DOVE COMINCIA L'UOMO
Telmo Pievani e Giuseppe Remuzzi
Recensione
Questo libro ci fa scoprire come diverse popolazioni umane siano emerse e scomparse, per poi dare origine alla specie a cui apparteniamo, ricordandoci che siamo l’ultimo ramoscello di un albero ramificato in cui molte varianti della linea Homo si sono incrociate. Gli autori svelano come la ricerca scientifica recente abbia ribaltato idee che un tempo parevano indiscutibili, invitando a ripensare le origini della nostra specie in termini nuovi e sorprendenti. Secondo Pievani e Remuzzi, l’incredibile varietà di forme umane è emersa da ondate migratorie diverse, tutte partite dall’Africa in epoche distanti. Il libro cita anche un episodio critico, verificatosi tra 900.000 e 800.000 anni fa, quando la nostra stirpe si ridusse a un’esigua minoranza a causa di un cambiamento climatico estremo.
Ma, nonostante le prove tremende affrontate, Homo sapiens è riuscito a dominare la scena, fino a diventare la sola specie rimasta. L’opera racconta come questa progressione sia stata guidata dalla capacità di riflettere, di adattarsi e di sviluppare soluzioni innovative: tratti peculiari che hanno permesso alla nostra linea di proseguire la propria storia.Chi desidera scoprire da dove derivano le peculiarità di Homo, tra cui la coscienza e la spinta a modificare l’ambiente, troverà qui una fonte ricca di aneddoti e spiegazioni scientifiche per riflettere su come le azioni umane possano influenzare la Terra e la salute collettiva. In un periodo in cui il contesto ambientale è in continuo mutamento, la prospettiva storica offerta dagli autori ricorda quanto sia preziosa la comprensione delle nostre radici per affrontare le difficoltà presenti e quelle che verranno.
DOVE COMINCIA L'UOMO
Introduzione
Siete pronti a viaggiare nel tempo? Nel 2018 fece scalpore la scoperta che una tredicenne, vissuta 90.000 anni fa nella grotta di Denisova sui monti Altai, in Asia centrale, aveva avuto il padre e la madre di due specie umane differenti: il suo Dna era per metà neandertaliano e per metà denisovano, cioè appartenente a una forma umana asiatica del genere Homo di cui ancora sappiamo poco. Il rinvenimento pose subito un dilemma: o i ricercatori erano stati molto fortunati e avevano trovato l’equivalente di un ago in un pagliaio; oppure gli accoppiamenti tra specie diverse erano molto più frequenti di quanto avessimo mai sospettato. In quella grotta, peraltro, abitarono anche gruppi di Homo sapiens.
Per noi oggi è quasi impossibile immaginare un essere umano ibrido, ma in passato fu per lungo tempo la norma. Su «Nature» e «Science» di dicembre 2024 leggiamo che i nostri antenati usciti dall’Africa e i Neanderthal vissero a lungo negli stessi territori in Eurasia e che nell’ultima fase fecero figli insieme almeno per 7000 anni. Era insomma normale che succedesse e in quel periodo storico (fra 50.500 e 43.500 anni fa) un nostro antenato su venti era neandertaliano. Alcuni gruppi di Homo sapiens, in Europa centrale e orientale, si ibridarono anche più assiduamente con i Neanderthal della regione intorno a 46.000 anni fa, ma poi per motivi sconosciuti non lasciarono discendenti.
Sono scoperte avvincenti che negli ultimi anni si sono succedute a ritmo incalzante. Le altre specie umane erano intelligenti, ben adattate al loro ambiente, socialmente organizzate e anche capaci di espressioni simboliche ed estetiche. I cuccioli ibridi erano evidentemente sani, fertili e accolti dalle tribù di riferimento, al punto da avere a loro volta una discendenza. Altrimenti oggi non avremmo una situazione per cui tutte le popolazioni umane moderne, fuori dall’Africa, hanno nel loro Dna piccoli frammenti sparsi neandertaliani e denisovani. Quindi i frutti di quegli accoppiamenti ibridi si riprodussero a loro volta e divennero nostri antenati diretti. Siamo figli delle ibridazioni tra una molteplicità di specie umane.
Tra migrazioni, ibridazioni, cambiamenti climatici e alberi genealogici di specie, in questo libro proveremo a raccontare gli ultimi aggiornamenti scientifici su alcune domande affascinanti che riguardano le nostre origini. Come è nata la specie umana? Quando è uscita dall’Africa? Cosa è successo quando ha incontrato altre forme umane recenti? Da dove venivano queste ultime e perché a un certo punto, tutte insieme, si estinsero? E dunque, perché siamo rimasti l’unica specie umana sulla Terra 40 millenni fa? La nostra idea è che dalle risposte a queste domande possano derivare indicazioni preziose per capire che cosa rende unici (cioè diversi a modo nostro, non speciali né superiori) noi Homo sapiens, come entriamo in relazione con l’ambiente e con i nostri simili, in che modo possiamo imparare dai nostri difetti e indirizzare al meglio il futuro.
La nostra specie è nata certamente in Africa, ma il come e il quando sono ancora oggetto di dibattito e ricerche. Intorno a 300 millenni fa, nel sito di Jebel Irhoud in Marocco e poco dopo in Sudafrica, cominciano a emergere alcuni tratti tipici di Homo sapiens, nella dentatura, nella forma del cranio e della faccia. Tuttavia, la morfologia completamente attribuibile alla nostra specie si stabilizza, un centinaio di millenni dopo, in Africa centro-orientale, da decenni considerata la culla dell’umanità. Pertanto non è ancora chiaro se la nostra fu una speciazione graduale e multiregionale (cioè avvenuta in parallelo in diverse regioni del continente africano) oppure punteggiata, cioè più veloce, e localizzata intorno al Corno d’Africa.
Anche le uscite dall’Africa sono ancora da chiarire. Negli ultimi anni sono state raccolte evidenze circa possibili espansioni di popolazioni con i tratti tipici della nostra specie già in epoche remote, più di 130.000 anni fa almeno, in Medio Oriente, Europa e Cina. Ma è pure ben documentato geneticamente il fatto che tutti gli esseri umani moderni fuori dall’Africa discendono da un singolo gruppo di pionieri, migrato fuori dal continente in tempi successivi, fra 70.000 e 60.000 anni fa, divisosi poi in tante bande nomadi. Siamo tutti cugini stretti e con un Dna identico al 99,98% proprio perché ciascuno di noi ha un antenato vissuto in quella rete di comunità africane recenti. Essendo Homo sapiens una specie giovane (60.000 anni corrispondono a circa 2400 generazioni umane), mobile e promiscua, non ha sviluppato al suo interno né sotto-specie né razze.
Una volta diffusi non più solo in Africa ma anche in Eurasia (il cosiddetto Vecchio Mondo, distinto dai nuovi mondi dell’Australia e delle Americhe, nei quali i primi Homo sapiens arrivarono rispettivamente 65.000 e circa 18.000 anni fa), i nostri antenati si imbatterono in almeno altre quattro specie umane: Homo neanderthalensis in Medio Oriente ed Eurasia occidentale; l’uomo di Denisova in Asia centrale e orientale; due specie umane pigmee sull’isola di Flores in Indonesia (Homo floresiensis) e sull’isola di Luzon nelle Filippine (Homo luzonensis). Con le prime due, come abbiamo detto, ci siamo ibridati fino a tempi molto recenti. Deboli segnali genetici lasciano supporre che potrebbero esserci altre «specie fantasma», non ancora scoperte, nascoste nel nostro fitto albero genealogico. Staremo a vedere.
Ma perché tutte queste specie umane in circolazione? Ciascuna era la discendente di una delle tante migrazioni di forme del genere Homo fuori dall’Africa. Le specie pigmee e Homo erectus provenivano dall’antica diaspora di Homo ergaster (o forse addirittura di specie ancor più vecchie), uscito dal continente africano due milioni di anni fa. Neanderthal e Denisova erano invece figlie della diaspora di Homo heidelbergensis in Eurasia, avvenuta almeno 600.000 anni fa, dopo il drammatico collo di bottiglia climatico che tra 900.000 e 800.000 anni fa ridusse per più del 98% le popolazioni umane. Viviamo su un pianeta instabile e migrare è l’adattamento più efficace per cavarsela.
Ci sono stati molti modi di essere umani, dunque, fino a tempi recenti, e con alcuni di questi abbiamo convissuto in modo stretto, al punto da avere accoppiamenti frequenti tra alcuni gruppi. Il che rende l’ultima domanda la più difficile e al contempo la più cruciale: perché siamo rimasti soli, fra 50 e 40 millenni fa? Che fine hanno fatto tutti gli altri? Forse hanno sofferto anche loro cambiamenti climatici ed ecologici. Forse c’è il nostro zampino invadente. O una miscela letale dei due fattori. Non lo sappiamo e le ipotesi in gioco saranno sviscerate nei saggi che seguono. Per certo possiamo dire che a nostro favore hanno giocato le capacità linguistiche e l’organizzazione sociale. Vivere in gruppi di persone solidali, cooperative e altruiste può dare un grande vantaggio competitivo. Raccontare storie sprigiona le potenzialità dell’immaginazione.
Non resta dunque che partire per questo viaggio nella storia dell’avventura umana. Nel titolo del libro adottiamo la parola «uomo» in senso scientifico e sintetico, riferito alla specie umana come entità biologica, cioè in un senso neutro e non marcato.
Nella prima sezione – preceduta dalla recente conferma che furono proprio i primi esseri umani giunti in Australia e nelle Americhe ad aver estinto le megafaune di quei continenti (siamo una specie ingombrante da sempre) – discuteremo alcune premesse dell’evoluzione umana, come la comparsa del sesso, le ridondanze del nostro Dna, la sopravvivenza dei mammiferi alla catastrofe che spazzò via quasi tutti i dinosauri e quella dei nostri antenati africani al collo di bottiglia climatico che sterminò buona parte dell’umanità 900 millenni fa.
Nella seconda sezione tratteremo appunto le convivenze tra specie umane diverse, con una digressione sull’origine del bacio e un omaggio al Premio Nobel per la medicina del 2022, Svante Pääbo, pioniere degli studi sul Dna antico. Finalmente un Nobel evoluzionistico.
Nella terza approfondiremo i meccanismi e gli effetti delle ibridazioni tra noi, i Neanderthal e i Denisovani, con sorprendenti ricadute anche per la salute umana attuale, perché lo studio del passato remoto ci aiuta a comprendere il presente in modi assai concreti. Un filo insospettato lega infatti i Neanderthal alla pandemia di SARS-CoV-2 e perfino agli antibiotici.
Nella quarta sezione entriamo nel cuore della questione: quando siamo diventati Homo sapiens e che cosa ci ha reso unici, oltre che soli? Riserveremo un particolare riguardo al tema dell’altruismo e dell’evoluzione della cooperazione, che insieme al linguaggio custodiscono certamente il segreto del nostro successo. Un successo peraltro ambivalente: siamo artefici di una creatività senza eguali e, al contempo, di una prepotenza che da millenni plasma e sfrutta la natura.
Nella quinta e ultima sezione volgiamo lo sguardo al futuro, per capire che cosa questa storia meravigliosa può insegnarci per lenire il dolore, combattere le disuguaglianze, affrontare il mondo digitale, curare le malattie, vivere meglio e più a lungo, far progredire le conoscenze, adattarci al riscaldamento climatico antropico, coltivare una curiosità inesauribile.
Questo è a suo modo un libro corale, perché molti capitoli derivano da dialoghi con i più illustri studiosi al mondo delle discipline connesse all’evoluzione umana e al rapporto tra gli esseri umani e l’ambiente. Lo è anche perché siamo due studiosi che cercano di rendere complementari le loro competenze: l’evoluzione e la medicina. In un tempo in cui molti si illudono di poter fare a meno della scienza e dell’approccio razionale alla realtà, ci accomunano la passione per la ricerca di base e il dovere civile di raccontarla. Sappiamo molto più di loro, ma in fondo stiamo ancora cercando una risposta alla domanda che forse già balenava nelle menti dei primi Homo sapiens africani: da dove veniamo e dove stiamo andando?
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Il mammut e il bambino
Un gelido ponte di terra, oggi sommerso, univa un tempo Nord America e Siberia orientale. Si chiamava Beringia: più di mille chilometri di tundra, paludi e pianure che si estendevano dall’oceano Pacifico all’Artico.
Sul versante asiatico, i cacciatori di mammut e caribù erano all’opera da diversi millenni. Di origine africana e con la pelle scura, gruppi di Homo sapiens ben equipaggiati salirono dai monti Altai lungo la valle del fiume Jenisej, raggiungendo la costa ghiacciata del Mare di Kara, oceano Artico, già 45.000 anni fa. Impararono a vivere a venti gradi sotto zero, come i pachidermi di cui si cibavano. Avvicinarsi sarebbe stato troppo pericoloso e allora li colpivano a distanza con i propulsori, in punti nevralgici come il collo e la base del tronco. Le lance erano scagliate con tale vigore da penetrare pelle e muscoli, conficcandosi perfino nelle ossa.
