lunedì 18 maggio 2020


IL GIOCO DEGLI OCCHI
Elias Canetti

elias cannetti. il gioco degli occhi
 storia di una vita (1931-1937)   titolo originale:  das augenspiel  lebensgeschichte 1931-1937  traduzione di gilberto forti 

 biblioteca adelphi  :::::::::::::::::::: 
  copyright 1985  carl hanser verlag  münchenwien  copyright 1985  adelphi edizioni s" p'à
 milano 

 adelphi edizioni 

 All'inizio di questo libro, il terzo della sua autobiografia, 
Canetti ci appare circondato dai relitti fumanti del rogo in cui sono stati distrutti i libri di Kien, il protagonista di Auto da fé.  Attorno a sé, vede il deserto e un'incombente rovina. Poi, a poco a poco, la scena ricomincia a popolarsi, e le figure che vi si mostrano sono memorabili. Innanzitutto Hermann Broch, che ci viene incontro come "un uccello, grande e bellissimo, ma con le ali mozze". Poi Hermann Scherchen, l'infaticabile direttore d'orchestra "sempre alla ricerca del nuovo". Poi Anna Mahler, figlia del compositore, con la quale Canetti intreccia un complesso rapporto amoroso. Poi lo scultore Fritz Wotruba, irruento e selvaggio, come "una pantera nera che si nutrisse di pietra". Infine Musil, "sempre in armi, pronto alla difesa e all'attacco", nel suo totale isolamento; e Alban Berg, che si espone al mondo nella sua totale gentilezza d'animo, mentre un lieve cenno di ironia gli sfiora la bocca. E, ogni volta, in questi ritratti in movimento, avvertiamo lo straordinario dono fisiognomico di Canetti. Un gesto, un modo di respirare, un accento, una reticenza, tutto diventa cifra di una figura, emblema di un qualcosa di unico, che però svela un tratto della natura di cui siamo fatti. Dietro a quel dono riconosciamo una fonte inesauribile dello scrittore Canetti: la sua "passione per le persone". 
 A mano a mano che si delineano i profili delle figure, risalta anche, come una presenza palpabile, lo sfondo: Vienna. Di questa città, vista nei suoi ultimi anni di grandezza, nessuno ha saputo tracciare un ritratto altrettanto preciso e affascinante. Come la Vienna dell'Uomo senza qualità, sull'orlo della prima guerra mondiale, questa di Canetti, negli anni che precedono l'annessione nazista, è un sistema di orbite planetarie, dove conducono esistenze parallele alcune forme pure ed estreme del vero e del falso. Per Canetti, il vero erano sei o sette persone che "seguivano una propria strada e non se ne lasciavano distogliere da nessuno". Il falso era un fitto "gracidio di rane", che proveniva da un mondo culturale pieno di vanità e di sapienza mondana, prodigiosamente abile nel giocare le sue carte e insieme inconsistente nel suo ultimo fondo. In questi anni, Canetti attraversa tutte queste orbite incompatibili e qui le descrive con la trascinante immediatezza del romanziere. Ma il vero centro di questo sistema, il suo Sole, è una singola persona, il dottor Sonne, che vuole dire appunto "sole". Osservato per lungo tempo ai tavoli del Café Museum, poi conosciuto e ammirato, quest'uomo che "parlava come Musil scriveva" diventa a poco a poco il centro di gravità nella vita di Canetti, un'ombra benefica, un "invisibile" Sarastro. A differenza dei tanti che si gonfiano e che si agitano, Sonne non ha, apparentemente, un'opera a cui dedicarsi e non si lascia prendere dall'eccitazione. Parla di tutto fuorché di sé, e ogni volta la sua parola illumina quella singola cosa che cade sotto il suo sguardo. In una città sonnambolica e straparlante, è colui che veglia, come la luce discreta e solitaria dietro una finestra, di notte. Col personaggio di Sonne, Canetti ha svelato uno dei suoi segreti e costruito una grande figura romanzesca. Ma non soltanto questo: ha trovato l'occulto punto di equilibrio da cui osservare i rotanti  astri viennesi, che solo da quel punto diventano pienamente percepibili. 

 Elias Canetti, premio Nobel 1981 per la letteratura, è nato nel 
1905 a Rustschuk (Bulgaria) da una famiglia ebraica di origine spagnola, ed è vissuto lungamente a Vienna e poi a Londra e Zurigo. Presso Adelphi sono in corso di pubblicazione le sue opere complete. 
  a hera canetti Parte prima - Nozze 
Büchner nel deserto 
 "Kant prende fuoco" (1) - questo 
 era allora il titolo del romanzo - aveva fatto il deserto dentro di me. L'incendio che aveva distrutto i libri era qualcosa che non potevo perdonarmi. Non credo che fosse rimasto in me qualche rammarico per la sorte di Kant (colui che poi sarebbe diventato Kien). Durante tutta la stesura del libro Kant era stato talmente bistrattato e io mi ero talmente tormentato per reprimere ogni compassione verso di lui, per non lasciare in me neppure la minima traccia di compassione, che dal punto di vista dell'autore il mettere fine alla sua esistenza era piuttosto una liberazione.  Ma per questa liberazione erano stati coinvolti i libri, e il fatto che essi fossero finiti in fiamme lo sentivo come se fosse accaduto a me stesso. Mi sembrava di aver sacrificato non soltanto i miei libri personali, ma quelli del mondo intero, perché la biblioteca del sinologo conteneva tutto ciò che aveva qualche valore per il mondo, i libri di tutte le religioni, quelli di tutti i pensatori, quelli delle letterature orientali, quelli delle letterature occidentali, solo che avessero conservato anche un minimo di vita. Il fuoco aveva distrutto tutto questo, io lo avevo permesso senza fare neppure un tentativo di salvare qualcosa, e adesso rimaneva un deserto, non c'era nient'altro che il deserto, e io ne portavo la colpa. Perché ciò che avviene in un libro simile non è mero gioco, è una realtà di cui si deve rispondere, e non tanto di fronte alle critiche esterne quanto davanti a se stessi; e se anche si può essere costretti a scrivere cose simili dall'angoscia più grande, resta pur sempre da riflettere, da domandarsi se con esse non si affretta proprio ciò che si paventa così intensamente. 
 Il senso della rovina era ormai annidato in me, e non potevo liberarmene. Aveva cominciato a imprimersi sette anni prima, attraverso Gli ultimi giorni dell'umanità, ma ora aveva assunto una forma molto personale che scaturiva dalle costanti della mia vita: dal fuoco, di cui il 15 luglio 1927 avevo scoperto la relazione con la massa assistendo all'incendio del Palazzo di 
Giustizia di Vienna; e dai libri, che costituivano la mia frequentazione quotidiana. Sebbene il protagonista del romanzo fosse diverso da me per molti aspetti, ciò che io gli avevo prestato era così essenziale che non potevo riprendermelo intatto, impunemente, dopo che lui aveva raggiunto il suo scopo. 
 Il deserto che mi ero creato con le mie mani cominciò a ricoprire  ogni cosa. La minaccia che incombeva sul mondo in cui si viveva non mi era mai sembrata così pesante come allora, dopo la rovina di 
Kien. L'inquietudine in cui ricaddi somigliava a quella dei giorni in cui avevo abbozzato il progetto della "Comédie humaine dei folli", con la differenza che nel frattempo era accaduto qualcosa di decisivo e io mi sentivo colpevole. Era un'inquietudine che non ignorava la propria causa. Di notte, ma anche di giorno, percorrevo a passi veloci le stesse strade. Neanche lontanamente potevo più pensare di dedicarmi a un altro romanzo o a un libro della serie che una volta avevo progettato: il progetto gigantesco era rimasto soffocato nel fumo del rogo dei libri, senza rimpianto, e al suo posto, dovunque mi trovassi, non riuscivo ormai a vedere più nulla che non fosse minacciato da una catastrofe che poteva sopravvenire da un momento all'altro. 
 Ogni conversazione di cui, passando, coglievo al volo qualche frammento mi sembrava l'ultima. Sotto l'imperio di una forza terribile, ineluttabile, accadeva ciò che doveva accadere negli ultimi momenti. Ma ciò che accadeva alle vittime future si ricollegava nel modo più stretto al loro stesso comportamento. Erano state loro a mettersi nella situazione dalla quale non c'era scampo. Si erano sforzate in ogni e più bizzarra maniera di essere tali da meritare la propria fine. Ogni volta che ascoltavo una 
 conversazione, i due interlocutori mi apparivano tanto colpevoli quanto lo ero io stesso da quando avevo attizzato quel fuoco. Ma mentre questa colpa compenetrava ogni cosa come un etere tutto speciale, senza risparmiare nulla, per il resto gli uomini rimanevano esattamente quelli che erano. Conservavano il loro accento e il loro aspetto, le situazioni in cui si trovavano erano inconfondibilmente le loro proprie, non dipendevano da colui che le osservava e le registrava. Questi si limitava a dare ad esse una direzione e a caricarle della propria paura come di un carburante. Ognuna delle scene a cui assisteva col fiato sospeso e che registrava con la passione dell'osservatore, in cui l'osservare è diventato l'unico dei sensi, si concludeva con la rovina. 
 Egli le annotava precipitosamente e in caratteri 
giganteschi, come graffiti sui muri di una nuova Pompei. Era come la preparazione a un terremoto o a un'eruzione vulcanica: 
qualcuno si rende conto che sta per arrivare, molto presto, inevitabile, e annota ciò che è accaduto prima, ciò che gli uomini hanno fatto prima, divisi dal loro operare e dalle circostanze, ignorando l'approssimarsi del loro destino, inalando col loro respiro quotidiano l'atmosfera dell'asfissia, e proprio per questo, prima ancora che tutto sia davvero cominciato, respirando in una maniera un poco più ostinata e febbrile. Io buttavo sulla carta una scena dopo l'altra, e ciascuna era autonoma, nessuna era legata all'altra, ma ciascuna aveva una conclusione violenta e solo da questa era legata all'altra; e se ora 
 esamino ciò che di esse mi è rimasto nella memoria, mi sembrano come scaturite dai bombardamenti notturni della guerra mondiale che stava per venire. 
 Una scena dopo l'altra, ed erano molte, scritte come di corsa, con una furia ossessiva, e ciascuna portava alla rovina, e subito 
dopo cominciava 
 una scena nuova, con altre persone, e non aveva nulla in comune con la precedente se non la meritata rovina in cui sfociava. Era come un tribunale cui non si poteva sfuggire, che inglobava tutto; e la condanna più dura era inflitta a chi pretendeva di saperne più degli altri. Poiché colui che voleva evitarlo lo portava con sé. Era lui che capiva la mancanza d'amore di quelle persone. Egli le sfiorava passando, le vedeva e già le aveva lasciate indietro, udiva il suono delle loro voci, che non gli usciva più dall'orecchio, lo trasmetteva alle altre che erano altrettanto prive 
d'amore, e quando la testa minacciava di scoppiargli per l'accumularsi delle voci dell'egoismo, allora si sentiva costretto a mettere sulla carta le più incalzanti. 
 In quelle settimane la cosa che mi tormentava di più era la mia stanza nella Hagenberggasse. Da oltre un anno convivevo con le riproduzioni della pala di Isenheim, che mi erano penetrate nel sangue con gli spietati particolari della crocifissione. Finché ero occupato a scrivere il romanzo mi sembrava che fossero al posto giusto, come un aculeo insistente mi pungolavano sempre nella stessa direzione. Erano ciò che io volevo sopportare, 
non mi ci assuefacevo, non le perdevo mai di vista, si trasformavano in qualcosa che apparentemente non aveva niente in comune con loro: chi potrebbe essere così temerario e così mentecatto da paragonare le sofferenze del sinologo con quelle del Cristo? Eppure si era stabilito come un legame tra le riproduzioni alle pareti e i capitoli del libro. Quelle immagini mi 
erano diventate così necessarie che non le avrei mai sostituite con nient'altro. Non valeva a dissuadermi neanche il raccapriccio delle poche persone che venivano a trovarmi. 
 Ma quando le fiamme ebbero divorato la biblioteca e il sinologo, 
avvenne  uno strano cambiamento, qualcosa che non mi ero aspettato. 
Grünewald ricuperò tutta intera la sua forza. Non appena smisi di lavorare al romanzo il pittore tornò ad essere lì soltanto per se stesso, e lui solo rimase operante nel deserto che io avevo creato. Quando rincasavo, la vista delle pareti della mia stanza  mi riempiva di paura. Tutto ciò che di minaccioso io sentivo prendeva nuovo vigore in Grünewald. 
 In quei giorni neanche la lettura poteva soccorrermi. Non solo  avevo perduto il mio diritto ai libri perché li avevo sacrificati in nome di un romanzo, ma anche quando mi costringevo a superare questo senso di colpa e allungavo la mano per prenderne uno, come se ci fosse ancora, come se il fuoco non l'avesse bruciato e annientato, quando mi costringevo anche a leggerlo, subito ero preso dal disgusto, e il disgusto era tanto più forte per i libri che conoscevo meglio, per quelli che amavo da più tempo. Ricordo la sera in cui la nausea fu causata da Stendhal, che pure mi aveva stimolato al lavoro per un anno, ogni giorno. Lasciai cadere il libro in un impeto di collera, e non sul tavolo, ma sul pavimento, ed ero così disperato per la delusione provata che non lo raccattai neppure ma lo lasciai dov'era. Un altro giorno mi venne l'idea assurda di provare con Gogol", e questa volta perfino Il cappotto mi parve così insulso e arbitrario che mi domandai che cosa potevo aver trovato di tanto eccitante in quella storia. Nessuna delle cose care che mi avevano formato poteva aiutarmi. Forse con l'incendio dei libri avevo davvero distrutto tutto il passato. In apparenza i libri erano ancora lì, ma il loro contenuto era bruciato, in me non ne era rimasto più niente, e ogni tentativo di rianimare le ceneri provocava collera e resistenza. Dopo alcuni penosi tentativi, tutti falliti, non presi più in mano nulla. La libreria, con i volumi stessi che avevo letto infinite volte, rimase intatta. Era come se addirittura i libri non ci fossero più: io non li vedevo nemmeno, non li cercavo, e il deserto intorno a me era diventato totale. 
 Poi, una notte, in una condizione di spirito che non poteva essere più sconsolata, trovai la salvezza in qualcosa di sconosciuto, qualcosa che era lì già da tempo ma non avevo mai toccato. Era un libro di Büchner, alto, stampato a grossi caratteri, rilegato in tela gialla, collocato nello scaffale in modo tale che non si poteva non vederlo, accanto a quattro volumi delle opere di Kleist, nella stessa edizione, di cui ogni singola lettera mi era familiare. Sembrerà incredibile, ma non avevo mai letto Büchner. Sapevo benissimo quanto fosse importante, e probabilmente sapevo anche che per me avrebbe avuto ancora molta importanza. Potevano essere passati due anni da quando avevo messo gli occhi su quel volume nella libreria Vienna della Bognergasse, l'avevo comprato, portato a casa e collocato accanto alle opere di Kleist. 

