lunedì 25 maggio 2020

Puškin LA SIGNORINA-CONTADINA


LA SIGNORINA-CONTADINA
Estratto da "Novelle del defunto Ivan Petrovič Bjelkin"
Aleksandr Puškin

In tutte le acconciature sei bella,
Duscegnka.

BOGDANOVIČ
In una delle nostre lontane province si trovava il possesso di Ivan Petrovič Berestov. Nella sua
giovinezza egli aveva servito nella guardia, aveva dato le
dimissioni al principio del 1797, era partito per il suo villaggio
e da allora non ne era piú andato via. Era ammogliato con una
nobile povera, che morí di parto mentre egli era in un campo fuor
di mano. Le occupazioni dell’azienda domestica lo consolarono presto. Si costruí una casa secondo un suo proprio progetto, mise su una fabbrica di panno sulle sue terre, ordinò le entrate e cominciò a stimarsi l’uomo piú intelligente di tutto il vicinato, cosa nella quale del resto non lo contraddicevano i vicini, che venivano da lui come ospiti con le loro famiglie e i cani. Nei giorni feriali portava una giacchetta di felpa, nelle feste metteva un soprabito di panno fatto in casa, segnava lui stesso le uscite e non leggeva nulla, tranne la gazzetta del Senato. In generale gli volevano bene, quantunque lo stimassero superbo. Non andava
d’accordo con lui il solo Grigorij Ivanovič Muromskij,
il suo piú prossimo vicino. Questi era un autentico signore russo.
Sperperata a Mosca la maggior parte del suo possesso e rimasto
vedovo in quel tempo, partí per il suo ultimo villaggio, dove
seguitò a farne delle sue, ma ormai d’un genere nuovo. Fece un giardino inglese, per il quale spendeva quasi tutti i redditi che
rimanevano. I suoi palafrenieri erano vestiti da jockeys
inglesi. Sua figlia aveva come madame una inglese. I suoi
campi li coltivava secondo il metodo inglese;ma al modo
straniero non cresce il grano russo, e malgrado una considerevole diminuzione delle
spese, i redditi di Grigorij Ivanovič non aumentavano;
anche in campagna egli trovava il modo di contrarre nuovi debiti;
con tutto ciò era stimato persona non sciocca, giacché per primo
fra i proprietari della sua provincia aveva pensato a impegnare il suo possesso al consiglio di tutela: operazione che in quel tempo sembrava straordinariamente complicata e ardita.
Fra le persone che lo giudicavano male, Berestov si esprimeva piú severamente di tutti. L’odio per le innovazioni era il tratto distintivo del suo carattere. Non poteva parlare con calma dell’anglomania del suo vicino e ogni momento trovava l’occasione per criticarlo. Se faceva vedere a un ospite i suoi
possessi, in risposta alle lodi per i suoi provvedimenti economici:
«Sissignore!» egli diceva con un furbo sorriso «da me non è come
dal mio vicino Grigorij Ivanovič. Come potremmo noi rovinarci all’inglese? Ci basta d’essere sazi alla russa». Questi e consimili scherzi per lo zelo dei vicini erano fatti noti a Grigorij Ivanovič con giunta e spiegazioni. L’anglomane sopportava
la critica con altrettanta impazienza come i nostri pubblicisti. Si infuriava e aveva dato al suo zoilo i soprannomi di orso e di provinciale.
Tali erano i rapporti fra questi due proprietari, quando il figlio di Berestov venne in campagna da lui.
Egli aveva studiato nell’università di *** e aveva intenzione di entrare nell’esercito; ma il padre non vi acconsentiva. Per la carriera amministrativa il giovanotto si sentiva affatto incapace.
Essi non cedevano l’uno all’altro, e il giovane Aleksjej intanto
cominciò a fare la vita del signore, lasciandosi crescere i baffi per ogni eventualità.
Aleksjej, realmente, era un bel giovanotto.
Davvero, sarebbe stato peccato se l’uniforme militare non avesse
mai stretto la sua snella corporatura, e se, invece di darsi delle
arie a cavallo, egli avesse trascorso la giovinezza chino sulle
carte d’ufficio. Guardando come a caccia saltava sempre per primo,
senza guardare alla strada, i vicini dicevano concordemente che non
ne sarebbe mai uscito un capoufficio assennato. Le signorine lo
guardavano, e a volte anche gli perdevano gli occhi addosso; ma
Aleksjej si occupava poco di loro, mentre esse ritenevano che un
legame amoroso fosse causa della sua insensibilità. Realmente,
passava di mano in mano la copia dell’indirizzo di una delle sue
lettere: “Per Akulina Petrovna Kuročkina, a Mosca,
dirimpetto al monastero Aleksjejevskij, in casa del calderaio
Saveljev, e voi vi prego umilissimamente di consegnare questa
lettera A.N.R.”.
Quelli dei miei lettori che non hanno abitato
nei paesi non possono immaginarsi che delizia siano queste
signorine di provincia! Educate all’aria aperta, all’ombra dei meli
del proprio giardino, esse traggono dai libri la conoscenza del
mondo e della vita. L’isolamento, la libertà e la lettura
sviluppano presto in loro sentimenti e passioni, ignote alle nostre
distratte bellezze. Per una signorina il tintinnar d’un sonaglio è
già un’avventura; un viaggio nella città vicina fa epoca nella
vita, e la visita di un ospite lascia un lungo, a volte anche
eterno ricordo. Certamente, chiunque può irridere alcune loro
stranezze! ma le celie dell’osservatore superficiale non possono
distruggere i loro pregi essenziali, fra cui il principale è la
singolarità del carattere, l’originalità
(individualité) senza la quale, secondo l’opinione di
Jean-Paul, non esiste neppure l’umana grandezza. Nelle capitali le
donne ricevono forse un’istruzione migliore; ma la consuetudine
della società livella presto il carattere e rende le anime
altrettanto uniformi come le pettinature. Questo sia detto non per
giudicare né per biasimare, ma tuttavia nota nostra manet,
come scrive un antico commentatore.