Poi lasciavano che la povera bestia si dissanguasse per settimane e settimane, inseguendola pazientemente giorno e notte, finché non crollava stremata e potevano darle il colpo di grazia. A quel punto la macellavano minuziosamente, perché del mammut non si buttava via niente: carne, gobba piena di grasso, pelle, lingua, zanne d’avorio per fare strumenti. Chi ha compiuto quell’impresa aveva una grande immaginazione, poiché la sera prima, davanti al fuoco, bisognava raccontare una storia, prefigurarsela nella mente come un film e mettersi d’accordo. Quei cacciatori inventarono il teatro: raccontavano storie, avevano un’intelligenza narrativa.
Inseguendo le loro prede, inconsapevolmente si spostarono sempre più a est, fino alla Beringia appunto. Transitando in quella geografia di ghiaccio, forse non si accorsero che a nord un manipolo di mammut si era rifugiato nella penisola e poi isola di Wrangel, un angolo sperduto dell’Artico siberiano orientale dove i cacciatori paleo-eschimesi arriveranno soltanto molto tempo dopo. Su Wrangel i mammut, un po’ rimpiccioliti, resistettero fino a meno di 4000 anni fa, sfiorando così la storia delle civiltà umane. I loro cugini più grandi invece vagarono per decine di migliaia di anni nell’intero emisfero settentrionale, compreso il Nord America.
Qui viveva un meraviglioso zoo di mammiferi giganti: oltre a mammut e mastodonti, bisonti enormi, cervalci, booteri, leoni, camelidi e lupi spaventosi, bradipi terricoli della stazza di un elefante, felini dai denti a scimitarra, castori grossi come orsi, roditori, tapiri, armadilli e formichieri extralarge. Poi avvenne qualcosa di drammatico e misterioso: in un breve lasso di tempo, intorno a 12.000 anni fa, quasi tutta la megafauna (cioè gli animali sopra i 44 chili) fu spazzata via. Da cosa?
L’indiziato numero uno fu il clima. In un articolo apparso su «Nature Comunications» nel 2021, alcuni ricercatori del Max Planck Extreme Events Research Group di Jena scoprirono che alla fine del Pleistocene questi animali avevano sofferto un doppio shock ambientale: intorno a 14.700 anni fa il continente subì un periodo di riscaldamento, seguito da una glaciazione polare improvvisa, 12.900 anni fa, che poi cessò come sul resto del pianeta, dando inizio ai tepori dell’Olocene. Fu un uno-due micidiale, che causò forti fluttuazioni demografiche in tutte le specie di grandi dimensioni: alla fine i ghiacciai si ritirarono verso nord e molte di loro furono incapaci di adattarsi alle nuove condizioni.
L’ipotesi climatica non piacque al tenace paleo-ecologo dell’Università dell’Arizona Paul S. Martin, che già negli anni Sessanta aveva notato che i bestioni nordamericani erano sopravvissuti per almeno due milioni di anni a cicli di riscaldamento e raffreddamento. Perché proprio l’ultimo sarebbe stato così letale? Ne avevano già viste di tutti i colori e ce l’avevano fatta. No, qualche altra causa di estinzione era all’opera e noi sappiamo che in fatto di estinzioni sulla Terra esiste uno specialista: Homo sapiens.
Così tornò al centro dell’attenzione la Beringia, il continente sommerso, il cui clima era intiepidito dalle correnti del Pacifico. Quando fu che i primi cacciatori della nostra specie riuscirono ad attraversarlo? Forse non nel periodo proibitivo che va da 26.000 a 19.000 anni fa, durante il quale l’era glaciale raggiunse il suo ultimo picco. Ma abbiamo visto che gli abili inseguitori di mammut erano in circolazione nella regione artica già 45 millenni fa, quindi non si può escludere che anche prima abbiano fatto incursioni a oriente, fino all’attuale Alaska.
Quando il mare non si era ancora risollevato, sommergendo la Beringia, ma l’era glaciale volgeva al termine, il disgelo aprì un corridoio fra i ghiacci che passando dalla valle del fiume Yukon, poi dal bacino fluviale del Mackenzie e scendendo sul versante orientale delle Montagne Rocciose sbucava sulle grandi pianure nordamericane. In effetti i resti archeologici più antichi rinvenuti in quel continente – le punte di lancia in pietra della cultura Clovis – risalgono a quel periodo, tra 14.900 e 12.700 anni fa, la fase storica che coincide con l’estinzione dei grandi mammiferi.
Martin dunque ipotizzò che i cacciatori venuti dall’Asia fossero discesi lungo queste vallate lasciate libere dai ghiacci e avessero sterminato mastodonti e bradipi giganti, che non avevano mai visto un predatore così organizzato, veloce e famelico. Non avevano apprestato le difese. Quanto ai mammut, loro ci conoscevano già, ma poco potevano contro un gruppo di umani armati di lance e propulsori. Insomma, ce li mangiammo tutti. L’ipotesi, alquanto cinematografica, incontrò molti favori di stampa, ma anche dure opposizioni scientifiche. Gli scettici dissero che le punte di Clovis non erano abbastanza forti per compiere quell’ecatombe e che non c’era traccia di montagne di ossa spolpate di giganti negli insediamenti degli antenati dei nativi americani. Costoro probabilmente si cibavano di piccoli mammiferi, pesci e piante. E qui entra in scena un bambino vissuto nel Montana 12.800 anni fa.
In un articolo pubblicato nel 2024 su «Science Advances», un team di ricercatori coordinato dagli archeologi dell’Università dell’Alaska a Fairbanks, Ben Potter e Matthew J. Wooller, ha esplorato un’altra strada: analizzare la composizione chimica delle ossa dei primi cacciatori nordamericani per comprenderne la dieta. Mangiare più piante o più animali, infatti, determina composizioni differenti negli isotopi di carbonio e azoto che si ritrovano nelle ossa: una vera e propria firma isotopica della dieta.
Il bambino di Anzick, dal nome dei proprietari del ranch di Wilsall in cui è stato trovato, faceva parte di una tribù Clovis e aveva 18 mesi quando è morto. Si trovava proprio lungo il corridoio lasciato libero dai ghiacci. Prima che venisse riseppellito, nel 2014, le comunità native Crow diedero il permesso ai ricercatori di analizzare alcuni campioni del suo cranio. La firma isotopica del carbonio e dell’azoto ha dato un risultato inequivocabile: il latte materno che lo ha fatto crescere era di una donna che mangiava quasi esclusivamente carne e il restante cibo solido che il piccolo ingeriva era pure prevalentemente a base di carne. Gli scienziati sono andati alla ricerca delle firme isotopiche corrispondenti dei tessuti degli animali che vivevano nella zona e ne hanno dedotto che Anzick-1 mangiò per il 40% proprio mammut. Il cucciolo e sua madre non disdegnavano, a seguire, bistecche di alce e di bisonte. I piccoli mammiferi erano solo di contorno: 4% della dieta. In pratica, i Clovis avevano la stessa dieta delle tigri dai denti a sciabola, i predatori apicali che sostituirono.
Certo, è un caso singolo, serviranno altre prove, ma pare proprio che gli antenati asiatici dei nativi americani abbiano apprezzato la megafauna e in particolare i buoni vecchi mammut. Forse con la complicità di un clima capriccioso, furono loro a portarli all’estinzione. Leggere l’intero menù di una dieta nel frammento craniale di un bambino è come guardare un’istantanea del passato: 13.000 anni di storia americana. I discendenti locali di quei cacciatori, le tribù Crow del Montana, hanno accolto la scoperta con orgoglio: la vera epopea americana, di genti capaci di sopravvivere e prosperare in condizioni così difficili, fu la loro, non quella del West. Poi fecero pace con quella natura maestosa e la venerarono fino all’alba di un brutto giorno in cui arrivarono i conquistatori europei, con le loro armi e malattie.
La scoperta illustra bene il metodo scientifico «abduttivo» che si applica negli studi evolutivi. Si cerca di inferire la spiegazione migliore, tra le varie possibili, a partire da indizi, come Sherlock Holmes. Si confrontano modelli alternativi (clima o cacciatori?), si raccolgono dati a favore dell’uno o dell’altro, finché sperabilmente uno dei due appare più probabile e parsimonioso (cioè più semplice, con meno condizioni da rispettare).
Il lato scomodo della faccenda è che a questo punto l’estinzione della megafauna americana ha un colpevole, umano. Nulla giustificherà mai i crimini e i disastri ambientali del colonialismo e dell’imperialismo. E nulla è comparabile alla devastazione ecologica perpetrata dalle tre ultime generazioni umane. Ma Homo sapiens, dove arriva, cambia il mondo da un sacco di tempo. La morale del mammut e del bambino è che l’Antropocene ha radici profonde. Forse non siamo mai stati sostenibili.
2
Perché facciamo sesso? A dirla tutta quasi per caso
Perché animali e umani fanno sesso? Una domanda pressappoco così se l’era già posta Darwin, ma non è stato mai capace di darsi una risposta. Poi per un po’ nessuno ne ha più parlato. Gli animali, dagli insetti, agli uccelli, ai mammiferi, per riprodursi hanno bisogno del sesso, che non è nemmeno prerogativa soltanto loro. Ci sono forme di sessualità delle piante e dei funghi e perfino dei protozoi. Un lavoro pubblicato su «Science» fa vedere che il Trichomonas vaginalis, un protozoo che si pensava si dividesse solo per via asessuata, ha tutto quello che serve per la riproduzione sessuale. Ma quando è cominciato il sesso sulla Terra? Difficile dirlo, forse due miliardi di anni fa o anche prima secondo gli studi più recenti.
C’erano allora sulla Terra creature ameboidi e asessuate che si riproducevano senza bisogno di sesso. Ciascuna si divideva in due, e i geni passavano alla discendenza così com’erano, erano aploidi e restavano aploidi (cioè con la metà dei cromosomi che hanno oggi le cellule dei vertebrati e dell’uomo). Si è arrivati a cellule diploidi perché i meccanismi di divisione di quelle cellule primordiali ogni tanto s’inceppavano. Così capitava che due cellule aploidi si fondessero per errore. O che cellule aploidi dopo aver duplicato il loro Dna non riuscissero più a dividersi, e si sono formate per caso cellule con un genoma il doppio più grande del normale. Era un bel guaio perché ogni volta che dovevano copiare il Dna c’era rischio di sbagliare. Ciascun cromosoma si poteva combinare con qualunque altro anche se non condivideva la stessa sequenza di geni, si creavano pezzi di Dna improbabili e la cellula poteva anche morire. È stato per difendersi da questo pericolo che le cellule hanno imparato ad allineare cromosomi omologhi che così si potevano ricombinare senza troppi rischi.
Ma riprodursi per via sessuale è complesso – si tratta di combinare il proprio Dna con quello di un altro per formare un nuovo genoma –, costa molto di più in termini di energia e non è neanche vantaggioso sul piano genetico. Un organismo asessuato trasmette ai discendenti tutto il suo genoma, così com’è. Col sesso invece il numero di geni che si possono trasmettere ai discendenti si dimezza. E allora perché il sesso si è diffuso e così tanto e a tante specie diverse? Di sicuro non si sa. È verosimile che l’integrazione dei due genomi dia una serie di vantaggi e aiuti l’evoluzione. Vediamo come.
Se sei un organismo asessuato e ti capita per caso che uno dei tuoi geni muti in senso favorevole, passerai la mutazione ai tuoi discendenti e la passerai così com’è. Col sesso puoi prendere vantaggio dalla mutazione favorevole che capita a te ma anche a quella dell’organismo con cui combini il tuo Dna. E può succedere in tempi relativamente rapidi. Il nuovo genoma se ha incorporato mutazioni davvero vantaggiose darà origine a individui migliori o più forti, capaci per esempio di affrontare meglio le situazioni di stress o di adattarsi alle difficoltà dell’ambiente senza troppi problemi. Ipotesi, almeno finora. Ma Matthew Goddard, che lavora a Auckland in Nuova Zelanda, ha voluto vederci chiaro. Ha creato due tipi di lieviti, certi che si possono riprodurre per via sessuale e altri che si riproducono senza sesso. In condizioni di stress come quando c’è carenza di sostanze nutritive crescono bene solo i lieviti sessuati e gli altri piano piano scompaiono. E vale anche per altri organismi, come i protozoi. La Leishmania trae vantaggio dal sesso è il titolo dell’editoriale di «Science» che accompagna un lavoro recente di ricercatori di Bethesda, Maryland. Come? Col sesso riesce a adattarsi all’uomo e a eludere la sorveglianza del sistema immune fino a sopraffarlo, certe volte.
