Ferdinando Camon.
Di Davide Brullo
Linkiesta
https://www.google.com/amp/s/www.linkiesta.it/2019/05/federico-rampini-libro-ferdinando-camon-romanzo/amp/
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Camon è uno che rompe le scatole, cioè adempie al ruolo primario della scrittura. S’immerge nella rogna fino a farla esplodere. Camon, anzi tutto, è uno scrittore di genio. Un altare per la madre, libro fine e feroce, lirico e possente, finalmente europeo – Raymond Carver lo elogiò scrivendo di “un’opera d’arte sublime” – andrebbe fatto leggere ai troppi aspiranti scrittori, giusto per impratichirsi con il mestiere. Poi ci sono gli altri. Il quinto stato – che fu introdotto, nel 1970, da Pier Paolo Pasolini e fatto tradurre in Francia su ispirazione di Sartre – e poi La malattia chiamata uomo e poi La vita eterna e poi Il Super-Baby. Quest’anno l’occasione per leggere Camon è triplice: potete affrontare il sagace polemista (Scrivere è più di vivere: ne parlano tutti i giornali dacché Camon si scaglia, tra l’altro, contro la baronia, i baronetti, i ducati dell’accademia italiana, “La mafia accademica è la gestione di un pezzo di Stato, l’università, come proprietà privata”), il letterato crudo e profondo (ne Il mestiere di scrittore sono raccolte le “Conversazioni critiche” con Moravia, Pasolini, Calvino, Volponi et alii; al libro, originariamente del 1973, fa il paio Il mestiere di poeta, del 1982, con interviste, tra gli altri, a Montale, Ungaretti, Caproni, Luzi, Zanzotto, Sereni; formidabile indagatore delle vite e delle opere altrui, a Camon è legata la bella Conversazione con Primo Levi), l’animale politico (il Tentativo di dialogo sul comunismo con Pietro Ingrao). Camon, comunque, va letto in ogni angolo, anche al contrario, perfino negli effluvi polemici su Facebook, soprattutto nel suo sito specifico, www.ferdinandocamon.it, piluccando qua e là, anche le briciole sono una manna, spina che cura, olio per le infermità. Ad esempio, ricalco un brano sull’Etica dello scrivere. “Ci sono molti lavori per i quali un’etica va imposta o conquistata: un rapporto morale con quello che si fa, per farlo con sincerità, con adesione, con verità. Ma c’è un lavoro che ha l’etica dentro di sé, e se non ce l’ha fallisce, non comincia neppure, crolla ad ogni passo. Questo lavoro è quello dello scrivere. Scrivere non è parlare. Parlare vuol dire reagire con le parole a un fatto che accade, mentre accade. Lo scrivere richiede tempo. Il parlare reagisce subito, per provocare nell’ascoltatore una reazione immediata, e di breve vitalità. La scrittura reagisce dopo, a passioni fredde, perché vuol restare a lungo, possibilmente (è il segreto desiderio di ogni scrittore) ‘per sempre’… La responsabilità può essere così alta, e lo sforzo etico di reggere l’impegno così logorante, che la scrittura genera la nevrosi, scrittura e nevrosi diventano la stessa cosa”. Spesso Camon ti spiazza con un aforisma che pare un passo di tango tra due che vogliono accoltellarsi. Qui parla della morte di Pasolini, ad esempio: “Su Pasolini, Moravia ha ripetuto un concetto che gli era caro: «All’epoca dei Greci avremmo affermato che l’ha ucciso il Fato, nel Medioevo cristiano che l’ha ucciso il Male: oggi concludiamo che l’ha ucciso il Nulla». Ho cercato di fargli riconoscere che è più facile uccidere quando l’assassino è il Nulla invece che il Male, e che dunque a uccidere Pasolini siamo stati noi, artefici del Nulla: noi, i Moravia”. L’ultima volta, l’ho intervistato nel 2013. Mi disse che il libro che ogni ragazzo dovrebbe leggere è “La città di Dio di Sant’Agostino perché è il libro più conturbante e profondo che l’umanità abbia mai scritto. Si domanda il senso dell’arte e della cultura mentre i barbari distruggono Roma”. Ribadì che si rifiutava di leggere manoscritti di scrittori in pectore, in vitro, scrisse che i miei versi erano “inventivi, personali, irti – sarà difficile pubblicarli”, anche se erano già pubblici. Non lo intervistai più, è già una grazia leggerlo.
