domenica 17 maggio 2020


LA MORTE DI IVAN IL'IČ
Lev Tolstoj

Nota

È un libro capace di prevedere con incredibile lucidità la disgregazione morale dei giorni nostri; rappresenta un monito che mette in guardia l'uomo moderno contro il dilagare della vanità, del cinismo e del conformismo borghese.

Intrappolato in un mondo dove regna il più assoluto relativismo morale, Ivan si sente tormentato, oltre che  dal dolore della malattia, dalla propria incapacità di darsi una spiegazione: cosa ha fatto lui, un cittadino modello, ben educato, ricco, attraente e soddisfatto, per meritarsi tutto questo? Se la vita è una semplice ricerca della felicità e del piacere, che senso si può dare al dolore? Come sopportarlo, quando non lo si può più evitare? Dopo quarant’anni di soddisfazioni sul lavoro, doveri di famiglia adempiuti, vita sociale soddisfacente e di successo, il protagonista viene messo davanti a ciò che ha sempre voluto evitare e ignorare: il dolore e l’esistenza della morte.


La morte di Ivan  Il'ič

  Nel grande edificio del palazzo di giustizia, in una pausa del processo Mel'vinskij magistrati e procuratore si radunarono nello studio di Ivàn Egoroviè Šebek e cominciarono a discorrere del famoso caso Krasovskij. Fëdor Vasìl'eviè si accalorò, cercando di dimostrare il non luogo a procedere, Ivàn Egoroviè insisteva sul suo punto di vista, Pëtr Ivànoviè, che si era tenuto estraneo alla discussione fin dal principio, se ne stava in disparte e sfogliava un numero delle «Vedomosti», appena uscito. 
  «Signori!» disse, Ivàn Il'ìè è morto.» 
  «Possibile?» 
  «Ecco qua, leggete,» disse Pëtr Ivànoviè a Fëdor Vasìl'eviè, passandogli il giornale, ancora fresco e odoroso di stampa. 
  C'era un annuncio listato a lutto: «Praskov'ja Fëdorovna Golovina con animo affranto partecipa a parenti e amici la scomparsa dell'adorato consorte, Ivàn Il'ìè Golovin, consigliere di Corte d'appello, avvenuta il 4 febbraio del corrente anno, 1882. Le esequie avverranno venerdì, all'una pomeridiana.» 
  Ivàn Il'ìè era un collega di lavoro dei signori lì raccolti, e tutti gli volevano bene. Era ammalato già da qualche settimana; si diceva che avesse un male incurabile. Gli avevano conservato il posto, ma correva voce che in caso di decesso Alekseev avrebbe potuto essere nominato al suo posto, mentre Vinnikov o Štabel' sarebbero subentrati al posto di Alekseev. Sicché; alla notizia della morte di Ivàn Il'ìè, il primo pensiero di tutti quei signori raccolti nello studio di Ivàn Egoroviè Šebek fu rivolto all'influenza che quella morte poteva assumere su eventuali trasferimenti o promozioni, che li riguardavano direttamente o che riguardavano i loro conoscenti. 
  «Adesso vorrei proprio ottenere il posto di Štabel' o di Vinnikov,» pensò Fëdor Vasìl'eviè. «Me l'hanno promesso da tanto tempo, è una promozione che per me vuol dire ottocento rubli in più, e i diritti di cancelleria.»  «Bisognerà chiedere il trasferimento di mio cognato da Kaluga,» pensò Pëtr Ivànoviè. «Mia moglie sarà molto contenta. Non si potrà più dire adesso che non ho mai fatto niente per i suoi parenti.» 
  «Lo sapevo che non si sarebbe più ripreso,» disse a voce alta Pëtr Ivànoviè. «Poveretto!» 
  «Ma cosa aveva, di preciso?» 
  «I dottori non sono riusciti a stabilirlo. Cioè, sì, l'hanno stabilito, ma con diagnosi diverse. Quando l'ho visto l'ultima volta, mi ha dato l'impressione di poter guarire.» 
  «Io invece non sono più andato a trovarlo dalle ultime feste. Avevo l'intenzione di farlo ma non mi sono mai deciso.» 
  «Come stava a sostanze?» 
  «Sembra che, la moglie abbia un piccolo patrimonio. Roba da niente, in ogni caso.» 
  «Eh sì, bisognerà andarci. Abitano terribilmente lontano.» 
  «Lontano, per lei. Abitano tutti lontano da lei.» 
  «Non può perdonarmi di vivere al di là del fiume,» disse Pëtr Ivànoviè, sorridendo a Šebek. Cominciarono a discorrere delle grandi distanze cittadine, poi tornarono all'udienza. 
  A parte le varie considerazioni su trasferimenti e mutamenti di carriera che da quella morte potevano derivare, il fatto stesso della morte di un conoscente intimo suscitava in tutti coloro che venivano a saperlo, come sempre, un sentimento di gioia perché era morto lui e non loro. 
  «Accidenti, è morto; io no, invece,» fu il pensiero, più o meno inconfessato, di ognuno. I conoscenti intimi, i cosiddetti amici di Ivàn Il'ìè, in quest'occasione pensarono involontariamente anche ai noiosissimi obblighi di circostanza che ora dovevano compiere e alla funzione a cui dovevano assistere, e alla visita di condoglianze alla vedova. 
  I più intimi erano Fëdor Vasìl'eviè e Pëtr Ivànoviè. 
 Pëtr Ivànoviè era stato compagno di studi di Ivàn Il'ìè all'Istituto di giurisprudenza e si sentiva obbligato nei suoi confronti. 
  A colazione Pëtr Ivànoviè comunicò alla moglie la notizia della morte di Ivàn Il'ìè, parlò della possibilità di un trasferimento del cognato nel loro circondario, poi, rinunciando al riposino, si mise la marsina e andò da Ivàn Il'ìè.  All'ingresso della casa di Ivàn Il'ìè era fermo un carro con due cocchieri. In anticamera, sotto l'attaccapanni era appoggiato al muro il coperchio di una bara, con broccato, fiocchetti, il gallone lustrato a nuovo. Due dame stavano togliendosi la pelliccia. Una la conosceva, era la sorella di Ivàn Il'ìè, l'altra era una signora sconosciuta. Un collega di Pëtr Ivànoviè, Schwarz, stava scendendo dal piano di sopra; vedendo il nuovo venuto, dall'alto della scala, si fermò e gli ammiccò, come per dire: «A Ivàn Il'ìè è andata male; a noi due, no!» 
  Il viso di Schwarz con le fedine all'inglese, e tutta la sua figura allampanata, in frac, avevano, come sempre, un'elegante solennità, e questa solennità, in perenne contrasto con il carattere frivolo di Schwarz, in quell'occasione assumeva un sapore particolarmente piccante. Questo pensò Pëtr Ivànoviè. 
  Pëtr Ivànoviè lasciò andare avanti le due dame, e cominciò a salire le scale, lentamente, dietro a loro. Schwarz non era sceso, si era fermato in cima alla scala. Pëtr Ivànoviè capì: voleva evidentemente mettersi d'accordo per la partita di «vint». Le signore salirono dalla vedova; Schwarz, con le sue labbra forti, atteggiate a serietà, e lo sguardo frivolo, indicò con un movimento delle sopracciglia a Pëtr Ivànoviè la stanza del morto, a sinistra. 
  Pëtr Ivànoviè entrò, imbarazzatissimo, come sempre accade in queste occasioni, non sapendo bene che cosa dovesse fare. Sapeva bene solo una cosa: in questi casi un segno di croce non guasta mai. Ma già non era del tutto convinto se si dovesse anche fare un inchino; perciò scelse una via di mezzo: entrando in camera, si mise a fare il segno della croce e accennò a una specie di inchino. E intanto, per quanto glielo consentivano i movimenti delle braccia e della testa, ispezionava la camera. Due giovani, fra i quali un ginnasiale, uscivano dalla stanza, facendosi il segno della croce: dovevano essere i nipoti. In piedi, immobile, stava una vecchietta. Una signora le sussurrava qualcosa con le sopracciglia stranamente alzate. Un chierico in redingote, arzillo e deciso, recitava qualcosa a voce alta, con un tono che non ammetteva repliche; Gerasim, il mužìk addetto alla cucina, passando davanti a Pëtr Ivànoviè con passo leggero, sparse qualcosa sul pavimento. A quella vista, Pëtr Ivànoviè avverti subito un odore sottile di cadavere in decomposizione. Durante la sua ultima visita a Ivàn Il'ìè, Pëtr Ivànoviè aveva già visto quel mužìk nella stanza del padrone: gli faceva da infermiere; Ivàn Il'ìè gli voleva molto bene. Pëtr Ivànoviè continuava a fare segni di croce e piccoli inchini in una direzione indistinta, a metà fra la bara, il chierico e le immagini sacre sul tavolo, d'angolo. Poi, quando gli sembrò che quei gesti devoti della mano fossero durati abbastanza, si fermò e si mise a guardare il morto.  Il morto giaceva, come giacciono tutti i morti, con particolare pesantezza, sprofondato con le sue membra irrigidite., come tutti i morti, nel giaciglio della bara, con la testa ripiegata per sempre sul cuscino, esibendo, come fanno sempre i morti, una fronte cerea e gialla, stempiata sulle infossature laterali, e un naso prominente, che pareva schiacciare il labbro superiore. Era molto cambiato, era ancora dimagrito dai tempi in cui Pëtr Ivànoviè l'aveva visto l'ultima volta, ma il suo viso, come quello di tutti i morti, era più bello, anzi, più espressivo di quanto non fosse da vivo. Su quel viso si leggeva che quello che si doveva fare era stato fatto, ed era stato fatto giustamente. E in quel viso si leggeva anche un rimprovero o un ammonimento ai vivi. A Pëtr Ivànoviè sembrò che quell'ammonimento fosse inopportuno, o che, per lo meno, non lo riguardasse. Pëtr Ivànoviè cominciò a sentirsi a disagio, perciò si fece in fretta un altro segno della croce, si voltò e andò verso la porta, troppo in fretta, gli parve, e in contrasto con le regole della convenienza. Schwarz lo aspettava in anticamera, a gambe larghe e con le due mani che giocherellavano dietro la schiena con il cilindro. Bastò uno sguardo alla figura gaia, elegante ed accurata di Schwarz per tirar su il morale di Pëtr Ivànoviè. Pëtr Ivànoviè capì che quello, Schwarz, era al di sopra di tutto ciò e non si lasciava andare ad impressioni penose. Il suo aspetto già parlava chiaro: l'incidente delle esequie di Ivàn Il'ìè non poteva in nessun caso costituire un motivo sufficiente per ritenere mutato l'ordine stabilito per la seduta serale; niente poteva impedire che quella sera stessa si prendesse un bel mazzo di carte nuove, lo si facesse tamburellare e lo si dissigillasse, mentre un lacchè avrebbe disposto con cura quattro candele nuove; insomma, non c'era nessun fondamento per credere che quell'incidente avrebbe guastato il loro divertimento serale, anche in quello stesso giorno. E questo disse, sussurrando, a Pëtr Ivànoviè, mentre gli passava vicino, proponendogli di riunirsi a casa di Fëdor Vasìl'eviè per la partita. Ma, evidentemente, era destino che quella sera Pëtr Ivànoviè dovesse rinunciare al «vint». Praskov'ja Fëdorovna, una donna piuttosto bassa e grassa, che, nonostante tutti gli sforzi per ottenere l'effetto contrario, continuava inesorabilmente ad allargarsi dalle spalle in giù, tutta in nero, con un velo in testa e le stesse sopracciglia stranamente alzate della signora che stava in piedi di fronte alla bara, uscì dalle sue stanze accompagnata da altre dame, le condusse alla porta del morto, e disse: 
  «Ora ci sarà la funzione: entrate.» 
  Schwarz si fermò, facendo un inchino indistinto, senza accogliere e senza rifiutare quell'invito. Ma Praskov'ja Fëdorovna, riconosciuto Pëtr Ivànoviè, sospirò, gli si avvicinò, lo prese per mano e gli disse: 
  «So che lei era un sincero amico di Ivàn Il'ìè...»e lo guardò, in attesa che da parte sua seguissero quelle azioni che dovevano corrispondere a queste parole. 
  Pëtr Ivànoviè sapeva che, così come prima bisognava farsi il segno della croce, ora bisognava stringere la mano, sospirare e dire: «Mi creda!» E così fece. E, fatto questo, sentì che il risultato era quello sperato: lui era commosso e lei era commossa. 
  «Andiamo, prima che cominci; ho bisogno di parlarle,» disse la vedova. «Mi dia il braccio.» 
  Pëtr Ivànoviè le diede il braccio, e i due s'incamminarono verso le stanze interne, passando accanto a Schwarz che ammiccò tristemente a Pëtr Ivànoviè: «Ecco dove va a finire il suo "vint"! Chiedo venia, ma ci toccherà prendere un altro compagno. Se mai giocheremo in cinque, se le riuscirà di liberarsi,» diceva il suo sguardo giocoso. 
  Pëtr Ivànoviè fece un altro sospiro, ancora più profondo e più triste, e Praskov'ja Fëdorovna, riconoscente, gli diede una stretta di mano. Entrati nel salotto, tappezzato di cretonne rosa, illuminato da una lampada tetra, si sedettero al tavolo: la vedova sul divano, Pëtr Ivànoviè su un minuscolo pouf dalle molle rotte, che mal si adattava al suo peso. Praskov'ja Fëdorovna avrebbe voluto avvertirlo di sedersi su un'altra sedia, ma ritenne che un simile avvertimento non si confacesse alla sua posizione e ci ripensò. Pëtr Ivànoviè, mentre si sedeva sul pouf, si rammentò di quando Ivàn Il'ìè stava arredando quel salotto e si consigliava con lui su quello stesso cretonne rosa a foglie verdi. La vedova, mentre si sedeva sul divano, passando accanto al tavolo (tutto il salotto era pieno di ninnoli e di mobili) si impigliò con un merletto nero della sua mantiglia nera a un intaglio del tavolo. Pëtr Ivànoviè si alzò, per districarla, e il pouf sotto di lui, liberato, cominciò ad agitarsi e a spingerlo via. La vedova stava districando da sola il proprio merletto, e Pëtr Ivànoviè tornò a sedersi, schiacciando il pouf che gli si era ribaltò sotto. Ma la vedova non riusciva a districarsi, e Pëtr Ivànoviè si rialzò, e di nuovo il pouf si mise ad agitarsi, facendo persino uno schiocco. Quando tutto ciò fu terminato, la vedova tirò fuori un fazzoletto pulito di batista e si mise a piangere. La storia del merletto impigliato e la lotta con il pouf avevano raffreddato Pëtr Ivànoviè, che se ne stava seduto tutto imbronciato. Questa imbarazzante situazione fu interrotta da Sokolov, il dispensiere di Ivàn Il'ìè; veniva a comunicare che il posto al cimitero fissato da Praskov'ja Fëdorovna sarebbe venuto a costare duecento rubli. La vedova smise di piangere e, gettato uno sguardo da vittima a Pëtr Ivànoviè, disse in francese che per lei era molto duro. Pëtr Ivànoviè fece un gesto, in silenzio, che voleva esprimere la sua assoluta certezza che non poteva essere altrimenti. 
  «Fumi pure, se vuole, prego, disse la vedova con voce magnanima e insieme afflitta e si mise a trattare con Sokolov la questione del prezzo del posto. Pëtr Ivànoviè, che s'era messo a fumare, la sentiva investigare con molta minuzia sui vari prezzi della terra e infine stabilire quella che conveniva prendere. Poi, risolta la questione del posto, diede delle disposizioni per i cantori. Sokolov se ne andò. 
  «Faccio tutto io, di persona,» disse a Pëtr Ivànoviè spostando da una parte gli album che stavano sul tavolo; e, notando che la cenere pendeva minacciosamente verso il pavimento, senza indugio porse a Pëtr Ivànoviè un portacenere e disse: «Trovo che sarebbe un'inutile ipocrisia far credere che io per il dolore non posso occuparmi di cose pratiche. Al contrario, se c'è qualcosa che può davvero... non dico consolarmi.., distrarmi, è preoccuparmi praticamente per lui.» Prese di nuovo il fazzoletto, come se si preparasse a piangere, ma all'improvviso, quasi facendo forza a se stessa, si riscosse e si mise a parlare tranquillamente: 
  «Ma io ho un problema da sottoporle.» 
  Pëtr Ivànoviè abbozzò un inchino, senza pero permettere alle molle del pouf, che si erano subito messe in agitazione sotto di lui, di sfrenarsi. 
  «Negli ultimi giorni ha sofferto terribilmente. 
  «Ha sofferto molto?» chiese Pëtr Ivànoviè. 
  «Ah, terribilmente! Non la finiva mai di gridare e non solo negli ultimi minuti, ha gridato per ore. Ha gridato per tre giorni interi, giorno e notte, senza smettere un momento. Era una cosa insopportabile. Non so capire come ho potuto reggere; si sentiva anche dietro tre porte chiuse. Ah! quello che ho passato!» 
  «Non sarà stato cosciente,» fece Pëtr Ivànoviè. «Sì, invece,» sussurrò la vedova, «fino all'ultimo minuto. Un quarto d'ora prima di morire ci ha salutato e ha chiesto di portare via Volodja.» 
  Il pensiero delle sofferenze di un uomo che aveva conosciuto così intimamente, da principio come un ragazzino allegro, a scuola, quindi da adulto, come compagno di gioco, all'improvviso, nonostante egli fosse sgradevolmente cosciente dell'ipocrisia propria e di quella donna, riempì di terrore Pëtr Ivànoviè. Rivide quella fronte, il naso schiacciato sul labbro, ed ebbe paura per se stesso. 
  «Tre giorni di terribili sofferenze e la morte. E può succedere anche a me, in ogni momento, anche subito,» pensò, e provò un attimo di terrore. Ma subito, senza rendersene conto; gli venne in aiuto la solita idea che tutto questo era successo a Ivàn Il'ìè e non a lui, e che a lui questo non doveva e non poteva succedere, e che, a pensar così, si lasciava prendere da un umor nero che non avevaragione di esistere come dimostrava il viso di Schwarz. Fatta questa riflessione, Pëtr Ivànoviè si calmò e si mise a fare un gran numero di domande sui particolari della fine di Ivàn Il'ìè, come se la morte fosse un'avventura che riguardava solo Ivàn Il'ìè, non lui. 
  Dopo aver variamente conversato sui particolari delle sofferenze effettivamente orribili patite da Ivàn Il'ìè (e tutti questi particolari Pëtr Ivànoviè venne a saperli soltanto nella misura in cui i tormenti di Ivàn Il'ìè davano sui nervi a Praskov'ja Fëdorovna), la vedova, evidentemente, trovò che era necessario passare al fatto. 
  «Ah, Pëtr Ivànoviè, è una cosa orribile, tremenda, una cosa orribile, orribile, e si mise di nuovo a piangere.  Pëtr Ivànoviè sospirò e aspettò che si soffiasse il naso. Quando la donna ebbe finito di soffiarsi il naso, egli disse: 
  «Mi creda...» e la vedova riprese a discorrere, esponendogli l'importante problema che evidentemente desiderava sottoporgli: come ottenere soldi dall'erario in caso di decesso del coniuge. Fece finta di chiedere a Pëtr Ivànoviè un consiglio sul contributo di pensione; ma egli s'accorse che la donna sapeva già fin nei minimi particolari anche quello che lui stesso non sapeva: tutto quello, cioè, che si poteva cavar fuori dall'erario in caso di decesso del coniuge; la donna voleva sapere se non si poteva in qualche modo spillare ancora più soldi. Pëtr Ivànoviè tentò di escogitare qualcosa, ma, dopo averci pensato un po' e dopo aver insultato per compiacenza il governo per la sua spilorceria, disse che più di così, a quanto pareva, non era possibile ottenere. Allora la donna sospirò ed evidentemente cominciò a pensare alla maniera di liberarsi del suo visitatore. Egli lo capì, spense la sigaretta, si alzò, le strinse la mano e passò in anticamera. 
  Nella sala da pranzo, dov'era l'orologio scovato fra il bric-à-brac di un rigattiere (Ivàn Il'ìè ne era felice), Pëtr Ivànoviè incontrò il prete e qualche altro conoscente venuto per la funzione e vide una bella signorina a lui nota, la figlia di Ivàn Il'ìè. Era tutta in nero. La sua vita, sottilissima, pareva ancora più sottile. Aveva un aspetto tetro, deciso, quasi rabbioso. Fece un inchino a Pëtr Ivànoviè con l'atto di accusarlo di qualche colpa. Dietro la figlia, con lo stesso aspetto offeso stava un ricco giovanotto che Pëtr Ivànoviè conosceva, un giudice istruttore, che, a quanto aveva sentito dire, era il fidanzato della ragazza. Gli indirizzò un mesto inchino e fece per passare nella camera del morto, quando dal sottoscala sbucò la figuretta del figlio di Ivàn Il'ìè, un ginnasiale terribilmente somigliante al padre. Era Ivàn Il'ìè da piccolo, come Pëtr Ivànoviè se lo ricordava all'Istituto di giurisprudenza. Aveva gli occhi rossi di lacrime, tali e quali quelli di certi adolescenti viziosi di tredici-quattordici anni. Scorgendo Pëtr Ivànoviè, il ragazzo s'incupì e fece una smorfia imbarazzata. Pëtr Ivànoviè  gli fece un cenno col capo ed entrò nella cameradel morto. La funzione era iniziata: candele, lamentazioni, incenso, lacrime, singhiozzi. Pëtr Ivànoviè stava lì in piedi, accigliato, fissando i piedi davanti a sé. Non, gettò neanche un'occhiata al morto, riuscì a evitare -fino alla fine i pensieri de primenti e uscì fra i primi. In anticamera non c'era nessuno. Gerasim, il mužìk addetto alla cucina, saltò fuori dalla camera del defunto, buttò all'aria con le sue mani vigorose tutte le pellicce, per trovare quella di Pëtr Ivànoviè, e gliela porse.  Allora, fratello Gerasim!» disse Pëtr Ivànoviè, tanto per dir qualcosa. «Ti dispiace?» 
  «la volontà di Dio. Ci dobbiamo passare tutti,» disse Gerasim, mostrando i suoi denti bianchi e intatti da contadino, poi, come preso da un lavoro molto gravoso, aprì con gran foga il portone, chiamò un cocchiere, fece salire in carrozza Pëtr Ivànoviè e si precipitò indietro, all'ingresso, come rimuginando fra sé quello che ancora dovesse fare.  Pëtr Ivànoviè provò un gran piacere a respirare quell'aria fresca, dopo l'odore d'incenso, di cadavere, di acido fenico. 
  «Dove vuole andare?» chiese il cocchiere. 
  «Non è nemmeno tardi. Posso ancora fare un salto da Fedor Vasìl'eviè.» 
  E Petr Ivànoviè ci andò. E li trovò ancora alla fine della prima mano, sicché riuscì davvero a unirsi a loro come quinto, con tutta comodità. 

