trasparire dagli occhi, che forse, più che un’espressione del viso, è solo una certa pesantezza dello sguardo, una certa assenza.
Quando si è cominciato a parlare di politica, lui ha buttato lì qualche frase ironica, come si gettano briciole di pane agli uccelli.
In quel momento, io sono uscito dal salone per raggiungere un boudoir in cui sapevo di poter trovare un telefono. Prima ho telefonato in rue de Ponthieu, dove, come mi aspettavo, non ha risposto nessuno.
Allora ho fatto il numero di Louis, il padrone del ristorante italiano in cui Yvette va spesso a mangiare.
«Sono Gobillot. Yvette è da lei, Louis?».
«È appena arrivata, signor Gobillot. Vuole che la chiami?».
«È sola?» ho chiesto, perché dovevo farlo, e del resto Louis è al corrente di tutto.
«Sì. Sta iniziando a cenare al tavolino in fondo».
«Le dica che passerò da lei fra mezz’ora o poco più».
Moriat ha intuito anche questo? Né lui né io siamo dei depravati, come non siamo degli ambiziosi, ma chi lo ammetterebbe, a parte qualcuno che portasse anche lui il segno? Quando sono tornato in salotto mi ha osservato ancora, ma il suo sguardo era umido, velato, come sempre dopo che ha bevuto parecchio.
Suppongo che Corine gli abbia fatto un cenno, poiché tra di loro c’è la stessa intesa che tra me e Viviane. L’ex presidente del Consiglio, che un giorno o l’altro guiderà di nuovo le sorti dello Stato, si è alzato a fatica e ha fatto un gesto come di benedizione mormorando:
«Vogliate scusarmi...».
Ha attraversato il salotto con passo incerto e pesante, e al di là della porta a vetri ho intravisto un cameriere che lo aspettava, sicuramente per metterlo a letto.
«Lavora così tanto!» ha sospirato Corine. «Ha un tale carico di responsabilità sulle spalle!».
Anche Viviane mi ha lanciato uno sguardo di connivenza, che in più racchiudeva una domanda. Aveva capito che ero stato a telefonare, sapeva a chi e perché, non ignorava che avrei finito per andare da Yvette, credo perfino che me lo stesse tacitamente consigliando.
La serata si sarebbe trascinata ancora per un’ora o due prima dei saluti finali.
«Vi chiedo di scusarmi. Anch’io ho il lavoro che mi aspetta...».
Ci credevano davvero? Probabilmente non più che a Moriat. Ma non ha alcuna importanza.
«Hai detto ad Albert di aspettarti?» mi ha chiesto Viviane.
«No, prenderò un taxi».
«Non preferisci che ti accompagni io?».
«Assolutamente no. C’è un posteggio proprio qui di fronte».
Anche lei, appena me ne sarò andato, parlerà del mio duro lavoro e delle mie responsabilità? Ho dovuto restarmene sotto la pioggia per dieci minuti ad aspettare un taxi, perché era domenica, e quando sono arrivato da Louis, Yvette stava fumando una sigaretta e bevendo il caffè, pressoché sola nel ristorante, con lo sguardo perso nel vuoto.
Mi ha fatto posto vicino a lei sul divanetto, porgendomi la guancia con un gesto divenuto ormai familiare come i baci di Corine.
«Hai cenato fuori?» mi ha chiesto semplicemente, come se i nostri rapporti fossero i più normali del mondo.
«Ho mangiato un boccone in rue Saint-Dominique».
«C’era anche tua moglie?».
«Sì».
Non è gelosa di Viviane, non cerca di prendere il suo posto, non cerca niente, insomma: si limita a vivere nel presente.
«Cosa prende, avvocato?».
Ho guardato la tazzina di Yvette e ho detto:
«Un caffè».
Lei ha osservato:
«Poi non riuscirai a dormire».
È vero, mi toccherà prendere un sonnifero, come faccio quasi ogni sera. Non ho niente da dirle e rimaniamo lì, seduti fianco a fianco sul divanetto, a guardare davanti a noi come una coppia di vecchi coniugi.
Alla fine, comunque, le ho chiesto:
«Stanca?».
Risponde di no, senza sospettare alcuna malizia, e si informa a sua volta:
«Che hai fatto oggi?».
«Ho lavorato».
Non specifico di che lavoro si trattava, e Yvette è ben lontana dal sospettare che mi sono occupato soprattutto di lei.
«Tua moglie ti aspetta?».
È un modo per informarsi indirettamente sulle mie intenzioni.
«No».
«Andiamo a casa?».
Faccio segno di sì. Vorrei essere capace di dire di no, di andarmene, ma ormai da molto tempo ho rinunciato a lottare inutilmente.
«Posso prendere una chartreuse?».
«Se vuoi. Louis! Una chartreuse».
«Per lei niente, signor Gobillot?».
«No, grazie».
Di domenica, la donna che fa le pulizie in rue de Ponthieu non viene, e sono sicuro che Yvette non si è presa la briga di riordinare l’appartamento. Avrà almeno rifatto il letto? È poco probabile. Beve lentamente la sua chartreuse, con lunghe pause fra un sorso e l’altro, come per ritardare il momento di andarsene. Poi sospira:
«Chiediamo il conto?».
Louis è abituato a vederci a quel tavolo e sa dove andiamo quando usciamo di lì.
«Buonanotte, signorina. Buonanotte, avvocato».
Sotto la pioggia, Yvette si aggrappa al mio braccio, e ogni tanto barcolla per via dei tacchi troppo alti. Ma sono solo due passi.
È indispensabile che ritorni al nostro primo incontro, quello avvenuto nel mio studio un venerdì sera di un anno fa o poco più.
Mentre lei tornava a sedersi intimidita, chiedendosi che cosa avessi deciso, io alzai il telefono interno per parlare con mia moglie.
«Sono in studio, ho da lavorare ancora per un paio d’ore. Và alla cena senza di me e scusami con il prefetto e con gli altri. Dì che spero di arrivare in tempo per il caffè, il che è vero, del resto».
Senza guardare la mia ospite, mi diressi verso la porta ordinandole seccamente:
«Resti qui!».
E aggiunsi anche, forse per umiliarla, come se mi rivolgessi a una bambina maleducata:
«E non tocchi niente».
Poi raggiunsi Bordenave nel suo ufficio.
«Vada giù a controllare che la persona che si trova nel mio ufficio non sia stata seguita».
«Dalla polizia?».
«Sì. Poi me lo dirà per telefono».
Tornato in studio, mi misi a camminare in lungo e in largo, con le mani dietro la schiena, mentre Yvette seguiva con lo sguardo i miei andirivieni.
«Questo Gaston» le chiesi infine «ha già avuto qualche condanna?».
«Non credo, non me ne ha mai parlato».
«Lo conosce bene?».
«Abbastanza».
«Siete andati a letto insieme?».
«Qualche volta».
«La sua amica Noémie è maggiorenne?».
«Ha appena compiuto vent’anni».
«Cosa fa?».
«Quello che faccio io».
«Non ha mai esercitato una professione?».
«Aiutava la madre nel negozio di frutta e verdura che ha in rue du Chemin-Vert».
«È scappata da casa?».
«Se n’è andata dicendo che ne aveva abbastanza».
«Da molto?».
«Due anni».
«Sua madre non l’ha fatta cercare?».
«No. Non gliene importa niente. Di tanto in tanto, quando è al verde, Noémie va a trovarla, litigano, se ne dicono di tutti i colori, ma la madre finisce sempre per darle un po’ di soldi».
«Non è mai stata arrestata?».
«Noémie? Due volte. Forse di più, ma lei mi ha detto due».
«Per quale motivo?».
«Adescamento. Entrambe le volte l’hanno rilasciata l’indomani, dopo averle fatto fare la visita».
«E lei no?».
«Non ancora».
Squillò il telefono. Era Bordenave.
«Non ho visto nessuno, avvocato».
«La ringrazio. Non avrò più bisogno di lei, stasera».
«Non aspetto che finisca?».
«No».
«Buonasera».
Devo cercare di capire il perché, e sono tanto più imbarazzato in quanto vorrei giungere alla verità assoluta, non a due o tre frammenti che formino un insieme soddisfacente in apparenza, ma inevitabilmente falso.
Non ebbi voglia di Yvette, quella sera, e neppure pietà. Nella mia carriera ho conosciuto troppe ragazze della sua specie e, se lei aveva un qualcosa di eccessivo che la rendeva in certo qual modo diversa, ai miei occhi non rappresentava nulla di nuovo.
Ho forse ceduto alla vanità, lusingato dalla fiducia che aveva riposto in me prima ancora di incontrarmi?
In tutta sincerità, non credo. Penso che la cosa sia più complessa e che uno come Moriat, per esempio, sarebbe stato capace di una decisione di quel genere.
Perché non vedere nel mio gesto una protesta e una sfida? Mi avevano costretto ad avanzare anche troppo su una strada che non corrispondeva neanche un po’ al mio temperamento e ai miei gusti.
Godevo di una certa reputazione, a cui mi sforzavo di far fronte con spavalderia, e proprio a tale reputazione dovevo ora la visita di quella ragazzina e la sua cinica proposta.
Sul piano professionale, non avevo mai osato tanto, né mai mi si era presentato un caso tanto difficile, per non dire impossibile.
Ho raccolto il guanto. Sono convinto che questa sia la verità e, da un anno in qua, ho avuto molto tempo per interrogarmi a riguardo.
Non mi preoccupavo certo di Yvette Maudet, figlia degenere di un maestro di Lione e di un’ex impiegata delle Poste, bensì del problema che tutt’a un tratto avevo scommesso di risolvere.
Mi ero seduto di nuovo, e prendevo qualche appunto ponendo domande precise.
«Dunque, lei è rientrata in albergo nella notte fra mercoledì e giovedì, ma la notte scorsa non ci ha messo piede. Il gestore lo sa e lo segnalerà alla polizia».
«Mi capita almeno due volte alla settimana di non dormire in rue Vavin, perché non ci lasciano salire con un uomo».
«Le chiederanno dove ha dormito».
«E io glielo dirò».
«Dove?».
«In una pensione di rue de Berri, un posto dove non si fa altro».
«Lì la conoscono?».
«Sì. Noémie e io cambiavamo zona di frequente. A volte scendevamo a Saint-Germain-des-Prés, altre volte andavamo agli Champse di tanto in tanto anche a Montmartre».
«L’orologiaio vi ha viste tutt’e due?».
«Il negozio non era molto illuminato, e lui ci ha guardate come si guardano delle clienti; poi si è chinato subito sull’orologio».
«La sua pettinatura a coda di cavallo si nota parecchio».
«Non l’ha vista, e nemmeno sua moglie, per la semplice ragione che l’avevo raccolta sotto un berretto».
«In previsione di quello che è successo?».
«Per ogni evenienza».
Ho continuato a interrogarla così per quasi un’ora e ho telefonato a un sostituto procuratore amico mio.
«Il caso dell’orologiaio di rue de l’Abbé-Grégoire è già stato affidato a un giudice istruttore?».
«Le interessa avere notizie della ragazza? Per motivi che ignoro, è ancora trattenuta alla Polizia giudiziaria».
«La ringrazio».
Allora dissi a Yvette:
«Adesso lei tornerà in rue Vavin come se niente fosse, e seguirà la polizia senza protestare, evitando di parlare di me».
Verso le dieci, raggiunsi mia moglie e i nostri amici in avenue du Président-Roosevelt: erano ancora al secondo. Parlai del caso al prefetto, lasciandogli intendere che probabilmente me ne sarei occupato io, e l’indomani mattina mi recai al Quai des Orfèvres.
Il caso fece rumore, anche troppo, e il giovane Duret mi fu di grande aiuto. Non so che fine farà: è un ragazzo che non riesco a capire sino in fondo. Suo padre, un importante amministratore di società, ha avuto dei rovesci finanziari. Pur continuando a studiare legge, Duret ha frequentato le redazioni di vari giornali, piazzando un articolo qua e uno là, e scoprendo via via certi retroscena della vita parigina.
Prima di lui avevo un collaboratore di nome Auber, e quando Duret seppe che questi iniziava a sentirsi capace di volare con le proprie ali, si propose come suo successore ancor prima di essere iscritto all’Ordine degli avvocati.
Sono ormai quattro anni che è con me, sempre rispettoso, benché a volte, quando gli affido certi incarichi, e anche in altri momenti, abbia uno sguardo più divertito che ironico.
Fu lui che andò a parlare con il famoso Gaston nel bar di rue de la Gaîté, e al ritorno mi assicurò che potevamo fidarci. E fu sempre lui, con l’aiuto di un suo amico giornalista, che scoprì alcuni dettagli sulla vita dell’orologiaio tali da imprimere al processo una svolta imprevista.
Il caso avrebbe potuto finire al correzionale, ma io insistetti perché venisse discusso alla presenza di una giuria. La moglie dell’orologiaio, che non era morta, portava ancora una benda nera sull’occhio che i medici disperavano di salvare.
Le udienze furono burrascose, e il presidente fu costretto più volte a minacciare di far sgombrare l’aula. Nessuno dei miei colleghi, nessun magistrato ebbe il minimo dubbio. Per tutti, Yvette Maudet e Noémie Brand erano colpevoli della mancata rapina di rue de l’Abbé-Grégoire. La domanda che tutti si ponevano, e che i giornali pubblicavano a caratteri cubitali, era:
Riuscirà l’avvocato Gobillot a ottenere l’assoluzione?
Alla fine della seconda udienza, sembrava un’impresa disperata, e non ci credeva nemmeno mia moglie. Non me lo ha mai confessato, ma so che per lei mi ero spinto troppo oltre, e che la faccenda la turbava non poco.
Nel corso del dibattimento emersero molti dettagli scabrosi, tanto che a un certo punto qualcuno si mise a gridare:
«Basta!».
C’erano colleghi che esitavano a stringermi la mano - alcuni esitano tuttora -, e in vita mia non sono mai stato così vicino a farmi radiare dall’Ordine.
Più di qualunque altro processo, questo mi ha fatto capire a che punto di eccitazione si possa giungere durante una campagna elettorale o una grande manovra politica, quando uno vede puntati su di sé tutti i riflettori, e sente il bisogno di vincere a ogni costo, con qualunque mezzo.
I miei testimoni avevano un’aria equivoca, ma nessuno di loro era un pregiudicato, e nessuno si contraddisse o esitò un solo istante.
Feci sfilare alla sbarra venti prostitute del quartiere di Montparnasse, più o meno simili a Yvette e Noémie, le quali dichiararono sotto giuramento che il vecchio orologiaio, descritto dal pubblico ministero come il prototipo dell’onesto artigiano, era un esibizionista abituale e che in assenza della moglie attirava le ragazze nel suo negozio.
Era vero. L’avevo scoperto grazie a Duret, il quale a sua volta l’aveva saputo da un informatore che mi telefonò diverse volte senza voler dire il suo nome. Oltre al fatto che l’immagine di uno dei miei avversari ne risultò notevolmente offuscata, potei anche dimostrare che l’orologiaio aveva acquistato a più riprese dei gioielli rubati.
Sapeva che erano rubati? Non ne ho idea, e la cosa non mi riguarda.
Perché quella sera, mentre sua moglie era assente - era andata a trovare la nuora incinta in rue du Cherche-Midi -, perché, ripeto, l’uomo non avrebbe dovuto cogliere l’occasione per attirare nella bottega, come gli era già successo altre volte, due ragazze di strada che poi avevano approfittato della situazione?
Delle mie clienti feci un ritratto tutt’altro che idealizzato.
Anzi, le descrissi al peggio, e questa fu la mia mossa più astuta.
Le indussi ad ammettere che forse avrebbero fatto il colpo se ne avessero avuto l’occasione, ma che questa non si era presentata, perché in quel momento si trovavano al bar di Gaston.
Mi sembra di rivedere l’orologiaio calvo e sua moglie con la benda nera sull’occhio, seduti fianco a fianco in prima fila, durante i tre giorni del dibattimento, in preda a uno stupore e a uno sdegno che andavano via via crescendo, tanto che alla fine, inebetiti, non sapevano più dove posare lo sguardo.
Quei due non capiranno mai che cosa gli è capitato, né perché io mi sia accanito con tanta crudeltà a distruggere l’immagine che avevano di se stessi. Sono convinto che non si sono ancora ripresi, che non si sentiranno mai più come prima, e mi chiedo se la vecchia, ormai cieca da un occhio, e a cui solo adesso cominciano a ricrescere i capelli, rasati per medicare la ferita, osi ancora andare a trovare sua nuora in rue du Cherche-Midi.
Non ne abbiamo mai parlato, io e Viviane. Lei stava in corridoio al momento della sentenza, che venne accolta con urla e schiamazzi; poi, quando uscii dall’aula con la toga svolazzante senza rilasciare alcuna dichiarazione ai giornalisti che mi assalivano, si limitò a seguirmi in silenzio.
Sa che è colpa sua. Lo ha capito. Non sono sicuro che non abbia avuto un po’ di paura nel vedermi impegnato così a fondo, ma per questo mi ammira.
Aveva previsto anche come sarebbe andata a finire? È probabile.
Dopo i processi che richiedono una forte tensione nervosa, abbiamo l’abitudine di andare a cena da soli in qualche cabaret e di restar fuori parte della notte per rilassarci.
Anche quella sera è stato così e, ovunque entrassimo, tutti ci osservavano con curiosità, eravamo come non mai la coppia di belve della leggenda.
Viviane affrontò quegli sguardi a testa alta, senza fare una piega.
Ha tre anni più di me, il che significa che è prossima alla cinquantina, ma, quando è ben vestita e sul piede di guerra, risulta più bella e attira più sguardi di tante trentenni. I suoi occhi, soprattutto, hanno uno sfavillio, una vivacità che non ho mai visto in nessun’altra, e nel suo sorriso c’è un’allegria beffarda che incute quasi timore.
Dicono che sia cattiva, ma non lo è. È solo se stessa, va dritta per la sua strada, come Corine, indifferente alle chiacchiere, infischiandosene del fatto che gli altri la amino o la detestino, sorridendo a chi le sorride e ferendo chi la ferisce. La differenza, fra lei e Corine, è che Corine in apparenza è dolce e malleabile, mentre Viviane, tutta nervi, possiede una vitalità aggressiva che non si smentisce mai.
«E adesso dov’è?» mi chiese, verso le due del mattino.
Notai che aveva detto «dov’è», al singolare: dunque Viviane non aveva mai considerato Noémie se non come una comparsa. Nessuno si era ingannato neanche a Palazzo di Giustizia, perché la povera Noémie, con quel suo corpo informe, gli occhi bovini, l’aria un po’ tonta, non poteva dar adito a equivoci.
«In un alberghetto di boulevard Saint-Michel. Volevo che tornasse in rue Vavin, come per sfida, ma il gestore sostiene che l’albergo è al completo».
Mia moglie avrà senz’altro pensato che il boulevard Saint-Michel si trova a due passi da casa nostra e non lontano dal Palazzo di Giustizia. Io, però, non l’ho fatto apposta.
Nel periodo trascorso fra l’arresto di Yvette e la sua assoluzione, ho capito che non mi sarebbe stato facile sbarazzarmi di lei, né dell’immagine del suo ventre nudo come l’avevo visto nel mio studio.
Perché? Dopo tutto questo tempo, non ho ancora trovato la risposta.
Non sono né un depravato né un maniaco sessuale. Viviane non si è mai mostrata gelosa, e ho potuto concedermi tutte le avventure che volevo, quasi sempre effimere e spesso poco entusiasmanti.
E poi ne ho viste troppe, di ragazze, e di tutti i generi, per intenerirmi, come fanno certi uomini della mia età, di fronte a una ragazzetta sbandata, e il cinismo di Yvette non mi impressiona più di quel poco di innocenza che ancora le resta.
Durante l’istruttoria, ero andato a trovarla alla Petite Roquette senza mai venir meno al rigore della deontologia professionale.
Mia moglie, invece, aveva già capito tutto.
E anche Yvette.
Quello che più mi stupisce è che Yvette sia stata così abile da non darlo a vedere. I nostri rapporti erano quelli che normalmente intercorrono fra un avvocato e la sua cliente. Preparavamo le risposte che lei avrebbe dato al magistrato. Per tutto ciò che riguardava il suo caso, la mettevo al corrente delle mie scoperte solo se era indispensabile.
La notte dopo l’assoluzione, quando uscimmo dall’ultimo cabaret verso le quattro del mattino, mettendosi al volante, mia moglie mi propose con assoluta naturalezza:
«Non passi a trovarla?».
Era dall’inizio della serata che ci pensavo, ma mi rifiutavo, per orgoglio o per rispetto umano, di cedere alla tentazione. Sarebbe stato ridicolo, per non dire odioso, che fin dalla prima notte mi precipitassi a reclamare la mia ricompensa!
La voglia che avevo di lei era dunque così forte che chiunque me la poteva leggere in faccia?
Non risposi. Mia moglie imboccò rue de Clichy, poi attraversò i Grands Boulevards, e io sapevo che non si stava dirigendo verso l’île Saint-Louis ma verso il boulevard Saint-Michel.
«Cosa ne hai fatto, dell’altra?» mi chiese Viviane, sicura che me ne fossi sbarazzato.
Ero riuscito a convincere Noémie a tornare da sua madre, almeno per un po’.
Ci terrei a evitare qualsiasi malinteso. Quando parlo di mia moglie come in questo momento, si potrebbe pensare che lei avesse come l’intenzione di provocarmi, che sia stata lei a spingermi, in certo qual modo, fra le braccia di Yvette.
Ebbene, non c’è nulla di più lontano dalla verità. Sono sicuro, anche se lei non lo ammetterà mai, che Viviane è gelosa, che ha sofferto a causa delle mie scappatelle, o quanto meno ne è rimasta turbata. Solo che sa stare al gioco e guardare in faccia la realtà, accettando anticipatamente quello che sa di non poter impedire.
Siamo passati davanti alla massa scura del Palazzo di Giustizia e, in boulevard Saint-Michel, ha mormorato:
«Più avanti?».
«All’angolo con rue Monsieur-le-Prince. Si entra da quella parte».
Esitavo ancora, umiliato, quando Viviane fermò la macchina.
«Buonanotte!» disse a mezza voce.
E mi baciò come tutte le sere.
Rimasi solo sul marciapiede: avevo gli occhi umidi e abbozzai un gesto come per richiamarla, ma la macchina stava già svoltando in rue Soufflot.
L’albergo era tutto buio, a parte un tenue chiarore dietro il vetro smerigliato della porta. Venne ad aprire il portiere di notte, bofonchiando che non c’erano camere libere, ma io, facendogli scivolare in mano una mancia, gli dissi che ero atteso alla 37.
Era vero. Non avevamo concordato nulla, e Yvette stava dormendo.
Eppure quando sentì bussare alla porta non si meravigliò.
«Un attimo».
Udii il clic dell’interruttore, poi un andirivieni di piedi nudi sul parquet, e alla fine lei aprì la porta infilandosi una vestaglia.
«Che ore sono?».
«Le quattro e mezzo».
Parve sorpresa, come se si stesse chiedendo il perché di quel ritardo.
«Mi dia il cappello e il soprabito».
La camera era piccola, il letto di ottone disfatto, e da una valigia aperta per terra usciva della biancheria.
«Non faccia caso al disordine. Appena tornata, sono andata a letto subito».
Il suo fiato sapeva di alcol, ma non era ubriaca. Chissà che aria avevo, vestito di tutto punto, in mezzo a quella stanzetta...
«Non viene a letto?».
Mi riusciva difficile pensare di svestirmi. Non ne avevo voglia.
Non avevo più voglia di niente, e nemmeno il coraggio di andarmene.
«Vieni qui» le ordinai.
Si avvicinò con il viso proteso pensando che volessi baciarla, ma io mi limitai a stringerla contro di me, senza toccarle le labbra, poi, improvvisamente, le feci scivolare dalle spalle la vestaglia, sotto la quale era nuda, la rovesciai con violenza sul bordo del letto e mi gettai su di lei, che intanto fissava il soffitto. Avevo cominciato a prenderla, brutalmente, come per vendetta, quando vidi che mi osservava con stupore.
«Che ti succede?» sussurrò, dandomi per la prima volta del tu.
«Niente!».
Succedeva che non ce la facevo, e mi rialzai, pieno di vergogna, bofonchiando:
«Ti chiedo scusa».
Allora lei disse:
«Ci hai pensato troppo».
Avrebbe potuto essere la spiegazione giusta, ma non lo era. Al contrario, mi ero rifiutato di pensarci. Lo sapevo, ma non ci pensavo. Del resto, mi era già capitato con altre prima di lei.
«Svestiti e vieni a letto vicino a me. Ho freddo».
Forse non avrei dovuto. Forse, se avessi risposto di no, se me ne fossi andato, il mio futuro sarebbe stato diverso. O forse no.
E lei, si rendeva conto, lei, di quel che faceva allorché, più tardi, stese il braccio per spegnere la luce e venne a rannicchiarsi accanto a me? La sentivo, così esile, vivere a contatto con il mio corpo, prendere possesso di me a poco a poco, con qualche esitazione e qualche pausa, come per non spaventarmi.
Non dormivamo ancora quando in una delle camere vicine suonò una sveglia, e nemmeno dopo, quando altri clienti dell’albergo cominciarono a muoversi al di là delle pareti.
«Peccato che non abbia l’occorrente per farti un caffè. Bisogna che compri un fornello a spirito».
Quando me ne andai, alle sette del mattino, la luce del giorno filtrava attraverso la tapparella. Mi fermai in un bistrot di boulevard Saint-Michel per bere una tazza di caffè e mi guardai nello specchio che stava dietro al bancone.
Arrivato in quai d’Anjou, anziché salire in camera, mi recai subito nello studio dove, fin dalle otto, il telefono iniziò a suonare come sempre. Bordenave arrivò poco dopo portandomi i giornali del mattino i cui titoli a caratteri cubitali suonavano all’incirca così:
Gobillot ha vinto.
Come se si trattasse di una gara sportiva.
«Soddisfatto?».
Forse la mia segretaria sospettava che non andassi fiero di quella vittoria... Mi è più devota di chiunque al mondo, compresa Viviane, e quand’anche commettessi un atto così ignobile da diventare inviso a tutti, probabilmente sarebbe la sola a non abbandonarmi.
Ha trentacinque anni. Ne aveva diciannove quando entrò al mio servizio e, per quanto si sa, non ha mai avuto avventure di sorta; tutti i vari collaboratori che si sono succeduti nel mio studio concordano nel sostenere, come mia moglie, che è ancora vergine.
Quanto a me, non solo non le ho mai fatto la corte, ma con lei mi sono sempre dimostrato, senza motivo, più impaziente, più duro che con chiunque altro, spesso anche ingiusto, e parecchie volte l’ho fatta piangere perché non riusciva a ripescare con la dovuta celerità una pratica andata persa per colpa mia.
Chissà se aveva capito che uscivo dal letto di Yvette e che la mia pelle era ancora impregnata del suo odore... Prima o poi lo verrà a sapere, dato che, essendo la mia più stretta collaboratrice, non le sfugge niente di quello che faccio.
Si sarebbe messa a piangere, tutta sola nel suo ufficio? È gelosa?
È innamorata di me? E se lo è, che uomo pensa che sia?
Il mio primo appuntamento era per le dieci, così ebbi il tempo di fare un bagno e di cambiarmi. Non andai a svegliare Viviane, che dormiva, e non la rividi fino a sera, perché quel giorno dovevo pranzare al Café de Paris con un cliente che avrei difeso in tribunale nel pomeriggio.
Tutto questo risale a un anno fa.
All’epoca conoscevo già Moriat. Ci incontravamo da Corine, dove capitava spesso che ci mettessimo a chiacchierare in un angolo.
Perché, prima della storia con Yvette, Moriat non mi ha mai guardato come domenica scorsa? Non avevo ancora il segno, o questo non era ancora abbastanza visibile?
3.
Sabato 12 novembre.
Sono le dieci di sera, e prima di scendere nello studio ho aspettato che mia moglie uscisse. È andata, con Corine e altre amiche, all’inaugurazione della prima mostra dei quadri di MarieLou, l’amante di Lannier, in una galleria di rue Jacob. Lì berranno champagne e probabilmente faranno le ore piccole. Per non andarci, ho addotto la scusa che ci sarebbero state cento persone in un locale non più grande di una normale sala da pranzo e che il caldo sarebbe stato insopportabile.
Sembra che MarieLou abbia un vero talento. Si è messa a dipingere due anni fa, durante un soggiorno a Saint-Paul-de-Vence. Lei e Lannier vivono insieme in rue de la Faisanderie, anche se entrambi sono sposati, Lannier con una cugina che dicono sia molto brutta e da cui si è separato vent’anni fa, MarieLou con un industriale di Lione, Morilleux, un amico di Lannier con il quale è ancora in affari. Per quanto se ne sa, tutto si è svolto in modo molto civile, con generale soddisfazione.