 Tra le cose essenziali che si preparano dentro di noi vi sono gli incontri rinviati. Può trattarsi di luoghi e di uomini, di quadri come di libri. Vi sono città per le quali provo un'attrazione così forte come se fossi predestinato a trascorrervi una vita intera fin dall'inizio. Con mille astuzie evito di andarvi, e ogni volta che si presenta l'occasione di visitarle e vi rinuncio, sento aumentare a tal segno la loro importanza che si potrebbe quasi pensare che io sono ancora al mondo soltanto per quelle città e che sarei già scomparso da un pezzo se non ci fossero loro che continuano ad aspettarmi. Vi sono persone di cui mi piace sentir parlare, e allora ascolto quanto più è possibile e con tale avidità che si potrebbe quasi pensare che in fondo so di loro più di quanto ne sappiano esse stesse - ma evito di guardare una loro fotografia e mi sottraggo a ogni raffigurazione visiva, come se un divieto particolare e legittimo impedisse di conoscere la loro faccia. Vi sono anche persone che mi incontrano per anni sul medesimo percorso, che mi danno motivo di riflettere e mi appaiono come enigmi di cui sono chiamato a trovare la soluzione, e tuttavia io non rivolgo loro la parola, proseguo in silenzio per la mia strada, come esse fanno con me, e tutt'e due ci scambiamo sguardi interrogativi, tutt'e due teniamo le labbra ben chiuse: io penso a quello che sarà il nostro primo colloquio e mi eccito all'idea di tutte le cose inaspettate che scoprirò allora. E infine vi sono persone che amo da anni senza che esse possano averne il minimo sospetto, e intanto io divento sempre più vecchio, e ormai deve apparire come un'assurda illusione l'idea che io glielo dica mai, sebbene io viva sempre nell'attesa di questo momento stupendo. Senza questo minuzioso prepararmi al futuro non sarei capace di vivere, e per me, se mi studio attentamente, questi preparativi non sono meno importanti delle improvvise sorprese che arrivano come dal nulla e lasciano senza parola. 
 Non vorrei nominare i libri ai quali continuo ancora oggi a prepararmi. La lista comprende alcune delle opere più celebri della letteratura mondiale, opere del cui valore non potrei dubitare perché hanno avuto in passato il consenso di tutti coloro le cui opinioni sono state per me determinanti. E" evidente che l'imbattersi in uno di tali libri dopo vent'anni di attesa diventa qualcosa di sconvolgente: forse solo così è possibile arrivare a quelle resurrezioni spirituali che ti preservano dalle 
conseguenze della routine e della decadenza. Allora, in ogni modo, si dava il caso che io, a ventisei anni, conoscessi da tempo il nome di Büchner e che da due anni avessi in casa un volume piuttosto appariscente con le sue opere. 
 Una notte, in un momento di estrema disperazione - ero sicuro che non avrei più scritto una riga, ero sicuro che non avrei più potuto leggere una riga -, allungai la mano verso il volume giallo e lo aprii a caso: era una scena del Wozzeck (a quel tempo si  usava ancora questa grafia), esattamente quella in cui il dottore parla a Wozzeck. Fu come se il fulmine mi avesse colpito. Lessi quella scena, tutte le altre del frammento, rilessi l'intero frammento più volte, non so quante, ma dovettero essere innumerevoli  perché lessi tutta la notte, non lessi nient'altro nel volume giallo, sempre ricominciando dal principio il Wozzeck, ed ero in un tale stato di eccitazione che uscii di casa prima delle sei del mattino e corsi giù alla ferrovia urbana. Lì presi il primo treno che portava in città, mi precipitai nella Ferdinandstrasse e svegliai Veza dal sonno. 
 Alla porta non c'era la catena, e io avevo la chiave dell'appartamento. Avevamo deciso così per il caso che un'inquietudine improvvisa mi spingesse fuori di casa di buon mattino, ma il nostro amore resisteva già da sei anni e non era mai  accaduto niente di simile. Se adesso accadeva per la prima volta, sotto l'effetto di Büchner, Veza non poteva non esserne allarmata.  
 Veza aveva respirato di sollievo quando si era concluso l'anno ascetico dedicato al romanzo, e forse nessun lettore, in seguito, ha provato un uguale senso di liberazione allorché il lungo e magro sinologo muore tra le fiamme. Veza aveva temuto nuove svolte, una ripresa e un proseguimento della vicenda. Prima di scrivere l'ultimo capitolo, "Il gallo rosso", mi ero concesso qualche settimana di pausa, e Veza aveva male interpretato quell'indugio come un mio dubbio sulla conclusione del romanzo. Immaginava che Georges, nel viaggio di ritorno, fosse preso da scrupoli improvvisi e si rendesse conto all'ultimo momento, ma ancora in tempo, delle vere condizioni di spirito del fratello: 
come aveva potuto abbandonarlo così! Alla prima stazione scendeva dal treno e ripartiva in senso inverso. Era di nuovo davanti alla casa di 
Kien e ne forzava l'ingresso. Senza tanti complimenti lo impacchettava e se lo portava a Parigi per farne uno dei suoi pazienti. Un paziente insolito, certamente, che si opponeva al fratello con tutte le forze, ma ogni resistenza era inutile, e a poco a poco anche lui trovava in Georges il suo padrone. 
 Veza sospettava che mi stuzzicasse l'idea di far proseguire, in quella nuova situazione, la lotta tra i due fratelli, il loro dialogo occulto che si era avviato in un lungo capitolo senza tuttavia esaurirsi. Alla notizia che finalmente "Il 
 gallo rosso" 
 era scritto, che il sinologo era riuscito nel suo intento, Veza aveva reagito dapprima con incredulità. Pensava che io volessi placarla, perché mi erano ben noti i suoi dubbi sul mio modo di vivere in tutto quel periodo. Nella terza parte del romanzo c'erano molte cose che le erano penetrate fin nelle ossa, e Veza si era messa in testa che quel frugare senza fine nella mania di persecuzione del sinologo non poteva non avere effetti perniciosi sul mio stesso stato mentale. Nessuna meraviglia, dunque, se Veza aveva respirato di sollievo ascoltando la lettura dell'ultimo capitolo; e mentre per me cominciava il periodo peggiore, quello che ho chiamato il "tempo del deserto", lei avrebbe voluto credere che il peggio era passato. 
 Ma si accorse che proprio adesso mi tenevo alla larga da lei come 
da tutti gli altri, e benché in verità, per il momento, non facessi nulla di particolare, non trovavo tempo né per lei né per i pochi amici. Quando poi ci incontravamo, ero taciturno e imbronciato, mentre tra noi non c'era mai stato questo tipo di silenzio. Una volta Veza perse talmente il controllo da dire: "Da quando è morto, quel tuo uomo dei libri ti è entrato nel sangue, e tu sei come lui. E" il tuo modo di prendere il lutto per la sua morte". Veza aveva con me una pazienza infinita, ma io non le perdonavo il senso di liberazione che provava per la fine del sinologo. E quando una volta mi disse: "Peccato che la tua Therese non sia una vedova indiana, altrimenti avrebbe dovuto buttarsi nel fuoco anche lei", io ribattei con rabbia: "Lui aveva amici migliori di una donna, aveva i suoi libri, che conoscevano il loro dovere e sono bruciati con lui". 
 Da allora Veza si aspettava che mi facessi vivo improvvisamente, una notte o una mattina, con la notizia che temeva più d'ogni altra: che cioè avessi cambiato parere sull'ultimo capitolo e lo avessi cancellato, anche perché non era scritto nello stesso stile del resto del libro. Così Kant ritornava in vita e tutto ricominciava da capo, come se il romanzo continuasse in un secondo volume, ciò che mi avrebbe tenuto occupato almeno per un altro anno. 
 Veza si spaventò molto quando la svegliai dal sonno in quel 
mattino 
 büchneriano. "Ti meravigli che io venga così presto? Finora non è mai successo". "No," disse lei "ti aspettavo"; e già pensava disperata al modo di distogliermi dal dare un seguito al romanzo. 
 Ma io attaccai subito con Büchner. Conosceva il Wozzeck? 
Naturalmente: chi non lo conosceva? Lo disse con impazienza, aspettando il peggio, proprio quello che secondo lei mi stava veramente a cuore. Nel tono della sua risposta c'era qualcosa di sprezzante, e io mi sentii offeso per Büchner. 
 "Ma come? Tu tratti il Wozzeck come una cosa da niente?".  La mia reazione fu così minacciosa e ostile che Veza capì all'improvviso di che cosa si trattava.  "Chi? Io? Ma che cosa credi? Per me è il dramma più grande di tutta la letteratura tedesca".  Non credevo alle mie orecchie, e dissi così per dire: "Però è soltanto un frammento!". 
 "Frammento! Frammento! Lo chiami un frammento? Quello che manca è ancora meglio di quello che c'è negli altri drammi, nei migliori. Bisognerebbe averne tanti, di frammenti così".  "Ma tu non mi hai mai parlato del Wozzeck. E" molto che conosci Büchner?".  
 "Lo conoscevo prima di conoscere te. L'ho letto piuttosto presto. Al tempo in cui mi sono imbattuta nei diari di Hebbel e in 
Lichtenberg". 
 "Ma hai sempre taciuto! I brani di Hebbel e di 
Lichtenberg me li hai mostrati spesso, ma del Wozzeck mai  una parola. Si può sapere perché? Perché?".  "L'ho nascosto, addirittura. Il volume di Büchner non saresti riuscito a trovarlo in casa mia". 
 "Ho passato tutta la notte a leggere il Wozzeck. A leggerlo e a rileggerlo. Non volevo credere che esistesse qualcosa di simile. Non ci credo ancora. Sono venuto a dirti quello che meriti. Prima ho pensato che forse non lo conoscevi. Ma poi mi sono reso conto che non era possibile. Con tutto il tuo amore per la letteratura, come potevi non conoscerlo? E infatti lo conosci, naturalmente. Ma me l'hai tenuto nascosto. Da sei anni parliamo di tutte le cose meravigliose che ci sono. Büchner non l'hai nominato una sola volta. E adesso vieni a dirmi che mi hai tenuto nascosto il libro. Non è possibile. Conosco ogni angolo della tua stanza. Dammi la prova! Mostramelo! Dove l'hai nascosto? E" un grosso volume giallo. Non è così facile nasconderlo".  "Non è né grosso né giallo. E" un'edizione in carta India. 
Adesso vedrai con i tuoi occhi". 
 Aprì l'armadio in cui custodiva i suoi libri più cari. Pensai al momento in cui me l'aveva fatto vedere la prima volta. Ormai lo conoscevo meglio delle mie tasche. E il Büchner era nascosto lì? Veza tolse alcuni volumi di Victor Hugo. Dietro, schiacciata di piatto contro il fondo dell'armadio, c'era l'edizione di 
 Büchner dell'InselVerlag. Veza mi porse il volume. A me non piaceva vederlo in quel formato ridotto. Avevo ancora negli occhi i grandi caratteri della notte, e ormai volevo averlo sempre davanti con quegli stessi caratteri. 
 "Mi hai nascosto qualche altro libro?". 
 "No, questo è l'unico. Sapevo che non avresti mai tirato fuori un libro di Victor Hugo, perché non t'interessa. Lì dietro, Büchner era al sicuro. Del resto, proprio lui ha tradotto due drammi di Victor Hugo". (2)  Me lo mostrò, e io, irritato, le restituii il volume. 
 "Ma perché, insomma? Perché me l'hai nascosto?". 
 "Dovresti essere contento di non averlo letto. Se no, credi che saresti stato capace di scrivere qualcosa? 
 Büchner è anche il più moderno di tutti gli scrittori. Potrebbe essere di oggi, solo che oggi nessuno è come lui. Non si può prenderlo a modello. Si può solo vergognarsi e dire: "A che scopo scrivere?". Si può solo tenere la bocca chiusa. Io non volevo che tu tenessi la bocca chiusa. Io credo in te". 
 "Nonostante Büchner?". 
 "Di questo non voglio parlare, per il momento. Ci devono pur essere cose che restano irraggiungibili. Ma l'irraggiungibile non deve schiacciarci. Adesso che hai finito il romanzo, devi leggere qualche altra cosa ancora. C'è un altro frammento di Büchner, un racconto: Lenz. Leggilo subito!". 
 Mi sedetti e senza dire altro lessi il più meraviglioso brano di prosa. Dopo la notte del Wozzeck spuntava il mattino del Lenz, senza  un attimo di sonno tra l'uno e l'altro. E io vidi crollare in pezzi il mio romanzo: l'opera di cui ero stato così fiero non era più che polvere e cenere. 
 Fu un duro colpo, ma salutare. Veza, dopo avere ascoltato la lettura di tutti i capitoli di "Kant prende fuoco", mi giudicava uno scrittore di teatro. Era vissuta nel timore che non trovassi più la strada per uscire dal romanzo. Aveva visto come vi ero rimasto irretito e quanto mi aveva coinvolto. Fosse quel romanzo o un altro, uno nuovo, al quale potevo accingermi, Veza scopriva in  me la fatale inclinazione a imprese che si protraevano per 
anni. Ricordava gli abbozzi per 
 una "Comédie humaine dei folli", quella serie di romanzi di cui le avevo parlato spesso. La vista dello Stein 
 -hof dalla mia finestra, che all'inizio le aveva fatto tanta impressione, non le piaceva più da un pezzo. Aveva la sensazione che con la stesura del romanzo fosse ancora cresciuto il fascino che gli invasati e gli anormali esercitavano su di me. Anche la mia  amicizia con Thomas Marek (3) la preoccupava. La mia solidarietà con Marek era veemente e aggressiva, e una volta, quando ero arrivato al punto di sostenere che quel giovane paralitico contava più di tutti quelli che se ne vanno in giro ignari e ingrati sulle loro gambe, lei mi aveva contraddetto rimproverandomi la mia stravaganza. 
 Veza era davvero in ansia per me. Nel mio romanzo, nel capitolo intitolato "Un manicomio", c'era una dichiarazione d'amore a tutti coloro che passano per matti, e lei ne aveva tratto la convinzione che io avessi varcato un confine pericoloso. La tendenza all'isolamento, l'ammirazione per chiunque fosse diverso, il desiderio di abbattere tutti i ponti tra noi e  una umanità inferiore - tutto questo le dava molto da pensare. A proposito delle allucinazioni di certe persone di mia conoscenza mi ero espresso con lei in termini ammirativi, come se fossero opere d'arte perfette, e mi ero sforzato di ricostruire passo per passo la genesi di una di quelle allucinazioni. Veza, anche per motivi estetici, si era spesso mostrata infastidita dalla minuziosità con cui avevo ricostruito un caso di mania di persecuzione, e io usavo ribattere che non si poteva fare altrimenti, che ogni particolare, ogni minimo passo aveva la sua importanza. Scendevo in campo contro precedenti rappresentazioni della follia nella letteratura e cercavo di dimostrarle quanto poco corrispondessero alla realtà. Veza pensava che doveva pur essere possibile rappresentare quelle situazioni in una forma condensata e quindi ottenendo un'efficacia maggiore. Ma io obiettavo, nella maniera più energica, che allora non veniva a galla la verità, bensì l'autocompiacimento degli autori, la loro vanità di pavoni. 
Bisognava finalmente decidersi a capire che la follia non ha niente di spregevole, essendo un fenomeno pieno di significati e di relazioni particolari che cambiano da un caso all'altro. Lei negava tutto questo ed era pronta a difendere, contro la sua natura e solo per il mio bene, le classificazioni dominanti nella psichiatria. In questa sua difesa mostrava una certa propensione per il concetto di "pazzia maniacodepressiva", mentre aveva qualche riserva a proposito della "schizofrenia", che allora stava diventando un concetto di moda. 
 Sapevo bene che Veza in realtà mirava soprattutto a distogliermi da quel genere di romanzi. Io ero deciso, ferocemente deciso, a non lasciarmi consigliare da nessuno, neanche da lei, e contrapponevo come un'arma quello che consideravo un romanzo riuscito. Anche se mi sentivo colpevole come incendiario e soffrivo molto di questa colpa, ciò non toglieva nulla alla qualità del romanzo, di cui ero fermamente convinto. Sebbene, ora che l'avevo finito, tutto mi spingesse verso il teatro drammatico, non potevo assolutamente escludere che  dopo un periodo di esaurimento mi sarei dedicato a un altro romanzo, non meno lungo, che di nuovo avrebbe avuto per tema un caso di follia. 
 Ma la notte in cui avevo scoperto il Wozzeck e la mattina seguente in cui il Lenz mi aveva sorpreso in uno stato di eccitata spossatezza, ebbero effetti decisivi. In poche pagine avevo trovato tutto ciò che si poteva dire sulla peculiarità della condizione di spirito di Lenz, e sarebbe stato terribile immaginare  tutto questo nella forma minuziosa di un romanzo. L'orgoglio e la tracotanza mi avevano abbandonato. Non scrissi un altro romanzo, e passarono mesi prima che ritrovassi la mia fiducia in "Kant prende fuoco". Ma allora ero già tutto preso dal progetto di un dramma: Nozze. 
 Se adesso dico che non avrei scritto Nozze senza la folgorazione notturna del Wozzeck potrà sembrare sulle prime un'esagerazione. Ma non posso aggirare la verità solo per evitare questa impressione. Non devo farlo. Le visioni di rovina che avevo allineato fino allora risentivano pur sempre dell'influsso di Karl Kraus. Tutto ciò che accadeva, e accadeva sempre il peggio,  accadeva senza motivo e accadeva per giustapposizione, una cosa accanto all'altra. Veniva captato da uno scrittore ed era messo alla gogna, irriso. Era irriso dall'esterno, appunto da colui che scriveva, e su tutte le scene dello sfacelo lui teneva alta la sua frusta. La frusta non gli dava requie, lo incalzava continuamente, e lui si fermava solo quando c'era qualcosa da frustare; ma non appena la punizione era inflitta, la frusta tornava a incalzarlo. 
In fondo accadeva sempre di nuovo la stessa cosa: gli uomini, nelle loro faccende più quotidiane, pronunciavano le frasi più banali stando ignari sull'orlo dell'abisso. Allora arrivava la frusta, li spingeva giù, ed era lo stesso abisso quello in cui 
cadevano tutti. Non c'era nulla che potesse salvarli dall'abisso. Perché le loro frasi non cambiavano mai, erano commisurate alla loro statura, e colui che aveva preso le loro misure era sempre lo stesso, lo scrittore con la frusta. 
 Il Wozzeck mi aveva fatto scoprire una cosa per la quale trovai un nome solo in seguito, quando la chiamai autoirrisione. Se si esclude il protagonista, i personaggi che fanno l'impressione  più forte si presentano da sé. Il dottore e il tamburo maggiore infieriscono su ciò che li circonda. Aggrediscono,  ma in modi così diversi che si esita a usare per entrambi la stessa parola "aggressione". Eppure è un'aggressione, e come tale agisce su Wozzeck. Le loro parole, che non sono intercambiabili,  si rivolgono contro Wozzeck e hanno le conseguenze più terribili. Ma le hanno solo in quanto rappresentano se stesse, e cioè il parlante, il quale, col proprio io, vibra un perfido colpo, un colpo che non si può dimenticare e dal quale lo si riconoscerebbe sempre e dappertutto. 
 I personaggi, come ho detto, si presentano da sé. Nessuno li ha spinti avanti a frustate. Come se fosse la cosa più naturale del mondo, si mettono alla gogna da sé, e in questo comportamento c'è più irrisione che punizione. Stanno davanti a noi, comunque siano, prima che su di loro sia stato pronunciato un giudizio morale. Certo, si pensa ad essi con disgusto, ma al disgusto si mescola la soddisfazione, perché si presentano senza immaginare 
l'orrore che suscitano. C'è una specie di innocenza nell'autoirrisione: non è stata ancora tesa una rete giuridica che la riguardi, una rete che, se mai, potrà essere gettata su di essa in seguito; ma nessun atto d'accusa, neanche quello del satirico più violento, potrebbe avere il peso dell'autoirrisione, poiché questa comprende anche lo spazio in cui un uomo esiste, anche il suo ritmo, la sua paura, i suoi respiri. 
 E" giusto che a queste creature si conceda senza riserve il pieno uso della parola "io" che il satirico puro non riconosce a nessuno, tranne che a se stesso. La vitalità di questo "io" immediato, non chiuso tra parentesi, è enorme. Questo "io" dice di sé più di qualsiasi giudice. Per il giudicante quasi tutto è contenuto nella terza persona, e perfino il discorso diretto, nel quale si dicono le cose peggiori, è usurpato. Solo quando ricade nel suo io il giudice è presente in tutta la terribilità degli atti che compie, ma allora anche lui è diventato personaggio ed è lui, il giudicante, a presentarsi ignaro nella sua autoirrisione. 
 Il capitano, il dottore, il reboante tamburo maggiore fanno la loro apparizione come per forza spontanea. Nessuno ha prestato loro la voce, essi dicono il proprio io, si scatenano tutti sulla stessa persona, appunto Wozzeck, e affermano la propria esistenza in quanto lo colpiscono. Egli serve a tutti e tre, è il loro centro. Senza di lui non esisterebbero, ma Wozzeck lo ignora, non meno di quei tre; e si potrebbe perfino sostenere che egli trasmette ai suoi tormentatori il contagio della propria innocenza. Essi non possono essere diversi da quello che sono, è nella natura dell'autoirrisione comunicare questa impressione. La forza di questi personaggi, di tutti i personaggi è la loro innocenza. Si deve odiare il capitano, si deve odiare il dottore perché potrebbero essere diversi, solo che lo volessero? Si deve sperare in una loro conversione? Deve forse il dramma essere una scuola missionaria che i personaggi frequenteranno fino a quando si lasceranno descrivere in maniera diversa? Il satirico si aspetta dagli uomini che siano diversi. Li frusta come se fossero scolaretti. Li prepara per tribunali morali a cui essi dovranno forse rispondere un giorno. Sa perfino come potrebbero essere migliori. Dove attinge questa incrollabile sicurezza? Se non l'avesse, non potrebbe neppure mettersi a scrivere. Tutto comincia perché lui è impavido come Dio. Senza dirlo esplicitamente, il satirico è il rappresentante di Dio e si sente a suo agio in questa veste. Non si sofferma nemmeno un attimo a pensare che forse lui non è proprio Dio. Dal momento che questa istanza esiste, l'istanza suprema, da essa discende un potere di rappresentanza: si tratta solo di conquistarlo. 
 Ma c'è anche un altro atteggiamento, totalmente diverso, che  si vota alle creature e non a Dio, un atteggiamento che s'interessa alle creature in opposizione a Dio e forse arriva fino al punto di prescindere interamente da lui per occuparsi solo delle creature. Allora appare l'immutabilità delle creature, per quanto si possa volerle diverse da quelle che sono. Con l'odio o con le pene non si ottiene nulla dagli uomini. Gli uomini si accusano presentandosi come sono, ma è la loro autoaccusa, non l'accusa di un 
altro. La giustizia dello scrittore non può consistere nel condannarli. Egli può individuare colui che è la loro vittima e mostrare tutte le loro tracce su di lui come impronte digitali. Il 
mondo pullula di tali vittime, ma sembra che la maggiore difficoltà stia nel prendere una vittima e nel farne un personaggio, nel farla parlare in modo che le tracce rimangano riconoscibili e non si cancellino nelle accuse. Wozzeck è questo personaggio, e il dramma ci fa vivere ciò che egli subisce di volta in volta, e non c'è da aggiungere neanche una parola di accusa. In lui sono riconoscibili le tracce delle autoirrisioni. Quelli che si sono scatenati contro di lui sono davanti a noi, e quando per lui è la fine essi rimangono in vita. Il frammento non mostra come finisce Wozzeck: mostra ciò che egli fa, la sua autoirrisione dopo quelle degli altri. 
NOTE:
(1) In tedesco Kant fängt Feuer: era il titolo primitivo del romanzo che Canetti aveva terminato nel 1931 e che pubblicò nel 1935 col titolo Die Blendung ("L'abbagliamento"). Per l'edizione inglese del 1946 e per quella italiana del 1967 l'autore ritornò al concetto del fuoco scegliendo il titolo Auto da fé. Alla genesi del romanzo Canetti ha dedicato il saggio "Il mio primo libro: 
Auto da fé nel volume La coscienza delle parole (Adelphi, Milano, 1984, pp" 327-344). Si veda anche il capitolo finale di Il frutto del fuoco. Storia di una vita (1921-1931) (Adelphi, Milano, 1982) 
?N" d'T"*. 
(2) I due drammi tradotti da Büchner sono Lucrezia Borgia e Maria Tudor ?N" d'T"*
.  
(3) Per l'amicizia di Canetti con Thomas Marek, un geniale studente di filosofia paralizzato alle braccia e alle gambe, si veda Il frutto del fuoco, ai capitoli "L'ammansimento", "Il sostegno della famiglia" e "Passi falsi" ?N" d'T"*. 
Occhio e respiro 
 I miei rapporti con Hermann Broch furono segnati, più di quanto  avvenga di solito, dalle circostanze del nostro primo incontro. Io dovevo tenere una lettura del mio dramma Nozze nella casa di Maria Lazar, una scrittrice viennese che entrambi conoscevamo. 
C'erano alcuni invitati. Due di questi erano Ernst Fischer e sua moglie Ruth, ma non so più chi fossero gli altri. Broch aveva promesso di venire, tutti lo aspettavano, ma era in ritardo. Stavo  già per cominciare quando lo vidi arrivare, all'ultimo momento,  in compagnia di Brody, il suo editore. Ci fu appena il tempo per una rapida presentazione: prima ancora che ci fossimo scambiati qualche parola, diedi inizio alla lettura. 
 Maria Lazar aveva raccontato a Broch quanto io ammirassi I sonnambuli, che avevo letto nell'estate di quel 1932. Lui non conosceva niente di mio, né poteva, dal momento che niente avevo pubblicato. Dopo l'impressione che avevo ricevuto dalla trilogia I sonnambuli, e soprattutto da uno dei volumi, Huguenau, vedevo in lui un grande scrittore, mentre io ero per lui un giovane scrittore che lo ammirava. Poteva essere la metà di ottobre, e avevo terminato Nozze sette od otto mesi prima. Avevo letto il dramma ad alcuni amici, separatamente, ed erano amici che avevano una certa fiducia in me. Non era mai accaduto che si trovassero insieme in buon numero. 
 A Broch, e questo è il punto importante, capitò così di ascoltare l'intero dramma in un colpo solo, in tutta la sua violenza, e senza sapere niente di me. Io lessi con passione, i 
personaggi presero vita e spicco a uno a 
 uno, ben definiti dalle loro maschere acustiche - in questo non  è più cambiato niente, in tanti anni che sono passati. Durò più di due ore, e lessi tutto d'un fiato. L'atmosfera era densa, compatta: oltre Veza e me ci sarà stata forse una dozzina di persone, ma la loro presenza si faceva sentire come se il pubblico fosse ben più numeroso. 
 Avevo Broch proprio davanti a me, e mi colpì il modo in cui seguiva la lettura. La sua testa da uccello sembrava un po'' incassata tra le spalle. Notai i suoi occhi durante la scena del portinaio Kokosch, l'ultima del prologo, quella che adesso mi è cara più di tutte le altre. La battuta che la Kokosch morente rivolge al marito: "Ehi tu, devo dirti una cosa", la battuta che è 
costretta a ricominciare più volte e che non riesce a 
terminare, segna per me il momento dell'incontro con gli occhi di 
Broch. Se gli occhi potessero respirare, quelli avrebbero trattenuto il fiato. Aspettavano che la frase fosse pronunciata fino in fondo, e quegli attimi di sospensione e di disperati tentativi erano riempiti dalle parole di Kokosch che raccontava la fine di Sansone. Era una doppia lettura, e al dialogo ad alta voce, che ormai non c'era più perché Kokosch non ascoltava le parole della moribonda, era subentrato un dialogo sotterraneo, tra gli occhi di Broch, che si erano concentrati sulla moribonda, e me, che  ricominciavo ogni volta quella battuta e mi facevo interrompere dalle frasi bibliche del portinaio. 
 Questo accadeva nella prima mezz'ora della lettura. Poi venne il  dramma vero e proprio, che cominciava con una grande spudoratezza della quale però non mi vergognavo affatto, allora, tanto mi riusciva odiosa. Forse non avevo un'idea precisa del realismo di 
quelle scene disgustose. Una fonte 
 era Karl Kraus, ma vi era stato anche un altro influsso: quello di 
George Grosz, del quale avevo ammirato e detestato la cartella dell'Ecce homo. Per la maggior parte si trattava di cose che avevo udito con le mie orecchie. 
 Quando leggevo ad altri le squallide scene centrali non prestavo mai attenzione a ciò che mi circondava. Era abbastanza naturale: a un certo punto, sei come invasato e allora credi di librarti nell'aria, trasportato da frasi volgari e terribili che non hanno niente, assolutamente niente a che fare con te ma ti esaltano sempre più, ti gonfiano a tal segno che cominci a volare sulle loro ali - come uno sciamano, forse, sebbene a quel tempo non potessi saperlo. 
 Ma quella sera le cose andarono diversamente. Durante tutta la parte centrale del dramma sentii la presenza di Broch. Il suo silenzio era più tangibile di quello degli altri. Broch si tratteneva, così come si trattiene il respiro. Non sapevo quale fosse esattamente il meccanismo, ma sentivo che aveva a che fare con la respirazione, e credo di essermi reso conto, quella sera, che Broch respirava in maniera diversa da tutti gli altri. Contro il chiasso spaventoso che facevano i miei personaggi s'innalzava il suo silenzio. Era un silenzio che aveva un che di corporeo ed era voluto e manovrato da lui, un silenzio che si produceva da sé: oggi so che dipendeva dal suo modo di respirare. 
 Nella terza parte del dramma, col crollo vero e proprio e con la danza dei morti, non avvertii più nulla di ciò che mi accadeva intorno. Trascinato dallo sforzo e dalla tensione, ero così preso dal ritmo, che in quelle scene è l'elemento decisivo, da non 
poter individuare le reazioni di questo o 
quell'ascoltatore; e quando ebbi finito mi ero dimenticato perfino della presenza di Broch. Avevo perso la nozione del tempo, doveva essere successo qualcosa, e può darsi che fossi tornato nella stanza in cui avevamo aspettato l'arrivo di Broch. Fatto sta che egli mi rivolse la parola e disse che non avrebbe scritto il suo dramma se avesse conosciuto Nozze. (Sembra che proprio allora stesse lavorando a un dramma, e sarà stato quello che fu poi rappresentato a Zurigo). 
 Disse altre frasi che preferisco non riportare, sebbene rivelassero con quale acutezza era penetrato nella genesi del dramma. Io non conoscevo ancora Broch, ma capivo che era scosso, che c'era stata una vera partecipazione. Brody, il suo editore, si limitò a un sorriso cerimonioso, un ghigno che non mi piacque affatto. Per lui non era successo niente, forse lo avevano irritato i furibondi attacchi alla borghesia, ma non voleva farlo vedere e si nascondeva dietro la cerimoniosità. Ma forse Brody era  sempre così, non si lasciava mai scuotere. Non saprei dire che cosa lo legasse veramente a Broch, ma non c'era dubbio che era suo amico. 
 I due non si trattennero a lungo, 
 erano già attesi da qualche altra parte. Broch, sebbene fosse arrivato in compagnia del suo editore e questa circostanza facesse pensare a un certo sussiego, mi sembrò alla fine della lettura un uomo assai fragile. Era una bellissima fragilità che aveva il suo presupposto in un animo sensibile e dipendeva dagli avvenimenti e dalle oscillazioni nei rapporti tra le persone. Ai più sembrerà debolezza, ma io posso permettermi di chiamarla così perché la considero un privilegio, anzi una virtù, quando arriva a un tale grado di consapevolezza. Quando però sento parlare della "debolezza" di Broch da persone dell'ambiente mercantile, quello in cui egli era vissuto, o di altri ambienti simili, mi viene  una gran voglia di farle tacere con uno schiaffo. 
 Non mi riesce facile scrivere di Broch, perché non so come rendergli giustizia. Dovrei ricordare la trepidazione con cui mi avvicinai a lui, la corte impetuosa che gli feci fin dall'inizio e alla quale cercava di sottrarsi, la cieca fiducia che mi faceva  apprezzare tutto di lui, la bellezza dei suoi occhi, in cui mi sembrava di leggere tutto fuorché il calcolo: che cosa non ho visto di nobile in lui, e con quanta ingenuità e leggerezza mi sono lasciato andare a una specie di fanatismo senza nascondere la mia immensa ignoranza! Per quanto avessi uno spirito aperto e ansioso di sapere, questa ansia non aveva ancora dato i suoi frutti. Oggi, se provo a misurare quello che ero, mi rendo conto che avevo imparato ben poco, e addirittura nulla nel campo in cui Broch aveva una preparazione particolare: la filosofia contemporanea. Aveva una biblioteca principalmente filosofica e non rifuggiva, come me, dal mondo dei concetti, ai quali era dedito come altri sono dediti ai locali notturni. 
 Broch è stato il primo "debole" che ho incontrato. Non gli interessava vincere e neanche prevalere e meno che mai mettersi in mostra. Si guardava bene dall'enunciare grandi propositi, perché gli ripugnava profondamente, mentre io non sapevo pronunciare due frasi senza dire: "Ci scriverò sopra un libro" - non riuscivo a esprimere un pensiero o forse soltanto un'osservazione senza aggiungere subito: "Ci scriverò sopra un libro". Ma la mia non era pura millanteria, perché avevo scritto un lungo libro, "Kant prende fuoco", e il manoscritto era già pronto, anche se pochi ne conoscevano l'esistenza, mentre mi ero prefisso di dedicare la vita a un altro libro, per me molto più importante, 
quello sulla massa, per il quale esistevano al momento soltanto alcune esperienze, che però andavano molto in profondità,  e ampie e voraci letture che ad essa ritenevo collegate - mentre in verità si riferivano a "tutto" non meno che alla massa. La mia vita era dunque votata a una grande opera, e ne ero così convinto  che potevo dire senza la minima esitazione: "Certo, ci vorranno decenni". Il fatto che io volessi includere tutto nei miei propositi e nei miei progetti, questo programma così vasto e inesauribile dovette sembrare a Broch il segno di una passione autentica. Ciò che lo contrariava era il fanatismo crudele che faceva dipendere il miglioramento dell'umanità da un intervento punitivo, da un'autorità di cui io mi ero eletto tranquillamente organo esecutivo. Questo era uno dei frutti dell'insegnamento di 
Karl Kraus. Non avrei mai osato imitare Karl Kraus 
consapevolmente, ma da lui avevo assorbito un'infinità di cose, e in particolare, quando nell'inverno 1931-32 scrivevo Nozze, il suo furore.  Con questo furore, che era diventato mio attraverso Nozze, mi ero presentato a Broch la sera della lettura del dramma. 
Lui se n'era lasciato soggiogare, ma non c'era niente altro in me che potesse soggiogarlo. Per il resto, come si vide poi, se accettò qualcosa di mio, lo fece alla sua maniera, in un modo che compresi molto più tardi, soltanto dopo la sua morte: assimilando e facendo propri gli impulsi di una volontà estranea dai quali non sapeva difendersi altrimenti. 
 Broch cedeva sempre, e solo cedendo assimilava. Non era un processo complicato, era la sua natura, e credo di aver visto giusto collegando anche questo processo al suo modo di respirare. Ma tra le innumerevoli cose che assimilava ce n'erano alcune troppo prepotenti per lasciarsi conservare tranquillamente come in un magazzino. Questi elementi perturbatori, che lo colpivano come fitte dolorose e che Broch condannava moralmente, si trasformavano in seguito, presto o tardi, in sue iniziative personali. Dopo l'emigrazione in America, quando decise di occuparsi della psicologia delle masse, non poteva certamente aver dimenticato i nostri colloqui su questo argomento. Ma il contenuto delle mie osservazioni, la sostanza vera, non l'aveva toccato in alcun modo. L'ignoranza dell'interlocutore, che non sapeva colorare le proprie parole con nessuna delle terminologie filosofiche dominanti, gli faceva trascurare del tutto il contenuto del discorso, anche quando aveva una sua originalità. Ciò  che lo colpiva era l'energia dei propositi, la pretesa di enunciare una nuova teoria che un giorno avrebbe preso forma; e sebbene questa teoria non esistesse affatto - se non in qualche gracile spunto - lui accoglieva quei propositi come un comando e lasciava che quel comando fermentasse dentro di lui, come se a lui  fosse diretto. Se in sua presenza cominciavo a parlare del mio progetto, lui captava una voce che gli diceva: "Fallo tu! ", ma non capiva subito fino a che punto fosse un'imposizione e si congedava da me con dentro il germe di un compito per lui che fiorì poi in un altro ambiente ma non diede frutti. 
 Mi accorgo di anticipare molte cose e di scompigliare così la chiara linea dei nostri rapporti; ma comunque siano cominciati, adesso è inevitabile, dopo tanti decenni, che io veda le cose così come andarono realmente tra noi già all'inizio, senza che nessuno di noi lo sapesse, neanche lui. 