II 



  La storia della vita di Ivàn Il'ìè era la più semplice, la più comune, la più terribile. 
  Ivàn Il'ìè era morto a quarantacinque anni, consigliere di Corte d'appello. Era figlio di un funzionario che a Pietroburgo fra ministeri e dipartimenti vari aveva fatto quel tipo di carriera che sbocca alla fine in una situazione particolare: è chiarissimo che il funzionario in questione non è adatto a svolgere nessun incarico di qualsivoglia peso, tuttavia per la sua lunga anzianità di servizio e per il suo grado egli non può essere licenziato e perciò si vede assegnato un posto fittizio, inventato apposta per lui, e uno stipendio non fittizio, nell'ordine delle migliaia di rubli (da sei a dieci), grazie al quale riesce a sopravvivere fino alla più profonda vecchiaia. 
  Così era stato per il consigliere segreto Il'jà Efìmoviè Golovin, membro inutile di varie istituzioni inutili.  Aveva tre figli. Ivàn Il'ìè era il suo secondo figlio. Il maggiore faceva la stessa carriera del padre, ma in un altro ministero, e stava già avvicinandosi a quell'anzianità di servizio, grazie alla quale lo stipendio viene da sé, per forza d'inerzia. Il terzogenito era un buonannulla. In tutti i vari posti che aveva occupato era sempre fallito, alla fine si era impiegato alle ferrovie: suo padre, i suoi fratelli e specialmente le mogli dei fratelli non soltanto non avevano piacere d'incontrarlo, ma evitavano persino di rammentarsi della sua esistenza, salvo in casi di estrema necessità. C'era anche una sorella, sposata al barone Gref, un burocrate pietroburghese tale e quale suo suocero. Ivàn Il'ìè era le phenix de la famille, come si soleva dire. Non era freddo e meticoloso come il maggiore, né sfrontato, come il minore; era una via di mezzo fra i due: intelligente, vivace, simpatico, ammodo. Era stato educato all'Istituto di giurisprudenza insieme al fratello minore. Quest'ultimo non era riuscito a finire gli studi ed era stato espulso dalla quinta. Ivàn Il'ìè invece aveva terminato felicemente gli studi. All'Istituto di giurisprudenza egli era già quale poi fu per tutta la vita: una persona capace, gioviale e socievole, ma che eseguiva coscienziosamente tutto quello che riteneva suo dovere; ed egli riteneva suo dovere tutto quello che era ritenuto tale dalle persone altolocate. Non era mai stato un intrigante, né da ragazzo né da adulto, ma fin dagli anni più giovanili si era manifestata in lui un'irresistibile attrazione, pari a quella della mosca per la luce, verso le persone più altolocate in società: aveva cercato di appropriarsi delle loro maniere e delle loro idee e di stringere con loro relazioni amichevoli. Tutti gli entusiasmi dell'infanzia e della giovinezza erano passati per lui senza lasciare grandi tracce; si era lasciato andare certamente alla lussuria, alla vanagloria, e, verso la fine, nei gradi più alti, al liberalismo, ma mantenendosi sempre nei limiti ben precisi che gli indicava infallibilmente il suo istinto. 
  All'Istituto di giurisprudenza aveva compiuto certe azioni, che egli in un primo tempo aveva considerato delle grandi porcherie, che gli avevano suscitato un senso di ripugnanza per se stesso nel momento medesimo in cui le compiva: poi, vedendo che quelle stesse azioni le compivano anche persone altolocate, che non le ritenevano affatto cattive, egli se ne era dimenticato del tutto, senza provare il minimo rimorso, quando gli ritornavano in mente.  Terminate le dieci classi dell'Istituto di giurisprudenza e ottenuti dal padre i soldi per farsi la divisa, Ivàn Il'ìè ordinò un abito da Charmeur, appese sui pendagli una medaglietta con la scritta: respice finem, s'accomiatò dal principe e dall'istitutore, diede un pranzo d'addio con i compagni da Donon e con valigia, biancheria, vestito, plaid, articoli da barba e da toilette all'ultima moda, ordinati e acquistati nei migliori negozi, partì per la provincia a occupare quel posto di funzionario con incarichi speciali presso il governatore che gli aveva procurato il padre. 
  In provincia Ivàn Il'ìè si creò subito una posizione facile e piacevole, esattamente uguale alla posizione che si era creata all'Istituto. Faceva il suo lavoro, faceva carriera e insieme si divertiva simpaticamente e onestamente; qualche rara volta per incarico dell'autorità superiore andava nei paesi vicini, teneva un contegno dignitoso sia con i superiori che con gli inferiori ed eseguiva con un'onestà scrupolosa e incorruttibile, di cui poteva vantassi a buon diritto, i compiti che gli venivano affidati, riguardanti specialmente i processi contro i settari. 
  In ufficio, nonostante la sua giovane età e la sua inclinazione alla più spensierata allegria, era straordinariamente riservato, molto formale e perfino severo; ma in società era spesso frivolo e spiritoso, sempre affabile, ammodo e bon enfant, come dicevano di lui il suo capo e la moglie del capo, dei quali era diventato un intimo.  In provincia ci fu anche una relazione con una signora che si era appiccicata a quell'azzimato uomo di legge; ci fu una modista; ci furono bisbocce con gli aiutanti di campo di passaggio e capatine in carrozza, dopo cena, in una strada remota; ci furono tentativi di ottenere i favori del proprio capo e anche di sua moglie, ma tutto ciò non si poteva definire con brutte parole: tutto ciò poteva essere rubricato soltanto sotto la massima francese: il faut que jeunesse se passe. Tutto veniva fatto con mani pulite, con camicie pulite, con parole francesi e, soprattutto, nella più eletta società quindi con il beneplacito delle persone altolocate. 
  Ivàn Il'ìè passò così cinque anni, finché non intervenne un mutamento negli incarichi. Apparvero nuove istituzioni legali, c'era bisogno di uomini nuovi. 
  E Ivàn Il'ìè si trovò ad essere uno di questi uomini nuovi. 
  Gli fu offerto un posto di giudice istruttore, e Ivàn Il'ìè lo accettò, anche se il posto era in un altro governatorato e gli toccava abbandonare tutte le relazioni che era riuscito a intrecciare, e cercare di intrecciarne di nuove. Gli amici accompagnarono Ivàn Il'ìè alla partenza, si fecero fotografare in gruppo, gli regalarono un portasigarette d'argento, e Ivàn Il'ìè partì per il suo nuovo incarico. 
  Come giudice istruttore Ivàn Il'ìè si dimostrò altrettanto comme il faut, ammodo, capace di separare gli impegni dell'impiego dalla vita privata e di conquistarsi il rispetto di tutti, quanto lo era stato come funzionario con incarichi speciali. La stessa carica di giudice istruttore presentava per Ivàn Il'ìè un interesse e un'attrattiva molto maggiori della precedente Nella carica precedente quel che c'era di piacevole era passare con andatura disinvolta, nella divisa di Charmeur, davanti ai postulanti in trepidazione, in attesa di essere ricevuti, davanti agli altri funzionari pieni di invidia ed entrare direttamente nello studio del capo, sedersi con lui a prendere un tè o a fumarsi una sigaretta; ma gli uomini su cui poteva esercitare il suo potere personale erano pochi. Erano solo commissari di polizia e settari (quando lo mandavano in missione); e Ivàn Il'ìè amava trattare con cortesia, quasi cameratescamente, quelli che dipendevano da lui, amava lasciar intendere che li trattava da amico, con semplicità, pur potendo schiacciarli. Ma quelli con cui poteva comportarsi così erano pochi. Ora invece, come giudice istruttore, Ivàn Il'ìè sentiva che tutti, ma proprio tutti, senza eccezione, i più superbi, gli altezzosi, tutti erano in mano sua, e che gli bastava scrivere un paio di paroline ben note su un foglio di carta intestata per vedersi recapitare questa gente superba e altezzosa, in qualità di accusato o di testimone, costretta a starsene in piedi davanti a lui a rispondere alle sue domande, se non gli saltava in testa di metterla al fresco. Ivàn Il'ìè non abusava mai di questo suo potere, al contrario, cercava di mitigarne i termini; ma la coscienza di questo potere e la possibilità di mitigarlo costituivano per lui l'interesse fondamentale e il fascino del suo nuovo impiego. Nell'esercizio di questo impiego, specialmente durante il processo istruttorio, Ivàn Il'ìè ben presto fece proprio il sistema di rimuovere tutte le circostanze che non riguardavano direttamente il suo ufficio, e di esporre ogni caso, anche il più complesso, in forma tale da farne trasparire sulla carta solo i tratti esteriori, escludendo ogni convinzione personale, e osservando per filo e per segno le formalità richieste. Erano impegni nuovi. Ed egli fu uno dei primi ad applicare nella pratica i decreti del 1864. 
  Trasferendosi nella nuova città, con l'incarico di giudice istruttore, Ivàn Il'ìè fece nuove conoscenze, allacciò nuove, relazioni, riorganizzò la propria vita su nuove basi e assunse un tono alquanto diverso da prima. Si installò a una certa decorosa distanza dalle autorità della provincia, scelse il giro migliore fra i magistrati e i nobili facoltosi che vivevano in città, e assunse un tono di lieve malcontento per il governo, di liberalismo blando e di educata coscienza civica. Parallelamente, senza venire meno all'eleganza del suo abbigliamento, Ivàn Il'ìè nel nuovo posto smise di radersi il mento e lasciò che la sua barba crescesse liberamente dove meglio credeva. 
  Anche nella nuova città la vita di Ivàn Il'ìè si dispose per il meglio, assai piacevolmente: la società cittadina dove tirava aria di fronda verso il governatore era affiatata e distinta; lo stipendio era più alto di prima, e si aggiunse allora anche il whist a rendere assai più piacevole la sua vita: Ivàn Il'ìè sapeva giocare a carte con allegria, con prontezza di manovra e sottile intuito, sicché, di regola, vinceva sempre. 
  Dopo due anni di servizio nella nuova sede Ivàn Il'ìè incontrò la futura moglie. Praskov'ja Fëdorovna Mìchel era la ragazza più attraente, intelligente, brillante del giro in cui si muoveva Ivàn Il'ìè. Nel novero degli altri svaghi e parentesi distensive fra un impegno di lavoro e l'altro Ivàn Il'ìè incluse anche una relazione scherzosa e frivola con Praskov'ja Fëdorovna. 
  Quando era un funzionario con incarichi speciali, Ivàn Il'ìè di regola non perdeva un ballo; come giudice istruttore, si concedeva alla danza solo eccezionalmente. E ballava ormai solo per dimostrare che, pur appartenendo ai nuovi enti e alla quinta classe dell'impiego statale, egli poteva provare di non essere secondo a nessuno in materia di ballo. Così, di tanto in tanto, alla fine di una serata faceva un giro di danza con Praskov'ja Fëdorovna, e fu proprio durante quelle danze che egli conquistò il cuore di lei. Praskov'ja Fëdorovna si innamorò. Ivàn Il'ìè non aveva proprio una chiara e definita volontà di sposarsi, ma quando la ragazza s'innamorò di lui, decise di proporre a se stesso la seguente domanda: «Perché poi non dovrei sposarmi?» 
  Praskov'ja Fëdorovna era una fanciulla di buona famiglia nobile, piuttosto piacente; aveva anche una piccola sostanza. Ivàn Il'ìè poteva puntare ad una sistemazione più brillante, ma anche questo era un buon partito. Ivàn Il'ìè aveva il suo stipendio; la ragazza - almeno lo sperava - avrebbe avuto altrettanto. Era di buona famiglia; e poi era carina, graziosa, una donna a posto, insomma. Dire che Ivàn Il'ìè si sposava perché s'era innamorato della sua fidanzata e in lei aveva trovato piena comprensione per la sua visione del mondo, sarebbe stato altrettanto ingiusto quanto sostenere che si sposava perché la gente della sua cerchia approvava quel partito. Ivàn Il'ìè si sposava per tutte e due le ragioni, calcolando di far cosa piacevole per se stesso, acquistando una moglie di quel genere, e insieme di fare una cosa ritenuta giusta dalle persone più altolocate. 
  E così Ivàn Il'ìè si sposò. 
  La cerimonia stessa delle nozze e i primi tempi di matrimonio, con le carezze coniugali, i mobili nuovi, le stoviglie nuove, i lenzuoli nuovi, passarono molto bene, fino alla gravidanza della moglie, tanto che Ivàn Il'ìè cominciava già a pensare che il matrimonio non avrebbe affatto turbato quel tono di vita, frivolo, piacevole, allegro, sempre decoroso e confortato dall'approvazione della società, che egli riteneva proprio della vita in genere, ma che anzi l'avrebbe esaltato. Ma ecco che, fin dai primi mesi della gravidanza della moglie, si verificò qualcosa di nuovo, di inatteso, di sgradevole, qualcosa di tetro e di indecente, che non si poteva assolutamente prevedere e da cui non c'era modo di liberarsi. 
  La moglie incominciò a turbare quell'esistenza piacevole e decorosa, così, senza nessun motivo, a parere di Ivàn Il'ìè almeno, per capriccio; anzi, come egli ripeteva a se stesso, de gaîté de coeur: senza la men che minima ragione faceva la gelosa, pretendeva che lui le facesse la corte, aveva da ridire su ogni cosa e gli faceva delle scenatacce sgradevolissime. 
  Da principio Ivàn Il'ìè sperava di liberarsi da quella penosa situazione grazie a quello stesso tono di vita frivolo e decoroso, che l'aveva salvato in precedenza. Si provò a ignorare gli umori della moglie, continuò a vivere come prima la sua esistenza leggera e festaiola: invitava a casa gli amici per la partita a carte, o cercava di uscire, di andare dagli amici o al club. Ma una volta la moglie si mise a insultarlo a male parole, con energia, e con caparbietà continuò a insultarlo ogniqualvolta non soddisfaceva le sue pretese, con l'intenzione evidente di non recedere da 
quell'atteggiamento finché il marito non si fosse piegato, cioè non fosse rimasto a casa ad annoiarsi come si annoiava lei, tanto che Ivàn Il'ìè si spaventò. Allora capì che la vita coniugale, almeno quella con sua moglie, non contribuisce ad esaltare i piaceri e il decoro della vita, anzi, spesso, li guasta, e che perciò è necessario difendersi da questi guasti. E Ivàn Il'ìè si mise alla 
  ricerca di questi mezzi di difesa. Il suo lavoro era l'unica cosa che s'imponesse a Praskov'ja Fëdorovna, e Ivàn Il'ìè attraverso il lavoro e gli impegni che ne derivavano cominciò a lottare contro la moglie, cercando di delimitare i confini di un proprio mondo indipendente. 
  Con la nascita del primo bambino, i tentativi di allattamento e i vari insuccessi in proposito, con le malattie reali e immaginarie di bambino e madre (sempre si richiedeva il suo interessamento, anche in questioni in cui non ci capiva assolutamente niente), l'esigenza di Ivàn Il'ìè di difendere i confini del proprio mondo extrafamiliare diventò ancora più assillante. 
  Nella misura in cui la moglie diventava sempre più irascibile ed esigente, Ivàn Il'ìè provvedeva a spostare sempre di più il centro di gravità della sua esistenza nel lavoro. Cominciò ad amare di più il proprio lavoro e diventò più ambizioso di prima. 
  Ben presto, non più tardi di un anno dopo la data delle nozze, Ivàn Il'ìè capì che la vita coniugale, pur presentando alcuni vantaggi, era in sostanza qualcosa di assai complesso e pesante, rispetto alla quale, per eseguire il proprio dovere, e cioè per condurre un'esistenza decorosa e ben accetta dalla società, bisognava elaborare una linea di condotta ben precisa, come sul lavoro. 
  E Ivàn Il'ìè seppe elaborare nel matrimonio una sua linea di condotta. Egli esigeva dalla vita in famiglia soltanto quei vantaggi che essa poteva offrirgli: la buona cucina, le faccende domestiche, il letto, e soprattutto quel decoro formale che richiedeva l'opinione pubblica. In tutto il resto egli cercava occasioni di svago e di diletto: se le trovava, si mostrava riconoscente, se incontrava invece resistenze e brontolii, si rifugiava immediatamente nel suo mondo privato, ed esclusivo, il mondo del suo lavoro, e in esso trovava diletto. 
  Ivàn Il'ìè era apprezzato come un buon impiegato, e tre anni dopo lo promossero sostituto procuratore. I nuovi incarichi, la loro rilevanza, la possibilità di rinviare a giudizio e di mandare in galera chiunque, la pubblicità dei discorsi e i successi che in questo campo egli otteneva: tutto ciò contribuì ad attrarlo ancora di più verso il lavoro. 
  Vennero i figli. La moglie si faceva sempre più brontolona e stizzita, ma le regole di condotta elaborate da Ivàn Il'ìè nella sua vita matrimoniale lo rendevano quasi impermeabile al malumore della consorte. 
  Dopo sette anni di servizio in quella città, Ivàn Il'ìè fu trasferito in un'altra provincia con l'incarico di procuratore. Dovettero traslocare: i soldi erano pochi, e alla moglie non piacque la nuova sede. Lo stipendio era maggiore del precedente, ma la vita in compenso era più cara. Per di più gli morirono due bambini, e così la vita in famiglia diventò ancora più sgradevole per Ivàn Il'ìè. 
  Per tutti i guai che capitavano nella nuova sede Praskov'ja Fëdorovna rimproverava il marito. La maggior parte dei temi di conversazione fra moglie e marito, specialmente riguardo all'educazione dei figli, finiva per ritornare su questioni che suscitavano il ricordo di passati litigi, e i litigi erano pronti a rinfiammarsi ogni momento. Rimanevano soltanto quei rari periodi di intimità amorosa, che ancora capitavano ai due coniugi, ma che non duravano a lungo. Erano isolette alle quali approdavano di tanto in tanto, per poi ripiombare nell'oceano di un'ostilità repressa, che si traduceva in alienazione reciproca. Questa alienazione familiare avrebbe potuto amareggiare Ivàn Il'ìè, se egli avesse ritenuto che così non doveva essere, ma a quel punto egli si era convinto che quella situazione non solamente era normale, ma era anche l'obiettivo a cui mirava il suo' comportamento in famiglia. Il suo obiettivo consisteva nel cercare di liberarsi sempre di più dai fastidi familiari e di renderli inoffensivi e conformi al decoro esteriore; ci riusciva passando sempre meno tempo con la famiglia: quando era costretto farlo, tentava di alleviare la sua posizione con la presenza di estranei. Ma la cosa più importante era il suo lavoro. Nel mondo del suo lavoro si concentrava per lui tutto l'interesse della vita. E questo interesse inghiottì totalmente Ivàn Il'ìè. La coscienza del proprio potere, la possibilità che aveva di rovinare chiunque egli avesse voluto rovinare, il sussiego, anche esteriore, che assumeva quando entrava in tribunale o incontrava i suoi dipendenti, la benevolenza che godeva presso superiori e inferiori, la sua abilità, soprattutto, nel condurre i casi a lui affidati, erano tutte cose che lo rallegravano e che gli riempivano l'esistenza, insieme alle chiacchierate con gli amici, ai pranzi e al whist. Insomma la vita di Ivàn Il'ìè continuava a trascorrere così come egli riteneva che dovesse trascorrere: in modo piacevole e decoroso. 
  Trascorsero così altri sette anni. La figlia maggiore aveva già sedici anni, un altro bambino era morto, restava il ragazzo-studente oggetto delle dispute familiari. Ivàn Il'ìè voleva iscriverlo all'Istituto di giurisprudenza, Praskov'ja Fëdorovna per ripicca lo iscrisse al ginnasio. La figlia studiava a casa e cresceva bene, e anche il ragazzo se la cavava negli studi. 