Ieri lei e Lannier hanno cenato da noi, insieme a un politico belga di passaggio a Parigi, a un membro dell’Académie che invitiamo spesso e a un ambasciatore sudamericano accompagnato dalla moglie.
Ogni settimana organizziamo una o due cene come questa, con otto o dieci coperti, poiché a Viviane, che è un’ottima padrona di casa, piace molto ricevere. Non era un caso che l’ambasciatore fosse nostro ospite. L’aveva portato Lannier e, al momento del caffè e dei liquori, mi ha accennato brevemente che verrà nel mio studio a parlarmi di un traffico d’armi più o meno legale, se ho ben afferrato certe allusioni, che vorrebbe intraprendere a fini politici senza mettersi nei guai con il governo francese.
È un uomo giovane, che potrà avere al massimo trentacinque anni, piuttosto affascinante, anche se con una certa tendenza alla pinguedine, e sua moglie è una delle creature più incantevoli che mi sia capitato di ammirare. Si vede che è innamorata del marito, a cui non toglie mai gli occhi di dosso, ed è così giovane e fresca che la si direbbe appena uscita dal collegio.
In quale avventura intende imbarcarsi? Per ora non posso far altro che congetture, ma ho motivo di credere che cerchi di rovesciare il governo del suo paese, di cui suo padre è uno degli uomini più ricchi. Hanno due bambini - ci hanno mostrato le foto -, e la sede dell’ambasciata è uno dei più bei palazzi del Bois de Boulogne.
Ho atteso con impazienza che se ne andassero, perché non vedevo l’ora di recarmi in rue de Ponthieu. Questa settimana ci ho passato già tre notti e ci andrei anche oggi se il sabato non fosse il «suo» giorno.
Preferisco non pensarci. Quando sono rientrato in taxi, stamattina alle sei e mezzo, non era ancora del tutto chiaro, e un violento temporale imperversava su Parigi, scoperchiando tetti e spezzando alberi, uno dei quali sugli Champs-Viviane mi ha detto più tardi che una delle nostre persiane aveva sbattuto per tutta la notte. Comunque non si è staccata, e verso mezzogiorno sono venuti a ripararla.
La mia prima preoccupazione, entrando nello studio, dove passo sempre prima di salire a fare il bagno, è stata di guardare se sotto il Pont-Marie c’era la solita coppia di barboni. Fin verso le nove, sotto gli stracci agitati dal vento, nessuno si è mosso. Quando infine ne è emerso l’uomo che vedo sempre, e che, con la sua giacca troppo larga e troppo lunga, la barba irsuta, il cappello ammaccato, sembra un clown, sono rimasto sorpreso nello scorgere, ancora stese per terra, altre due forme. Ha forse trovato una seconda compagna, o un amico?
Il vento continua a soffiare, ma a raffiche intermittenti, e si prevede molto freddo per domani; forse gelerà.
Nel corso della settimana ho pensato molto a quello che ho scritto finora, e mi sono reso conto di non aver parlato se non dell’uomo che sono attualmente. Ho sfatato qualcuna delle leggende fiorite intorno a me, ma ne rimangono altre, magari meno note, che ci tengo a distruggere, e per far questo sono costretto a risalire molto più addietro.
Per esempio, a causa del mio fisico, la gente, anche quando sembra conoscermi bene, tende a credere che io sia uno di quei tipi arrivati direttamente dalla campagna, uno di quelli che, come si diceva nel secolo scorso, hanno ancora le scarpe sporche di terra. Tipi, per intenderci, come Jean Moriat. Del resto, la cosa è vista di buon occhio in alcune professioni, come la mia, perché ispira fiducia, ma devo dichiarare che per quanto mi riguarda non è assolutamente vera.
Sono nato a Parigi, in una clinica di faubourg Saint-Jacques, e mio padre, che ha trascorso quasi tutta la vita in rue Visconti, dietro l’Académie Française, apparteneva a una delle più antiche famiglie di Rennes. Dei miei antenati, alcuni hanno partecipato alle crociate, un certo messer Gobillot è stato capitano dei moschettieri, diversi altri si sono distinti nella magistratura o hanno fatto parte, con maggiore o minor lustro, del parlamento della Bretagna.
Di tutto questo non meno alcun vanto. Mia madre, invece, che si chiamava Louise Finot, era figlia di una lavandaia di rue des Tournelles, e quando mio padre l’ha messa incinta frequentava le birrerie di boulevard Saint-Michel.
È poco probabile che questi antecedenti spieghino il mio carattere, e ancor meno la scelta di un certo modo di vivere, ammesso che si possa parlare di scelta.
Mio nonno paterno, a Rennes, viveva ancora da ricco borghese, e sarebbe diventato presidente del tribunale se intorno ai cinquant’anni non fosse morto in seguito a un’embolia.
Quanto a mio padre, venuto a Parigi per studiare legge, vi è rimasto tutta la vita, sempre nello stesso appartamento di rue Visconti dove, fino alla sua morte abbastanza recente, è stato accudito dalla vecchia Pauline, che l’ha visto nascere ma che in realtà aveva solo dodici anni più di lui.
A quei tempi si usava ancora affidare i bambini a ragazzine, e Pauline, che quando i miei nonni l’hanno assunta era poco più che una bimba, è rimasta accanto a mio padre fino alla sua morte; erano davvero una coppia bizzarra.
Forse a mio padre importava assai poco di me, quando sono nato. Non ne ho la minima idea. Non l’ho mai chiesto né a lui né a Pauline, che vive tuttora, che ha ottantadue anni, e che vado a trovare ogni tanto. Si occupa ancora personalmente della casa, sempre in rue Visconti, ma ha perso quasi completamente la memoria, tranne per quello che riguarda i fatti più remoti, dei tempi in cui mio padre era un bambino con i calzoni corti.
O forse non era convinto che il figlio di Louise Finot fosse suo; oppure, a quell’epoca, aveva un’altra amante.
Fatto sta che trascorsi i primi due anni di vita a balia dalle parti di Versailles, finché un bel giorno mia madre venne a prendermi per portarmi in rue Visconti.
«Ecco tuo figlio, Blaise» gli avrebbe annunciato.
Era di nuovo incinta. Poi proseguì, come mi ha raccontato tante volte Pauline:
«Mi sposo la settimana prossima. Prosper non sa niente. Se gli dicessi che ho un altro figlio forse non mi sposerebbe, e io non voglio perdere questa occasione, perché è un brav’uomo, pensa solo a lavorare e non beve. Sono venuta a restituirti Lucien».
Da quel giorno vissi in rue Visconti, sotto l’ala protettrice di Pauline, per la quale, all’inizio, un bambino così piccolo era un essere tanto misterioso che esitava a toccarmi.
Mia madre si sposò effettivamente con un commesso di Allez Frères, che io intravidi molti anni dopo nei magazzini dello Châtelet, col suo grembiule grigio, mentre andavo ad acquistare delle poltrone da giardino per la nostra casa di Sully. Hanno avuto cinque figli, i miei fratellastri, che non conosco e che probabilmente conducono una vita laboriosa e incolore.
Prosper è morto l’anno scorso. Mia madre mi ha inviato una partecipazione. Non sono andato al funerale, ma ho inviato dei fiori, e da allora ho fatto due brevi visite nella villetta di Saint-Maur-des-Fossés dove lei vive attualmente.
Non abbiamo niente da dirci, e nessun punto in comune. Mi guarda come fossi un estraneo e si limita a mormorare:
«Hai l’aspetto di un uomo di successo. Se sei felice, meglio così!».
Mio padre era iscritto all’Ordine degli avvocati e aveva lo studio nell’appartamento di rue Visconti. Se gli ci fosse o no voluto parecchio a mettere la testa a posto, non saprei dire. Fisicamente non gli somiglio affatto, perché lui era un bell’uomo, distinto, dotato di un’eleganza che ho spesso ammirato in uomini della sua generazione. Era colto, frequentava poeti, artisti, sognatori e ragazze facili, ed era raro vederlo rientrare, con passo incerto, prima delle due del mattino.
A volte gli capitava di portare con sé una donna, che restava da noi una notte, un mese o anche di più, come avvenne con una certa Léontine. Costei s’insediò in casa nostra per tanto di quel tempo che mi aspettavo finisse per farsi sposare.
Non che la cosa mi desse fastidio, anzi. Ero piuttosto orgoglioso di vivere in un’atmosfera diversa da quella dei miei compagni di scuola, e lo diventavo ancora di più quando mio padre mi lanciava un’occhiata complice, nel caso, ad esempio, in cui Pauline scopriva in casa una nuova inquilina e s’immusoniva.
Ricordo che un giorno ne mise alla porta una con un’energia sorprendente in un esserino come lei - mio padre non c’era, beninteso, doveva essere a Palazzo di Giustizia -, gridando alla ragazza che era una zoticona, troppo sguaiata per rimanere un’ora di più in una casa di gente perbene.
Chissà se mio padre è stato infelice. Ricordo che sorrideva quasi sempre, anche se di un sorriso privo di allegria. Aveva troppo ritegno per lamentarsi, ed era così delicato da diffondere attorno a sé un senso di leggerezza che non ho più percepito altrove.
Mentre iniziavo la Facoltà di Legge, lui, a cinquant’anni, era ancora un bell’uomo, ma non reggeva più l’alcol e a volte rimaneva a letto per giornate intere.
Ha assistito al mio esordio nella carriera presso lo studio dell’avvocato Andrieu, e due anni più tardi al mio matrimonio con Viviane. Sono convinto che, sebbene in rue Visconti vivessimo liberi e indipendenti come gli ospiti di una pensione familiare - tanto che a volte passavano anche tre giorni senza che ci incontrassimo -, lui abbia sofferto molto del vuoto creato dalla mia partenza.
Invecchiando, Pauline aveva perso il suo buonumore e la sua indulgenza e, anziché come un padrone, lo trattava come una persona a suo carico, imponendogli un regime alimentare che lui aborriva, dando la caccia alle bottiglie che lui era costretto a nascondere, andando perfino a cercarlo, di sera, nelle bettole del quartiere.
Mio padre e io non ci siamo mai posti domande l’un l’altro, né abbiamo mai fatto il minimo accenno alla nostra vita privata, e tanto meno alle nostre idee e ai nostri sentimenti.
Ancora adesso non so se Pauline sia mai stata per lui, in un qualche momento della sua vita, qualcosa di più di una governante.
È morto a settantun anni: quel giorno ero stato a trovarlo, e lui è morto pochi minuti dopo che ero andato via come se si fosse trattenuto per evitarmi la vista della sua dipartita.
Dovevo parlare di lui, non per pietà filiale, ma perché forse l’appartamento di rue Visconti ha avuto una profonda influenza sui miei gusti. Per me, in effetti, lo studio di mio padre, con i libri che tappezzavano i muri fino al soffitto, le riviste accatastate sul pavimento, le finestre a piccoli riquadri che davano, al di là di un cortile medioevale, sul vecchio atelier di Delacroix, rappresenta tuttora il prototipo del luogo in cui è bello vivere.
La mia ambizione, entrando alla Facoltà di Legge, non era di fare una carriera rapida e brillante, ma di condurre una vita da studioso, e aspiravo a diventare un giurista squattrinato ben più che un avvocato di grido.
Lo sogno ancora oggi? Preferisco non pormi questa domanda. Con quel mio testone enorme, sono stato il perfetto sgobbone e, quando mio padre tornava a casa di notte, in camera mia, dove spesso studiavo fino all’alba, c’era quasi sempre la luce accesa.
Le mie aspirazioni riguardo alla carriera erano così ben condivise dai miei professori che, senza dirmi niente, parlarono di me all’avvocato Andrieu, a quei tempi presidente dell’Ordine e tuttora citato come uno degli avvocati più illustri dell’ultimo mezzo secolo.
Mi rivedo davanti il biglietto da visita che trovai una mattina in mezzo alla posta e che, sotto l’intestazione a stampa, recava una frase scritta con una grafia molto sottile, molto «artistica», come si diceva a quei tempi:
Robert Andrieu Avvocato Le sarebbe grato se volesse passare una mattina fra le dieci e le dodici nel suo studio, in boulevard Malesherbes, 66.
Devo aver conservato questo biglietto, che si trova probabilmente, insieme ad altri ricordi, in uno scatolone. Avevo venticinque anni.
Oltre a essere una gloria del Foro, l’avvocato Andrieu era anche uno degli uomini più eleganti del Palazzo di Giustizia e aveva fama di condurre una vita da nababbo. Il suo appartamento mi impressionò, e più ancora il vasto studio, austero ma al tempo stesso raffinato, con le finestre che si affacciavano sul Pare Monceau.
Qualche tempo dopo ebbi la ridicola idea di farmi confezionare una giacca di velluto nero, bordata con una spighetta di seta, uguale a quella che indossava lui quella mattina. Va detto, però, che non l’ho mai messa, e che l’ho regalata prima che Viviane la vedesse.
Andrieu mi offrì di fare il praticantato nel suo studio, un’occasione davvero insperata, tanto più che i suoi collaboratori erano tre avvocati già piuttosto noti.
Non direi che assomigliasse fisicamente a mio padre, tuttavia in entrambi, che pure avevano avuto sorti diverse, c’erano come dei tratti familiari, che forse erano solo i segni di un’epoca. La puntigliosa cortesia, per esempio, di cui davano prova in ogni minimo rapporto con gli altri, come pure un certo rispetto della persona umana che li induceva a rivolgersi a una domestica e a una signora della buona società con lo stesso identico tono. Ma ciò che mi aveva colpito di più era la somiglianza del loro sorriso, una tristezza - o una nostalgia - così ben celata da poter essere appena percepita.
Non solo l’avvocato Andrieu godeva fama di grande giurista, ma era anche un uomo alla moda e contava fra i suoi clienti artisti, scrittori e primi ballerini dell’Opéra.
A lavorare nello stesso ufficio eravamo in due, io e un ragazzo alto, rosso di capelli, che sarebbe poi diventato un uomo politico, e della vita mondana del capo ci arrivavano solo gli echi. All’inizio rimasi un mese senza vederlo, ricevendo pratiche e istruzioni da un certo Mouchonnet, che era il suo braccio destro.
Spesso, la sera, dava una gran cena o un ricevimento. Avevo incontrato un paio di volte, nell’ascensore, la signora Andrieu: era molto più giovane di suo marito, passava per essere una delle donne più belle di Parigi e ai miei occhi appariva come una creatura inaccessibile.
Devo ammettere che il mio primo ricordo di Viviane, un pomeriggio in cui avevo preso l’ascensore dal quale lei era appena uscita, è quello del profumo che portava. Un’altra volta la vidi di persona, con un abito nero e la veletta sugli occhi, entrare nella lunga limousine di cui l’autista teneva aperta la portiera.
Niente lasciava prevedere che sarebbe diventata mia moglie, eppure è andata proprio così.
Non proveniva, come molte belle donne, dal demimonde o dal teatro, ma da una famiglia della buona borghesia provinciale. Suo padre, figlio di un medico di Perpignan, era allora capitano della gendarmeria e con la sua famiglia, di promozione in promozione, era vissuto un po’ in tutta la Francia, per ritirarsi alla fine in pensione nei suoi natii Pirenei, dove oggi si dedica all’apicoltura.
Siamo andati a trovarlo la scorsa primavera, e a volte viene lui a Parigi per qualche giorno, anche se più raramente da quando è rimasto vedovo.
All’inizio ignoravo che, più o meno ogni due mesi, l’avvocato Andrieu offriva una cena ai suoi collaboratori, e proprio durante una di quelle cene venni presentato a Viviane. Aveva ventotto anni ed era sposata da sei. L’avvocato aveva passato la cinquantina ed era rimasto a lungo da solo dopo un primo matrimonio da cui era nato un figlio.
Questi, che aveva venticinque anni, viveva in un sanatorio svizzero e penso che in seguito sia morto.
Sono brutto, l’ho detto e lo ripeto, ma questo mi dà il diritto di aggiungere che la mia bruttezza è compensata dall’impressione di potenza, o meglio di intensa vitalità, che emana da me. Del resto, questa è una delle mie carte vincenti in tribunale e, se mi sono permesso di alludere al mio magnetismo, è perché i giornali ne hanno già abbondantemente parlato.
Questa possente vitalità è il solo motivo che riesca a trovare per spiegarmi l’interesse che Viviane provò per me fin dal primo giorno, tanto che a volte sembrava quasi ammaliata.
Durante la cena, essendo il più giovane fra tutti i convitati, mi trovavo piuttosto lontano da lei, ma sentivo su di me il suo sguardo incuriosito; e all’ora del caffè, in salotto, venne a sedersi proprio accanto a me.
Anni dopo ci capitò di rievocare insieme quella serata, che noi chiamiamo «la sera delle domande» perché, per quasi un’ora, Viviane mi fece appunto delle domande, spesso indiscrete, alle quali mi sforzavo di rispondere non senza imbarazzo.
Il caso di Corine e di Jean Moriat potrebbe fornire a quello che è successo una spiegazione probabilmente non del tutto errata, ma io continuo a pensare che simili considerazioni non varrebbero per quella prima sera e neppure per altre circostanze se, fin dall’inizio, non si fosse stabilita fra noi una sorta di intesa.
Per il suo carattere, e a causa della differenza d’età, Andrieu tendeva a trattare la moglie come una bambina viziata più che come una compagna o un’amante. In seguito, da qualche parola che Viviane si è lasciata sfuggire, ho intuito che non trovava con lui l’appagamento sessuale di cui aveva un gran bisogno.
L’ha cercato con altri? E Andrieu lo sospettava?
Ho sentito parlare con qualche ammiccamento di un certo Philippe Savard, un giovane sfaccendato che per un certo periodo ha frequentato assiduamente la casa di boulevard Malesherbes e che all’improvviso non si è fatto più vedere. A quell’epoca Viviane, che da bambina aveva praticato molta equitazione con suo padre, andava a cavallo tutte le mattine al Bois insieme a questo Savard, che la accompagnava anche a teatro quando l’avvocato Andrieu non poteva.
Fatto sta che, dopo quella prima cena, i nostri incontri divennero più frequenti, anche se impersonali. Con l’assenso di suo marito, Viviane ricorreva a me, in quanto ultimo arrivato dello studio, per qualche commissione o per piccole incombenze mondane, il che di tanto in tanto mi apriva le porte del suo appartamento.
Quello che contribuì ulteriormente ad avvicinarci fu il teatro, e più precisamente un concerto, una sera in cui Andrieu, come presidente dell’Ordine, era impegnato in un banchetto ufficiale.
Dietro suggerimento della moglie, suppongo, mi aveva pregato di farle da cavaliere.
Chissà se in quell’occasione Viviane mi ha studiato, valutato, come ha fatto Corine con il deputato delle Deux-Sèvres? Chissà se sentiva già il bisogno di avere un ruolo più attivo di quello che le era riconosciuto in casa di suo marito? Allora questa idea non mi sfiorò neppure. Ero abbagliato, esaltato, incapace di credere che i miei sogni potessero realizzarsi. Per una settimana meditai perfino, e lo pensavo davvero, di lasciare lo studio dell’avvocato Andrieu per evitarmi una delusione troppo cocente.
La situazione era destinata a precipitare a seguito di un viaggio che Andrieu effettuò a Montréal per ricevere la laurea honoris causa conferitagli dall’Università di Laval. Un’assenza che doveva durare tre settimane si protrasse invece per due mesi, che l’avvocato passò a letto per via di una brutta bronchite. Ignoravo che da giovane avesse trascorso tre anni in alta montagna, come poi è accaduto a suo figlio.
Più volte Viviane mi pregò di accompagnarla quando usciva la sera.
Non solo andavamo a teatro, di cui era appassionata, ma una notte, dopo lo spettacolo, cenammo insieme in un cabaret. Aveva detto al suo autista di non aspettarla, e mentre rientravamo in taxi, giocando il tutto per tutto, la baciai.
Due giorni dopo, nel pomeriggio di riposo della cameriera, fui ammesso per un’ora nel suo appartamento. Poi, al ritorno di Andrieu, fummo costretti a incontrarci in albergo, il che, la prima volta, mi fece vergognare parecchio.
Chissà se lui ha mai saputo la verità... O se l’ha scoperta solo il giorno in cui Viviane ha deciso di metterlo al corrente della situazione.
Io che sono così implacabile nell’esigere fatti precisi da parte dei miei clienti quando la cosa mi riguarda non so che pesci pigliare. Per anni sono stato convinto che Andrieu ignorasse tutto.
Poi ho cominciato a nutrire qualche dubbio. Adesso sono incline a pensare il contrario.
Ho parlato di segno, in precedenza. All’epoca non ci pensavo neanche, e avrei senz’altro deriso chiunque me ne avesse parlato.
Ora, se c’era al mondo qualcuno che portava un simile segno, era proprio l’avvocato Andrieu.
Il giorno in cui Viviane aveva deciso di confessare tutto, presentai le dimissioni, e rimasi sorpreso dell’aria triste e al tempo stesso rassegnata con cui lui le accettò.
«Le auguro il successo che merita» mi disse porgendomi la mano lunga e ben curata.
Mancava soltanto qualche ora alla confessione.
Aspettai con ansia notizie da Viviane per due lunghe settimane.
Aveva promesso di telefonarmi in rue Visconti subito dopo il loro colloquio. Le sue valigie erano pronte, le mie pure. Dovevamo sistemarci in un albergo di quai des Grands-Augustins in attesa di trovare un appartamento, e io avevo già un nuovo impiego presso uno studio legale, che in seguito però fece una brutta fine.
L’indomani non osai chiamarla in boulevard Malesherbes e, dopo aver dato istruzioni a Pauline per l’eventualità che qualcuno mi cercasse, andai ad appostarmi davanti a casa sua.
Solo tre giorni dopo seppi da mio padre, il quale l’aveva sentito dire a Palazzo di Giustizia, che Andrieu aveva avuto una ricaduta ed era costretto a letto. Anche a questo proposito oggi la penso in modo molto diverso da quello di vent’anni fa. Sono infatti convinto che un uomo per cui una donna è diventata la principale ragione di vita sia capace di tutto, vigliaccherie, bassezze, crudeltà, pur di non perderla.
Alla fine, un biglietto scritto alla bell’e meglio mi annunciò:
Sarò in quai des Grands Augustins giovedì verso le dieci del mattino.
Arrivò alle dieci e mezzo con i bagagli, in taxi, benché Andrieu avesse insistito per farla accompagnare con la limousine.
Le nostre prime giornate non furono molto allegre, ma Viviane non tardò a riprendersi, scoprendo nella sua nuova vita mille piaceri imprevisti.
Non a caso fu lei a scovare l’appartamento di place Denfert-Rochereau e a procurarmi, fra le sue vecchie conoscenze, il primo cliente importante.
«Vedrai fra un po’, quando sarai l’avvocato più in vista di Parigi, che tenerezza proveremo al ricordo di questa casa!».
Andrieu aveva insistito per chiedere il divorzio assumendosi ogni responsabilità. Le settimane passavano senza che sapessimo più nulla di lui quando, una mattina di marzo, scorrendo i titoli del giornale, apprendemmo la notizia:
Il Presidente dell’ordine degli avvocati Andrieu vittima di un incidente di montagna.
Nell’articolo si riferiva che Andrieu era andato a far visita a suo figlio in un sanatorio di Davos e che, volendo approfittarne per fare un’escursione da solo, era scivolato in un crepaccio. Il suo corpo era stato trovato da una guida solo due giorni più tardi.
Anche questa fine, come i suoi lunghi baffi di seta, la cortesia, il sorriso appena accennato, ha per me come un profumo d’altri tempi.
È chiaro adesso perché, quando la gente parla di noi come di una coppia di belve, tocca senza saperlo un punto molto delicato?
Dovevamo aggrapparci l’uno all’altro con tutte le nostre forze per non essere schiacciati dal rimorso e dall’orrore. Solo una passione sconvolgente poteva giustificarci, e facevamo l’amore come due creature in preda alla follia, tenendoci stretti, con gli occhi fissi su un avvenire che doveva essere una rivincita.
Per un anno vidi mio padre quasi solo da lontano, a Palazzo di Giustizia, perché lavoravo quattordici o quindici ore al giorno, accettando tutte le cause, sollecitandole anzi, in attesa di quella che mi avrebbe reso famoso. Solo alla vigilia del matrimonio mi recai in rue Visconti.
«Vorrei farti conoscere la mia futura moglie» gli dissi.
Lui di certo non ignorava la nostra storia, di cui a Palazzo di Giustizia si chiacchierava molto, ma non vi accennò minimamente; si limitò a osservarmi e a chiedere:
«Sei felice?».
Risposi di sì, e ci credevo. Forse lo ero davvero. Ci sposammo in segreto nel municipio del XV arrondissement, e andammo a riposarci per qualche giorno in una locanda della foresta di Orléans, a Sully, dove sei anni più tardi avremmo acquistato una casa di campagna.
Qui ricevetti la visita di un uomo che aveva avuto l’indirizzo dal nostro portiere e che, guardando la locanda dove alcuni clienti stavano discutendo davanti al bancone, mi fece cenno di seguirlo.
«Andiamo a fare due chiacchiere lungo il canale» borbottò.
Non riuscivo ad attribuirgli una precisa posizione sociale. Non sembrava uno di quelli che all’epoca venivano definiti «malavitosi» e neppure un «gangster», come si direbbe oggi. Vestito di scuro - piuttosto male -, poco curato, lo sguardo diffidente, il volto atteggiato a una smorfia amara, faceva pensare a uno di quegli impiegati che si trascinano stancamente di porta in porta a riscuotere crediti.
«Il mio nome non le dirà niente» iniziò non appena oltrepassammo le poche chiatte attraccate al porto. «Io invece so tutto quello che mi occorre sapere di lei e penso che sia l’uomo che fa per me».
Si interruppe per chiedere:
«Quella che sta alla locanda è la sua moglie legittima?».
Sembrò soddisfatto di ricevere una conferma, e proseguì:
«Non mi fido delle persone che vivono in una situazione irregolare.
Comunque, vado dritto al punto. Non ho nessun problema con la giustizia e non voglio averne. Chiarito questo, rimane il fatto che ho bisogno del miglior avvocato che possa pagarmi, ed è possibile che quell’uomo sia lei. Non possiedo negozi né uffici, non ho fabbriche né licenze commerciali, ma tratto grossi affari, più grossi della maggior parte dei signori che hanno dei beni al sole».
Parlava con una certa aggressività, quasi volesse protestare contro la modestia del suo aspetto e del suo abbigliamento.
«In qualità di avvocato, lei è tenuto a non fare parola di quanto sto per dirle, perciò posso mettere tranquillamente le carte in tavola. Avrà certo sentito parlare di traffico dell’oro. Da quando i cambi variano quasi quotidianamente e le monete, nella maggior parte dei paesi, hanno corso forzoso, è possibile fare grossi guadagni trasportando l’oro da un luogo all’altro a seconda della situazione monetaria. Di tanto in tanto, i giornali annunciano che un corriere è stato preso a Modane, a Aulnoye, all’arrivo del traghetto di Dover o altrove. È raro che si risalga la trafila molto più in là, ma potrebbe succedere. Ora, alla fine della trafila, ci sono io».
Accese una gauloise e si fermò per osservare i cerchi che gli insetti tracciavano sulla superficie del canale.
«Ho studiato la questione, non come potrebbe farlo un abile uomo di legge, ma quanto basta per rendermi conto che esistono degli strumenti legali per evitarmi noie. Ho a mia disposizione due società di importexport e tutte le agenzie di cui posso aver bisogno all’estero. Se lei mi dà una mano, la pagherò anno per anno. Le chiedo solo una piccola parte del suo tempo, e lei sarà comunque libero di portare avanti il suo lavoro in tribunale. Prima di ogni operazione le chiederò consiglio: sarà compito suo tutelarmi da qualsiasi rischio».
Si girò verso di me per la prima volta da quando avevamo lasciato la locanda e, guardandomi in faccia, concluse:
«È tutto».
Ero diventato rosso in viso e stringevo i pugni dalla collera.
Stavo per dire qualcosa - e senz’altro la mia protesta sarebbe stata violenta - quando, di fronte alla mia reazione, l’altro mormorò:
«La rivedrò stasera dopo cena. Ne parli con sua moglie».
Decisi di fare quattro passi per cercare di calmarmi. Quando rientrai alla locanda era l’ora dell’aperitivo, e c’erano troppi clienti perché fosse possibile parlare tranquillamente.
«Sei solo?» chiese stupita Viviane.
Fuori cominciava a far fresco, un fresco umido. La presi per mano e la condussi nella nostra camera, che aveva una tappezzeria a fiori e odorava di campagna. Parlavo a bassa voce perché, come noi udivamo le voci provenienti dal bar, da lì non potessero sentire le nostre.
«Mi ha lasciato sull’alzaia preannunciandomi che aspetta una risposta per stasera, dopo che ne avrò parlato con te».
«Quale risposta?».