C’è anche il caso di mutazioni pericolose o fatali. Se succedono a un organismo asessuato quelle mutazioni lì, ne rallentano la crescita e passano alle generazioni successive così come sono. Fin qui nessun problema, ma se incontrano altre circostanze sfavorevoli – nei geni o nell’ambiente – quelle specie si possono perfino estinguere. Chi si riproduce per via sessuale fa fronte a mutazioni sfavorevoli utilizzando il gene omologo, sano, che sta sull’altro cromosoma.
Anche per difendersi dai parassiti serve saper mescolare il proprio Dna con quello di un altro. Gli organismi asessuati non ce la fanno e di solito la battaglia la vincono i parassiti.
Questo è solo un po’ di quello che sappiamo finora sulle ragioni del sesso sulla Terra. Ce ne sono altre, e altre ancora le scopriremo negli anni a venire. Cosa dire? Che al sesso sulla Terra si è arrivati un po’ per caso. Poi mescolare il Dna è diventato il modo più efficace per sopravvivere, evolvere e migliorare la specie. Il sesso costa di più ma rende anche di più, rende meno vulnerabili ed è facile prevedere che indietro non si tornerà.
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Che eccessi in quel Dna
Abbiamo un Dna barocco, pieno di arzigogoli in sovrappiù. Il nostro genoma contiene poco più di tre miliardi di lettere AGCT, le basi nucleotidiche. Eppure, i geni che vengono trascritti e tradotti in sequenze di amminoacidi per costruire le proteine, i mattoni fondamentali dello sviluppo e della fisiologia di ogni organismo sulla Terra, sono soltanto un’esigua minoranza di tutto il genoma (circa il 2%). Fluttuano come isole in mezzo a un oceano di sequenze apparentemente inutili.
Come mai? Un ingegnere non progetterebbe una macchina in questo modo. Se paragoniamo tra loro le dimensioni dei genomi di specie diverse scopriamo che non c’è una corrispondenza lineare tra il numero di geni attivi e la complessità delle forme di vita. La cipolla, per esempio, possiede più del quadruplo del nostro Dna e, con tutto il rispetto per questa deliziosa pianta bulbosa, non pensiamo che sia quattro volte più complessa e intelligente di Homo sapiens. Tale stranezza avviene perché nelle piante le specie nascono talvolta fondendo per ibridazione i loro genomi, che diventano grandissimi, e poi perché il Dna è pieno di parole e frasi che non dicono nulla: ripetizioni, finti geni, geni disattivati, geni introdotti da retrovirus nel lontano passato (quasi l’8%). Il barramunda, un pesce polmonato australiano, ha un genoma gigante, lungo quattordici volte quello umano. Quindi, non conta quanti geni si hanno, ma come sono connessi tra loro e come sono regolati.
I geni umani sono poco più di 22.000 soltanto, ma mediamente un gene può produrre, in tessuti diversi, quattro proteine differenti. Tutte le cellule del nostro corpo hanno lo stesso genoma, ma poi si differenziano e assumono funzioni diverse, dipendenti da come i geni sono espressi e regolati. Resta però un punto oscuro. Avere quel Dna in eccesso è un costo. Perché, dunque, la selezione naturale non ha ottimizzato i nostri genomi, pulendo via le parti «neutrali» o non funzionali? Forse perché svolgono funzioni che ancora non conosciamo. Una decina d’anni fa il consorzio internazionale Encode aveva notato che molta parte del cosiddetto «Dna spazzatura» (Junk Dna), lunghe stringhe di Dna per anni trascurate, è attivo, cioè produce trascritti di Rna, e potrebbe essere coinvolto in qualche processo biochimico. Insomma, non è inerte come ci aspetteremmo da qualcosa che non serve a niente. Innanzitutto, il Dna che non codifica direttamente per proteine contiene molte sequenze che regolano l’attività dei geni e dunque sono essenziali. I trascritti di certe sequenze neutrali potrebbero essere una reminiscenza evolutiva di geni un tempo attivi e ora dismessi. Inoltre, le zone presunte inutili potrebbero avere un ruolo strutturale, per esempio distanziando i geni fra loro. Una quarta possibilità, più sorprendente, è che in quelle regioni si nascondano sequenze in questo momento inutilizzate, ma che potrebbero essere ingaggiate e combinate per dare origine a nuovi geni. In pratica: una riserva alla quale attingere.
La spazzatura non è esattamente il luogo in cui immaginiamo che nascano le novità più interessanti, eppure in genetica sembra proprio che accada spesso così. Uno studio pubblicato recentemente su «Nature Ecology & Evolution» da un team di ricercatori dell’Università di Pechino guidati dal professor Chuan-Yun Li è riuscito per la prima volta a descrivere il meccanismo che rende possibile questo ripescaggio. Gli imputati sono alcuni complessi enzimatici, chiamati Ui, che regolano le possibilità di movimento dell’Rna messaggero, quello che deriva dalla trascrizione del Dna all’interno del nucleo (ne abbiamo sentito tutti parlare perché alcuni vaccini contro SARS-CoV-2 sono stati realizzati utilizzando proprio l’Rna messaggero).
La densità dei siti di riconoscimento delle proteine Ui regola il processo di trasferimento di Rna immaturo in Rna maturo che poi migrerà dal nucleo nel citoplasma della cellula: maggiore densità equivale a minore maturazione dell’Rna. Gli Rna non codificanti hanno una maggiore densità di siti di riconoscimento per le proteine Ui rispetto agli Rna messaggeri codificanti. Comparando il profilo degli Rna codificanti e non codificanti in Homo sapiens e negli scimpanzé rispetto ai macachi, gli autori hanno individuato 74 Rna messaggeri che sono codificanti nel cervello umano e di scimpanzé, ma restano non codificanti nel macaco. La differenza è che negli Rna messaggeri trascritti da questi nuovi geni ci sono meno sequenze di legame per proteine Ui rispetto ai corrispondenti di macaco. Quindi la trasformazione di un Rna non codificante in Rna messaggero avviene tramite una riduzione della densità dei siti di riconoscimento Ui, con la conseguente maturazione dell’Rna messaggero e la migrazione dal nucleo al citoplasma.
Questo è stato dimostrato con l’editing genetico su 14 di questi geni in cellule umane. Questi geni sono espressi in modo predominante nel cervello e nei testicoli. Per chiarire il significato biologico di questi geni originatisi de novo, gli autori hanno utilizzato organoidi corticali del cervello partendo da cellule staminali embrionali per mimare lo sviluppo precoce della neocorteccia umana. Si sono concentrati su uno di questi geni de novo (ha una sigla lunghissima, ve la risparmiamo) che codifica per una proteina di 107 amminoacidi localizzata sia nel nucleo che nel citoplasma, molto espressa nel cervello umano durante lo sviluppo embrionale. Mutando un sito di legame Ui con l’editing genetico in cellule progenitori di neuroni umani, gli autori hanno visto un aumento dell’Rna messaggero maturo nel citoplasma. Infine, gli autori hanno generato topi transgenici che esprimono proprio quel gene umano e che mostrano cervelli più grandi a causa di un’espansione della corteccia.
La scoperta, in sostanza, è che attraverso questo processo l’Rna non codificante può diventare Rna messaggero a tutti gli effetti, un «clandestino di successo». Com’era già stato mostrato su «Nature» nel 2019, questi «geni dalla discarica» possono evolvere da lunghe porzioni non codificanti del Dna i cui trascritti cominciano a uscire dal nucleo e a sintetizzare proteine che poi la selezione naturale raffina. Il team cinese ha mostrato che ben 74 nuovi geni (di cui 45 tipicamente umani e 29 condivisi con gli scimpanzé) sono emersi nel corso dell’evoluzione. E non sono geni qualunque, visto che controllano la velocità dello sviluppo cerebrale, rendendo il nostro encefalo più voluminoso e complesso.
Quindi la genetica alla base dell’unicità dell’intelligenza umana deve molto a geni ripescati dalla spazzatura del Dna. Anche per questo, alcuni genetisti propongono di abolire l’espressione «Dna spazzatura». Resta il fatto però che nel genoma umano ci sono cromosomi che sono quasi interamente costituiti da sequenze ripetute e palesemente inutili. Quel rumore di fondo esiste, al di là di tutte le funzioni che noi forse non riusciamo ancora a vedere. Come ipotizzò nel 1998 il grande biologo molecolare e Premio Nobel Sydney Brenner, esistono due tipi di spazzatura: quella che buttiamo perché è dannosa (garbage) e quella che teniamo perché innocua (junk). I processi molecolari che generano Dna extra superano quelli che se ne liberano, ecco perché i genomi sono barocchi. La selezione naturale pulisce via il garbage, ma tollera entro certi limiti il junk.
Ora sappiamo che nel junk ci sono sequenze di riserva, neutrali, che possono essere attivate nel corso dell’evoluzione e convertite a nuove funzioni, come se fossero materiale grezzo su cui la selezione naturale può agire. Un po’ come quelle cianfrusaglie che teniamo in garage perché non si sa mai, un giorno potrebbero tornarci utili. Questo meccanismo di cooptazione da precursori non funzionali, intuito già da Charles Darwin, è oggi chiamato exaptation, cioè il riuso opportunistico di strutture (genetiche e fenotipiche) evolutesi per tutt’altre ragioni o come effetto collaterale di altri processi. L’evoluzione non parte ogni volta da zero, ma lavora come un bricoleur, facendo di necessità virtù con il materiale a disposizione. Il nostro cervello è un campione di bricolage e deve la sua plasticità proprio al fatto di aver convertito più volte le sue strutture a nuove funzioni. Dunque la ridondanza del Dna può avere un valore adattativo. Non si pensi però che il processo evolutivo possa prevedere in anticipo l’utilizzo di una sequenza neutrale. L’evoluzione non vede nell’avvenire e non può favorire un tratto per via di una sua potenziale utilità futura. La selezione naturale premia le possibilità di sopravvivenza e di riproduzione del singolo individuo qui e ora, nel corso della sua vita. Tuttavia, in natura alla lunga vince il compromesso: quella ridondanza potrebbe essere un costo che la selezione in passato ha tollerato perché chi la possedeva aveva di fatto una maggiore evolvibilità, cioè la capacità di evolvere nuovi geni per cooptazione. Detto altrimenti: noi discendiamo dagli antenati che hanno assemblato nuovi geni dalla spazzatura e così hanno avuto più margini di cambiamento.
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Grati al Dna spazzatura
Chi regola lo sviluppo del cervello dell’uomo? Certi organelli citoplasmatici detti mitocondri che forniscono energia alle cellule e diventano protagonisti dello sviluppo del cervello. Rappresentano il bersaglio finale dell’attività di quei geni controllati da «Dna spazzatura». Non servono a formare proteine e non sono inutili come si pensava, tutt’altro. Controllano la funzione dell’altro Dna, quello «buono», e lo fanno attraverso un sistema di trascrizione dei geni specifico per ciascuna specie ed estremamente sofisticato. Queste regioni del Dna i medici le chiamano «non codificanti», proprio perché non servono a formare proteine, ma la loro funzione è quella di accendere e spegnere geni dell’altro 2%, quello che invece le forma le proteine, e così influenzano la funzione dei nostri organi (il cervello, nel caso di cui ci stiamo occupando). Ed è proprio questo meccanismo che, nel corso dell’evoluzione, ha favorito le capacità cognitive di Homo sapiens rispetto ai nostri parenti più stretti, gli scimpanzé.
Oggi sappiamo, dagli studi di scienziati svedesi dell’Università di Lund, che in certi individui questo meccanismo si inceppa: quando succede c’è difficoltà a concentrarsi, a formulare un ragionamento logico e a esprimersi. Guardano il Dna buono, quello che codifica per le proteine, e non trovano nulla, ma proprio nulla per spiegare l’enorme diversità tra la funzione del nostro cervello rispetto a quello dei nostri cugini delle foreste. Ma quando hanno cominciato a guardare al Dna spazzatura lì sì che hanno trovato qualcosa di davvero inaspettato e che rende noi diversi dai nostri parenti più stretti. A questo punto, Pia Johansson, Per Ludvik Brattas e tanti altri si sono chiesti: «Siamo davvero convinti che una porzione così importante del nostro Dna non serva proprio a niente?». E così hanno deciso di seguire un percorso diverso; per prima cosa però si sarebbe dovuto poter disporre di cellule del cervello di uomo e di scimpanzé e poterle confrontare, ma questo non era eticamente possibile. Così hanno pensato alle cellule staminali totipotenti (simil-embrionali) che si possono ottenere in laboratorio da cellule adulte; questo lo dobbiamo al lavoro di Shin’ya Yamanaka, Premio Nobel nel 2012, il quale ha scoperto che cellule adulte possono essere riportate allo stato di staminali embrionali (cellule «bambine») per diventare poi qualunque altra cellula del nostro o di un altro organismo vivente. Acquisita questa tecnica e dopo essersi accertati che funzionasse bene, i ricercatori sono arrivati proprio alle cellule del cervello partendo da quelle della cute (di uomo e di scimpanzé) e hanno cominciato a cercare le differenze.