 Non di rado, nelle sue frettolose camminate, Broch veniva a trovarci nella Ferdinandstrasse. Mi pareva di vedere in lui un uccello, grande e bellissimo ma con le ali mozze. Sembrava che si ricordasse di un tempo in cui poteva ancora volare. Non si era mai riavuto da quella mutilazione, da ciò che gli era successo. Avrei voluto fargli qualche domanda, ma allora non ne avevo il coraggio. La sua particolarità di bloccarsi nel discorso traeva in inganno, forse Broch avrebbe anche accettato di parlare di sé. Ma prima di parlare rifletteva, e da lui non c'era da aspettarsi qualcuna delle facili confessioni a cui mi avevano abituato tante persone che conoscevo a Vienna. Avrebbe parlato senza riguardi per se stesso, perché tendeva ad accusarsi. In lui non c'era traccia di autocompiacimento, si apriva con molta insicurezza, ma era, così mi sembrava, una insicurezza acquisita. Benché lo irritasse il mio tono risoluto, era troppo riguardoso per darlo a vedere. Me ne accorgevo, tuttavia, e quando lui se ne andava mi restava addosso un senso di vergogna. Mi facevo dei rimproveri perché avevo l'impressione di non riuscirgli simpatico. Broch avrebbe voluto ispirarmi qualche dubbio su me stesso, forse educarmi cautamente a dubitare di me, ma proprio non gli riusciva. Io lo mettevo su un piedistallo, ero entusiasta dei Sonnambuli perché vi aveva dimostrato una capacità che io non avevo. L'atmosfera, in un'opera letteraria, non mi aveva mai interessato, pensavo che fosse qualcosa da lasciare alla pittura. Ma in Broch l'atmosfera era presente in un modo che non poteva lasciare insensibili. Era una capacità che ammiravo, perché ammiravo tutto quello che mi era negato: non mi faceva perdere di vista ciò che mi prefiggevo, ma era meraviglioso scoprire che c'era qualcosa di totalmente diverso che aveva un suo diritto di esistere e che attraverso la lettura liberava da se stessi. Per uno scrittore queste trasformazioni dovute alla lettura sono essenziali: egli può veramente ritornare a se stesso e ritrovarsi solo se è stato trascinato via con violenza da qualcun altro. 
 Broch portava subito nella Ferdinandstrasse ogni brano di prosa che gli veniva pubblicato. Per lui aveva una particolare importanza ciò che appariva nella "Frankfurter" e nella "Neue Rundschau". Non avrei mai immaginato che tenesse tanto al mio giudizio. Quale  bisogno avesse di consenso lo compresi solo più tardi, alcuni anni dopo la sua morte, quando furono pubblicate le sue lettere. Sebbene lo irritasse il mio modo di parlare, così affermativo, accettava volentieri un giudizio perentorio quando riguardava lui, e lo citava addirittura nelle sue lettere ad altre persone. 
 A quel tempo avevo trovato una spiegazione quasi mitica alla frettolosa andatura di Broch: lui, il grande uccello, non sapeva rassegnarsi all'idea che gli avessero mozzato le ali. Non poteva più ritrovare la libertà di quell'atmosfera, unica, in cui si librava sopra tutti gli uomini. Ma in compenso, in mezzo agli uomini, non si lasciava sfuggire uno solo di quelli che io chiamo campi di respirazione. Altri scrittori facevano collezione di uomini, lui raccoglieva i loro campi di respirazione, contenenti l'aria che avevano inalato e poi espulso dai polmoni. Da questa aria accumulata lui desumeva la loro natura, definiva gli uomini attraverso i loro rispettivi campi di respirazione. A me sembrava qualcosa di assolutamente nuovo, qualcosa in cui non mi ero mai imbattuto. Sapevo di scrittori che si lasciavano guidare da ciò che è visivo, di altri che si affidavano all'udito. Non avrei mai pensato  che uno scrittore potesse lasciarsi guidare dal suo modo di respirare. 
 Broch era molto riservato e, come ho già detto, dava un'impressione di insicurezza. Dovunque posasse lo sguardo, risucchiava tutto in sé, non col ritmo di chi inghiotte ma con quello di chi inspira. Non toccava, non urtava nulla, tutto rimaneva com'era, immutabile, e conservava il proprio particolare alone d'aria. Sembrava che Broch assorbisse le cose più disparate per custodirle in sé. Diffidava dei discorsi troppo impetuosi, e per quanto fossero animati da buone intenzioni vi fiutava il male. 
Per lui nulla era di là del bene e del male; e il fatto che fin dal primo momento, fin dalla prima frase assumesse un atteggiamento  responsabile e non se ne vergognasse, gli valse tutta la mia ammirazione. Questo atteggiamento si rivelava anche nel ritegno con cui dava un giudizio, in quello che io chiamai ben presto il suo 
"bloccarsi". 
 Questo suo "bloccarsi" - e cioè la sua tendenza a chiudersi in lunghi silenzi, lasciando però trasparire con quanta intensità rifletteva - io lo spiegavo col desiderio di non affliggere l'interlocutore, chiunque fosse. Soffriva a dover badare al proprio interesse. Sapevo che apparteneva a una famiglia di industriali e che suo padre era stato il proprietario della filanda di Teesdorf. Broch vi aveva lavorato controvoglia perché desiderava invece diventare un matematico. Alla morte del padre dovette occuparsi di tutta l'azienda, non per il proprio tornaconto, ma perché bisognava provvedere alla madre e agli altri membri della famiglia. Continuò a studiare per una specie di sfida e in seguito studiò anche filosofia. Quando lo conobbi, frequentava il seminario di filosofia dell'Università di Vienna e ne parlava come di una cosa molto seria. Intuivo che le origini mercantili avevano suscitato in lui una reazione simile alla mia: un'avversione profonda che ricorreva a ogni mezzo per opporre una barriera difensiva. E poiché non poteva smettere di dedicarsi alla fabbrica paterna, neanche da adulto, neanche nella maturità, aveva bisogno di difese particolarmente efficaci. Le sue inclinazioni lo portavano verso le scienze esatte, ed era disposto ad accettarle e a subirle anche nella loro forma accademica. Io cercavo di immaginarlo nella veste di studente, un uomo spiritualmente così ricco e vivo. Se era tanto saggio da rimanere insicuro, come poteva trovare sicurezza nei seminari? Gli interessava il dialogo, ma poi si comportava come se fosse sempre lui a dover imparare, mentre nella maggior parte dei casi non poteva essere così, poiché saltava agli occhi la sua superiorità sugli interlocutori. Da tutto questo desumevo che fosse la bontà 
d'animo a trattenerlo dall'umiliare il suo prossimo. 