Le ripetei quanto l’uomo mi aveva detto e vidi che mi ascoltava senza reagire.
«È una cosa insperata, no?».
«Ma non capisci quello che si aspetta da me?».
«Dei pareri. Il tuo mestiere non è di dar pareri?».
«Pareri per aggirare la legge».
«Come la maggior parte dei pareri che uno si aspetta da un avvocato, se ho ben capito».
Pensai che non si rendesse conto della situazione, cercai di mettere i puntini sulle i, ma lei rimase imperturbabile.
«Quanto ti ha proposto?».
«Non ha parlato di cifre».
«E invece è proprio una questione di cifre! Ti rendi conto, Lucien, che questo rappresenta la fine delle nostre difficoltà e che il consulente legale di una grande azienda fa esattamente la stessa cosa?».
Non si curava più di parlare a bassa voce.
«Sst!».
«Non gli avrai detto qualcosa che lo induca a non farsi più rivedere...».
«Non ho fiatato».
«Come si chiama?».
«Non lo so».
Oggi invece lo so eccome. Si chiama Joseph Bocca, anche se, dopo tutti questi anni, non sono sicuro che sia il suo vero nome, così come non giurerei sulla sua nazionalità. Oltre al palazzetto di Parigi e alle fattorie sparse un po’ in tutta la Francia, si è comprato una magnifica proprietà in Costa Azzurra, a Mentone, dove trascorre parte dell’anno e dove ha invitato me e mia moglie a passare tutto il tempo che vogliamo.
Adesso è un uomo assai noto, perché, con i soldi ricavati dal traffico dell’oro, ha messo su delle fabbriche tessili con filiali in Italia e in Grecia e ha investito in svariate imprese. Lunedì, quando verrà da me l’ambasciatore sudamericano, non mi stupirei di scoprire che Bocca è coinvolto anche nel traffico d’armi.
A quei tempi sognavo ancora di diventare un grande giurista.
«Tutto quello che ti chiedo, stasera, è di non scoraggiarlo con un no secco».
Quando tornò, verso le otto e mezzo, mentre stavamo finendo di cenare, andammo a fare una passeggiata nell’oscurità e gli dissi di sì, immediatamente, per farla finita. E anche perché non mi dava altra scelta:
«Prendere o lasciare».
Disse quanto mi avrebbe pagato.
«La settimana prossima le manderò uno dei miei dipendenti: si chiama Coutelle e le spiegherà il meccanismo attuale delle operazioni. Lei studierà la questione a mente fresca, e quando avrà trovato una soluzione mi telefonerà».
Non mi diede un biglietto da visita ma un pezzo di carta sul quale aveva scritto il suo nome, Joseph Bocca, un numero di telefono del quartiere del Louvre e un indirizzo di rue Coquillière.
Di ritorno a Parigi, andai, per curiosità, a dare un’occhiata: era un edificio con scale e corridoi mal lavati che ospitava, come si poteva leggere sulle targhette di smalto attaccate al portone, un curioso campionario delle professioni più imprevedibili: una massaggiatrice, una scuola di stenografia, un rappresentante di fiori artificiali, un detective privato, un’agenzia di collocamento e la rivista della corporazione dei macellai.
E inoltre l’I.P.F., società di importexport.
Preferii non farmi vedere e aspettare la visita di quel tale Coutelle nel mio studio. Ci è ritornato spesso nel corso degli anni, l’ultima volta per annunciarmi che andava in pensione in una villa che si era appena fatto costruire sulla scogliera di Fécamp.
Viviane non mi ha forzato la mano. Ho agito in piena consapevolezza. Adesso rimpiango di essere risalito così addietro nel racconto della mia vita, perché non è del passato, bensì del presente, che mi ero ripromesso di occuparmi in questa pratica.
Dicono che l’uno aiuti a capire l’altro, ma io non ne sono affatto convinto.
Sono le due del mattino. Contrariamente a quel che aveva annunciato il servizio meteorologico, si è scatenata un’altra tempesta e sento la persiana che ricomincia a sbattere al piano di sopra. In rue Jacob ci dev’essere un caldo soffocante. Ci sarà la solita ressa di ospiti, che per lo più si incontrano dieci volte la settimana alle prime, ai cocktail, alle aste o alle cerimonie più o meno ufficiali.
È possibile che MarieLou abbia talento, anche se non credo alle vocazioni tardive. Ieri sera, a cena, mi ha detto che le piacerebbe fare il mio ritratto perché ho una «maschera possente», e Lannier, che aveva sentito, ha sorriso esalando lentamente il fumo della sigaretta.
È un uomo importante e, ogni volta che i suoi giornali vengono citati per diffamazione, si rivolge a me. Invece non mi ha mai chiesto di rappresentarlo nelle cause civili, anche se ne ha sempre qualcuna pendente. Senz’altro mi considera, e non è il solo, uno capace di urlare a gran voce, di vincere una causa grazie all’eloquio brillante e alla foga di un’arringa, alla violenza e all’astuzia degli attacchi e contrattacchi, ma non mi manderebbe mai davanti ai freddi magistrati dei processi civili.
Anche lui è in affari con Bocca? È probabile. Non ci vuol molto, nella mia professione, a capire che, arrivati a un certo livello della piramide, rimangono in pochi a spartirsi il potere, la ricchezza e le donne.
Tento di non pensare a Yvette ma ogni cinque minuti mi chiedo cosa stiano facendo «loro». Sono forse andati in una sala da ballo di quelle che piacciono a lei e dove io, dopotutto, sarei fuori posto?
Oppure hanno scelto una balera a Montmartre, magari piena di dattilografe e di commessi dei grandi magazzini?
Me lo dirà domani, se glielo chiedo. Forse, invece, stanno mangiando una choucroute in una brasserie.
O sono già rientrati?
Mi spazientisco, spero che mia moglie torni per potermene andare a dormire. Penso all’avvocato Andrieu che forse aspettava anche lui nel suo studio dove, a partire dall’autunno, era abituato a piazzarsi con la schiena davanti al fuoco.
Io però non ho intenzione di andare in Svizzera, né di fare escursioni in montagna. Il caso è diverso. Tutto è diverso. Due vite, due situazioni non sono mai simili fra loro, e io sbaglio a lasciarmi impressionare da questa storia del segno che comincia a diventare una vera ossessione.
Sono stanco. È da parecchio che non faccio vacanze. Pur essendo più vecchia di me, Viviane fa una vita che ormai riesco a seguire soltanto a fatica.
Chiederò a Pémal di passare a visitarmi. Mi prescriverà nuove cure, mi consiglierà per l’ennesima volta di non tirare troppo la corda e mi ripeterà che anche gli uomini, come le donne, hanno il loro climaterio.
Secondo lui, sono in pieno climaterio!
«Vedrà: a cinquant’anni sarà sorpreso di sentirsi più giovane e più vigoroso di oggi».
Lui, a sessant’anni, inizia le sue visite alle otto del mattino, a volte anche più presto, non finisce mai prima delle dieci di sera, ed è sempre pronto a rispondere alle chiamate notturne.
L’ho sempre visto sereno, con un sorriso malizioso sulle labbra, come se si divertisse a vedere la gente che si preoccupa della propria salute.
L’ascensore sale, e si ferma al piano di sopra.
Mia moglie è rientrata.
4.
Domenica 13 novembre, dieci del mattino.
Stamattina, quando verso le otto e mezzo sono tornato a casa, ho preso due compresse di fenobarbital e mi sono messo a letto; ma il sonnifero non mi ha fatto effetto, e alla fine ho preferito alzarmi.
Dopo una doccia fredda sono sceso in studio, e prima di sedermi alla scrivania mi sono assicurato che «lui» non stesse andando avanti e indietro sul marciapiede.
Il servizio meteorologico aveva ragione, dopotutto. Il vento è cessato, il cielo è come rimesso a nuovo e fa un freddo pungente.
Quelli che vanno a messa hanno le mani sprofondate nelle tasche, e il selciato risuona del ticchettio dei passi. Sotto il Pont-Marie i miei barboni non ci sono più: chissà se si sono trasferiti altrove o se è arrivato il loro turno per dormire sulla chiatta dell’Esercito della Salvezza.
La notte scorsa, quando ho sentito rientrare Viviane, ho chiuso il fascicolo e, mentre ero quasi in cima alle scale, la suoneria del telefono mi ha fatto sobbalzare, perché ho subito pensato a una cattiva notizia.
«Sei tu?» ha detto all’altro capo del filo la voce di Yvette.
Non era la sua voce normale, ma quella di quando ha bevuto o è sovreccitata.
«Non eri a letto?».
«Stavo salendo per andarci».
«Mi hai detto che di solito non vai a dormire prima delle due, soprattutto il sa...».
Si è morsa la lingua senza finire la parola «sabato». A mia volta le ho chiesto:
«Dove sei?».
«In rue Caulaincourt, da Manière».
Un attimo di silenzio. Se mi ha chiamato la sera del sabato, vuol dire che hanno litigato.
«Sei sola?».
«Sì».
«Da molto?».
«Da una mezz’ora. Dimmi, Lucien, ti seccherebbe venire a prendermi?».
«Sei preoccupata? Cosa succede?».
«Niente. Ti spiegherò. Vieni subito?».
Ho trovato mia moglie che si stava svestendo.
«Non sei andato a letto?» mi ha chiesto.
«Stavo salendo quando ho ricevuto una telefonata. Devo uscire».
Mi ha lanciato un’occhiata incuriosita.
«Qualcosa che non va?».
«Non so. Non ha voluto dirmi niente».
«Faresti meglio a svegliare Albert per farti accompagnare. Sarà pronto in un attimo».
«Preferisco prendere un taxi. È andato tutto bene, in rue Jacob?».
«Eravamo il doppio del previsto, e un paio di amici sono dovuti andare in macchina a prendere altre casse di champagne. Sembri contrariato».
Lo ero. Non mi aspettavo che facesse così freddo, e per trovare un taxi sono stato costretto ad arrivare a piedi fino allo Châtelet.
Conosco il ristorante Manière, a Montmartre, ma ignoravo che lo frequentasse anche Yvette. Per me e mia moglie rappresenta un’epoca, una fase della nostra vita. Durante il secondo anno di matrimonio, abbiamo avuto per un certo periodo la passione del canottaggio, e la domenica andavamo a remare sulla Marna, tra Chelles e Lagny. Facevamo parte di un bel gruppo, per lo più giovani coppie, soprattutto medici e avvocati, e durante la settimana avevamo preso l’abitudine di incontrarci da Manière.
Poi quella fase si concluse, da un giorno all’altro - non ricordo per ché -, e ne iniziò un’altra, durante la quale frequentammo via via nuovi gruppi, finché non siamo approdati al nostro ambiente attuale.
A volte ho provato invidia per chi vive sempre nello stesso ambiente per tutta la vita. Non molto tempo fa, una domenica mattina, mentre andavamo a trovare degli amici che hanno una tenuta nei dintorni, siamo passati da Chelles e sono rimasto sorpreso nel riconoscere sull’acqua, nelle stesse canoe, un certo numero delle coppie di allora, invecchiate, con i figli ormai grandi.
Non so da quanti anni non mettevo più piede da Manière, ma aprendo la porta ho sentito un odore familiare, e non penso che l’atmosfera sia molto cambiata. Ho visto subito Yvette: aveva davanti un bicchiere di whisky, e già questo era un chiaro indizio del suo stato d’animo.
«Togliti il cappotto e siediti» mi ha detto con l’aria solenne di chi sta per annunciare qualcosa di grave.
Quando è arrivato il cameriere, ho ordinato un whisky anche per me.
Nel corso della serata ne ho bevuti parecchi altri ed è stato questo a impedirmi di dormire, perché il troppo alcol, più che stordirmi, mi rende nervoso.
«Non hai visto nessuno sul marciapiede?».
«No, perché?».
«Mi chiedevo se non fosse tornato a spiarmi. Dato il tipo, non mi stupirei. Nello stato in cui si trova, poi, è capace di tutto».
«Avete litigato?».
Quando ha un po’ bevuto le cose si complicano alquanto. Mi ha guardato negli occhi con aria tragica e ha detto:
«Ti chiedo perdono, Lucien. Io dovrei renderti felice. Ci provo con tutte le mie forze, e invece riesco solo a procurarti dei fastidi e a farti soffrire. Avresti dovuto mettermi alla porta il giorno in cui sono venuta a trovarti la prima volta, e a quest’ora sarei al posto che mi merito, in prigione».
«Abbassa la voce».
«Scusami. È vero che ho bevuto, ma non sono ubriaca. Ti giuro che non sono ubriaca, è importante che tu mi creda. Se mi vedi così è perché ho paura, soprattutto per te».
«Raccontami cos’è successo».
«Siamo andati a un cinema dalle parti di Barbès, dove davano un film che lui voleva vedere da tempo, e all’uscita mi è venuta voglia di mangiare qualcosa in place du Tertre».
A lei piacciono i posti rumorosi e animati, quelli di un pittoresco volgare, aggressivo.
«All’inizio non ha aperto bocca. Capivo che non era del solito umore, ma non credevo che la cosa fosse tanto grave. A un certo punto, mentre ci stavamo risedendo dopo aver ballato, mi ha presa per un braccio e mi ha detto, con la fronte aggrottata:
«“Sai che facciamo adesso?”.
«E io - ti chiedo scusa - gli ho risposto:
«“Eccome se lo so!”.
«“Non parlo di quello. Adesso noi andiamo in rue de Ponthieu, ma solo per prendere le tue cose, e poi verrai a stare da me. Finalmente ho avuto la nuova camera che mi promettevano da tanto tempo. È abbastanza grande per tutti e due e dà sulla strada”.
«Ho replicato, credendo che parlasse così, tanto per parlare:
«“Sai bene che non è possibile, Léonard”.
«“No, ci ho riflettuto parecchio. È troppo assurdo che continuiamo a vivere così. Mi hai sempre detto che non te ne importava niente di avere una casa grande o di fare la bella vita. Hai conosciuto di peggio di rue de Javel, no?”».
Mentre lei parlava animatamente, io rimanevo immobile sul divanetto, con lo sguardo fisso su una coppia che beveva champagne e si baciava divertendosi a far passare lo champagne da una bocca all’altra.
«Và avanti» ho detto con un sospiro dopo che Yvette era rimasta per qualche istante in silenzio.
«Non posso raccontarti tutto. Sarebbe troppo lungo. Non ne ha mai dette tante come stasera. A sentir lui, adesso è sicuro di amarmi, e che niente può indurlo a rinunciare a me».
«Ha parlato di me?».
Lei non rispose.
«Che cosa ha detto?».
«Che non ti devo nessuna riconoscenza, che sei solo un egoista, un...».
«Che cosa?».
«Un depravato, proprio così, visto che ci tieni tanto a saperlo.
Non ha capito niente: secondo lui, tu fai come tutti i borghesi, eccetera. Gli ho risposto che non è vero, che lui non ti conosce e che io mi rifiuto di lasciarti. Tutti ci guardavano, poi il cantante ha attaccato il suo numero, e siamo stati costretti a tacere; così ho potuto osservarlo, e ho visto che aveva un’espressione cattiva.
Quando il cantante ha smesso, lui ha detto:
«“Se ci tieni a me, chiamalo subito al telefono e comunicagli la nostra decisione”.
«Ho rifiutato, ripetendogli che non sarei andata con lui.
«“In questo caso, gli telefono io e glielo dico. Ti assicuro che capirà!”.
«Mi sono aggrappata a lui e, per guadagnare tempo, ho proposto:
«“Andiamo da un’altra parte. Qui tutti ci guardano e pensano che stiamo litigando”.
«Abbiamo camminato per le viuzze buie di Montmartre, rimanendo a lungo in silenzio. Sei tu che mi hai chiesto di dirti tutto, Lucien.
Ti giuro che non ho avuto un attimo di esitazione, che cercavo solo un modo per sbarazzarmi di lui. Quando ho visto le luci di Manière, ho finto di aver sete, siamo entrati e ho ordinato un whisky, e ne avevo davvero bisogno perché lui stava ricominciando.
«“Cosa ci guadagneresti se venissi a vivere con te in rue de Javel?” gli ho chiesto.
«“Saresti mia moglie”.
«“Che vuoi dire?”.
«“Quello che ho detto. Ti sposerei”».
Ha finito il suo whisky e ha sogghignato:
«Ti rendi conto? Sono scoppiata a ridere ma mi faceva comunque uno strano effetto, perché era la prima volta che un uomo mi proponeva una cosa del genere.
«“Entro un mese” ho replicato “lo rimpiangeresti, o sarei io a stufarmi di te”.
“No”.
«“Non sono fatta per vivere con un uomo”.
«“Tutte le donne sono fatte per questo”.
«“Io no”.
«“Comunque, sono affari miei”.
«“Anche miei”.
«“Ammetti che è per via di quello là, se dici di no”.
«Io non ho aperto bocca, e lui ha proseguito:
«“Hai paura di lui?”.
«“No”.
«“Allora lo ami?”».
Yvette si è interrotta di nuovo, chiamando il cameriere con un cenno.
«Un altro».
«Per tutti e due?».
Senza pensarci ho detto di sì.
«Lui continuava a ripetere:
«“Lo ami? Ammettilo! Dimmi la verità”.
«Alla fine non so cosa gli ho risposto, e lui, arrabbiatissimo, si è alzato dicendo:
«“Risolverò la questione con lui”.
«E se n’è andato, pallido e furibondo, dopo aver buttato sul tavolo i soldi per le consumazioni».
«Aveva bevuto?».
«Qualche bicchiere, ma non abbastanza da fargli un effetto del genere. Mi aspettavo che una volta fuori si sarebbe calmato e sarebbe tornato per chiedermi scusa. Prima di telefonarti, sono rimasta mezz’ora da sola in un angolo a rimuginare e a sussultare ogni volta che si apriva la porta. Poi, tutt’a un tratto, ho pensato che forse era venuto a cercarti a casa tua».
«Non ho visto nessuno».
«Lo farà, sono sicura, perché non parlava a vanvera. Non è tipo da prendere una decisione alla leggera, e quando si mette in testa una cosa la fa, costi quel che costi. Come per l’università! Ho paura, Lucien. Ho tanta paura che ti succeda qualcosa!».
«Andiamo».
«Lasciami prendere un altro whisky».
Era quello di troppo: l’ho capito dal tono in cui mi parlava, con la lingua tutta impastata, e dal suo sguardo fisso.
«Tu lo sai, vero, che non ti lascerò per nulla al mondo? Voglio che tu lo sappia, che sappia che sei tutto per me, che prima di te io non esistevo, e che se tu non ci fossi più...».
Ho chiamato il cameriere per pagare e lei ha trovato il modo di bere il resto della mia consumazione. Al momento di uscire, mi ha supplicato di assicurarmi che fuori non ci fosse nessuno ad aspettarci. Poi, per fortuna, abbiamo trovato subito un taxi e ci siamo fatti portare in rue de Ponthieu. In macchina, è rimasta rannicchiata addosso a me, piagnucolando, ogni tanto percorsa da un brivido.
Non sono affatto sicuro che mi abbia raccontato la verità, e io non saprò mai che cosa ha detto a Mazetti. Anche se non ha motivo di mentire, lei sente il bisogno di inventare balle, e finisce per crederci.
All’inizio non gli aveva forse giurato che io ero soltanto il suo legale, che non aveva nulla a che fare con quella storia di rue de l’Abbé-Grégoire e che mi doveva riconoscenza eterna per averla strappata a una condanna ingiusta?
Questo risale al mese di luglio, a un giorno feriale - non ricordo più quale fosse - in cui l’ho portata a Saint-Cloud per pranzare in una trattoria all’aperto di quelle che piacciono a lei. Era molto affollata, e io non ho prestato grande attenzione a due giovani senza giacca, di cui uno con i capelli scuri e ricci, che occupavano il tavolo vicino al nostro e continuavano a guardare verso di noi. Avevo un appuntamento importante alle due e mezzo, e alle due e un quarto non eravamo nemmeno al dessert. Ho detto a Yvette che dovevo andar via.
«Io posso restare?» ha chiesto lei.
Il giorno dopo non mi ha raccontato nulla, e neanche il successivo.
Solo a distanza di tre giorni, quando avevamo già spento la luce e stavamo per addormentarci, mi fa:
«Dormi?».
«No».
«Ti posso parlare?».
«Ma certo che puoi. Vuoi che accenda?».
«No. Credo di aver fatto di nuovo una cosa che non va».
Mi sono chiesto più di una volta se la sua sincerità, la sua mania di confessare tutto siano dovute a un eccesso di scrupolo, a una crudeltà innata, o al bisogno di drammatizzare la sua esistenza per renderla più interessante.
«Non hai notato quei due ragazzi, l’altro giorno, a Saint-Cloud?».
«Quali?».
«Erano al tavolo vicino al nostro. Uno dei due era bruno e molto muscoloso».
«Sì».
«Quando sei andato via, vedendo che cercava di sbarazzarsi del suo amico, ho capito che voleva parlarmi, e in effetti, poco dopo, mi ha chiesto il permesso di prendere il caffè al mio tavolo».
Da quando ci frequentiamo ha avuto altre avventure, e credo che sia sincera quando afferma che le conosco tutte. La prima, due settimane dopo la sua assoluzione, quando abitava ancora in boulevard Saint-Michel, era stata con un musicista che suonava in un locale di Saint-Germain-des-Prés. In seguito mi confessò che rimaneva tutto il tempo seduta vicino all’orchestra e che, la seconda sera, lui l’aveva portata a casa sua.
«Sei geloso, Lucien?».
«Sì».
«Ne soffri molto?».
«Sì, ma non importa».
«Pensi che sarei capace di trattenermi?».
«No».
È vero. Non è solo una questione di sensi: è una cosa più profonda, un bisogno di vivere una vita diversa, di essere al centro di qualcosa, di sentire l’attenzione degli altri su di sé. Me ne ero convinto vedendola in tribunale, dove probabilmente ha passato le ore più inebrianti della sua vita.
«Vuoi sempre che ti dica tutto?».
«Sì».
«Anche se ci stai male?».
«Sono problemi miei».
«Ce l’hai con me?».
«Non è colpa tua».
«Credi che io non sia fatta come le altre?».
«No».
«Allora, come fanno le altre?».
In quei momenti, quando arriviamo a un certo livello di assurdità, non sto più ad ascoltarla, perché so cosa vuole: che si discuta il suo caso all’infinito, che si analizzino la sua personalità, i suoi istinti, il suo comportamento.
Se ne rende conto anche lei.
«Non ti interesso più?».
Allora mette il muso, oppure comincia a piangere, poi mi guarda come una ragazzina che ha disobbedito e decide di venire a chiedermi perdono.
«Non capisco come fai a sopportarmi. Ma hai mai pensato, Lucien, che può essere esasperante per una donna trovarsi di fronte a un uomo che sa tutto, che indovina tutto?».
Con il musicista, la cosa durò solo cinque giorni. Una sera la trovai strana, tutta percorsa da brividi, con gli occhi dilatati, e interrogandola nel modo giusto le feci confessare che le aveva dato dell’eroina. Andai su tutte le furie e quando, l’indomani, capii che l’aveva rivisto nonostante il mio divieto, per la prima volta le diedi uno schiaffo, così forte che per diversi giorni andò in giro con un livido sotto l’occhio sinistro.
Non posso sorvegliarla giorno e notte, e neanche pretendere che passi il suo tempo ad aspettarmi. D’altronde, so bene di non bastarle, e perciò sono costretto a lasciarle cercare altrove quello che io non le do. Se poi ne soffro, tanto peggio per me.
Nei primi mesi ero perennemente angosciato, perché mi chiedevo se sarebbe tornata da me o si sarebbe gettata a testa bassa in qualche storia squallida.
Dopo Saint-Cloud, le mie angosce hanno cambiato direzione.
«È un ragazzo di origine italiana, ma è nato in Francia ed è francese. Sai cosa fa? Studia medicina e intanto, di notte, fa l’operaio alla Citroën. In gamba, no?».
«Dove ti ha portata?».
«Da nessuna parte, non è il tipo. Siamo tornati a piedi per il Bois de Boulogne e non credo di aver mai camminato tanto in vita mia. Sei arrabbiato?».
«Perché dovrei esserlo?».
«Perché non te l’ho detto prima».
«L’hai rivisto?».
«Sì».
«Quando?».
«Ieri».
«Dove?».
«Al Normandie, sugli Champs dove mi aveva dato appuntamento».
«Per telefono?».
Dunque, sapeva già il suo numero.
«Tu hai sempre paura che incappi in un poco di buono, così ho pensato che ti avrebbe fatto piacere. Suo padre fa il muratore a Villefranche-sur-Saône, non lontano da Lione, dove sono nata io, e sua madre lava i piatti in un ristorante. Ha sette fratelli. È da quando ha quindici anni che lavora per pagarsi gli studi, e adesso sta in una cameretta, a Javel, vicino alla fabbrica, e dorme non più di cinque ore al giorno».
«Quando lo rivedi?».
Sapevo che stava architettando qualcosa.
«Dipende da te».
«Cosa vuoi dire?».
«Se lo desideri, non lo rivedrò mai più».
«Quando ti ha chiesto di rivederlo?».
«Il sabato sera, perché non lavora».
«Hai voglia di rivederlo sabato prossimo?».
Non mi ha risposto. La domenica mattina, telefonando in rue de Ponthieu, ho capito dal suo imbarazzo che non era sola. Era la prima volta, a quanto ne so io, che portava qualcuno in quello che in fondo è il nostro appartamento.
«È lì?».
«Sì».
«Ci vediamo da Louis?».
«Se vuoi».
Quella fra sabato e domenica è diventata la «loro» notte e, per un certo periodo, Mazetti ha creduto alla storia dell’avvocato di buon cuore. Yvette mi ha confessato che a volte, durante il giorno, andava a dargli un bacio in quai de Javel mentre studiava.
«Solo per fargli coraggio. La camera è piccolissima e nell’albergo ci sono solo operai, soprattutto arabi e polacchi. Quando li incontro sulle scale, mi fanno paura: non si spostano neanche per lasciarmi passare e mi guardano con certi occhi...».
Ma lui non veniva in rue de Ponthieu soltanto il sabato, poiché il pomeriggio di un altro giorno l’ho incrociato nell’androne. Ci siamo riconosciuti. Dopo un attimo di esitazione, lui mi ha salutato con un certo imbarazzo e io ho ricambiato la cortesia.
Come mi aspettavo, Yvette, non fosse che per rendere la cosa più piccante, ha finito per confessargli che oltre che il suo benefattore sono anche il suo amante.
Gli ha anche raccontato della rapina di rue de l’Abbé-Grégoire, la versione autentica, stavolta, aggiungendo che per lei avevo messo a repentaglio il mio onore e la mia posizione.
«Per me quell’uomo è sacro, capisci?».
Che importa se l’ha detto davvero o no? Rimane il fatto che lui non ha protestato e che un’altra volta che ci siamo incontrati davanti al portone mi ha salutato di nuovo osservandomi con curiosità.
Mi chiedo se non gli abbia fatto credere che sono impotente e mi appago di intimità che non possono offenderlo. Non è così, ma è già capitato che mi raccontasse delle storie ancor meno plausibili.
Com’è ovvio, nessuno dei due capisce niente. E adesso quel che doveva succedere sta succedendo.
«Cos’altro ti ha detto?» le ho chiesto quando siamo arrivati a casa.
«Non mi ricordo. Preferisco non ripeterlo. Tutto quello che un giovane può dire di un uomo della tua età che si comporta da innamorato».
Ha aperto un armadietto e l’ho vista bere a canna dalla bottiglia.
«Smettila!».
Mentre mi guardava, ha trangugiato in gran fretta un ultimo sorso.
Poi, con la bocca impastata, mi ha chiesto:
«Con tutte le conoscenze che hai, non puoi farlo arrestare?».
«Per quale motivo?».
«Che ha proferito delle minacce».
«Quali minacce?».
«Anche se vagamente, ha lasciato intendere che prima o poi riuscirà a sbarazzarsi di te».
«In che termini?».
Su questo punto sono sicuro che mente, o comunque ci ricama sopra.
«Anche se fosse vero, non sarebbe un motivo sufficiente per arrestarlo. Saresti contenta di vederlo in prigione?».
«Non voglio che ti succeda qualcosa. Ho solo te, lo sai bene».
Lo pensa davvero, e la faccenda è molto più seria di quanto lei non creda. Si sentirebbe smarrita, infelice, se si trovasse di nuovo abbandonata a se stessa, e non tarderebbe a fare una brutta fine.
«Mi sento male, Lucien».
Lo vedo. Ha bevuto troppo ed è lì lì per vomitare.
«Non credevo proprio che sarebbe finita così! Mi sembrava una cosa ben congegnata. Sapevo che tu eri contento...».
Si rende conto di aver esagerato.
«Ti chiedo perdono, ma con me, vedi, è sempre così. Per quanto mi sforzi di comportarmi bene, tutto quello che faccio va a finir male.