È facile immaginarsi quale impressione dovesse
produrre Aleksjej in mezzo alle nostre signorine. Egli per primo
era apparso dinanzi a loro cupo e disilluso; per primo aveva
parlato loro delle gioie perdute e della sua giovinezza appassita;
inoltre, egli portava un anello nero, con l’immagine d’una testa di
morto. Tutto questo era straordinariamente nuovo in quella
provincia. Le signorine impazzivano per lui.
Ma piú di tutte si occupava di lui la figlia del
mio anglomane, Liza (o Betsy, come la chiamava di solito Grigorij
Ivanovič). I loro padri non si frequentavano; ella non
aveva ancora veduto Aleksjej, mentre tutte le giovani vicine non
facevano che parlare di lui. Aveva diciassette anni. Degli occhi
neri ravvivano il suo volto abbronzato e molto piacente. Era figlia
unica e, per conseguenza, viziata. La sua vivacità e le continue
birichinate facevano andare in visibilio il padre e riducevano alla
disperazione la sua madame, miss Jackson, un’affettata
signorina quarantenne, che si dava il bianco e si tingeva le
sopracciglia, rileggeva la Pamela due volte l’anno, per
questo riceveva duemila rubli e moriva di noia in questa barbara
Russia.
A Liza stava dietro Nastja; ella era un po’ piú
vecchia, ma altrettanto sventata come la sua signorina. Liza le
voleva molto bene, le scopriva tutt’i suoi segreti, escogitava
insieme con lei i suoi progetti; insomma, Nastja nel paese del
Prilucino era un personaggio molto piú importante che non qualsiasi
confidente in una tragedia francese.
«Permettetemi d’andare in visita oggi» disse un
giorno Nastja, vestendo la signorina.
«Fate pure; ma dove?»
«A Tughilovo, dai Berestov. È l’onomastico della
moglie del loro cuoco, e lei ieri è venuta a invitarci a
pranzo.»
«Ecco!» disse Liza. «I signori sono in lite e i
servitori s’invitano fra loro.»
«E noi che abbiamo a che fare coi signori?»
ribatté Nastja. «Inoltre poi io sono vostra, e non del babbo. Voi
non avete mica ancora litigato col giovane Berestov; e i vecchi che
se le diano pure, se gli fa piacere.»
«Cerca di vedere Aleksjej Berestov, Nastja, e
raccontami per benino com’è fatto e che uomo è.»
Nastja promise, e Liza aspettò tutto il giorno
il suo ritorno con molta impazienza. La sera Nastja comparve.
«Ebbene, Lizavjeta Grigorjevna,» diss’ella,
entrando nella stanza «ho veduto il giovane Berestov; l’ho
contemplato finché ho voluto; siamo stati insieme tutto il
giorno.»
«Come mai? Racconta, racconta per ordine.»
«Sissignora, sia pure. Siamo andate: io, Anisja
Jegorovna, Nenila, Dugnka… »
«Va bene, lo so. Su, e poi?»
«Sissignora, permettete, racconterò tutto per
ordine. Ecco che siamo arrivate proprio per il pranzo. La stanza
era piena di gente. C’era gente di Kolbino, di Zacharjevo, la
moglie dell’amministratore con le figlie, quelli di Chlupino… »
«Ebbene, e Berestov?»
«Sissignora, aspettate. Ecco che ci mettiamo a
tavola, la moglie dell’amministratore al posto d’onore, io accanto
a lei… e le sue figliole a fare il muso, ma io me ne infischio…
»
«Ah, Nastja, come sei noiosa coi tuoi eterni
particolari!»
«Ma voi come siete impaziente! Via, ecco che ci
alziamo da tavola… e ci eravamo rimasti un tre ore, e il pranzo era
eccellente: un biancomangiare dolce: turchino, rosso e rigato… Ecco
che ci alziamo da tavola e andiamo in giardino a giocare a
gorjelki, e proprio allora è comparso il giovane
padrone.»
«Su, ebbene? È vero che è cosí bello?»
«Meravigliosamente bello; una bellezza, si può
dire. Snello, alto, le gote tutte vermiglie… »
«Davvero? E io cosí pensavo, che avesse il viso
pallido. Ebbene? come t’è sembrato? Triste, pensieroso?»
«Che dite? Ma una persona cosí furiosa non l’ho
vista da che campo. Gli viene in mente di correre con noi a
gorjelki… »
«Correre a gorjelki con voi! È
impossibile!»
«È possibilissimo. Ma che non ha inventato
ancora! Acchiappa, e giú a baciare!»
«Sia come vuoi, Nastja, tu dici bugie.»
«Sia come volete, non dico bugie. Mi son
liberata a fatica da lui. Ha poi perso tutta la giornata con
noi.»
«Ma come mai? Dicono ch’è innamorato e non
guarda nessuno.»
«Non saprei, ma me poi mi guardava un po’
troppo, e anche Tanja, la figlia dell’amministratore; e anche
Paša, quella di Kolbino; ma sarebbe ingiusto dirlo,
non ha fatto torto a nessuno, tanto è monello.»
«È straordinario! E in casa che cosa si sente
dire di lui?»
«Dicono ch’è un ottimo padrone: cosí buono, cosí
allegro. Una cosa sola non va bene: gli piace troppo andar dietro
alle ragazze. Ma, secondo me, questo non è ancora un male: col
tempo si farà serio.»
«Come vorrei vederlo!» disse Liza con un
sospiro.
«Ma che c’è mai di difficile in questo?
Tughilovo non è lontano da noi: sono tre verste in tutto: andate a
spasso da quella parte o fate una passeggiata a cavallo;
probabilmente lo incontrerete. Lui poi ogni giorno, la mattina
presto, va a caccia col fucile.»