 Al Café Museum feci la conoscenza di Ea von Allesch, l'amica di Broch. C'eravamo incontrati, io e lui, non so dove. Mi disse di avere un appuntamento con Ea e di averle promesso di condurre anche me. Mi sembrava vagamente impacciato, aveva un tono diverso dal solito ed era arrivato molto in ritardo. "Ci sta aspettando da un pezzo" disse. Affrettò l'andatura e alla fine superò la porta girevole quasi volando e trascinandomi a rimorchio dentro il locale. "Abbiamo fatto tardi" disse subito, quasi umilmente, prima ancora di presentarmi. Poi disse il mio nome e aggiunse in un tono neutro che non tradiva più nessuna preoccupazione: "E questa è 
Ea Allesch". 
 Quel nome l'avevo già sentito da lui qualche volta, e mi era sembrato strano, perfino enigmatico, sia il nome che il cognome. 
 Non avevo domandato a Broch da dove venisse quell""Ea", e neppure in seguito ho
 voluto saperlo. Era una  
donna non giovane, sulla cinquantina, aveva la testa di una lince,  ma di velluto, e i capelli rossicci. Era bella, e io pensai quasi sbalordito quanto doveva essere stata bella. La voce era morbida e sommessa, ma così insistente da ispirare subito un po''  di paura. Era come se lei, senza accorgersene, ti avesse messo gli artigli addosso. Ma dava quell'impressione solo perché si sentiva in dovere di contraddire Broch a ogni frase, inesorabilmente. Domandò dove ci eravamo attardati e disse che era lì ad aspettare da un'ora,  ormai convinta che non saremmo più venuti. Broch le spiegò dove eravamo stati; ma sebbene mi chiamasse in causa, come se io fossi lì 
per testimoniare, lei 
 aveva l'aria di non credere una parola: non fece alcuna obiezione,  ma non si rassegnava; e anche quando eravamo seduti lì da un bel po', tornava alla carica con una frase in cui il suo dubbio era ormai consolidato, come se fosse già diventato storia e lei volesse soltanto far notare che lo aggiungeva a tutti gli altri suoi dubbi. 
 Cominciò tra noi una conversazione letteraria. Broch, per deviare il discorso dal nostro ritardo, accennò alla serata in cui, 
subito dopo la lettura di Nozze, era andato da Ea nella 
Peregringasse e le aveva parlato del mio dramma. Era come se 
Broch volesse pregarla di prestarmi un po'"di attenzione, e lei non trovò niente da ridire sulle circostanze di quella serata, ma le rivoltò subito contro di lui. Raccontò che Broch, dopo la lettura, era molto depresso e si era lagnato di non essere un vero drammaturgo, perché dopo tutto aveva scritto un solo dramma, quello che aveva mandato al teatro di Zurigo e che adesso avrebbe preferito ritirare. Da qualche tempo, disse ancora Ea, Broch si era messo in testa di dover solo scrivere; e chi sa chi gli aveva fatto venire un'idea simile, probabilmente una donna. Tutto questo era detto in un tono soave, quasi accattivante, sebbene lì non ci fosse nessuno da accattivarsi; e l'effetto era micidiale. Ea aggiunse di aver capito già dalla grafia di Broch che lui non era un vero scrittore, e di averglielo anche detto: lei era grafologa, infatti, e bastava confrontare la scrittura di Broch con quella di 
Musil per capire la differenza. 
 Io ero talmente imbarazzato che colsi al volo l'accenno a Musil per domandarle se lei lo conosceva. Certo che lo conosceva, da decine di anni, fin dal tempo in cui era sposata con Allesch, anzi da prima ancora, prima di conoscere Broch. Quello sì era  uno scrittore, disse, e il tono era totalmente cambiato. 
Quando poi aggiunse che Musil non aveva una grande considerazione  per Freud e non si lasciava facilmente prendere per il naso, mi resi conto che la sua animosità si rivolgeva contro tutto ciò che per Broch contava, mentre Musil godeva della sua ammirazione incondizionata. Lo aveva visto spesso negli anni del suo matrimonio con Allesch, che era il più vecchio amico di Musil, (1) e qualche volta lo vedeva ancora, nonostante il tempo trascorso dal divorzio. Dava molta importanza alla propria esperienza di grafologa e aveva le sue idee anche in fatto di psicologia. "Io sono Adler," disse indicando se stessa "e lui è Freud" aggiunse indicando Broch. Quest'ultimo era veramente devoto a Freud, vorrei dire in modo religioso - non che fosse diventato un fanatico, come tanti altri che conoscevo a quel tempo, ma era impregnato di Freud come di una dottrina mistica. 
 Broch non era uomo da nascondere le proprie difficoltà. Non andava in giro a mostrare soltanto la facciata. Non so perché avesse voluto condurmi all'appuntamento con Ea così presto, quando la nostra conoscenza era appena cominciata. Sapeva benissimo che lei non lo portava in palma di mano. Forse, sentendosi disprezzato da Ea come scrittore, voleva opporle qualcuno che invece lo stimava molto; ma questo è un particolare che allora mi sfuggì. Solo a poco a poco venni a conoscenza dei meriti che Broch si era fatto come mecenate: era un industriale che anteponeva le cose dello spirito alla propria fabbrica e che trovava sempre il modo di aiutare gli artisti. Aveva conservato il suo animo nobile, ma ormai si capiva che non era più un uomo ricco. Non si lamentava delle sue ristrettezze, bensì della mancanza di tempo.  Tutti quelli che lo conoscevano avrebbero voluto vederlo più spesso.  Col suo atteggiamento Broch induceva l'interlocutore a parlare di sé, a infervorarsi, a non smetterla più. 
L'interlocutore si convinceva che la sua persona, i suoi propositi, i suoi grandi progetti suscitavano in Broch un interesse particolare, mentre sarebbe bastato conoscere I sonnambuli per capire che l'interesse di Broch si rivolgeva a ogni persona. In realtà tutto questo dipendeva dal suo modo di ascoltare, che soggiogava. Ci si effondeva nel silenzio di Broch, non s'incontrava mai un ostacolo. Si sarebbe potuto dire tutto, lui non respingeva niente, non si provava timore se prima una certa cosa non era stata detta fino in fondo. Mentre di solito in queste conversazioni si arriva a un punto in cui si ha un soprassalto e si dice tra sé: "Alt, fin qui e non oltre!", perché il desiderio di abbandonarsi è stato già largamente appagato e comincia a diventare pericoloso - infatti, come si può poi tornare indietro e ritrovare se stessi, come si potrà essere di nuovo soli? 
 -, con Broch questo punto e questo momento non venivano mai, non c'era niente che ordinasse l'alt, non s'incontravano mai segnali di pericolo o linee di demarcazione, si continuava ad arrancare, sempre più avanti, sempre più in fretta, e come in uno stato di ubriachezza. E" un'esperienza sconvolgente scoprire quante cose abbiamo da dire su noi stessi; e quanto più ci avventuriamo e ci smarriamo in questo territorio, tanto più la corrente s'ingrossa: dal sottosuolo erompono le sorgenti calde, diventiamo un paesaggio di geyser.  Le eruzioni di questo tipo non mi 
 erano ignote, le avevo subite io stesso da altri, con la differenza che io ero abituato a reagire: dovevo dire la mia, non potevo star zitto, e nel parlare prendevo posizione, giudicavo,  consigliavo, lasciavo trasparire simpatia o antipatia. Broch invece, in una situazione simile, taceva. Non era un silenzio freddo o calcolato, un silenzio come quello della psicoanalisi, dove in sostanza un uomo si consegna irrimediabilmente a un altro che non deve permettersi alcun sentimento, né favorevole né contrario. Il silenzio con cui Broch ascoltava era interrotto da piccoli, percettibili, respiri, i quali dimostravano all'interlocutore che non era stato solo ascoltato, era stato accolto, come se ogni frase gli avesse aperto l'accesso a una casa in cui poteva accomodarsi a suo agio. I piccoli suoni che accompagnavano i respiri erano gli onori che l'anfitrione rendeva all'ospite: "Chiunque tu sia, qualunque cosa tu dica, entra pure, sei mio ospite, rimani finché vuoi, ritorna, resta pure per sempre!". Quei piccoli suoni erano una reazione ridotta al minimo, mentre parole e frasi compiute avrebbero comportato un giudizio e avrebbero avuto il valore di una presa di posizione prima ancora che tu avessi messo piede nella casa ospitale con tutto quello che ti eri portato dietro. Lo sguardo dell'anfitrione era sempre puntato su di te e, nello stesso tempo, verso l'interno delle stanze in cui ti invitava. Sebbene la sua testa somigliasse a quella di un grosso uccello, l'occhio non celava mai propositi rapaci. Lo sguardo di Broch si perdeva in una lontananza che quasi sempre inglobava l'interlocutore che gli stava vicino, e ciò che vi era di più profondo in lui, mentre guardava, si collocava nello stesso rapporto di vicinanza e lontananza. 
 Era un'accoglienza arcana, quella che ti riservava, e per quell'accoglienza ti lasciavi soggiogare da Broch. A quel tempo non conoscevo una sola persona che non la desiderasse 
ardentemente. Quell'accoglienza non 
 aveva "segni premonitori", non aveva un prezzo, e nelle donne diventava amore. 
NOTE:
 (1) Johannes Gustav von Allesch (1882-1967), autore di fondamentali studi sulla percezione dei colori, docente di psicologia in diverse università tedesche. Musil ideò per lui un apparecchio per la valutazione della sensibilità ai colori. Allesch dedicò all'amico il saggio "Robert Musil nel movimento intellettuale del suo tempo" ?N" d'T"*.  Inizio di un contrasto 
 Nel corso dei cinque anni e mezzo in cui Broch fu presente nella mia vita, mi sono reso conto solo a poco a poco di una cosa che oggi, mentre una minaccia perentoria sovrasta ogni forma di vita, può apparire naturale: la nudità del respiro. Il mezzo principale  con cui Broch percepiva e assimilava il mondo circostante, il senso che in lui primeggiava, era il respiro. Mentre altri sono costretti a vedere e udire in continuazione, senza fine, e si concedono un po'"di riposo solo di notte, ritirandosi nel sonno, Broch era senza tregua in balia del proprio respiro: non poteva liberarsene e cercava di scomporlo con quei suoni, appena percettibili e rauchi, che io ho chiamato la sua punteggiatura respiratoria. (1) Compresi ben presto che Broch non era capace di scrollarsi di dosso nessuno. Mai una volta gli ho sentito pronunciare un "no". Gli riusciva più facile scrivere un 
"no", perché allora la persona a cui 
 era diretto non gli stava di fronte e non gli mandava il proprio respiro. 
 Per strada uno sconosciuto avrebbe potuto rivolgergli la parola e prenderlo per il braccio: Broch lo avrebbe seguito senza la minima resistenza. Non mi era mai accaduto di assistere a una scena simile, ma me la immaginavo e mi domandavo dove Broch avrebbe seguito quell'uomo: fino in un luogo che era determinato dal respiro dello sconosciuto. Quella che comunemente si chiama curiosità assumeva in Broch una forma particolare che si è tentati di definire "avidità respiratoria". Ho scoperto allora, attraverso Broch, che ogni atmosfera è un mondo peculiare e separato in cui si può trascorrere una vita senza avere coscienza di questa peculiarità. Ogni essere respirante, e quindi ogni persona, poteva catturare Broch. Era stupefacente il modo in cui si esponeva, alla sua età, dopo tante esperienze e dopo essersi occupato Dio sa di quante cose. Per lui ogni incontro era un rischio, perché non sapeva più sottrarvisi. Per liberarsene, aveva bisogno di persone che lo aspettassero già da qualche altra parte. 
 Fissava dei punti d'appoggio, sparsi in tutta la città e magari molto distanti l'uno dall'altro. Quando arrivava in un posto, per esempio da Veza nella Ferdinandstrasse, andava subito al telefono e chiamava Ea Allesch. "Sono dai Canetti," diceva "arrivo subito". 
Sapeva che là era già atteso, e dava una spiegazione rispettabile del proprio ritardo. Ma questo era il motivo apparente e superficiale della telefonata, un motivo dettato dall'atteggiamento ostile di Ea. Non telefonava soltanto a Ea: anche quando l'aveva appena lasciata e lei sapeva benissimo da chi era andato, Broch si rivolgeva a Veza, che non aveva ancora finito di salutarlo, e le domandava: "Posso telefonare?". Dall'altra parte c'era qualcuno a cui diceva dove si trovava in quel momento, e 
sembrava naturale che ci fosse sempre una persona che lo aspettava con cui doveva giustificare i suoi invariabili ritardi. Ma in realtà, credo, era ben altra l'operazione che Broch cercava di compiere. Si premuniva, si assicurava la strada che lo conduceva dall'una all'altra persona. Si preparava a dover percorrere in fretta la prossima tappa. Nessuna sorpresa doveva impedirglielo, nessuna "cattura". 
 La fretta con cui camminava quando lo si vedeva per caso in giro, era la sua unica difesa. La prima cosa che diceva - in tono molto cortese, benché sostituisse il saluto - era: "Ho una gran fretta"; e muoveva le braccia, le sue ali mozzate, come se volessero levarsi  in volo, le agitava un paio di volte e le lasciava ricadere scoraggiato. In quei momenti mi faceva pena. Pensavo: "Poveretto, peccato che non possa volare! E" sempre costretto a correre!". La sua era una doppia fuga: doveva strapparsi da coloro con i quali stava in quel momento, perché altri lo aspettavano, e lungo il cammino doveva sfuggire a tutti quelli che potevano incontrarlo e cercavano di trattenerlo. A volte lo seguivo con gli occhi mentre scompariva in fondo alla strada: la sua pellegrina svolazzava al vento come un paio d'ali. La rapidità del movimento era più apparente che reale. Quella testa d'uccello e la pellegrina davano nell'insieme l'idea di un volo tarpato che però non era mai indecoroso o scomposto. Quel tipo di deambulazione era diventato qualcosa di naturale, di congenito. 
 Ho voluto accennare subito a ciò che vi era di incomparabile in Broch, a ciò che lo distingueva da tutte le persone che ho conosciuto. Se si prescinde da quei misteriosi processi respiratori che condizionavano il suo aspetto e le sue reazioni fisiche, ogni conversazione con Broch era così interessante che dispiaceva interromperla. Io gli avevo dedicato una devozione intatta e appassionata, rovesciandogli addosso un vero diluvio di opinioni, convinzioni, progetti; ma qualunque cosa esponessi, qualunque cosa arrischiassi, in lui restava sempre incancellabile la prima, violenta impressione provocata da Nozze dopo oltre due ore di lettura. Questa impressione rimase dietro a tutto ciò che mi disse negli anni seguenti, ma Broch era troppo riguardoso per farlo notare. Non si lasciò mai sfuggire una frase da cui potessi desumere che con me si sentiva a disagio.  La casa di Nozze era crollata e tutti erano scomparsi nel crollo. Broch si rendeva conto dello stato di disperazione da cui era nato il mio dramma. In quegli anni era una disperazione condivisa da non poche persone, anche da lui. Ma la forma spietata in cui l'avevo espressa lo metteva in sospetto, come se io stesso facessi parte della minaccia che incombeva su tutti noi. Non credo che da questo egli traesse qualche conclusione. Aveva conosciuto Karl Kraus molto prima di me - io avevo diciannove anni meno di lui - e non era rimasto indifferente a Kraus e alla sua violenza, tanto superiore alla mia. Nelle nostre conversazioni il nome di Kraus non ricorreva spesso, ma Broch lo nominava con particolare rispetto. Non mi è mai successo, al tempo in cui vi partecipavo, di vedere Broch a una delle serate di Kraus. Una testa come la sua non l'avrei dimenticata. Forse evitava le letture pubbliche di Kraus da quando si era dedicato ai propri libri, forse non ne sopportava più ciò che vi era di soffocante. In questo caso avrebbe dovuto infastidirlo l'incontro con un'opera come 
Nozze, pervasa anch'essa di paure apocalittiche. Le mie, comunque, sono congetture: non potrò mai stabilire da che cosa dipendessero le reazioni segrete di Broch, forse cercava soltanto di sottrarsi alla mia impetuosa infatuazione per lui come a ogni altra infatuazione. 
 Per le nostre prime conversazioni ci incontravamo al Café 
Museum all'ora di pranzo, ma nessuno dei due era solito mangiare qualcosa. Erano conversazioni animate, alle quali anche lui partecipava vivacemente (solo in seguito fui colpito dal suo silenzio, sempre più colpito). Ma non duravano a lungo, forse un'ora, e proprio nel momento in cui la discussione si era fatta così interessante che sarei rimasto lì per tutta la vita, lui si alzava di colpo e diceva: "Devo andare dalla dottoressa Schaxl". Era  la sua analista. Broch era in analisi da anni, e poiché faceva in modo che c'incontrassimo poco prima della seduta, io avevo la sensazione che andasse dall'analista ogni giorno. Mi sembrava di ricevere una mazzata sulla testa: quanto più libero e schietto era il tono con cui mi rivolgevo a lui - ogni sua frase aveva l'effetto di aumentare il mio slancio -, quanto più sapienti e penetranti erano le sue risposte, tanto più soffrivo per quell'interruzione improvvisa; e per di più mi sentivo offeso da quel nome ridicolo, 
Schaxl. 
 C'erano lì due persone impegnate nella conversazione, e lui, l'uomo di cui mi bevevo le parole, l'uomo che aveva scritto un'opera come I sonnambuli, lui si alzava, lasciava una frase a metà e correva via per andare a parlare ancora una volta, come ogni giorno (così mi sembrava), con una donna che si chiamava Schaxl e faceva l'analista. Io restavo interdetto, sgomento, mi vergognavo per lui e non osavo immaginarlo nello studio di quella Schaxl, costretto a stendersi su un divano e a dirle cose che nessun 
altro poteva ascoltare e di cui forse 
 egli non teneva neppure un appunto. Bisogna aver conosciuto 
Broch, la serietà, la dignità, la bellezza con cui stava lì seduto ad ascoltare, per comprendere quanto appariva umiliante il fatto che si stendesse su un divano per parlare - e senza guardare in faccia nessuno con quei suoi occhi. 
 Ma è anche possibile, così penso adesso, che Broch cercasse di salvarsi dal diluvio delle mie parole, che non potesse sopportare il protrarsi di quelle conversazioni e che quindi scegliesse di proposito l'ora dell'appuntamento con me in modo che precedesse di poco la seduta dall'analista. 
 D'altra parte Broch era così devoto a Freud che non rifuggiva  neppure da usarne i termini, in tutto il loro significato e senza un'ombra di dubbio, anche nel corso di una conversazione 
seria e spontanea. Questo particolare non poteva non impressionarmi, perché sapevo della vasta cultura filosofica di 
Broch; ed era un'impressione poco gradevole, perché stava a indicare che egli metteva Freud sullo stesso piano di Kant, che pure adorava, di Spinoza e di Platone. I termini che nel linguaggio viennese di allora erano diventati banalità quotidiane, lui li pronunciava accanto a parole santificate da una venerazione secolare, compresa la sua. 
 Ci conoscevamo da poche settimane quando Broch mi domandò se avevo voglia di tenere una lettura all'Università popolare di  Leopoldstadt. Lui stesso vi era andato a parlare qualche volta, e volentieri mi avrebbe presentato all'uditorio. Mi sentii molto  onorato dalla proposta e accettai. L'organizzatore, il dottor Schönwiese, fissò la lettura per il 23 gennaio 1933. Prima che finisse l'anno vecchio portai a Broch il manoscritto di "Kant prende fuoco". Alcune settimane dopo, eravamo già in gennaio, egli mi chiese di andare a trovarlo nella Gonzagagasse, dove abitava.   "Che cosa vuol dire con questo?". 
 Furono le sue prime parole, accompagnate da un gesto indefinito con cui mi indicò il manoscritto del romanzo, posato sul  tavolo accanto a lui. La domanda mi lasciò talmente stupito che non seppi rispondere. Mi sarei aspettato qualsiasi altra domanda.  Come si poteva riassumere in poche frasi ciò che si è voluto dire  con un romanzo? Balbettai qualche parola quasi incomprensibile,  certamente senza molto senso, ma dovevo pure rispondere qualcosa. 
Broch chiese scusa e ritirò la domanda. 
 "Se lei lo sapesse, non avrebbe scritto il romanzo. La mia è stata una pessima domanda". 
 Capì che non avevo un discorso bell'e pronto da tirar fuori per l'occasione, e tentò di circoscrivere l'argomento escludendo  un po'"alla volta tutto ciò che a suo giudizio non poteva costituire il vero intento del romanzo. 
 "Immagino che lei non avrà voluto scrivere semplicemente la storia di un pazzo. Non può essere stata questa la sua vera intenzione. Né, credo, voleva soltanto darci una figura grottesca alla maniera di Hoffmann o di Poe". 
 Confermai che non era stata questa la mia intenzione, e lui annuì. Poiché lo aveva colpito l'aspetto grottesco dei personaggi, mi sentii in dovere di portare il discorso su Gogol", che in effetti era stato un mio modello. 
 "Ero piuttosto sotto l'influsso di Gogol"" dissi. "Dovevano  essere personaggi estremi, spinti fino ai limiti del possibile, comici e spaventosi insieme, in modo che lo spaventoso non si possa separare dal comico".  "Lei mette addosso alla gente una bella paura. Vuole proprio spaventarla?". 
 "Sì. Intorno a noi tutto suscita paura. Non c'è più un linguaggio comune. Nessuno capisce l'altro. Credo che nessuno voglia capire l'altro. Nel suo Huguenau mi ha molto colpito il fatto che gli uomini sono insediati entro diversi sistemi di valori e che fra loro non c'è possibilità di comprensione. 
Huguenau è quasi un personaggio come lo concepisco io. Non che questa situazione si esprima nel suo linguaggio, poiché Huguenau parla ancora con gli altri. Ma alla fine del libro c'è un documento, c'è la lettera di Huguenau con la sua richiesta alla vedova Esch, scritta tutta nel linguaggio che gli è proprio: la lingua tipica del mondo mercantile. Ebbene, qui lei porta al limite estremo la separazione di quest'uomo da tutte le altre creature del romanzo. Ciò corrisponde in pieno a quello che ho in mente. A questo io ho voluto attenermi sempre, in ogni personaggio e in ogni momento del mio romanzo". 
 "Ma questi, allora, non sono più uomini reali. Tutto si trasforma in qualcosa di astratto. Gli uomini reali sono composti di molti elementi. Hanno in sé impulsi contraddittori che si combattono tra loro. Si può dare un'immagine veritiera del mondo se si prescinde dal mondo? E" lecito deformare le creature fino al punto che non sono più riconoscibili come esseri umani?". 
 "Sono figure, personaggi. Uomini e personaggi non sono la stessa cosa. Il romanzo come genere letterario è cominciato con i personaggi. Il primo romanzo è stato il Don Chisciotte. Che cosa pensa lei del protagonista? Forse non le sembra credibile perché è talmente estremo?". 
 "Erano altri tempi. Allora, mentre imperversavano ancora i romanzi cavallereschi, era un personaggio credibile. Oggi ne sappiamo di più, sul conto degli uomini. Esiste una psicologia moderna e ci 
dice sugli uomini cose davanti alle quali non possiamo semplicemente chiudere gli occhi. La letteratura dev'essere, intellettualmente, all'altezza del proprio tempo. Se rimane indietro rispetto al proprio tempo, diventa qualcosa di Kitsch e serve a scopi diversi che stanno al di là della letteratura e dunque sono illeciti". 
 "In altre parole, il Don Chisciotte non dovrebbe dirci più niente. Per me non è soltanto il primo romanzo, ma rimane ancora e sempre il più grande. Non mi fa rimpiangere nulla, neanche le scoperte moderne. Arriverei perfino a dire che evita certi errori della moderna psicologia. L'autore non si propone un'indagine sull'uomo, non vuole mostrare tutto ciò che forse si nasconde in un singolo uomo, ma crea certe unità che delinea nettamente e contrappone l'una all'altra. Dalla loro azione reciproca nasce ciò che egli ha da dirci sull'uomo".  "Ma così non possono essere dette molte delle cose che oggi c'interessano e ci affliggono".  "Certo no, le cose che allora non 
 esistevano non possono essere dette. Ma oggi si possono concepire personaggi nuovi, e chi sa farli agire esprime le cose che oggi c'interessano".  "Devono esserci metodi nuovi anche nell'arte. Nell'età di Freud e di Joyce non può restare tutto come prima". 
 "Credo anch'io che oggi il romanzo dev'essere diverso, ma non perché viviamo nell'età di Freud e di Joyce. La sostanza del tempo è un'altra, e ci vogliono personaggi nuovi per mostrarla. 
Quanto più si distinguono l'uno dall'altro, quanto più sono portati all'estremo, tanto più forti sono le tensioni tra loro. Quello che conta è il tipo di queste tensioni. Esse ci fanno paura, la paura che riconosciamo come nostra propria. Esse servono a inculcare questa paura. Anche nella ricerca psicologica ci imbattiamo nella paura e ne definiamo i contorni. Così, si applicano i mezzi nuovi,  o nuovi almeno in apparenza, che devono liberarcene". 
 "Ma questo non è possibile. Che cosa potrebbe mai liberarci dalla paura? Si può forse attenuarla, ecco tutto. Ciò che lei ha ottenuto, nel suo romanzo e anche in Nozze, è una intensificazione  della paura. Lei colpisce l'uomo nella sua malvagità, come se  di questa volesse punirlo. So che la sua intenzione più profonda è quella di costringerlo a convertirsi. Viene spontaneo pensare a una predica, a un quaresimale. Ma lei non minaccia l'inferno, lei lo rappresenta, e già in questa vita. Lei non lo rappresenta oggettivamente, affinché la gente ne abbia una visione più esatta e una conoscenza reale, ma lo rappresenta in modo che la gente ci si senta già dentro e ne sia angosciata. Ma il compito dello scrittore è quello di portare più paura nel mondo? Le sembra uno scopo così nobile?". 
 "Lei, per il romanzo, segue un altro metodo. E lo ha applicato  con coerenza nella struttura di Huguenau. Lei contrappone differenti sistemi di valori, buoni e cattivi, in modo che il contrasto salti all'occhio. A ridosso del mondo mercantile di Huguenau c'è il mondo religioso della ragazza dell'Esercito della Salvezza. Così lei introduce una compensazione e toglie un po'"della paura che incute col personaggio di 
Huguenau. Ho letto la sua trilogia tutta d'un fiato, me ne sono lasciato compenetrare, ed essa ha creato in me molti spazi che sono rimasti e resistono ancora oggi, sei mesi dopo la lettura, dentro di me. Non c'è dubbio che con la sua trilogia lei ha allargato le mie vedute e mi ha arricchito. Ma lei mi ha anche acquietato. Capire acquieta. Ma è lecito che la comprensione acquieti soltanto?". 
 "Lei invece vuole intensificare l'inquietudine fino a farla diventare panico. In Nozze vi è certamente riuscito. Il risultato finale è uno solo: distruzione e rovina. Ma lei vuole questa rovina? Si intuisce che lei vuole esattamente il contrario. 
Lei vorrebbe poter fare qualcosa per indicare una via d'uscita, ma non ne indica nessuna: a tutt'e due le opere, al dramma come al 
romanzo, lei dà un 
 epilogo crudele e spietato, con la distruzione. C'è in questo una intransigenza che bisogna rispettare. Ma questa intransigenza significa che lei ha rinunciato alla speranza, che lei stesso non riesce a trovare la via d'uscita? O significa che dubita addirittura della possibilità di una via d'uscita?". 
 "Se ne dubitassi, se avessi davvero rinunciato alla speranza,  non potrei più vivere. No, io credo semplicemente che noi sappiamo ancora troppo poco. Lei si richiama volentieri alla psicologia moderna, e mi sembra che ne sia orgoglioso, poiché essa ha avuto i natali, per così dire, nell'ambiente che le è più familiare, in questa cerchia particolare del mondo viennese. Per questa psicologia  lei nutre una specie di affetto patriottico. Forse ha la sensazione che avrebbe potuto scoprirla lei stesso. Qualunque cosa essa dica, lei la ritrova subito dentro di sé, non ha nemmeno bisogno di andare a cercarla. Ebbene, a me questa psicologia sembra del tutto insufficiente. Essa si occupa dell'individuo,  e qui è anche arrivata a qualche risultato, ma c'è poi un altro  terreno dove non sa neanche da che parte cominciare, ed è la massa, che è la cosa più importante, quella su cui sarebbe necessario sapere di più, perché ogni nuovo potere che sorge ai nostri giorni si ciba deliberatamente della massa. In pratica, chi mira al potere politico sa come bisogna operare sulla massa. Solo gli altri, le persone consapevoli che queste operazioni portano diritto alla nuova guerra mondiale, non sanno come influire sulla massa per evitare che venga manovrata a danno di tutti noi. 
Bisognerebbe scoprire queste leggi del comportamento di massa. Ecco il punto, ecco il compito più importante davanti al quale ci troviamo oggi: di questa scienza non esistono ancora neppure i primi rudimenti". 
 "Non possono esistere. Lì tutto è vago e incerto. Lei è su una pista sbagliata. Lei non può trovare le leggi della massa perché non esistono. E" un peccato che sprechi così il suo tempo. Mi ha già detto più di una volta che questo è il vero scopo della sua vita, di essere ben deciso a dedicarvi anni, decenni, anche l'intera vita, se è necessario. Sarebbe una vita buttata al vento. Si dedichi piuttosto ai suoi drammi. Lei è uno scrittore. Non può votarsi a una scienza che non è tale e non lo sarà mai". 