Ma ti giuro sulla tua testa che non lo rivedrò mai più. Non daresti un’occhiata giù in strada?».
Ho scostato le tende e, alla luce dei lampioni, non ho visto nessuno.
«Spero che non sia andato a bere, perché non regge l’alcol. Lui che è sempre così calmo e va d’accordo con tutti, quando beve troppo, diventa cattivo. Una volta...».
Non finisce la frase e si precipita in bagno dove sento i suoi singulti.
«Mi vergogno, Lucien...» balbetta fra due conati di vomito. «Se tu sapessi come mi odio!... Mi chiedo come puoi...».
L’ho spogliata e l’ho messa a letto. Poi mi sono spogliato anch’io e mi sono sdraiato vicino a lei. Aveva un sonno agitato, e un paio di volte ha detto qualcosa che non sono riuscito a capire.
Può darsi che Mazetti si stia ubriacando in uno di quei bar aperti tutta la notte come se ne trovano a Parigi, o forse cammina a grandi passi lungo viali deserti dando sfogo al suo rancore. È anche possibile che venga ad aggirarsi nei pressi di rue de Ponthieu, come facevo io, un tempo, sotto le finestre di boulevard Malesherbes.
Se il resoconto che mi ha fatto Yvette della serata e del suo atteggiamento non è troppo romanzato, lui non se la lascerà sfuggire facilmente e presto tornerà alla carica.
Gli ha davvero detto tutto del suo passato, ed è stata sincera con lui come con me? Eppure il ragazzo le ha proposto di sposarlo.
Devo essermi assopito anch’io, perché sentendo squillare il telefono sono balzato fuori dal letto e mi sono precipitato in salotto per rispondere, urtando contro un mobile e facendomi un gran male a un piede. Sulle prime ho pensato che fosse mia moglie a chiamarmi per qualcosa di urgente, come era già successo altre volte.
Non sapevo che ore fossero. La camera da letto era immersa nel buio, ma in salotto si intravedeva il chiarore dell’alba attraverso lo spiraglio delle tende.
«Pronto!».
Non sentendo niente, ho ripetuto:
«Pronto!».
Allora ho capito. Era lui che chiamava, non sospettando che io fossi lì. Riconoscendo la mia voce, non ha riattaccato e ho potuto sentire il suo respiro all’altra estremità del filo. Faceva una certa impressione, tanto più che anche Yvette, svegliatasi nel frattempo, era apparsa nuda e pallida nella penombra, fissandomi con gli occhi sgranati.
«Chi è?» ha chiesto a bassa voce.
Ho riattaccato:
«Hanno sbagliato numero».
«Era lui?».
«Non lo so».
«Sono sicura che era lui. Adesso sa che sei qui, e fra poco arriverà. Accendi la luce, Lucien».
Il chiarore dell’alba che filtrava attraverso le tende l’ha fatta rabbrividire.
«Mi chiedo da dove ha telefonato. Forse è qui nei dintorni».
Confesso che anch’io ho avvertito un certo disagio. Non avevo nessuna voglia di sentirlo bussare alla porta dell’appartamento perché, se aveva continuato a bere, era capace di dare in escandescenze.
Non devo rendergli conto di niente, né fornirgli alcuna spiegazione. Una discussione a tre sarebbe stata ridicola, odiosa.
«Faresti meglio ad andartene».
Non volevo nemmeno aver l’aria di fuggire.
«Preferisci restare da sola?».
«Sì. In qualche modo me la caverò».
«Pensi di aprirgli?».
«Non lo so, vedrò al momento. Rivestiti».
Poi ha cambiato idea.
«Perché non telefoniamo alla polizia?».
Mi sono vestito. Provavo un senso di umiliazione e ce l’avevo a morte con me stesso, mentre lei guardava fuori dalla finestra, sempre nuda, con il volto appoggiato al vetro.
«Davvero preferisci rimanere da sola?».
«Sì, và via, presto!».
«Ti telefonerò appena arrivo in quai d’Anjou».
«Va bene. Io resterò qui tutto il giorno».
«Verrò a trovarti più tardi».
«Sì. Vai!».
Mi ha accompagnato sul pianerottolo e mi ha baciato, sempre senza niente addosso, poi si è sporta sulla ringhiera per raccomandarmi:
«Stà attento!».
Non avevo paura, anche se non posso certo vantarmi di essere un campione di coraggio e detesto le risse. Desideravo comunque evitare un incontro, che probabilmente sarebbe stato spiacevole, con un ragazzo fuori di sé dall’esasperazione. Tanto più che non ce l’ho con lui, non ho niente da rimproverargli e capisco il suo stato d’animo.
Rue de Ponthieu era deserta, e si sentivano risuonare solo i miei passi mentre la percorrevo fino a rue de Berri per prendere un taxi.
Sugli Champsuna coppia di stranieri in abito da sera rientrava al Claridge tenendosi a braccetto, e la donna aveva ancora dei pezzi di stelle filanti tra i capelli.
«Quai d’Anjou! Le dirò io dove fermarsi».
Ero ancora preoccupato per Yvette. Per come la conosco, probabilmente non era tornata a letto e se ne stava a spiare dalla finestra, senza pensare a mettersi addosso qualcosa. Certe volte rimane nuda per quasi tutto il giorno, anche d’estate, quando si tengono le finestre aperte.
«Lo fai apposta» le ho detto una volta.
«A far che?».
«A farti vedere nuda dalle persone che abitano là di fronte».
Mi ha guardato come mi guarda sempre quando intuisco qualcosa di lei, sforzandosi di nascondere un sorriso.
«È divertente, no?».
Magari, se Mazetti tornasse a cercarla, troverebbe divertente anche quello. Non sono affatto sicuro che non gli telefonerebbe, se solo sapesse dove pescarlo. Tanto è il bisogno che sente di uscire dalla propria vita, di crearsi un personaggio.
Ho paura che, se lo vedesse giù in strada, chiamerebbe la polizia solo per provare qualche brivido in più.
Appena arrivato in studio, la chiamo.
«Sono Lucien».
«È andato tutto bene?».
«Non è venuto?».
«No».
«Eri ancora alla finestra?».
«Sì».
«Torna a letto».
«Tu non pensi che verrà?».
«Sono sicuro di no. Ti richiamerò fra poco».
«Andrai a dormire anche tu, no?».
«Sì».
«Ti chiedo perdono per la nottataccia che ti ho fatto passare. Mi vergogno di essermi ubriacata, ma non mi rendevo conto che stavo bevendo troppo».
«Và a letto».
«Ne parlerai a tua moglie?».
«Non lo so».
«Non dirle che ho vomitato».
Sa che Viviane è al corrente di tutto e questo la preoccupa perché, di fronte a lei, non vorrebbe fare una figura troppo meschina. Di punto in bianco comincia a farmi delle domande su di lei:
«Che cosa le racconti esattamente? Tutto quello che facciamo?».
A volte le è capitato di aggiungere, ridendo tutta eccitata:
«Anche quello che ti sto facendo adesso?».
Come ho già scritto, ho guardato dalla finestra del mio studio, e non ho visto nessuno in strada. È molto probabile che Mazetti sia tornato a casa e stia dormendo profondamente.
Sono salito di sopra senza fare rumore, ma mia moglie ha socchiuso le palpebre nel momento in cui ingoiavo le mie due compresse.
«Niente di grave?».
«No, dormi».
Non doveva essere completamente sveglia, perché si è riaddormentata subito. Anch’io ho cercato di dormire, ma non ci sono riuscito. Avevo i nervi a fior di pelle, e li ho ancora: mi basta vedere la mia scrittura per convincermene. Un grafologo la giudicherebbe probabilmente la scrittura di un pazzo, o di un drogato.
Da un po’ di tempo mi aspetto sempre che accada qualcosa di spiacevole, ma non mi sarei mai immaginato niente di più spiacevole e di più umiliante della notte che ho appena trascorso.
Con gli occhi chiusi, nel tepore del mio letto, mi sono chiesto se Mazetti sarebbe o no capace di farmi del male: nel corso della mia carriera ho visto gesti anche più insensati. Con lui non ho mai parlato. L’ho solo intravisto e mi ha dato l’impressione di essere un ragazzo serio, introverso, che segue con decisione la linea di condotta che si è prefisso.
Si rende conto che la sua storia con Yvette può compromettere quel futuro che si è faticosamente preparato? Se lei gli ha detto tutto, se la conosce come la conosco io, può essere così ingenuo da sperare che tutt’a un tratto riuscirà a trasformarla sino a farne la moglie di un giovane medico ambizioso?
Adesso è in piena crisi, incapace di ragionare. Domani o tra qualche giorno guarderà in faccia la realtà e si rallegrerà della mia esistenza.
Il problema è che non ne sono affatto sicuro. Perché dovrebbe reagire diversamente da me? Perché è troppo giovane per capire, per provare quello che ho provato io?
Mi piacerebbe crederci. Quante volte mi sono chiesto il perché del mio attaccamento a Yvette! Ma ho accantonato l’una dopo l’altra tutte le risposte che mi sono dato, poi le ho riprese in considerazione, combinandole e mescolandole senza ottenere un risultato soddisfacente, e stamattina mi sento vecchio e stupido; quando poco fa sono sceso in studio con la testa vuota e gli occhi che mi bruciavano per la notte insonne, ho guardato i libri di cui sono tappezzate le pareti e ho scrollato le spalle.
Anche ad Andrieu, a suo tempo, è capitato di pensare a se stesso con una commiserazione venata di disprezzo?
Oggi invidio quelli che continuano ad andare in canoa tra Chelles e Lagny, e tutti gli altri che mi sono lasciato alle spalle perché procedevano a rilento.
Mi sono ridotto a spiare dalla finestra un giovane sconsiderato che, a quanto pare, ha minacciato di venire a chiedermi delle spiegazioni! «A quanto pare», perché non sono nemmeno sicuro che sia vero, e che, stasera o domani, Yvette non mi confesserà di avere ingrandito, se non inventato di sana pianta, buona parte di quello che mi ha raccontato.
Non riesco a serbarle rancore, perché è fatta così, e in fin dei conti, più o meno, siamo fatti così tutti quanti. La differenza è che lei ha tutti i difetti, tutti i vizi, tutte le debolezze possibili e immaginabili. Anzi, neanche: vorrebbe averli! Per lei è un gioco, è il suo modo di riempire il vuoto.
Non sono in condizione di analizzarmi, stamattina. A che servirebbe, del resto, e a che servirebbe sapere perché, a causa sua, mi sono ridotto così?
Non è neanche sicuro che sia colpa sua. Gli autori di vaudeville, quelli che con le loro commediole riescono a farci ridere della vita, la chiamano l’estate di San Martino e ci scherzano sopra.
Io non ho mai preso la vita sul tragico, e non voglio cominciare adesso. Cerco di rimanere obiettivo, di giudicarmi e giudicare gli altri a mente fredda. Ma soprattutto cerco di capire. Aprendo questa pratica, mi è capitato di ammiccare a me stesso come se iniziassi un gioco solitario.
Invece, finora non ho mai riso. Stamattina, poi, ne ho meno voglia che mai, e mi chiedo se non preferirei essere nei panni di uno di quei piccoli borghesi vestiti a festa che si affrettano verso la chiesa per assistere alla messa di mezzogiorno.
Ho telefonato per la seconda volta a Yvette, che ci ha impiegato un bel po’ a rispondere. Subito, dal modo in cui ha detto «pronto», ho capito che c’erano delle novità.
«Sei sola?».
«No».
«C’è lui?».
«Sì».
Per non costringerla a parlare in sua presenza, faccio delle domande precise.
«Furioso?».
«No».
«Ti ha chiesto scusa?».
«Sì».
«Ha sempre le stesse intenzioni?».
«Veramente...».
A questo punto Mazetti deve averle strappato di mano la cornetta perché ho sentito riattaccare bruscamente.
Vecchio imbecille!
5.
Sabato 26 novembre.
Negli ultimi quindici giorni non ho avuto un attimo di tempo per metter mano a questa pratica. Vado avanti a forza di nervi, convinto che a un certo punto crollerò sfinito, incapace di fare un solo passo o di dire una parola di più. Per la prima volta mi rendo conto che un giorno potrei non essere più in grado di esprimermi, e comincio già adesso a parlare di meno, tanto sono stanco.
Non sono il solo a pensare all’eventualità che mi saltino i nervi.
Leggo la stessa apprensione nello sguardo di chi mi sta intorno, e qualcuno comincia a osservarmi di sottecchi, come si fa con i malati gravi. A Palazzo di Giustizia, che cosa sanno della mia vita privata?
Lo ignoro, ma certe strette di mano sembrano insistite, come pure il modo in cui mi dicono, così, senza dare importanza alla cosa:
«Non si strapazzi!».
Pémal, che di solito è ottimista, l’altro giorno ha aggrottato la fronte mentre mi misurava la pressione nello stanzino dove ho dovuto riceverlo di sfuggita perché avevo un cliente nello studio e altri due in sala d’attesa.
«Suppongo sia inutile chiederle di riposarsi...».
«Per il momento è impossibile. Sta a lei fare in modo che riesca a reggere».
Mi ha prescritto delle iniezioni di non so che vitamine e da allora un’infermiera viene tutte le mattine a farmene una, al volo, il tempo di entrare nello stanzino e di abbassarmi i pantaloni. Ma Pémal non ci crede molto.
«Viene il momento in cui non si può tirare la corda più di tanto».
È l’impressione che ho anch’io, quella di una corda che vibra e prima o poi si spezzerà. Sento in tutto il corpo come un’agitazione che non riesco a controllare e che a volte mi angoscia. Dormo pochissimo, per mancanza di tempo. Non oso nemmeno più sedermi in poltrona dopo pranzo, perché sono come i cavalli malati che evitano di stendersi per timore di non riuscire più a rialzarsi.
Mi sforzo di rispettare i miei obblighi su tutti i fronti e mi faccio un punto d’onore di accompagnare Viviane alle riunioni mondane, ai cocktail, alle prime, alle cene da Corine e in qualunque altra occasione in cui so che le darebbe fastidio comparire da sola.
Lei me ne è grata, anche se non dice niente, ma è molto preoccupata. Come se non bastasse, non ho mai avuto tante cause in tribunale, né tanto importanti, che quindi non posso affidare a nessuno.
L’ambasciatore sudamericano, per esempio, è venuto a trovarmi il giorno stabilito. Pur non essendomi sbagliato del tutto sulla natura dei suoi problemi, non avevo intuito la verità. Le armi le hanno già.
È suo padre che intende impadronirsi del potere mediante un colpo di stato che dovrebbe essere rapido e poco cruento. A sentire il mio interlocutore, che cominciava ad accalorarsi, suo padre rischia la vita e tutti i propri beni, immensi, solo per il bene del suo paese, attualmente in mano a una banda di affaristi che lo saccheggiano.
Le armi, dunque, compresi tre quadrimotori che dovrebbero avere un ruolo fondamentale nel complotto, si trovano a bordo di una nave battente bandiera panamense che sfortunatamente, a causa di un’avaria, ha dovuto per il momento cercare riparo alla Martinica.
L’avaria non era grave: questione di due o tre giorni. Il caso ha voluto che un doganiere, per eccesso di zelo, ispezionasse il carico e scoprisse che non corrispondeva alle relative polizze. E per di più il comandante è stato così sprovveduto da offrirgli dei soldi e l’altro ha messo in moto la pesante macchina burocratica, bloccando la nave in porto.
Senza di lui, tutto sarebbe stato facile, perché il governo francese non chiede di meglio che far finta di non vedere. Ma, una volta avviate le pratiche, la questione è in una fase estremamente delicata, e io ho avuto un colloquio con il presidente del Consiglio in persona, che è pieno di buona volontà ma quasi disarmato nei confronti del doganiere. Esistono casi - come ho spesso sperimentato - in cui il più oscuro impiegato può tenere in scacco perfino un ministro.
Tra qualche giorno inizieranno le udienze per il caso Neveu, che esige un lavoro enorme e di cui si parla da mesi. Un diplomatico è stato ucciso dall’amante, che gli ha sparato sei colpi nel momento in cui l’uomo, per sbarazzarsi di lei dopo averle fatto fare due figli, stava partendo per l’Estremo Oriente, dove aveva ottenuto il trasferimento. La donna ha avuto il torto di agire con assoluto sangue freddo in presenza delle autorità e dei giornalisti, ai quali ha dichiarato, con in mano l’arma ancora fumante, che sfidava i tribunali a condannarla. Nella mia situazione attuale, perdere il processo mi recherebbe un grave pregiudizio professionale e sarebbe considerato come l’inizio del declino.
Questa settimana mi è andata bene con il caso del giovane Delrieu, che ha ucciso il padre per ragioni ancora piuttosto misteriose, e di cui ho ottenuto l’internamento in un ospedale psichiatrico.
Ogni giorno si presentano nuovi clienti: se dessi ascolto a Bordenave, non li riceverei neanche. Lei se ne sta rintanata nel suo ufficio come un cane da guardia a cui venga impedito di abbaiare ai vagabondi, e spesso la vedo con gli occhi rossi.
Nei momenti di depressione mi è capitato di pensare che, se tutti mi si mettessero contro, mi resterebbe sempre la mia segretaria con la quale finire i miei giorni. Non è buffo che nei suoi confronti io provi un’antipatia fisica, una sorta di repulsione, che mi impedirebbe di stringerla fra le braccia o di guardare il suo corpo nudo? Sospetto che lei l’abbia intuito e ne soffra, e che per colpa mia non apparterrà mai a nessun uomo.
Il difficile non è stato tanto prendere la decisione quanto parlarne a Viviane, perché questa volta ero cosciente di andare un po’ troppo in là e di avventurarmi su un terreno scivoloso. Qualunque cosa succeda, conserverò fino all’ultimo la lucidità e rivendico la completa responsabilità delle mie azioni, di tutte le mie azioni.
La settimana successiva alla serata da Manière è stata una delle più penose e forse la più ridicola della mia vita. Mi chiedo come ho potuto trovare il tempo di andare in tribunale, di studiare le cause dei miei clienti e, per di più, di accompagnare Viviane a un certo numero di riunioni mondane.
E tutto ciò per colpa di Mazetti e della sua nuova tattica, che d’altronde avevo previsto. Perché nessuno mi toglie dalla testa che l’ha fatto apposta, e c’è da credere che non sia poi così stupido, visto che ci è quasi riuscito.
La domenica sera ho parlato seriamente con Yvette, ed ero sincero, o quasi, quando l’ho lasciata libera di scegliere:
«Se decidi di sposarlo, chiamalo».
«No, Lucien, non voglio».
«Non saresti felice con lui?».
«Non posso essere felice senza di te».
«Ne sei sicura?».
Era così stanca che aveva un’aria quasi spettrale, e mi ha chiesto il permesso di bere un whisky per tirarsi un po’ su.
«Cosa ti ha detto?».
«Che aspetterà finché sarà necessario, nella certezza che un giorno lo sposerò».
«Tornerà?».
Non c’era bisogno che rispondesse.
«In questo caso, se sei veramente decisa, gli scriverai una lettera che non gli lasci speranze».
«Cosa gli devo dire?».
«Che non vuoi più rivederlo».
Aveva fatto l’amore con lui per una parte della giornata e ne portava ancora i segni: le labbra tumefatte le divoravano il viso in cui sembravano come disciolte.
La lettera gliel’ho parzialmente dettata io, e dopo sono andato a impostarla.
«Se telefona o viene a bussare alla porta, prometti di non rispondere».
«Prometto».
Non ha telefonato, né cercato di introdursi nell’appartamento.
Tuttavia, fin dal giorno dopo, Yvette ha cominciato a telefonarmi.
«È qui sotto».
«Dove?».
«Sul marciapiede».
«Non ha suonato da te?».
«No».
«Cosa sta facendo?».
«Niente. È appoggiato alla casa di fronte e guarda fisso le mie finestre. Cosa mi consigli di fare?».
«Verrò a prenderti per pranzo».
Ci sono andato. Ho visto Mazetti in strada, non rasato, sporco come se fosse corso lì uscendo dalla fabbrica, senza cambiarsi.
Non si è avvicinato a noi, limitandosi a fissare Yvette con uno sguardo da cane bastonato.
Quando, un’ora dopo, l’ho riaccompagnata a casa, non c’era più, ma è tornato l’indomani, poi il giorno seguente, con la barba sempre più lunga, gli occhi febbricitanti, e cominciava ad aver l’aria di un mendicante.
Non so quanta sincerità ci fosse nel suo atteggiamento. Anche lui è in piena crisi, e sembra aver rinunciato da un giorno all’altro alla carriera per cui ha sopportato tante privazioni, come se ormai ai suoi occhi contasse solo Yvette.
Nel corso della settimana i nostri sguardi si sono incrociati più volte, e ho letto nei suoi occhi un rimprovero carico di disprezzo.
Ho pensato a tutte le soluzioni immaginabili, comprese alcune impossibili, come quella di sistemare Yvette nell’appartamento di sotto, quello in cui si trovano il mio studio e gli uffici, dove ci sono ancora una camera da letto e un bagno che Bordenave utilizza quando si ferma a lavorare di notte.
Per ore e ore questa idea mi ha eccitato. Mi attirava la prospettiva di poter avere Yvette a portata di mano giorno e notte; alla fine però la razionalità ha avuto il sopravvento. Era una soluzione impraticabile, evidentemente, se non altro a causa di Viviane, che finora ha accettato parecchie cose, ed è pronta ad accettarne altre, ma non arriverebbe mai a tanto.
L’ho capito quando le ho comunicato la decisione che ho finito per prendere. Era subito dopo pranzo. Avevo scelto proprio quel momento perché mi aspettavano in tribunale e avevo solo un quarto d’ora libero, così non c’era il rischio che la conversazione si protraesse a lungo.
Entrando in salotto per prendere il caffè, ho mormorato:
«Ti devo parlare».
Dal modo in cui le si sono tirati i lineamenti ho capito che non avevo granché da farle sapere. Forse si aspettava una decisione ancora più grave, ma certo ho percepito la sua tensione, e di colpo le si sono visti in faccia tutti i suoi anni.
Mi si è stretto il cuore, un po’ come quando si è obbligati a fare un’iniezione a un animale che ci è stato sempre fedele.
«Siediti, non parlare. Non c’è nulla di grave».
Si è sforzata di sorridere, ma il suo sorriso era duro, sulla difensiva; quando le ho detto di quale appartamento si trattava, ho capito che non era per ragioni sentimentali che si irrigidiva. Ho persino creduto, per un istante, che saremmo arrivati a litigare seriamente, e non sono certo di non essermelo augurato. L’avremmo fatta finita una volta per tutte, invece di girarci intorno. Io ero deciso a non cedere.
«Per ragioni che sarebbe troppo lungo spiegare e che, del resto, immagino tu conosca, è impossibile che lei continui a vivere là dov’è».
Diciamo sempre «lei», io per delicatezza, mia moglie in segno di disprezzo.
«Lo so».
«Allora sarà tutto più facile. Bisogna che la sistemi il più presto possibile in un posto sconosciuto a una certa persona che la molesta».
«Capisco. Và avanti».
«Ora, il caso vuole che si sia liberato un appartamento».
Lo sapeva già, magari dall’agenzia?
Quando abitavamo in place Denfert-Rochereau, il secondo anno, se ben ricordo, cominciavamo già a trovare scomodo il nostro alloggio e sognavamo di avvicinarci al Palazzo di Giustizia. Più volte eravamo andati a passeggio sull’île Saint-Louis, che piaceva molto a tutti e due.
A quell’epoca c’era un appartamento libero, sulla punta estrema dello sperone che sta di fronte alla Cité e a Notre-Dame, e andammo a vederlo insieme scambiandoci sguardi di cupidigia. Grazie alle leggi in vigore, l’affitto non era esagerato, ma per la cessione di parte dell’arredamento il proprietario richiedeva una somma che lo stato delle nostre finanze non ci permetteva di spendere, per cui andammo via con il cuore gonfio.
Tempo dopo, in casa di amici, conoscemmo un’americana, Miss Wilson, che non solo aveva affittato l’appartamento dei nostri sogni, ma l’aveva acquistato, e credo che in seguito Viviane sia andata a prendere il tè da lei. Miss Wilson scriveva, frequentava il Louvre e gli artisti e, come certi intellettuali americani che vengono in Europa, giudicava barbaro il suo paese e giurava che avrebbe finito i suoi giorni a Parigi. Qui tutto la incantava, i bistrot, le Halles, le stradine più o meno malfamate, i barboni, i croissant del mattino, il vino rosso ordinario e le balere.
Invece, due mesi fa, a quarantacinque anni, si è sposata con un americano di passaggio, un professore di Harvard più giovane di lei, e l’ha seguito negli Stati Uniti.
All’improvviso ha rotto i ponti con il passato, e con Parigi, e ha incaricato un’agenzia immobiliare di vendere al più presto appartamento, mobili e suppellettili.
È a centocinquanta metri da casa nostra, e per andare a trovare Yvette non dovrò più prendere il taxi o disturbare Albert.
«Ci ho riflettuto molto. A prima vista sembra una follia, ma...».
«L’hai già comprato?».
«Non ancora. Vedo il rappresentante dell’agenzia stasera».
Oltre alla propria felicità, la donna che avevo di fronte, però, difendeva ormai anche i propri interessi.
«Spero bene che non avrai intenzione di intestare a lei l’appartamento, vero?».
Me l’aspettavo. All’inizio, in effetti, la mia intenzione era stata proprio di regalarlo a Yvette, cosicché, qualunque cosa mi accada, non sia costretta a ritornare sulla strada. Viviane, invece, alla mia morte non avrà nessuna preoccupazione, potrà mantenere più o meno lo stesso tenore di vita grazie alle cospicue assicurazioni che ho stipulato a suo favore.
Ho esitato un momento, ma poi sono stato così vigliacco - adesso non riesco a perdonarmelo - da battere in ritirata. Mi sono messo a balbettare, arrossendo:
«No, naturalmente».
La cosa mi dà ancora più fastidio in quanto Viviane ha indovinato che la mia prima intenzione era diversa e ha capito di aver riportato una vittoria.
«Quando firmi?».
«Stasera, se l’atto di vendita è a posto».
«E lei trasloca domani?».
«Dopodomani».
Viviane ha sorriso con amarezza, probabilmente al ricordo della nostra visita di un tempo, del nostro disappunto nel sentire la somma richiesta per la cessione di un paio di tappeti senza valore.
«Non hai nient’altro da dirmi?».
«No».
«Sei felice?».
Ho fatto segno di sì e lei si è avvicinata per darmi un colpetto sulla spalla con un gesto di affetto e di protezione insieme. Questo gesto, che non aveva mai fatto, mi ha aiutato a capire meglio il suo atteggiamento verso di me. Da molto tempo, forse da sempre, Viviane mi considera come una sua creazione: prima di conoscerla, secondo lei, non esistevo. Mi ha scelto come Corine ha scelto Jean Moriat, con la differenza che io non ero nemmeno un deputato, e che per me lei ha rinunciato a una vita spensierata e lussuosa.
Certo, non posso negare che grazie alla sua frequentazione del bel mondo, che mi ha schiuso parecchie porte e procurato numerosi clienti, lei mi ha aiutato nella mia scalata sociale. Ed è sempre grazie a lei che il mio nome figura sulle pagine di tutti i giornali, e non solo nella rubrica giudiziaria, perché Viviane ha fatto di me una personalità di spicco nella vita parigina.
Quel giorno non me l’ha detto, non mi ha rinfacciato nulla, ma io ho capito che non avrei potuto spingermi oltre, che l’appartamento di quai d’Orléans, a condizione che restasse a mio nome, era il limite estremo che non mi avrebbe permesso di superare.
Mi chiedo se parlino mai di me, lei e Corine, se formino una specie di clan - perché sono in parecchie a trovarsi nella stessa situazione -, o se invece siano gelose l’una dell’altra e si scambino false confidenze e sorrisi.
Durante tutta quella settimana ho lottato contro il tempo, perché la mia grande paura era che Yvette si lasciasse impietosire, che dalla finestra facesse a Mazetti il cenno che lui aspettava per precipitarsi fra le sue braccia. Le telefonavo ogni ora, anche durante le sospensioni delle udienze, e appena avevo un momento libero correvo in rue de Ponthieu dove, per prudenza, passavo tutte le notti.
«Se ti porto via di qui, mi prometti di non scrivergli, di non fargli sapere il tuo nuovo indirizzo, e di non frequentare, almeno per po’, i locali in cui potresti incontrarlo?».
Non ho saputo cogliere immediatamente la paura che si leggeva nei suoi occhi, e in ogni caso lei ha risposto, docile:
«Lo prometto».
Intuivo che era spaventata.
«Dove si trova?».
«A due passi da casa mia».
Solo allora è parsa sollevata e mi ha confessato:
«Credevo che volessi spedirmi in campagna».