III 



  Così era trascorsa la vita di Ivàn Il'ìè in diciassette anni di matrimonio. Era già procuratore anziano, aveva rifiutato varie proposte di trasferimento, in attesa di una carica più ambita, quando all'improvviso si verificò una sgradevole circostanza, che distrusse la tranquillità della sua esistenza. Ivàn Il'ìè mirava al posto di presidente del tribunale in una città universitaria, ma non si sa come Hoppe gli passò davanti e ottenne il posto. Ivàn Il'ìè si irritò, si mise a reclamare, litigò con il collega e con i suoi diretti superiori; questi cominciarono a trattarlo con più freddezza e al successivo trasferimento di ruoli, lo trascurarono un'altra volta. 
  Era il 1880, l'anno più duro della vita di Ivàn Il'ìè. In quell'anno, da una parte, risultò che lo stipendio non bastava per vivere; dall'altra, che quella che a lui sembrava una grandissima, crudelissima ingiustizia nei suoi confronti, gli altri la ritenevano ordinaria amministrazione. Neanche suo padre si era ritenuto in dovere di dargli una mano. Ivàn Il'ìè sentì che tutti l'avevano abbandonato, considerando il suo impiego con tremilacinquecento rubli di stipendio una sistemazione assolutamente normale, anzi fortunata. Solo lui si rendeva conato della sua situazione, solo lui, cosciente delle ingiustizie che aveva dovuto patire, degli eterni brontolii della moglie, dei debiti che aveva cominciato a contrarre, conducendo un'esistenza al di sopra dei propri mezzi, solo lui sapeva che quella situazione non era affatto normale. L'estate di quell'anno, per alleggerire il bilancio familiare, chiese un congedo e andò a passar l'estate con la moglie in campagna, ospite del fratello di Praskov'ja Fëdorovna. 
  In campagna, senza il lavoro, Ivàn Il'ìè per la prima volta conobbe la noia, anzi un'insopportabile angoscia, e decise che così non si poteva vivere e che era necessario prendere qualche misura definitiva. 
  Durante una notte insonne, che Ivàn Il'ìè trascorse interamente passeggiando su e giù per una terrazza, egli decise di andare a Pietroburgo a perorare la propria causa e di trasferirsi a un altro ministero, per castigare «quelli là», quelli che non sapevano apprezzarlo. 
  Il giorno dopo, nonostante gli sforzi della moglie e del cognato per trattenerlo, egli partì per Pietroburgo.  Si era messo in viaggio solo con uno scopo: ottenere un posto con cinquemila rubli di stipendio. Non aveva in mente nessun ministero particolare, nessun particolare tipo d'impiego. Aveva bisogno solo di un posto, di un posto da cinquemila rubli, nell'amministrazione, in banca, alle ferrovie, negli uffici dell'imperatrice Maria, alla dogana magari, ma assolutamente doveva ottenere un posto da cinquemila rubli e assolutamente doveva abbandonare quel ministero, dove non sapevano apprezzarlo. 
  E il viaggio di Ivàn Il'ìè fu coronato da uno straordinario, inaspettato successo. A Kursk, in prima classe, salì sul treno F.S. Il'in, un conoscente, che gli rese noto il testo di un telegramma fresco fresco ricevuto dal governatore di Kursk. Al ministero era stato designato Ivàn Semënoviè. 
  L'imminente rimpasto, oltre al significato che rivestiva per i destini della Russia intera, aveva anche un particolare significato per Ivàn Il'ìè: facendo emergere una nuova personalità, Pëtr Petroviè, e quindi anche quella di un amico di costui, Zachàr Ivànoviè, Ivàn Il'ìè, che era amico di Zachàr Ivànoviè, si trovava ad essere in una situazione altamente favorevole. 
  A Mosca la notizia fu confermata. Giunto a Pietroburgo, Ivàn Il'ìè andò a trovare Zachàr Ivànoviè, dal quale ricevette assicurazione circa un ottimo posto nel suo ministero di sempre, il ministero di grazia e giustizia. 
  Una settimana dopo telegrafava alla moglie: 
  «Zachàr sostituisce Miller prossimo rapporto ricevo nomina.» 
  Ivàn Il'ìè grazie a questo avvicendamento di cariche ricevette inaspettatamente, nel suo ministero di sempre, una nomina che lo poneva due gradi al di sopra dei suoi compagni: cinquemila rubli di stipendio più un premio di trasferimento di tremilacinquecento rubli. Tutta la rabbia accumulata contro i suoi nemici di prima e contro l'intero ministero fu dimenticata. Ivàn Il'ìè era perfettamente felice. 
  Tornò in campagna allegro, soddisfatto, come non gli capitava di essere ormai da tanto tempo. Anche 
Praskov'ja Fëdorovna se ne rallegrò e fra i due coniugi fu concluso un armistizio. Ivàn Il'ìè raccontò per filo e per segno come tutti a Pietroburgo gli avessero fatto onore, come tutti i suoi nemici di un tempo fossero stati rovesciati ignominiosamente e venissero ora a umiliarsi davanti a lui, quanta invidia suscitasse la sua nuova posizione, soprattutto quanto gli volessero bene tutti a Pietroburgo. 
  Praskov'ja Fëdorovna stava ad ascoltarlo e faceva mostra di credere a tutto quanto; non lo contraddisse mai, limitandosi a fare progetti per il nuovo assetto della loro vita nella città dove si sarebbero trasferiti. Ivàn Il'ìè notava con gioia che i progetti della moglie erano i suoi progetti, che essi coincidevano e che di nuovo la sua esistenza mortificata riacquistava quel suo aspetto autentico, di gaia piacevolezza e di decoro, che le era proprio. 
  Ivàn Il'ìè rimase in campagna per poco tempo. Il 10 settembre doveva prendere servizio e bisognava prender tempo per sistemarsi nella nuova sede, per trasportare tutto l'occorrente dalla provincia, fare i nuovi acquisti, necessari, ordinare ancora molte cose; insomma, sistemarsi come aveva in mente di sistemarsi, il che coincideva poi quasi perfettamente a come aveva deciso di sistemarsi Praskov'ja Fëdorovna in cuor suo. 
  Ora che tutte le cose andavano per il meglio, che marito e moglie si trovavano d'accordo sui loro scopi (e si vedevano poco), diventarono amici l'uno dell'altra, come non succedeva dai primi anni di vita matrimoniale. Ivàn Il'ìè stava già pensando di trasferire subito tutta la famiglia con sé, ma le insistenze della sorella e del cognato, fattisi immediatamente gentilissimi e affettuosissimi verso Ivàn Il'ìè e la sua famiglia, lo convinsero a partire da solo.  Ivàn Il'ìè partì, e il buonumore suscitato in lui dal doppio ed esaltante successo della promozione e dell'accordo raggiunto con la moglie, sembrò non abbandonarlo più. Trovò un appartamento delizioso, proprio quello che avevano sognato marito e moglie. Sale di ricevimento ampie, alte, all'antica, uno studio enorme, comodissimo, camere per la moglie e la figlia, uno studio per il figlio: tutto come se fosse stato pensato apposta per loro. Ivàn Il'ìè si occupò di persona dell'arredamento, scelse le tappezzerie, acquistò i mobili, scegliendoli soprattutto fra le vecchie anticaglie, che secondo lui davano un particolare tono comme il faut, le stoffe per i ricevimenti. Tutto cresceva a poco a poco, cresceva e si avvicinava a quell'immagine ideale che egli si era creato dentro di sé. Quando arrivò a metà dei lavori per la nuova casa, questi gli apparvero superiori alle sue stesse aspettative. Egli già intuiva quel tono comme il faut, elegante e raffinato che avrebbe preso la casa, una volta finita. Addormentandosi, sognava la sala pronta, arredata. Guardando il salotto ancora in allestimento, già vedeva il caminetto, il paravento, l'étagère, con tutte le seggiole sparse qua e là, i piatti e i vassoi alle pareti, e i bronzetti al loro posto. Lo rallegrava il pensiero di come, sarebbero rimaste impressionate Paša e Lizan'ka, anch'esse in quelle cose dotate di buon gusto. Non si potevano aspettare niente di tutto ciò. In particolare era riuscito a scovare e a comprare a buon mercato certe vecchie cose che conferivano a tutto l'assieme un gusto particolarmente nobile. Nelle sue lettere egli cercava di descrivere tutto peggio di quanto non fosse in realtà, in modo da poterle impressionare al momento opportuno. La casa l'occupava talmente, che persino il nuovo impiego lo interessava meno di quanto egli, amante del suo lavoro, si potesse aspettare. Durante le udienze gli capitava di distrarsi, pensando a che tipo di tende era meglio scegliere, dritte fino a terra, o raccolte ai lati. Era tanto preso da questa sua occupazione, che spesso si metteva a lavorare lui in persona, spostava mobili, attaccava tende. Una volta si arrampicò su una scaletta per mostrare al tappezziere, che non riusciva a capire, come voleva un certo drappeggio: mise il piede in fallo e cadde, ma, da uomo forte e agile qual era, riuscì a mantenersi in piedi, battendo soltanto col fianco contro la maniglia della finestra, nella scivolata. Per un po' la botta gli fece male, ma ben presto tutto passò. Ivàn Il'ìè per tutto quel periodo di tempo si sentiva particolarmente di buonumore e in forze. Scriveva: «mi sembra di avere quindici anni di meno». Pensava di finire per settembre, ma i lavori della nuova casa si protrassero fino alla metà di ottobre. In compenso il risultato fu meraviglioso; non era solo lui a dirlo, lo dicevano tutti quelli che gli facevano visita.  In sostanza, c'era tutto quello che si trova di solito nelle case di coloro che non sono dei veri ricchi, ma che vogliono assomigliare a dei ricchi e finiscono così per assomigliare soltanto a se stessi: damaschi, ebani, fiori, tappeti, bronzi, tutto sullo scuro e sul brillante. C'era tutto quello che escogitano le persone di un certo ceto per assomigliare a tutte le persone di quello stesso ceto. Da questo punto di vista la casa di Ivàn Il'ìè era assolutamente esemplare, indistinguibile; ma a lui tutto sembrava molto originale. Quando andò a prendere i suoi alla stazione ferroviaria, e li condusse nella loro nuova casa, finita e tutta illuminata, e un servitore in cravatta bianca li fece accomodare nell'anticamera piena di fiori, e quando poi essi passarono in salotto, nello studio, e sollevarono grandi esclamazioni di piacere, Ivàn Il'ìè fu felicissimo, li accompagnò dappertutto, si inebriò delle loro lodi, tutto raggiante di godimento. Quella stessa sera, al tè, quando Praskov'ja Fëdorovna gli chiese, fra le altre cose, come era caduto, egli si mise a ridere e mimò la scena della caduta, mostrandole come era volato giù dalla scala, spaventando il tappezziere. 
  «Non per niente sono un ginnasta. Un altro si sarebbe ammazzato, io ho preso soltanto una botta qui. Quando la tocco, mi fa male, ma mi sta già passando. È un semplice livido.» 
  E incominciarono a vivere nel nuovo appartamento (al quale, quando si furono ben ambientati, risultò mancare soltanto una camera in più, come sempre) e con il nuovo stipendio (al quale mancava solo qualcosina, cinquecento rubli o giù di lì, come sempre): era bellissimo. Era bello soprattutto nei primi tempi, quando la casa non era ancora finita del tutto e c'era qualcosa da sistemare: qualcosa da acquistare, da ordinare, da spostare, da accomodare. Anche se alle volte c'erano degli screzi fra marito e moglie, i due coniugi erano così soddisfatti e le cose da sistemare erano tante, che tutto finì senza grandi litigi. Quando ormai non c'era più niente da fare in casa, in famiglia calò un velo di noia; si sentiva che mancava qualcosa: ma a quel punto intervennero le conoscenze e le abitudini ormai stabilite a riempire la vita.  Ivàn Il'ìè, trascorsa la mattinata in tribunale, rientrava per colazione, e nei primi tempi il suo umore era buono, anche se soffriva un po' proprio per il nuovo appartamento (ogni macchia sulla tovaglia, o sul damasco, ogni cordone della tenda strappato lo irritavano: aveva lavorato tanto per sistemare l'arredamento di quella casa, e ogni più piccolo guasto lo faceva star male). Ma in generale la vita di Ivàn Il'ìè trascorreva così come, secondo le sue convinzioni, doveva trascorrere una vita: in modo leggero, piacevole, decoroso. Si alzava alle nove, beveva il caffè, leggeva il giornale, quindi indossava la divisa e andava in tribunale. Qui era già pronto il giogo sotto cui lavorava; ed egli se lo metteva subito sul collo: i postulanti, i certificati per la cancelleria, il lavoro stesso di cancelleria, le udienze pubbliche o in camera di consiglio. Da tutto ciò bisognava saper escludere quel materiale grezzo, vitale, che sempre intralciava il corso regolare degli affari d'ufficio: bisognava prescindere da ogni relazione che non fosse d'ufficio, astenersi dall'intrecciare relazioni con la gente, se non per motivi d'ufficio, mantenere queste relazioni nell'ambito dei rapporti d'ufficio. Se per esempio veniva uno che voleva sapere qualcosa, Ivàn Il'ìè, come persona, non poteva avere niente da spartire con quell'individuo; ma se costui si rivolgeva a lui in quanto funzionario, stabilendo un rapporto che poteva essere espresso su carta intestata, allora, nell'ambito di tale rapporto, Ivàn Il'ìè si faceva in quattro, faceva tutto il possibile, badando bene di conservare quella parvenza di rapporto umano amichevole, che è la cortesia. Non appena terminava il rapporto d'ufficio, terminava anche ogni altro tipo di rapporto. Questa capacità di separare la sfera lavorativa da quella della vita privata, senza possibili interferenze, era posseduta da Ivàn Il'ìè al massimo grado, elaborata poi grazie alla lunga pratica e al suo talento naturale fino a un tale livello di perfezione, da potergli permettere talvolta raffinate deroghe semischerzose, durante le quali Ivàn Il'ìè mescolava da gran virtuoso rapporti di lavoro e rapporti umani. Si permetteva queste variazioni sul tema, sentendo in sé la forza di tornare in ogni momento, quando più gli facesse comodo, a separare le due sfere, rigettando l'elemento umano, e lasciando isolati e dominanti i rapporti di lavoro. Ivàn Il'ìè eseguiva questo esercizio non solo con leggerezza, piacevolezza e decoro, ma anche con maestria virtuosistica, appunto. Negli intervalli fumava, beveva tè, chiacchierava, un po' di politica, un po' in generale, un po' di carte, soprattutto delle varie nomine. Stanco, ma con i sentimenti del virtuoso che ha eseguito con la massima precisione la sua parte di primo violino nell'orchestra, tornava a casa. A casa moglie e figlia non c'erano, erano andate da qualche parte, o avevano degli ospiti; il figlio, che era al ginnasio, preparava le lezioni aiutato da istitutori privati, studiava con diligenza quello che si studia nel ginnasio. Tutto procedeva bene. Dopo pranzo, se non c'erano ospiti, Ivàn Il'ìè a volte leggeva qualche libro, di cui si parlava molto, e alla sera sbrigava qualche faccenda di lavoro, leggeva delle carte, consultava i codici, confrontava le deposizioni, applicava le leggi. La cosa non gli procurava né noia né gioia. Si annoiava a lavorare, solo se c'era la possibilità di giocare una partita a «vint» ma, se non c'era il «vint», era sempre meglio il lavoro che starsene seduto con le mani in mano, da solo o con la moglie. I piaceri di Ivàn Il'ìè erano i bei pranzetti, a cui invitava signore e signori con una posizione nel bel mondo, e i momenti in cui passava il tempo con loro, assolutamente simili a tutti gli altri momenti di svago di gente di quel tipo; così come il suo salotto era assolutamente simile a tutti gli altri salotti. 
  Una volta, a casa, organizzarono perfino una festa, una serata di danze. Ivàn Il'ìè era allegro, tutto procedeva bene; ci fu soltanto un gran litigio con la moglie a proposito delle torte e dei dolci: Praskov'ja Fëdorovna voleva occuparsene personalmente, mentre Ivàn Il'ìè insistette perché fossero acquistati da un pasticciere molto caro, e andò a comprare molte torte; il litigio scoppiò perché le torte furono avanzate e il conto del pasticciere ammontava a quarantacinque rubli. Fu un litigio grosso e sgradevole; Praskov'ja Fëdorovna arrivò a dirgli: «cretino! deficiente!». Egli si mise le mani nei capelli e in cuor suo gli balenò il pensiero del divorzio. Ma la serata era stata allegra. Era intervenuta la migliore società, e Ivàn Il'ìè aveva ballato con la principessa Trufonova, sorella della nota fondatrice della società «Allevia la mia pena». Le gioie dell'ufficio erano gioie d'amor proprio; le gioie in società erano gioie di vanità; ma le vere gioie di Ivàn Il'ìè erano le gioie che ricavava dal gioco del «vint». Egli confessava che, anche dopo l'avvenimento più triste della sua vita, la gioia che, come una candela, brillava davanti a tutte le altre, era a sedere al tavolo del «vint» con dei buoni giocatori, dei partners poco chiassosi, in quattro (in cinque no, era troppo difficile venirne a capo, anche se si fingeva che piacesse molto), e giocare con intelligenza e serietà (quando le carte erano favorevoli), poi cenare e bere un bicchiere di vino. Dopo il «vint», specie se c'era stata un piccola vincita (una grossa no, era un fastidio), Ivàn Il'ìè andava a letto di buonumore, particolarmente contento. 
  Così vivevano. A casa loro si radunava la migliore società, andavano a trovarli persone importanti e giovani.  Per quanto riguardava la qualità della loro cerchia di conoscenze, marito, moglie e figlia andavano perfettamente d'accordo e, pur senza concordarsi esplicitamente, tutti e tre alla stessa maniera sapevano respingere e liberarsi da tutti i vari amici e parenti straccioni, che piombavano, pieni di tenerezze, nel loro salotto con i piatti giapponesi alle pareti. Presto questi amici-straccioni smisero le loro incursioni, e a casa dei Golovin regnò incontrastata la migliore società. I giovanotti facevano la corte a Lizan'ka, compreso Petrišèev, figlio di Dmitrij Ivà-noviè Petrišèev e unico erede della sua sostanza, giudice istruttore, tanto che Ivàn Il'ìè aveva già discusso con Praskov'ja Fëdorovna se era il caso di organizzare per loro una passeggiata in troica o una recita. Così vivevano. Tutto procedeva senza scosse, tutto procedeva molto bene. 