Ferdinando Camon, Scrivere è più di vivere, Guanda 2019, pp.208, euro 17,00
Ferdinando Camon, Il mestiere di scrittore. Conversazioni critiche, Edizioni di Storia e Letteratura 2019, pp.190, euro 18,00
Ferdinando Camon e Pietro Ingrao,Tentativo di dialogo sul comunismo, Ediesse 2019, pp.164, euro 15,00
UN ALTARE PER LA MADRE
Ferdinando Camon
Presentazione Il romanzo è la conclusione ideale di quello che Camon ha intitolato «il ciclo degli ultimi», in cui un mondo contadino immobile da sempre rivive nella sua miseria e grandezza. Da questa matrice terrestre l’autore approda ora, per trasfigurazione di amore, mediazione di memoria e per virtù di poesia, a un sentimento dell’immortalità che trova il suo simbolo e segno nell’altare di rame costruito per la madre. È il padre che lo erige, ma è il figlio che ne registra la nascita, costruendo a sua volta un «altare di parole», il libro appunto, che consentirà alla madre di «smettere di morire». Dolcissima testimonianza d’amore, è un romanzo che può essere letto e sentito a diversi livelli, ma che soprattutto coinvolge con un’intensa religiosità di timbro tolstoiano. Una scrittura compatta e tesissima, epica ed elegiaca, dà al libro la severa unità delle opere che restano. Ferdinando Camon ha raccontato nei suoi romanzi la vita contadina, il terrorismo, la psicanalisi, e lo scontro di civiltà con l’arrivo degli extracomunitari. Tutti i suoi libri sono pubblicati da Garzanti. È tradotto in 22 paesi. Il suo sito è www.ferdinandocamon.it
Premessa
Quando moriva un amico, gli antichi gli mettevano in bocca una moneta, affinché potesse pagarsi il viaggio nell’aldilà, per incontrare i giusti, i buoni e gli eroi. Quando sarà il momento, voglio che questo libro mi sia messo tra le mani come un lasciapassare: l’ho scritto per questa ragione, e per nessun’altra. F. C.
1
Davanti alla chiesa si era formata una piccola folla, ragazzi, donne e uomini di tutte le età, che si andavano raggruppando secondo i gradi di parentela o secondo il caso: bastava che uno dicesse una parola e un altro rispondesse perché tra loro due si facessero compagnia. Io mi sono ritrovato solo e ultimo. Alcuni ragazzi han sollevato la bara a spalla e si sono avviati attraverso la campagna, gli altri dietro, in fila indiana. Si percorreva un sentiero stretto e polveroso, di terra sabbiosa, fra spianate di frumento infestato di papaveri: intorno si vedeva più rosso che giallo, e si sentiva un forte odore di erbaglia verde fermentata al sole, in alto volavano in cerchio le lodole, poche e solo qualcuna cantava, le altre volevano scendere ma erano disturbate dalla presenza umana. Passati gli uomini, aspettavano ancora un poco, poi si lasciavano cadere a piombo come sassi, ma senza tonfo: un metro prima di sfracellarsi al suolo aprivano le ali e facevano due sbàttiti, il sufficiente per salvarsi, poi trottavano via infilando il collo tra i gambi di frumento. La bara avanzava ondeggiando. Io pensavo a mia madre, mi sembrava giusto che la bara ondeggiasse: mia madre non aveva mai avuto un’andatura dritta, era sempre piuttosto stanca, parlava poco mentre lavorava e ogni tanto smetteva per andare a sedersi sotto le vigne, all’ombra, senza fiatare, chinando la testa. Così rannicchiata, pregava in silenzio. Ogni tanto, si passava la lingua sulle labbra per inumidirle, poi si asciugava la fronte e le guance e la bocca con un fazzoletto che non era mai un fazzoletto: poteva essere il sacchetto della sale, ormai vuoto e appena lavato, o le fasce dell’ultimo figlio ancora conservate, o una straccia pulita presa da qualche cassetto. Non buttava mai via niente. Credeva che legare strette con le fasce le gambe dei neonati servisse a raddrizzarle. Prima di alzarsi da tavola, controllava con uno sguardo che non restassero avanzi e non venissero buttati via: beveva il fondo dei bicchieri, metteva la minestra avanzata in credenza, perché le mosche non ci passeggiassero sopra.