«Ma no, non sta bene. Può pensare che io gli
corra dietro. Inoltre i nostri padri sono in lite, sicché lo stesso
non potrò fare la sua conoscenza… Ah, Nastja: sai che cosa? Mi
vestirò da contadina!»
«Ma davvero: mettetevi una camicia grossa, un
sarafan, e andate arditamente a Tughilovo; vi garantisco
che Berestov non si lascerà sfuggir voi.»
«E parlare all’uso di qui so benissimo. Ah,
Nastja, cara Nastja, che ottima invenzione!»
E Liza si coricò con l’intenzione di mettere
assolutamente in atto il suo allegro disegno. L’indomani stesso
ella si accinse all’adempimento del suo progetto, mandò a comprare
al mercato della tela grossa, del nanchino turchino e dei
bottoncini di rame; con l’aiuto di Nastja si tagliò una camicia e
un sarafan, pose a cucire tutta la servitú, e verso sera
tutto era pronto. Liza provò le nuove vesti e dinanzi allo specchio
riconobbe che non era mai apparsa cosí carina a se stessa. Ripeté
la sua parte. S’inchinava profondamente camminando e poi scoteva il
capo parecchie volte, a somiglianza dei gatti d’argilla, parlava in
vernacolo contadinesco, rideva, coprendosi con la manica, e meritò
la piena approvazione di Nastja. Una sola cosa la impacciava: aveva
voluto provare a traversar la corte scalza, ma l’erba pungeva i
suoi piedi delicati, e la sabbia e i sassolini le parvero
insopportabili. Anche in questo Nastja le venne in aiuto: prese la
misura del piede di Liza, corse nei campi da Trofim, il pastore, e
gli ordinò un paio di lapti di quella misura. Il giorno
dopo Liza si svegliò già sul fare del giorno. Tutta la casa dormiva
ancora. Nastja aspettava il pastore dietro la porta. Cominciò a
suonare il corno, e il gregge del villaggio si allungò accanto alla
casa padronale. Trofim, passando dinanzi a Nastja, le consegnò i
piccoli lapti variopinti e ne ricevette mezzo rublo come
ricompensa. Liza si vestí pian pianino da contadina, diede
sottovoce le sue istruzioni a Nastja riguardo a miss Jackson, uscí
sulla scalinata posteriore e attraverso l’orto corse nei campi.
L’aurora splendeva a oriente, e gli ordini di
nuvole dorate sembravano aspettare il sole, come i cortigiani
attendono il sovrano; il cielo chiaro, il fresco mattutino, la
rugiada, il venticello e il canto degli uccellini riempivano il
cuore di Liza d’una infantile allegrezza; temendo qualche incontro
di persone conosciute, sembrava che non camminasse, ma volasse.
Avvicinandosi al boschetto posto sul confine del possedimento
paterno, Liza si mise a camminare piú adagio. Qui ella doveva
attendere Aleksjej. Il cuore le batteva forte, senza sapere perché;
ma il timore, che accompagna le nostre birichinate giovanili, forma
anche il loro fascino principale. Liza entrò nell’ombra del
boschetto. Il suo sordo, brontolante fruscío salutò la fanciulla.
L’allegria di lei si calmò. A poco a poco ella s’abbandonò a un
dolce fantasticare. Pensava… ma si può forse definire con esattezza
a che pensi una signorina di diciassette anni, sola, in un
boschetto, fra le cinque e le sei d’un mattino di primavera? Sicché
ella camminava, pensierosa, per una strada ombreggiata dalle due
parti da alberi alti, quando a un tratto un bellissimo cane da
ferma le abbaiò contro. Liza si spaventò e si mise a gridare. Nel
medesimo tempo echeggiò una voce: «Tout beau, Sbogar, ici…
» e un giovane cacciatore comparve da dietro un cespuglio.
«Non aver paura, cara,» diss’egli a Liza «il mio
cane non morde.»
Liza aveva già avuto modo di rimettersi dallo
spavento e seppe subito approfittare delle circostanze.
«Ma no, signore,» diss’ella, fingendosi mezzo
timida, mezzo spaventata «ho paura: ve’, com’è cattivo: s’avventerà
di nuovo.»
Aleksjej (il lettore l’ha già riconosciuto)
frattanto guardava fisso la giovane contadina.
«Ti accompagnerò, se hai paura» le disse; «mi
permetterai di camminare vicino a te?»
«E chi te l’impedisce?» rispose Liza; «ognuno fa
quel che gli pare, e la strada è di tutti.»
«Di dove sei?»
«Di Prilucino; son figlia di Vasilij, il fabbro,
vado per funghi.» Liza portava un panierino appeso a uno spago. «E
tu, signore? Sei di Tughilovo, eh?»
«Proprio cosí,» rispose Aleksjej «sono il
cameriere del giovane padrone.» Aleksjej desiderava di mettere allo
stesso livello i loro rapporti. Ma Liza lo guardò e si mise a
ridere.
«Ma dici bugia» diss’ella; «non ti sei imbattuto
in una sciocca. Vedo che sei tu stesso il signore.»
«E perché pensi cosí?»
«Ma per ogni cosa.»
«Per esempio?»
«Ma come mai non far differenza fra un signore e
un servitore? E non sei vestito a quel modo e parli diverso, e al
cane poi dài la voce non all’uso nostro.»
Liza piaceva ognora di piú ad Aleksjej. Abituato
a non far complimenti con le belle contadine, egli avrebbe voluto
abbracciarla; ma Liza saltò via lontano da lui e assunse a un
tratto un’aria cosí severa e fredda, che, sebbene ciò facesse
ridere Aleksjej, pur lo trattenne da ulteriori tentativi.
«Se volete che per lo innanzi siamo amici,»
diss’ella con aria d’importanza «abbiate la bontà di non
trascendere.»