 Non fu questo il solo colloquio che ebbe per tema le ricerche sulla massa. Broch, come ho già detto, era sempre pieno di riguardi verso l'interlocutore, come se temesse di fargli male esprimendosi in modo troppo reciso. Si preoccupava prima di tutto della natura di chi gli stava di fronte, del suo carattere e delle premesse che lo facevano "funzionare". Così accadeva raramente che la conversazione prendesse un tono aspro, per Broch era impossibile umiliare qualcuno, e quindi evitava di insistere troppo a voler avere ragione. 
 Tanto più riuscivano memorabili le poche occasioni in cui la discussione si faceva accanita. Broch disapprovava severamente il nome che avevo scelto per il protagonista dei mio romanzo, il quale si chiamava ancora Kant nel manoscritto che gli avevo dato da leggere. Anche il titolo "Kant prende fuoco" lo irritava, come se io volessi sottintendere che il filosofo Kant era una creatura fredda, insensibile, e che ora, in quel libro crudele, era costretto a prender fuoco. Su questo punto Broch non si esprimeva a chiare lettere, diceva tuttavia che gli sembrava inopportuno l'uso di un nome per il quale nutriva la massima venerazione. Non per niente la sua prima osservazione critica fu appunto: "Lei deve cambiare il nome"; ed era così poco disposto a ricredersi che quasi a ogni incontro mi domandava: "Allora, ha cambiato il nome?".  Io gli spiegavo che il nome e il titolo erano sempre stati provvisori e che prima ancora di conoscere lui mi ero reso conto della necessità di cambiarli se il libro fosse arrivato alla pubblicazione. Ma queste spiegazioni non gli bastavano. Non era soddisfatto e mi domandava: "Perché non li cambia subito? Lo faccia adesso, sul manoscritto". Io provavo una certa riluttanza, era come un comando impartito da una persona che non poteva dare ordini perché non si addiceva alla sua natura. Volevo restare fedele il più a lungo possibile al mio titolo originario, anche se provvisorio. Lasciai il manoscritto com'era e aspettai il momento in cui avrei fatto le correzioni di mia volontà e non su pressione altrui. 
 Ho già detto qual era il secondo punto su cui Broch insisteva: l'impossibilità di una psicologia della massa. Il suo giudizio non mi faceva la minima impressione, e per quanto ammirassi Broch come uomo e come scrittore, per quanto rinnovassi i miei vani sforzi per attirarmi anche la sua simpatia, non mi sarei mai sognato di dargli ragione su questo punto solo per usargli un riguardo. Al contrario, cercavo di convincerlo che il futuro poteva avere in serbo cose del tutto nuove, che c'erano nessi e situazioni su cui, stranamente, non si era mai riflettuto. 
Lui mostrava scarso interesse e, pur ascoltando le mie parole, si  limitava quasi sempre a sorridere. Sembrava indignato quando io criticavo le concezioni di Freud. Una volta tentai di chiarire che occorreva distinguere tra panico e fuga di massa: il panico è sì una vera disgregazione della massa, ma vi sono anche casi - e lo si può vedere per esempio nelle mandrie - vi sono casi in cui le masse in fuga non si disgregano, restano compatte e anzi traggono vantaggio proprio dal senso vivissimo di essere una massa. Quel giorno Broch mi domandò: "E lei come fa a saperlo? Le è capitato di essere una gazzella in un branco in fuga?". 
 Per contro non tardai a scoprire che c'era qualcosa che gli faceva sempre effetto, ed era la parola "simbolo". Quando usavo l'espressione "simbolo di massa", tendeva l'orecchio e si faceva spiegare esattamente il significato che le attribuivo. A quel tempo avevo fatto le mie riflessioni sul nesso tra fuoco e massa, e Broch, poiché ricordava, come tutti a Vienna, l'incendio del 15 luglio 1927, meditava su ciò che gli avevo detto e ogni tanto ritornava sull'argomento. Ma soprattutto gli piacque un certo mio discorso sul mare e sulle sue gocce prese singolarmente. 
Gli avevo raccontato come io provassi una sorta di compassione per le gocce isolate che mi cadevano sulla mano, perché erano separate dal grande insieme al quale appartenevano. Lo colpiva tutto quello che toccava o sfiorava la sfera dei sentimenti religiosi, e quindi anche la semplice parola "compassione" 
che 
 avevo adoperato a proposito delle gocce; e si abituò a vedere qualcosa di religioso nelle mie ricerche sulla massa e a parlarne in questo senso. Per me era come una riduzione del mio impegno, e perciò reagivo vivacemente, ma alla fine rinunciai a discuterne con lui. 
NOTE:
 (1) Si veda, in La coscienza delle parole, il discorso tenuto da Canetti a Vienna, nel novembre 1936, per il cinquantesimo compleanno di Hermann Broch ?N" d'T"*. Il direttore d'orchestra 
 Teneva le labbra ermeticamente serrate perché non ne sfuggisse una parola d'elogio. Imparare a memoria con precisione era 
 per lui una questione di vita o di morte. Ancora 
giovanissimo, quando faceva una vita di stenti, si era avvicinato a testi difficili e se ne era impadronito a pezzi e bocconi nei pochi momenti strappati al lavoro con cui campava. Mentre faceva il violinista nei locali notturni, ed era ancora un ragazzo di quindici anni, pallido, con molto sonno arretrato, teneva Spinoza sul 
 leggio, sotto i suoi fogli di musica, e anche negli 
intervalli più brevi studiava a memoria l'Etica, frase per frase. Ciò che imparava non aveva niente a che fare col suo mestiere, ma era come un gradino a sé stante della cultura. Studiava molte altre cose, e a parte lo sforzo che tutte gli costavano in uguale misura, non ce n'era una che avesse un reale rapporto con l'altra. 
Prevaleva sempre la volontà, era una volontà 
indistruttibile, aveva bisogno di cose nuove in cui esercitarsi e continuò a trovarne per una vita intera. Fino alla vecchiaia fu la volontà a decidere, un appetito inestinguibile che però era diventato, per la costante consuetudine con la musica, un appetito ritmico. 
 La smania di imparare, con cui si 
 era elevato da giovane, rimase la stessa in tutte le fasi successive della sua vita. Si potrebbe dire che l'aveva conservata 
 come vocazione quando già aveva una professione. Era diventato direttore d'orchestra precocemente, nonostante tutte le difficoltà, ma non era ancora contento di quello che aveva sotto mano. Forse quell'attività non bastava da sola a riempirgli la vita, e forse per questo non è mai diventato un direttore d'orchestra veramente grande. Teneva gli occhi puntati su tutto ciò che era diverso, perché lì c'era ancora da imparare. Gli anni in cui la musica si rinnovava e per rinnovarsi si ramificava come non era mai avvenuto, furono per lui una manna dal cielo. Ogni scuola musicale, purché fosse nuova, gli poneva dei problemi, e lui poteva, e con tutte le forze voleva, risolvere problemi nuovi. Ma nessun problema, neanche il più grande, poteva per lui essere tale da eclissarne altri. Lui si accollava quel problema, ci si accaniva, non si lasciava intimidire da nessuna difficoltà, ma intanto si teneva in serbo tutti gli altri problemi che per altri versi si presentavano come nuovi, e anche tutti quelli che prima o poi si sarebbero delineati in futuro. Per lui era un doppio impegno: doveva imparare cose nuove che voleva far sue in tutto e per tutto (per quanto è possibile, senza escludere interamente altre cose); ma poi si trattava anche - ed era il punto più importante - di portare queste cose nuove alla vittoria, cioè di presentarle nella forma più perfetta a un pubblico impreparato per il quale erano nuove e da principio 
irriconoscibili, inusitate e repellenti, in apparenza orribili. Per lui era una prova di forza che aveva un doppio volto: bisognava far violenza ai musicisti costringendoli a eseguire quelle novità, e poi, presi in pugno i musicisti, far violenza al pubblico, e tanto meglio se il pubblico era particolarmente riottoso.  La sua specialità, si potrebbe anche dire la sua libertà, consisteva nel far violenza usando mezzi sempre nuovi e diversi, nel non impegnarsi in una direzione precisa per volgersi invece da qualunque parte dove gli si proponesse un problema difficile. Era dunque il primo che avesse presentato al pubblico questa o quella cosa assolutamente ignota, prima di chiunque altro: era lui lo scopritore, si potrebbe dire. E gli premeva che queste scoperte si sommassero l'una all'altra, che ce ne fossero sempre di più, e poiché il loro numero e la loro varietà gli facevano crescere l'appetito, a volte non si accontentava della musica e provava una gran voglia di estendere il suo potere ad altri territori e di annettersi, per esempio, anche il teatro drammatico: allora pensava di organizzare dei festival che accogliessero un dramma nuovo insieme con la musica nuova. Fu in uno di questi momenti della sua vita che io lo incontrai. 

 Hermann Scherchen era sempre alla ricerca del nuovo. Quando arrivava in una città in cui doveva dirigere per la prima volta, tendeva l'orecchio per scoprire di chi si parlava. Conosceva l'accento con cui la gente pronunciava il nome di chi destava scandalo e sorpresa. Cercava di mettersi in contatto con lui, gli faceva dire di presentarsi durante le prove e disponeva le cose in modo che "l'uomo nuovo" lo trovasse in piena attività e ci fosse appena il tempo per una stretta di mano, perché di là c'era l'orchestra che lo aspettava. Se il "nuovo" gl'interessava, glielo lasciava capire, ma purtroppo il colloquio doveva essere rinviato a  una prossima volta, e non era detto che allora ci fosse più tempo. Bastava questo perché il "nuovo" si sentisse onorato: dopo  tutto, gli intermediari gli avevano detto e ripetuto quanto  il direttore d'orchestra tenesse a quell'incontro. Il primo contatto era dunque piuttosto freddo, ma poteva dipendere dalla mancanza di tempo, ci voleva poco a capire quanto fosse arduo il compito che il direttore si era assunto, per di più in una città come Vienna, che aveva una pessima fama per il suo inveterato conservatorismo in fatto di musica. Non si poteva volerne a quel pioniere del rinnovamento se era tutto assorto nel suo lavoro, anzi bisognava ancora essergli grati se manifestava il desiderio di un secondo incontro in un'occasione più favorevole. Era giusto dimostrargli comprensione, accettare con entusiasmo. Perfino in quei momenti tumultuosi delle prove era facile rendersi conto che un uomo come lui si aspettava qualcosa dal candidato di turno, e poiché gli stavano a cuore soltanto le cose nuove, ciò che si aspettava era qualcosa di nuovo; e dunque il candidato, prima 
ancora di essersi fatto conoscere, si sentiva incluso tra coloro che avevano il diritto di annoverarsi tra i nuovi. Poteva succedere che vi fossero ancora alcuni incontri successivi senza che si arrivasse a un vero colloquio, ma ogni rinvio rendeva il colloquio sempre più importante. 
 Se però tra gli intermediari c'era una creatura di sesso femminile che lo stuzzicava, la faccenda non andava tanto per le lunghe. Dopo una prova il maestro faceva il suo ingresso al Café Museum con qualche persona al seguito e si accingeva ad ascoltare in silenzio il candidato. Lo costringeva a parlare dell'argomento essenziale - generalmente di una composizione, nel mio caso di un dramma -, guardandosi tuttavia dal pronunciare anche una sola parola in proposito. In occasioni simili si era colpiti in primo luogo dalle sue labbra sottili, ermeticamente serrate. C'era perfino da 
dubitare che stesse ascoltando, perché non si 
 apriva in alcun modo, il viso restava liscio e controllato, senza  mai un'espressione che tradisse approvazione o rifiuto, la testa ben alta e dritta su un collo un po'"grassoccio e sulle spalle rigide, inflessibili. Quanto più efficace era il suo silenzio, tanto più il candidato parlava; e a poco a poco, senza accorgersene, si trovava ridotto a recitare la parte del postulante al cospetto di un principe che si riservava ogni decisione il più a lungo possibile, forse per sempre. 
 Eppure Hermann non era propriamente un uomo taciturno. A conoscerlo meglio, si restava increduli scoprendo quanto parlava e 
con quale velocità. Ma erano per lo più parole di 
autoincensamento, si potrebbe dire inni di vittoria se la voce non fosse stata così incolore e monotona. C'erano anche momenti in cui 
 si piccava all'improvviso di stabilire un arbitrario collegamento tra cose che per caso gli erano appena capitate sott'occhio. Allora le disponeva in un certo ordine, come se fosse autorizzato e ben deciso a dar loro forza di legge. "Intorno al 1100 avanti Cristo c'è stata un'esplosione nell'umanità". Intendeva un'esplosione di energia artistica, perché per il resto non aveva molta simpatia per la parola "esplosione". Ero stato con lui in un museo ed era passato piuttosto in fretta, secondo la sua solita andatura, davanti a oggetti dalle provenienze più diverse: cretesi, ittiti, assiri, babilonesi. Sulle targhette con le date lui aveva letto due o tre volte l'indicazione 1100 à c'e ne era rimasto colpito. 
Precipitoso e capriccioso com'era, aveva tirato subito la sua conclusione: "Intorno al 1100 avanti Cristo c'è stata un'esplosione nell'umanità". 
 Era taciturno, spietatamente taciturno, quando aveva davanti a sé qualcuno che pensava di scoprire o di spingere avanti. Per lui, allora, era una questione di vita o di morte non lasciarsi scappare una parola di lode. Se ne stava lì con le labbra serrate e si era talmente abituato a lesinare ogni sillaba, e soprattutto ogni elogio, che la stessa espressione del viso ne era condizionata a dovere. 

 Fu H'a mandarmi da Anna Mahler con una sua lettera. Non lasciava nulla di intentato. L'aveva conosciuta quando lei, giovanissima,  era sposata al compositore Ernst Krenek. Allora, essendo all'inizio della carriera, H" non poteva pretendere molta attenzione da parte di Anna. Del resto la giudicava ancora immatura, tanto è vero che si sottometteva a Krenek, pronta a servirlo nel suo lavoro. Krenek non faceva che comporre, rapido e instancabile, mentre Anna se ne stava rannicchiata accanto a lui a ricopiare ogni  nota. Era ancora il periodo in cui per lei esisteva soltanto la musica. Aveva imparato a suonare sette od otto strumenti e a turno si teneva in esercizio con l'uno o con l'altro. Era sempre stata un'ammiratrice del talento prolifico e vedeva il segno del genio in una produzione copiosa, continua, senza pause. Questo culto della fecondità ininterrotta le rimase in tutti i periodi successivi della sua vita. Ammirava soltanto i creatori o quelli che riteneva tali. Quando poi passò dalla musica alla letteratura, fecero colpo su di lei i romanzi lunghi e gli autori che, finito un romanzo, ne sfornavano subito un altro. Negli anni del matrimonio con Krenek  il culto della fecondità si limitava ancora alla musica, e Anna sembrava ben contenta di servire quel giovane creatore. 
 Krenek era stato uno dei primi a entrare nella galleria dei talenti scoperti da H". (1) Quest'ultimo aveva notato Anna fin  da allora, ma non si sentiva attratto dall'ancella di un altro. Adesso, giunto a Vienna con la testa piena di mirabolanti progetti, si diede a riallacciare tutte le vecchie relazioni, com'era sua abitudine, e così fu invitato nel palazzo della Maxingstrasse che apparteneva all'editore Paul Zsolnay. Li trovò Anna, divenuta la padrona di quella grande magione, una donna dai capelli biondo chiaro, con le sue ambizioni nel campo dell'arte e con una fama incipiente di scultrice. Forse H'andò a trovarla anche nell'atelier, sebbene sia poco probabile, ma di sicuro la vide durante un ricevimento in casa Zsolnay. H" non godeva della stima di Alma, la madre di Anna, della quale conosceva il potere nella vita musicale di Vienna. Tanto più teneva dunque ai favori della figlia.  Allungò le sue antenne e cercò di ingraziarsela scrivendole una lettera che io stesso dovevo consegnare ad Anna personalmente nel suo atelier. 
 H'era ben disposto verso di me, alla sua maniera, e fu lui a preparare la mia prima visita ad Alban Berg. Gli aveva fatto impressione una lettura di Nozze alla quale aveva assistito nella casa di Bella Band, cioè in un ambiente ideale, proprio l'ambiente  del mio dramma trasferito nel mondo della grande borghesia. 
Non che avesse speso una sola parola per esprimere le sue reazioni: dopo due ore di lettura - due ore di baldoria nuziale con l'epilogo catastrofico - era rimasto muto come un pesce. I lineamenti restarono freddi e impassibili come sempre, e le labbra, l'ho già detto, ermeticamente chiuse. Ciò nonostante avevo notato che in lui era avvenuto un cambiamento. Mi era sembrato - quasi impercettibilmente - rattrappito. Ma alla fine non si lasciò sfuggire una parola di principesca degnazione, non toccò i rinfreschi e se ne andò molto presto. 
 Anche quella volta H" fu fedele alla sua abitudine di piantare tutti in asso. Si alzava e usciva dicendo appena poche parole, solo quelle strettamente indispensabili secondo le circostanze. Dava la mano quasi senza allungarla, neanche in questo voleva essere compiacente. Non solo, ma la teneva alta, e per arrivarci bisognava tendersi in avanti e alzarsi sulla punta dei piedi. Il permesso di toccare quella mano era una grazia concessa a pochi, e la grazia era accompagnata da un ordine secco col quale H" comunicava il giorno e l'occasione in cui ci si doveva presentare al suo cospetto. Poiché era sempre attorniato da altre persone, chi riceveva l'ordine si sentiva al tempo stesso privilegiato e umiliato. Quando H" si accomiatava, anche le più tenui tracce di un sorriso gli erano scomparse dalla faccia. Sembrava un essere inanimato e solenne, la scena aveva tutta l'aria di un rituale del potere eseguito davanti a una statua che però si muoveva a scatti e insieme con grande energia. Poi H" faceva il suo dietrofront con la precisione di un militare, e subito dopo il suo ultimo ordine, con le istruzioni per la prossima udienza, si aveva 
davanti agli occhi la visione di quella vasta schiena che si metteva in marcia con decisione ma mai troppo in fretta. Come direttore d'orchestra H'era senza dubbio abituato ad agire sul pubblico con la schiena, ma non si può dire che il suo repertorio di movimenti dorsali fosse molto ricco. Sembrava inanimato nel dorso come nel viso, la mimica era assente in ogni parte del suo corpo; e decisione, orgoglio, autorità, freddezza erano tutto ciò che H" voleva far vedere di sé. 
 Il silenzio era per lui lo strumento più sicuro per esercitare l'oppressione. Non tardò a rendersi conto che con me era meglio lasciare da parte la musica in tutti i sensi, sia come talento  artistico sia come interesse intellettuale. Non poteva far la parte del maestro che m'insegnava qualcosa. La relazione maestroallievo, nella quale era bravissimo, era da escludere, poiché io non suonavo nessuno strumento, non facevo parte di nessuna orchestra e non ero neanche un compositore. Doveva dunque pensare ad altre possibilità di assoggettamento. Nell'ambito dei festival che voleva organizzare per la musica moderna, pensava anche al teatro drammatico. Aveva ascoltato la mia lettura di 
Nozze, come ho detto, ed era rimasto di ghiaccio. Avrebbe taciuto in tutti i casi, ma quella volta il silenzio fu rinforzato dal fatto che H" se ne andò subito, perfino un po'"prima del solito. Se l'avessi conosciuto meglio, avrei potuto dedurne che gli era rimasta addosso una certa perplessità. 
 Pensai sulle prime che gli riuscisse insopportabile l'atmosfera della serata, con quella padrona di casa, tutta nera, opulenta come una donna orientale, che straripava dal divano sul quale si era adagiata nel senso della lunghezza. Non mi sentivo affatto a mio agio mentre recitavo davanti a lei le battute di Johanna Segenreich. Sapevo che Bella Band, la ricca e grande borghese, apparteneva a tutt'altro ambiente, a un ambiente carico di brillanti, e che non avrebbe degnato di un solo sguardo la 
Segenreich se mai l'avesse incontrata; e tuttavia intuivo da ogni sua  parola che si trattava dello stesso tipo di donna. Ma non credo che Bella Band si sentisse colpita: lei era la padrona di casa e come tale ascoltava la lettura organizzata in casa sua dal figlio, che io conoscevo. Quanto alla musica moderna, per quel poco che a 
Vienna era presa in considerazione, l'onore di un invito era riservato a H", il quale era conosciuto come un pioniere anche in quell'ambiente, un pioniere ma niente di più. Secondo questo criterio si comportò il divano carico di quella massa femminile: Bella Band non si sottrasse, restò al suo posto sino alla fine, lesinò i sorrisi esattamente come lo stesso H", al quale non fece la corte neppure con uno sguardo. Sarebbe impossibile dire che cosa passò per tutta quella carne durante le scene della catastrofe: sono sicurissimo che la paura non la sfiorò nemmeno, ma credo anche che il terremoto non valse a intimorire H". 
 Alla lettura erano presenti alcune persone più giovani. Anche loro, probabilmente, si sentivano protette dalla freddezza di H'e dall'imperturbabile amabilità di Bella Band. Così io ero proprio l'unico che quella sera avesse paura. Non sono mai riuscito a leggere Nozze ad alta voce senza un senso di paura. Non appena il lampadario comincia a oscillare sento avvicinarsi la fine; e non so spiegarmi come posso arrivare fino in fondo e leggere senza sbagliare tutte le scene della danza macabra - che pure occupano un terzo del dramma. 