Perché la campagna le fa paura, un tramonto dietro gli alberi, sia pure di una piazzetta parigina, basta per farla piombare nella più cupa malinconia.
«Quando?».
«Domani».
«Comincio a fare i bagagli?».
Adesso ha di che riempire un baule e due valigie.
«Traslocheremo di notte, quando saremo certi di avere via libera».
Sono andato a prenderla in macchina con Albert alle undici e mezzo di sera, dopo una cena ufficiale con il presidente dell’Ordine degli avvocati. Albert ha portato giù le valigie, mentre io facevo la guardia; cadeva una neve mista a pioggia, e due prostitute che battevano il marciapiede in rue de Ponthieu, dopo aver tentato di adescarmi, hanno assistito, incuriosite, al rapimento.
Da mesi mi tengo su con la speranza di una vita più calma e più facile a partire dal giorno dopo, o dalla settimana seguente. Quando ho comprato l’appartamento di quai d’Orléans ero convinto che tutto si sarebbe sistemato e che andare da Yvette sarebbe divenuta una cosa normale, come per altri portare il cane, mattina e sera, a fare il giro dell’isola.
È inutile che continui questa pratica, se non sono disposto a riferire i fatti in modo esaustivo. Ero tutto eccitato, quasi fossi un giovanotto. L’appartamento è grazioso, femminile, raffinato.
La camera di boulevard Saint-Michel era un posto da marchetta a buon mercato, e quella di rue de Ponthieu da puttanella degli Champs-Qui invece è tutto diverso, quasi un balzo nell’ideale, e perché Yvette non si sentisse troppo spaesata mi sono precipitato in rue Saint-Honoré a comprarle un po’ di biancheria e qualche vestaglia che si armonizzassero con l’arredamento.
Inoltre, perché non le venisse voglia di uscire, almeno per i primi tempi, le ho portato un giradischi, dei dischi, poi un televisore, e ho riempito due ripiani della libreria con libri piuttosto piccanti, come piacciono a lei, evitando però di metterci robaccia.
A sua insaputa ho assunto una cameriera, Jeanine, belloccia, appetitosa e loquace, che le terrà compagnia.
Di tutto questo non ho fatto cenno in presenza di Viviane, ma ho motivo di credere che ne sia al corrente. Durante i tre giorni che ho passato a correre avanti e indietro, ha ostentato nei miei confronti una tenerezza materna e un po’ compassionevole, guardandomi come si guarda un ragazzo che deve superare la crisi adolescenziale.
La terza notte che dormivamo nel nuovo appartamento mi sono svegliato con l’impressione che Yvette, sdraiata al mio fianco, scottasse. Non mi sbagliavo. Quando le ho provato la febbre, verso le quattro del mattino, aveva trentanove, e alle sette il termometro si avvicinava ai quaranta. Ho telefonato a Pémal, che è venuto subito.
«Ha detto quai d’Orléans?» ha chiesto stupito.
Non gli ho dato spiegazioni, e del resto non ce n’era bisogno, visto che mi ha trovato nella camera, accanto a Yvette nuda nel suo letto.
Non era niente di grave, solo una brutta influenza che è durata una settimana, con alti e bassi. Facevo la spola fra le due case e fra queste e il tribunale.
In quell’occasione ho scoperto che Yvette ha una paura matta della morte. Ogni volta che la temperatura ricominciava a salire, lei si aggrappava a me come un animale spaventato, supplicandomi di chiamare il dottore, che mi è capitato di disturbare fino a tre volte in un giorno.
«Non lasciarmi morire, Lucien!» mi supplicava, con gli occhi sbarrati, come se intravedesse chissà quale terrificante aldilà.
«Non voglio. Mai! Resta qui vicino a me!».
Sempre tenendole una mano, telefonavo per spostare appuntamenti, per scusarmi di non poter andare ad altri, e ho persino dovuto chiamare Bordenave per dettarle, accanto al letto di Yvette, delle lettere urgenti.
Mi sono comunque fatto vedere, in tenuta da gran sera, alla Nuit des étoiles, mentre Viviane mi spiava, domandandosi se avrei resistito fino alla fine, se non avrei piantato lì tutto per precipitarmi in quai d’Orléans.
A complicare ulteriormente la situazione ci mancava solo che l’indomani trovassi Mazetti, con la barba sempre più lunga, appostato in quai d’Anjou, davanti a casa mia. Deve aver capito che prima o poi lo porterò fino a Yvette, o forse pensa addirittura che lei abiti qui.
Ho dovuto ricorrere ad Albert, prendere la macchina e fare il giro dell’isola ogni volta che andavo in quai d’Orléans, e lasciare l’appartamento di Yvette solo quando ero sicuro che ci fosse via libera.
Se annoto questi squallidi dettagli è perché hanno una certa importanza e contribuiscono a spiegare lo stato di ottenebramento in cui vivo ancora adesso.
Per fortuna, dopo esser venuto tre volte, Mazetti non è più tornato. Mi aspettavo che salisse, che chiedesse di vedermi, e avevo dato istruzioni in merito. Pensando che potesse essere armato, tenevo la pistola nel cassetto.
Invece è sparito da un giorno all’altro, più o meno nello stesso periodo in cui Yvette ha iniziato a sentirsi meglio.
Si è alzata, quasi ristabilita, ma è ancora debole, e Pémal le ha prescritto le mie stesse iniezioni; ce le fa a entrambi con la stessa siringa, il che sembra divertirla.
Non so se abbia riconosciuto Yvette, la cui foto era apparsa sui giornali in occasione del processo. Forse prova nei miei confronti una sorta di pietà, e pensa anche lui all’estate di San Martino.
Che espressione insopportabile: ho sempre detestato le semplificazioni. Uno dei miei colleghi, di cui si parla quasi quanto di me per via delle sue battute, e che passa per uno degli uomini più spiritosi di Parigi, trova per qualunque cosa una spiegazione tagliente e al tempo stesso semplicistica.
Per lui, il mondo si riduce a pochi tipi umani, la vita a un certo numero di crisi più o meno acute che tutti attraversano prima o poi, a volte senza accorgersene, come da bambini sono passati per le malattie infantili.
È un modo di vedere le cose che ha i suoi pregi, e gli è spesso capitato di disarmare i giudici facendoli ridere con una battuta.
Probabilmente adesso scherza su di me, e le sue spiritosaggini circolano in tribunale e nei salotti. Non è divertente, un uomo della mia età, nella mia posizione - forse aggiunge: della mia intelligenza -, che sconvolge la sua vita e quella di sua moglie perché una sgualdrinella è andata una sera a chiedergli di difenderla e gli ha mostrato il basso ventre?
Quello che mi sorprende, lo confesso, quello che mi turba, è che Mazetti sia innamorato di Yvette, e sarei propenso a credere che, senza di me, non se ne sarebbe affatto curato.
Se un giorno qualcuno leggerà le pagine di questa pratica, noterà che non ho ancora mai scritto la parola «amore», e non è un caso. Io non credo all’amore. Più esattamente, non credo a quello che generalmente si chiama così. Non ho amato Viviane, per esempio, anche se all’epoca di boulevard Malesherbes ero profondamente turbato da lei.
Era la moglie del mio capo, di un uomo famoso che ammiravo, e viveva in un mondo fatto apposta per abbagliare lo studente povero e rozzo che ero ancora fino al giorno prima. Lei era bella e io brutto.
Che lei si concedesse proprio a me era un miracolo che mi colmava improvvisamente di fiducia in me stesso e nel mio destino.
Perché capivo già che cosa la attirasse in me: una certa forza e una volontà inflessibile che le infondevano sicurezza.
È stata la mia amante, è diventata mia moglie. Il suo corpo mi ha dato piacere, ma non ha mai ossessionato i miei sogni, non è mai stato altro che un corpo di donna, e Viviane non ha mai condiviso quella che considero la parte più importante della mia vita sessuale.
Le ero grato di avermi scelto, di aver accettato, per me, quello che allora vedevo come un sacrificio, e soltanto molto tempo dopo ho sospettato la verità su ciò che lei chiamava amore.
Non era forse, prima di tutto, un bisogno di affermarsi, di provare a se stessa e agli altri che era qualcosa di più che una bella donna da vestire, proteggere e portar fuori?
E non c’era soprattutto, in lei, una sete di dominio?
Ebbene, mi ha dominato per vent’anni e si sforza ancora di farlo.
Fino alla storia dell’appartamento di quai d’Orléans viveva abbastanza tranquilla, lasciandomi le briglie sul collo, sicura di sé, certa che sarei tornato da lei dopo una crisi più o meno tumultuosa in cui non scorgeva alcuna minaccia.
E invece, durante quella conversazione dopo pranzo, ho letto sul suo volto la scoperta improvvisa di una minaccia reale. Per la prima volta ha capito che le stavo sfuggendo e che poteva essere per sempre.
Ha reagito come meglio ha potuto. Continua a reggere il gioco, osservandomi più da vicino. So che soffre, la vedo invecchiare ogni giorno, e ogni giorno truccarsi un po’ di più. Ma non è per me che Viviane soffre. È per sé: non solo per la posizione che si è creata con me, ma per l’idea che si è fatta di se stessa e del proprio potere.
Provo pietà per lei, mentre lei, nonostante gli sguardi allarmati che mi lancia, non prova alcuna pietà per me. La sua sollecitudine è interessata: non sta aspettando che io ritrovi la serenità, ma che ritorni da lei. Anche se dovessi tornare ferito a morte. Anche se non dovessi essere più che un corpo vuoto accanto a lei.
Come spiega la mia passione per Yvette? Le altre, quelle che ho avuto prima di lei, le attribuiva alla curiosità, e anche alla vanità maschile, al bisogno che ogni uomo, specie se brutto, ha di provare a se stesso che può avere una donna ai suoi piedi.
Invece per lo più non è andata così, e credo di essere abbastanza lucido su quello che mi riguarda per non sbagliarmi. Se avesse ragione, avrei avuto avventure gratificanti, ad esempio con alcune delle nostre amiche che non mi sarebbe stato difficile sedurre. Il che mi è successo assai di rado, e sempre in momenti di incertezza o di scoramento.
In massima parte sono stato con ragazze più o meno facili, professioniste e non, e quando ci penso scopro che avevano tutte qualche punto in comune con Yvette, cosa che finora mi era sfuggita.
A spingermi verso di loro era probabilmente, innanzitutto, una fame di sesso puro, se così posso esprimermi senza far sorridere, ossia che prescindesse da qualsiasi considerazione sentimentale e passionale. Diciamo sesso allo stato bruto. O cinico.
Mi è capitato, in certi casi perché non ho potuto farne a meno, di ricevere le confidenze di alcuni clienti, uomini e donne, e mi sono reso conto che non costituisco un’eccezione, che l’essere umano sente il bisogno di comportarsi a volte come un animale.
Forse ho sbagliato a non avere il coraggio di mostrarmi a Viviane sotto questa luce, ma non mi sarebbe mai venuto in mente. Chissà se lei non me lo rimprovera, se non le è capitato di cercare altrove analoghe soddisfazioni...
È successo a molte nostre amiche, a quasi tutti i nostri amici; del resto, se questo istinto non fosse quasi universale, la prostituzione non sarebbe esistita in ogni tempo, e a ogni latitudine.
È un pezzo che non ho rapporti con Viviane, e lei attribuisce questa freddezza alle preoccupazioni, al lavoro, senz’altro anche alla mia età.
Con Yvette, invece, non posso restare un’ora senza provare il bisogno di vedere la sua nudità, di toccarla, di chiederle delle carezze.
E non solo perché non mi intimidisce, perché è una ragazzina senza importanza, e neanche perché con lei non ho pudori.
Domani, magari, penserò o scriverò il contrario, ma ne dubito.
Yvette, come la maggior parte delle ragazze da cui mi sono sentito attratto, incarna ai miei occhi la femmina, con le sue debolezze, le sue vigliaccherie, e anche con il suo istinto di aggrapparsi al maschio e diventarne la schiava.
La rivedo, stupefatta e orgogliosa, il giorno in cui l’ho schiaffeggiata; le è capitato altre volte, da allora, di provocarmi al solo scopo di farmelo rifare.
Non sto dicendo che mi ama. Questa parola non voglio usarla.
Ma ha rinunciato a essere se stessa. Ha messo il suo destino nelle mie mani. Non mi importa se è per pigrizia o debolezza. È il ruolo che le spetta - e, forse ingenuamente, il modo in cui, dopo avermi chiesto di sostenere la sua difesa, ha aperto le cosce sull’angolo della mia scrivania mi appare carico di significato.
Se domani la abbandonassi, ritornerebbe a essere una cagna randagia alla ricerca di un padrone.
Questo, Mazetti non può averlo capito. Ha sbagliato donna. Non si è accorto di avere a che fare con una femmina.
Lei mente, imbroglia, simula. S’inventa delle storie per commuovermi e, adesso che ha il pane assicurato, si crogiola nell’ozio: ci sono giorni in cui esce a malapena dal letto, davanti al quale ha fatto portare il televisore.
La vista di un maschio la mette in calore, e per strada guarda i pantaloni degli uomini, in un punto preciso, con la stessa insistenza con cui gli uomini guardano il sedere alle passanti. A volte, per eccitarla, è bastata la foto pubblicitaria di un paio di mutande o di un costume da bagno su una rivista.
Con Mazetti ha fatto tutto quello che ha fatto con me. L’ha fatto anche con altri, da quando è diventata donna. Nessuna parte del maschio, nessuna delle sue esigenze le provoca disgusto.
Io soffro quando so che è tra le braccia di un altro, non posso impedirmi di immaginare ogni loro gesto; eppure non sarebbe lei se non agisse così.
L’avrei scelta lo stesso?
Ho scritto di proposito questa parola perché, la prima volta che venne da me, si sarebbe detto che la stessi aspettando, e fu allora che decisi.
Per via dell’età?
Forse. Ma non si tratta di quella che chiamano estate di San Martino. E neppure di climaterio, né di impotenza, e ancor meno del bisogno di una partner più giovane.
So di toccare un problema complesso, che quasi sempre viene trattato in tono scherzoso, perché è più facile e più rassicurante.
In generale si scherza solo su quello di cui si ha paura.
Perché, a un certo grado di maturità, l’uomo non potrebbe scoprire che...
No! Non riesco a esprimere esattamente quello che sento, e le approssimazioni mi irritano.
I fatti!
Il fatto essenziale è che non posso fare a meno di lei, che soffro fisicamente quando non le sono vicino. Che ho bisogno di sentirla accanto a me, di guardarla vivere, di respirare il suo odore, di giocare con il suo sesso e di sapere che è soddisfatta.
Rimane una spiegazione, ma nessuno ci crederà: la volontà di rendere felice qualcuno, di prendersene cura totalmente, qualcuno che ti deva tutto, che fai uscire dal nulla sapendo che ci ritornerà se gli vieni a mancare tu.
Non è per questo che tanti hanno un cane o un gatto, dei canarini o dei pesci rossi, e i genitori non si rassegnano a vedere i figli andare a vivere da soli?
E non è proprio quello che è successo a Viviane, e per cui adesso soffre nel vedere che le sfuggo? Non ho sofferto anch’io, ogni sabato, immaginando Mazetti in rue de Ponthieu?
E un tempo il presidente Andrieu?
Oggi è sabato, e stasera potrò andare da lei. Non ci sono più sabati maledetti, sabati crudeli. Sono stanco, sono allo stremo delle forze, vado avanti come una macchina con i freni rotti, ma lei sta a centocinquanta metri da me e non soffro.
Questo non significa che sia felice, ma almeno non soffro.
Mi aspettano altri guai, intuisco che sono pronti ad avventarsi su di me appena penserò di potermi rilassare. La cosa che mi preoccupa di più è che la mia carcassa non regga. Tutti questi sguardi apprensivi o compassionevoli cominciano a farmi paura. Che cosa accadrebbe se mi ammalassi e fossi costretto a stare a letto?
Se mi capitasse mentre lavoro, non potrei certo pretendere di essere portato in quai d’Orléans. E se poi non fossi neppure in grado di esprimere la mia volontà?
E se stessi male da lei, Viviane non verrebbe forse a prendermi?
Ma io non voglio a nessun costo essere separato da Yvette. Perciò bisogna che resista, e domani chiederò a Pémal se non è meglio che consulti un luminare della medicina.
Tra un’ora Viviane e io andiamo a cena dall’ambasciatore sudamericano. Mia moglie si sta già vestendo: indosserà un vestito nuovo che si è fatta fare per l’occasione, perché sarà un ricevimento in pompa magna; io sono costretto a mettermi il frac, e questo significa che dopo mi toccherà venire a cambiarmi per andare in quai d’Orléans.
La convalescenza di Yvette, la sua debolezza attuale non dureranno in eterno. Per il momento, la sua nuova esistenza da reclusa la diverte ancora. Ieri, mentre Jeanine, la cameriera, ci portava il tè, mi ha detto:
«Dovresti fare l’amore anche con lei. Sarebbe un po’ come stare in un harem».
Jeanine, che ci girava le spalle, non ha protestato, e sono convinto che la cosa piacerebbe anche a lei.
«Vedrai! Ha un bel culo, e poi ha dei peli tutti biondi».
Per quanto tempo le basterà giocare all’harem? Quando uscirà di nuovo, vivrò nell’angoscia, non solo per paura di Mazetti, che potrebbe incontrare per caso, ma per paura che ricominci con un altro.
Non sarebbe capace, appena fuori, di correre in quai de Javel, nonostante la promessa?
Non posso portarle degli amanti a domicilio, e prima o poi lei ne avrà voglia, anche solo dopo aver visto un uomo di un certo tipo passare per strada.
Soltanto Jeanine, ovviamente, considera naturale la nostra situazione. Non so dove abbia lavorato finora, mi pare che la direttrice dell’ufficio di collocamento mi abbia parlato di un albergo a Vichy o in un’altra città termale.
Bussano alla porta. In cima alle scale c’è Albert, e prima ancora che apra bocca ho già capito.
«Dica alla signora che salgo subito».
È ora di vestirmi, e prima bisogna che vada a dare qualche istruzione a Bordenave, che non ha finito di sbrigare la corrispondenza. Con lei c’è il giovane Duret, che la guarda lavorare stando a cavalcioni su una sedia. Sa che questo le dà un enorme fastidio, e sa anche di non piacerle; e lo fa apposta per farla arrabbiare.
Lui non mi guarda né con pietà né con ironia. Tutto lo diverte, come il fatto di stuzzicare Bordenave sino a farla piangere, e senz’altro anche quello che sa della mia storia.
«Ha finito la lettera PalutRinfret?».
«Eccola. Tra dieci minuti la corrispondenza sarà pronta per la firma. Gliela porto su?».
«Sì, grazie».
Ci vorrebbe così poco per renderla felice! Basterebbe un centesimo, un millesimo di quello che do a Yvette. Si accontenterebbe anche delle briciole, e andrebbe in brodo di giuggiole. Perché, allora, non ce la faccio proprio?
Una volta, durante la malattia di Yvette, ho temuto che Bordenave stesse per sentirsi male, tanto soffriva della nostra intimità.
Yvette, peraltro, faceva apposta a chiamarmi Lucien, a esigere da me ogni minima attenzione, così come ha fatto apposta a uscire dal letto, come al solito nuda, per andare in bagno.
Troverò mia moglie in sottoveste davanti alla toeletta, perché aspetta sempre che io sia pronto prima di infilarsi il vestito, e mi annuncerà:
«Manca un quarto d’ora».
«Basterà».
«Stavi lavorando?».
«Sì».
Anche se non si può dire che s’interessi a quello che succede in ufficio, è insospettita da questo fascicolo che mi ha visto richiudere un giorno che è passata a salutarmi prima di uscire, e credo che abbia capito. Per tutto quanto mi riguarda è come se avesse le antenne, il che mi dà un certo fastidio. Non mi piace che mi si legga nel pensiero, soprattutto quando, come spesso accade, si tratta di piccole debolezze che uno preferirebbe nascondere anche a se stesso.
Devo salire e non riesco a decidermi. Dopo aver tanto cercato la verità, ho l’impressione di esserne lontano come prima, se non di più. Dall’ambasciatore ci sarà un mucchio di gente, e io mi ritroverò seduto alla destra della sua giovane moglie che avrà occhi solo per lui.
Mi chiedo se questa coppia contraddica le mie teorie - ammesso che si possa parlare di teorie -, o se per saperlo ci vogliono ancora dieci o vent’anni.
Viviane si starà spazientendo, e io so perché perdo tempo, perché esito. Quando ho sistemato Yvette in quai d’Orléans prevedevo che sarebbe successo.
Era la tappa più pericolosa, perché, andando avanti così, non rimane ormai che un passo da compiere.
Questa resistenza a salire, ad affrontare Viviane, è un po’ come un campanello d’allarme.
Andiamo! La faccio già penare abbastanza e non è il caso di indispettirla ulteriormente con il mio ritardo.
Non mi resta che riporre il fascicolo e nascondere la chiave dietro le opere complete di SaintSimon.
6.
Mercoledì 30 novembre.
È venuto, e non poteva scegliere un giorno e un’ora peggiori.
Domenica sera Yvette era uscita per la prima volta da quando abita in guai d’Orléans, dopo che mi ero assicurato che nessuno si aggirasse nei dintorni. Mi ha preso il braccio e, mentre camminavamo, vi si è appoggiata, con quel gesto che ho spesso invidiato alle coppie di innamorati. Nonostante il freddo, ce n’erano alcune sedute sulle panchine, nello square Notre-Dame, e questo mi ha fatto pensare ai miei barboni del Pont-Marie. Ho parlato di loro a Yvette.
«Erano scomparsi da un po’ di tempo,» le ho raccontato «e invece stamattina erano di nuovo in due sotto le coperte».
L’ha colpita il fatto che un uomo della mia posizione si interessi a persone del genere, l’ho capito dallo sguardo che mi ha lanciato: era come se questo mi avvicinasse un po’ a lei.
«Li osservi con un binocolo?».
«Non ci ho mai pensato».
«Io lo farei».
«Aspetta. Stamattina, dunque, la donna si è alzata per prima e ha acceso il fuoco tra due pietre. Quando l’uomo è emerso a sua volta dal mucchio di stracci, mi sono accorto che aveva i capelli rossi, che non era più lo stesso di prima. Questo è più alto, più giovane».
«Forse l’altro l’hanno messo in prigione...».
«Può darsi».
Abbiamo cenato alla Rôtisserie Périgourdine, dove ha scelto i piatti più elaborati, poi siamo entrati in un cinema di boulevard Saint-Michel. Mi è parso che, scorgendo in lontananza l’albergo in cui l’avevo sistemata dopo il processo, si sia rabbuiata in viso. Già adesso le sarebbe difficile tornare a vivere nella miseria, o anche solo a fare una vita modesta. L’appartamento di Miss Wilson sta producendo il suo effetto. Anche la strada, dove soffiava un vento freddo e le persone camminavano in fretta, le faceva un po’ paura.
Davano un film triste, e più volte la sua mano ha cercato la mia nell’oscurità. Uscendo, le ho chiesto cosa desiderasse fare, e senza esitare ha risposto:
«Tornare a casa».
Sono rimasto tanto più stupito in quanto, ancora ai tempi di rue de Ponthieu, procrastinava sempre il momento di rientrare. Per la prima volta si sente al sicuro, ha l’impressione di avere una casa sua.
L’ho lasciata di buonora perché il lunedì avevo una mattinata molto piena, come quasi tutte del resto. Da un mese a questa parte o piove o tira vento, e non abbiamo mai avuto più di una mezza giornata di sole. La gente è raffreddata, irascibile. In tribunale molte cause hanno dovuto essere rimandate perché l’una o l’altra delle parti aveva l’influenza.
La sera, io e mia moglie dovevamo andare a cena da Corine, dove raramente ci si mette a tavola prima delle nove e mezzo, e dove da qualche giorno regna una certa effervescenza. Il paese è privo di governo. Tutti i possibili candidati alla Presidenza del Consiglio sono stati convocati all’Eliseo, tutte le combinazioni sono state prese in esame, e si dice che Moriat sarà l’uomo dell’ultimo minuto, anzi che ha già in tasca l’incarico. Secondo Viviane vuole costituire, come è consigliabile quando la gente appare sfiduciata, un governo di tecnici, scelti al di fuori dell’àmbito dei politici.
«Se non fosse per quei casi un po’ troppo scabrosi di cui ti sei occupato, nessuno ti toglierebbe la carica di guardasigilli» ha aggiunto mia moglie.
Io non ci avrei mai pensato; lei sì. È curioso però che proprio Viviane mi rimproveri implicitamente di aver accettato certe cause: forse ha dimenticato la faccenda di Sully.
Ho lasciato il tribunale abbastanza presto, qualche minuto prima delle sei, e sono andato in quai d’Orléans, dove ho trovato Yvette davanti al fuoco, con indosso una vestaglia nuova.
«Sei tutto freddo» ha osservato quando l’ho baciata. «Vieni subito a scaldarti».
All’inizio ho pensato che fossero le fiamme del camino a conferire ai suoi occhi uno scintillio insolito, un’espressione da bambina maliziosa. Poi ho immaginato che mi riservasse una qualche sorpresa, data l’incredibile rapidità con cui preparava i Martini mentre mi scaldavo, seduto su un pouf.
«Ti ricordi quello che ti ho detto l’altro giorno?».
Non sapevo ancora a che cosa alludesse.
«Oggi ne abbiamo parlato. Non sto scherzando. Jeanine sarebbe contenta. Mi ha detto che da due mesi non ha un ragazzo e che ogni volta che noi due facciamo l’amore lei è costretta ad accarezzarsi in cucina».
Aveva vuotato il suo bicchiere e adesso spiava la mia reazione.
«La chiamo?».
Non ho osato dire di no. È andata verso la porta.
«Jeanine! Vieni».
Poi, rivolgendosi a me:
«Posso dare un Martini anche a lei? Ne ho preparati tre».
Era sovreccitata.
«Vado a sistemare le luci, mentre tu la spogli. Sì! Lo devi fare tu, perché la prima volta una donna prova sempre un certo imbarazzo a togliersi i vestiti. Vero, Jeanine?».
Molti fra i miei amici, o clienti, hanno una qualche mania o perversione sessuale; in me non ne ho mai scoperte. Mi sono accinto quasi di malavoglia a spogliare quella ragazzotta bionda, che rideva con la scusa che le facevo il solletico.
«Te l’avevo detto che è ben fatta. Non è vero forse? I suoi seni sono il triplo dei miei, eppure sono altrettanto sodi. Toccali, e vedrai come si drizzano le punte».
«Tu hai provato?».
«Oggi pomeriggio».
Allora ho capito il perché dell’atmosfera che avevo trovato entrando nell’appartamento.
«Dài, spogliati anche tu, così ce la spassiamo insieme tutti e tre».
Ne hanno parlato prima, delineando un programma abbastanza preciso, e quello che mi sorprende è che tutto si sia svolto senza volgarità.
«Accarezza lei, io non ne ho bisogno».
Poco dopo, ha insistito per prendere il mio posto.
«Lascia fare a me. Tu stà a vedere».
È tutta fiera di dimostrarmi che è in grado di procurare piacere a una donna come potrei farlo io, fiera anche, non tanto della bellezza del suo corpo, che non ha niente di straordinario, ma dell’uso che ne fa, della sua abilità a provocare piacere.
«Guarda, Jeanine, e poi proverai a fare la stessa cosa».
Puro esibizionismo infantile. Per due ore si è comportata come quei musicisti jazz che improvvisano all’infinito delle variazioni su un tema e i cui occhi ridono a ogni nuova scoperta.
«Non mi avevi mai detto di aver avuto esperienze con le donne».
«Lo facevamo io e Noémie, quando dormivamo nello stesso letto.
All’inizio lei non voleva, poi era diventata un’abitudine: mi svegliava quasi ogni notte prendendomi una mano e posandosela sul ventre.
«“Ti va?” mormorava, senza svegliarsi del tutto.
«Noémie era una gran pigrona, che si lasciava fare senza muoversi e poi si riaddormentava subito».
A un certo punto, Yvette ha detto una cosa che mi ha colpito. Ci aveva già servito due volte da bere e aveva bevuto anche lei.
«È strano» ha osservato «che mi piaccia ancora tanto, dopo che sono stata costretta a farlo così spesso per poter mangiare e per non dover dormire per strada. Non trovi?».
Eravamo nudi tutti e tre quando nella stanza è risuonato uno squillo di telefono e, benché si tratti di un rumore impersonale, ho subito pensato che era mia moglie. Ha pronunciato una sola frase:
«Sono le nove, Lucien».
Come colto in fallo, ho risposto:
«Vengo subito».
Ho saputo dopo, tornando da rue Saint-Dominique, dove non avevamo visto Moriat, che quando sono andato via Yvette e Jeanine non si sono rivestite, e hanno continuato a bere Martini chiacchierando e divertendosi ogni tanto con i loro corpi. Anziché cenare, si sono limitate a piluccare qualcosa dal frigorifero.