È stata una sorpresa trovare che le differenze, come abbiamo visto, fossero proprio nel Dna spazzatura; ma l’aver capito che l’evoluzione del cervello dell’uomo è legata a un meccanismo genetico del tutto inesplorato fino a questo momento apre la strada a capire di più delle malattie psichiatriche. Perché la schizofrenia colpisce l’uomo e non i primati? Se ti fermi al 2%, il Dna codificante, come abbiamo detto, la spiegazione non la trovi, ma se ti metti in testa di studiare l’altro 98% – il Dna che consideravamo spazzatura – forse riusciremo a rispondere a questa domanda. Ma ce ne vorrà di tempo se pensate che tutto quello che oggi sappiamo o pensiamo di sapere sull’evoluzione del cervello è dipeso da quel 2% di Dna buono che abbiamo continuato a studiare da decenni. Si partirà dal realizzare un atlante completo del cervello umano, per la verità lo si è già cominciato a fare (una bellissima analisi di quello che si sta facendo in questo campo viene da «Trends in Neurosciences», fatta da scienziati di Harvard e Università di Helsinki), che mette insieme le competenze genetiche con quelle epigenetiche, ovvero come l’età e l’esposizione a fattori ambientali possono modificare l’espressione dei geni, come questi geni vengono trascritti per diventare proteine, le attività metaboliche di queste proteine e le proprietà biofisiche di tutte queste interazioni. La complessità e i costi di questo approccio sono ovvi, ma non c’è altro modo per andare a fondo in processi tanto complessi quanto affascinanti, che ci aiuteranno a capire cosa c’è di unico nel cervello umano rispetto a quello di altri animali e le differenze tra i due, ma anche come funziona il nostro cervello e perché certe volte qualcosa va storto, anche prima del tempo.
Proprio così. C’è, col tempo, un decadimento delle funzioni intellettuali; il cervello di noi uomini è una macchina più sofisticata di quella degli scimpanzé, dei bonobo, dei primati non umani. Questo lo capiscono tutti, ma abbiamo capito solo recentemente, se mi passate il gioco di parole, che per avere un cervello migliore in termini di consapevolezza, capacità di pianificare, immaginare il futuro, fare dell’ironia e mille altre cose che rendono la nostra specie unica, c’è un prezzo da pagare. Noi uomini siamo più suscettibili degli scimpanzé al declino delle funzioni cognitive. Noi la sostanza grigia del nostro cervello la perdiamo progressivamente dai 45 anni in poi; anche gli scimpanzé perdono sostanza grigia man mano che invecchiano, ma a loro succede molto meno. Non solo, ma l’invecchiamento del cervello per quanto ci riguarda è proprio nelle regioni più delicate, quelle che presiedono alle conoscenze, alla memoria, alla consapevolezza, cioè quelle che si trovano nella regione della corteccia prefrontale. Nel corso dell’evoluzione, il cervello dell’uomo è progressivamente aumentato di dimensioni, particolarmente nella regione della corteccia prefrontale e di quella orbito-frontale; è grazie a questo che siamo capaci di svolgere attività estremamente sofisticate e complesse. E queste aree sono quelle che maturano più lentamente durante lo sviluppo fetale, ma sono anche quelle che si deteriorano per prime durante l’invecchiamento. Gli anglosassoni chiamano questo fenomeno last in, first out, entra per ultimo ma esce per primo.
Come facciamo a essere sicuri che sia proprio così? Gli scienziati hanno studiato il cervello degli scimpanzé e degli uomini (quasi 200 scimpanzé e quasi 500 uomini) con la risonanza magnetica: il decadimento si vede solo negli uomini. Vuol dire che gli scimpanzé non hanno l’Alzheimer? Sembra proprio di no, o perlomeno nessuno è mai riuscito a documentarlo.
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L’estinzione dei dinosauri e il successo dei mammiferi
Pare che il personaggio di Indiana Jones sia ispirato alla vita di un paleontologo, Roy Chapman Andrews. Sulle sue orme adesso troviamo Steve Brusatte, cresciuto nel Midwest, nella grande terra piatta del nord Illinois, bisnonni italiani, cacciatore di fossili in spedizioni in tutto il mondo, dall’isola scozzese di Skye alla Cina. Dopo gli studi a Chicago e a New York, ora Brusatte insegna a Edimburgo. Ha scavato per una vita alla ricerca di tracce di dinosauri, ma adesso gli è venuta la fissa per i mammiferi, cioè per i piccoli eroi involontari che diedero origine alla nostra stirpe a sangue caldo. Ne ha scritto la saga evolutiva, con stile quasi fiabesco, dettagli anatomici finissimi, avventure di esplorazione in luoghi remoti e le efficaci illustrazioni della paleontologa Sarah Shelley.
Il paleontologo racconta di come i nostri antenati sono sopravvissuti in tempi così pericolosi cominciando dalla confutazione di un mito: i mammiferi non hanno sostituito i dinosauri, ma hanno convissuto a lungo con loro. «Negli spettacoli televisivi e nelle mostre» spiega Brusatte «si narra talvolta di come i dinosauri dominarono la Terra per milioni di anni, poi l’asteroide li spazzò via e i mammiferi presero il loro posto.» Certo, i mammiferi sostituirono i dinosauri come i più grandi mangiatori di carne e di piante in cima alle catene alimentari, ma per farlo dovettero sopravvivere anch’essi all’asteroide. Ed «erano già lì, vivevano con i dinosauri, nell’ombra per oltre 150 milioni di anni». Per tutto quel tempo non sono mai stati più grandi di un gatto domestico, ma proprio le loro piccole dimensioni li hanno aiutati a sopportare l’asteroide, e da lì hanno ereditato un vasto mondo, libero dai T. Rex, dai Triceratops e da tutti gli altri dinosauri prepotenti.
Brusatte narra la scoperta in Cina di un fossile di mammifero il cui stomaco conteneva un cucciolo di dinosauro. Una sorta di mondo alla rovescia, che si spiega considerando il fatto che dinosauri e mammiferi hanno avuto entrambi il loro inizio evolutivo circa 230 milioni di anni fa, nel Triassico, nel super continente di Pangea. Da lì, presero strade opposte: i dinosauri crebbero fino a raggiungere dimensioni enormi, alcuni più grandi di aeroplani, mentre i mammiferi diventarono piccoli, relegati nell’oscurità in un mondo invaso da quelle creature giganti. Tuttavia, i mammiferi non erano dei perdenti, e nemmeno noiosi: nuovi fossili meravigliosi dalla Cina mostrano che tra i mammiferi di allora c’erano scalatori, scavatori, nuotatori, perfino quelli che planavano nell’aria su ali di pelle. I re e le regine degli inferi.
Pensare a come abbiano fatto a sopravvivere al cataclisma, se per puro caso o merito, è una sfida intellettuale molto impegnativa e affascinante. L’essere umano, sottolinea Brusatte, «oggi non esisterebbe se i nostri minuscoli e pelosi antenati mammiferi non fossero sopravvissuti alla carneficina: gli incendi, gli tsunami, i terremoti, l’oscurità decennale che seguì quando la polvere e la sporcizia dell’impatto intasarono l’atmosfera». Circa il 75% di tutte le specie si estinse, ma i nostri antenati furono tra i coraggiosi sopravvissuti, perché erano piccoli, potevano nascondersi facilmente nelle tane, mangiare tipi diversi di cibo, crescere e riprodursi velocemente. Quella è stata la mano vincente del poker che li ha aiutati a resistere quando l’asteroide trasformò la Terra in un caotico casinò.
In realtà, i precursori dei mammiferi erano scampati anche a precedenti, forse peggiori, estinzioni di massa causate da super eruzioni vulcaniche. Viene da chiedersi, perciò, se siamo dei predestinati o solo molto fortunati a essere qui. Tutte e due le cose, secondo Brusatte. Circa 250 e 200 milioni di anni fa, enormi fessure, squarci delle dimensioni del Grand Canyon, si aprirono nella Terra e vomitarono lava per centinaia di migliaia di anni, causando un fortissimo riscaldamento globale. «I nostri antenati sopravvissero anche in quei casi perché erano piccoli, adattabili, flessibili. Ma probabilmente furono anche parecchio fortunati.»
Ma visto che anche alcuni dinosauri sopravvissero alla catastrofe, perché non sono diventati loro i dominatori del mondo? In effetti, alcuni dinosauri sono sopravvissuti all’asteroide e ora li chiamiamo uccelli, spiega Brusatte. «Si sono evoluti da dinosauri come i Velociraptor. Può sembrare bizzarro, ma sono l’equivalente dei pipistrelli, strani mammiferi che hanno sviluppato le ali e la capacità di volare. Ecco, parimenti gli uccelli sono strani dinosauri che hanno sviluppato le ali e la capacità di volare.» Sono sopravvissuti all’asteroide perché i loro becchi permisero loro di mangiare i semi, un’abbondante fonte di cibo rimasta per molto tempo dopo la morte degli alberi e il collasso degli ecosistemi. «È vero che questi uccelli non si sono “ri-evoluti” in giganti come i T. Rex, ma in un altro senso questi uccelli alla fine hanno dominato il mondo: oggi ci sono circa 14.000 specie di uccelli, che è circa il doppio del numero di specie di mammiferi.»
Quando qualcuno scopre il fossile di una nuova specie di mammifero, subito pensiamo che sia un «anello mancante» o un nostro diretto lontano antenato, piuttosto che un ramo collaterale, un prozio estinto. Tuttavia la metafora del progresso in paleontologia continua a essere molto fuorviante e nel suo libro Brusatte cerca di scoraggiarne l’uso. Perché la storia dei mammiferi non è stata un’inevitabile marcia di incoronazione dell’umanità. «Dopotutto, siamo solo uno degli oltre 6000 mammiferi viventi oggi. Il senno di poi fa sembrare che tutta la storia sia stata una progressione lineare verso il mondo moderno.» Un problema che affligge anche la nostra comprensione della storia umana, ovvero come pensiamo agli imperi, alle religioni e alle guerre mondiali.
Più efficace, invece, è paragonare l’evoluzione a una sorta di bricolage che può soccorrere gli organismi in modo tale che si adattino alle circostanze attuali, selezionando variazioni nell’anatomia o nel comportamento che li aiutino a sopravvivere meglio di altri nella loro popolazione. «La selezione naturale non può mai predire il futuro. Non può cambiare gli organismi perché milioni di anni dopo avere una certa caratteristica diventerà vantaggioso.» Quindi l’evoluzione è come un meccanico che aggiusta un’auto con le parti che già ci sono. Le piccole ossa del sistema uditivo dei mammiferi, per esempio, sono un rimaneggiamento delle ossa mandibolari dei rettili.
Dopo la catastrofe, i mammiferi ebbero una diversificazione esplosiva. Dai cosiddetti «ratti del Mesozoico» nacquero animali giganteschi e piccolissimi, erbivori, carnivori, monotremi, marsupiali, placentati, pipistrelli in volo e cetacei nei mari… Verrebbe quasi da mettere in dubbio che l’evoluzione debba essere per forza di cose lenta. Brusatte invita il lettore a immaginare di essere una di quelle piccole creature pelose che ce l’hanno fatta. Gli incendi e le onde di marea si fermano, il sole esce dalle nuvole, la Terra sta guarendo. Guardate fuori e davanti a voi c’è quasi il vuoto, il mondo è vostro.
Rapidamente, nel giro di poche centinaia di migliaia di anni, i mammiferi che una volta non erano più grandi di un gatto raggiunsero le dimensioni di maiali e nel giro di circa un milione di anni, alcuni di loro diventarono grossi come mucche, fino alle balenottere azzurre.
Inoltre, recenti studi genetici hanno ridefinito la classificazione dei mammiferi, suggerendo che essa obbedisca più alla geografia e alle migrazioni che all’anatomia. Abbiamo ancora tanto da imparare in merito all’albero genealogico dei mammiferi, dice Brusatte. «Solo da vent’anni gli scienziati possono usare il Dna per capire le relazioni tra i mammiferi. E si scopre che gran parte di ciò che pensavamo sull’evoluzione dei mammiferi era sbagliato!» Tuttavia, non possediamo il Dna per la maggior parte dei fossili, perciò scrutiamo le protuberanze sui denti e le scanalature sulle ossa per capire dove si inseriscono quei mammiferi nell’albero genealogico. Con i fossili non sai mai cosa potresti trovare dopo. Probabilmente ci sono interi gruppi di mammiferi estinti – grandi, strani e straordinari – che semplicemente non abbiamo ancora trovato.
La storia non si fa con i se, lo sappiamo. Ma è divertente pensarci. E se l’arciduca non fosse stato assassinato? E se la crisi dei missili a Cuba fosse sfociata in una guerra nucleare? E se l’asteroide, quel pezzo casuale di spazzatura spaziale, avesse mancato la Terra per un soffio, come sarebbe andata?