IV 



  Tutti godevano buona salute. Non si poteva certo chiamare malattia quello strano gusto che Ivàn Il'ìè a volte diceva di sentirsi in bocca, e quel certo fastidio che sentiva a destra del ventre. 
  Ma accadde che quel fastidio cominciò a crescere e a trasformarsi non in un vero e proprio dolore, ma in una sensazione di costante pesantezza al fianco e in malumore. Questo cattivo umore, diventando sempre più forte, finì per guastare quella gradevole atmosfera di esistenza leggera e decorosa che stava formandosi in casa Golovin. Marito e moglie cominciarono a litigare sempre più spesso; ben presto scomparvero del tutto la leggerezza e la gradevolezza, e a malapena riuscì a sopravvivere il decoro. Le scenate si fecero sempre più frequenti, come una volta. E come una volta, rimanevano solo quelle famose isolette, su cui marito e moglie potevano incontrarsi senza esplodere, e anche quelle erano poche. 
  Praskov'ja Fëdorovna diceva ormai non senza fondamento che il marito aveva un carattere pesante. Con la sua innata abitudine a esagerare ogni cosa, andava in giro a dire che Ivàn Il'ìè aveva sempre avuto un orribile carattere, e che ci era voluta tutta la sua bontà per sopportarlo per tutti quei vent'anni. In verità i litigi ormai scoppiavano sempre per colpa di Ivàn Il'ìè. Cercava pretesti di lite prima di ogni pasto e spesso proprio a tavola, quando incominciava a mangiare la minestra. Ora faceva notare che un piatto era incrinato, ora che il cibo non era buono, ora che il figlio appoggiava il gomito sul tavolo, ora che la pettinatura della figlia non andava. E dava la colpa di tutto a Praskov'ja Fëdorovna. Costei da principio gli rispondeva con delle sgarberie, ma poi un paio di volte, al momento di iniziare a mangiare, egli montò in una tale furia che la donna comprese trattarsi di uno stato morboso, legato al cibo, e si calmò; da allora non ribatteva più nulla, cercava solo di terminare più in fretta possibile il pasto. Questa sua rassegnazione Praskov'ja Fëdorovna la considerava un grande merito. Stabilito che il marito aveva un terribile carattere e che rendeva infelice la sua vita, la donna cominciò a compiangersi. E quanto più si compiangeva, tanto più odiava il marito. Fu sul punto di desiderare che morisse, ma fu trattenuta dall'idea che poi non ci sarebbe più stato nessuno stipendio. E questo l'irritava ancora di più contro di lui. Si riteneva una donna terribilmente infelice proprio perché anche la morte del marito non l'avrebbe salvata, e si irritava, e cercava di nasconderlo, e questa irritazione nascosta di lei accresceva l'irritazione di lui. 
  Dopo un'ennesima scenataccia, durante la quale Ivàn Il'ìè era stato particolarmente ingiusto e dopo la quale, per giustificarsi, egli aveva confessato di essere irascibile, ma solo per colpa della sua malattia, la moglie gli ribatté che, se lui era malato, bisognava curarsi, e volle a tutti i costi che Ivàn Il'ìè andasse da un noto medico a farsi visitare.  Ed egli ci andò. Fu tutto come si aspettava che fosse; tutto come avviene sempre. L'attesa in anticamera, quel sussiego affettato, dottorale, che egli conosceva bene perché era lo stesso che aveva lui in tribunale, i colpetti delle dita, l'auscultazione, le domande che richiedevano risposte predeterminate ed evidentemente inutili; e quell'aria solenne che intimava: «voi non fate niente, affidatevi a noi, facciamo tutto noi, noi sappiamo bene, infallibilmente, tutto quello che si deve fare, chiunque voi siate, tutti gli uomini vanno presi alla stessa maniera». Esattamente come in tribunale: il noto dottore teneva verso di lui lo stesso contegno che Ivàn Il'ìè teneva in tribunale verso gli imputati. 
  Il dottore diceva che c'erano certi sintomi, per cui si poteva dedurne che c'era una certa affezione interna, che se però non veniva confermata da certi esami, poteva invece trattarsi di una certa altra infermità, che in ogni caso era solo una supposizione, perché per arrivare a una certa diagnosi mancavano certi elementi del quadro, eccetera eccetera. Solo una cosa interessava Ivàn Il'ìè: il suo stato era pericoloso o no? Ma il dottore ignorava quella inopportuna richiesta. Dal suo punto di vista, la domanda era oziosa e non meritava di esser presa in considerazione: si trattava solo di soppesare una serie di ipotesi, rene mobile, catarro cronico, malattia dell'intestino cieco. La vita di Ivàn Il'ìè non era in questione, era in questione la disputa fra rene mobile e intestino cieco. E, sotto gli occhi di Ivàn Il'ìè, il dottore risolse brillantemente questa disputa a favore dell'intestino cieco, con la riserva però che l'esame dell'urina poteva fornire nuovi dati e che allora tutto il quadro della malattia andava rivisto. Era esattamente quello che aveva fatto migliaia di volte Ivàn Il'ìè, brillantemente, con i suoi imputati. Altrettanto brillantemente il dottore espose la sua diagnosi, fissando, al di sopra dei suoi occhiali, sull'imputato uno sguardo trionfale, perfino allegro. Dalle parole del dottore Ivàn Il'ìè arrivò alla conclusione che stava male, che forse al dottore non gliene importava niente, a nessuno forse importava niente di lui, ma stava male. E questa conclusione colpì dolorosamente Ivàn Il'ìè, suscitandogli un senso di grande pena per se stesso e di grande rabbia contro quel dottore tanto indifferente verso una questione così vitale. Ma non disse niente. Si alzò, mise i soldi sul tavolo e, sospirando, fece: 
  «Noi malati probabilmente le rivolgiamo spesso delle domande fuori posto. Ma insomma, questa malattia è pericolosa o no?» 
  Il dottore gli gettò uno sguardo severo attraverso gli occhiali, con un occhio solo, come per dire: imputato, cerchi di rimanere nei limiti delle domande che le vengono poste, altrimenti mi vedrò costretto ad allontanarla dall'aula.  «Già le ho detto quello che mi pareva necessario e utile,» disse il dottore. «Il resto ce lo diranno le analisi.» E s'inchinò. 
  Ivàn Il'ìè uscì lentamente, salì sulla slitta tutto tetro e tornò a casa. Per tutta la strada ripassava mentalmente, senza tregua, quello che aveva detto il dottore, cercando di tradurre in un linguaggio semplice tutte quelle parole scientifiche ingarbugliate, confuse, e di trovare in esse la risposta alla domanda che lo tormentava: stava male, molto male, o c'era ancora speranza? Gli sembrava che il senso del discorso del dottore indicasse una risposta negativa: stava molto male. Tutto per strada sembrò triste e cupo a Ivàn Il'ìè. I cocchieri erano tristi, le case erano tristi, i passanti, le botteghe erano tristi. Quel suo dolore, quel dolore sordo, ottuso, che non lo abbandonava mai, neanche per un attimo, alla luce degli oscuri discorsi del dottore aveva acquistato, gli pareva, un nuovo senso, più grave. Ivàn Il'ìè ormai gli prestava ascolto con un nuovo sentimento, un sentimento di grave pena. 
  Arrivò a casa e si mise a raccontare tutto alla moglie. La moglie lo ascoltò, ma a metà del racconto entrò la figlia con in testa un cappellino: si preparava ad uscire con la madre. Con uno sforzo si sedette ad ascoltare quella storia noiosa, ma non resistette a lungo, e neppure la madre l'ascoltò fino in fondo. 
  «Beh, sono proprio contenta,» disse la moglie. «Ora devi stare attento a prendere la medicina. Dammi la ricetta, manderò Gerasim a prenderla in farmacia.» E andò a vestirsi. 
  Finché la moglie era stata presente, Ivàn Il'ìè aveva trattenuto il respiro; quando se ne fu andata, sospirò pesantemente. 
  «Ma sì,» disse, «forse non è poi così grave...» 
  Cominciò a prendere la medicina, a seguire le prescrizioni del medico, che peraltro cambiarono dopo l'esame dell'urina. A questo punto, durante l'analisi o l'esame dei risultati, c'era stata una certa confusione. Non si poteva certo imputarla al dottore; semplicemente se ne deduceva, non era stato fatto tutto quello che il dottore aveva detto. O forse egli aveva dimenticato qualcosa, o gli aveva raccontato qualche frottola, o gli aveva nascosto qualcosa. 
  Ma Ivàn Il'ìè si mise lo stesso a seguire con la massima diligenza le prescrizioni del medico e in ciò, nei primi tempi, trovò un certo conforto. 
  Dalla visita medica in poi le principali occupazioni di Ivàn Il'ìè diventarono seguire diligentemente le prescrizioni del dottore che riguardavano l'igiene personale e le medicine da prendere, e ascoltare attentamente il proprio dolore, nonché tutte le funzioni del proprio organismo. I principali interessi di Ivàn Il'ìè diventarono le malattie della gente e la salute della gente. Quando in sua presenza si parlava di malati, di morti, di guariti, specialmente se si trattava di una malattia che assomigliava alla sua, egli si metteva in ascolto, tentando di nascondere la propria emozione, faceva domande, e cercava di applicare alla sua situazione i dati che veniva a sapere. 
  Il dolore non diminuiva; ma Ivàn Il'ìè fece uno sforzo su di sé, per costringersi a pensare che stava meglio. E riusciva anche a ingannare se stesso, finché niente veniva a turbarlo. Ma non appena gli accadeva di urtarsi con la moglie, se qualcosa gli andava male sul lavoro, o se gli capitavano delle brutte carte al «vint», subito sentiva tutta la forza della sua malattia; una volta era in grado di sopportare questi momenti neri, in attesa del ritorno della buona sorte, sicuro di farcela di lì a poco, di aggiustare quel che non andava, di rimediare, di vincere, di dar cappotto all'avversario. Ora invece qualsiasi insuccesso lo fiaccava e lo gettava nella disperazione. Diceva a se stesso: avevo appena cominciato a migliorare e la medicina cominciava appena a fare effetto, che mi capita questa disgrazia, questo guaio... E si stizziva contro quella disgrazia o contro le persone responsabili delle sue seccature, che lo uccidevano, e sentiva che era quella stizza a ucciderlo. Ma non poteva farne a meno. Avrebbe dovuto certo esser cosciente che quella sua irritazione contro le circostanze esterne e contro la gente aggravava lo stato della sua malattia e che quindi non doveva prestare attenzione alle cose sgradevoli che succedevano; invece faceva un ragionamento perfettamente opposto: diceva di aver bisogno di pace, seguitava attentamente tutto ciò che poteva guastare la sua pace e, al minimo fastidio, si irritava subito. La situazione era peggiorata dal fatto che leggeva libri di medicina e si consultava con i dottori. Il peggioramento era così uniforme, da permettergli di ingannare se stesso: la differenza era poca, confrontando un giorno con l'altro. Quando però andava a consultare qualche dottore, allora gli sembrava subito di peggiorare, e molto rapidamente. Eppure, nonostante ciò, continuava a consultare regolarmente i medici. 
  Quello stesso mese egli era stato da un'altra celebrità: e l'altra celebrità disse quasi la stessa cosa della prima, ma facendo delle domande diverse al paziente. La visita di questa celebrità non fece che aggravare i dubbi e le paure di Ivàn Il'ìè. L'amico di un suo amico poi, dottore egregio, diagnosticò in modo del tutto differente la malattia e, nonostante promettesse una sicura guarigione, con le sue domande e le sue congetture confuse ancora di più Ivàn Il'ìè e rafforzò i suoi dubbi. Un medico omeopatico fece una nuova diagnosi, diversa dalle altre, e ordinò una medicina che Ivàn Il'ìè, di nascosto da tutti, prese per una settimana. Ma dopo una settimana, non avvertendo nessun miglioramento, persa ogni fiducia in questa e in tutti gli altri farmaci, sprofondò in uno sconforto ancora più nero. Una volta una signora loro conoscente s'era messa a raccontare di una certa guarigione ottenuta per mezzo delle icone. Ivàn Il'ìè si sorprese ad ascoltare attentamente, e addirittura a credere alla realtà di quella storiella. Questo fatto lo spaventò. «Possibile che io sia così indebolito di cervello?» disse a se stesso. «Sono tutte stupidaggini! Che assurdità, non bisogna lasciarsi andare alla diffidenza, bisogna scegliere un medico e seguire fino in fondo la sua cura. D'ora in poi farò così. Adesso basta. Non ci voglio pensare più, seguirò fino a quest'estate. la cura del dottore, scrupolosamente. Allora si vedrà. Basta con queste indecisioni!» Era facile a dirsi, ma impossibile a farsi. Il dolore al fianco lo tormentava di continuo, era come se si rafforzasse anzi, era diventato costante, e quello strano gusto in bocca si era fatto ancora più strano, e gli sembrava che il fiato gli puzzasse schifosamente, mentre l'appetito e le sue energie s'indebolivano progressivamente. Non ci si poteva più ingannare: qualcosa di terribile, di nuovo, di importante, qualcosa che era più importante di tutto quello che fino ad allora era accaduto nella vita di Ivàn Il'ìè, si stava compiendo in lui. E lui solo lo sapeva; tutti quelli che lo circondavano non capivano o non volevano capire e pensavano che la vita sulla terra andava avanti come prima. Era questo che più di ogni altra cosa tormentava Ivàn Il'ìè. Egli si accorgeva che le persone di casa, soprattutto la moglie e la figlia che si trovavano nel pieno di una fertile attività di visite mondane, non capivano niente ed erano seccate con lui per il suo umore così tetro ed esigente, come se fosse colpa sua. Anche se cercavano di nasconderlo, egli vedeva che per loro era diventato un intralcio, ma che la moglie aveva studiato una certa linea di condotta nei confronti della sua malattia e che vi si atteneva, indipendentemente da quello che lui diceva o faceva. Questa linea di condotta si poteva esprimere così: 
  «Sapete,» diceva la moglie ai loro conoscenti, «Ivàn Il'ìè non può fare come fanno tutte le altre brave persone al mondo, non può seguire scrupolosamente la cura che gli è stata prescritta. No, oggi magari prende le sue gocce, mangia quello che gli è stato ordinato, si corica per tempo; domani invece all'improvviso, se io non ci sto attenta, si dimentica di prendere la medicina, si ingozza di storione (che gli fa malissimo), e sta su fino all'una a giocare a "vint".»  «Ma quando mai?» cercava di obiettare Ivàn Il'ìè stizzosamente. «È successo una volta sola da Pëtr Ivànoviè.» 
  «E ieri con Šebek allora?» 
  «Tanto non riuscivo lo stesso a dormire per il dolore...» 
 «Sarà stato quel che vuoi tu, ma intanto se vai avanti così non guarirai mai e continuerai a tormentare anche tutti noi.» 
  L'atteggiamento che Praskov'ja Fëdorovna teneva nei confronti della malattia del marito, palese a lui stesso e agli altri, sembrava volesse dimostrare che la colpa di quella malattia era di Ivàn Il'ìè e che quella malattia anzi era l'ennesima sgarberia che il marito le faceva. Ivàn Il'ìè capiva che quell'atteggiamento era involontario, ma non per questo si sentiva meglio. 
  In tribunale Ivàn Il'ìè notò, o gli parve di notare, un atteggiamento egualmente strano nei suoi confronti: ora gli sembrava che lo riguardassero come uno che di lì a poco avrebbe dovuto lasciar libero il posto; ora all'improvviso i suoi amici cominciavano a canzonarlo per le sue apprensioni, come se quella cosa spaventosa e orribile, quella cosa inaudita che si sviluppava dentro di lui, che lo succhiava senza posa, trascinandolo inesorabilmente con sé, fosse il più grazioso pretesto per i loro scherzi. Schwarz soprattutto, con quel suo tono frivolo, vivace e comme il faut, che ricordava a Ivàn Il'ìè il se stesso di dieci anni prima, lo irritava. 
  Venivano gli amici per la partita, si sedevano al tavolo. Le carte nuove venivano distribuite, ammorbidite fra le mani, si ordinavano i semi, quadri con quadri; magari ne contava sette, il partner dichiarava un «senza atout» e lui aumentava di due quadri. Che cosa si voleva di più? Allegria! Perfetto, era lo slam. E all'improvviso Ivàn Il'ìè sentiva quel dolore divorante, quel sapore strano in bocca, e gli dava una sensazione atroce il fatto che con tutto quello che aveva potesse ancora essere contento per uno slam. 
  Guardava Michaìl Michàjloviè, il partner, che batteva sul tavolo la sua mano sanguigna e con cortese condiscendenza si tratteneva dal rilevare le prese, spingendole verso Ivàn Il'ìè, per lasciargli il piacere di raccoglierle, senza affaticarsi, senza allungare il braccio. «Ma cosa crede, che non ho più neanche la forza di allungare un braccio?» pensava Ivàn Il'ìè, dimenticava il conto delle atouts, ne giocava una più del necessario, lo slam cadeva di tre mani; e quel che era più terribile era vedere Michaìl Michàjloviè soffrire, mentre a lui non importava niente. Ed era terribile pensare a quali erano le cause di quella sua indifferenza. 
  Tutti s'accorgevano che stava male, gli dicevano «Possiamo anche interrompere, se lei è stanco; vada a riposarsi.» Riposarsi? Macché, egli non era affatto stanco, voleva arrivare fino in fondo al rubber. Tutti erano cupi e silenziosi: Ivàn Il'ìè sentiva che era lui ad attaccare a tutti quella tetraggine, e che non riusciva a dissiparla. Cenavano, ognuno tornava a casa sua, e Ivàn Il'ìè restava solo, rendendosi conto che la sua vita era ormai avvelenata, che avvelenava la vita degli altri, che quel veleno non svaniva, anzi cresceva sempre più, intossicando tutto il suo essere.  E doveva coricarsi con questa consapevolezza, che si aggiungeva al dolore fisico, e al terrore. Spesso il dolore non lo faceva dormire per gran parte della notte. E al mattino bisognava di nuovo alzarsi, vestirsi, andare in tribunale, parlare, scrivere, e se non era giornata lavorativa, bisognava restare in casa, con quelle ventiquattr'ore su ventiquattro, ognuna delle quali era per lui un tormento. E doveva vivere così, sull'orlo della rovina, da solo, senza il conforto di nessun'altra persona che fosse in grado di capirlo e di compiangerlo. 