 Alla fine di giugno del 1933 ricevetti una lettera di H" da Riva del Garda. Mi scriveva di avere riletto Nozze e di essere rimasto atterrito dalla gelida, desolata astrazione in cui tutto si svolgeva. Era come annichilito dalla forza che l'autore aveva in sé e dall'uso che questa forza faceva di lui stesso. "Venga presto a trovarmi - meglio dopo il 23 luglio a Strasburgo. Così combatteremo insieme la nostra battaglia". 
 Riteneva che l'autore del dramma potesse arrivare alle vette più alte della creazione letteraria, ma non aveva mai conosciuto  un caso come il mio, in cui tutto dipendesse da quel che era l'uomo stesso. Essere capaci di cose tanto nuove, dominare una  tecnica così diversa, frutto di una sicurezza sonnambolica, della forza propulsiva della parola come suono e della parola come pensiero, tutto ciò era una grande sfida. Io dovevo esserne all'altezza. 
 Allegava una lettera e mi pregava di consegnarla ad "Anni", come lui la chiamava, a lei sola. "Le interessa il prospetto che unisco? Partecipi anche lei! Molto cordialmente, H" Sch"".  Mi costa un certo sforzo riferire il contenuto della lettera di H" nelle sue parti essenziali. Ma non posso non accennarvi, dal momento che ebbe un'importanza decisiva nella mia vita. Fu quella lettera ad attirarmi a Strasburgo, e senza le persone che incontrai grazie al soggiorno a Strasburgo il mio romanzo non sarebbe arrivato alla pubblicazione. Ma la lettera contiene anche il più efficace ritratto di H": non si potrebbe descrivere in minore spazio il suo modo di accattivarsi gli uomini, di legarli a sé, di approfittarne, di adoperarli. 
 Nella lettera non tutto è calcolo, e neppure tutto si riduce a  una serie di ordini. Il terrore di cui parla H'a proposito della gelida, desolata astrazione non è inventato. Su questo tema il discorso è più lungo di quello che ho citato, ed è un discorso che rispecchia il suo pensiero. Ma a H" questo non potrebbe bastare. Ha appena ammesso il destinatario nel novero dei privilegiati, e subito lo convoca a Strasburgo, al suo convegno per la musica moderna, dove il poveretto è un pesce fuor d'acqua, dove H" convocherà mille altri che però sono musicisti, persone con le quali lavora e altre di cui è il primo a eseguire le opere. 
"Venga presto a trovarmi" - perché mai, a che scopo? "Così combatteremo insieme la nostra battaglia". Sono parole di una mostruosa presunzione: quale battaglia potrebbe combattere H'al fianco di uno scrittore? In realtà H" vuole avere sotto mano qualcuno da presentare come una grande promessa, vuole aggiungere un piccolo ornamento supplementare al suo convegno brulicante di musicisti che un giorno si faranno strada. Che razza di battaglia può  mai essere? Per avere una legittimazione - pur sapendo che non gli resterebbe un minuto di tempo per la battaglia, anche se potesse combatterla - H" giustifica il suo ordine di arruolamento con un giudizio altisonante, che però revoca immediatamente accennando al presunto rischio che corre colui che viene giudicato. 
Così il destinatario, sballottato qua e là, si rende conto almeno di una cosa: che ha bisogno di H". E" allegata una lettera per "Anni", segreta. Anche a lei verrà ordinato di andare da qualche parte, per altri scopi. E poi il tono si fa ancora più sbrigativo: c'è il prospetto per il convegno, e: "Partecipi anche lei!". 
 Non so che cosa darei per conoscere il contenuto delle lettere ad altre persone arruolate per quel convegno. I musicisti andarono a Strasburgo, e loro avevano un buon motivo. Ma H'ebbe anche la bella idea di radunare cinque vedove. Erano le vedove di cinque compositori celebri, e io riesco a ricordare soltanto tre delle cinque invitate:  le vedove di Gustav Mahler, di Ferruccio Busoni e di Max Reger. Nessuna andò a Strasburgo. Al loro posto andò una che non c'entrava affatto, la vedova, di fresca data, di Friedrich Gundolf, (2) che arrivò vestita di nero da capo a piedi e si comportò con molta allegria e disinvoltura. 
NOTE:
 (1) Ernst Krenek aveva poco più di vent'anni quando fu invitato, nel 1921, a partecipare al Festival di Donaueschingen, una delle molte manifestazioni musicali promosse da Hermann Scherchen. Conobbe il suo più grande successo nel 1927 con l'operajazz 
Jonny spielt auf ("Jonny suona per voi") che venne ben presto presentata in quasi tutta l'Europa. Fu il secondo marito di una 
Mahler, dopo un oscuro musicista e prima dell'editore Paul 
Zsolnay, del direttore d'orchestra Anatole Fistoulari e dello scrittore e regista Albrecht Joseph ?N" d'T"*.  (2) Il famoso critico era morto nel 1931 a Heidelberg, dove aveva la cattedra di letteratura tedesca dal 1920 ?N" d'T"*. Trofei 
 Ero già stato qualche volta alla Hohe Warte, ma in forma privata e solo per incontrare Anna, che veniva ad accogliermi di persona da  una porta secondaria. Quando finalmente decise di presentarmi a sua madre, la curiosità era reciproca, ma per motivi molto diversi: Alma Mahler non sapeva niente di preciso sul mio conto, si fidava poco della conoscenza che sua figlia aveva degli uomini  e voleva sincerarsi che io fossi innocuo; quanto a me, sapevo che tutta Vienna parlava di lei nei termini più pungenti. 
 Attraversai un cortile interno - ricoperto di piastrelle tra le quali l'erba aveva il permesso di crescere con calcolata naturalezza - e fui ammesso in una sorta di sancta sanctorum dove mi aspettava 
"mammina". Era una donna piuttosto alta, straripante da tutte le parti, fornita di un sorriso dolciastro e di occhi chiari, spalancati, vitrei. Dalle sue prime parole sembrava che mi aspettasse da un pezzo, perché ne sentiva tante sul conto di tutti. 
"Annerl mi ha raccontato" disse subito, e fin dall'inizio fece apparire piccola piccola sua figlia. Non voleva che ci fossero dubbi, neanche per un momento: chi contava era lei, in casa e fuori. 
 Si sedette, e uno sguardo confidenziale fece intendere che bisognava prendere posto proprio accanto a lei. Obbedii con riluttanza, perché dopo il primo sguardo che le avevo dato, ero inorridito. Dappertutto si parlava della bellezza di Alma Mahler, si raccontava che era stata la più bella ragazza di Vienna e che aveva 
fatto 
 una tale impressione su Mahler, molto più anziano di lei, da indurlo a chiedere la sua mano e a sposarla. La fama della sua bellezza si tramandava ormai da più di trent'anni, ma adesso Alma Mahler era lì in piedi e si sedette pesantemente: una persona in stato d'ebbrezza, molto più vecchia della sua età, circondata da tutti i trofei che aveva raccolto. 
 La stanza in cui riceveva era infatti sistemata in modo che il visitatore avesse a portata di mano i pezzi più importanti di tutta una carriera: non c'era nulla che potesse sfuggire alla vista, la stessa Alma era il cicerone di quel museo privato. A meno di due metri da lei si trovava la vetrina in cui era esposta la partitura della Decima sinfonia di Mahler, rimasta incompiuta. L'ospite era invitato a osservarla, si alzava, si avvicinava e leggeva le disperate invocazioni del malato - era la sua ultima  opera - alla moglie: "Almina, mia amata Almina!" e altre simili. La partitura era aperta su quelle pagine terribilmente intime. 
Doveva essere un mezzo collaudato per far colpo sui visitatori. Io lessi quelle parole tracciate dalla mano di un moribondo e guardai la donna alla quale erano dirette. Per lei, ventitré anni dopo,  era come se fossero state appena scritte. Chi osservava quel cimelio era tenuto a dedicarle uno sguardo di ammirazione, uno sguardo cui lei aveva diritto per l'omaggio che il moribondo le aveva reso nelle ore dell'agonia; e lei era così sicura dell'effetto di quelle parole estreme che il suo sorriso insensato si allargava in un ghigno e con quel ghigno accoglieva l'omaggio. Non avvertì nulla dell'orrore e del disgusto che avevo negli occhi. Io non sorridevo, ma lei interpretò erroneamente la mia  espressione seria come un segno della devozione dovuta a un genio morente; e poiché tutto avveniva in quella specie di cappella votiva che Alma aveva eretto alla propria felicità, anche la devozione le apparteneva. 
 Ma era venuto il momento del quadro che stava appeso alla parete proprio di fronte a lei, un ritratto di Alma, dipinto pochi anni dopo le ultime parole del compositore. L'avevo notato subito, mi era rimasto negli occhi da quando ero entrato; aveva un che di 
feroce, di minaccioso, e la partitura 
 aperta mi aveva talmente sbigottito che lo sguardo mi si confuse e il quadro mi apparve come il ritratto dell'assassina del compositore. Non ebbi il tempo di respingere questo pensiero perché Alma Mahler si alzò, fece tre passi verso la parete e, stando davanti a me e indicando il quadro, disse: "E questa sono io, dipinta da Kokoschka come una Lucrezia Borgia". Era un'opera del periodo migliore di Kokoschka. Alma Mahler alzò subito un muro tra sé e il pittore, che era ancora vivo e attivo,  aggiungendo compassionevolmente: Poveretto, non ha fatto molta strada!". Kokoschka aveva ormai abbandonato la Germania, dove 

 era all'indice come "artista degenerato", ed era andato a Praga per fare il ritratto al presidente Masaryk. Ero così stupito per quell'osservazione sprezzante che non potei trattenere una domanda: "In che senso non ha fatto molta strada?". "Ma sì, adesso è a Praga, non è che un povero emigrante. Non ha più dipinto niente di buono"; e con uno sguardo alla Lucrezia Borgia aggiunse: "Allora sì che era bravo. Questo quadro fa paura a tutti". Anch'io avevo avuto paura, ma adesso ne avevo ancora di più  nell'apprendere che il pittore non aveva fatto molta strada. Il suo apice lo aveva toccato con le varie raffigurazioni della sua 
Lucrezia Borgia, e adesso, poveretto, era solo un fallito, perché non piaceva ai nuovi padroni della Germania, e il fatto che il presidente Masaryk posasse per lui contava poco o niente. 
 Ma la vedova non accordò troppo tempo al secondo trofeo perché pensava già al terzo, che non era presente nel sacrario e che desiderava mostrarmi. Batté le sue mani adipose e gridò: "Ma dove si è nascosta la mia Mutz?". 
 Dopo pochi istanti una gazzella entrò in punta di piedi nella stanza, un'esile creatura bruna, travestita da ragazzina, incontaminata dalle meraviglie in mezzo alle quali si trovava, così innocente da apparire più giovane dei sedici anni che poteva avere. Più che bellezza, irradiava intorno a sé timidezza, come una gazzella angelica venuta dal cielo, non dall'arca. Io balzai in piedi per impedirle di entrare in quell'antro dei vizi o almeno per risparmiarle la vista dell'avvelenatrice appesa alla parete, ma costei, che non smentiva mai il suo personaggio, aveva già preso inesorabilmente la parola: 
 "Bella, eh? Le presento Manon, figlia mia e di Gropius. Non ce n'è un'altra come lei. Tu, Annerl, non la invidi, vero?... Che 
male c'è ad 
 avere una bella sorella? Buon sangue non mente. Lei ha mai 
visto Gropius? Alto, bello. Proprio quello che si dice un vero ariano. L'unico uomo fatto su misura per me dal punto di vista razziale. Tutti gli altri che si sono innamorati di me erano piccoli ebrei, come Mahler. Io vado bene per gli uni e per gli altri. Adesso puoi andare, Mutz. Ancora un momento. Sali un po'"a vedere se c'è Franzi. Se sta scrivendo, non lo disturbare. Ma se non è occupato, digli di scendere". 
 Manon, il terzo trofeo, scivolò via dalla stanza, incontaminata com'era venuta, l'incarico affidatole non sembrava esserle di peso. Provai un grande sollievo al pensiero che nulla potesse toccarla, che sarebbe rimasta sempre com'era adesso, che non sarebbe mai diventata come sua madre, come il viso velenoso del quadro o la vecchia donna disfatta sul divano con i suoi occhi vitrei. 
 (Non sapevo in che modo orribile avrei avuto ragione. A distanza di un anno l'agile gazzella era una povera paralitica e veniva portata in giro sulla carrozzella, accompagnata dal chiacchierio di sua madre, ancora lo stesso chiacchierio. Dopo un altro anno era morta. Alban Berg dedicò la sua ultima opera "Alla memoria di un angelo"). 
 In una delle stanze superiori, sotto il tetto, c'era il leggio al quale Franz Werfel scriveva stando in piedi. Una volta Anna mi aveva mostrato quella stanza durante una delle mie visite. Sua madre non poteva sapere che avevo già conosciuto Werfel a un concerto al quale avevo accompagnato Anna. Quella sera Anna era seduta tra me e lui, e per tutto il tempo mi sentii addosso un grande occhio sporgente. Werfel si era girato tutto verso destra per vedermi meglio, e quasi allo stesso modo il mio occhio sinistro si era girato verso sinistra per osservare meglio l'espressione del 
suo occhio. Così i due occhi fissi l'uno nell'altro s'incontrarono, batterono dapprima in ritirata sentendosi colti in flagrante, ma alla fine, poiché non era più possibile dissimulare quel vicendevole interesse, ritornarono al loro posto di vedetta. 
 Io non so che musica fu eseguita. Se fossi stato Werfel avrei pensato prima di tutto al concerto, ma io non ero un tenore come 
lui, ero stregato da Anna e nient'altro. Lei non si vergognava di me, sebbene i miei pantaloni sportivi non fossero l'ideale per un concerto, e del resto avevo saputo solo all'ultimo momento che c'era un biglietto libero e che potevo accompagnarla. Anna era seduta alla mia sinistra, e mentre 
fissavo su di lei 
 uno sguardo che credevo furtivo, mi imbattevo nell'occhio da batrace di Werfel. Mi venne in mente che la sua bocca somigliava a quella di una carpa e che il suo grande occhio sporgente vi si adattava a meraviglia. Ben presto il mio occhio sinistro si comportò esattamente come il suo occhio destro. Era il nostro primo incontro, e fu un duetto con accompagnamento musicale tra due occhi che - separati da Anna - non potevano accorciare la distanza tra loro. Gli occhi di lei, la cosa più bella che avesse, occhi  che nessuno poteva dimenticare dopo averli avuti addosso una volta, rimasero esclusi dal gioco; ed era una grottesca deformazione della realtà se si pensa quanto erano insulsi, privi di qualsiasi irradiazione, gli occhi di Werfel e i miei.  Ma poiché dovevamo seguire il concerto in silenzio, furono escluse dal gioco anche le parole, proprio le parole che Werfel sapeva maneggiare da maestro, con patetica eloquenza. (Pierino Boccadifuoco è il nomignolo che gli affibbiò il più grande dei suoi contemporanei, Musil). Di solito avevo anch'io la lingua pronta 
- almeno con Anna - ma tutt'e due stavamo zitti, ligi alla disciplina del concerto; e già in quel primo incontro era forse deciso il futuro dei nostri rapporti, l'ostilità di Werfel e la mia antipatia, l'inimicizia che doveva indurre Werfel ai più rozzi interventi nella mia vita. 
 Adesso però sono ancora seduto vicino ad Alma, in mezzo ai suoi trofei, e lei, ignara di quell'incontro al concerto, ha appena mandato il terzo trofeo a cercare il quarto - il suo nome è Franzi - perché venga giù, se per caso non sta scrivendo. A quanto sembra,  stava proprio scrivendo, perché non si fece vedere, e per me fu meglio così, perché ero sotto l'impressione sconvolgente della vedova straripante e dei suoi primi trofei. Ero fermo a questa impressione, volevo conservarla integra dentro di me, e c'era il pericolo che i discorsi retorici di Werfel potessero alterarla in qualche modo. Le cose comunque andarono così, e io non saprei dire come me ne venni via, come mi congedai da Alma: nel ricordo io sono ancora seduto accanto all'Immortale e la sento in eterno parlare di "piccoli ebrei come Mahler".  
 Strasburgo 1933 
 Non so che cosa si ripromettesse Hermann Scherchen dalla mia partecipazione al suo convegno di lavoro per la musica moderna. Io 
non potevo dare alcun contributo al ricco programma di 
Strasburgo. Le manifestazioni si tenevano al Conservatorio due volte al giorno. Erano arrivati musicisti da tutto il mondo, alcuni alloggiavano negli alberghi, i più erano ospiti di cittadini di Strasburgo. 
 Io ero stato accolto dal professor Hamm, un noto ginecologo che abitava nella città vecchia, non lontano dalla 
chiesa di San Tomaso, nella Salzmanngasse. Pur essendo molto occupato, venne a p
rendermi  
lui stesso all'ufficio del Conservatorio, dove i forestieri venivano smistati alle loro abitazioni, e mi condusse a piedi nella Salzmanngasse, illustrandomi subito alcune particolarità della vecchia città. Quando ci fermammo davanti alla sua casa, bella e solenne, rimasi colpito. Sentivo la vicinanza della cattedrale: non avevo osato sperare che avrei abitato così 
 vicino alla meta dei miei desideri, perché era stata soprattutto la cattedrale a farmi accettare l'invito a Strasburgo. Entrammo nell'androne, assai più spazioso di quanto ci si potesse 
aspettare in una via così angusta. Il professor Hamm mi accompagnò su per un'ampia scala fino al primo piano e aprì la porta della stanza riservata agli ospiti: una grande stanza, molto comoda, arredata secondo il gusto del Settecento. Già sulla soglia mi prese la sensazione che non ero degno di dormire lì, e fu 
una sensazione così intensa da lasciarmi senza parole. Il professor Hamm, che era un uomo vivace, molto francese, si aspettava da me un'esclamazione di entusiasmo, perché nessun ospite avrebbe potuto desiderare una stanza più bella. Sentì la necessità di spiegarmi dove mi trovavo, mi fece ammirare la vista sulla torre della cattedrale, che sembrava quasi a portata di mano, e poi disse: "Nel Settecento questa casa era una locanda, si chiamava "Auberge du Louvre". Herder vi ha abitato per un inverno. Era malato, non poteva uscire, e fu qui che Goethe veniva a trovarlo ogni giorno. Non lo sappiamo con sicurezza, ma la tradizione vuole che Herder abbia abitato proprio in questa stanza". 
 Io ero sconvolto al pensiero che Goethe avesse parlato con Herder in quella stanza. 
 "Proprio qui?". 
 "Sicuramente in questa casa". 
 Guardai spaventato verso il letto. Rimasi vicino alla finestra da cui mi era stata mostrata la vista della cattedrale. Non osavo rimettere piede nella stanza, tenevo d'occhio la porta da cui eravamo entrati come se ormai mi aspettassi quel visitatore. Ma non era ancora finita. Il professor Hamm, infatti, non aveva pensato soltanto alla leggendaria tradizione della casa. Si avvicinò rapidamente al comodino da notte, ne tolse un volumetto, un vecchio almanacco tascabile (credo che risalisse al 1770), e me lo porse.  "Un piccolo dono per l'ospite," disse "un Musenalmanach con alcune poesie di Lenz".  "Di Lenz? Di Lenz?". 
 "Sì, prime pubblicazioni. Ho pensato che poteva interessarle". 
 Come l'aveva saputo? Quel giovane poeta mi era caro come un fratello, mi era familiare in un modo diverso da quei due grandi,  come qualcuno che ha sofferto un sopruso, che è stato defraudato 
della propria grandezza. Lenz, un eterno poeta dell'avanguardia, quello che avevo imparato a conoscere 
attraverso quel racconto di 
 Büchner, il più bel brano di prosa tedesca; Lenz, il poeta ossessionato dalla morte, il poeta cui non era dato aver la meglio sulla morte. A Strasburgo, dove ora si raccoglieva un'altra avanguardia, anche se era quella della musica, Lenz era a casa sua. Qui aveva incontrato Goethe, il suo idolo, e l'incontro gli era stato fatale; e qui, sessant'anni dopo, era venuto Büchner, il suo allievo, che grazie a lui doveva portare alla perfezione, in un frammento, il dramma tedesco. Erano queste le cose che sapevo allora, e si concentravano tutte lì. Ma come poteva sapere il professor Hamm che mi stavano tanto a cuore? Sarebbe inorridito se 
avesse letto Nozze, e forse avrebbe perfino esitato ad accogliermi nella sua dimora. Ma in lui l'orgoglio per quella casa si univa all'istinto di un vero anfitrione, e perciò mi riservava il trattamento al quale un giorno - forse -  avrei avuto diritto. E" vero, m'invitava a dormire nella stanza in cui Herder aveva ricevuto Goethe, e chi mai al mondo potrebbe aver diritto a un tale onore? Ma mi aveva anche messo lì l'almanacco con le poesie di Lenz. Era un dono che risvegliava in me una commozione fraterna, perché Lenz aspettava ancora una riparazione, 
 non 
 era ancora stato ammesso a pieno titolo nel santuario di cui anche lui era degno. Portarono il mio bagaglio, e io mi insediai nella stanza. 
 Durante le giornate del convegno accadeva un'infinità di cose: due concerti al giorno, musica tutt'altro che facile, conferenze  (per esempio quella di Alois Hàba sulla sua musica microtonale), conversazioni con persone nuove e a volte molto interessanti. Ciò  che mi piaceva particolarmente in quelle conversazioni era che si discuteva di musica, non di letteratura, perché già allora non sopportavo le conversazioni in pubblico su questioni letterarie. Non mancavano gli inviti da parte dei notabili della città e gli incontri serali dopo i concerti. Avevo la sensazione che tutto il mio tempo fosse impegnato, sebbene io - a differenza dei musicisti - in verità non facessi un bel niente. Ma ero considerato un ospite personale di Scherchen, nessuno trovava da ridire sulla mia presenza. Può sembrare strano che nessuno mi domandasse: "E lei, che cos'ha scritto?". Non mi sentivo per nulla un truffatore, perché avevo scritto "Kant prende fuoco" e Nozze, e avevo la consapevolezza di aver fatto anch'io, come i compositori presenti a Strasburgo, qualcosa di nuovo. Che nessuno conoscesse quelle mie opere, tranne 
H", non mi procurava il minimo imbarazzo. 
 A tarda notte, poi, ritornavo nella stanza che, almeno ai miei occhi, era stata sicuramente la stanza di Herder all'Auberge du Louvre. Sentivo di non esserne degno, era una sensazione da cui non riuscivo a liberarmi. Ogni notte era la stessa eccitazione, una sorta di paura, la coscienza di una profanazione, cui seguiva il castigo sotto forma di insonnia. Ma la mattina, quando era l'ora, mi alzavo abbastanza fresco, mi rituffavo di buon animo nel trambusto del convegno e per tutto il giorno non pensavo a ciò che la notte mi avrebbe nuovamente riservato. Il passato in cui ero finito quasi per errore ma nel quale sarei rimasto volentieri per tutta la vita, suscitava in me un'inquietudine che trovava un solo compenso; e questo era così meraviglioso che ogni giorno mi concedevo qualche pausa per godermelo: il mio compenso era la cattedrale. 
 Ero stato a Strasburgo una sola volta, nella primavera del 1927, durante un viaggio di ritorno da Parigi a Vienna. Avevo fatto tappa in Alsazia per vedere la cattedrale a Strasburgo e l'altare di Isenheim a Colmar. Nelle ben poche ore della sosta a Strasburgo avevo cercato la cattedrale, e improvvisamente, già tardi nel pomeriggio, mentre ero nella Krämergasse, me l'ero vista davanti. 
 Lo splendore rosso della pietra sull'immensa facciata occidentale era stata un'apparizione inattesa, poiché tutte le immagini che avevo visto prima erano in bianco e nero. 
 Ora, dopo sei anni, ritornavo a Strasburgo, e non per poche ore - per settimane, un mese. Tutto era avvenuto molto casualmente  o così sembrava. Nella sua instancabile ricerca di adepti H" si era rivolto a me, io avevo accettato il suo invito, e così, contro la mia volontà, avevo spezzato i fili dell'impetuosa passione per Anna, una passione appena agli inizi, e di cui era responsabile anche H", il quale aveva tentato di usarmi come portalettere. In verità non avevo esitato ad accettare, nonostante tutti gli ostacoli. Stavo scrivendo la Commedia della vanità ed ero ancora alla prima parte. C'erano dunque due cose che mi trattenevano a Vienna, entrambe molto importanti: la mia prima passione da quando avevo conosciuto Veza e - dopo il romanzo e Nozze - un terzo lavoro letterario che era nato sotto l'impressione degli avvenimenti in Germania e che dopo il rogo dei libri mi bruciava tra le dita. I contrasti con Anna cominciarono quando la mia partenza era già decisa ed era solo rinviata da qualche contrattempo nel rilascio del passaporto. Ma la Commedia urgeva sempre più: costretto a perdere il mio tempo nelle anticamere degli uffici, scrissi la predica di Brosam mentre aspettavo il visto al consolato francese. 
 Se oggi mi domando che cosa mi spinse veramente a partire per Strasburgo, devo rispondere che fu - oltre all'energica volontà di Scherchen, alla quale nessuno resisteva - il nome stesso  della città, quella rapida occhiata alla cattedrale verso sera, e tutto ciò che sapevo su Herder, Goethe e Lenz a Strasburgo. 
 Non credo che questi nessi mi fossero ben chiari: nulla mi sembrava così irresistibile come quell'immagine della cattedrale, ma la mia passione per lo "Sturm und Drang" nella letteratura tedesca era molto forte e ormai legata all'idea di quel breve periodo di Strasburgo. Proprio adesso la letteratura tedesca era in pericolo, una minaccia pesava su quello che ieri era stato il suo carattere distintivo: l'impulso alla libertà; (1) e questo era anche il vero tema del dramma al quale ora pensavo continuamente. Ma Strasburgo, la culla di ieri, era ancora libera. C'era da stupirsi se mi attirava, se mi coinvolgeva insieme alla mia commedia, di cui avevo scritto solo una parte, piccola ma importante? E non era stato a Strasburgo anche Büchner, al quale dovevo l'incontro con Lenz? E Büchner non era per me, ormai da due anni, la sorgente di tutto il teatro drammatico? 