Probabilmente i dinosauri avrebbero continuato a prosperare. Quando cadde l’asteroide esistevano già da oltre 150 milioni di anni. Avevano resistito a vulcani, innalzamento e abbassamento dei mari, ondate di caldo e freddo. I mammiferi, d’altra parte, esistevano da tutto quel tempo, ma dovevano rimanere piccoli. È lecito sospettare, quindi, che se non ci fosse stato l’asteroide, i mammiferi sarebbero rimasti relegati nell’ombra, attori secondari in un dramma sui dinosauri che sarebbe continuato fino ai giorni nostri.
E oggi, con il riscaldamento globale antropico e la crisi della biodiversità, anche i mammiferi, che devono le loro principali trasformazioni proprio ai cambiamenti climatici, rischiano di fare la fine dei dinosauri. Perciò un altro «se» appare ineludibile: se fossimo così stupidi da estinguerci, chi prenderebbe il nostro posto nel grande gioco evolutivo?
«In questo momento, i mammiferi sono nel loro punto più pericoloso da quando sono sopravvissuti all’asteroide» spiega Brusatte. «Il mondo sta cambiando velocemente e la colpa è di un mammifero: noi. Quindi, in molti modi, noi siamo l’asteroide.» Ma sappiamo anche di esserlo, precisa. L’evoluzione ha dotato l’essere umano di grandi cervelli, di coscienza e di intelligenza, perciò ha il potere di risolvere i problemi che sta causando. Se sceglierà di non farlo, probabilmente ci sarà un altro evento di estinzione di massa, e forse la nostra specie non sopravvivrà. Tuttavia, proprio osservando la storia evolutiva dei mammiferi – di quelle specie piccole, adattabili e coraggiose, come topi e ratti, che sono già sopravvissute ai vulcani e agli asteroidi – c’è da essere fiduciosi.
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Quando i panda eravamo noi
L’umanità ha rischiato seriamente di estinguersi, con un crollo demografico drammatico che ha raggiunto il 98,7%. Una catastrofe quasi inimmaginabile si abbatté sui nostri antenati tra 930.000 e 813.000 anni fa, lasciando vivi solo 1280 individui fertili, meno dei panda attualmente esistenti in natura. Fu una tragedia lenta, durata 117 millenni. Colpevole, come spesso in questi casi, fu il cambiamento climatico: le alternanze fra cicli glaciali e interglaciali cominciarono in quel periodo ad ampliarsi fino a intervalli di centomila anni e divennero sempre più estreme, portando a un’ondata di estinzioni di grandi mammiferi in Eurasia e a lunghe fasi di forte aridità in Africa. E anche i nostri antenati se la passarono male.
La sorprendente scoperta di questo drastico «collo di bottiglia» nell’evoluzione umana, finora mai nemmeno ipotizzato, è stata pubblicata su «Science» da un gruppo di scienziati cinesi che ha collaborato con due paleo-antropologi italiani, Giorgio Manzi della Sapienza di Roma e Fabio Di Vincenzo del Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze. La ricerca è anche un esempio di come la scienza possa contribuire al dialogo tra i popoli, visto che gli scienziati cinesi coinvolti provengono da entrambe le sponde del canale di Taiwan.
Per notizie così eclatanti servono prove robuste, che non mancano. Partendo dalle banche genetiche internazionali, sono stati analizzati i genomi completi di 3154 individui moderni appartenenti a 50 popolazioni umane diverse. Con un metodo bioinformatico innovativo, andando a ritroso nel nostro albero genealogico fino a tempi che precedono di molto la comparsa della nostra specie, sono state identificate le ormai debolissime tracce genetiche lasciate dai nostri antenati e da queste è stato possibile calcolare la consistenza demografica delle popolazioni del passato. In pratica, senza bisogno di estrarre il Dna antico dai fossili, si proietta indietro nel tempo l’attuale variazione genetica umana per stimare le dimensioni delle popolazioni in momenti specifici del passato. Si possono così scoprire antiche migrazioni, espansioni e riduzioni di popolazioni. Ebbene, anche confrontando gruppi di dati indipendenti, la sostanza non cambia: intorno a 900 millenni fa ci fu un collasso catastrofico generalizzato, che combacia peraltro molto bene con le evidenze fossili e spiega un vecchio mistero dell’evoluzione umana.
Quando il genere Homo comparve in Africa, tra 2 e 2,5 milioni di anni fa, per un lungo periodo lasciò molte tracce archeologiche e fossili. Sono i segni di un’umanità arcaica chiamata Homo ergaster, grandi camminatori, probabilmente i primi a uscire dall’Africa e a dare origine a Homo erectus in Asia. Era un’umanità promettente, ma vulnerabile. Poi, proprio a partire da 950.000 anni fa, cala un apparente silenzio: pochi resti databili con sicurezza, come se si fossero dileguati quasi tutti. Anche l’Europa, a partire da 1,1 milioni di anni fa, sembra spopolarsi completamente di esseri umani a causa di un periodo particolarmente freddo. Bisognerà attendere 300 millenni per ritrovare le tracce fossili abbondanti di una nuova umanità, con un cervello più grande e caratteristiche anatomiche inedite, chiamata Homo heidelbergensis. Come si spiega un simile buco nella documentazione?
Quando nell’evoluzione si vedono gap di questo tipo o improvvise accelerazioni, di solito si addossa la colpa alla frammentarietà dei dati fossili: quegli sconvolgimenti non sono accaduti davvero, è solo un problema di mancanza di dati e di incertezza nelle datazioni. Pare che in questo caso non sia così. I fossili forse dicevano la verità. La quasi estinzione c’è stata davvero e all’uscita dal collo di bottiglia troviamo un’umanità nuova. Questo non sorprende perché, come hanno insegnato i paleontologi Stephen J. Gould e Niles Eldredge, quando nell’evoluzione per cause ambientali una popolazione viene drasticamente ridotta, tendono ad accumularsi rapidamente cambiamenti genetici che possono portare alla nascita punteggiata di nuove specie. I colli di bottiglia poi riducono la variabilità genetica, che resta molto bassa anche tra gli esseri umani attuali. Nello stesso periodo, inoltre, sappiamo che nel genere Homo due cromosomi ancestrali si fusero insieme, generando il cromosoma 2 e portando il conto a 46.
Anche se alcuni paleoantropologi come Chris Stringer nutrono ancora dubbi sulla reale portata di questo collo di bottiglia e sul ruolo centrale di Homo heidelbergensis, è probabile che in quel periodo vi sia stata una grande transizione nell’evoluzione umana. Una transizione che riguarda anche noi, una crisi generativa. Infatti a partire dai sopravvissuti alla catastrofe di 900.000 anni fa il motore dell’evoluzione tornò a girare a pieno ritmo. I gruppi di Homo heidelbergensis crebbero rapidamente e dall’Africa si diffusero in tutta l’Eurasia, dando poi origine in Europa ai Neanderthal e in Asia centro-orientale ai Denisovani. Di pari passo con il loro arrivo, compaiono le più antiche evidenze dell’uso sistematico e controllato del fuoco e di tecnologie litiche più avanzate. Il mondo insomma tornò a popolarsi di umani ben organizzati.
Tempo dopo, fra 200 e 300 millenni fa, dai discendenti africani dello stesso Homo heidelbergensis nascerà anche la specie Homo sapiens, che uscendo dal continente d’origine incontrerà i cugini Neanderthal e Denisovani, incrociandosi con loro. Quindi noi siamo letteralmente i figli delle poche migliaia di superstiti che riuscirono a passare attraverso quella strettissima cruna d’ago, a resistere in pochi rifugi alle inclementi condizioni ambientali durate per decine di millenni. Dobbiamo la nostra esistenza a una catastrofe climatica, il che fa doppiamente impressione se pensiamo che adesso il clima sta cambiando in modo molto più veloce di allora e, questa volta, per causa nostra. Certo, oggi siamo ben più attrezzati di 900.000 anni fa, ma questa scoperta inattesa insegna quanto può essere drammatico il costo di una crisi climatica. Il pianeta è molto più forte di noi.
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Evoluzione non sempre significa progresso
L’avete vista tutti. E se non l’avete vista è sufficiente che apriate un qualsiasi motore di ricerca e digitiate «evoluzione umana». Lo schermo vi si riempirà di migliaia di esempi di un’immagine classica e abusata: da sinistra, uno scimmione curvo e dall’aria intontita che gradualmente si raddrizza sulle gambe, gli cresce il cervello dondolante sul collo, perde il pelo e il vizio di salire sugli alberi, poi imbraccia una clava, finché magicamente l’uomo delle caverne si trasforma in uno splendido Homo sapiens che all’estrema destra del quadro guarda dritto verso il futuro. La marcia dell’umanità è talmente gettonata da essere ingaggiata per le pubblicità e la si trova in numerose varianti satiriche che fanno il verso alle distorsioni della contemporaneità: l’evoluzione sfocia in un uomo chino davanti al computer, in un imbolsito impiegato con la valigetta, in un signore panciuto che beve birra, e così via.
Un grande evoluzionista scomparso nel 2002, Stephen J. Gould, definiva questa immagine «la nostra grande iconografia della speranza». Speranza di essere l’apice dell’evoluzione, coronamento di un lungo processo inesorabile di affinamento culminato, guarda caso, in noi sedicenti «sapiens». Al fondo, in quello schema si nasconde la speranza che la storia naturale fosse già scritta fin dall’inizio, che dovesse portare necessariamente a noi predestinati, a una specie cosciente che si interroga sul senso del mondo. È tempo di sottoporre a processo questa idea di evoluzione, che da più di trent’anni è stata abbandonata dalla comunità scientifica ma resiste tenacemente nell’immaginario collettivo.
I capi di imputazione sono molti. Tralasciamo in questa sede, per indulgenza della corte, l’aggravante del sessismo e del razzismo: quasi sempre l’iconografia del progresso prevede alla sommità della gerarchia uno scultoreo esemplare di maschio bianco, schiena dritta, bello, di mezza età, con i capelli, senza pancetta. Insomma, un uomo vitruviano senza un muscolo fuori posto. Nessuna traccia delle mille sfaccettature che rendono interessanti le diversità umane.
Proprio qui sta il primo problema: anche se ci piace pensarlo, evoluzione non significa necessariamente miglioramento. Chi viene dopo non è per forza una versione ottimizzata di chi c’era prima. Basti pensare che nel 2020 l’umanità è stata messa in scacco da un esserino banalissimo (una catena singola di Rna attorniata da una capsula di proteine), il cui brutale modello di semplicità parassitaria (usare le cellule degli altri per fare copie di sé stesso) prolifera su questo pianeta da tre miliardi e mezzo di anni almeno. Come già Charles Darwin aveva ben spiegato, la selezione naturale comporta una cernita delle variazioni ereditabili che può portare a un perfezionamento progressivo di certi adattamenti meravigliosi come gli occhi e le ali, ma sempre trovando compromessi con il materiale a disposizione e con i vincoli pregressi. Nell’evoluzione si fa di necessità virtù. Il risultato non sarà mai perfetto, ma funzionerà quel che basta rispetto a limiti e circostanze cangianti del mondo esterno. Il corpo umano, cervello compreso, è un compendio di imperfezioni.
Per questo Darwin non amava affatto la parola «evoluzione» (nel suo capolavoro, L’origine delle specie, la usa una volta sola, come verbo, a due righe dalla fine), perché l’etimologia richiamava lo svolgersi di un rotolo, cioè il dipanarsi di un essere le cui informazioni sono già scritte fin dall’inizio, come nello sviluppo del singolo individuo dalla cellula fecondata all’adulto. La storia delle specie non funziona così, precisò Darwin, perché non c’è nulla di predestinato. Il cammino si fa nell’andare e l’esito è imprevedibile. Lui preferiva termini come «trasmutazione» o «metamorfosi», più neutrali. Ma poi si sa come vanno le cose: sono gli altri a darti un nome e così Darwin adesso è conosciuto come il padre della «teoria dell’evoluzione».
Veniamo dunque al secondo capo di imputazione, che spiega il primo. Chi viene dopo non è per forza superiore ai suoi predecessori perché la storia naturale non è una catena lineare di «anelli mancanti» (altra espressione che andrebbe sottoposta a processo). La biodiversità sulla Terra si snoda, piuttosto, nei mille rivoli di un grandioso albero della vita. Tutte le forme di vita sono connesse da un legame di parentela e se uno scienziato extraterrestre ci sta osservando con ogni probabilità starà pensando che il nostro è il pianeta delle piante e dei microbi, non certo degli umani. Siamo tutti cugini, perché andando indietro nel tempo incontriamo prima o poi un antenato in comune. Quindi non esistono anelli mancanti, semmai ramoscelli mancanti. Se è così, può succedere allora che una specie più antica conviva a lungo con una più giovane, che certe specie rimangano apparentemente stabili per decine di milioni di anni, che molti rami vengano improvvisamente potati da catastrofi ambientali e che i pochi sopravvissuti non siano i migliori di prima, ma quelli che si sono trovati nel posto giusto al momento giusto.