  Così passò un mese, passarono due mesi. Per Capodanno venne in città il cognato e si fermò ospite da loro. Ivàn Il'ìè era in tribunale. Praskov'ja Fëdorovna era fuori per compere. Rientrando nel suo studio, Ivàn Il'ìè ci trovò il cognato, un tipo sano e rubizzo, che stava disfacendo il baule. Sentendo i passi di Ivàn Il'ìè, il cognato alzò la testa e lo guardò per un secondo in silenzio. Quello sguardo rivelò ogni cosa a Ivàn Il'ìè. Il cognato fece per aprire la bocca in un'espressione di meraviglia, ma si trattenne. Quel gesto confermava tutto. 
  «Cosa c'è, sono cambiato?» 
  «Beh, sì... c'è un certo cambiamento.» 
  In seguito, per quanti sforzi facesse Ivàn Il'ìè per riportare la conversazione sul suo aspetto esteriore, il cognato evitò sempre di rispondere su quel punto. Sopraggiunse Praskov'ja Fëdorovna e il cognato si ritirò con lei. Ivàn Il'ìè chiuse la porta a chiave e cominciò a guardarsi nello specchio, prima di faccia, poi di lato. Prese il suo ritratto con la moglie e lo confrontò con l'immagine che gli rimandava lo specchio. C'era un enorme cambiamento. Si denudò gli avambracci fino ai gomiti, li ispezionò, poi tirò giù le maniche, si lasciò cadere sull'ottomana e diventò più nero della notte. 
 «Non devo, non devo,» si disse, balzò in piedi, andò alla scrivania, aprì una pratica, si mise a leggere, ma non era in grado di concentrarsi. Aprì la porta, passò in sala. La porta del salotto era chiusa. Si avvicinò in punta di piedi e si mise a origliare. 
  «No, tu esageri,» diceva Praskov'ja Fëdorovna. 
  «Come esagero? Non vedi che è un uomo morto, guardagli gli occhi. Non hanno più luce. Ma cosa diavolo ha?» 
  «Nessuno riesce a capirlo. Nikolaev [era un dottore] ha detto qualcosa, ma non so bene. Lešèetickij [era il dottore celebre] ha detto tutto il contrario...» 
  Ivàn Il'ìè si scostò, rientrò nella sua stanza, sì coricò e si mise a pensare: «È il rene, il rene mobile.» Gli venne in mente tutto quello che gli avevano detto i dottori, che il rene si era staccato e che andava vagando qua e là. Ed egli con uno sforzo dell'immaginazione cercava di afferrare quel rene, di fermarlo, di costringerlo a rimanere al suo posto, ci voleva così poco, gli pareva. «No, devo tornare da Pëtr Ivànoviè,» (era l'amico che aveva un amico dottore). Suonò, ordinò di attaccare un cavallo e si preparò a uscire. 
  «Dove vai, Jean?» gli domandò la moglie con un tono particolarmente triste e un'espressione insolitamente dolce. 
  Questa insolita dolcezza lo irritò. Le gettò uno sguardo cupo. 
  «Devo andare da Pëtr Ivànoviè.» 
  Andò dall'amico, che aveva un amico dottore. E insieme all'amico andò dal dottore. Il dottore era in casa, e Ivàn Il'ìè rimase a lungo a conversare con lui. 
  Esaminando attentamente da un punto di vista anatomico e fisiologico tutti i particolari di quello che, secondo il dottore, stava accadendo dentro di lui, Ivàn Il'ìè comprese ogni cosa. 
Aveva una cosetta, un piccolo affaretto dentro l'intestino cieco. Si poteva guarire benissimo. Bisognava 
rafforzare le funzioni vitali di un certo organo, ridurre l'attività di un altro organo, quel piccolo grumo di materia si sarebbe riassorbito, ed egli sarebbe guarito. Fece un po' tardi per pranzo. Mangiò, chiacchierò allegramente, ma non riusciva a decidersi a ritirarsi per lavorare. Dopo un lungo indugio, finalmente, andò nel suo studio e si mise subito al lavoro. Leggeva pratiche, lavorava, ma la consapevolezza di avere rimosso per il momento una questione intima, di cui alla fin fine doveva pur occuparsi, non lo abbandonava. Quando finì con le sue pratiche, si ricordò che quella questione intima era il pensiero dell'intestino cieco. Ma egli non si arrese, passò in salotto a prendere il tè. C'erano degli ospiti, si conversava, si suonava il pianoforte, si cantava: c'era anche il giudice istruttore, l'ambito promesso sposo della figlia. Ivàn Il'ìè trascorse la serata più allegramente del solito, secondo quanto disse Praskov'ja Fëdorovna, ma non dimenticò neanche per un minuto quel suo intimo, grave pensiero dell'intestino cieco. Alle undici salutò e si ritirò. Da quando si era ammalato, dormiva solo, in una piccola cameretta attigua allo studio. Si spogliò, prese un romanzo di Zola, ma non riuscì a leggerlo: continuava a pensare. E nella sua immaginazione si verificò il tanto desiderato risanamento del suo intestino cieco. Tutto veniva riassorbito, espulso; si ristabiliva la normale funzione fisiologica. «È proprio così,» si disse. «Bisogna soltanto dare una mano alla natura. «Si ricordò della medicina, si mise seduto, la prese, si coricò sulla schiena, tutto intento a seguire la benefica azione della medicina, che stava debellando il male. «Basterà prendere la medicina regolarmente ed evitare le influenze dannose; già adesso mi sento un po' meglio, molto meglio.» Si mise a tastare il fianco: non sentiva dolore, toccando. «Sì, non sento niente, è vero, sto già molto meglio.» Spense il lume e si coricò di lato... L'intestino cieco stava guarendo, stava riassorbendosi. All'improvviso avvertì una fitta: era il solito, vecchio, sordo, cupo dolore, un dolore testardo, silenzioso, grave. In bocca sentì il solito sapore schifoso. Sentì come un tuffo al cuore, la testa gli si annebbiò. «Dio mio, Dio mio!» fece. «Di nuovo, di nuovo, non la finirà più.» E all'improvviso la questione gli apparve sotto una luce completamente diversa. «Macché intestino cieco! Macché rene! Non è una questione di intestino cieco o di rene, è una questione di vita e... di morte. C'era la vita, e adesso se ne sta andando, se ne sta andando e io non riesco a trattenerla così. Perché ingannare se stessi?, Non è forse chiaro a tutti, eccetto che a me, che sto morendo: è solo questione di settimane, di giorni. Potrei morire anche adesso, magari. C'era la luce e adesso c'è il buio. Ero al di qua e adesso devo passare al di là! Ma al di là, dove?» Un soffio gelato lo investì, gli si fermò il respiro. Sentiva soltanto i battiti del cuore. 
  «Non ci sarò più. E allora? Allora, non succederà niente. E dove andrò a finire, quando non ci sarò più? la morte? Possibile? No, no, non voglio.» Balzò a sedere sul letto, voleva accendere la candela, frugò in giro con le mani tremanti, urtò candelabro e candela che caddero sul pavimento: si lasciò ricadere indietro, sul cuscino. «Perché? Tanto è lo stesso...» si diceva, fissando con gli occhi aperti l'oscurità. «È la morte. Sì, la morte. E nessuno di loro lo sa e non vogliono saperlo, non vogliono sentirne parlare. Giocano. [In lontananza, dietro la porta, sentiva rumore di voci, ritornelli remoti]. A loro non importa niente. Eppure moriranno anche loro. Stupidi! Oggi tocca a me, domani toccherà a  loro. Non possono farci niente. E sono di là che se la spassano! Bestie!» La rabbia lo soffocava. Si sentì addosso un tormento atroce, un peso insopportabile. No, non era possibile che tutti, sempre, fossero stati condannati a un simile tremendo orrore. Si risollevò. 
  «Non può essere proprio, così; bisogna calmarsi, riflettere, ripensare a tutto, da capo.»E incominciò a riflettere. «Sì, la malattia è cominciata così. Ho picchiato il fianco, ma non è successo niente, sono rimasto quello di sempre; mi doleva un po' soltanto, poi ha cominciato a farmi più male, poi sono venuti i dottori, e poi la malinconia, l'angoscia, poi ancora i dottori; e tutto vicino all'abisso, sempre più vicino all'abisso. Mi mancavano le forze, a poco a poco. Sempre più vicino, sempre più vicino. E adesso sono qui, spossato, non ho più luce negli occhi. la morte. E io che penso all'intestino, penso a come si può rimettere a posto l'intestino, e invece è la morte. La morte! Possibile?» Di nuovo il terrore lo invase, si mise ad ansimare, si curvò in avanti, cercò dei fiammiferi e urtò col gomito il comodino. Il comodino gli dava fastidio, gli aveva fatto male, ed egli si stizzì contro di esso, per dispetto gli diede un urtone più forte, e il comodino si rovesciò. Disperato, Ivàn Il'ìè, ansante, ripiombò sulla schiena, aspettando la morte, subito. 
  In quel momento gli ospiti se ne stavano andando. Praskov'ja Fëdorovna li aveva accompagnati alla porta. Sentì il fracasso in camera di Ivàn Il'ìè ed entrò. 
  «Cos'hai?» 
  «Niente, niente. Ho rovesciato il comodino, sbadatamente.» 
  La moglie uscì e ritornò con una candela. Ivàn Il'ìè giaceva disteso, ansava con un respiro rapido e pesante, come se avesse fatto una versta di corsa, la guardava con gli occhi fissi. 
  «Cos'hai, Jean?» 
  «Nien. . .te... L'ho... rove. ..sciato.» «Cosa dovrei dirle? Non capirebbe,» pensava. 
  E infatti lei non capì. Rialzò il comodino, gli accese il lume, e si ritirò in fretta; doveva accomiatarsi da un ospite. 
  Quando ritornò, Ivàn Il'ìè giaceva ancora supino, con gli occhi fissi in alto. 
  «Che cos'hai? Stai peggio?» 
  «Sì.» 
  Scosse la testa, gli si sedette accanto. 
  «Sai, Jean, sto pensando se non sia il caso di far venire Lešèetickij qui, a casa, a visitarti.» 
  Voleva dire chiedere al celebre dottore di fare una visita a domicilio e non badare a spese. Egli sorrise di traverso e disse di no. La donna rimase ancora un po' seduta, poi gli si avvicinò e lo baciò sulla fronte. 
  Ivàn Il'ìè la odiò con tutte le sue forze mentre lo baciava, e fece uno sforzo su di sé per non respingerla. «.Buona notte. Voglia Iddio che tu riesca a prender sonno.» 
  «Sì.» 