«Chi t’ha insegnato questa saggezza?» domandò
Aleksjej, dopo essere scoppiato a ridere; «non è Nastjegnka, forse,
la mia amica, non è la donna della vostra signorina? Ecco per che
vie si diffonde l’istruzione!»
Liza sentí d’esser uscita dalla sua parte, e
subito si corresse.
«E che pensi?» diss’ella. «Non vado forse mai
nel cortile dei signori? Non temere: di tutto mi sono empita gli
orecchi e gli occhi.»
«Però,» ella proseguí «chiacchierando con te
funghi non se ne raccoglie. Va’ un po’ da una parte, signore, e io
dall’altra. Chiedo licenza.»
Liza voleva allontanarsi; Aleksjej la trattenne
per una mano.
«Come ti chiami, anima mia?»
«Akulina» rispose Liza, cercando di liberar le
sue dita dalla mano di Aleksjej; «ma lascia un po’ andare, signore,
è anche l’ora di tornare a casa per me.»
«Su, Akulina, amica mia, verrò di certo a far
visita al tuo babbo, a Vasilij il fabbro.»
«Che dici?» ribatté Akulina con vivacità «in
nome di Cristo, non venire! Se a casa sapranno che ho chiacchierato
a quattr’occhi col padrone nel boschetto, me ne verrà male: mio
padre, Vasilij il fabbro, mi picchierà a morte.»
«Ma io voglio assolutamente che ci vediamo.»
«Via, qualche volta verrò di nuovo qua per
funghi.»
«E quando?»
«Ma, magari domani.»
«Cara Akulina, ti bacerei, ma non oso. Allora
domani, a quest’ora, non è vero?»
«Sí, sí.»
«E non m’ingannerai?»
«Non t’ingannerò.»
«Giura.»
«Via, per il Venerdí Santo, verrò.»
I giovani si separarono. Liza uscí dal bosco,
attraversò i campi, penetrò nel giardino e corse a precipizio nella
fattoria, dove Nastja l’aspettava. Là si cambiò, rispondendo
distratta alle domande della confidente impaziente, e comparve in
salotto. La tavola era apparecchiata, la colazione pronta, e miss
Jackson, che s’era già data il bianco e s’era stretta come un
calice, tagliava delle sottili fette di pane da imburrare. Il padre
la lodò per la passeggiata mattutina.
«Non c’è nulla di piú sano che svegliarsi
all’alba» egli disse.
A questo punto egli addusse alcuni esempi di
longevità umana, desunti da riviste inglesi, notando che tutte le
persone che eran vissute piú di cento anni non avevano usato
l’acquavite e s’erano alzate all’alba inverno e estate. Liza non lo
ascoltava. Nella sua mente si ripeteva tutte le circostanze
dell’incontro di quella mattina, tutta la conversazione di Akulina
col giovane cacciatore, e la coscienza cominciava a tormentarla.
Invano ella ribatteva a se medesima che il loro colloquio non era
uscito dai limiti del conveniente, che quella birichinata non
poteva avere nessuna conseguenza; la sua coscienza mormorava piú
forte del suo giudizio. Piú che tutto la rendeva inquieta la
promessa fatta per il giorno dopo: s’era quasi affatto decisa a non
mantenere il suo solenne giuramento. Ma Aleksjej, dopo averla
aspettata invano, poteva andare a cercare in paese la figlia di
Vasilij il fabbro, la vera Akulina, una ragazza grassa, butterata,
e cosí indovinare la sua sconsiderata scappatella. Questo pensiero
atterrí Liza, ed ella si decise a comparire di nuovo la mattina
seguente nel boschetto come Akulina.
Per parte sua Aleksjej era incantato; tutto il
giorno pensò alla nuova conoscente; la notte l’immagine della bella
fanciulla abbronzata tormentò anche in sogno la sua immaginazione.
L’alba aveva appena cominciato a spuntare, ch’egli era già vestito.
Senza concedersi il tempo di caricare il fucile, si avanzò nei
campi col suo fedele Sbogar, e corse al luogo dell’incontro
promesso. Passò circa mezz’ora in un’attesa per lui insopportabile;
finalmente egli vide balenare in mezzo ai cespugli il
sarafan turchino e si precipitò incontro alla cara
Akulina. Ella sorrise all’entusiasmo della sua gratitudine; ma
Aleksjej notò subito sul volto di lei segni di malinconia e di
inquietudine. Voleva saperne la ragione. Liza confessò che il suo
atto le sembrava inconsiderato, che ne era pentita, che per questa
volta non aveva voluto non mantenere la parola data, ma che
quell’incontro ormai sarebbe stato l’ultimo, e che lo pregava di
porre fine a un’amicizia che non poteva condurli a nulla di buono.
Tutto questo, s’intende, fu detto in vernacolo contadinesco; ma i
pensieri e i sentimenti, insoliti in una ragazza umile, stupirono
Aleksjej. Egli adoperò tutta la propria eloquenza per distogliere
Akulina dal suo proposito; l’assicurò dell’innocenza dei propri
desiderî, promise di non offrirle mai motivo di pentimento, di
obbedirle in tutto, la scongiurò di non privarlo dell’unica
consolazione di vederla a quattr’occhi, sia pure un giorno sí, un
giorno no, sia pure due volte alla settimana. Egli parlava la
lingua della vera passione, e in quel momento era proprio
innamorato. Liza lo ascoltava in silenzio.
«Dammi la tua parola» diss’ella finalmente «che
non mi cercherai mai in paese né chiederai di me. Dammi la tua
parola che non cercherai altri incontri con me, oltre quelli che
fisserò io stessa.»
Aleksjej voleva giurare per il Venerdí Santo, ma
ella lo fermò con un sorriso.
«Non ho bisogno di giuramento,» disse Liza «mi
basta la sola tua promessa.»