Homo sapiens, insomma, non è l’apice di alcunché, ma un ramoscello recente (siamo nati meno di 300 millenni fa in Africa, un battito di ciglia nel tempo profondo dell’evoluzione) dentro il grande albero di famiglia degli ominidi. Quella sarà stata anche una grande «iconografia della speranza», ma troviamo molto più affascinante questa visione dell’evoluzione.
Ed ecco il terzo capo di imputazione, il più grave: il senno di poi. Sappiamo come è finita la storia: qui, adesso, c’è Homo sapiens, unica specie umana sulla Terra (fino a 40 millenni fa ce n’erano almeno quattro). E allora commettiamo l’errore ideologico di guardare indietro e di usare il passato per giustificare il presente, come se fosse l’unico possibile. Invece no: c’erano molti altri scenari altrettanto plausibili e il corso dell’evoluzione è stato deviato da eventi contingenti. Questo non toglie valore alla nostra presenza, al contrario la esalta: le cose potevano andare diversamente, quindi abbiamo avuto una preziosa occasione a essere qui. Dovremmo mostrare più gratitudine verso l’albero della vita.
L’evoluzione, in sintesi, è un’esplorazione di possibilità. A questo punto, potreste essere tentati di consolarvi con le tecnologie. Almeno quelle evolvono in modo progressivo e cumulativo. Sicuri? Ma allora perché sui nostri pc continuiamo a usare una tastiera disfunzionale e anti-ergonomica che sulla prima fila a sinistra porta le lettere QWERTY? Perché le tecnologie litiche hanno attraversato lunghissimi periodi di stagnazione interrotti da improvvise sperimentazioni? Perché il web è diventato la nicchia ecologica ideale per paleolitiche tribù digitali? Perché non azzecchiamo mai una previsione su quale sarà la prossima dirompente innovazione tecnologica?
In definitiva, è vero che se guardiamo l’evoluzione da lontano ci sembra un processo che in tre miliardi di anni ci ha portato dall’ameba a Donald Trump, un oggettivo progresso, converrete. Ma se ripetessimo il film della vita una seconda volta, non è detto che salterebbe fuori un bipede gesticolante e tronfio con il ciuffo arancione. E questo sì, è consolante.
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Dalle mummie al Premio Nobel
Da dove arriviamo? Cos’è che ci rende unici? Perché in Africa, da dove veniamo, le nostre tracce risalgono a solo 300.000 anni fa, mentre loro, i Neanderthal, abitavano già l’Europa e parte dell’Asia da 400.000 anni? E perché soltanto noi abbiamo saputo scrivere come Leopardi, dipingere come Cimabue e suonare come Mozart? L’uomo si fa queste domande da sempre, ma eravamo tutti convinti che fosse impossibile rispondere. Tutti salvo Svante Pääbo e il formidabile team di scienziati che ha messo insieme.
Il cognome di Svante, Pääbo, è della mamma Karin, una chimica estone. Il padre invece è Sune Karl Bergström, Premio Nobel per la medicina pure lui, nel 1982. Svante nasce con la passione dell’Egitto, si occupa subito di mummie e di uomini preistorici – come quello rinvenuto nel ghiacciaio del Tirolo –, ma anziché seguire gli archeologi, insegue il Dna e vorrebbe estrarlo dai fossili: «È possibile estrarre il Dna dalle ossa di uomini vissuti migliaia di anni fa e averne abbastanza per poterlo studiare?».
Se l’aveste chiesto a un bravo archeologo anche solo qualche anno fa, vi avrebbe spiegato che non è possibile, perché il Dna si degrada e dopo migliaia di anni non trovi nulla, se non tracce contaminate da Dna di batteri e da quello di chi ci lavora.
Ed effettivamente è così, o meglio è stato così. Il Dna che Svante Pääbo ha estratto dalla prima mummia era probabilmente il suo, ma lui non si è fermato, ha cominciato col genoma dei Neanderthal, poi nel 2008 ha estratto un Dna risalente a 40.000 anni fa «eccezionalmente ben conservato» dall’osso di un dito che ha trovato nella grotta di Denisova, in Siberia. Lo ha studiato e ne è uscito fuori il profilo genetico di una specie che nessuno sapeva nemmeno che esistesse: l’Uomo di Denisova.
Gli archeologi erano scettici, ma lui non si è lasciato scoraggiare e più passava il tempo, più le sue idee acquisivano credito, al punto che oggi i suoi studi aiutano a capire quanto nessuno poteva nemmeno immaginare. Un solo esempio: quando Homo sapiens compare in Africa, 300.000 anni fa, il mondo era già pieno di altre specie di ominidi che quell’uomo avrebbe incontrato a mano a mano che lasciava il continente.
E come la mettiamo col Dna che si degrada? Sulle prime Svante studia i mitocondri che hanno un loro Dna e ce n’è in abbondanza. Certo, quel Dna fornisce meno informazioni di quello nucleare, ma dà più chance di arrivare fino in fondo. Un bel giorno Svante ha in mano il Dna di tre donne di Neanderthal, lo compara col nostro e lo trova diverso… o forse no, non del tutto perlomeno. Arrivato al Max Planck Institute di Lipsia, ritenta col Dna nucleare, lavora come un ossesso e tenta l’impossibile: pubblica la sequenza completa del Dna di Neanderthal.
Da quel momento cambia tutto, adesso sappiamo da dove veniamo, cosa ci rende unici, che rapporto c’è tra noi e i nostri cugini più prossimi, come ci siamo spostati da una parte all’altra della Terra. Durante i millenni passati insieme, Neanderthal e Homo sapiens hanno mescolato i loro geni (e ancora oggi dall’1 al 4% del Dna dei non africani viene dai Neanderthal). Ma è proprio per questo che siamo riusciti a sopravvivere lontano dall’Africa e sono proprio gli studi di Pääbo a svelarlo. La Croazia, la Siberia e in generale l’Europa erano ambienti ostili per i nostri antenati. E l’evoluzione? Qui non aiuta, serve troppo tempo per adattarsi a certe difficoltà, ma Pääbo indica la scorciatoia: se ti incroci con chi in quell’ambiente ci vive già, è fatta.
Oggi sappiamo che sono stati gli incroci in Medio Oriente fra Neanderthal e uomo – avvenuti in un’area dell’Asia che circonda il moderno Iran, include parte dell’Oman, degli Emirati Arabi e il Kuwait, e che è stata teatro dell’espansione dell’uomo – ad aiutarci a superare le prime difficoltà. Ed è grazie a Neanderthal che Homo sapiens, arrivato in Europa, ha imparato a difendersi da batteri e virus mai incontrati prima. Sì, perché le caratteristiche del nostro sistema immune vengono anche da lì, come viene da Neanderthal la capacità di difenderci dal freddo, di sintetizzare la vitamina D e di resistere alla disidratazione.
Nella storia dei rapporti fra Neanderthal e uomo moderno c’è anche un piccolo mistero. Il cromosoma X (ricco di geni della fertilità) è invece povero di Dna di Neanderthal, l’opposto di quello che ci si poteva aspettare. Forse chi aveva più Dna di Neanderthal era sterile o comunque meno fertile, e nell’evoluzione di uomini con materiale genetico di Neanderthal nel cromosoma X si sono perse le tracce. E quegli uomini che riuscivano a prendersi il meglio da Neanderthal, ed eventualmente da Denisova, e a ignorare il materiale genetico che non serve (o che fa stare peggio) erano destinati nel corso dei millenni a prevalere sugli altri. Ma non l’hanno fatto tutti allo stesso modo; perché, ad esempio, c’è più materiale genetico di Neanderthal negli asiatici dell’Est che negli europei? Su questo nessuno ha le idee chiare per il momento. La spiegazione più probabile è che l’uomo moderno si sia accoppiato con Neanderthal in più di un’occasione e in aree geografiche diverse. Una cosa, però, è sicura: più si studia il Dna arcaico, più capiremo come siamo arrivati a vivere dove viviamo e a essere quello che siamo. Per esempio, sulle migrazioni dall’Africa all’Asia, all’America e all’Europa gli antropologi avevano certe idee, ma presto avremo dati sicuri. «Cambia tutto» ha dichiarato a «Nature» Christina Warriner dell’Università dell’Oklahoma. «Poter sequenziare il Dna di individui vissuti 30.000, 40.000 e anche 50.000 anni fa sarà come riscrivere la preistoria.»
Lo studio del genoma ha fatto vedere che in Siberia c’era un altro tipo di uomo, Denisova, simile a Neanderthal per certi versi. Esempi così, che contraddicono i dettami della morfologia tradizionale, ce ne sono tanti. Eccone uno clamoroso: i caratteri somatici di un uomo vissuto nello stato di Washington 8500 anni fa orientavano verso ascendenti polinesiani o tutt’al più giapponesi, niente a che vedere con le caratteristiche fisiche degli indigeni americani. Così si è sempre pensato che quest’uomo fosse arrivato dalle parti del fiume Colombia con una delle più antiche migrazioni dall’Asia. Ma dalla sequenza del suo Dna viene fuori che il genoma di quest’uomo assomiglia in modo impressionante a quello degli indigeni d’America.
Non solo, lo studio del Dna ci sta facendo capire che chi vive in una certa area geografica oggi ha ben poco in comune con quelli che ci vivevano migliaia di anni fa. È il caso di un bambino vissuto in Siberia 24.000 anni fa (Mal’ta Boy). Quando si è potuto sequenziare il suo genoma, nel 2013, non si è trovato nessun rapporto col Dna di chi vive oggi nell’Asia centrale, mentre ci sono analogie fra quel bambino e l’uomo di Kennewick, geneticamente vicino agli indigeni d’America (a dimostrazione di come certe popolazioni si siano mosse fra la Paleo-Asia e le Americhe).
Un’altra circostanza che ha lasciato di stucco gli antropologi si è verificata quando l’analisi del Dna che loro stessi avevano fornito ai genetisti del laboratorio di David Reich a Boston ha dimostrato come le stirpi Yamnaya delle steppe russe dovessero considerarsi i veri antenati di certe popolazioni germaniche. Una scoperta così controcorrente che sulle prime gli antropologi non volevano firmare il lavoro di Reich; l’hanno fatto solo dopo essersi convinti che l’analisi del Dna non lasciava dubbi.
Vuol dire che lo studio del Dna sostituirà i metodi dell’antropologia tradizionale? No, non del tutto perlomeno, ma certo darà un contributo fondamentale e rivoluzionerà anche questo campo della scienza com’è già successo per la medicina.
Molti modi di essere umani
Le altre specie umane e i nostri rapporti con loro
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Denisova, il terzo incomodo
Un’umanità alternativa abitava vallate e praterie dell’Eurasia centrale e orientale, fino al Sudest asiatico. Non erano Homo sapiens. Non erano Neanderthal. Non sappiamo molto del loro aspetto, ma siamo certi che una parte di loro ha lasciato tracce di sé nel nostro Dna. Sembra l’inizio di un racconto di fantascienza evoluzionistica e invece è una storia vera che la scienza da una dozzina d’anni ha iniziato a raccontarci.
C’era un terzo incomodo, ancora oggi in gran parte misterioso, tra noi e i cugini Neanderthal. Era il 2010 quando un team di antropologi molecolari del Max Planck Institute di Lipsia estrasse e mise in fila il Dna contenuto nel frammento di un mignolo trovato nella grotta di Denisova, sui monti Altai, una regione cardine dell’Eurasia che da sempre separa, da una parte, le steppe orientali che si spingono fino alla Cina e, dall’altra, le steppe ponto-caspiche a occidente. In quella regione piena di risorse sappiamo che i Neanderthal, originatisi in Europa, erano arrivati già prima di centomila anni fa. Tempo dopo, giunsero dall’Africa e dal Medio Oriente anche i primi pionieri della nostra specie, Homo sapiens. Le aspettative dei ricercatori erano dunque di trovare in quel mignolo – che apparteneva a una giovane donna di 14 anni e la cui datazione era compresa tra 63 e 55 millenni fa – il materiale genetico tipicamente neandertaliano oppure il nostro.
Nulla di tutto ciò. In questo caso, tertium datur. La sequenza del Dna mitocondriale rivelò che nella grotta di Denisova abitava una specie umana diversa, mai scoperta prima, che viveva nello stesso periodo e negli stessi territori della Siberia meridionale insieme ai Neanderthal e a Homo sapiens, mentre nel frattempo, in Indonesia, sopravvivevano le due specie pigmee isolane Homo floresiensis e Homo luzonensis. Tirando le somme, ben cinque specie umane ancora coabitavano sulla Terra fino a poche decine di millenni fa. Non eravamo soli. L’evoluzione umana è una storia al plurale.