«Peccato che tu sia stato costretto ad andare via. Non puoi immaginare com’è divertente Jeanine quando si scatena. Si direbbe che sia fatta di gomma, può assumere pose degne di un acrobata da circo».
Stamattina mi sentivo come svuotato. Non sto dicendo che avevo la coscienza sporca, né che mi vergognavo, ma questa esperienza mi ha lasciato una sensazione strana e una sorta di ansia.
Forse dipende dal fatto che, da qualche tempo, intravedo la prossima tappa. Cerco di non pensarci, di persuadermi che stiamo bene così, che non c’è più alcun motivo di cambiare le cose.
È lo stesso ragionamento che ho fatto quando ho preso in affitto per Yvette la camera di boulevard Saint-Michel, e poi quando l’ho sistemata in rue de Ponthieu. Dal giorno in cui l’ho conosciuta una forza oscura mi sospinge in avanti, a prescindere dalla mia volontà.
Faccio sempre più fatica a rimanere a quattr’occhi con Viviane, ad andare con lei ai ricevimenti, ad adempiere alle funzioni di marito, di compagno, mentre Yvette si immalinconisce ad aspettarmi.
Ma è poi vero che si immalinconisce? Sono propenso a crederlo. Da parte mia, sento sempre la stessa «mancanza», lo stesso squilibrio angosciante non appena sono lontano da lei.
Verrà il momento in cui prenderò in considerazione l’unica soluzione accettabile: renderla interamente partecipe della mia vita.
So bene che cosa significa questo, e quali ne saranno le conseguenze inevitabili. Per ora mi sembra ancora impossibile, ma ho visto tanti sogni realizzarsi con il passare del tempo!
Un anno fa, anzi solo tre mesi fa, anche il quai d’Orléans sarebbe sembrato impossibile.
Viviane lo sente e si prepara alla lotta, perché non cederà senza essersi battuta fino all’ultimo sangue. E non avrò contro soltanto lei, ma il mondo intero, il tribunale, i giornali, i nostri amici, che sono più suoi che miei.
Ma è prematuro pensarci. Al momento, tutto questo appartiene alla sfera dei sogni. Mi aggrappo al presente, mi sforzo di adeguarmici e di trovarlo accettabile. Rimango comunque abbastanza lucido da capire che le cose prima o poi cambieranno.
Proprio per questo la nostra partouze dell’altro ieri mi preoccupa.
Se è successo una volta, succederà ancora. Può darsi che serva a far sì che Yvette non vada a cercare piacere altrove, ma è anche possibile che la cosa non finisca qui, e che quello che si è verificato in quai d’Orléans sia destinato a ripetersi in futuro in quai d’Anjou.
Mercoledì mattina, dopo una doccia fredda, ero nel mio studio fin dalle otto e un quarto, per fare qualche telefonata e sbrigare l’ordinaria amministrazione prima della riunione prevista per le nove.
I tre uomini sono arrivati puntuali, e ci siamo messi subito al lavoro, mentre Bordenave badava a che non fossimo disturbati.
Si tratta di un affare molto grosso: Joseph Bocca, e senz’altro alcuni personaggi che stanno dietro di lui, intendono rilevare una catena di grandi alberghi. Uno dei miei interlocutori era il successore di Coutelle, che è andato in pensione a Fécamp: un ragazzo più giovane, che si fregia del titolo di conte e frequenta assiduamente Fouquet” s e Maxim” s, dove l’ho visto più di una volta.
Il nostro interlocutore era un avvocato, con cui sono in ottimi rapporti, che rappresentava i venditori ed era accompagnato da un signore grasso e timido che portava una pesante cartella e si è rivelato un abilissimo esperto di diritto societario.
L’operazione non ha niente di equivoco. Si tratta solo di regolarne le modalità in modo da riuscire a pagare il meno possibile di tasse.
Il signore grasso ha offerto dei sigari e, alle dieci del mattino, l’aria del mio ufficio era già azzurrina e l’odore quello di un fumoir dopo cena. Di tanto in tanto sentivo squillare il telefono nell’ufficio accanto, ma sapevo che Bordenave era lì per rispondere, e perciò non mi preoccupavo. Da molto tempo ha ordine di disturbarmi durante qualunque lavoro, qualunque conversazione, appena chiama Yvette, ed è già successo più volte. Immagino quanto le sia costato obbedirmi.
Erano appena passate le dieci e mezzo, e la nostra riunione era ancora in corso, quando ho sentito bussare leggermente alla porta.
Poi Bordenave è entrata senza aspettare, come le ho raccomandato di fare, si è avvicinata alla scrivania, ci ha posato un biglietto da visita ed è rimasta lì in attesa di una risposta.
C’era una sola parola, scritta con la biro, un nome: Mazetti.
«È qui?».
«Da una mezz’ora».
Il volto di Bordenave aveva un’espressione grave e preoccupata, il che mi fa supporre che sapesse di cosa si trattava.
«Gli ha detto che sono in riunione?».
«Sì».
«Non l’ha pregato di tornare?».
«Ha risposto che preferisce aspettare. Un attimo fa mi ha chiesto di portarle il suo biglietto, e io non ho osato contrariarlo».
Il mio collega e gli altri due parlavano a mezza voce, per discrezione, per aver l’aria di non ascoltare.
«Com’è?».
«Più impaziente di quando è arrivato».
«Gli ripeta che sono occupato e che mi spiace di non poterlo ricevere immediatamente. Può aspettare o tornare, veda un po’ lui».
Allora ho capito perché mi aveva disturbato.
«Non devo chiamare nessuno?».
Suppongo che si riferisse alla polizia. Ho fatto segno di no con la testa, meno tranquillo di quanto volessi sembrare. Quella visita non mi avrebbe preoccupato tanto quindici giorni fa, quando Mazetti andava avanti e indietro sotto le mie finestre, perché allora sarebbe stata una reazione naturale. Non mi piace che riappaia così, dopo che per due settimane non ha dato segno di vita. Non corrisponde alle mie previsioni, sento che c’è qualcosa che non va.
«Signori, chiedo scusa per questa interruzione. Dove eravamo rimasti?».
«Se si tratta di una questione importante, possiamo anche rivederci domani...».
«Niente affatto».
Ho mantenuto il controllo di me per il resto della discussione, circa tre quarti d’ora, e credo di non essermi mai distratto. In tribunale sostengono che sono capace di scrivere il testo di un’arringa difficile e intanto dettare la corrispondenza e fare pure qualche telefonata. Si tratta, è ovvio, di un’esagerazione, ma è vero che posso seguire contemporaneamente due idee senza perdere il filo dell’una o dell’altra.
Alle undici e un quarto i miei visitatori si sono alzati, il signore piccolo e grosso ha riposto i suoi documenti nella cartella, ha offerto di nuovo sigari a tutti, come per ricompensarci, e ci siamo stretti la mano davanti alla porta.
Una volta rimasto solo, ho avuto appena il tempo di tornare a sedermi sulla mia poltrona che ho visto entrare Bordenave.
«Adesso lo riceve?».
«È sempre nervoso?».
«Non so se si possa chiamare nervosismo. Quello che non mi piace è il suo sguardo fisso, oltre al fatto che parla da solo in sala d’attesa. Crede di far bene a...?».
«Lo introdurrà appena suonerò».
Ho fatto qualche passo in lungo e in largo, senza una ragione precisa, come un atleta che si scaldi i muscoli prima di una gara. Ho gettato un’occhiata alla Senna, poi, sedendomi, ho aperto il cassetto dove si trova la pistola automatica. L’ho coperta con un foglio di carta perché fosse a portata di mano ma senza che lui potesse vederla e prenderla quindi come una provocazione. So che è carica, e non spingo la mia prudenza fino al punto di togliere la sicura.
Premo il pulsante e aspetto. Bordenave deve andare a prendere il mio visitatore nella sala d’attesa, quella piccola, immagino, dove, un anno fa, anche Yvette ha aspettato a lungo. Sento i passi di due persone che si avvicinano, un colpetto discreto, e il battente della porta che si muove.
Mazetti avanza di circa un metro e mi sembra più piccolo di come lo ricordavo, più goffo anche, con l’aspetto di un operaio più che di uno studente.
«Desiderava parlarmi?».
Gli indico la poltrona di fronte alla mia scrivania, ma lui aspetta in piedi che la mia segretaria abbia richiuso la porta, e tende l’orecchio per assicurarsi che si sia allontanata.
Ha visto uscire i miei tre visitatori. L’aria è ancora impregnata di fumo, e nel portacenere ci sono dei mozziconi di sigaro. Ha registrato tutto, e dunque sa che Bordenave non gli ha mentito.
È rasato di fresco, vestito in maniera appropriata. Non porta soprabito, ma un giubbotto di pelle, perché gira sempre in moto. Mi sembra dimagrito, e ha gli occhi infossati. Credevo che fosse bello, ma non lo è. Ha gli occhi troppo ravvicinati e il naso un po’ storto, forse a seguito di una frattura. Non mi impressiona, anzi mi fa pietà, e per un attimo immagino che sia venuto a farmi delle confidenze.
«Si sieda».
Rifiuta, non ha voglia di sedersi. In piedi, con le braccia penzoloni, esita, apre due o tre volte la bocca prima di articolare:
«Ho bisogno di sapere dov’è».
La voce è rauca, non ha avuto il tempo di accordarla, né di assuefarsi all’atmosfera piuttosto solenne del mio studio, sovrastato da quella galleria che ha intimidito ben altri che lui.
Non mi aspettavo subito una domanda così semplice e diretta, ed esito un attimo prima di rispondere.
«Mi permetta di chiederle, innanzitutto, che cosa la rende così sicuro che io sappia dove si trova».
Nessuno dei due ha fatto il nome di Yvette, come se non ce ne fosse bisogno.
Le sue labbra si sono piegate in un sorriso amaro. Senza lasciargli il tempo di replicare, ho proseguito:
«E anche ammesso che io lo sappia, se lei ha deciso di non far sapere dove si trova, non ho nessun diritto di comunicarglielo».
Fissa il cassetto semiaperto e ripete:
«Ho bisogno di vederla».
Mi dà fastidio che resti in piedi mentre io sono seduto, e non oso alzarmi perché voglio continuare ad avere sottomano la pistola. La situazione è ridicola, e non vorrei per niente al mondo che la nostra conversazione fosse registrata da una cinepresa o da un magnetofono.
Quanti anni avrà? Ventidue? Ventitré? Finora ho pensato a lui come a un uomo - il maschio che perseguitava Yvette -, ed ecco che improvvisamente mi appare come un ragazzino.
«Mi ascolti, Mazetti...».
Neanche la mia voce è normale. Cerco il tono giusto senza trovarlo, e il risultato non mi soddisfa per niente.
«La persona di cui lei parla ha preso una decisione e gliel’ha comunicata onestamente...».
«È stato lei a dettarle la lettera».
Non posso impedirmi di arrossire.
«Anche se fosse vero, l’ha scritta lei, sapendo bene quel che faceva. Ha dunque deciso del proprio avvenire in piena consapevolezza».
Alza gli occhi per lanciarmi uno sguardo triste e duro allo stesso tempo. Comincio a capire quello che intendeva Bordenave.
Forse a causa delle sopracciglia folte che si congiungono in mezzo alla fronte, il suo viso assume un’espressione subdola, e si avverte in lui una violenza contenuta che potrebbe esplodere da un momento all’altro.
Perché non esplode? Che cosa lo trattiene dall’alzare la voce e dal coprirmi di insulti e di rimproveri? Non sarà soprattutto il fatto che sono un uomo importante e conosciuto, e che l’ambiente sfarzoso in cui lo ricevo gli incute una certa soggezione?
Lui è figlio di un muratore e di una lavapiatti, è stato allevato con i suoi fratelli in un quartiere povero e ha sentito parlare dei padroni come di esseri inaccessibili. Ai suoi occhi, gli uomini che appartengono a un ceto sociale elevato sono fatti di una pasta diversa dalla sua. Anch’io ho provato un sentimento molto simile, ai miei inizi in boulevard Malesherbes, eppure non avevo un retaggio di miseria così pesante.
«Voglio vederla» ripete. «Ho qualcosa da dirle».
«Mi spiace di non essere in condizione di aiutarla».
«Si rifiuta di darmi il suo indirizzo?».
«Mi dispiace».
«È ancora a Parigi?».
Ha cercato di giocare d’astuzia, di prendere vie traverse, come avrebbe fatto Yvette. Lo guardo senza dir niente e lui riprende con voce più sorda, a testa bassa, senza guardarmi:
«Non ha il diritto di agire così. Lei sa che la amo».
Forse faccio male a rispondere:
«Ma Yvette non ama lei».
Devo mettermi a dissertare d’amore con un ragazzo, a tentare di dimostrargli che Yvette appartiene a me, a discutere dei nostri rispettivi diritti a possederla?
«Mi dia il suo indirizzo» ripete, senza demordere.
E, siccome mette la mano in tasca, mi avvicino impercettibilmente al cassetto aperto. Questo, lo capisce subito. Stava solo prendendo il fazzoletto, perché ha il raffreddore, e mormora:
«Non abbia paura, non sono armato».
«Non ho paura».
«Allora mi dica dove si trova».
Che cosa è andato rimuginando in questi quindici giorni in cui non ha dato segno di vita? Lo ignoro: tra me e lui c’è una barriera. Mi aspettavo una reazione violenta e mi trovo davanti un che di ovattato, di malsano, di inquietante. Ho perfino pensato che si fosse introdotto nel mio studio con l’intenzione di suicidarsi qui.
«Me lo dica. Le prometto che sarà lei a decidere».
Quindi aggiunge, per tentarmi:
«In fondo, che cos’ha da temere?».
«Lei non vuole rivederla».
«Perché?».
Cosa rispondere a questa domanda?
«Mi spiace, Mazetti. La prego di non insistere, perché la mia posizione non cambierà. Mi creda, la dimenticherà presto, e allora...».
Mi sono fermato in tempo. Non potevo comunque arrivare al punto di dirgli:
«...e allora me ne sarà grato».
In quel momento ho sentito una vampata di calore salirmi alle guance, perché mi è tornata in mente un’immagine del giorno prima, i nostri tre corpi nudi nel riflesso tremulo di uno specchio.
«Glielo chiedo ancora...».
«La risposta è no».
«Si rende conto di quello che fa?».
«Da molto tempo sono abituato ad assumermi la responsabilità delle mie azioni».
Mi sembrava di recitare un testo mediocre in un dramma di quart’ordine.
«Un giorno se ne pentirà».
«Sono affari miei».
«Lei è crudele. Sta commettendo una cattiva azione».
Perché, oltretutto, mi diceva delle parole che non mi aspettavo, con un atteggiamento che mal si accordava all’energia animalesca del suo giovane corpo? Sarebbe stato il colmo se si fosse messo a piangere, e forse stava per farlo, perché gli ho visto tremare le labbra. Era rabbia repressa?
«Una cattiva azione e una vigliaccheria, avvocato Gobillot».
Sentirgli pronunciare il mio nome mi ha fatto trasalire, e quell’«avvocato» che lo precedeva ha introdotto all’improvviso nella nostra conversazione una curiosa nota di formalismo.
«Ancora una volta, mi spiace deluderla».
«Come sta, lei?».
«Bene».
«Non ha parlato di me?».
«No».
«E...».
Ha visto che premevo il pulsante, esasperato.
«Se ne pentirà».
Bordenave, che stava all’erta, ha aperto la porta.
«Riaccompagni il signor Mazetti».
Allora, in piedi in mezzo alla stanza, lui ci ha squadrati entrambi con quel suo sguardo torvo che è durato un’eternità. Ha aperto la bocca senza dir niente, limitandosi ad abbassare la testa e a dirigersi verso l’uscita. Io sono rimasto immobile per un po’, e quando ho sentito il motore della motocicletta che si avviava mi sono precipitato alla finestra, e l’ho visto, con il giubbotto di pelle, a capo scoperto, i capelli ricci al vento di novembre, scomparire in rue des Deux-Ponts.
Se avessi avuto in studio qualcosa di forte, ne avrei bevuto un bicchiere, per far passare il gusto amaro che mi era rimasto in bocca e che mi sembrava quello della vita.
Questo incontro, più che preoccuparmi, mi ha turbato. Sento che mi porrò nuove domande, alle quali non sarà facile rispondere.
Ho dovuto interrompermi perché è arrivata la telefonata di un avversario che mi chiedeva se ero d’accordo su un certo rinvio. Ho detto di sì senza discutere, con sua grande sorpresa. Poi ho chiamato Bordenave e, evitando qualsiasi allusione alla visita che avevo appena ricevuto, ho dettato per un’ora e mezzo, dopodiché sono salito per il pranzo.
C’è una vecchia domanda che mi tormenta, che mi ha spesso tormentato e che finisco sempre per eludere, a meno che non mi accontenti di una spiegazione solo in parte soddisfacente. Fin dall’adolescenza, o meglio fin dalla mia infanzia in rue Visconti, ho smesso di credere alla morale convenzionale, quella che si impara sui libri di scuola e che si ritrova più tardi nei discorsi ufficiali e negli articoli dei giornali benpensanti.
Vent’anni in una professione come la mia, la frequentazione della cosiddetta società parigina, compresi le Corine e i Moriat, non hanno certo contribuito a farmi cambiare opinione.
Quando ho portato via Viviane all’avvocato Andrieu, non mi sono considerato un mascalzone, né mi sono sentito colpevole, non più di quando ho sistemato Yvette in boulevard Saint-Michel.
E nemmeno ieri, quando Jeanine si è unita ai nostri giochi davanti al grande specchio dove Yvette si divertiva a guardarci, ho provato sensi di colpa. A Sully, invece, la sera in cui ho accettato le proposte di Joseph Bocca, mi sentivo ignobile, perché allora era una questione di principio, perché quella storia non corrispondeva all’idea che mi ero fatto della mia carriera.
In seguito è successo altre volte, soprattutto in campo professionale, perché mi capita di invidiare la fama di integrità di alcuni miei colleghi, o la serenità delle donnette che escono dalla messa.
Non mi pento di niente, non credo a niente. Non ho mai provato rimorsi, ma quello che mi turba ogni tanto è che mi invade la nostalgia di una vita diversa, di una vita che assomigli, per essere chiari, a quella dei discorsi di fine anno e dei libri illustrati.
Mi sono forse sbagliato sul mio conto fin dall’inizio della mia esistenza? Mio padre ha forse conosciuto queste mie stesse angosce e il rimpianto di non essere un marito e un padre di famiglia come gli altri?
Quali altri? L’esperienza mi ha insegnato che le «famiglie come le altre» non esistono, che basta grattare la superficie e andare in fondo alle cose per ritrovare gli stessi uomini, le stesse donne, le stesse tentazioni e gli stessi cedimenti. Cambia solo la facciata, il grado di franchezza o di discrezione - o di illusioni?
Allora perché, in questo caso, mi sento sempre a disagio, come se fosse possibile comportarsi in modo diverso?
Mi chiedo se una persona come Viviane conosca gli stessi turbamenti.
La trovo di sopra, semplice e austera in un abito di lana scura ravvivato solo da una spilla di diamanti.
«Ti sei dimenticato che è il giorno dell’asta Sauget all’Hôtel Drouot?».
Da quando ho acquistato l’appartamento di quai d’Orléans è stata presa dalla frenesia di spendere, soprattutto per oggetti personali, e in particolare gioielli, come per vendicarsi, o per cercare una compensazione. L’asta Sauget è un’asta di gioielli.
«Stanco?».
«Non troppo».
«Hai delle udienze, oggi?».
«Due cause di nessun rilievo. Per la terza, più impegnativa, il mio avversario chiede un rinvio».
Se solo perdesse l’abitudine di scrutarmi come per sorprendere sul mio viso i miei segreti o un momento di debolezza! È diventata una mania. Forse l’ha sempre avuta, ma prima non me ne accorgevo.
Albert serve in tavola, solerte e taciturno.
«Hai letto le notizie su Moriat?».
«Non ho visto i giornali».
«Sta costituendo il suo gabinetto».
«La lista che ci ha letto ieri Corine?».
«Con qualche piccolo cambiamento. Uno dei tuoi colleghi sarà guardasigilli nel nuovo governo».
«Chi?».
«Indovina».
Non ne ho la minima idea, e non mi interessa.
«Riboulet».
È quello che chiamerei un onest’uomo ambizioso, ossia un uomo che si serve della propria fama di onestà per arrivare o, se si preferisce, che ha scelto l’onestà perché a volte è il percorso più facile. Ha cinque figli, che educa con grande rigore, e dicono che appartenga al terzo ordine degli oblati. Non mi sorprenderebbe, perché gli vengono affidate quasi tutte le cause ecclesiastiche ed è a lui che si rivolgono i ricchi quando vogliono far annullare il loro matrimonio a Roma.
«Hai visto Pémal?».
«Stamattina no. Avevo una riunione».
«Continua a farti le iniezioni?».
Tutto questo per indurmi a confessare che adesso me le fa in quai d’Orléans. La faccenda sta diventando pesante. Non siamo ancora nemici, ma non abbiamo più niente da dirci, e i pasti sono sempre meno piacevoli.
Lei pensa solo a rientrare in possesso di me, cioè a quando, per stanchezza o per qualunque altra ragione, romperò con Yvette, mentre la mia ossessione è di vedere Yvette prendere il suo posto.
Come guardarci in faccia, in queste condizioni? Sono sicuro, per esempio - l’idea mi è venuta improvvisamente, a tavola -, che se fosse al corrente della visita di stamattina e conoscesse l’indirizzo di Mazetti, Viviane non esiterebbe a fargli sapere in un modo o nell’altro dove si trova Yvette.
Più ci penso e più questa eventualità mi spaventa. Al posto di Mazetti, mi chiedo se non telefonerei a Viviane per farle la domanda che mi ha ripetuto tante volte stamattina. Con lei, otterrebbe quello che cerca...
È ora che riacquisti l’equilibrio. La maggior parte dei miei disturbi è dovuta ad affaticamento, e questo mi suggerisce una nuova idea che basta a scacciare le altre. Visto che mi ripetono in continuazione che dovrei prendermi un po’ di riposo, perché non approfittare delle vacanze di Natale e andare con Yvette da qualche parte, in montagna o in Costa Azzurra? Sarebbe la prima volta che faremmo un viaggio insieme e che lei vedrebbe posti diversi da Lione e Parigi.
Come reagirà Viviane? Prevedo delle tensioni. Si difenderà, parlerà del danno che la cosa mi procurerebbe dal punto di vista professionale.
Improvvisamente mi sento tutto eccitato da questa prospettiva.
Parlavo di una nuova tappa, cercavo di indovinare in che potesse consistere, e ora eccola: un viaggio, noi due soli, come una vera coppia!
Già soltanto la parola «coppia» mi sembra meravigliosa. Non abbiamo mai formato una coppia, io e Yvette. Almeno per qualche giorno lo saremo, e il personale dell’albergo la chiamerà «signora».
Come può il mio umore essere cambiato a tal punto in pochi minuti?
«Che cos’hai?».
«Io?».
«Sì. Stavi pensando a qualche cosa».
«Sei tu che hai parlato della mia salute».
«E allora?».
«Niente. Mi è venuta l’idea che Natale non è lontano e che forse mi concederò un po’ di riposo».
«Finalmente!».
Non sospetta la verità, altrimenti non avrebbe sospirato, sollevata:
«Finalmente!».
Andando in tribunale, bisogna che salga un attimo da Yvette per annunciarle la grande notizia. Ignoro totalmente come si realizzerà il mio progetto, ma so che si realizzerà.
«Dove pensi di andare?».
«Non ne ho la minima idea».
«A Sully?».
«Certamente no».
Non so per quale aberrazione mentale abbiamo acquistato una casa di campagna vicino a Sully. Fin dal primo anno, ho trovato la foresta di Orléans triste, opprimente, e poi non sopporto quelli che parlano solo di cinghiali, di fucili e di cani.
«È da tanto che Bocca ti invita ad andare, anche in sua assenza, nella sua proprietà di Mentone. Dicono che sia splendida».
«Vedrò».
Comincia a preoccuparsi perché ho parlato in prima persona e non le ho chiesto il suo parere. Sto diventando cattivo? Ce l’ho con me stesso, ma non riesco a controllarmi. Mi sento di buonumore, non ho più problemi. Yvette e io andremo in vacanza a giocare a marito e moglie. Questa battuta la commuoverà, non mi era ancora venuta in mente. Quando usciamo, a Parigi, la chiamano sempre «signorina». In un albergo in montagna o in Riviera, sarà tutto diverso.
«Hai fretta?».
«Sì».
Peccato che manchino ancora tre settimane. Mi sembra un’eternità e, siccome mi conosco, so già che comincerò a temere ogni tipo di ostacoli. Sarebbe molto meglio partire oggi, così non penserei più alla visita di Mazetti, né al nostro disgustoso faccia a faccia. Per un po’, pianterei lì il mio lavoro e me ne andrei senza neanche avvertire Viviane.
Immagino la sua faccia, al momento di ricevere un telegramma, o una telefonata, da Chamonix o da Cannes!
«Non è successo niente, stamattina?» mi chiede con finta indifferenza.
Ci siamo! Ha già indovinato tutto, come sempre, e questo mi esaspera.
«Cosa dovrebbe essere successo?».
«Non lo so. Sei diverso dal solito».
«E cioè?».
«Come se volessi a tutti i costi evitare di pensare a qualcosa di increscioso».
Per un momento sono tentato di arrabbiarmi, perché ha colto nel segno. Forse mi aiuterebbe fare una bella scenata, se non altro, come dice lei, per dimenticare Mazetti, ma sono ancora abbastanza lucido da prevedere che, se inizio, mi sarà difficile fermarmi.
Fino a dove potrei arrivare? Ho troppe cose sullo stomaco, e non sono preparato a rompere proprio oggi. Voglio assolutamente evitare uno scontro. Del resto, mi aspettano in tribunale, in due sezioni diverse.
«Sei molto perspicace, vero?».
«Comincio a conoscerti».
«Ne sei proprio sicura?».
Ha il sorriso contenuto di una che è sempre stata sicura di sé.
«Molto più di quanto pensi» scandisce.
Mi alzo da tavola senza aspettare che lei finisca il dessert.
«Scusami».
«Figurati».
Sulla porta, ho un attimo di esitazione. Mi dispiace lasciarla così.
«A più tardi».
«Ci vediamo da Gaby per il cocktail, no?».
«Spero di poter venire».
«L’hai promesso a suo marito».
«Farò il possibile».
Al momento di uscire dal portone, mi viene l’idea di assicurarmi che Mazetti non sia nei paraggi. Mi guardo intorno ma non lo vedo. La vita è bella. Percorro il lungofiume. Sospeso nell’aria, c’è un pulviscolo bianco che non si può ancora chiamare neve. La coppia di barboni, sotto il ponte, è occupata a fare una cernita di giornali vecchi.
La scala mi è ormai familiare. È molto simile a quella di quai d’Anjou, con una ringhiera di ferro battuto sempre fredda al tatto e scalini di marmo fino al primo piano.
L’appartamento è al terzo, e io ne ho la chiave. È un piacere per me servirmene, eppure ogni volta mi coglie una specie di ansia, perché non so mai che cosa mi aspetti.
Appena entrato, apro la bocca per annunciare con voce trionfante:
«Indovina dove andiamo a passare il Natale?», quando arriva Jeanine, con l’abito nero, il grembiule bianco e la crestina ricamata che fanno tanto servetta di teatro, e si mette un dito sulle labbra.
«Sst!».
Il mio sguardo, già ansioso, la interroga, anche se lei sorride.
«Cosa c’è?».
«Niente» sussurra chinandosi in avanti. «Dorme come una bambina».
Con affettuosa complicità mi prende per mano, mi trascina verso la porta della camera da letto e la socchiude: nella penombra intravedo i capelli di Yvette sparsi sul cuscino, la forma del suo corpo sotto la coperta, da cui esce un piede nudo.
Jeanine va a ricoprirlo senza far rumore, torna verso di me e richiude la porta.
«Devo dirle qualcosa?».
«No. Tornerò stasera».
I suoi occhi brillano. Probabilmente pensa a quello che è successo ieri e la cosa la diverte, mi sta vicina più del solito, sfiorandomi con i seni.
Al momento di uscire chiedo:
«Non è venuto nessuno?».
«No. Chi sarebbe dovuto venire?».
Probabilmente è al corrente di tutto. Yvette le ha di sicuro raccontato la sua vita, e io ho sbagliato a farle quella domanda.
«È riuscito a riposare?» mi chiede a sua volta.
«Un po’ sì, grazie».
Ho giusto il tempo di precipitarmi al guardaroba e di infilarmi la toga. Il presidente Vigneron, un magistrato bisbetico, che non mi può vedere e ha la mania di accarezzarsi la barba, mi stava cercando con lo sguardo nel momento in cui sono entrato di corsa nell’aula.