Dopo di ciò chiacchierarono amichevolmente,
passeggiando insieme per il bosco, finché Liza non gli disse: è
l’ora. Si separarono, e Aleksjej, rimasto solo, non poté capire in
che modo un’umile fanciulla di campagna in due incontri fosse
riuscita a prendere un vero potere su di lui. I suoi rapporti con
Akulina avevano per lui il fascino della novità, e benché le
prescrizioni della strana contadina gli sembrassero gravose, il
pensiero di non mantenere la propria parola non gli venne neppure
in mente. Il fatto era che Aleksjej, malgrado l’anello fatale, la
corrispondenza misteriosa e la cupa aria disillusa, era un ragazzo
buono e focoso e aveva un cuore puro, capace di provare le gioie
dell’innocenza.
Se io dessi ascolto al mio solo piacere, mi
metterei a descrivere coi maggiori particolari gli incontri dei
giovani, la loro crescente inclinazione e fiducia vicendevole, le
occupazioni, i discorsi; ma so che la maggior parte dei miei
lettori non parteciperebbero alla mia soddisfazione. In generale
questi particolari debbono sembrare scipiti. Sicché li tralascerò,
dopo aver detto in breve che non erano passati neppure due mesi, e
il mio Aleksjej era già innamorato alla follia e Liza non era piú
indifferente di lui, sebbene fosse piú taciturna. Tutt’e due erano
felici del presente e pensavano poco al futuro.
Il pensiero d’indissolubili nodi balenava loro
abbastanza spesso nel cervello; ma non ne avevano mai parlato l’uno
con l’altro. La ragione è chiara: Aleksjej per quanto fosse
affezionato alla sua cara Akulina, ricordava sempre la distanza che
esisteva fra lui e una povera contadina; mentre Liza sapeva quale
odio esistesse fra i loro padri, e non osava sperare uno
scambievole rappacificamento. Inoltre il suo amor proprio era
segretamente stimolato dall’oscura, romanzesca speranza di vedere
infine il proprietario di Tughilovo ai piedi della figlia del
fabbro di Prilucino. A un tratto un importante avvenimento fu quasi
per mutare i loro vicendevoli rapporti.
In una chiara, fredda mattina (di quelle di cui
è ricco il nostro autunno russo), Ivan Petrovič
Berestov partí per una passeggiata a cavallo, prendendo con sé, per
ogni eventualità, un tre coppie di levrieri, un battistrada e
alcuni monelli della servitú con le raganelle. Nel medesimo tempo
Grigorij Ivanovič Muromskij, sedotto dal bel tempo,
fece sellare la sua piccola giumenta cortalda e andò al trotto nei
pressi dei suoi possedimenti anglicizzati. Appressandosi al bosco,
vide il suo vicino che stava orgogliosamente a cavallo, in un
cekmegn foderato di pelo di volpe, e aspettava la lepre,
che i monelli con le grida e le raganelle cacciavano via da dietro
un cespuglio. Se Grigorij Ivanovič avesse potuto
prevedere quest’incontro, avrebbe certamente svoltato da un lato;
ma egli aveva incontrato Berestov del tutto inaspettatamente e a un
tratto s’era trovato alla distanza d’un tiro di pistola da lui. Non
c’era niente da fare: Muromskij, da europeo istruito, si avvicinò
al suo avversario e lo salutò cortesemente. Berestov rispose con la
medesima buona volontà con cui un orso tenuto a catena s’inchina ai
signori, per ordine della sua guida. Intanto la lepre
saltò fuori dal bosco e si mise a correre per i campi. Berestov e
il battistrada si diedero a gridare a squarciagola, lasciarono
andare i cani e galopparono a briglia sciolta seguendo la traccia.
Il cavallo di Muromskij, che non era mai stato a caccia, si
spaventò e prese la mano. Muromskij, che si era proclamato ottimo
cavaliere, gli allentò la briglia e internamente fu molto contento
del caso che lo liberava da uno spiacevole interlocutore. Ma il
cavallo, dopo aver galoppato fino a un burrone che prima non aveva
osservato, a un tratto si scagliò da un lato, e Muromskij non seppe
mantenersi in arcione. Caduto abbastanza pesantemente sulla terra
gelata, egli giaceva, maledicendo la sua giumenta cortalda che come
se fosse ritornata in sé, si era fermata subito, non appena s’era
sentita senza cavaliere. Ivan Petrovič gli si avvicinò
al galoppo, informandosi se non si fosse fatto male. Frattanto il
battistrada gli aveva condotto il cavallo colpevole, tenendolo per
le briglie. Egli aiutò Muromskij a montare in sella, e Berestov lo
invitò a casa sua. Muromskij non poteva rifiutare, perché si
sentiva in debito di riconoscenza, e cosí Berestov tornò a casa con
la gloria, avendo preso a balzello una lepre e conducendo con sé il
proprio avversario ferito e quasi prigioniero di guerra.
I vicini, facendo colazione, si misero a parlare
abbastanza amichevolmente. Muromskij domandò una carrozza a
Berestov, giacché riconobbe che per la contusione non era in grado
di giungere fino a casa a cavallo. Berestov lo accompagnò fin
proprio alla scalinata, e Muromskij non andò via prima di aver
ricevuto da lui la parola d’onore che sarebbe venuto l’indomani
stesso (e con Aleksjej Ivanovič) a un pranzo
amichevole a Prilucino. In questo modo una inimicizia antica e
profondamente radicata sembrava che fosse pronta a cessare per la
paurosità della piccola giumenta cortalda.
Liza corse incontro a Grigorij
Ivanovič.
«Che vuol dire codesto, babbo?» disse ella con
stupore. «Perché zoppicate? Dov’è il vostro cavallo? Di chi è
codesta carrozza?»
«Codesto poi non lo indovini, my dear»
le rispose Grigorij Ivanovič, e le raccontò tutto
quello ch’era accaduto.