Un Dna mitocondriale non basta per dare un nuovo nome di specie e dunque nel 2010 si decise di chiamare questa elusiva popolazione umana semplicemente «Denisova» o «Denisovani». Poco dopo fu pubblicata anche la sequenza ben conservata del Dna nucleare, che permise di comprendere che i Denisova erano molto vicini ai Neanderthal nell’albero filogenetico del genere Homo (in pratica, erano una specie sorella orientale dei Neanderthal, seppur distinta, con un antenato comune tra le due vissuto fra 440.000 e 390.000 anni fa); e che, sorprendentemente, le popolazioni di Indocina, Indonesia, Melanesia e Papa Nuova Guinea attuali condividevano alcuni tratti di Dna con i Denisovani, segno che le popolazioni di Homo sapiens antenate dei popoli del Pacifico li avevano incontrati e si erano mescolate con loro, generando figli ibridi e sani.
Quindi non solo c’era un terzo incomodo tra noi e i Neanderthal, ma le ibridazioni tra le specie umane furono molteplici. In tutte le popolazioni umane attuali fuori dall’Africa ci sono tracce genetiche neandertaliane, il che significa che gli antenati di coloro che uscirono dal nostro continente di origine si accoppiarono con i Neanderthal in Medio Oriente e in Eurasia centrale e occidentale.
Nel 2018 fu analizzato un piccolo frammento di osso – appartenuto a una donna (Denny) che aveva abitato la grotta di Denisova fra 118 e 79 millenni fa – il cui Dna era compatibile con un padre denisovano (a sua volta con ascendenti neandertaliani) e una madre neandertaliana. Era la prima volta che si scopriva il genoma di un individuo ibrido di prima generazione, cioè con un padre e una madre appartenenti a due specie umane diverse. Questo fece supporre che le ibridazioni e le «unioni miste» fossero del tutto normali in quella regione e che i frutti degli accoppiamenti venissero accolti nelle loro comunità.
Infine, arrivò la scoperta di sequenze denisovane (intorno al 3-4% del Dna) nei melanesiani di Papua Nuova Guinea e Bougainville Island. Oggi sappiamo che quasi tutte le popolazioni native dell’Oceania e del Sudest asiatico conservano tracce genetiche denisovane variabili, con un picco nei negritos delle Filippine. I mescolamenti potrebbero essere avvenuti nel Sudest asiatico, in una o più occasioni tra 54 e 44 millenni fa, prima della migrazione di queste popolazioni di Homo sapiens verso l’oceano Pacifico. Sequenze denisovane fanno capolino qua e là pure in Asia centrale, in un individuo della nostra specie scoperto nella grotta di Tianyuan, in Cina, e in un altro della valle di Salkhit, in Mongolia nordorientale. Anche i nativi americani hanno un debole segnale di passate ibridazioni con i Denisovani e perfino gli europei (che forse lo hanno ereditato dai Neanderthal o dai Sapiens che si erano a loro volta ibridati con i Denisovani in Asia).
Quindi le ibridazioni furono triangolari: fra Homo sapiens e Neanderthal; fra Neanderthal e Denisova; e fra Denisova e Homo sapiens.
Poiché sappiamo che le specie biologiche si definiscono come popolazioni di organismi che si accoppiano solo fra loro, qualcuno ha iniziato a mettere in dubbio l’applicazione di questa nozione alle specie umane recenti del genere Homo. Forse i Neanderthal e i Denisovani non si sono tecnicamente «estinti», ma si sono «fusi» dentro la nostra discendenza e li abbiamo inglobati. In realtà, l’esigua percentuale di Dna residuo e la sua frammentazione smentiscono questa ipotesi.
In pratica, i segmenti di Dna denisovani hanno una frequenza allelica piuttosto bassa nelle popolazioni odierne, ma alcuni frammenti sono molto conservati e questo farebbe pensare che siano stati selezionati positivamente nel tempo in quanto offrivano un vantaggio rispetto agli stessi segmenti con le varianti di Sapiens (l’esempio, che vedremo fra poco, della popolazione tibetana che si adatta alla mancanza di ossigeno è illuminante). Questo fenomeno si chiama «introgressione adattativa».
Per individuare questi frammenti si deve valutare se siano presenti in una data popolazione con una frequenza più elevata dell’atteso in base alla storia evolutiva di quella popolazione. Le formule e i test che si usano sono molto complessi e ve li risparmiamo volentieri. Volendo semplificare si potrebbe dire che si tratta di valutare se nel Dna di una data popolazione oggetto di studio ci siano con una frequenza stabilita a priori varianti presenti invece con una frequenza elevata nel Dna arcaico di cui si cerca l’introgressione (denisovano-neanderthaliano), ma che non sono presenti o lo sono con bassissima frequenza nel Dna dell’antenato che non si è incrociato con i Denisovani e Neanderthaliani (per esempio, nel Dna africano non incrociato con Neanderthal). Candidate per introgressione adattativa sono regioni di Dna che contengono un elevato numero di alleli (varianti) arcaici. Senza che ci addentriamo nei meandri statistici della genetica di popolazione, possiamo dire che con certe formule matematiche si possono, per esempio, cercare introgressioni adattative denisovane nella popolazione oceanica. Come? Cercando alleli che siano presenti nella popolazione oceanica con una determinata frequenza pre-stabilita e che abbiano invece una frequenza molto bassa negli africani, che non si trovino mai nel Dna di Neanderthal e che si trovino invece nel Dna di Denisova.
Inoltre, in zoologia accade di frequente (tra i felini, gli uccelli e altri gruppi) che due specie, ancorché distinte perché nate in due periodi e regioni differenti, possano ibridarsi occasionalmente quando i loro territori vengono a sovrapporsi a causa di cambiamenti climatici e migrazioni.
Ma quale fu la storia dei Denisova? Intorno a 400.000 anni fa si separarono dai Neanderthal, a occidente, e occuparono l’Eurasia orientale. Tra 250.000 e 170.000 anni fa di sicuro già frequentavano la grotta sui monti Altai che ha dato loro il nome (nella quale, nel frattempo, sono stati scoperti altri otto frammenti a loro appartenuti). Tra 120 e 97 millenni fa cedettero la grotta ai Neanderthal, per poi riprendersela. Una mandibola denisovana, risalente a 160.000 anni fa, è stata trovata nella grotta di Baishiya Karst, in Tibet, dove i Denisova rimasero forse fino a 42 millenni fa, a più di 3000 metri d’altitudine. Quindi l’occupazione denisovana fu lunga, ben oltre il tempo di arrivo di Homo sapiens su quelle montagne. Lo testimonia anche il fatto che l’80% della popolazione tibetana di oggi ha ereditato dai Denisovani, intorno a 48 millenni fa, una variante del gene EPAS1 che favorisce l’adattamento alla mancanza di ossigeno in altitudine. Ibridarsi può fare bene.
Mancano ancora le conferme molecolari, ma dalle analisi morfologiche e biogeografiche pare probabile che siano Denisovani anche resti rinvenuti nei siti di Tam Ngu Hao in Laos, di Penghu nello stretto taiwanese, di Narmada in India, e di Maba, Xujiayao, Xuchang 1 e 2, Jinniushan e Harbin in Cina. Quindi i Denisovani avevano raggiunto una vasta distribuzione geografica in Asia orientale. Vivevano in gruppi di circa cento individui.
Ma com’erano fatti? La documentazione paleontologica è così scarsa da non permettere alcuna ricostruzione morfologica diretta. Ci rimangono di loro: una falange, mezza mandibola, un pezzo di osso lungo, una minima porzione di osso parietale del cranio, una manciata di altri piccoli frammenti non riconoscibili e cinque molari, la cui larghezza lascia supporre che fosse una specie robusta. In effetti, abbiamo la sequenza intera di un solo individuo e da quella non è ancora facile dedurre i tratti del fenotipo di una specie intera. Il genoma denisovano è peraltro fortemente influenzato dalla deriva genetica, quindi è probabile che le varie popolazioni isolate presentassero una notevole diversità morfologica. Detto ciò, è abbastanza verosimile che assomigliassero alla loro specie sorella, i Neanderthal, ma sappiamo poco della loro cultura, dei loro comportamenti e della loro società.
Fra 76 e 52 millenni fa, i Denisova ancora si aggiravano per i monti Altai. Dal plateau tibetano sparirono una decina di millenni dopo, nello stesso periodo in cui nel Sudest asiatico ancora si ibridavano con popolazioni di Homo sapiens. Superata la soglia dei 40 millenni fa, come per i Neanderthal, sembrano svanire nel nulla. Uno studio genetico del 2021 sulla presenza di Dna denisovano in venti popolazioni della regione pacifica sembra tuttavia ventilare la possibilità sorprendente che gruppi residui di Denisova potrebbero essere sopravvissuti in Nuova Guinea fino a 25.000 anni fa. Dunque questa specie umana misteriosa potrebbe aver vissuto in contesti ecologici tanto diversi quanto i monti Altai, il plateau tibetano e la foresta pluviale papuana. Poi si estinse, insieme alle altre specie umane, e rimanemmo solo noi, ultimo ramoscello del genere Homo.
Dicevamo all’inizio che a conti fatti cinque specie umane vivevano insieme sulla Terra, prima che Homo sapiens diventasse così invasivo e prepotente da non lasciare più spazio a nessun’altra. Ma la casualità della scoperta di Denisova lascia intendere che chissà quali e quante altre specie umane ancora mancano all’appello. Per esempio, dalle analisi molecolari continua a emergere un segnale genetico connesso a una potenziale specie umana molto arcaica e divergente, di cui non si sa nulla, un fantasma perso nella notte dei tempi. Ora siamo in grado di estrarre Dna umano non soltanto dalle ossa fossilizzate, ma anche dai sedimenti nelle grotte. E molti scommettono che da questo «Dna ambientale» verranno presto altre sorprese, e forse qualche spiraglio di luce in più sui tanti segreti che ancora avvolgono gli elusivi Denisovani.
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Assimilation model e a un certo punto… restiamo soli
Che rapporto abbiamo stabilito con Neanderthal e Denisova? Conflittuale? O di amicizia? O addirittura d’amore?
Recentemente, con l’immancabile aiuto dell’intelligenza artificiale, un gruppo di genetisti di Princeton, negli Stati Uniti, ha rivelato che i rapporti fra ominidi, nostri antenati diretti, e Neanderthal e Denisova sono molto più stretti di quanto si pensasse. I nostri antenati si sono separati dai Neanderthal 600.000 anni fa, ma fino a quando questi ultimi non sono scomparsi dalla Terra per un processo di estinzione, fra noi e i Neanderthal c’è stata convivenza, interazione, intimità, durate almeno 200.000 anni, ma forse anche di più.
I Neanderthal non erano affatto lenti e poco intelligenti, tutt’altro: erano cacciatori esperti, sapevano costruirsi gli strumenti di cui avevano bisogno e da poco sappiamo (come emerge da altre parti di questo libro) che si prendevano cura gli uni degli altri, e per farlo avevano sviluppato sentimenti di solidarietà e altruismo che non avremmo mai immaginato.
Ci saranno state delle basi genetiche per tutto questo?, vi chiederete voi. È proprio così. Comparando i genomi dell’uomo moderno, di Neanderthal e Denisova, i ricercatori di Princeton hanno potuto tracciare il flusso di geni fra le diverse specie per il lungo periodo in cui hanno vissuto insieme. E cosa hanno visto? Che se l’analisi viene fatta con i sistemi più moderni di machine learning, di geni di Neanderthal nel nostro genoma – e di nostri nel loro – ce ne sono più di quanto non si pensasse.
Non basta: porzioni di Dna di Neanderthal si trovano anche in popolazioni che oggi vivono in aree dove nessuno, fino a questo momento, sapeva che i Neanderthal si fossero insediati (forse viaggiavano più di quanto si pensasse). I contatti maggiori fra i nostri antenati diretti e i Neanderthal sono avvenuti in tre ondate successive: 250.000-200.000, poi 120.000-100.000, e ancora 70.000-60.000 anni fa. Questo stravolge completamente quello che si è sempre pensato: non è vero che l’uomo moderno ha lasciato l’Africa 50.000 anni fa per poi disperdersi e popolare la Terra. Il modello matematico impiegato per i nuovi studi suggerirebbe invece che l’uomo moderno abbia lasciato l’Africa in diverse occasioni; Joshua Akey, uno degli autori di questo studio, ha dichiarato al sito web ScienceDaily che per via di questo andare e venire i nostri antenati diretti hanno incontrato Neanderthal e Denisova in diversi momenti nel corso dei 200.000 anni di presenza contemporanea delle tre specie sulla Terra. Da allora fu un graduale passaggio di geni, fra Neanderthal e uomo, fra Neanderthal e Denisova, e fra Denisova e uomo.