 La città vecchia non era molto grande, e quasi naturalmente si finiva sempre col ritrovarsi davanti alla facciata della cattedrale. Ci si arrivava senza volere, e tuttavia era ciò che in fondo si voleva. Mi attiravano le figure dei portali, i profeti e più ancora le vergini folli. Le vergini sagge mi lasciavano indifferente, credo che fosse il sorriso delle vergini folli a conquistarmi. Di una di esse, quella che mi sembrava la più bella, mi innamorai addirittura. Più tardi la incontrai per le vie di Strasburgo, la condussi davanti alla sua effigie e fui il primo a mostrargliela. Stupita, guardava se stessa nella pietra, e il forestiero ebbe così la fortuna di scoprirla nella sua città e la persuase che lì era esistita molto tempo prima di nascere, sorridente dal portale della cattedrale, nella parte di vergine folle che, a vederla nella realtà, non era poi così folle: 
era stato il suo sorriso a sedurre l'artista e a indurlo ad assegnarle un posto tra le sette fanciulle del gruppo di sinistra. 
Tra i profeti trovai invece un cittadino di Strasburgo, anche  lui incontrato durante quelle settimane. Era uno storico dell'Alsazia, un uomo esitante, scettico, che non parlava molto e scriveva anche meno. Dio sa come era capitato tra quei profeti, ma era lì, scolpito nella pietra; e se non accompagnai anche lui davanti al portale, spiegai tuttavia a lui e a sua moglie, una donna molto sveglia, dove poteva ritrovarsi; e mentre egli, scettico come sempre, non si pronunciava su quella scoperta, sua moglie mi diede pienamente ragione. 
 Ma il vero avvenimento di quelle feconde settimane brulicanti di persone, di odori e di suoni era la scalata della cattedrale. Mi ci dedicavo quotidianamente, non saltavo un giorno. Sconsiderato e impaziente com'ero, salivo fino alla piattaforma, non mi concedevo un attimo di sosta e arrivavo in cima senza fiato. Per me un giorno che non cominciava con la scalata non era un vero giorno, e il conto dei giorni era scandito da quelle scalate. Così il mese della mia permanenza a 
Strasburgo durò in realtà più di un mese, perché a volte, nonostante tutto quello che c'era da ascoltare, riuscivo a eclissarmi anche nel pomeriggio per scomparire sulla torre. 
Invidiavo l'uomo che aveva la sua dimora lassù, perché aveva un bel  vantaggio nel lungo percorso delle scale a chiocciola. Ero incantato dalla vista dei misteriosi tetti della città, ma anche da 
 ogni pietra che sfioravo durante la salita. Vedevo contemporaneamente i Vosgi e la Foresta Nera, ed ero ben consapevole di ciò che in quell'anno li divideva. Ero ancora oppresso dalla guerra finita quindici anni prima e sentivo che pochi anni mi separavano dalla prossima. 
 Scalavo la torre, quella che era stata portata a termine, e, fatti pochi passi, stavo davanti alla lastra sulla quale 
Goethe, Lenz e i loro amici avevano iscritto i loro nomi. Pensavo a 
 Goethe, ai momenti in cui Goethe attendeva lassù l'arrivo di 
Lenz, il quale poco prima annunciava in una lettera estasiata a 
Caroline Herder: "Non posso più scrivere, Goethe è da me e mi aspetta già da mezz'ora sull'alta torre della cattedrale". 

 Nulla era tanto lontano dallo spirito della città quanto il convegno indetto da Scherchen. Io non ero nemico del moderno, non certo dell'arte moderna: come potevo esserlo? Ma quando la sera, dopo l'ultima manifestazione, andavo a sedermi al Broglie, il locale  più elegante di Strasburgo, in mezzo ai musicisti venuti da fuori, che in generale non potevano permettersi piatti troppo costosi, e vedevo H'intento a consumare il suo caviale - perché lui ordinava sempre caviale e crostini, lui solo -, allora mi domandavo se si fosse mai accorto che a Strasburgo c'era anche una cattedrale. 
 Sfinito per la lunga giornata di lavoro, ma cercando di nascondere la stanchezza, H" mangiava il suo caviale e ne ordinava una seconda porzione. Si compiaceva di far vedere che lui mangiava caviale, lui solo, e se qualcuno lo guardava bramoso ordinava anche una terza porzione, per sé naturalmente, per il grande 
lavoratore che 
 aveva bisogno di un alimento concentrato. Poiché il rito del caviale si celebrava a tarda ora, solo raramente vi assisteva la signora Gustel, sua moglie, che si era già ritirata in albergo a sbrigare per lui le mansioni di scrivano. H" non sopportava che le persone della sua cerchia stessero in ozio e trovava per tutte qualcosa da fare, come in un'orchestra. 
 Della continua tensione che lo circondava lui non poteva farsi un rimprovero, dal momento che la sua tensione superava quella di chiunque altro. Fin verso la mezzanotte se ne stava al Broglie davanti al caviale e allo champagne, ma per le sei del mattino  aveva già convocato in albergo una cantante per le prove. Non era  mai troppo presto, lui trovava sempre il modo di anticipare l'inizio della sua giornata di lavoro, e poiché dava a tutti l'esempio della sua spaventosa attività, nessuno avrebbe osato protestare per l'ora insolita di un appuntamento. Tutti prestavano la loro opera al convegno senza ricevere un compenso. I musicisti erano accorsi sull'onda dell'entusiasmo, in onore della musica nuova. Il Conservatorio, con le sue sale per i concerti, era stato messo a disposizione gratuitamente. E, dopo tutto, gratuitamente si prestava anche l'uomo più importante, colui che vi profondeva l'impegno di gran lunga maggiore, un impegno che superava - lui ne era convinto - quello di tutti gli altri messi insieme. Si tenevano innumerevoli concerti, e ciascuno filava alla perfezione, si eseguiva musica insolita, difficile, e come un demonio il capitano vigilava su tutto evitando qualsiasi contrattempo. Era un'impresa grandiosa, nella quale alla fin fine il direttore contava più dei compositori, perché era lui a presentare tutto quanto, le cose più diverse, spesso per la prima volta, e senza di lui non si sarebbe mai venuti a capo di niente. Alcuni cittadini di Strasburgo, scelti a dovere, tutti amanti della cultura, potevano accedere la sera al locale di Place Broglie e sedersi al tavolo di Scherchen. Si erano resi benemeriti ospitando nelle loro case i partecipanti al convegno o anche offrendo grandi ricevimenti. Ad essi era concesso il privilegio di guardare H" mentre mangiava il suo caviale, e tutti pensavano che quel caviale fosse ben meritato, come lo era lo champagne. Una sera uno di loro, che conoscevo come un medico miscredente, si rivolse a me e disse con ammirazione: "Mi sembra di vedere Gesù 
Cristo". 
 Ma la giornata non era ancora finita. Alla Maison Rouge, l'albergo  di H", una compagnia molto più ristretta si intratteneva ben oltre la mezzanotte. Lì c'erano solo gli iniziati, per così dire, erano esclusi i cittadini e i soliti musicisti, lì si ritrovavano tra loro gli eletti che avevano il diritto di alloggiare alla Maison Rouge. C'era il giovane Jessner, regista anche lui come il padre (2) (doveva mettere in scena Le pauvre matelot di Milhaud allo Stadttheater), e c'era la vedova Gundolf, che aveva già detto addio a Heidelberg. Gundolf era morto da poco, ma lei prendeva parte alle allegre e talvolta sguaiate conversazioni della notte. Scherchen, quando non si chiudeva nel suo mutismo o non era occupato a spiegare o a dare ordini, diventava cinico, e la scelta compagnia dei presenti si sentiva onorata dal suo cinismo e stava al gioco. 

 Vale la pena di soffermarsi sul momento particolare in cui aveva luogo il convegno per la musica moderna. Erano passate alcune settimane dal rogo dei libri in Germania. Da sei mesi  era al potere l'uomo dal nome impronunciabile. Dieci anni prima aveva imperversato in Germania una sfrenata inflazione. Dieci anni dopo le truppe tedesche penetravano profondamente in Russia e piantavano la loro bandiera sulla vetta più alta del Caucaso. Strasburgo, la sede del convegno, era una città amministrata dai francesi in cui si parlava un dialetto tedesco. 
 La città aveva conservato nelle vie e nelle case un carattere 
 "medievale" che divenne eccessivo per il naso dei forestieri a causa di un lungo sciopero della nettezza urbana. Sopra questo fetore si innalzava la cattedrale, e a chiunque era possibile mettersi in salvo dando la scalata alla piattaforma. L'organizzatore del convegno, pur essendo incline ad atteggiamenti dittatoriali a causa della sua professione di direttore d'orchestra, si rifiutava tuttavia di esibirsi nella nuova Germania, dove sarebbe potuto salire ai massimi onori grazie a un'origine incontaminata e alla sua teutonica laboriosità. Fu uno dei non molti, e questo punto è stato sottolineato a suo merito. Allora, a Strasburgo, era riuscito a riunire una sorta d'Europa, un'Europa fatta solo di musicisti che avevano fede nei loro tentativi di innovazione, un'Europa coraggiosa e fiduciosa: che tentativi sarebbero stati infatti, se non li avesse sorretti la fiducia in un avvenire? 
 In quelle settimane vivevo in mondi molto diversi. Uno di questi aveva per centro il Conservatorio, dove passavo la maggior parte della giornata. Chi entrava nel palazzo era accolto da un frastuono assordante. In tutte le stanze si facevano prove, come in 

 ogni conservatorio, ma lì veniva realmente messo a profitto ogni minimo spazio. E poi accadeva di ascoltare per lo più cose imprevedibili. In ogni altro conservatorio si crede di conoscere ciò che arriva all'orecchio durante le esercitazioni. E quasi sempre un confuso incrociarsi di particolari ben noti, viene voglia di scappare di corsa, spaventati dalla banalità delle cose già udite mille volte che si condensano in un caos nel quale tuttavia ogni  particolare resta riconoscibile e indistruttibile. Nel 
Conservatorio di Strasburgo, al contrario, tutto era nuovo e inconsueto, il particolare come il confluire dei suoni in un tutto unico, e forse era proprio questo ad affascinare e ad attirare sempre di nuovo. Io rimanevo stupefatto davanti all'indomabile costanza di quei musicisti, che non solo si raccapezzavano tra le difficoltà delle loro nuove imprese, ma lavoravano in quell'inferno, provando e riprovando e riuscendo a giudicare, in mezzo al frastuono generale, se avevano fatto progressi o no. 
 Forse uscivo così spesso dal Conservatorio solo per potervi rientrare più spesso. Infatti, se lasciavo alle mie spalle il frastuono, piombavo nel fetore dei vicoli. Lo sciopero della nettezza urbana durava da settimane. Era impossibile farci l'abitudine o dimenticarsene, un lezzo simile non si era mai sentito, e poiché di giorno in giorno si faceva più forte, non c'era nulla che colpisse i sensi con la stessa intensità, tranne appunto il caos acustico del Conservatorio. 
 Fu in quei giorni, in quei vicoli, che mi colse il pensiero della peste. All'improvviso, senza preparazione né transizione, mi trovai nel Trecento, un'epoca che mi aveva sempre interessato per i suoi movimenti di massa, i flagellanti, la peste, gli ebrei bruciati sul rogo, tutte cose che avevo scoperto nella Cronaca limburghese (3) e che poi avevo continuato a studiare. 
Adesso ci abitavo in mezzo, nella casa raffinata di un medico, e mi bastava fare un passo per scendere nei vicoli in cui regnavano l'immondizia e il fetore. Invece di fuggirne, animavo la scena con le immagini del mio terrore. Dappertutto vedevo cadaveri e l'impotenza dei sopravvissuti. Mi sembrava che le persone cercassero di evitarsi, nell'angustia dei vicoli, come se temessero il contagio. Non facevo mai la via più breve, quella che dalla città vecchia mi portava verso i quartieri nuovi e pomposi in cui sorgeva anche la principale sede del convegno. Camminavo di qua e di là per tutti i vicoli possibili, è incredibile quanti itinerari si intrecciano in un'area così limitata. 
Inspiravo il pericolo fino a riempirmene i polmoni, a quel pericolo  non volevo sottrarmi a nessun costo. Le porte davanti alle quali passavo restavano chiuse. Non ce n'era una che si aprisse, e io vedevo tutte le case piene di moribondi e di cadaveri. Ciò che sull'altra riva del Reno appariva come un prologo, qui lo avvertivo già come il risultato della guerra che non era ancora cominciata da nessuna parte. Non guardavo avanti, neanche di dieci 
 anni - come 
 avrei potuto fare simili previsioni? -, invece mi guardavo indietro di sei seco
li, e là c'era  
la peste, la massa dei morti che si propagava irresistibilmente e di là rinnovava la sua minaccia. Tutte le processioni espiatorie sfociavano nella cattedrale, e le processioni non sono mai state d'aiuto contro la peste. Perché in realtà la cattedrale era lì per 
 se stessa, e il poterla contemplare era l'aiuto, come l'esservi entrati, come il fatto che essa continuasse a stare in piedi e non fosse crollata mai, in nessuna delle pestilenze. Sentivo che anche a me si comunicava l'antico impulso alla processione, ci eravamo radunati in tutti i vicoli e marciavamo insieme verso la cattedrale. E poi tutti eravamo in piedi lì dentro, tutti, io solo: forse era un ringraziamento e non una preghiera, un ringraziamento perché potevamo sostarvi indenni, nulla essendo crollato sopra le nostre teste e restando ferma al suo posto la meraviglia delle meraviglie, la torre. Alla fin fine io potevo salirvi e guardare dall'alto il mondo ancora immune dalla distruzione; e quando lassù respiravo a pieni polmoni, la peste che tentava di nuovo di propagarsi tutt'intorno sembrava respinta, ricacciata nel suo vecchio secolo.
NOTE:
(1) Nel testo l'espressione Drang nach Freiheit si richiama almovimento dello "Sturm und Drang". Un richiamo analogo si può trovare nel precedente volume autobiografico di Canetti, Il frutto del fuoco, dove la seconda parte è intitolata "Sturm und
Zwang" ("Tempesta e costrizione") ?N" d'T"*.
(2) Leopold Jessner, il padre, uno dei maggiori registi tedeschitra le due guerre, era nato a Königsberg nel 1878. Emigrò in
America nel 1933 e morì a Los Angeles nel 1945 ?N" d'T"*.
(3) La Limburger Chronik di Tileman Elhen abbraccia il periododal 1336 al 1398. E" considerata un capolavoro tra le cronache medievali tedesche ?N" d'T"*.
Anna
 L'arrendevolezza delle donne verso H'era stupefacente. Erano letteralmente comandate a bacchetta, costrette ad amarlo, e poi lasciate al loro destino prima ancora di aver trovato un posto nella sua vita. Si rassegnavano perché erano ancora legate a lui dal loro interesse per la musica. Se la loro opera poteva essergli utile, lui restava coscienziosamente imparziale. Così si salvava sempre qualcosa della vecchia atmosfera, e nessuna perdeva la speranza di riconquistare un giorno, all'improvviso, i suoi favori. Nessuna era gelosa dell'altra, ciascuna si sentiva di volta in volta la prediletta e si sforzava di custodire per sé il segreto di quella predilezione. La possibilità di essere prescelta in questa o in quell'occasione, il riserbo contro ogni indiscrezione erano più importanti di un atteggiamento di gelosia e di odio nei confronti delle altre. Con H" gli atti dettati dalla gelosia non sarebbero approdati a nulla. H" non era influenzabile, si sentiva un autocrate che faceva quel che voleva, e lo era veramente.
 C'era tuttavia un'eccezione: una donna che - per ragioni storiche,  si potrebbe dire - aveva il dovere di essere gelosa e faceva largo uso di questo dovere. La signora Gustel, che nei giorni del convegno era legata ufficialmente a H", era la sua quarta moglie, e non da molto tempo, perché si era unita a lui solo poche settimane prima. In verità aveva esitato parecchio a diventare la sua quarta moglie, e non senza un buon motivo, poiché era stata anche la sua prima moglie. Gustel gli era stata vicina negli anni oscuri di Berlino, quando lui non era nessuno e voleva diventare qualcuno solo col proprio lavoro. Lei era la sua ancella indiana e ricordava una indiana fin nel colore rossiccio della pelle, che sembrava una pelle conciata: l'abitudine al silenzio e alla fedeltà avevano avuto questo effetto. Parlava molto raramente, ma quando lo faceva ogni parola era aspra, quasi gliel'avessero spremuta fuori a forza. Sembrava allora che fosse legata al palo del supplizio, pronta a tutto pur di non cedere e capace di tacere a oltranza. Fin dall'inizio aveva aiutato H" lavorando per lui, scrivendo e annotando tutto quello che c'era da scrivere e da annotare, lettere, accordi, appuntamenti, tutta la parte organizzativa passava per le sue mani: lei non negava il suo aiuto ovunque ci fosse qualche risultato da raggiungere. Anche quando questi risultati cominciarono ad avvicinarsi e poi divennero realtà, anche quando lei vide che ogni successo del marito le scaricava addosso supplizi imprevedibili e innumerevoli, anche allora rimase impavida al suo palo, ad attirarsi nuovi supplizi. Lui stesso era taciturno, e non si riusciva a cavarne più di quanto si ottenesse da Gustel. Lei taceva sulla propria infelicità, lui sulla propria felicità. Tutt'e due avevano labbra sottili, ermeticamente chiuse. 
 H'era ancora abbastanza giovane quando aveva assunto a 
Francoforte, come successore di Furtwängler, la direzione dei 
Saalbaukonzerte. Fu allora che conobbe Gerda Müller, la 
Pentesilea della mia giovinezza, una delle attrici più affascinanti del suo tempo. (1) Per lei abbandonò Gustel senza tanti complimenti, e unendosi a Gerda Müller poté godersi l'esatto contrario di Gustel: impeto e passione, ruoli violenti e brutali, una forza che esisteva per amore di se stessa e non era al servizio di nessuno. Con lei il palo del supplizio cessava di essere  una virtù perché era un segno di inettitudine. Forse in quel periodo si svegliò in H" l'interesse per il teatro e il dramma. Dovette essere un periodo turbolento anche nella sua vita privata, se non proprio il più turbolento di tutti. Gustel si tirò in disparte e dovette fare la prova di una vita monotona e meno tribolata. Si trovò un amico col quale visse serenamente per sette anni. 
 Credo che H" non mi abbia mai parlato di Gerda Müller, mentre mi parlò molto della moglie successiva, che fece una breve apparizione nella sua vita e fu l'unica ad andarsene contro la volontà di H". 
Era attrice anche lei, ma mentre Gerda Müller si rifugiava nell'alcool, Carola Neher viveva per l'avventura, anzi la eccitavano 
le avventure più pazze. (2) 
 Qualche tempo dopo Strasburgo, uno o due anni dopo, feci un viaggio a Winterthur, dove H" dirigeva l'orchestra del mecenate Werner Reinhardt. Dopo averlo ascoltato in un concerto lo accompagnai nella sua stanza e rimasi con lui fino alle ore piccole. Avvertivo in H'un'inquietudine insolita, diversa dall'ansia di opprimere e di dominare che gli era abituale. Lui stesso appariva oppresso, come se qualcuno lo avesse sconfitto, eppure il concerto era andato bene, sicuramente non peggio del solito. Mi pregò di rimanere, sebbene fosse già molto tardi. Si guardava intorno nella stanza in una strana maniera, come se vedesse fantasmi. I suoi occhi vagavano inquieti qua e là, senza fermarsi su nulla in particolare. Non mi guardava neppure, voleva solo che lo ascoltassi. Ero un po'"spaventato da quell'ansia che in lui non avevo mai visto, e restai in silenzio. All'improvviso la cataratta si aprì, e H" si abbandonò con una passione che non mi aspettavo: "E" accaduto qui, in questa stanza. E" stata l'ultima volta che ci siamo parlati. Abbiamo parlato tutta la notte"; e a scatti, quasi ansimando, mi fece il racconto dell'ultima conversazione tra Carola Neher e lui. 
 Lei voleva andarsene, lui la scongiurava di restare. Lei non ne poteva più, quella vita non le bastava. Voleva piantare tutto, il teatro, la fama e lui, H", un pagliaccio, altro che direttore d'orchestra. Lo disprezzava, era un impostore che recitava davanti al pubblico dei concerti. Per chi credeva di dirigere, per chi versava ogni sera quel fiume di sudore? E che razza di sudore era quello? Sudore falso, sudore che non contava niente. Per  lei contava uno studente che aveva conosciuto, un ragazzo della Bessarabia che era pronto a giocarsi la vita e non aveva paura di niente, né della prigione né di una condanna a morte. H" sentì che Carola faceva sul serio, ma era sicuro di poterla trattenere. Finora aveva avuto ragione di tutto, anche di ogni donna, e se c'era qualcuno che se ne andava poteva essere solo lui. Se ne andava, lui, solo quando gli faceva comodo. Usò tutti i mezzi per indurla a rimanere. Minacciò di tenerla sotto chiave. Disse che doveva proteggerla da se stessa, salvarla dal pericolo mortale in cui si stava cacciando. Quello studente non era nessuno, era un ragazzino senza la minima esperienza della vita. Lo coprì di insulti e restituì a lei tutto ciò che lei aveva appena detto contro di lui e contro la sua arte di direttore. Sembrò che gli attacchi contro lo studente come persona incrinassero la sicurezza di Carola. Lei rispose affermando che era la causa di quel giovane che le stava a cuore, non tanto lui quanto la sua causa: 
 anche un altro avrebbe potuto farle la stessa impressione se avesse avuto quelle idee e se avesse dimostrato lo stesso attaccamento per lei. Lo scontro durò tutta la notte. Lui voleva stancarla per costringerla alla resa, lei opponeva una tenacia  irriducibile e rispondeva all'aggressione fisica con grida e imprecazioni. Alla fine, era già mattina, lui credette di averla domata. Lei si assopì, e lui la guardò soddisfatto prima di addormentarsi a sua volta. Quando si svegliò, lei era scomparsa, e non si fece più vedere. 
 Per giorni e settimane H" ne attese il ritorno. Aspettò una notizia, non venne una parola. Non sapeva dove fosse finita. Nessuno ne sapeva niente. H" fece fare delle ricerche, e risultò che anche lo studente era scomparso. Dunque era fuggita con lui, come aveva minacciato. Da tutte le piazze teatrali in cui la conoscevano, veniva la stessa risposta. Era scomparsa senza lasciare traccia 
e senza scrivere una parola a nessuno. Lui 
 era ancora quello che ne sapeva di più, dopo la battaglia di quella notte, e si sentiva ferito, come se gliel'avessero strappata dalla carne. Non si rassegnava e non poteva più lavorare. 
Ebbe un tracollo e si considerò un uomo finito. 
 Era in una condizione di spirito così disperata che pregò 
Gustel di ritornare. Aveva bisogno di lei, era pronto a giurare che non l'avrebbe lasciata mai più. Avrebbe accettato tutte le condizioni. No, non l'avrebbe ingannata mai più. Ma doveva ritornare, subito, perché ne andava della sua vita. Gustel ruppe l'amicizia settennale con un uomo che le aveva fatto solo del bene,  e ritornò da H", dal quale aveva ricevuto i torti peggiori. Mise delle condizioni molto severe, e lui le accettò, promettendo di dirle sempre la verità e di non nasconderle nulla. 