Liza non credeva alle proprie orecchie. Grigorij
Ivanovič, senza darle il tempo di tornare in sé,
annunciò che il giorno dopo avrebbero pranzato da lui i due
Berestov.
«Che dite!» diss’ella, impallidendo. «I
Berestov, padre e figlio! Domani a pranzo da noi! No, babbo, sia
come vi pare: io non mi farò vedere a nessun costo.»
«Che dici, sei impazzita?» ribatté il padre; «è
un pezzo che sei diventata cosí timida? o nutrisci per loro un odio
ereditario, come un’eroina romanzesca? Smettila, non far
sciocchezze… »
«No, babbo, per nulla al mondo, per nessun
tesoro non comparirò dinanzi ai Berestov.»
Grigorij Ivanovič alzò le spalle e
non discusse piú con lei, giacché sapeva che col contraddirla non
si poteva ottenerne nulla, e andò a riposarsi della sua memoranda
passeggiata. Lizavjeta Grigorievna se ne andò in camera sua e
chiamò a sé Nastja. Tutt’e due ragionarono a lungo della visita del
giorno dopo. A che avrebbe pensato Aleksjej, se avesse riconosciuto
nella signorina ben educata la sua Akulina? Che opinione avrebbe
avuta della sua condotta e dei suoi principî, della sua
assennatezza? D’altra parte, Liza desiderava molto di vedere che
impressione avrebbe prodotta su di lui un incontro cosí
inaspettato… A un tratto le balenò un’idea. La comunicò a Nastja;
tutt’e due se ne rallegrarono come di una trovata, e stabilirono di
metterla assolutamente in atto.
Il giorno dopo, a colazione, Grigorij
Ivanovič domandò alla figliola se aveva ancora
l’intenzione di nascondersi ai Berestov.
«Babbo,» rispose Liza «li riceverò, se vi fa
piacere, soltanto con un patto: comunque io compaia dinanzi a loro,
qualunque cosa mi faccia, voi non mi sgriderete e non mostrerete
nessun segno di stupore o di malcontento.»
«Di nuovo qualche marioleria!» disse Grigorij
Ivanovič, ridendo. «Su, va bene: acconsento, fa’
quello che vuoi, birichina mia dagli occhi neri.»
Con questa parola egli la baciò in fronte, e
Liza corse a prepararsi.
Alle due in punto una vettura fatta in casa,
tirata da, sei cavalli, entrò nel cortile e si avanzò vicino a un
tondo d’erba verde fitto. Il vecchio Berestov salí la scalinata con
l’aiuto di due lacchè in livrea di Muromskij. Dietro a lui arrivò a
cavallo suo figlio e insieme con lui entrò in sala da pranzo, dove
la tavola era già apparecchiata. Muromskij ricevette i suoi vicini
il piú affabilmente possibile, propose loro di visitare prima del
pranzo il giardino e il parco e li condusse per dei viali
accuratamente spazzati e cosparsi di sabbia. Il vecchio Berestov
internamente rimpiangeva il lavoro e il tempo perduto per cosí
inutili capricci, ma stava zitto per cortesia. Suo figlio non
condivideva né il malcontento del proprietario economo, né gli
entusiasmi dell’orgoglioso anglomane; ma aspettava con impazienza
che comparisse la figlia del padron di casa, della quale aveva
sentito molto parlare; e benché il suo cuore, come a noi è noto,
fosse già occupato, una giovane bellezza aveva sempre un diritto
sulla sua immaginazione.
Ritornati in salotto, si misero a sedere tutt’e
tre: i vecchi ricordarono il tempo antico e le storielle del loro
servizio militare, e Aleksjej pensava alla parte che aveva da
recitare in presenza di Liza. Decise che in ogni modo una fredda
distrazione era la cosa piú adatta, e in seguito a questo si
preparò. La porta si aperse; egli volse il capo con tale
indifferenza, con tale superba noncuranza, che il cuore della
civetta piú inveterata avrebbe dovuto senza fallo avere un fremito.
Disgraziatamente, invece di Liza era entrata la vecchia miss
Jackson, imbellettata, serrata, con gli occhi a terra e con una
piccola riverenza, e la bellissima mossa bellica di Aleksjej si
perse inutilmente. Egli non aveva ancora fatto in tempo a
raccoglier di nuovo le proprie forze, quando la porta si riaperse,
e questa volta entrò Liza. Tutti si alzarono; il padre aveva voluto
cominciare la presentazione degli ospiti, ma a un tratto si fermò e
si morse in fretta le labbra… Liza, la sua abbronzata Liza, aveva
il bianco fino alle orecchie, s’era dato il nero piú della stessa
miss Jackson; i riccioloni falsi, molto piú chiari dei suoi propri
capelli, erano mossi come la parrucca di Luigi XIV; le maniche
à l’imbécile sporgevano come il panier di madame
de Pompadour; la vita era stretta come la lettera X, e tutti i
brillanti di sua madre che non erano ancora impegnati al monte di
pietà le splendevano sulle dita, sul collo e alle orecchie.
Aleksjej non poteva riconoscere la sua Akulina in questa ridicola e
brillante signorina. Suo padre andò a baciarle la mano, ed egli con
stizza lo seguí; quando sfiorò le piccole dita bianche di lei, gli
parve che tremassero. Frattanto, ebbe modo di notare un piedino,
messo avanti con intenzione e calzato con tutta la possibile
civetteria. Questo lo riconciliò un po’ col resto
dell’abbigliamento di lei. Per quel che riguarda il belletto bianco
e il nero, bisogna confessare che nella sua semplicità di cuore al
primo sguardo non li aveva notati, e anche dopo non li sospettò!
Grigorij Ivanovič ricordò la propria promessa e
cercava di non avere neppur l’aria di essere stupito; ma la
birichinata di sua figlia sembrava cosí dilettosa, che a mala pena
poteva trattenersi. Non era il momento di ridere per la affettata
inglese. Ella indovinava che il nero e il belletto bianco erano
stati rapiti dal suo cassettone, e uno scarlatto rossore di stizza
si faceva strada attraverso il biancore artificiale del suo viso.