VI 



  Ivàn Il'ìè vedeva che stava morendo, ed era in uno stato di disperazione continua. 
  In fondo alla sua anima sapeva che stava morendo, ma non riusciva lo stesso ad abituarsi a quest'idea; non solo, non riusciva a capirla, non ci riusciva assolutamente. 
  Il sillogismo elementare che aveva studiato nel manuale del Kizevetter: Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, Caio è mortale, per tutta la vita gli era sembrato sempre giusto ma solo in relazione a Caio, non in relazione a se stesso. Un conto era 1'uomo-Caio, l'uomo in generale, e allora quel sillogismo era perfettamente giusto; un conto era lui, che non era né Caio né l'uomo in generale, ma un essere particolarissimo, completamente diverso da tutti gli altri esseri: era stato il piccolo Vanja, con la mamma, il papà, Mitja e Volodja, i giocattoli, il cocchiere, la governante, e poi Katen'ka, e tutte le gioie, le amarezze, gli entusiasmi dell'infanzia, dell'adolescenza, della giovinezza. Aveva mai sentito Caio l'odore del pallone di cuoio che il piccolo Vanja amava tanto? Aveva mai baciato la mano alla mamma, Caio, e aveva mai sentito frusciare le pieghe della seta del vestito della mamma, Caio? E Caio aveva mai strepitato tanto per avere i pasticcini quando andava a scuola? E Caio era mai stato innamorato? E Caio sapeva forse presiedere un'udienza in tribunale? 
  Caio è mortale, certo, è giusto che muoia. Ma per me, per me, piccolo Vanja, per me, Ivàn Il'ìè, con tutti i miei sentimenti, i miei pensieri, per me è tutta un'altra cosa. Non può essere che mi tocchi morire; Sarebbe troppo orribile. 
  Questi erano i suoi sentimenti. 
  «Se dovessi morire anch'io, come Caio, lo saprei da me stesso, qualche voce interna me lo avrebbe detto, ma non ho mai sentito niente di simile in me; io e tutti i miei amici abbiamo sempre inteso che, non doveva succedere a noi come a Caio. E adesso guarda un po'!» diceva a se stesso. «Non può essere. Non può essere, e invece è così. Come mai? 
Cosa vuol dire?» 
  Non riusciva a capire e cercava di allontanare questo pensiero, come un pensiero fallace, bugiardo, morboso, cercava di espellerlo sotto la spinta di altri pensieri, giusti, sani. Ma quel pensiero, che non era già più pensiero, era realtà, ritornava indietro e si fermava di nuovo davanti a lui. 
  Ed egli chiamava a raccolta, a turno, tutta una serie di altri pensieri, per sostituirlo, nella speranza di trovare in essi un punto d'appoggio. Tentava di richiamare quella antica catena di pensieri che un tempo gli nascondevano il pensiero della morte. Ma tutto ciò che in passato nascondeva, offuscava, neutralizzava la consapevolezza della morte, ora non faceva più effetto. Ivàn Il'ìè, ormai, passava gran parte del suo tempo in questi disperati esercizi per restaurare il suo vecchio sistema di sentimenti, che gli nascondeva la morte. Si diceva: «Mi dedicherò al lavoro, è sempre stata la mia vita.» E andava in tribunale, respingendo da sé ogni dubbio; si metteva a discutere con i colleghi, si sedeva alla vecchia maniera, con aria distratta, gettando sulla folla uno sguardo pensieroso, appoggiandosi con le due braccia scarnite ai braccioli della poltrona di quercia, come di consueto, chinandosi verso il collega, porgendogli la pratica e sussurrandogli qualcosa, poi, all'improvviso rialzando gli occhi e raddrizzandosi, pronunciava la solita formula e apriva la causa. Ma poi, d'un tratto, a metà, ecco il dolore al fianco, la malattia, che non prestava la minima attenzione ai lavori processuali, ricominciava il suo lavoro, un lavoro di roditore. Ivàn Il'ìè cercava di prestare la massima attenzione, di respingere quel pensiero, ma il lavoro al fianco continuava, e lei arrivava, gli si fermava davanti, lo guardava, ed egli s'irrigidiva, gli si spegneva il fuoco negli occhi, e tornava a domandarsi: «Possibile che sia lei e solo lei la verità?» I colleghi e dipendenti vedevano con stupore e amarezza un magistrato così brillante, così sottile, imbrogliarsi, fare sbagli. Ivàn Il'ìè si riscuoteva, cercava di riprendere il controllo di sé, in qualche modo arrivava alla fine dell'udienza e tornava a casa con la mesta consapevolezza che il lavoro in tribunale non riusciva più come una volta a nascondergli quello egli voleva nascondersi, a sfuggire lei; Ma il peggio era che lei l'attirava a sé, non perché facesse qualcosa, ma soltanto perché lui la guardasse, diritto negli occhi, perché la guardasse e, senza fare niente, si tormentasse indicibilmente. 
  Per sottrarsi a questa situazione, Ivàn Il'ìè cercava una consolazione, cercava altri schermi di protezione, e questi altri schermi comparivano, per qualche tempo sembravano salvarlo, ma subito svanivano di nuovo, anzi diventavano trasparenti, quassi che lei riuscisse a passarli da parte a parte: niente poteva soffocarla. 
  Negli ultimi tempi gli capitava magari di entrare in salotto, in quel salotto arredato da lui, dove era caduto. Per quel salotto, gli veniva fatto di pensare con velenosa ironia, egli aveva sacrificato la propria vita (perché la malattia era cominciata lì, in quel salotto, da quella botta, egli lo sapeva bene); entrava e vedeva che sul tavolo laccato qualcosa aveva lasciato una tacca. Ne cercava la causa e scopriva che era stato il fregio in bronzo di un album di famiglia che si era incurvato, staccandosi sul bordo. E allora prendeva l'album, a lui così caro, che aveva composto con tanto amore, e si irritava per la negligenza della figlia e dei suoi amici: lì c'era uno strappo, là le fotografie erano rovesciate. Rimetteva tutto in ordine, con cura, ripiegava in dentro il fregio in bronzo. 
  Poi gli veniva l'idea di trasportare tutto quell'établissement con gli album in un altro angolo, vicino ai fiori. Chiamava un servitore: la moglie o la figlia venivano ad aiutarlo; non erano d'accordo, lo contraddicevano, Ivàn Il'ìè si metteva a discutere, si arrabbiava; ma tutto andava benissimo, perché intanto s'era dimenticato di lei, non vedeva lei. 
Ma ecco che, non appena si metteva a spostare il mobile, la moglie gli diceva: «Scusami, lascia fare questi 
lavori alla servitù, se no ti fai male un'altra volta,» e all'improvviso lei balenava attraverso tutti gli schermi, ed egli la vedeva. Lei gli era balenata davanti, e Ivàn Il'ìè sperava ancora che tornasse a eclissarsi; ma senza volerlo si metteva ad ascoltare quel che gli succedeva nel fianco: era sempre lì, sempre la stessa cosa, che rodeva sempre alla stessa maniera, ed egli non poteva più far finta di non vederla. E lei lo guardava sfrontatamente, da dietro i fiori. Perché tutto questo?  «È proprio vero; qui, su questa tenda, come in una scalata d'assalto, ho perso la vita. Davvero? Com'è orribile e com'è stupido! Non può essere! Non può essere, ma è così.» 
  E tornava nei suo studio, si coricava e di nuovo rimaneva solo con lei. Faccia a faccia con lei. E con lei non c'era niente da fare: solo guardarla e rabbrividire. 

VII 



  Non si poteva dire com'era successo, perché era stato un processo lentissimo, che era andato avanti passo per passo, impercettibilmente, ma era accaduto che, nel terzo mese di malattia, la moglie, la figlia, il figlio, la servitù, i conoscenti, i dottori, lo stesso Ivàn Il'ìè, soprattutto, sapevano come l'interesse che gli altri dimostravano nei suoi confronti si riduceva a questo: quando si sarebbe deciso, finalmente, a lasciar libero il suo posto, a liberare i vivi dall'imbarazzo della sua presenza, e se stesso dalle sue sofferenze? 
  Dormiva sempre meno; gli davano dell'oppio, cominciarono a somministrargli della morfina. Ma tutto questo non, lo sollevava. L'ottusa angoscia che provava in quello stato di semincoscienza, all'inizio lo aveva sollevato soltanto perché era qualcosa di nuovo, poi diventò anch'essa egualmente tormentosa, come e forse più del dolore vivo.  Gli preparavano dei cibi speciali, secondo le prescrizioni dei medici; ma quei cibi diventavano sempre più insipidi per lui, e sempre più rivoltanti. 
  Anche quando doveva defecare, usava degli aggeggi speciali, e ogni volta era una tortura. Una tortura per la sporcizia, per la vergogna, per la puzza, per il necessario intervento di un'altra persona. 
  Ma proprio in questa spiacevole circostanza Ivàn Il'ìè trovò motivo di consolazione. A svolgere quell'umile funzione veniva sempre Gerasim, il mužìk addetto alla cucina. 
  Gerasim era un giovane contadino pulito, fresco, un po' appesantito dalle minestre cittadine. Sempre allegro, chiaro. Da principio la vista di quell'uomo tutto lindo, vestito alla russa, che compiva quella sgradevole operazione, metteva a disagio Ivàn Il'ìè. 
  Una volta, cercando di rialzarsi dalla padella, non avendo la forza di tirarsi su i pantaloni, si lasciò cadere su una poltrona morbida, guardandosi le cosce svigorite, nude, con i fasci muscolari disegnati crudamente. 
  Entrò con i suoi stivali spessi, a passi lievi e forti, spargendo intorno a sé un gradevole odore di pece da scarpe e una dolce freschezza d'aria invernale, Gerasim: aveva un grembiule di canapa pulito e una camicia di cotone pulita, con le maniche rimboccate sulle braccia nude, giovani e forti. Senza guardare Ivàn Il'ìè, e cercando di trattenere, per non offendere il malato, la gioia di vivere che gli illuminava il volto, si avvicinò alla padella. 
  «Gerasim,» disse debolmente Ivàn Il'ìè. 
  Gerasim sussultò, evidentemente timoroso di aver mancato in qualcosa, e con un movimento brusco voltò verso il malato la sua faccia giovane, fresca; buona, semplice, con una barbetta che cominciava appena a spuntare. 
  «Che cosa comanda?» 
  «Penso che questo non sia un lavoro, molto gradevole per te. Scusami. Non posso farlo io.» 
  «Prego, prego, signore,»   e Gerasim mostrò il lampo dei suoi occhi e dei suoi denti giovani e bianchi. 
«Perché non dovrei farlo? Siete malato.» 
  Con mani forti e abili eseguì la solita operazione e se ne andò, con passo leggero. Dopo cinque minuti, sempre con lo stesso passo leggero, ritornò. 
  Ivàn Il'ìè era sempre seduto in poltrona. 
  «Gerasim,» gli disse, dopo che questi aveva rimesso a posto la padella pulita e lavata, «per favore, aiutami, vieni qui.» Gerasim si avvicinò. «Sollevami. Da solo non ce la faccio e Dmitrij non c'è, l'ho mandato via.»  Gerasim si avvicinò con le sue braccia forti, con la stessa leggerezza con cui camminava, lo abbracciò, lo sollevò con delicatezza e abilità, con una mano gli tirò su i pantaloni e fece per rimetterlo a sedere. Ma Ivàn Il'ìè lo pregò di accompagnarlo al divano. Gerasim, senza sforzo, quasi senza stringerlo, lo condusse verso il divano come trasportandolo in braccio, e lo mise a sedere. 
  «Grazie. Riesci a far tutto così bene, così... facilmente. » 
 Gerasim sorrise di nuovo e fece per andarsene. Ma Ivàn Il'ìè non aveva voglia di lasciarlo andare; stava così bene con lui. 
 «Senti un po': portami qui vicino quella sedia, per favore. No, quella, ecco, qui, sotto i piedi. Mi sento meglio quando ho i piedi in alto.» 
  Gerasim portò la sedia, la posò senza far rumore, lentamente, sul pavimento e sollevò le gambe di Ivàn Il'ìè, per deporle sulla sedia; a Ivàn Il'ìè era parso di sentirsi meglio, mentre Gerasim gli sollevava in alto le gambe.  «Sto meglio, quando sto con le gambe più in alto, » disse Ivàn Il'ìè. «Mettimi sotto quel cuscino.» 
Gerasim eseguì. Gli rialzò di nuovo le gambe e di nuovo le depose sulla sedia. Di nuovo Ivàn Il'ìè si sentì meglio, mentre Gerasim gli teneva le gambe. Quando gliele rimise giù, gli parve di sentirsi peggio. 
  «Gerasim, » gli disse, «hai da fare adesso? » 
  «No, niente affatto, signore, » rispose Gerasim, che aveva imparato dalla gente di città come si parla con i padroni. 
  «Cosa devi fare ancora? » 
  «Cosa devo fare? Ma ho fatto tutto, devo soltanto spaccare la legna per domani.» 
  «Allora, tienimi le gambe un po' in alto, ce la fai?» 
 «E come no? Certo, certo.» Gerasim gli sollevò le gambe, e a Ivàn Il'ìè sembrò di non sentire nessun dolore, in quella posizione. 
  «E per la legna come farai?» 
  «Non si preoccupi, non si preoccupi. Faremo in tempo.» 
  Ivàn Il'ìè fece sedere Gerasim, gli fece tenere in alto le gambe, e intanto parlò un po' con lui. E, stranamente, finché Gerasim gli tenne sollevate le gambe, gli sembrò di star meglio. 
  Da quel giorno Ivàn Il'ìè ogni tanto faceva venire Gerasim, gli metteva i piedi sulle spalle, e per un po' stava in quella posizione; e gli piaceva parlare con lui. Gerasim faceva tutto con gran leggerezza, volentieri; semplicemente, con una soavità che inteneriva Ivàn Il'ìè. In tutti gli altri la gagliardia, la forza vitale, la salute offendevano Ivàn Il'ìè; soltanto la forza vitale e la salute di Gerasim non amareggiavano Ivàn Il'ìè, anzi lo calmavano. 
  Il maggior tormento di Ivàn Il'ìè era la menzogna che lo voleva malato ma non moribondo, una menzogna 
accettata da tutti, chissà perché: bastava che stesse tranquillo e si curasse, e allora ci sarebbe stato un gran 
miglioramento... Ma egli sapeva benissimo che, qualunque cosa gli facessero, non ci sarebbe, stato proprio niente, salvo che sofferenze ancora più tormentose e la morte. Questa menzogna lo tormentava, lo tormentava il fatto che non volessero riconoscere che tutti sapevano e che anche lui sapeva, e che volessero invece mentire sul suo terribile stato, e che per di più costringessero lui stesso a prender parte a quella menzogna. Quella menzogna, una menzogna perpetrata su di lui alla vigilia della sua morte, una menzogna che si sentiva in dovere di umiliare questo terribile atto solenne al livello delle loro visite di cortesia, delle tende in salotto, del pesce in tavola... era un orribile tormento per Ivàn Il'ìè. E stranamente, molte volte, mentre gli altri eseguivano i loro numeri su di lui, era stato a un filo dal gridare in faccia a tutti: smettetela di dire bugie, lo sapete benissimo, e lo so benissimo anch'io che sto morendo, almeno finitela di mentire. Ma non aveva mai avuto cuore di farlo. L'orribile, tremendo atto della sua agonia era degradato da tutti quelli che lo circondavano alla stregua di qualcosa di casuale e sgradevole, persino di indecoroso (come se trattassero con un uomo che puzza entrato in un salotto), qualcosa che trasgrediva quello stesso «decoro», che Ivàn Il'ìè aveva perseguito tutta la vita; egli vedeva che nessuno aveva pietà di lui, perché nessuno, voleva capire la sua situazione. Soltanto Gerasim capiva la sua situazione e aveva pietà di lui. Perciò Ivàn Il'ìè stava bene soltanto con Gerasim. Stava bene, quando Gerasim, a volte per delle notti intere, rimaneva con lui, tenendogli le gambe sollevate, e non voleva saperne di andare a dormire: «Lei non si preoccupi, Ivàn Il'ìè » diceva, «ho ancora tempo per fare una bella dormita,» o quando, aggiungeva all'improvviso, passando al «tu»: «tu sei malato, e hai bisogno di me, no?» Soltanto Gerasim non mentiva, era sicuramente l'unico che capiva di che cosa si trattava e che non riteneva necessario nasconderlo, e si limitava ad avere pietà di lui, del suo padrone debole e sfinito. Una volta venne fuori a dire a Ivàn Il'ìè, che cercava di mandarlo via:  «Tutti dobbiamo morire. Perché non dovrei farlo?» e, dicendo questo, voleva significare che quella fatica non gli pesava, proprio perché lo faceva per un uomo che stava morendo, nella speranza che anche per lui, a suo tempo, qualcuno avrebbe fatto lo stesso. 
  A parte quella menzogna, o le conseguenze di quella menzogna, la cosa che più tormentava Ivàn Il'ìè era il fatto che nessuno aveva pietà di lui, come egli avrebbe voluto che avessero: in certi momenti, dopo lunghe ore di sofferenza, anche se si sarebbe vergognato a confessarlo, aveva soprattutto voglia che qualcuno avesse pietà di lui, come di un bambino malato. Avrebbe voluto che lo carezzassero, che lo baciassero, che lo compiangessero, così come si accarezzano e si consolano i bambini. E nel suo rapporto con Gerasim c'era qualcosa che si avvicinava a questo, perciò stare con Gerasim lo consolava. Ivàn Il'ìè aveva voglia di piangere, aveva voglia che lo carezzassero e lo compiangessero, ed ecco che compariva un suo collega, il funzionario Šebek, e, invece di lacrime e di tenerezze, Ivàn Il'ìè faceva una faccia seria, severa, pensosa, per forza d'inerzia diceva il suo parere sul significato che rivestiva una certa sentenza della cassazione e difendeva caparbiamente la sua idea. Questa menzogna che lo circondava, e che era anche dentro di lui, più di ogni altra cosa, avvelenò gli ultimi giorni di vita di Ivàn Il'ìè. 