«Causa Guillaume Dandé contro Alexandrine Bretonneau» stava recitando il cancelliere. «Guillaume Dandé? Si alzi quando sente chiamare il suo nome e dica: presente».
«Presente».
«Alexandrine Bretonneau?».
Ripete, in tono seccato:
«Alexandrine Bretonneau?».
Il presidente scruta i volti dei presenti come se volesse individuarla in mezzo alla folla anonima, e finalmente la donna appare, grassa, senza fiato, dopo aver atteso per un’ora in un’altra aula dove l’hanno indirizzata per errore.
Dal fondo della sala grida:
«Eccomi, signor giudice! Le chiedo scusa...».
Si sente l’odore tipico degli edifici pubblici, lezzo di sudore e di sudiciume, che è un po’ il mio odore di scuderia.
Del resto, non sono forse di casa, qui?
7.
Stavo per scrivere che, nell’ultimo periodo, la mia vita è stata troppo caotica per lasciarmi il tempo di aprire l’armadio in cui tengo chiuso questo fascicolo, ma in realtà non lo era stata di meno nelle settimane precedenti. Vuol dire che sono più stanco? Oppure ho avuto meno bisogno di rassicurarmi?
Comunque ho continuato a scarabocchiare, di tanto in tanto, qualche parola sul taccuino, una specie di promemoria che passerò in rassegna fornendo via via le spiegazioni del caso.
Giovedì 10 dicembre.
«Pantaloni da sci. Pémal».
Martedì sera, due giorni prima di questo appunto, ho parlato con Yvette delle vacanze e la sua reazione è stata inattesa. Mi ha guardato con diffidenza, dicendo:
«Mi vuoi spedire da qualche parte per sbarazzarti di me?».
Non ricordo che parole avessi utilizzato, qualcosa come:
«Preparati a passare il Natale in montagna o in Costa Azzurra».
Non ha pensato che sarei potuto andare con lei. L’ho rassicurata, ma è rimasta comunque turbata per un bel po’: le sembrava troppo bello.
«Tua moglie ti lascerà partire?».
Ho mentito per evitare che si preoccupasse.
«Lo sa già».
«Cos’ha detto?».
«Niente».
Solo allora ha chiamato Jeanine: aveva bisogno di un pubblico.
«Sai cosa mi ha detto? Che andremo a passare il Natale sulla neve».
Allora sono stato io ad aggrottare la fronte, perché non ho alcuna intenzione di portare anche Jeanine. Fortunatamente, però, non era questo ciò che Yvette intendeva dire con «noi».
«O in Costa Azzurra» ho aggiunto.
«Se posso scegliere, preferisco la montagna. Sembra che sulla Costa, d’inverno, ci siano soltanto vecchi. Del resto, che senso avrebbe, visto che non si può fare il bagno né prendere il sole? Ho sempre sognato di andare a sciare. Tu sei capace?».
«Un po’».
Ho preso qualche lezione, molto tempo fa.
L’indomani, quando sono passato da lei, indossava, un po’ per farmeli vedere un po’ per compiacere se stessa, dei pantaloni da sci di gabardine nero, molto attillati, che modellavano il suo piccolo sedere rotondo.
«Ti piacciono?».
Pémal, che veniva a farci le iniezioni, l’ha trovata così e lei ha abbassato i calzoni, come un uomo. Ha comprato anche un paio di sci, davanti ai quali il dottore non ha potuto evitare di fermarsi un attimo, lanciandomi uno sguardo interrogativo. Ho detto:
«Ma sì! Finalmente mi sono deciso a prendermi una vacanza».
L’ho riaccompagnato sul pianerottolo per sussurrargli:
«Non ne parli in quai d’Anjou».
Yvette ha comprato anche un pesante maglione di lana norvegese, con sopra dei disegni di renne. Bisognerà che pensi a prenotare l’albergo, perché so per esperienza che a Natale in montagna è sempre tutto esaurito.
Sabato 3 dicembre.
«Cena Presidenza. Viviane - signora Moriat».
Jean Moriat, che come si prevedeva è il nuovo presidente del Consiglio, si è insediato all’Hôtel Matignon insieme a sua moglie, quella legittima, ma continua a dormire quasi ogni notte in rue Saint-Dominique. Quel sabato dava una cena semiufficiale alla quale, oltre ai più stretti collaboratori, aveva invitato alcuni amici. Fra questi c’eravamo noi, e ovviamente anche Corine. La signora Moriat, che ben pochi conoscono, faceva gli onori di casa, ma in modo così maldestro e con una paura così evidente di fare qualche gaffe che veniva quasi voglia di darle una mano.
Non credo che soffra per la relazione del marito. Non gli porta rancore e senz’altro pensa che la colpa di tutto sia sua, piuttosto che di Moriat. Mentre accoglieva gli ospiti, e poi durante la cena, aveva l’aria di volersi scusare di essere lì, a disagio in un vestito di alta moda che non le stava bene, e, in certi momenti di particolare imbarazzo, l’ho vista girarsi verso Corine, per chiederle consiglio.
È così profondamente umile che quasi non si ha il coraggio di guardarla, né di rivolgerle la parola, per non metterla ulteriormente in difficoltà. Respira a suo agio solo quando la si dimentica nel suo angolino, il che è successo più volte, soprattutto dopo cena.
Mentre tornavamo a casa in macchina, Viviane ha mormorato:
«Pover’uomo!».
«Chi?».
«Moriat».
«Perché?».
«È terribile per lui, nella sua posizione, ritrovarsi una moglie così. Se lei avesse un po’ di dignità, gli avrebbe restituito la sua libertà già da molto tempo».
«Lui le ha proposto il divorzio?».
«Non credo che abbia osato».
«Se fosse libero, Corine lo sposerebbe?».
«È quasi impossibile che si sposino. Sarebbe un suicidio politico, perché Corine è troppo ricca e lui sarebbe accusato di aver fatto un matrimonio d’interesse. A mio avviso, entrambi sono ben contenti che la povera donna continui a fungere da paravento».
Questa riflessione mi ha colpito, perché sottolinea la crudeltà di Viviane verso i deboli e dimostra come, in cuor suo, lei debba giudicare Yvette, e con che tono ne parli alle amiche.
«Allora, pensi sul serio di andare in vacanza?».
«Sì».
«Dove?».
«Non lo so ancora».
Non solo continua a pensare che verrà con me, ma è sicura che sceglierò la Costa, perché le rare volte che siamo andati in montagna mi sono lamentato di sentirmi in un clima ostile. Scommetterei che non tarderà a ordinarsi degli abiti per la Riviera, e mi riprometto di non dire una sola parola fino all’ultimo momento.
Domenica 4 dicembre.
«Mutandine Jeanine».
Mi chiedo cosa può aver pensato Bordenave se ha visto questo appunto sul mio taccuino. Quella domenica, come al solito, ho trascorso il pomeriggio in quai d’Orléans. Faceva un gran freddo. I passanti camminavano in fretta, e nell’appartamento la legna del camino diffondeva un buon profumo. Yvette mi ha chiesto:
«Non ci tieni a uscire, vero?».
Le piace sempre più rimanere chiusa in casa, rannicchiarsi, facendo le fusa, nell’atmosfera surriscaldata del salotto o della camera da letto, e Jeanine, come c’era da aspettarselo, occupa sempre più spazio nella sua intimità, e anche nella nostra, il che a volte mi dà un certo fastidio. Mi rendo conto che per Yvette è una buona cosa.
Non è mai stata così rilassata, quasi sempre allegra, ma non di un’allegria forzata, com’era prima. Ho l’impressione che non pensi molto a Mazetti.
Sono arrivato in tempo per prendere il caffè e, mentre Jeanine ce lo serviva, Yvette mi ha suggerito:
«Tastale il sedere».
Senza sapere perché me lo chiedesse, ho passato la mano sul didietro della ragazza mentre Yvette continuava:
«Non noti niente?».
Sì. Sotto il vestito non c’era traccia di biancheria, nient’altro che la pelle, sulla quale il tessuto scivolava liberamente.
«Abbiamo deciso che in casa non porterà mutandine. È più divertente».
Una volta su due, ora, quando facciamo l’amore, mi chiede il permesso di chiamare Jeanine, e domenica non me l’ha nemmeno chiesto, come se fosse una cosa normale.
Quando stanno insieme sono sempre di buonumore, tanto che fa piacere guardarle, e spesso, quando arrivo, le sento bisbigliare, ridacchiare, e capita anche che si scambino sguardi complici dietro le mie spalle. Jeanine, che sembra ormai perfettamente a suo agio, è come rifiorita, ed è sempre piena di piccole attenzioni per Yvette e per me. A volte, riaccompagnandomi alla porta, mi chiede a voce bassa:
«Come la trova? Sembra felice, no?».
È vero, ma l’ho vista recitare troppi ruoli per non tenermi sulla difensiva. Mentre stavamo distesi a veder danzare le fiamme, Yvette si è messa a raccontare le sue esperienze con un tono scherzoso, ironico, che non sempre è consono alle immagini evocate, perché fra l’altro mi ha svelato certe perversioni che non sospettavo, alcune delle quali mi hanno sconvolto. Lei adesso le racconta come fossero un gioco, rivolgendosi soprattutto a Jeanine, che freme al solo sentirle descrivere.
Quella domenica ho scoperto che Yvette non è poi così incosciente come si sforza di sembrare. Quando siamo rimasti soli e abbiamo spento la luce, si è rannicchiata fra le mie braccia; di tanto in tanto, la sentivo tremare e a un certo punto le ho chiesto:
«A cosa pensi?».
Ha scosso la testa sfiorandomi la guancia con i capelli, e solo quando ho sentito una lacrima scorrermi sul petto ho capito che stava piangendo, e non era in grado di rispondere. Commosso, la stringevo teneramente.
«Parlami, ora, piccola».
«Pensavo a quello che potrebbe succedere».
Ha ripreso a piangere, proseguendo fra i singhiozzi:
«Non potrei più sopportarlo. Io cerco di essere coraggiosa. Ho sempre cercato di esserlo, ma...».
Tirava su col naso, e ho capito che se lo soffiava nel lenzuolo.
«Se tu mi lasciassi, credo che mi butterei nella Senna».
So che non lo farebbe, perché la morte la terrorizza, ma potrebbe provarci, per poi ripensarci all’ultimo minuto, magari per suscitare la pietà dei passanti. È certo comunque che sarebbe infelice.
«Sei il primo che mi ha dato la possibilità di vivere una vita come si deve, e mi chiedo ancora perché. Io non valgo niente. Ti ho fatto soffrire e ti farò soffrire ancora».
«Sst!».
«Ti dà fastidio, con Jeanine?».
«No».
«Ha diritto anche lei ad avere la sua parte di piacere. È gentile con me, non sa più cosa inventare per rendermi la vita gradevole perché, quando tu non ci sei, certe volte sono tutt’altro che divertente».
So bene che, mista alla sua sincerità, c’è sempre una parte di commedia. L’ultima frase, ad esempio, è di troppo, e mi sono chiesto se invece non si mostri più allegra proprio quando rimane sola con Jeanine. Per lei è la stessa cosa che per Mazetti. Anche se mi vede sotto la luce più cruda, meno prestigiosa, rimango sempre il grande avvocato che l’ha salvata, e inoltre, ai suoi occhi, sono un uomo ricco. Giurerei che, per Viviane, nutre rispetto e ammirazione, e che sarebbe terrorizzata all’idea di prendere il suo posto.
«Quando ti sarai stufato di me, me lo dirai?».
«Non mi stuferò mai di te».
Il fuoco crepita, tingendo l’oscurità di un rosa scuro, e sentiamo Jeanine, al di là della parete, andare e venire nella sua camera, poi lasciarsi cadere pesantemente sul letto.
«Lo sai che ha avuto un bambino?».
«Quando?».
«A diciannove anni. Adesso ne ha venticinque. L’ha dato a balia in campagna, e l’hanno accudito talmente male che è morto di una malattia all’intestino. Pare che avesse la pancia tutta gonfia».
Anche mia madre mi ha affidato a gente di campagna.
«Sei felice, Lucien?».
«Sì».
«Nonostante tutti i guai che ti procuro?».
Per fortuna finisce per addormentarsi, e per un po’ penso a Mazetti. Non è tornato ad aggirarsi in quai d’Anjou, e questo mi inquieta, mi irrita, come sempre quando non riesco a capire. Mi riprometto di occuparmi di lui il giorno dopo e finisco per addormentarmi anch’io, sul bordo del letto, perché Yvette si è raggomitolata di traverso e non voglio svegliarla.
Martedì 6 dicembre.
«GrégoireJavel».
Comunque non ho potuto farlo il lunedì, che è una giornata pesante, piena soprattutto di telefonate, come se la gente che torna dal weekend, presa dal rimorso, si gettasse con frenesia sugli affari seri.
Potrei stabilire una specie di barometro dell’umore delle persone nel corso della settimana. Il martedì riprendono il loro equilibrio, la loro normale attività, ma solo per ricominciare ad agitarsi il giovedì pomeriggio, così da finire il lavoro al più presto e partire per la campagna già il venerdì a mezzogiorno, o anche la mattina, se possibile.
Secondo i miei appunti, dunque, era martedì quando ho telefonato a Grégoire, che avevo conosciuto nel Quartiere latino e che è diventato professore alla Facoltà di Medicina. Ci vediamo una volta ogni morte di papa, ma continuiamo a darci del tu per abitudine.
«Come stai?».
«E tu? E tua moglie?».
«Bene, grazie. Vorrei chiederti un favore perché non so a chi rivolgermi».
«Sono a tua disposizione, per quanto possibile».
«Si tratta di uno studente, un certo Léonard Mazetti».
«Non è un problema di esami, spero?».
D’un tratto, il tono è diventato più freddo.
«No. Mi piacerebbe sapere se è veramente iscritto alla Facoltà di Medicina e se ha seguito assiduamente i corsi, in questi ultimi tempi».
«A che anno è?».
«Non lo so. Avrà ventidue o ventitré anni».
«Devo parlare con la segreteria. Ti richiamo più tardi».
«Si può fare con discrezione?».
«Naturalmente».
Si starà chiedendo perché mai mi occupo di questo ragazzo. Anch’io mi chiedo perché me la prendo tanto. E non è finita qui. Chiamo anche la direzione della Citroën, in quai de Javel. Qualche anno fa mi è capitato di sostenere una causa per la società e ho conosciuto qualcuno dei vicedirettori.
«Il signor Jeambin lavora sempre da voi?».
«Sì signore, chi devo dire?».
«Avvocato Gobillot».
«Un attimo, prego. Vedo se è in ufficio».
Poco dopo risponde una voce diversa, quella di un uomo indaffarato:
«Sì».
«Vorrei chiederle un piccolo favore, signor Jeambin...».
«Scusi, chi parla? La centralinista non ha capito bene il nome».
«Gobillot, l’avvocato».
«Come sta?».
«Bene, grazie. Vorrei sapere se un certo Mazetti lavora da voi come operaio e, in caso affermativo, se negli ultimi tempi non ha fatto più assenze del solito».
«Non c’è problema, ma ci vorrà un po’ di tempo. Può richiamarmi fra un’ora?».
«Preferirei che lui non ne sapesse niente».
«Si è messo nei guai?».
«No, assolutamente, stia tranquillo».
«Me ne occupo subito».
Ho avuto le due risposte. Mazetti non ha mentito. Da tre anni lavora in quai de Javel e fa poche assenze, che coincidono quasi sempre con i periodi d’esame, tranne le ultime, che risalgono all’epoca in cui faceva la posta a Yvette sul marciapiede di rue de Ponthieu. In quella settimana, peraltro, soltanto due volte non si è presentato al lavoro.
Stessa cosa alla Facoltà di Medicina, dove è iscritto al quarto anno, e dove nello stesso periodo ha saltato le lezioni per una settimana.
Grégoire ha aggiunto:
«Mi sono informato sul ragazzo, non sapendo esattamente quello che volevi. Non è un tipo brillante, ha un’intelligenza mediocre, per non dire al di sotto della media, ma studia con molto impegno; perciò passa gli esami con buoni voti e riuscirà a portare a termine i suoi studi. Potrebbe diventare un ottimo medico condotto».
Mazetti ha dunque ripreso il ritmo regolare della sua esistenza, lavorando di notte in quai de Javel e frequentando di giorno l’università.
Vuol dire che si è calmato e che comincia a guarire? Mi piacerebbe crederlo. Comunque, penso a lui il meno possibile.
Senza di lui, questo periodo sarebbe il migliore che io abbia attraversato da molto tempo.
Giovedì 8 dicembre.
«Saint-Moritz».
Stavolta nevica per davvero, a grossi fiocchi acquosi, che non rimangono ancora sulle strade ma lasciano già delle strisce bianche sopra i tetti. Vedendoli, mi sono ricordato che se vogliamo andare in vacanza a Natale devo prenotare l’albergo. Ho esitato, pensando dapprima a Megève o a Chamonix, dove sono andato più di una volta con Viviane. Ho letto però su un giornale che per le feste è già tutto esaurito. Questo non significa che non ci sia più posto, lo so che i giornali esagerano sempre, ma ciò mi ha ricordato che molti miei giovani colleghi, appassionati di sci, si ritrovano in queste due stazioni invernali.
Io non intendo nascondere Yvette, né mi vergogno di lei, e inoltre ho motivo di credere che tutti siano al corrente della situazione.
Sarebbe comunque spiacevole ritrovarci nello stesso albergo di avvocati che incontro tutti i giorni in tribunale, soprattutto per il fatto che saranno in compagnia delle loro mogli. A me non importa di sembrare ridicolo, e lo sarò indubbiamente con gli sci ai piedi. Ma voglio evitare a Yvette qualunque imprevisto che possa rovinarci le vacanze, il che, con certe donne, potrebbe anche succedere.
Per questo alla fine mi sono deciso per Saint-Moritz, che è frequentata da una clientela più internazionale e meno familiare.
All’inizio si sentirà un po’ spaesata nell’ambiente lussuoso del Palace, ma ci riuscirà più facile mantenere un certo anonimato.
Quindi ho telefonato e ho parlato con il responsabile della reception, che sembrava conoscere il mio nome, anche se non sono mai stato loro ospite. Mi ha detto che sono quasi al completo, ma che può riservarmi una camera con bagno e un salottino, precisando:
«Affaccia sulla pista di pattinaggio».
Lo stesso giorno, dopo cena, Viviane ha aperto l’ultimo numero di «Vogue» e mi ha fatto vedere un abito bianco a grosse pieghe, non privo di un certo stile.
«Ti piace?».
«Molto».
«L’ho ordinato questo pomeriggio».
Per Cannes, ovviamente. Il vestito si chiama «Riviera», ma non ho sorriso, non ne ho avuto voglia perché, a mano a mano che si avvicina l’ora delle spiegazioni, mi rendo conto sempre meglio che sarà dura.
Tanto più che il mio comportamento di questi ultimi tempi la rassicura. È la prima volta, per quanto ne so, che si sbaglia così grossolanamente. All’inizio si è preoccupata nel vedermi di buonumore, quasi rilassato. Forse ne ha parlato anche a Pémal, che la vede abbastanza spesso, e non so cosa le avrà risposto.
«Ho l’impressione che le vitamine ti facciano bene».
«Perché non dovrebbero?».
«Non ti senti meglio rispetto a un paio di settimane fa?».
«Mi pare di sì».
Forse pensa anche che il fatto di avere Yvette a portata di mano, a due passi da casa, cominci a crearmi una certa sazietà. Non immagina che è l’esatto contrario, e che adesso allontanarmi da quai d’Orléans anche solo per qualche ora mi sembra una cosa mostruosa.
Si compri pure degli abiti per la Costa Azzurra: nessuno le impedirà di andarci da sola mentre Yvette e io saremo a Saint-Moritz.
Per molto tempo ho provato quasi pietà per Viviane. Ora non più. La osservo freddamente, come un’estranea. Le sue riflessioni sulla povera signora Moriat, all’uscita dall’Hôtel Matignon, hanno influito parecchio: rimuginando sul passato, ho scoperto che Viviane, per quel che la riguarda, non ha mai provato pietà per nessuno.
All’inizio, ha forse avuto pietà per Andrieu? Certo sarebbe di cattivo gusto da parte mia fargliene una colpa, ma così è, e se oggi lei avesse trent’anni, o anche quaranta, non esiterebbe a sacrificarmi come ha sacrificato il suo primo marito.
Questo mi fa ricordare il modo in cui è morto, e ora, essendo in procinto di andare a Saint-Moritz, che non è lontano da Davos, la cosa mi disturba non poco.
Domenica 11 dicembre.
«Jeanine».
Mi domando perché, tornando a casa, ho scritto questo nome sul taccuino. Ci dev’essere stata una ragione, dovevo avere un pensiero preciso, o forse ho solo pensato a lei vagamente.
Poiché era domenica, ho passato in quai d’Orléans il pomeriggio e, adesso ricordo, una parte della serata, ma non la notte, perché verso le dieci e mezzo dovevamo incontrare Moriat, che prima aveva una cena ufficiale, in rue Saint-Dominique. Proprio quella sera Viviane ha annunciato che avremmo passato le vacanze di Natale nel Sud, a Cannes, come ha precisato senza consultarmi, e Corine mi ha lanciato un’occhiata da cui ho capito che ha avuto sentore dei miei veri progetti.
Che cosa è successo con Jeanine di diverso dalle altre domeniche e da certe sere della settimana? È sempre più a suo agio con noi, priva di qualsiasi inibizione, e Yvette ha osservato a un certo punto:
«Quando ero bambina, sognavo già di vivere in un posto in cui tutti fossero nudi e passassero il tempo ad accarezzarsi, a farsi reciprocamente tutto quello che desideravano».
Nel ricordarlo, sorrideva.
«Io lo chiamavo giocare al paradiso terrestre, e avevo undici anni quando mia madre mi ha sorpresa mentre giocavo al paradiso terrestre con un ragazzino che si chiamava Jacques».
Ma non è per via di questa frase che ho annotato il nome di Jeanine, e nemmeno, credo, a causa di un’altra riflessione di Yvette, che guardava con aria seria me e Jeanine mentre ci stavamo accoppiando.
«È buffo!» ha esclamato improvvisamente con una risata che ci ha immobilizzati.
«Che cosa c’è di buffo?».
«Non hai sentito cosa ti ha detto?».
«Che le facevo un po’ male».
«Non esattamente. Ha detto:
«“Avvocato, mi sta facendo un po’ male”. Mi pare buffo, è come se ti desse del lei per chiederti il permesso di...».
La fine della frase era cruda, l’immagine comica. In questi casi le piace impiegare termini precisi e volgari.
Ah! sì, ora ricordo. Si tratta di una riflessione che ho fatto e di cui volevo serbare memoria, anche se non è così importante. Jeanine sembra aver preso Yvette sotto la sua protezione, non contro di me, ma contro il resto del mondo. Sembra aver capito quel che ci lega, il che mi pare straordinario, e fa di tutto per costituire intorno a noi una specie di zona di sicurezza.
Non riesco a spiegarmi con precisione. Dopo l’episodio a cui ho accennato, sarebbe ridicolo parlare di un sentimento materno, eppure è proprio a questo che penso. Per lei, rendere felice Yvette è diventato un gioco, ma anche una ragione di vita. Mi è grata per averci provato prima di lei, e approva tutto quello che faccio a tale scopo.
È un po’ come se prendesse anche me sotto la sua protezione.
Eppure so che, il giorno in cui non mi comportassi più allo stesso modo, se tra Yvette e me sorgesse ad esempio una disputa o un qualche dissenso, mi troverei davanti una nemica.
Non è lesbica, né moralmente né fisicamente. Al contrario di
Yvette, prima di venire in quai d’Orléans non aveva mai avuto esperienze con donne.
Non ha importanza. Non mi ricordo perché ci ho pensato tornando a casa. Più precisamente, non sospettavo che quella sensazione si sarebbe collegata a un avvenimento successivo.
Solo adesso so per quale ragione mi ha consigliato, quella domenica:
«Non la affatichi troppo, oggi».
Martedì 13 dicembre.
«Caillard».
Un’arringa estenuante, tre ore per riuscire ad avere in pugno i giurati e per ottenere una condanna a dieci anni di reclusione mentre, senza le attenuanti che sono riuscito a strappare, il mio cliente si sarebbe visto infliggere i lavori forzati a vita.
Invece di essermi riconoscente, mi ha rivolto uno sguardo duro bofonchiando:
«Valeva la pena di piantare questo casino?».
Evidentemente, vista la mia reputazione, contava di essere assolto.
Si chiama Caillard, e quasi quasi rimpiango che non l’abbiano tolto dalla circolazione per sempre, come peraltro si sarebbe meritato.
Ho trovato Yvette già a letto alle nove di sera.
«Farebbe meglio a lasciarla dormire» mi ha consigliato Jeanine.
Non so cosa mi abbia preso. O meglio, lo so benissimo. Dopo la tensione nervosa di un’arringa importante, dopo l’ansia dell’attesa del verdetto, provo quasi sempre il bisogno di un brusco scarico di tensione. Per anni, appena finito tutto, mi precipitavo in una casa di appuntamenti di rue Duphot. E non succede solo a me.
Attraverso la porta socchiusa avevo visto Yvette addormentata. Ho avuto un attimo di esitazione, rivolgendo uno sguardo interrogativo a Jeanine, che è arrossita leggermente.
«Qui?» ha sussurrato, in risposta alla mia richiesta muta.
Ho fatto segno di sì. Volevo soltanto un amplesso rapido, per tirarmi un po’ su. Poco dopo ho sentito la voce di Yvette che diceva:
«Vi state divertendo, eh, voi due? Aprite la porta, in modo che possa vedervi».
Non era gelosa. Quando sono andato a darle un bacio, mi ha chiesto:
«È stata brava?».
Poi si è girata su un fianco e si è riaddormentata.
Mercoledì 14 dicembre.
«???».
Finalmente Jeanine mi ha parlato, sulle scale dove è venuta a riaccompagnarmi. Alle undici del mattino Yvette era ancora a letto, piuttosto pallida, e avevo notato la colazione intatta sul vassoio.
«Stà tranquillo, non è niente. Hai preso i biglietti del treno?».
«Ce li ho in tasca da ieri».
«Non perderli. Sai che è la prima volta che viaggio in vagone letto?».
Poiché mi era parsa preoccupata e un po’ spenta, come se l’avessi vista attraverso un velo, in anticamera ho chiesto a Jeanine:
«Non sarà per ieri?»
«No... Sst!...».
Poi mi ha seguito giù per le scale.
«È meglio che glielo dica subito. Quello che la preoccupa è che crede di essere incinta e non sa come la prenderà lei».
Sono rimasto immobile, con una mano sulla ringhiera e gli occhi sgranati. Non ho analizzato la mia emozione e non riesco tuttora a farlo, so solo che è stata una delle più inattese e forti che abbia mai provato.
C’è voluto un bel po’ perché riprendessi il mio sangue freddo.
Allora ho dato uno spintone a Jeanine risalendo i pochi gradini, e mi sono precipitato verso la camera gridando:
«Yvette!».
Non so come fosse la mia voce, o l’espressione del mio viso, mentre lei si metteva seduta sul letto.
«È vero?».
«Che cosa?».
«Quello che mi ha appena raccontato Jeanine».
«Te l’ha detto?».
Mi chiedo come possa non aver capito al primo sguardo che la mia era un’espressione di felicità.
«Sei arrabbiato?».
«Ma no, piccola mia! Al contrario! E io che ieri sera...».
«Appunto!».
Ed era per la stessa ragione che Jeanine, la domenica, mi aveva raccomandato di non affaticare Yvette!
Con mia moglie, non abbiamo mai pensato di avere dei figli. Lei non ha mai affrontato l’argomento e io ne ho dedotto, anche per via delle precauzioni che ha sempre preso, che non ne volesse. Del resto, non l’ho mai vista guardare un bambino per strada, su una spiaggia o a casa di amici. Per lei è un mondo estraneo, volgare, quasi indecente.
Ricordo ancora il tono con cui disse, il giorno in cui venimmo a sapere che la moglie di uno dei miei colleghi era incinta per la quarta volta:
«Certe donne sono nate per fare le coniglie, e qualcuna ne è anche contenta!».
Si direbbe che la maternità la disgusti, come se la considerasse un’umiliazione.
Yvette invece restava intimidita nel suo letto, piena di vergogna, ma non per la stessa ragione.
«Sai, se preferisci che non lo tenga...».
«Ti è già capitato prima che con me?».
«Cinque volte. Non osavo dirti niente, mi chiedevo che cosa fare, con tutte le complicazioni che già ti procuro...».
I miei occhi erano appannati: se non l’ho stretta fra le braccia è solo perché avevo paura di essere troppo teatrale. Mi sono limitato a prenderle la mano e a baciargliela per la prima volta. Jeanine ha avuto il tatto di lasciarci soli.