Gettava sguardi infocati sulla giovane bricconcella, che,
rimandando a un altro momento qualsiasi spiegazione, fingeva di non
notarli.
Si misero a tavola. Aleksjej seguitava a
recitare la parte del distratto e del pensieroso. Liza faceva la
vezzosa, parlava fra i denti, strascicando le parole, e soltanto in
francese. Il padre ogni momento s’incantava a guardarla, senza
capire il suo scopo, ma ritenendo assai dilettoso tutto questo. La
inglese s’infuriava e taceva. Il solo Ivan Petrovič
era come a casa sua: mangiava per due, beveva nella sua misura
abituale, rideva al suo proprio riso e da un’ora all’altra
discorreva e rideva sempre piú amichevolmente.
Infine si alzarono da tavola; gli ospiti
andarono via, e Grigorij Ivanovič diede la stura al
riso e alle domande.
«Come mai t’è venuto in mente di minchionarli?»
egli domandò a Liza. «Ma sai cosa? Il bianchetto davvero ti sta
bene; non entro nei misteri della toilette femminile, ma
al tuo posto io mi metterei a darmi il bianco; s’intende, non
troppo, ma leggermente.»
Liza era in visibilio per la riuscita della sua
invenzione. Abbracciò il padre, gli promise di ripensare al suo
consiglio e corse a placare l’irritata miss Jackson, che a fatica
acconsentí ad aprire la porta e ad ascoltare le sue
giustificazioni. Liza si vergognava di mostrarsi cosí mora in
presenza di sconosciuti; non aveva osato chiedere… era sicura che
la buona, cara miss Jackson le avrebbe perdonato… ecc., ecc. Miss
Jackson, convintasi che Liza non pensava di metterla in ridicolo,
si calmò, baciò Liza e, come segno di riconciliazione, le regalò un
vasetto di bianco inglese, che Liza accolse con l’espressione d’una
sincera riconoscenza. Il lettore indovinerà che la mattina del
giorno dopo Liza non tardò a comparire nel boschetto degli
appuntamenti.
«Sei stato ieri sera dai nostri padroni,
signore?» ella disse subito ad Aleksjej. «Come t’è sembrata la
signorina?»
Aleksjej rispose che non l’aveva notata.
«Peccato» ribatté Liza.
«E perché mai?» domandò Aleksjej.
«Ma perché vorrei chiederti se è vero, dicono…
»
«Che dicono mai?»
«Se dicono il vero, che somiglio la padroncina…
»
«Che sciocchezza! Rispetto a te è un mostro
vero.»
«Ah, signore, fai peccato a dir questo, la
nostra signorina è cosí bianca, cosí tanto elegante! Come faccio a
essere come lei!»
Aleksjej le giurò che era meglio di tutte le
bianche signorine possibili, e per tranquillarla del tutto cominciò
a descrivere la sua padrona con tratti cosí buffi, che Liza rise di
cuore.
«Però,» diss’ella con un sospiro «se anche la
signorina è magari buffa, io davanti a lei sono sempre una sciocca
che non sa né leggere né scrivere.
«Eh!» disse Aleksjej «c’è proprio da
affliggersi! Ma se vuoi t’insegno subito a leggere e scrivere.»
«Ma davvero,» disse Liza «non dovrei proprio
provare?»
«Fa’ pure, cara: cominciamo anche subito.»
Si sedettero. Aleksjej tirò fuori dalla tasca un
lapis e un taccuino, e Akulina imparò l’alfabeto straordinariamente
in fretta. Aleksjej non sapeva stupirsi abbastanza della sua
intelligenza. La mattina seguente ella volle provare anche a
scrivere; dapprincipio il lapis non le obbediva, ma dopo qualche
minuto cominciò anche a tracciare le lettere abbastanza
discretamente.
«Che miracolo!» diceva Aleksjej. «Ma il nostro
insegnamento procede piú in fretta che non col sistema di
Lancaster.»
Infatti nella terza lezione Akulina sillabava
già la “Natalja figlia di bojarin”, interrompendo la lettura con
osservazioni, delle quali Aleksjej era veramente meravigliato, e
imbrattò tutt’un foglio di aforismi, scelti dal medesimo
racconto.
Passò una settimana, e fra loro si stabilí una
corrispondenza. L’ufficio postale fu istituito nel cavo del tronco
d’una vecchia quercia. Nastja in segreto esercitava l’ufficio di
postino. Là Aleksjej portava le lettere scritte a caratteri grandi
e nel medesimo luogo trovava, su carta turchina comune, le zampette
di mosca della sua amata. Akulina si abituava evidentemente a una
miglior connessione di discorsi, e la sua intelligenza si
sviluppava e si formava in modo visibile.
Frattanto la recente conoscenza fra Ivan
Petrovič Berestov e Grigorij Ivanovič
Muromskij si rafforzava maggiormente e presto si mutò in amicizia,
ecco per quali circostanze. Muromskij pensava spesso che, alla
morte di Ivan Petrovič, tutto il suo possesso sarebbe
passato nelle mani di Aleksjej Ivanovič, che in tal
caso Aleksjej Ivanovič sarebbe stato uno dei
proprietari piú ricchi di quella provincia, e che non aveva nessuna
ragione di non sposare Liza. Il vecchio Berestov, poi, per parte
sua, benché nel suo vicino riconoscesse una certa stravaganza (o,
secondo la sua espressione, la mania inglese), tuttavia non
disconosceva in lui anche molte ottime qualità, per esempio una
rara abilità mondana; Grigorij Ivanovič era prossimo
parente del conte Pronskij, persona di gran nome e potente; il
conte poteva essere molto utile ad Aleksjej e Muromskij (cosí
pensava Ivan Petrovič) probabilmente sarebbe stato
contento dell’occasione di maritare in modo conveniente sua figlia.