VIII 



  Era mattino. Era mattino solo perché Gerasim era andato via ed era venuto Pëtr, il cameriere, che aveva spento le candele, aveva scostato una tendina, e si era messo a fare la camera pian pianino. Mattino o sera, venerdì o domenica, non importava, era sempre lo stesso, sempre la stessa cosa: sempre quella fitta dolorosa, tormentosa, che lo rodeva, che non smetteva un minuto; e sempre la consapevolezza della vita che continuava ad andarsene, ma che non se n'era ancora andata del tutto; e sempre la stessa terribile odiosa morte incombente, che era l'unica realtà vera; e sempre, la stessa menzogna. Che cosa potevano contare i giorni, le settimane, le ore? 
«Non vuole che le ordini il tè, signore? » 
  «Ha bisogno che le regole vengano mantenute, che i padroni al mattino bevano il tè, »  pensò Ivàn Il'ìè e disse soltanto: 
  «No.» 
  «Non starebbe forse più comodo sul divano, signore?» 
  «Ha bisogno di mettere in ordine la camera, e io gli dò fastidio, io rappresento la sporcizia, il disordine,»  pensò Ivàn Il'ìè e disse soltanto: 
  «No, lasciami stare.» 
 Il cameriere si diede ancora un po' da fare, per la stanza. Ivàn Il'ìè allungò un braccio. Pëtr gli si avvicinò con fare servizievole. 
  «Cosa desidera, signore?» 
  «L'orologio.» 
  Pëtr prese l'orologio, che era lì sottomano, e glielo porse. 
  «Le otto e mezzo. Non si sono ancora alzati?» 
  «No, signore, no. Il signorino Vasilij Ivànoviè e andato al ginnasio, Praskov'ja Fëdorovna ha ordinato di svegliarla, se lei lo desidera. Vuole che lo faccia, signore?» 
  «No, no, non è il caso.»  «Se provassi a prendere il tè?»  pensò. «Ah sì, il tè... portami il tè.» 
  Pëtr fece per allontanarsi. L'idea di rimanere solo spaventò Ivàn Il'ìè. «Con che scusa posso trattenerlo? ah sì, la medicina.»  «Pëtr, dammi la medicina.»  «Perché no, poi? Chissà che la medicina non mi faccia bene ancora.»  Prese il cucchiaino, bevve. «No, non può farmi bene. Sono tutte sciocchezze, è tutto un imbroglio,»  decise, non appena risentì quel sapore ben noto, dolciastro e irrimediabile. «No, non posso crederci più. Ma questo dolore perché? perché il dolore? Smettesse almeno per un minuto.»  E cominciò a gemere. Pëtr tornò indietro. «No, vai pure, portami il tè.»  Pëtr se ne andò. Ivàn Il'ìè, rimasto solo, si mise a gemere non tanto per il dolore, nonostante fosse terribile, quanto per l'angoscia. «Sempre lo stesso, sempre lo stesso, questi giorni interminabili, e le notti. Almeno arrivasse un po' in fretta! Chi dovrebbe arrivare un po' in fretta? La morte, il buio. No, no, tutto è meglio della morte!» 
  Quando Pëtr ritornò con il tè sul vassoio, Ivàn Il'ìè lo guardò a lungo, con un'aria sperduta, senza capire chi fosse e che cosa volesse. Sotto quello sguardo Pëtr si confuse. Mentre Pëtr si confondeva, Ivàn Il'ìè tornò in sé. «Ah sì,»  disse, «il tè... va bene, mettilo lì. Ma adesso aiutami a lavarmi e dammi una camicia pulita.» 
  E Ivàn Il'ìè cominciò a lavarsi. A varie riprese si lavò le mani, il viso, si pulì i denti, cominciò a pettinarsi e si guardò allo specchio. Un senso di orrore lo prese; soprattutto erano orribili quei capelli appiccicati piatti sulla fronte pallida. 
  Quando gli cambiavano la camicia, egli sapeva bene che sarebbe stato ancora più orribile guardare il proprio corpo, e così si asteneva dal guardarsi. Ma ormai tutta quell'operazione era finita. Si mise la vestaglia, si coprì con un plaid e si mise in poltrona a prendere il tè. Per un attimo egli si senti rinfrescato, ma solo per un attimo, non appena cominciò a bere il tè, avverti di nuovo lo stesso gusto in bocca, la stessa fitta al fianco. Si sforzò di bere il tè fino in fondo e si coricò, allungando le gambe sul letto. Congedò Pëtr. 
  Sempre così. Brillava una goccia di speranza, e subito si alzava il mare della disperazione, e sempre lo stesso dolore, lo stesso dolore, sempre la stessa angoscia, sempre così, sempre così. A star solo si sentiva terribilmente triste, gli veniva voglia di chiamare qualcuno, ma sapeva già in anticipo che insieme agli altri sarebbe stato ancora peggio. «Se potessi prendere di nuovo la morfina, lasciarmi andare, stordirmi. Bisogna che glielo dica, al dottore, che escogiti qualcos'altro. Così non si può andare avanti. » 
  Rimase così per un'ora, due ore. Una scampanellata in anticamera. Era il dottore? Esatto, era il dottore, fresco, vigoroso, grasso, allegro, con quell'aria di dire: vi siete spaventato? e perché mai? adesso ci siamo noi, mettiamo a posto tutto noi. Il dottore sapeva bene che in quel caso quell'aria era fuori posto, ma se l'era messa addosso una volta per tutte e non poteva togliersela, come uno che al mattino si mettesse il frac e andasse in giro a far visite. 
  Il dottore si fregò le mani con un fare vigoroso, incoraggiante. 
  «Sono gelato. Fa un freddo fuori, secco, sano! Lasci che mi riscaldi un po'!»  fece il dottore. Si sarebbe detto che di lì a poco, dopo essersi riscaldato un po', avrebbe aggiustato ogni cosa. 
  «Oh, dunque... » 
  Ivàn Il'ìè sentì che il dottore avrebbe avuto voglia di dire: «come va la vita?» , ma che anche lui capiva che non si poteva parlare così. E il dottore disse: 
  «Come ha passato la notte?» 
  Ivàn Il'ìè lo guardò con un'aria stupita: «Possibile che non ti vergogni mai di dir bugie?»  Ma il dottore non aveva nessuna intenzione di cogliere il senso di quello stupore. 
  E Ivàn Il'ìè rispose: 
  «Come sempre, orribilmente. Il dolore non passa, non vuole andarsene. Si potesse far qualcosa!» 
  «Ecco, voi malati siete tutti uguali. Bene, adesso, mi pare di essermi riscaldato abbastanza, anche Praskov'ja Fëdorovna che è così premurosa non troverebbe niente da obiettare sulla mia temperatura. Adesso si posso dire buongiorno.»  E gli strinse la mano. 
  E, messa da parte tutta la giocosità di prima, il dottore cominciò a Visitare il malato con aria seria, a tastargli il polso, a provargli la temperatura, e cominciarono le percussioni, le auscultazioni. 
Ivàn Il'ìè sapeva perfettamente che erano tutte assurdità, che era tutto un inutile imbroglio, ma quando il dottore, inginocchiato, gli si stendeva sopra, applicando l'orecchio ora più su, ora più giù, e con un viso improntato alla massima gravità compiva su di lui le più varie evoluzioni ginniche, Ivàn Il'ìè gli si arrendeva completamente, come si arrendeva, un tempo, alle arringhe degli avvocati, anche se sapeva benissimo che dicevano un mucchio di bugie e sapeva perché le dicevano. 
  Il dottore, inginocchiato sul divano, stava dandogli ancora qualche colpetto, quando alla porta si sentì il fruscio dell'abito di seta di Praskov'ja Fëdorovna e la sua voce che rimproverava. Pëtr per non averla avvertita dell'arrivo del dottore. 
  Entrò, baciò il marito e incominciò, subito a far presente che si era alzata già da un pezzo e che soltanto per un equivoco non si era trovata lì, all'arrivo del dottore. 
  Ivàn Il'ìè la guardò, la squadrò da capo a piedi, e cominciò a recriminare in cuor suo contro la sua bianchezza, la sua rotondità, contro la pulizia delle sue mani e del suo collo, contro la brillantezza dei suoi capelli, contro lo splendore dei suoi occhi pieni di vita. La odiava con tutte le sue forze. E il contatto di lei lo faceva soffrire, rinfocolando il suo odio. 
  Continuava a considerare il marito e la sua malattia allo stesso modo di sempre. Così come il dottore si era creato un modo di trattare i malati che non riusciva più a staccarsi di dosso, così Praskov'ja Fëdorovna aveva elaborato una sua linea di condotta nei confronti del marito (il marito non faceva tutto quello che doveva fare, era tutta colpa sua, e lei glielo rimproverava amorevolmente), una linea di condotta ormai definitiva, che non riusciva più a togliersi di dosso. 
  «Non vuol proprio dare ascolto! Non prende le medicine a tempo debito. E soprattutto si corica in una posizione che dev'essere molto dannosa per lui, con le gambe in su. » 
  E raccontò come il marito costringesse Gerasim a tenergli le gambe sollevate. 
  Il dottore fece un sorriso benevolmente sprezzante: «Cosa ci vuol fare, è così, questi malati a volte inventano certe sciocchezze: ma è perdonabile. » 
  Terminata la visita, il dottore guardò l'orologio, e allora Praskov'ja Fëdorovna annunciò a Ivàn Il'ìè che, comunque la pensasse lui, aveva invitato a consulto per quell'ora un celebre medico, che insieme a Michail Daniloviè (era il nome del medico normale) l'avrebbe visitato e giudicato. 
  «E tu non metterti a fare obiezioni, per favore. Lo faccio per me stessa,»  disse ironicamente, lasciando credere che faceva tutto per lui e che perciò egli non aveva il diritto di rifiutarle niente. Ivàn Il'ìè taceva e storceva la bocca. Sentiva che la menzogna che lo circondava si era così complicata da. risultare ormai difficilmente districabile.  Tutto quello che faceva per lui la moglie lo faceva solo per se stessa, e quando Praskov'ja Fëdorovna diceva che lo faceva per se stessa (e lo faceva veramente per se stessa) credeva di esprimere un concetto tanto paradossale da costringere il marito a intenderla alla rovescia. 
  Effettivamente, alle undici e mezzo, arrivò il celebre medico. Ricominciarono le auscultazioni e i discorsi gravi, in presenza del malato o in un'altra stanza, sul rene e sull'intestino cieco, e le domande e le risposte, tutto con la massima serietà; come se invece del problema reale della vita e della morte, l'unico ormai che esistesse per Ivàn Il'ìè, si fosse rifatto avanti il problema del rene e dell'intestino cieco, che avevano combinato qualcosa che non andava, e sui quali si sarebbero avventati di lì a un momento Michaìl Danìloviè e la celebrità medica, rimettendoli a posto.  Il medico celebre si congedò con un'aria seria, ma non disperata. E alla timida domanda che Ivàn Il'ìè gli rivolse con gli occhi splendenti di paura e di speranza, se c'era o no qualche possibilità di guarigione, il medico rispose che non era il caso di garantire niente, ma che qualche possibilità c'era. Lo sguardo di speranza col quale Ivàn Il'ìè accompagnò il dottore era tanto pietoso che, vedendolo, Praskov'ja Fëdorovna scoppiò in lacrime, mentre usciva dallo studio del marito, per pagare l'onorario al medico celebre. 
  Il sollievo spirituale prodotto dalle assicurazioni del dottore, durò poco: di nuovo la stessa stanza, gli stessi quadri, le stesse tendine, le tappezzerie, le boccette, di nuovo il suo stesso corpo dolorante, sofferente. E Ivàn Il'ìè cominciò a gemere; gli fecero un'iniezione, ed egli si assopì. 
  Quando tornò in sé, era l'imbrunire; gli portarono il pranzo. Con sforzo mangiò la minestra; ed ecco di nuovo le stesse cose, e la notte imminente, un'altra notte. 
  Dopo pranzo, alle sette, entrò in camera Praskov'ja Fëdorovna, vestita come per una serata, col seno grosso tirato in fuori e tracce di cipria sulla faccia. Già al mattino gli aveva ricordato che sarebbero andati a teatro. Quella sera c'era in tournée Sarah Bernhardt, ed essi avevano prenotato il palco, proprio su insistenza di Ivàn Il'ìè. Ora se l'era scordato e l'abbigliamento della moglie lo offese. Ma seppe nascondere la propria offesa, quando gli tornò in mente che era stato lui a insistere che prenotassero un palco e andassero a teatro, perché per i ragazzi quello era un divertimento educativo ed estetico. 
  Praskov'ja Fëdorovna era entrata in camera soddisfatta, ma come colpevole. Si sedette per un momento, gli domandò come stava, non tanto per sapere quanto per chiedere (Ivàn Il'ìè lo vedeva bene), sapendo che non c'era niente da sapere, e incominciò a dire quello che era necessario dire in quel momento: che per nulla al mondo lei ci sarebbe andata, ma che il palco era stato preso ormai, che ci andavano Hélène, la figlia e Petrišèev (il giudice istruttore, fidanzato della figlia), e che non si poteva lasciarli andare da soli. Ma lei avrebbe preferito mille volte restare lì con lui. 
Almeno, in sua assenza, gli raccomandava di fare tutto quello che aveva prescritto il dottore.  «Sì,» e anche Fëdor Petroviè (il fidanzato) voleva entrare. «Può?» E anche Liza... 
  «Che vengano pure. » 
Entrò la figlia, tutta agghindata, con il giovane corpo scoperto. Per Ivàn Il'ìè il proprio corpo era una fonte di sofferenza, per la figlia un oggetto da mettere in mostra. Era vigorosa, sana, evidentemente innamorata e infastidita dalla malattia, dalla sofferenza, dalla morte che ostacolava la sua felicità. 
  Entrò anche Fëdor Petroviè in frac, coi capelli arricciati à la Capoul, con un lungo collo asciutto, stretto in un colletto bianco, un enorme sparato bianco, le anche robuste fasciate dentro gli stretti pantaloni neri, un guanto bianco infilato su una mano, il cloak. 
  Dietro di lui scivolò dentro, inosservato, anche il ginnasiale, con la sua uniforme nuova, poveretto, con i guanti e due orribili occhiaie, di cui Ivàn Il'ìè conosceva il significato. 
  Il figlio aveva sempre avuto compassione di lui. Ed era terribile quel suo sguardo spaventato e dolorante. A Ivàn Il'ìè sembrava che solo Vasja, a parte Gerasim, lo capisse e sentisse pietà di lui. 
  Tutti si sedettero, chiesero di nuovo come stava. Ci fu un momento di silenzio. Liza chiese alla madre se aveva preso il binocolo. Ci fu un battibecco tra madre e figlia su chi avesse fatto sparire il binocolo e dove l'avesse cacciato. Una scena sgradevole. Fëdor Petroviè chiese a Ivàn Il'ìè se avesse mai visto Sarah Bernhardt. Ivàn Il'ìè da principio non capì la domanda, poi rispose: 
  «No. E lei l'ha già vista?» 
  «Sì, nell'Adrienne Lecouvreur. » 
  Praskov'ja Fëdorovna disse che era una delle sue interpretazioni migliori. La figlia non era d'accordo. 
Incominciarono a discutere sull'eleganza e sul realismo della recitazione della Bernhardt, la solita discussione, uguale a tutte le altre. 
  A metà della discussione, Fëdor Petroviè gettò un'occhiata a Ivàn Il'ìè e ammutolì. Anche gli altri guardarono Ivàn Il'ìè e ammutolirono. Guardava innanzi a sé con gli occhi lucidi, evidentemente indignato contro di loro. 
Bisognava rimediare, ma non era proprio possibile. Bisognava almeno rompere in qualche modo quel silenzio. Nessuno si decideva a farlo, e tutti cominciarono ad aver paura che da un momento all'altro la menzogna decorosa crollasse per rivelare quella realtà che tutti conoscevano. E Liza si decise per prima. Ruppe il silenzio. Voleva nascondere quello che tutti provavano in quel momento, ma si tradì. 
  «Allora, se dobbiamo andare, è ora,»  disse guardando l'orologio, regalo del padre, lanciò un sorriso appena percettibile, che sottintendeva qualcosa che solo loro sapevano, al giovanotto, e si alzò, facendo frusciare il vestito. 
  Tutti si alzarono, salutarono e se ne andarono. 
  Quando se ne furono andati, Ivàn Il'ìè credette di star meglio: la menzogna era scomparsa, se ne era andata via con loro, ma il dolore rimaneva con lui. Sempre lo stesso dolore, la stessa paura facevano sì che ormai nulla più potesse abbatterlo o sollevarlo. Era sempre peggio. 
 Tornarono i minuti, uno dopo l'altro, e le ore, di nuovo le stesse cose, senza fine, e la fine inevitabile sempre più terribile. 
  «Sì, mandatemi Gerasim,»  rispose a una domanda di Pëtr. 

IX 



  A tarda notte tornò la moglie. Entrò in punta di piedi, ma egli la sentì: aprì gli occhi e li richiuse in fretta. La moglie voleva m'andar via Gerasim e vegliare lei il marito. Ivàn Il'ìè aprì gli occhi e disse: 
  «No. Va' via.» 
  «Soffri molto?» 
  «Sempre lo stesso.» 
  «Prendi dell'oppio.» 
  Egli acconsentì e bevve. La moglie se ne andò. 
  Fino alle tre di notte egli rimase immerso in un tormentoso assopimento. Gli sembrava che con uno sforzo doloroso lo ficcassero dentro un sacco nero, stretto e profondo che cercassero di spingerlo sempre più giù, senza riuscirci. Anche quest'operazione orribile era accompagnata da gravi tormenti: ed egli aveva paura, e insieme voleva cacciarsi fino in fondo al sacco; e lottava, e cercava di spingere. E all'improvviso riuscì a staccarsi, precipitò giù e si risvegliò. Gerasim era sempre seduto sul letto, ai suoi piedi, dormicchiava tranquillamente pazientemente. Ivàn Il'ìè era coricato, con le gambe smagrite, coperte dalle calze, sollevate e appoggiate sulle spalle di Gerasim; lo stesso lume schermato, e lo stesso dolore, continuo, inarrestabile. 
  «Vai pure, Gerasim,» sussurrò. 
  «Non fa niente, resto ancora un po'.» 
  «No, vai.» 
  Gli tolse i piedi dalle spalle, cercò di coricarsi  alla meglio su un fianco, e sentì pietà di se stesso. Aspettò che Gerasim passasse nella stanza vicina, non riuscì più a trattenersi e scoppiò a piangere come un bambino. Piangeva sulla propria impotenza, sulla propria orribile solitudine, sulla crudeltà della gente, sulla crudeltà di, Dio, sull'assenza di Dio. 
 «Perché hai fatto tutto questo? Perché mi hai portato fino a questo punto? Perché, perché mi tormenti così orribilmente?...» 
Non aspettava nessuna risposta, e pianse sull'assenza di una risposta, sull'impossibilità di una risposta. Il dolore si fece ancora più intenso, ma egli non si mosse, non chiamò nessuno. Diceva a se stesso: «Ecco, così, colpisci ancora, forza! Ma perché? Perché? Che cosa ti ho fatto?» 
  Poi si calmò, smise di piangere, smise persino di respirare e si fece tutto intento: era come se prestasse ascolto non a una voce che parlava per suoni, ma alla voce dell'anima, al corso dei pensieri che si levava in lui. 
  «Di che cosa hai bisogno?» fu il primo concetto distinto, esprimibile a parole, che egli udì «Di che cosa hai bisogno?» si ripeté. «Di che cosa? Di non soffrire. Di vivere,» rispose. 
  Si fece di nuovo tutto intento, con una tale tensione che nemmeno il dolore lo distraeva. 
  «Vivere? Vivere come?» disse la voce dell'anima. «Sì, vivere, come vivevo prima: bene, piacevolmente.»  «Come vivevi prima? Bene e piacevolmente?» chiese la voce. Ed egli si mise a frugare nella propria immaginazione, alla ricerca dei momenti migliori della sua piacevole vita. Ma, stranamente, tutti i momenti migliori della sua piacevole vita ora gli sembravano ben diversi da come gli erano apparsi allora. Tutti, salvo i primi ricordi dell'infanzia. Qui sì, nell'infanzia, c'era stato qualcosa di effettivamente piacevole, che sarebbe stato pronto a rivivere, se avesse potuto tornare indietro. Ma la persona che aveva provato quei momenti piacevoli, non c'era più: sembrava il ricordo di qualcun altro. 
  Non appena incominciava a svilupparsi il processo che aveva avuto come risultato l'Ivàn Il'ìè di quel momento, tutte quelle cose che un tempo gli erano sembrate delle gioie, si dissolvevano ai suoi occhi e si trasformavano in qualcosa di insignificante, spesso di ripugnante. 
  E quanto più si allontanava dall'infanzia e si avvicinava al suo presente, tanto più insignificanti e dubbie erano quelle gioie. Era cominciata dall'Istituto di giurisprudenza. Qui c'era ancora qualcosa di autenticamente buono: gaiezza, amicizia, speranze. Ma nelle classi superiori quei momenti si facevano già più rari. Poi, durante il suo primo servizio come aiuto del governatore, ricompariva qualche buon momento: erano i primi ricordi dell'amore di una donna. Poi tutto si confondeva e i buoni momenti diminuivano. Più avanti diminuivano ancora di più, e tanto più diminuivano, quanto più si procedeva nel tempo. 
  Il matrimonio., un atto casuale, e la delusione, e il profumo della bocca della moglie, e la sensualità, che inganno! E quel lavoro morto, e le preoccupazioni finanziarie, e così un anno, due anni, dieci anni, vent'anni, sempre lo stesso. E quanto più si procedeva, tanto più morta era la sua vita. Come si scende da una montagna, immaginando di salire. Per Ivàn Il'ìè era così: per la pubblica opinione egli saliva sulla montagna, mentre di sotto, nella stessa misura, gli sfuggiva la vita. ..E ora era finita: doveva morire! 
 Ma come mai? Perché? Non era possibile. Non era possibile che la vita fosse stata così insensata, così ripugnante. E se era proprio così ripugnante e insensata, allora perché morire, e morire soffrendo? C'era qualcosa che non andava. 
  «Forse, non ho vissuto come dovevo,» gli venne in mente all'improvviso. «Ma se ho sempre fatto tutto secondo le regole?» disse a se stesso e scacciò via immediatamente, come qualcosa di assolutamente impossibile, quell'unica soluzione dell'enigma della vita e della morte. 
  «Cosa vuoi adesso? Vivere? Vivere come? Vivere come si vive in tribunale, quando l'usciere annuncia: Entra la corte!... Entra la corte, entra la corte,» si ripeté. «Eccola qui la corte! Ma io non sono colpevole!» esclamò con rabbia. 
«E allora perché?» 
  Smise di piangere e, voltatosi con la faccia al muro, cominciò a pensare ossessivamente, a una cosa sola:  perché, a che cosa serviva tutto quell'orrore? 
  Ma per quanti sforzi facesse, non riusciva a trovare una risposta. E quando gli avveniva di pensare che tutto questo succedeva perché non aveva vissuto come doveva (era un pensiero che gli tornava spesso), subito si ricordava di aver vissuto sempre secondo le regole, e scacciava quella strana idea. 