«Sei sicura?».
«Non si può mai essere sicuri così presto, ma sono già dieci giorni».
Mi ha visto impallidire e, intuendone il motivo, si è affrettata a continuare:
«Ho contato. Se è vero, non può essere che tuo».
Avevo un nodo in gola.
«Sarebbe buffo, no? Sai, questo non ci impedisce di andare in Svizzera. Sto a letto perché Jeanine mi proibisce di alzarmi, dice che se voglio tenerlo devo stare a riposo per qualche giorno».
Che strana ragazza! Che strane ragazze tutt’e due!
«Saresti davvero contento?».
Eccome! Non ci ho ancora riflettuto. Ha ragione a dire che ci saranno delle complicazioni, ma non per questo sono meno contento, commosso, intenerito, come non ricordo di essere mai stato.
«Fra due o tre giorni, se non c’è niente di nuovo, andrò dal dottore e faremo un test».
«Perché non subito?».
«Ci tieni tanto? Hai fretta di saperlo?».
«Sì».
«Allora manderò un campione al laboratorio domani mattina. Lo farò portare da Jeanine, chiamala».
Poi, a Jeanine:
«Sai che vuole che lo tenga?».
«Lo so».
«Cosa ti ha detto, quando gliene hai parlato?».
«Niente. È rimasto immobile e ho avuto paura che rotolasse giù dalle scale, poi mi ha quasi buttata a terra per precipitarsi da te».
Mi sta prendendo un po’ in giro.
«Insiste perché tu porti un campione al laboratorio domani mattina».
«In questo caso, bisogna che vada a comprare un flacone sterilizzato».
Tutto questo è normale e familiare, per tutt’e due.
In studio c’è qualcuno che mi aspetta. Bordenave telefona per chiedermi istruzioni, e le risponde Jeanine.
«Cosa le devo dire?».
«Che sarò là tra pochi minuti».
In effetti è meglio che me ne vada, perché qui non ho più niente da fare, per ora.
Giovedì 15 dicembre.
«Campione inviato. Cena ambasciata».
Si tratta del mio ambasciatore sudamericano che ha dato una cena intima, ma estremamente raffinata, per festeggiare il nostro successo. Grazie a Moriat, le armi stanno navigando liberamente verso chissà quale porto in cui sono attese con grande impazienza, e il colpo di stato è previsto per gennaio.
Oltre al mio onorario, ho ricevuto un portasigarette d’oro.
Venerdì 16 dicembre.
«Attesa. Viviane».
Aspettare l’esito del test, che si conoscerà solo domani.
Impazienza di Viviane.
«Hai prenotato la suite in albergo?».
«Non ancora».
«I Bernard vanno a Montecarlo».
«Ah!».
«Mi ascolti?».
«Hai detto che i Bernard vanno a Montecarlo e, siccome la cosa non mi interessa, ho fatto “Ah!”».
«Non ti interessa Montecarlo?».
Ho fatto spallucce.
«Io preferirei Cannes, e tu?».
«È lo stesso».
Fra qualche giorno sarà tutto diverso, ma per ora, di fronte a lei, è come se camminassi a venti centimetri da terra. Il mio sorriso la spiazza, perché non sa più cosa pensare e si arrabbia subito.
«Quando conti di fare tutto il necessario?».
«Il necessario per cosa?».
«Per Cannes».
«C’è ancora tempo».
«Non se vogliamo una suite al Carlton».
«Perché proprio al Carlton?».
«Perché siamo sempre andati lì».
Per farla finita le ho quasi gridato:
«Telefona tu, allora!».
«Posso incaricare la tua segretaria?».
«Perché no?».
Bordenave mi ha sentito telefonare a Saint-Moritz: capirà, non dirà niente e avrà ancora gli occhi rossi.
Sabato 17 dicembre.
«È sì».
8.
Lunedì 19 dicembre.
Non so cosa sia successo con i fiori, e questo rimarrà uno di quei piccoli misteri che mi esasperano. Sabato, prima di andare in tribunale, sono passato da Lachaume, per mandare sei fasci di rose in quai d’Orléans. Avevo preso un taxi che mi ha aspettato mentre facevo un salto nel negozio. Mi rivedo ancora nell’atto di indicare alla commessa delle rose di un color rosso scuro. Lei mi conosce, e mi ha chiesto:
«Nessun biglietto, avvocato?».
«Non è necessario».
Sono sicuro di aver dato il nome e l’indirizzo di Yvette, altrimenti vuol dire che soffro di amnesie. Fuori, l’autista discuteva con un vigile che gli intimava di circolare e che, riconoscendomi anche lui, ha esclamato:
«Mi scusi, avvocato, non sapevo che fosse con lei».
Quando, prima di cena, sono passato in quai d’Orléans, non pensavo più ai fiori e non ho notato nulla. Non sono rimasto a lungo, informando Yvette che ero costretto a cenare fuori e che sarei tornato verso le undici.
In quai d’Anjou sono subito salito in camera a cambiarmi, e il sorriso beffardo di Viviane, che si stava vestendo, mi ha fatto aggrottare le sopracciglia.
«È stato gentile da parte tua!» ha esclamato mentre mi toglievo giacca e cravatta e la guardavo nello specchio.
«Cosa?».
«Mandarmi dei fiori. Siccome non c’era biglietto, ho pensato che fossi stato tu. Mi sono sbagliata?».
In quel momento, ho visto le mie rose in un grosso vaso su un tavolino, il che mi ha ricordato che Yvette non me ne aveva parlato e che non avevo notato la presenza di fiori nell’appartamento.
«Spero che non siano arrivati all’indirizzo sbagliato...» ha proseguito Viviane.
È convinta di sì. Non c’era nessun motivo di mandarle dei fiori proprio quel giorno. Non capisco a cosa si debba un errore del genere. Ci ho pensato più di quanto avrei voluto, perché, se non riesco a trovare una spiegazione plausibile, questo tipo di misteri mi turba. Da Lachaume, sono sicuro di aver dato il nome di Yvette:
«Yvette Maudet», e rivedo ancora la ragazza che lo scriveva su una busta. Forse poi ho dettato distrattamente l’indirizzo di quai d’Anjou invece di quello di quai d’Orléans?
In questo caso, nell’office, Albert avrà scartato i fiori senza pensarci, senza leggere quello che c’era scritto sulla busta, e accorgendosi che era vuota l’ha buttata nel cestino dove Viviane, che sarà giunta alle stesse conclusioni, è senz’altro andata a frugare.
Era troppo tardi per mandarne degli altri, l’indomani era domenica e i negozi erano chiusi. Non mi è venuto in mente che potevo prenderne al mercato dei fiori, a due passi da noi. Sono andato da Yvette solo dopo pranzo, perché ho lavorato tutta la mattina, e lei mi ha annunciato di aver dato a Jeanine il permesso di andare a trovare sua sorella, che gestisce insieme al marito un piccolo ristorante a Fontenay-sous-Bois.
Il tempo era ideale, freddo ma soleggiato.
«Che ne diresti di andare a prendere un po’ d’aria?» ha proposto.
Ha messo il mantello di castoro che le ho comprato all’inizio della stagione, quando ancora abitava in rue de Ponthieu, e al quale tiene più che a qualsiasi altra cosa, perché è la sua prima pelliccia. Può anche darsi che abbia avuto voglia di uscire solo per poterlo indossare.
«Dove vuoi andare?».
«Va bene qualsiasi posto. Mi basta fare una passeggiata».
Molte altre coppie e famiglie al completo avevano avuto la stessa idea e, in rue de Rivoli, procedevamo tutti in una sorta di processione, con un rumore caratteristico di piedi strascicati sul marciapiede, un rumore domenicale, perché in quel giorno le persone camminano più lentamente, senza meta, fermandosi davanti a tutte le vetrine. Le feste sono imminenti, e ci sono dappertutto bancarelle natalizie.
Davanti ai magazzini del Louvre per canalizzare la folla avevano messo delle transenne, e abbiamo solo potuto ammirare dal terrapieno la fantasmagoria di luci che infiammava tutta la facciata.
«Se andassimo a vedere cos’hanno fatto quest’anno alle Galeries Lafayette e al Printemps?».
Ormai era buio. Ai tavolini all’aperto dei caffè, intorno ai bracieri, erano sedute intere famiglie morte dalla stanchezza. Non so se Yvette si stia inventando un nuovo ruolo. Si sarebbe detto che si divertiva a imitare le coppiette di borghesi che seguivamo, e ci mancava solo qualche bambino da trascinare per mano.
Non parla mai della sua futura maternità, e quando vi accenna lo fa senza emozione, come se per lei fosse già del tutto naturale. Ai suoi occhi questo evento non ha niente di misterioso né di spaventoso, come appare invece a un uomo. È incinta e, per la prima volta, terrà il suo bambino. Tutto qui. L’unica cosa che l’ha emozionata, ma solo per un attimo, è il fatto che glielo lasciassi tenere: non se lo aspettava.
Mi chiedo se non sia per ringraziarmi, e al tempo stesso per mostrarsi nel ruolo rassicurante che dovrà interpretare, che ha proposto questa passeggiata così lontana dalle sue abitudini e dalle mie.
Ci fermavamo davanti alle stesse bancarelle dove sostava la folla, poi riprendevamo ad avanzare, per fermarci di nuovo qualche metro dopo, e sui marciapiedi scie di profumi diversi si mescolavano all’odore di polvere.
«Dove vuoi cenare?».
«Se andassimo a mangiare una choucroute?».
Era troppo presto, perciò siamo entrati in un caffè nei dintorni dell’Opéra.
«Non sei stanca?».
«No, e tu?».
Provavo un senso di spossatezza, ma non sono sicuro che fosse soltanto fisica. Del resto, non aveva alcun rapporto diretto con Yvette. Era quella che chiamerei una malinconia cosmica, provocata senz’altro dallo scalpiccio monotono della folla.
Abbiamo cenato alla brasserie alsaziana di rue d’Enghien dove ci è capitato più volte di mangiare la choucroute e, benché poi le abbia proposto di andare al cinema, lei ha preferito rincasare.
Verso le dieci, mentre stavamo guardando la televisione, abbiamo sentito girare la chiave nella serratura, e per la prima volta ho visto Jeanine vestita a festa, molto per benino con la gonna blu, la camicetta bianca, il cappotto azzurro, e un cappellino rosso in testa. Il trucco era diverso dal solito, e anche il profumo.
Abbiamo continuato a guardare la televisione. Yvette, che aveva starnutito due o tre volte, ha suggerito di prendere un grog, e alle undici e mezzo dormivamo già tutti.
È stata una delle giornate più tranquille, più lente che io abbia vissuto da molto tempo. Devo confessare che mi ha lasciato in bocca un sapore che preferisco non analizzare?
9
Cannes, domenica 25 dicembre.
C’è il sole, la gente passeggia senza cappotto sulla Croisette, dove le palme si stagliano contro l’azzurro del mare e l’azzurro violaceo dell’Esterel, mentre alcune barchette bianche sembrano come sospese nell’universo.
Ho insistito perché mia moglie uscisse con Géraldine Philipeau, l’amica che ha incontrato nella hall del Carlton appena siamo arrivati e che non vedeva da anni. La loro amicizia risale a prima che Viviane e io ci conoscessimo e si sono buttate l’una fra le braccia dell’altra.
Mi sforzerò di riferire gli eventi nell’ordine in cui si sono succeduti, anche se mi sembra del tutto inutile. Di fronte a me c’è un calendario, ma non ne ho bisogno per ricordare. Queste pagine non sono dello stesso formato delle altre, perché mi servo della carta da lettere dell’albergo.
Ho appena riletto quello che ho scritto nel mio studio la mattina di lunedì 19 dicembre, ed è come se fosse successo in un altro mondo, o comunque tanto tempo fa, e devo compiere un grosso sforzo per convincermi che il Natale che sto vivendo è lo stesso che si stava preparando mentre Yvette e io, quella domenica, passeggiavamo per le strade di Parigi.
Il lunedì mattina le ho fatto portare dei fiori, assicurandomi, questa volta, che arrivassero proprio a lei, e quando sono andato a darle un bacio, a mezzogiorno, sembrava commossa. Non avevo mai pensato a offrirle dei fiori, se non in un caffè o in un ristorante, quasi sempre violette.
«Sai che mi tratti come una signora?» ha osservato lei. «Vieni a vedere come sono belli».
Ho passato il pomeriggio in tribunale. Avevo promesso a Viviane di tornare di buonora perché quella sera, a casa, avevamo la cosiddetta cena del presidente, una cena che offriamo ogni anno a tutti i decani del Foro.
La mia intenzione, andando in quai d’Orléans, prima di tornare a casa, era di salire solo per un attimo. Mentre percorrevo la passerella che unisce la Cité all’île Saint-Louis, ho alzato gli occhi per dare un’occhiata alle finestre dell’appartamento, cosa che non faccio mai. Spiccavano nell’oscurità con una luce rosea, e ricordo di aver osservato che davano l’impressione di un nido confortevole e caldo, di un posto in cui è bello vivere in due.
Forse, ho pensato, le giovani coppie che passeggiano sulle banchine tenendosi strette per la vita e camminando perciò di traverso a volte danno un’occhiata alle nostre finestre sospirando:
«Più tardi, quando noi...».
Non ho avuto bisogno di usare la mia chiave perché Jeanine, riconoscendo il mio passo su per le scale, ha aperto la porta, e ho capito subito che c’era qualcosa che non andava.
«Non sta bene?».
Seguendomi attraverso l’anticamera, Jeanine ha chiesto:
«Non l’ha vista?».
«No. È uscita?».
Non sapeva che contegno assumere.
«Verso le tre».
«Senza dire dove andava?».
«Solo che aveva voglia di fare un giro».
Erano le sette e mezzo. Da quando abitava in quai d’Orléans, Yvette non aveva mai fatto così tardi.
«Magari è andata a comprare qualcosa...» ha proseguito Jeanine.
«Ne ha parlato?».
«Non proprio, ma mi ha raccontato tutto quello che ha visto ieri sulle bancarelle. Senz’altro tornerà da un momento all’altro».
Ho capito che non ci credeva molto, e neanch’io.
«È uscita così, all’improvviso?».
«Sì».
«Non aveva ricevuto qualche telefonata?».
«No. Il telefono non ha squillato per tutto il giorno».
«Che aria aveva?».
È questo che Jeanine non vuole dirmi, per paura di tradire Yvette.
«Non desidera qualcosa da bere?».
«No».
Mi sono lasciato cadere su una poltrona del salotto, ma non ci sono rimasto a lungo, perché non riuscivo a star fermo.
«Preferisce che resti qui, o che la lasci solo?».
«Non ha parlato di Mazetti?».
«No».
«Mai?».
«Non da diversi giorni».
«Ne parlava con nostalgia?».
Dice di no, e intuisco che non è del tutto vero.
«Non ci pensi, avvocato. Adesso tornerà e...».
Alle otto non era ancora tornata, alle otto e mezzo nemmeno, e quando il telefono ha suonato mi sono precipitato. Era Viviane.
«Hai dimenticato che abbiamo quattordici persone a cena?».
«Non ci sarò».
«Prego?».
«Ho detto che non ci sarò».
«Cosa succede?».
«Niente».
Non posso andare a vestirmi per cenare con il presidente dell’Ordine degli avvocati, i miei colleghi e le loro mogli.
«C’è qualcosa che non va?».
«Sì».
«Non vuoi dirmelo?».
«No. Scusami con gli invitati, inventa un pretesto qualsiasi e dì loro che forse verrò più tardi».
Ho pensato a tutte le eventualità, e con Yvette tutto è possibile, anche che in questo momento sia in un albergo a ore con un uomo che a mezzogiorno non conosceva nemmeno. Le è già capitato all’epoca di rue de Ponthieu. In questi ultimi tempi appariva diversa, come se fosse un’altra persona, ma le sue metamorfosi sono di breve durata.
È a questo che pensa Jeanine? Si sforza di distrarmi, senza troppa convinzione. È riuscita a farmi bere un whisky e ha avuto ragione.
«Non deve avercela con lei».
«Non ce l’ho con lei».
«Non è colpa sua».
Anche lei sta pensando a Mazetti. L’ha mai dimenticato, Yvette? E anche se per un po’ lui ha perso ogni interesse ai suoi occhi, non è possibile che l’avvicinarsi delle feste, per esempio, le abbia portato una ventata di ricordi?
È improbabile che l’abbiamo incontrato ieri in mezzo alla folla della domenica e che Yvette non mi abbia detto niente. Ma abbiamo incrociato centinaia di altre coppie, di altri uomini: forse qualcuno di loro gli somigliava, e questo è bastato...
Non so nulla, brancolo nel buio.
Forse è proprio per il fatto che è incinta... Magari è corsa in quai de Javel per dirglielo.
Entrambi trasaliamo ogni volta che sentiamo dei passi su per le scale. Nessuno si ferma al nostro piano, e mai come stasera abbiamo udito così nitidamente tutti i rumori della casa.
«Perché non va alla sua cena?».
«È impossibile».
«La aiuterebbe a non pensare. Qui non fa altro che rodersi. Le prometto di telefonarle appena rientrerà».
A telefonare è invece mia moglie, verso le dieci.
«Ti chiamo dal salotto, mi sono allontanata un momento. Faresti meglio a dirmi la verità».
«Non la so».
«Non è mica malata?».
«No».
«Un incidente?».
«Non lo so».
«Vuoi dire che è scomparsa?».
Un attimo di silenzio, poi mormora:
«Spero che non sia niente di grave».
Le undici. Jeanine ha cercato invano di farmi mangiare qualcosa, ma non ci sono riuscito. Ho bevuto del whisky, due o tre bicchieri, non so di preciso. Non oso telefonare alla polizia, per paura di mettere in moto tutta la macchina mentre forse la verità è fin troppo semplice.
«Non le ha mai detto il suo indirizzo?».
«Di Mazetti? No. So solo che sta dalle parti di quai de Javel».
«Neanche il nome dell’albergo?».
«No».
Mi viene l’idea di mettermi alla ricerca dell’albergo di Mazetti, ma mi rendo conto che la cosa non è fattibile. Conosco il quartiere e so che se andassi a chiedere da una pensione all’altra, non mi risponderebbero nemmeno.
A mezzanotte e dieci Viviane mi richiama, e non le perdono di darmi ogni volta una falsa speranza.
«Niente?».
«No».
«Sono appena andati via».
Riattacco e a un tratto afferro soprabito e cappello.
«Dove sta andando?».
«Ad assicurarmi che non le sia successo niente».
Non è la stessa cosa che telefonare alla polizia. Attraverso il sagrato di Notre-Dame ed entro, da dietro, nel cortile della Questura, di cui si vede solo qualche finestra illuminata. I corridoi deserti, dove risuonano i miei passi, mi sono familiari. Due uomini si girano quando arrivo alla loro altezza, e al mio ingresso negli uffici della Volante vengo accolto da una voce allegra:
«Tò! L’avvocato Gobillot che viene a farci visita. Ci dev’essere qualche crimine in corso».
È Griset, un ispettore che conosco da tanto tempo, e che viene a stringermi la mano. Sono in tre nella grande sala, dove il centralino ha centinaia di fori e dove, ogni tanto, si illumina una lampadina sulla pianta murale di Parigi.
Uno degli uomini, in quel momento, infila uno spinotto in uno dei fori.
«Quartiere Saint-Victor? Sei tu, Colombani? Il vostro furgone è appena uscito. Grave? No? Rissa? Bene».
Tutti i fatti di cronaca nera di Parigi finiscono qui, dove i tre uomini fumano la pipa o una sigaretta e dove uno di loro prepara il caffè su un fornello a spirito.
Mi viene in mente che Yvette ha parlato di comprarne uno, tanto tempo fa, una mattina in cui mi stavo vestendo, ed ero così stanco da avere le vertigini.
«Ne vuole una tazza, avvocato?».
Si chiederanno cosa sia venuto a fare, anche se non è la prima volta che vado da loro.
«Permettete che usi il vostro telefono?».
«Usi questo, è diretto».
Faccio il numero di quai d’Orléans.
«Sono io. Niente?».
Era prevedibile. Mi avvicino a Griset, che ha dei baffetti corti su cui la sigaretta ha finito per tracciare un cerchio scuro.
«Non avete avuto notizia di un incidente, o qualcosa del genere, in cui sia rimasta coinvolta una ragazza?».
«Non da quando ho preso servizio io. Aspetti».
Consulta un quaderno con la copertina nera.
«Come si chiama?».
«Yvette Maudet».
«No. Vedo una Bertha Costermans, che si è sentita male per strada, ed è stata portata in ospedale, ma è una belga e ha trentanove anni».
Non mi chiede nulla. Spio le lampadine che si accendono sulla pianta di Parigi, in particolare quelle del XV arrondissement, del quartiere di Javel. Mi è venuta l’idea di telefonare alla Citroën, ma gli uffici sono chiusi, e dallo stabilimento non mi darebbero nessuna informazione. E poi, anche se mi rispondessero che Mazetti è regolarmente al suo posto di lavoro, potrei sentirmi del tutto rassicurato? Cosa significherebbe?
«Pronto! GrandesCarrières! Cosa è successo da voi?... Come?... Sì... Vi mando l’ambulanza...».
Si gira verso di me.
«Non è una donna, ma un nordafricano che è stato accoltellato».
Seduto sul bordo di una scrivania, con le gambe penzoloni, il cappello all’indietro, bevo il caffè che mi hanno offerto; poi, non riuscendo più a stare fermo, mi metto a camminare.
«Che genere di ragazza?» chiede Griset, non per curiosità, ma nella speranza di potermi aiutare.
Che cosa rispondergli? Come descrivere Yvette?
«Ha vent’anni e non li dimostra. È piccola, magra, porta una pelliccia di castoro e ha i capelli raccolti a coda di cavallo».
Telefono di nuovo a Jeanine.
«Sono sempre io».
«Ancora niente».
«Adesso vengo lì».
Non voglio dare spettacolo della mia impazienza, e poi qui, a vedere una lucina che si accende ogni cinque minuti, è peggio che in quai d’Orléans. Mi hanno sentito. Griset promette:
«Se ci sono novità, la chiamerò. La trovo a casa?».
«No».
Gli scrivo l’indirizzo e il numero di quai d’Orléans.
A che pro raccontare la nottata per filo e per segno? Jeanine mi ha aperto la porta. Non siamo andati a dormire né l’uno né l’altra, non ci siamo spogliati, siamo rimasti in salotto, ognuno in una poltrona, a guardare il telefono e a sussultare ogni volta che un taxi passava sotto le finestre.
Com’era Yvette quando, a mezzogiorno, l’ho lasciata? Cerco di ricordarmene e non ci riesco già più. Vorrei ritrovare il suo ultimo sguardo, come se potesse fornirmi una qualche indicazione.
Abbiamo visto levarsi l’alba. Prima, Jeanine si era assopita due volte, e forse anch’io, senza accorgermene. Alle otto, mentre lei preparava il caffè, ho scorto dalla finestra un ciclista con un fascio di giornali sotto il braccio, e mi è venuto in mente che forse avrei potuto trovarci qualche notizia su Yvette...
Jeanine guardava le pagine da sopra la mia spalla.
«Niente».
Mi ha chiamato Bordenave.
«Si ricorda che ha appuntamento alle dieci con il ministro dei Lavori Pubblici?».
«Non ci andrò».
«E per gli altri appuntamenti?».
«Se la sbrighi lei».
Per ironia della sorte, alla telefonata che contava davvero non ho risposto io ma Jeanine.
«Un attimo. Sì, è qui, glielo passo».
L’ho interrogata con lo sguardo, e ho capito che preferiva non dirmi niente. Avevo appena afferrato la cornetta quando l’ho sentita scoppiare in singhiozzi dietro di me.
«Qui Gobillot».
«L’ispettore Tichauer, avvocato. Il mio collega del turno di notte mi ha lasciato detto di avvertirla se...».
«Sì. Cos’è successo?».
«Ha detto Yvette Maudet, vero? Vent’anni, nata a Lione. Quella che, l’anno scorso...».
«Sì».
Rimanevo lì immobile, senza respirare.
«È stata uccisa a coltellate, stanotte, all’Hôtel de Vilna, in quai de Javel. L’assassino, dopo aver girovagato per ore e ore nel quartiere, si è appena presentato alla stazione di polizia di rue Lacordaire. Il furgone si è recato sul posto e hanno trovato la vittima nella camera indicata. L’uomo è un operaio, si chiama Mazetti e ha confessato tutto».
Lunedì 26 dicembre.
Il resto l’ho saputo dopo, e i giornali, dove il mio nome spicca a caratteri cubitali, continuano a parlarne. Avrei potuto evitarlo. Il mio collega Luciani mi ha chiamato appena ha ricevuto l’incarico della difesa di Mazetti. Questi, del tutto indifferente a ciò che sarà di lui, si è limitato a indicare sulla lista presentatagli dal giudice istruttore il primo nome che gli suonava vagamente italiano.
Luciani voleva sapere se doveva evitare che si facesse il mio nome.
Ho risposto di no.
Yvette era nuda quando hanno ritrovato il suo corpo, sul piccolo letto di ferro, con una ferita sotto il seno sinistro. Sono andato là, l’ho vista prima che la portassero via. Ho visto la camera, e l’albergo con le scale piene di quegli uomini che le facevano paura.
Ho visto Mazetti, e ci siamo guardati. Sono stato io a distogliere lo sguardo: sul suo viso non c’era traccia di rimorso.
Ai poliziotti, al giudice istruttore, al suo avvocato, si è limitato a ripetere:
«È venuta da me. L’ho supplicata di restare, e quando ha detto che se ne andava gliel’ho impedito».
Dunque lei ha tentato di ritornare in quai d’Orléans.
Prima, però, aveva voluto andare là, e nella camera hanno trovato un maglione norvegese di grossa lana fatto a mano, un maglione da uomo, uguale al suo, che doveva essere il suo regalo di Natale. La scatola di cartone con il nome del negozio era sotto al letto.
L’abbiamo sepolta io e Jeanine, perché la famiglia, avvertita per telegramma, non ha dato segno di vita.
«Cosa faccio delle sue cose?».
Le ho detto che non sapevo, che poteva tenerle lei, se voleva.
Ho avuto un incontro con il giudice istruttore e gli ho annunciato che, se non posso occuparmi della difesa di Mazetti, come vorrei, andrò in tribunale a testimoniare. Questa decisione lo ha sorpreso.
Tutti mi guardano come se non riuscissero a capirmi, compresa Viviane.
Al mio ritorno dal funerale mi ha chiesto, senza speranza:
«Non credi che ti farebbe bene lasciare Parigi per qualche giorno?».
Ho risposto di sì.
«Dove vuoi andare?» ha proseguito, sorpresa di una vittoria così facile.
«Non hai prenotato una suite a Cannes?».
«Quando vorresti partire?».
«Appena ci sarà un treno».
«Stasera?».
«Va bene».
Non la odio nemmeno. Non mi interessa che ci sia o non ci sia, che parli o stia zitta, che si illuda di avere sempre in mano le redini del nostro destino. Per me, semplicemente non esiste.
«In caso di disgrazia...» ho scritto da qualche parte.
Il mio collega Luciani, a cui manderò questa pratica, ci troverà forse di che far assolvere Mazetti, o almeno evitargli una pena troppo dura.
E io? Continuerò, come sempre, a difendere delle canaglie.
Golden Gate, Cannes, 8 novembre 1955.
Risvolto
La sera in cui Lucien Gobillot - uno dei più celebri avvocati di Parigi, la cui brillante carriera deve molto alle relazioni di sua moglie negli ambienti politici e mondani della capitale - riceve la visita di quella ragazza con «un viso da bambina e da vecchia allo stesso tempo, un misto di ingenuità e di astuzia ... di innocenza e di vizio», cinica e palesemente pronta a tutto, ma anche, in un suo strano modo, commovente, che gli chiede di difenderla in un processo per tentata rapina, non immagina che la sua intera esistenza ne sarà sconvolta dalle fondamenta. A cominciare dalla ferrea, incrollabile complicità che per più di vent’anni lo ha legato alla moglie - la bella, la raffinata, la sprezzante Viviane. Con mano da maestro, Simenon ci fa percorrere tutte le tappe di un amour fou turbinoso e funesto, regalandoci uno dei suoi romanzi più intensamente erotici, più strazianti e appassionati.
Scritto a Cannes nel 1955, En cas de malheur fu pubblicato l’anno seguente, e nel 1958 fu portato sullo schermo da Claude AutantLara (in Italia il film, che aveva come protagonisti Jean Gabin e Brigitte Bardot, uscì con il titolo La ragazza del peccato, e con alcune scene parzialmente tagliate dalla censura). Di Georges Simenon (Liegi 1903-Losanna 1989) sono recentemente apparsi presso Adelphi Gli intrusi (2000), I Pitard (2000) e, per la serie delle «Inchieste di Maigret», Maigret va dal coroner (2001).