I vecchi rifletterono a tutto questo fino a tal punto, ognuno per
conto suo, che finalmente si parlarono, si abbracciarono, si
promisero di combinare la cosa secondo le regole e si diedero a
lavorarci ognuno per parte sua. A Muromskij si presentava una
difficoltà: convincere la sua Betsy a fare una piú intima
conoscenza di Aleksjej, che ella non aveva piú visto fin da quel
pranzo memorabile. Sembrava che non si piacessero molto a vicenda;
almeno Aleksjej non era piú tornato a Prilucino, e Liza se ne
andava in camera sua ogni volta che Ivan Petrovič li
onorava d’una sua visita. “Ma,” pensava Grigorij
Ivanovič “se Aleksjej verrà da me ogni giorno, Betsy
dovrà pure innamorarsene. È nell’ordine delle cose. Il tempo
accomoderà tutto.”
Ivan Petrovič s’inquietava meno del
successo delle proprie intenzioni. La medesima sera chiamò il
figlio nel suo studio, accese la pipa e, dopo esser rimasto un poco
zitto, disse:
«Come mai, Aljoša, è un pezzo che
non parli della carriera militare? O l’uniforme di ussero non ti
seduce piú?»
«No, babbo,» rispose rispettosamente Aleksjej
«vedo che non vi fa piacere ch’io entri negli usseri; il mio dovere
è di obbedirvi.»
«Va bene,» rispose Ivan Petrovič
«vedo che sei un figlio obbediente: questo è consolante per me;
anch’io dunque non voglio forzarti: non ti obbligo a entrare…
subito… nella carriera amministrativa; e intanto ho l’intenzione di
sposarti.»
«Con chi, babbo?» domandò Aleksjej
stupefatto.
«Con Lizavjeta Grigorjevna Muromskaja» rispose
Ivan Petrovič; «è una sposa coi fiocchi, non è
vero?»
«Babbo, io non penso a prender moglie.»
«Tu non ci pensi, allora ci ho pensato e
ripensato io per te.»
«Sia come volete, Liza Muromskaja non mi piace
affatto.»
«Ti piacerà dopo. Ti ci abituerai e le vorrai
bene.»
«Non mi sento atto a fare la sua felicità.»
«La sua felicità non è la tua sventura. Come? È
cosí che rispetti la volontà paterna? Belle cose!»
«Fate come vi pare, io non voglio sposarmi e non
mi sposerò.»
«Tu ti sposerai, o io ti maledirò, e i possessi
– com’è vero Iddio! – li venderò e li sperpererò, e a te non
lascerò un centesimo. Ti do tre giorni per riflettere e intanto non
osare mostrarti davanti ai miei occhi.»
Aleksjej sapeva che se il padre si ficcava in
capo qualcosa non c’era verso di fargliela uscire neppure con un
chiodo, secondo l’espressione di Taras Skotinin; ma Aleksjej
somigliava al babbo, ed era altrettanto difficile vincerlo in una
discussione. Se ne andò in camera sua e cominciò a riflettere sui
limiti del potere paterno, su Lizavjeta Grigorjevna, sulla solenne
promessa del padre di far di lui un mendicante e, infine, su
Akulina. Per la prima volta vedeva con chiarezza che ne era
appassionatamente innamorato; gli venne in mente la romanzesca idea
di sposare la contadina e di viver del proprio lavoro, e quanto piú
egli pensava a quest’atto risoluto, tanto piú lo giudicava
ragionevole. Da un certo tempo gli incontri nel boschetto erano
stati interrotti, a causa del tempo piovoso. Scrisse ad Akulina una
lettera con la calligrafia piú chiara e lo stile piú indiavolato,
annunciandole la rovina che li minacciava, e fin da allora le
offriva di sposarla. Portò subito la lettera alla posta, nel cavo
del tronco, e andò a dormire assai contento di sé.
Il giorno dopo Aleksjej, fermo nel suo
proposito, andò la mattina presto da Muromskij, per avere una
spiegazione schietta con lui. Sperava di stimolare la sua
generosità e di farlo propenso a sé.
«È in casa Grigorij Ivanovič?» egli
domandò, fermando il cavallo davanti alla scalinata del castello di
Prilucino.
«Nossignore» rispose il servitore «Grigorij
Ivanovič è andato via fin da stamattina.»
“Che peccato!” pensò Aleksjej. «È in casa almeno
Lizavjeta Grigorjevna?»
«È in casa, sissignore.»
E Aleksjej saltò giú dal cavallo, lasciò le
redini nelle mani del lacchè e andò avanti senza farsi
annunciare.
“Tutto sarà deciso,” egli pensava, avvicinandosi
al salotto “avrò una spiegazione con lei stessa:”
Entrò… e restò di sasso! Liza… no, Akulina, la
cara, abbronzata Akulina, non in sarafan, ma in un bianco
vestitino da mattina, era seduta davanti alla finestra e leggeva la
sua lettera: era cosí occupata che non aveva neanche sentito
com’egli fosse entrato. Aleksjej non poté trattenere una gioiosa
esclamazione. Liza ebbe un fremito, alzò il capo, dette un grido e
voleva fuggir via. Egli si precipitò a trattenerla: «Akulina,
Akulina!». Liza cercava di liberarsene…
«Mais laissez-moi donc, monsieur; mais
êtes-vous fou?» ella ripeteva, voltandosi dall’altra
parte.
«Akulina! amica mia, Akulina!» ripeteva egli
baciandole le mani.
Miss Jackson, testimone di questa scena, non
sapeva che cosa pensare. In quel momento si aperse la porta, ed
entrò Grigorij Ivanovič.
«Aha!» disse Muromskij «ma voi mi pare che
abbiate già accomodato tutto… »
I lettori mi risparmieranno l’obbligo superfluo
di descrivere lo scioglimento.