  Passarono altre due settimane. Ivàn Il'ìè non si alzava più dal divano. Non voleva coricarsi sul letto, e così si sdraiava sul divano. E, quasi sempre rivolto con la faccia al muro, soffriva in completa solitudine le stesse indissolubili sofferenze e in completa solitudine pensava allo stesso indissolubile problema. Davvero, la morte? E la voce interna rispondeva: sì, davvero. Perché questi tormenti? E la voce rispondeva: così, per niente. Più in là di questo non si andava.  Fin dall'inizio della malattia, da quando Ivàn Il'ìè era andato per la prima volta dal dottore, la sua vita si era scissa in due opposti stati d'animo, che si alternavano: da una parte la disperazione, l'attesa di quella morte incomprensibile e terribile, dall'altra la speranza e l'osservazione estremamente interessata dell'attività del suo corpo. Aveva davanti agli occhi ora il rene e l'intestino, che per un po' di tempo si erano rifiutati di compiere la loro funzione, ora la morte, incomprensibile e terribile, da cui non si poteva sfuggire in nessun modo. 
  Questi due stati d'animo fin dall'inizio della malattia si alternavano l'uno all'altro. Ma quanto più procedeva la malattia, tanto più incerti e fantastici diventavano i pensieri sul rene, tanto più reale la coscienza della morte imminente.  Gli bastava ricordare come era tre mesi prima e com'era in quel momento, gli bastava ricordare la sua progressiva discesa dalla montagna, perché crollasse ogni possibilità di speranza. 
Negli ultimi tempi di quella sua solitudine, sdraiato con la faccia verso la spalliera del divano, quella sua solitudine in mezzo a una città piena di gente, in mezzo a innumerevoli conoscenti, in mezzo ai familiari (una solitudine che non avrebbe potuto essere più completa, in nessun altro luogo, né in fondo al mare, né sottoterra), negli ultimi tempi di quella sua terribile solitudine, dunque, Ivàn Il'ìè viveva soltanto con il pensiero del passato. Uno dopo l'altro gli si ripresentavano quadri del suo passato. Si cominciava sempre con il passato più prossimo e si finiva per approdare al più remoto, all'infanzia, e su questo si fermava l'immaginazione. Se gli venivano in mente le prugne cotte che gli portavano da mangiare in quel momento, Ivàn Il'ìè si ricordava delle prugne francesi, secche e grinzose, crude, della sua infanzia, del loro sapore particolare, della saliva che si formava in bocca quando si arrivava al nocciolo, e insieme a questo sapore gli rinascevano dentro tanti altri ricordi d'allora: la bambinaia, il fratello, i giocattoli. «Non bisogna pensarci... fa troppo male,» si diceva Ivàn Il'ìè e ritornava al presente. Al bottone sulla spalliera del divano, alle grinze del marrocchino. «Questo marrocchino è caro, e poco resistente; abbiamo anche litigato. Ma prima c'era stato un altro marrocchino, e un'altra lite, quando strappammo la cartella di nostro padre, e ci castigarono, e la mamma poi ci portò di nascosto dei dolci.» Di nuovo Ivàn Il'ìè si fermava sull'infanzia, e di nuovo il ricordo gli faceva male; e cercava di scacciarlo, di pensare ad altro. 
  E allora di nuovo, insieme a questa catena dì ricordi, gli si svolgeva nell'animo un'altra catena di ricordi, sull'aggravamento e lo sviluppo della sua malattia. E anche qui, più si indietreggiava, più vita c'era. Più bene nella vita, e più vita. E le due catene di pensieri si fondevano in una sola. «Le sofferenze si fanno sempre peggiori, più si va avanti, e così tutta la vita, è andata avanti, diventando sempre peggiore,» pensava. Soltanto laggiù, lontano, all'inizio della vita, c'era un punto luminoso, poi le cose diventavano sempre più nere, sempre più precipitose. «Con velocità inversamente proporzionale al quadrato delle distanze dalla morte,» pensò una volta Ivàn Il'ìè. E l'immagine della pietra che precipita con velocità accelerata gli si impresse nell'animo. La vita, una serie di sofferenze accelerate, precipita sempre più velocemente verso la fine, verso l'ultima e più terribile sofferenza. «Io precipito...» Si riscuoteva, si agitava, voleva far resistenza; ma sapeva benissimo che non si poteva far resistenza, e di nuovo, con gli occhi stanchi per tanto guardare, ma incapaci di non guardare quello che avevano davanti, fissava lo schienale del divano e aspettava, aspettava quell'ultima terribile caduta, l'urto, la distruzione. «Non si può far resistenza,» diceva fra sé. «Ma almeno capire lo scopo di tutto questo. Neanche questo è possibile. Una spiegazione potrebbe essere quella che io non ho vissuto come dovevo vivere. Ma è assolutamente inammissibile,» diceva a se stesso, ricordando che, tutta la sua vita si era svolta secondo le regole, nella correttezza, nel decoro. «Non è possibile ammettere una simile spiegazione!» diceva fra sé, sorridendo a fior di labbra, come se qualcuno potesse vedere quel sorriso, e restarne ingannato. «Non c'è nessuna spiegazione! La sofferenza, la morte... Perché?» 

XI 



  Così passarono quelle due settimane. Durante quelle due settimane era accaduto un fatto, tanto auspicato da 
Ivàn Il'ìè e dalla moglie: Petrišèev aveva fatto formale richiesta di matrimonio. Era successo di sera. E il mattino dopo Praskov'ja Fëdorovna era andata a trovare il marito, pensando al modo migliore per comunicargli la proposta di nozze di Fëdor Petroviè, ma quella notte stessa Ivàn Il'ìè aveva avuto un nuovo peggioramento. Praskov'ja Fëdorovna lo trovò disteso sul solito divano, ma in una nuova posizione. Giaceva supino, gemeva e guardava davanti a sé con lo sguardo fisso. 
  Praskov'ja Fëdorovna incominciò a parlare delle medicine. Egli spostò lo sguardo su di lei, e la moglie non riuscì a terminare il discorso che aveva iniziato: quello sguardo era pieno di rabbia, rabbia rivolta verso di lei!  «Per l'amor di Dio, lasciami morire in pace,» disse. 
  La moglie fece per andarsene, ma in quel momento entrò la figlia, che si avvicinò al padre per salutarlo. Egli guardò la figlia come aveva guardato la moglie, alle domande sullo stato della sua salute ribatté seccamente che presto avrebbe liberato tutti loro della sua presenza. Le due donne ammutolirono, rimasero un po' sedute e se ne andarono.  «Ma che colpa abbiamo noi?» disse Liza alla madre. «Come se fossimo stati noi! Papà mi fa pena, ma perché ci deve tormentare così?» 
  Alla solita ora arrivò il dottore. Alle sue domande Ivàn Il'ìè rispondeva «sì», «no», senza togliergli di dosso il suo sguardo rabbioso. Verso la fine della visita gli disse: 
  «Lo sapete benissimo che non potete far niente, lasciatemi stare.»  «Possiamo alleviare le sofferenze,» disse il dottore. 
  «Neanche questo potete fare; se ne vada.» 
  Il dottore passò in salotto e comunicò a Praskov'ja Fëdorovna che la situazione era gravissima, che l'unica cosa da fare ormai era somministrargli dell'oppio per alleviargli le sofferenze, che dovevano essere tremende. 
  Il dottore aveva ragione a dire che le sue sofferenze erano tremende, ma più tremende delle sofferenze fisiche erano le sofferenze morali, e in esse stava il suo principale tormento. 
 Le sue sofferenze morali nascevano dal fatto che quella notte, guardando il viso assonnato di Gerasim, un viso largo di zigomi, affabile, gli era venuto in mente che forse per davvero tutta la sua vita, la sua vita cosciente, era stata una vita «sbagliata» 
Gli venne in mente ciò che fino ad allora gli era sembrato una totale assurdità, l'idea di non aver vissuto la propria vita come doveva viverla; pensò che poteva essere la verità. Gli vennero in mente certe sue velleità di lotta, appena percettibili, contro ciò che era ritenuto buono dalle persone più altolocate, tentazioni appena accennate che egli si era sempre affrettato ad allontanare da sé; pensò che proprio quelle potevano essere autentiche, e che tutto il resto poteva essere sbagliato. Il suo lavoro, il suo modo di vita, la sua famiglia, i suoi interessi sociali e professionali: tutto ciò poteva essere sbagliato. 
  Tentò di organizzarne, di fronte a se stesso, una difesa: e all'improvviso avvertì tutta la debolezza di quello che difendeva. Non c'era niente da difendere. 
  «Ma se è così,» si disse, «se esco dalla vita con la consapevolezza di aver distrutto tutto quello che mi era stato dato e di non poter più rimediare, allora cos'ho fatto?» Si distese supino e cominciò a riesaminare tutta la sua vita in modo nuovo. Quando aveva visto, quel mattino, il cameriere, poi la moglie, poi la figlia, poi il dottore, ogni loro movimento, ogni loro parola non faceva che confermare la tremenda verità che gli si era rivelata quella notte. In loro egli vedeva sé stesso, tutto ciò di cui aveva vissuto, e vedeva chiaramente che tutto ciò era sbagliato, era un orribile enorme imbroglio, che nascondeva la vita e la morte. Questa consapevolezza accresceva, decuplicava le sue sofferenze fisiche. Gemeva, si agitava, si lacerava i vestiti. Gli sembrava che lo soffocassero e lo schiacciassero. E per la stessa ragione odiava i suoi. 
  Gli diedero un'altra dose di oppio, perse i sensi; ma a pranzo ricominciò tutto come prima. Cacciava via tutti, continuava ad agitarsi, a cambiare posizione. 
  Arrivò la moglie e gli disse: 
 «Jean, tesoro, fallo per me [per me?]. Non può peggiorare la situazione, se mai spesso è d'aiuto. Non è niente. Anche i sani spesso...» 
  Ivàn Il'ìè spalancò gli occhi. 
 «Cosa? Comunicarmi? Perché? Non occorre! Del resto...»  La moglie si mise a piangere. 
  «Allora, tesoro? Chiamo il nostro prete, è così caro.»  «Magnifico, benissimo,» fece lui. 
  Quando venne il prete e lo confessò, egli si intenerì, sentendo una sorta di sollievo dai suoi dubbi e quindi dalle sue sofferenze, e ritrovò un minuto di speranza. Ricominciò a pensare all'intestino cieco e alla possibilità di rimetterlo a posto. Si comunicò con le lacrime agli occhi. 
  Quando lo distesero sul letto dopo la comunione, per un attimo si sentì sollevato, e gli apparve di nuovo una speranza di vita. Cominciò a pensare all'operazione, che gli avevano proposto. «Vivere, voglio vivere,» si diceva. La moglie venne a congratularsi; disse le parole di rito e aggiunse: 
  «Stai meglio, vero?» 
  Senza guardarla, egli disse: «Sì.» 
  Il vestito di lei, la sua figura, l'espressione del suo volto, il suono della sua voce, tutto gli diceva una cosa sola: «Sbagliato. Tutto ciò di cui hai vissuto e vivi, è menzogna, inganno, che ti nasconde la vita e la morte.» E non appena pensò questo, il suo odio rimontò e insieme all'odio le tormentose sofferenze fisiche e insieme alle sofferenze la coscienza della fine inevitabile, vicina. E avvenne qualcosa di nuovo: si sentì mulinare, pungere, soffocare. 
  L'espressione del suo viso, quando aveva detto «sì», era stata terribile. Dopo aver detto quel «sì», guardandola fisso in faccia, con un guizzo straordinario per la sua debolezza, si rivoltò bocconi e gridò:  «Andatevene, andatevene, lasciatemi solo!» 

XII 



  Da quel momento incominciò il grido, che durò tre giorni, senza arrestarsi, così tremendo che non si poteva ascoltarlo neanche dietro due porte chiuse, senza sentirne orrore. Nell'attimo in cui egli aveva risposto alla moglie, aveva capito che era perduto, che non c'era più ritorno, che era arrivata la fine, la fine ultima, ma il dubbio era rimasto, insoluto. 
  «O! Oooo! O!» gridava, con varie intonazioni. Aveva incominciato gridando: «Non voglio!», ed aveva continuato a gridare, prolungando all'infinito l'ultima vocale. 
  Per tutti quei tre giorni, durante i quali per lui il tempo era scomparso, egli si dimenò dentro il sacco nero, dove l'aveva ficcato un'invisibile, invincibile forza. Si dibatteva, come si dibatte nelle mani del carnefice il condannato a morte, sapendo di non poter salvarsi; e ogni minuto che passava accresceva in lui la sensazione di avvicinarsi sempre più, nonostante tutti gli sforzi della sua lotta, a ciò che lo riempiva d'orrore. Sentiva che il suo tormento era nell'essere risucchiato dentro quella buca nera e, ancor di più, nel non potervi penetrare. Glielo impediva l'idea che la sua vita era buona. Era questa tenace giustificazione della sua vita che gli stava aggrappata addosso, non lo lasciava proseguire, lo tormentava più d'ogni altra cosa. 
  All'improvviso una forza sconosciuta lo colpì nel petto, nel fianco, gli soffocò il respiro con accresciuta energia; ed egli precipitò nella buca. Laggiù, in fondo alla buca, s'illuminò, qualcosa. Gli era successo quello che capitava a chi viaggia nel vagone di un treno, pensa di andare avanti, e invece viaggia indietro, e all'improvviso riconosce la vera direzione del viaggio. 
  «Sì, è stato tutto sbagliato,» si disse, «ma non ha importanza. Si può, si può fare qualcosa di giusto! Ma che cosa?» si domandò e improvvisamente si calmò. 
  Era la fine del terzo giorno, un'ora prima della sua morte. In quel momento il ginnasiale entrò di soppiatto nella stanza del padre e si avvicinò al suo letto. Il moribondo continuava a gridare disperatamente e ad agitare le mani. Una mano capitò sul capo del ginnasiale. Il ginnasiale l'afferrò, se la strinse alle labbra e scoppiò in lacrime. 
  In quello stesso momento Ivàn Il'ìè era precipitato, aveva visto la luce, e aveva scoperto che la sua vita non era stata come doveva essere, ma che si poteva ancora rimediare. Si era chiesto: «si può fare qualcosa di giusto; ma che cosa?», e si era calmato, rimanendo in ascolto. E allora sentì che qualcuno gli baciava una mano. Aprì gli occhi e guardò il figlio. Gli fece pietà. Si avvicinò la moglie. Ivàn Il'ìè la guardò. Aveva la bocca aperta, lasciava scorrere le lacrime sul naso e sulle guance, senza asciugarle, lo guardava con un'aria disperata. Gli fece pietà. 
  «Sì, li faccio soffrire,» pensò. «Mi fanno pena. Staranno meglio, quando sarò morto.» Voleva dirlo, ma non aveva la forza di articolare una frase. «Del resto, perché parlare? bisogna fare.» pensò. Con uno sguardo indicò alla moglie il figlio e disse: 
  «Portalo... via... mi fa pena... e anche tu...» Voleva aggiungere «perdonami», ma disse  «ridona»:  non avendo più la forza per correggersi, agitò una mano, sapendo che chi doveva capire avrebbe capito.  E all'improvviso comprese chiaramente che ciò che lo tormentava e non voleva abbandonarlo, se ne stava andando via di colpo, tutt'insieme, da due parti, da dieci parti, da tutte le parti. Gli facevano pena: bisognava fare in modo che non soffrissero più. Liberare loro e liberare se stesso da quelle sofferenze. «Com'è bello e com'è semplice,» pensò. «E il dolore?» si chiese. «Dov'è andato? Dove sei, dolore?» 
  Si mise in ascolto. 
  «Ah sì, eccolo. Non importa, resta pure lì!» 
  «E la morte? Dov'è?» 
 Cercò la sua solita paura della morte e non la trovò. Dov'era? Ma quale morte? Non c'era nessuna paura, perché non c'era neanche la morte. 
  Invece della morte c'era la luce. 
  «Ah, è così!» esclamò d'un tratto a voce alta. «Che gioia!» 
  Per lui tutto s'era compiuto in un attimo, e il significato di quell'attimo non cambiò più. Per i presenti la sua agonia durò ancora due ore. Qualcosa gorgogliava nel suo petto; il suo corpo esausto sussultava. Poi il gorgoglio e il rantolo si fecero sempre più radi. 
  «È finita!» disse qualcuno su di lui. 
  Egli sentì quelle parole e le ripeté nel suo animo. «È finita la morte,» disse a se stesso. «Non c'è più.»  Aspirò l'aria, a metà del respiro si fermò, si distese e morì.