Ma fino a una decina di anni fa nessuno sapeva che i geni venuti da Neanderthal avessero avuto un ruolo fondamentale nella nostra capacità di adattarci all’ambiente e l’abbiano ancora oggi, nella nostra vita di tutti i giorni. Della capacità di difenderci dal freddo parleremo in seguito, ma purtroppo c’è anche la predisposizione al diabete, la tendenza alla trombosi, certe alterazioni del ritmo cardiaco; sono tutte cose che ci vengono dai Neanderthal. Se non fosse per i loro geni, le emorragie da parto sarebbero state all’ordine del giorno, perché è dai Neanderthal che abbiamo preso la capacità di far coagulare il sangue che cola dalle ferite piuttosto rapidamente. E una donna europea su tre ha ereditato dai Neanderthal una variante del recettore del progesterone (l’ormone che gioca un ruolo importante nel ciclo mestruale e nel predisporre la mucosa uterina all’impianto dell’uovo) che si associa proprio a meno episodi di sanguinamento durante le prime fasi della gravidanza, a più fertilità e a meno aborti. Inoltre senza i geni di Neanderthal forse oggi non ci sarebbero infarti del cuore e ictus del cervello. E perfino la schizofrenia e le malattie autoimmuni potrebbero venire da Dna arcaico. Non solo, ma su «Nature» è stato pubblicato un lavoro che dimostra come regioni geniche che derivano dai Neanderthal favoriscono l’insorgere di lupus eritematoso – una malattia del sistema immune che colpisce soprattutto le giovani donne – ma anche di altre malattie autoimmuni, della cirrosi biliare e della malattia di Crohn, per esempio. Perfino l’indulgere o meno al piacere del fumo di sigaretta ci viene forse da Neanderthal.
I nostri antenati si scambiavano porzioni del loro Dna coi Neanderthal ancora prima che Homo sapiens lasciasse l’Africa per occupare il resto del mondo. Al punto che più di 200.000 anni fa i nostri antenati avevano già nel loro genoma almeno il 10% di Dna di Neanderthal.
Ma perché i primi incontri fra Neanderthal e Homo sapiens sono avvenuti più di 200.000 anni fa e poi 100.000 anni fa, se solo molto più tardi i nostri antenati hanno lasciato l’Africa? Quegli incontri sono stati probabilmente il risultato di piccoli gruppi di ominidi particolarmente intraprendenti e curiosi che avevano lasciato temporaneamente l’Africa senza però aver deciso di mettere radici da qualche altra parte. È bello immaginare – ma non ne siamo assolutamente sicuri – che questi «esploratori», se li vogliamo chiamare così, si fossero confrontati con una specie diversa dalla loro abbastanza spesso da riuscire a trasmettere parte dei loro geni ai Neanderthal. Questa visione peraltro coincide con dati archeologici e paleoantropologici – sostiene sempre Akey – che dimostrano come ci fosse addirittura scambio di utensili fra le tre specie di ominidi.
L’originalità dell’approccio dei genetisti di Princeton è un’altra: invece di cercare materiale genetico di Neanderthal nel genoma dell’uomo moderno, come finora hanno fatto tutti, si sono messi in testa di fare il contrario, ossia cercare geni nostri nel Dna di Neanderthal e Denisova.
Questi studi, insieme a molti altri, ci hanno aiutato a rispondere a una domanda che gli scienziati si pongono da sempre: perché a un certo punto i Neanderthal sono scomparsi? Uno potrebbe pensare che rispondere a questa domanda abbia un valore soltanto teorico, senza ricadute pratiche. Al contrario, se riuscissimo a farlo capiremmo finalmente perché a un certo punto loro hanno lasciato la Terra e noi l’abbiamo abitata progressivamente e sempre di più. Di conseguenza, capire cosa abbia portato al loro fallimento e al nostro successo è fondamentale per scoprire da dove veniamo e perché.
I ritrovamenti fossili all’interno di antichissime grotte da cui si è potuto estrarre il Dna ci hanno aiutato a stabilire che il rapporto fra i diversi gruppi di ominidi era comunque estremamente dinamico. Col passare dei millenni, gli antenati di Homo sapiens crescevano, mentre Denisova e Neanderthal progressivamente si riducevano di numero. A forza di crescere, la popolazione umana ha sovrastato le altre portandosi dietro l’eredità dei geni di Neanderthal acquisiti nel tempo e soprattutto nel corso delle ultime occasioni di incontro.
A questo punto, per quanto riguarda Neanderthal e Denisova è giusto parlare ancora di estinzione vera e propria? Non lo so, non lo sa nessuno. Certo, il loro Dna ha finito col fondersi progressivamente nel pool genetico dell’uomo tanto che, a un certo punto, per quanto si può dire sulla base di reperti fossili, da poco meno di 40.000 anni in qua non c’è più traccia della presenza di Dna di Neanderthal sulla Terra. Proprio così: dove arriva l’uomo un poco alla volta gli altri scompaiono. Scompaiono i grandi mammiferi, come vedremo in un altro capitolo di questo libro, e scompaiono le altre specie. Più si studia questo fenomeno e più i ricercatori si convincono che con l’affermarsi di Homo sapiens l’identità genetica delle altre popolazioni sia venuta progressivamente meno. Anche Akey è convinto che non si debba parlare di estinzione, ma piuttosto di un progressivo lento assorbimento della popolazione di Neanderthal in quella dell’uomo moderno, con i primi che si restringono sempre di più fino a che gli ultimi Neanderthal vengono del tutto integrati nel gruppo di Homo sapiens e finiscono per scomparire come specie a sé stante.
Il cosiddetto assimilation model non è nuovo: è stato proposto per la prima volta da Fred Smith dell’Università dell’Illinois negli anni Ottanta. Akey fa notare che i dati genetici che derivano dal loro studio supportano fortemente quell’ipotesi. «Un po’ come fa il mare quando, onda dopo onda, erode progressivamente la spiaggia,» ha dichiarato a ScienceDaily «noi uomini moderni abbiamo soverchiato demograficamente i Neanderthal e li abbiamo progressivamente incorporati.»
E se fosse stata invece l’instabilità del clima nel corso dei millenni il fattore che ha contribuito maggiormente alla scomparsa dei Neanderthal? Se fossero state le glaciazioni o attività vulcaniche insolitamente intense le responsabili della loro scomparsa dall’Europa prima ancora che incontrassero stabilmente i nostri antenati? A dirla tutta non lo sappiamo, ma la quasi totalità degli scienziati oggi pensa che la spiegazione climatica non sia plausibile. Anche perché le date degli ultimi reperti che suggeriscono la presenza di Neanderthal non coincidono con periodi nei quali si sono verificati eventi climatici catastrofici.
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Il primo bacio (della storia)
Da quanto tempo gli uomini si baciano? La prima vera evidenza di un bacio a sfondo romantico-sessuale fra umani risale soltanto all’età del Bronzo, in un manoscritto del Sud dell’Asia rinvenuto in India che si potrebbe datare intorno a 1500 anni prima di Cristo. Adesso però, grazie a un lavoro pubblicato su «Science» da due studiosi danesi, Troels Pank Arbøll e Sophie Lund Rasmussen (marito e moglie), le cose cambiano: il bacio era pratica diffusa in Mesopotamia (l’area che oggi va dall’Iraq alla Siria) 2500 anni prima di Cristo. E si è capito subito che nei tempi antichi c’erano due modi di baciarsi (cosa poi non così diversa da quello che succede oggi, a pensarci bene): c’erano i baci fra famigliari, fra madre e figlia per esempio, e i baci di tipo romantico-sessuale, abitudine quest’ultima diffusa in società complesse e organizzate in classi sociali. Ma perché la gente ha cominciato a baciarsi?
Il lavoro di «Science» prospetta un’ipotesi estremamente interessante: il desiderio di baciarsi si è evoluto come un modo di conoscere l’altro, il tuo possibile partner. La saliva o l’alito aiutavano chi praticava il bacio a capire se ci fosse affinità con chi incontravi e questo avrebbe potuto facilitare un approccio che potremmo chiamare «sentimentale», e poi la successiva relazione sessuale vera e propria.
In realtà nei primi testi della lingua dei Sumeri il bacio sulle labbra era descritto proprio come un atto erotico e sembra fosse più frequente dopo un rapporto sessuale. Sempre Arbøll e Rasmussen hanno trovato una scultura in calcite nel British Museum, si chiama Ain Sakhri Lovers, si tratta di un reperto rinvenuto in caverne vicino a Betlemme e potrebbe risalire a un periodo ancora precedente. Ci sono poi due testimonianze più recenti databili intorno al 1800 a.C. che ci aiutano a inquadrare ancora meglio la questione: una descrive una donna maritata letteralmente traviata dal bacio di un altro uomo, proprio come sarebbe successo molto più tardi nel Medioevo («Quando leggemmo il disiato riso / esser basciato da cotanto amante, / questi, che mai da me non fia diviso, / la bocca mi basciò tutto tremante. / Galeotto fu il libro e chi lo scrisse. / Quel giorno più non vi leggemmo avante»); nell’altro caso si parla di una donna che non era maritata e che cercava di sottrarsi con tutte le forze al bacio e al fare sesso con un certo uomo.
Nelle società evolute si manifestò presto la necessità di regolamentare questi comportamenti: il bacio era disapprovato in pubblico. Non solo, ma baciare una persona che aveva deciso di non avere una vita sessuale attiva, come per esempio una sacerdotessa, avrebbe privato chi lo faceva (o chi intendeva farlo) della capacità di parlare. Il bacio che indica invece un legame affettivo fra membri della stessa famiglia non era mai disapprovato. E l’articolo di «Science» ci racconta un altro particolare curioso: certi contesti religiosi prevedevano un rituale del bacio, come quando, per esempio, una persona in cerca del perdono divino poteva baciare una vecchia in trance o una giovane schiava.
Ma c’è il rovescio della medaglia: com’è stato suggerito da certi studiosi, la pratica del bacio avrebbe potuto contribuire al diffondersi, tra gli ominidi prima e tra gli uomini poi, di certe malattie infettive. Non si è mai saputo se questo fosse vero o no, ma le più recenti tecniche di estrazione di Dna arcaico hanno consentito agli scienziati di identificare un range molto ampio di genomi associati a patogeni che vanno dal virus dell’herpes simplex a quello dell’Epstein-Barr a certi parvovirus umani, tutti estratti da fossili.
Uno studio ancora più recente ha trovato un genoma del virus dell’herpes simplex derivato da materiale dentale di scheletri che si possono datare tra il 1700 e il 253 a.C., ma a un certo punto c’è stata una modifica nel genoma di questi virus ed è possibile che sia coincisa con l’introduzione di nuove pratiche culturali, incluso il bacio.
È sempre difficile correlare le manifestazioni di malattia dei tempi passati con quelli di oggi, anche perché le argomentazioni dei testi antichi erano influenzate da credenze mitologiche o religiose che rendono difficile interpretarle. Però una malattia chiamata «bu’šānu» descritta in certi testi arcaici può corrispondere a quello che oggi chiamiamo «infezione da herpes simplex» perché si localizzava soprattutto intorno alla bocca e alla faringe, associata a vescicole o pustole, e noi oggi sappiamo che le vescicole intorno alla bocca sono uno dei segni dell’infezione da herpes simplex.
Uno studio condotto per valutare la capacità di trasferire fra i nostri antenati microbi che si trovano nel cavo orale – uno dei quali si chiama Methanobrevibacter oralis – ha concluso che Neanderthal e Homo sapiens si baciavano sulla bocca, o si sono baciati qualche volta sulla bocca, da molto più tempo di quanto non emerga dal lavoro su «Science». E il bacio non è nemmeno l’unico modo attraverso cui Neanderthal e uomo moderno possono essersi scambiati microbi: verosimilmente succedeva anche col condividere cibo e/o acqua, e a dirla tutta nemmeno nell’antica Mesopotamia la gente attribuiva il diffondersi delle infezioni all’abitudine di baciarsi.
Nonostante ciò certe regole imposte dalla cultura o dalla religione tendevano a limitare questa pratica; perché? La spiegazione può essere che si voleva proprio, anche senza volerlo (scusate il gioco di parole), ridurre il diffondersi delle malattie. Pian piano però l’idea che ci potesse essere un rapporto tra intimità e malattie si è fatta strada. In una lettera del 1775 a.C. è riportato il caso di una donna appartenente all’harem di un palazzo che si ammala di una malattia trasmissibile, e per evitare il contagio si raccomanda a tutti di non bere dalla sua coppa, di non dormire nel suo letto e di non sedersi dove si sedeva lei.
La storia del bacio, quindi, risale a tempi ben più lontani di quello che si pensava fino a poco tempo fa – ovvero al 1500 a.C. in India – e molto diversa è anche la distribuzione geografica di questa pratica che, come abbiamo visto, aveva origini assolutamente indipendenti; nonostante il bacio cosiddetto «romantico-sessuale» non fosse comune a tutti i gruppi sociali, era certamente universale.
Anche qui, come in tante altre occasioni, la multidisciplinarità della scienza aiuta a capire: archeologi, esperti di genomica, microbiologi che volessero affrontare uno di questi problemi da soli avrebbero molte più difficoltà di quanto non stia succedendo adesso che questi gruppi interdisciplinari lavorano insieme e ci regalano emozioni sulle radici delle nostre abitudini inimmaginabili fino a poco tempo fa.