 Durante le settimane di Strasburgo l'attenzione con cui osservavo  il comportamento di H'era acuita da una serie di circostanze delle quali né io né lui potevamo misurare tutta l'importanza. A Vienna mi aveva usato come portalettere, e così avevo fatto la conoscenza di Anna. Ignoravo il contenuto della lettera, ma H" mi aveva incaricato di consegnarla a lei e a nessun altro. Era un ordine perentorio, anche se H" non aveva speso molte parole. Io avevo telefonato ad Anna ed ero stato convocato nel suo atelier di Hietzing. 
 La vidi prima che lei mi vedesse. Più esattamente, vidi le sue dita, occupate a modellare nell'argilla una figura di grandezza superiore al naturale. Il viso restava nascosto. Anna mi voltava ancora la schiena e apparentemente non udì lo scricchiolio della ghiaia che mi entrava negli orecchi a ogni passo. Forse non voleva udirlo, assorta com'era in quella figura dalle forme appena accennate. Forse la visita, benché preannunciata, cadeva per lei in un momento poco opportuno. Io pensavo solo alla lettera che dovevo consegnare. Avevo appena messo piede nella serra che serviva da atelier quando Anna si voltò con uno scatto improvviso e mi guardò in faccia. Ormai ero a pochi passi da lei e mi sentii scosso dal suo sguardo. Da quel momento i suoi occhi non mi lasciarono più. Non ero del tutto impreparato, perché avevo avuto il tempo di avvicinarmi, ma fu lo stesso una sorpresa: un'immensità senza fondo che non mi aspettavo. Anna era fatta solo di occhi, tutto il resto che si vedeva di lei era illusione. Era una sensazione folgorante, ma nessuno avrebbe avuto la forza e l'acume per confessarla a se stesso. E" impossibile ammettere qualcosa di così mostruoso: occhi più vasti della persona cui appartengono. Nella loro profondità trova posto tutto quello che puoi aver pensato, e adesso che c'è spazio per accoglierlo dovresti trovare le parole per esprimerlo. 
 Vi sono occhi che fanno paura perché mirano solo a sbranare. 
 Servono a rintracciare la preda che, una volta scoperta, è condannata a essere preda: anche se riesce a sottrarsi resta bollata come tale. E" tremenda la fissità di uno sguardo inesorabile. Non cambia mai, è prefigurata per sempre, non c'è vittima che possa modificarla. Chi entra nel suo campo visivo è già vittima, non può opporre alcuna difesa, potrebbe salvarsi solo attraverso una metamorfosi totale. Poiché nella realtà la metamorfosi non è possibile, miti e uomini sono sorti per causa sua. 

 E" un mito anche l'occhio che non cerca vittime da sbranare e tuttavia non abbandona più ciò che ha visto una volta. Questo mito è diventato realtà, e chi ne ha fatto l'esperienza non può non ripensare con terrore ed emozione all'occhio che l'ha costretto ad annegare nella sua vastità e profondità. L'offerta è irresistibile: vieni a gettarti in me con tutto quello che puoi pensare e dire, vieni, dillo, e annega! 
 La profondità di questi occhi non ha limiti. Ciò che vi precipita non tocca mai il fondo, e nulla ritorna più a galla. Il mare di quest'occhio non ha memoria, è un mare che esige e riceve. Tutto quello che hai gli viene dato, tutto ciò che conta, ciò che forma la tua natura più intima. Non è possibile rifiutargli nulla. 
Non è un atto di violenza, non è un furto. Quello che dài lo dài con gioia, come se questa fosse la sua naturale destinazione, come se non ci fosse altra destinazione possibile. 
 Cessai di essere un portalettere nel momento in cui consegnai la lettera ad Anna. Lei non la prese, ma con un cenno del capo mi indicò un tavolo, nell'angolo dello studio, che prima non avevo notato. Mi avvicinai al tavolo facendo tre passi di lato e deposi la lettera, forse a malincuore, perché adesso avevo una mano libera per lei e non volevo dargliela. Gliela porsi solo a metà, lei guardò la sua mano destra, imbrattata di argilla, e disse: "Come vede, non posso darle la mano". 
 Non so che cosa ci dicemmo subito dopo. Mi sono sforzato di ritrovare le prime parole, le sue come le mie. Si sono perdute. Anna era tutta nei suoi occhi, e per il resto quasi muta: la sua voce, profonda com'era, non ha mai avuto un significato per me. Forse lei non parlava volentieri, rinunciava alla voce tutte le volte che poteva, prendeva sempre in prestito la 
voce di altri, sia nella musica sia nei rapporti con le persone. Per lei era più importante agire che parlare, e poiché, a differenza di suo padre, non era portata all'azione, cercava almeno di plasmare con le dita. Io ho conservato il ricordo del primo incontro con lei liberandolo da tutte le parole: dalle sue, perché forse non ce n'era nessuna da conservare, dalle mie, perché lo stupore provato alla vista di Anna non aveva ancora trovato parole abbastanza articolate. 
 Eppure so che qualcosa era stato già detto prima che ci sedessimo  al tavolo che mi aveva indicato. Anna voleva leggere qualche mio lavoro e io le spiegai, senza vergognarmi, che non avevo pubblicato neanche un libro e che avevo soltanto il manoscritto di un lungo romanzo. Se voleva, la prossima volta potevo portarglielo. Disse che le piacevano i romanzi lunghi, non i racconti di poche pagine. Fece il nome di Fritz Wotruba, dal quale 
prendeva lezioni di scultura. Io ne 
 avevo sentito parlare, lo ammiravano per il suo spirito indipendente e lo temevano per la sua irruenza. Anna aggiunse che al momento Wotruba non era a Vienna. Raccontò che prima si  era dedicata alla pittura e aveva studiato con De Chirico a Roma. 
 Della lettera di H" non si curava affatto. L'aveva lasciata sul tavolo, ancora chiusa, e non poteva non vederla. Mi ricordai del mio incarico, come se da H'avessi ricevuto una consegna, e dissi esitando: "Non vuole leggere la lettera?". Lei la prese in mano con aria annoiata, la scorse rapidamente, come se tutto si riducesse a due o tre righe, mentre era una lettera piuttosto lunga. Sapevo che la scrittura di H'era anche difficile da decifrare, e tuttavia sembrò che Anna avesse afferrato tutto al 
primo sguardo. Depose la lettera con un gesto di ripulsa che la fece finire più vicino a me, e disse: "Non c'è niente di interessante". 
La guardai stupito. Avevo creduto che tra lei e H" ci fosse quasi un'amicizia e che lui volesse comunicarle qualcosa di importante, tanto importante che si era rivolto a me per evitare di servirsi della posta. "Può leggerla" disse Anna. "Ma non ne vale la pena". Io non la lessi. 
 Come potevo pensare ancora a un messaggio importante se lei se ne sbarazzava così bruscamente? Non sapevo spiegarmi la sovrana indifferenza di Anna, il disprezzo che dimostrava per H". Ma ormai non ero più un portalettere. Non ero più tenuto a rispettare i limiti del mio incarico perché Anna me ne aveva esonerato. Si era comunicata anche a me la leggerezza con cui lei aveva messo da parte la lettera, senza il minimo segno di collera o di disappunto. Non pensai di domandarle ancora se voleva consegnarmi una risposta per H'o se gli avrebbe scritto direttamente, senza servirsi di me. 
 Quando mi congedai, avevo un nuovo incarico: dovevo ritornare  presto per portarle il mio manoscritto. Mi feci vivo tre giorni dopo, e l'attesa mi era sembrata molto lunga. Anna lesse subito il romanzo, credo che nessun altro l'abbia letto così rapidamente. Da allora diventai per lei una persona vera, e cominciò a trattarmi come se fossi provvisto di tutto, anche di occhi. Diceva che a quel libro dovevano seguirne molti altri della stessa qualità, e ne parlò anche in giro. Insisteva per vedermi e mandava lettere e telegrammi. Che un amore potesse cominciare con i telegrammi era per me un'esperienza del tutto nuova: ne ero sbigottito, all'inizio mi sembrava impossibile che una frase di Anna mi arrivasse tanto in fretta. 
 Mi invitò a scriverle e mi diede un recapito dal quale le mie lettere le sarebbero state inoltrate. Bisognava metterle in una busta, chiudere la busta con ogni cura e infilarla in una seconda 
busta da indirizzare alla signorina Hedy Lehner nella 
Porzellangasse. Era questo il nome di una giovane modella che andava da Anna ogni giorno, una bella ragazza con i capelli rossi e un viso volpino. A volte, arrivando all'atelier, la vedevo di sfuggita: aveva un sorriso quasi impercettibile, taceva e scompariva. In certi casi aveva appena consegnato una mia lettera, e allora Anna non aveva avuto il tempo di leggerla e nemmeno di aprirla. Anna era molto guardinga, perché qualcuno poteva sempre arrivare inaspettatamente. Mi confessò che le costava fatica parlare con me prima di aver letto la lettera, e 
anzi avrebbe preferito non vedermi così presto. E" vero che io le raccontavo una quantità di cose, e lei ascoltava tutto avidamente, ma più ancora le piacevano le lettere in cui la glorificavo. 
 "Tamburi e trombe" era l'espressione con cui Anna 
descriveva le mie frasi trasferendole in una terminologia che le era  più familiare. Lettere simili non gliele aveva mai scritte nessuno, e ne arrivavano molte, anche tre in un giorno, tante che la signorina Hedy Lehner non riusciva sempre a consegnarle subito,  una dopo l'altra. La ragazza avrebbe dato nell'occhio se si fosse fatta vedere più volte al giorno, e poiché Anna era sotto stretta  sorveglianza (un regime che lei del resto aveva accettato), ogni imprudenza poteva costarle la perdita della modella che le era stata concessa. Alla mia esuberanza verbale Anna rispondeva con altrettanti messaggi, spesso con telegrammi (che Hedy portava all'ufficio postale dopo aver lasciato l'atelier). I telegrammi si addicevano a una persona di poche parole come Anna,  ma lei era orgogliosa e voleva ringraziare anche per lettera 
chi le rivolgeva così copiose e fantasiose testimonianze di glorificazione. 

 Anna mi sembrava molto misteriosa, e in realtà era piena di misteri. Io non sapevo quali e quanti segreti dovesse custodire, non pensavo che il silenzio su quei segreti fosse diventato un modo di vivere, una questione vitale. E" vero che Anna, per sua fortuna, dimenticava molto facilmente, ma c'erano altri che potevano risvegliare in lei il ricordo del passato. Le figure che modellava, applicandosi con tanto impegno, sembravano l'essenza stessa della segretezza. Per lei lavorare sodo era un punto d'onore, e se già aveva ereditato questo atteggiamento dal padre, un severo richiamo al lavoro le veniva adesso da Wotruba, il suo giovane maestro, che era abituato a scolpire le pietre più dure. Certo, Anna modellava anche, soprattutto delle teste, e quello non era un lavoro duro, bensì qualcosa di totalmente diverso: era per lei l'unico mezzo per avere contatti con altre persone, l'unica via che non le fosse preclusa dalle abitudini vessatorie e amatorie di sua madre. 
 Nelle sue lettere Anna non si scopriva, ma almeno tentava di reagire, e questi tentativi, finché duravano, riuscivano ad appagarla. Quando non poteva più reagire, nei periodi di delusione - ed erano frequenti, poiché Anna restava cieca davanti alle persone che non posavano per lei e soprattutto davanti a quelle che aveva deciso di amare -, in quei periodi di delusione si abbandonava interamente alla musica. Suonava molti strumenti, ma il pianoforte era il suo rifugio. Credo di non averla mai sentita suonare, evitavo tutte le occasioni, e perciò non so dire - per me è rimasto un enigma - che cosa significassero realmente per Anna quegli sfoghi solitari. Io diffidavo di una musica che concedeva tanto spazio alla scultura. 
 L'aureola di gloria che cingeva il capo di Anna era così splendente che non avrei dato credito alla minima insinuazione. Se qualcuno fosse venuto a dirmi le cose più orribili, se mi avesse dato tutte le prove, scritte di pugno da lei, per dimostrarmi  che quelle cose Anna le aveva pensate, fatte e confessate, io  non avrei creduto né a lui né alla stessa scrittura di Anna. 
Per me Anna era intangibile, e mi riuscì tanto più facile conservare questa immagine quando di lì a poco ebbi davanti agli occhi la sua immagine in negativo, l'immagine di sua madre, sulla quale potevo rovesciare tutto ciò che di penoso si notava in 
quell'ambiente. Erano lì tutt'e due: da 
 una parte la luce muta che si nutriva solo di colpi di scalpello e di pura glorificazione, dall'altra la vecchia insaziabile, sempre brilla. La stretta parentela che le univa non poteva trarmi in inganno: io vedevo nella figlia una vittima, e vedevo giusto, almeno nel senso che si è vittime dell'atmosfera che si respira in 
tenera  età e poi si continua a respirare. 
 Il fatto che H" mi avesse scelto come portalettere poteva essere la riprova di quanto egli mi riteneva innocuo. Prendeva se stesso talmente sul serio che il peso di una sua lettera autografa superava di gran lunga il peso di qualsiasi intermediario. Ma può anche darsi che mi giudicasse 
particolarmente innocuo perché aveva 
 ascoltato la mia lettura di Nozze. L'autore di un dramma così glaciale doveva essere un nemico giurato di ogni piacere. 
Forse gli sembrò perfino spiritoso adoperare un essere simile come latore di una lettera d'amore. Ma H" non ebbe nessuna risposta, neanche un diniego. Quando andai a trovarlo tra una prova e l'altra subito dopo il mio arrivo a Strasburgo, pronunciò solo tre frasi, nella solita maniera sforzata. Cominciò domandando se avevo consegnato le sue due lettere ad "Anni", come lui la chiamava. "Naturalmente" dissi io, e aggiunsi molto stupito: 
"Perché, non le ha risposto?". Da queste parole H" dedusse che avevo visto Anna più di una volta e che forse eravamo addirittura diventati amici. Era un sospetto, per il momento, e come molti uomini di potere H'era portato a sospettare sempre. Le mie parole "Perché, non le ha risposto?", significavano per lui che dovevo conoscere Anna abbastanza bene per sapere che aveva l'abitudine di  rispondere. H'aveva il diritto di pensarlo. Ma il suo disprezzo per un giovane oscuro e trascurabile era d'altra parte così grande, così naturale in lui, che si affrettò a soffocare quel sospetto. E,  con ogni mezzo, fece di tutto per scoprire che non c'era nulla da scoprire. 
 Durante i primi giorni H" cercò di provocarmi con battute sarcastiche sul conto di Anna. Aveva i capelli biondi ossigenati, diceva, ma una volta erano di un grigio topo; e calcava sul "grigio" come se Anna fosse invecchiata precocemente e avesse avuto i capelli grigi fin dal giorno in cui l'aveva conosciuta, quando lei aveva vent'anni, ed era la moglie di Ernst Krenek. E il suo modo di camminare? Ci avevo fatto caso? Quella non poteva essere 
una donna, nessuna donna cammina così. Ognuna delle sue osservazioni mi faceva salire il sangue alla testa. Difesi Anna con tanta passione e tanto furore che H" non tardò a capire tutto. "Lei è innamorato mica male," disse "da lei non me lo sarei mai aspettato". Non ammisi niente, non tanto per discrezione quanto perché odiavo H" per le sue osservazioni. Ma parlai di Anna nei toni più elevati, e H" sarebbe stato un imbecille a non accorgersi che la amavo. Fu uno strano momento quello in cui H" mi obbligò ad erigermi a paladino di Anna, perché pochi giorni dopo il mio arrivo a Strasburgo avevo ricevuto un telegramma e una lettera con cui lei mi dava freddamente il benservito. Dopo due mesi, poco più, finiva per lei un rapporto che doveva perseguitarmi ancora per anni. Non mi faceva rimproveri, non dava  spiegazioni. La lettera fatale cominciava con questa frase: 
"Credo, M", di non amarti". Anna mi aveva dato un nome irlandese che ora suonava irreale come le lettere in cui prima aveva protestato il suo amore. E adesso veniva H", ignaro della disgrazia che mi aveva colpito e che lui stesso aveva provocato - io ritenevo infatti che fosse stato il mio viaggio a Strasburgo a 
disilludere Anna sul mio conto -, 
 adesso veniva H'e faceva del suo meglio per distruggere con ogni frase l'immagine di lei. Era evidente il piacere che provava in quella perfida impresa. Ogni volta lui diceva di Anna cose peggiori, e più di una volta io pensai che aspettasse solo di dirne altre e ancora più cattive. 
 Ci vedevamo brevemente tra le prove e i concerti, mentre H" trangugiava caviale e crostini al Broglie, oppure più a lungo nel suo albergo, a tarda notte, quando la cerchia più ristretta era radunata a scambiarsi malignità. Ma H" preferiva sparlare di Anna quando era solo con me. Alla fine, ma non era passato molto tempo, venne una sua diffida vera e propria: "Non metta le mani in questa faccenda, non fa per lei, lei è troppo ingenuo e inesperto". 
Ogni frase era un'offesa, e io fremevo, ma ancora di più mi feriva ogni offesa rivolta ad Anna. H" se ne accorse, e quando tornò alla carica sulla strana andatura di Anna, tirò fuori una storia  così abominevole che ancora oggi non so decidermi a riferirla. Io lo fissai inorridito, ma anche con aria interrogativa, come se non avessi afferrato. Lui non volle rinunciare al piacere di ripetere la frase. "Ma perché, perché?" domandai, ed ero talmente sbigottito che non mi scagliai subito contro di lui. Con le sue affermazioni mostruose H" colpiva non tanto Anna quanto se stesso. Capì di avere esagerato, di essersi spinto troppo oltre. "Adesso, per favore, non si agiti tanto per così poco. Ci sono più cose tra il cielo e la terra di quante lei ne possa immaginare". 
 Non domandai come fosse venuto a conoscenza di tutto ciò. 
Sapevo che mentiva, e sapevo anche perché. Mi ricordai del gesto con cui Anna aveva spinto via quella lettera, dicendo: "Non c'è niente di interessante". H" le era indifferente. Lei lo aveva sempre spinto via, come aveva fatto con la lettera in mia presenza. Anna non provava alcun interesse per lui, neanche per il musicista, figuriamoci per l'uomo. C'erano direttori d'orchestra che la interessavano, con i quali aveva rapporti, e come figlia di suo padre aveva qualche titolo per giudicare se un direttore era bravo.  Per lei H" poteva dirigere una banda militare o poco più, il suo aspetto e i suoi atteggiamenti gli giocavano un brutto scherzo. Proprio lui, che si dava tanto da fare per scoprire musica nuova e difficile, veniva retrocesso all'ultimo posto, dietro coloro che si sarebbero ben guardati anche solo dal toccare un brano di musica moderna, inconsueta. Il rifiuto di Anna lo feriva in modo particolare. H" tentava di prendere piede a Vienna, ma non contava nulla agli occhi della madre, che era un personaggio molto influente. Per lui, quindi, sarebbe stato tanto più importante contare qualcosa agli occhi della figlia. E poiché lei, la figlia di Mahler, non voleva saperne, H" non poteva fare a meno di coprirla dei peggiori insulti. 
 Mi trovavo improvvisamente in una situazione tesa fino al punto di rottura. Se non mi fossi tanto appassionato alla vita di 
Strasburgo, alla storia letteraria della città e anche alla nutrita  schiera di eccentriche figure di musicisti che avevo conosciuto tutte insieme in pochi giorni, se non fosse stato per questo, non so se avrei trovato la forza di rimanere. Era la caduta da un cielo luminoso in cui ero stato innalzato. Una donna che ammiravo e veneravo, che trovavo bella e nella quale vedevo perpetuarsi la forza creativa di un grande uomo, mi aveva accolto nel suo mondo, aveva letto il mio romanzo e l'aveva giudicato degno della sua affettuosa attenzione. Il romanzo non era neppure stato pubblicato e solo pochi ne conoscevano l'esistenza. Pochi sapevano anche del  dramma che avevo letto al direttore d'orchestra e che mi aveva fruttato un suo invito al convegno dei musicisti nuovi. Dovevo quell'invito al mio dramma e dovevo l'amore di Anna al romanzo. Subito dopo il mio arrivo a Strasburgo ero salito sulla piattaforma dove Goethe aveva atteso la venuta di Lenz. Ero stato lassù davanti alla lastra sulla quale avevano iscritto i loro nomi. Nella città vecchia, ai piedi della cattedrale, ero stato accolto in una delle case più belle, ammesso nella stanza in cui, a quel che si diceva, Goethe aveva fatto visita a Herder malato. 

 Forse il fatto che il mio senso di felicità si fosse stranamente impregnato della profonda devozione verso quei grandi spiriti vissuti a Strasburgo avrebbe portato a una hybris pericolosa. Forse, esaltato dall'atmosfera della stanza, del tempio, in cui dovevo dormire, avrei concepito propositi nuovi e smisurati, avrei abbandonato il compito vero e difficile che mi ero assegnato. Ma la fortuna volle che fossi preso di mira dalla sfortuna proprio al momento giusto. Tre giorni dopo il mio arrivo trovai alla segreteria del Conservatorio la lettera e il telegramma di Anna. In mezzo al tumulto infernale delle prove, tra  cento occhi, lessi quelle parole fredde come il ghiaccio. Anna 
non mi rimproverava niente, ma non sentiva più niente per me e dichiarava senza ritegno e senza riguardo che le erano piaciute soltanto le mie lettere, non chi le scriveva. Adesso non parlava con  nessuno, era ritornata al suo pianoforte e suonava solo per sé. E benché nella lettera non vi fosse nessuna sfumatura emotiva, tuttavia si avvertiva una tristezza - molto contenuta - per la delusione sofferta. Anna si augurava di ricevere le mie lettere anche in futuro, ma senza promettere che avrebbero avuto una risposta. Io non contavo più, ero stato deposto sulla terra, ma mi restava la facoltà di raggiungere il cielo di Anna con le lettere, soltanto con le lettere. C'era un che di sovrano nel modo in cui 
Anna trattava il suo prossimo, come se 
 esercitasse un diritto naturale, il diritto di innalzare e di destituire, senza spiegazioni e senza cautele, come se la persona  colpita più duramente dovesse ancora esserle grata perché il colpo veniva da lei. 
 Il senso di annientamento che si diffuse in me fu tuttavia bilanciato dal duello cavalleresco che negli stessi giorni dovevo sostenere per Anna. Di tanto in tanto H" cercava di buttarla ancora più in basso, di scalzarla dal suo piedistallo, e ciò che riusciva più insopportabile era il fatto che quelle contumelie erano intrise di una strana specie di libidine che doveva eccitare la mia gelosia. Lui stesso agiva per gelosia e commetteva l'errore di attribuire a me una fortuna che non avevo più, perché io ero stato buttato a terra. Respingevo tutti i suoi attacchi, gli ricacciavo in gola a una a una le sue volgarità, ero caparbio come lui, anche se del mio veleno ero assai meno sicuro che lui del suo. 
All'inizio ero ancora prudente per non esporre Anna e me, noi due 
- come se esistesse ancora un "noi due" - al ludibrio di H". Ma  poi, con l'aggravarsi della tensione, quando le offese di H" non ebbero più limiti, lasciai cadere ogni ritegno e parlai di Anna come nelle lettere che le avevo scritto e che ora non dovevo più scriverle. Nella lotta contro la perfidia di H" tutto ciò che vi era stato tra Anna e me - o avevo creduto che vi fosse - rimase intatto e ben saldo. Io non potevo lamentarmi, non potevo dirgli la nuova verità, ma proclamavo la vecchia verità con tale veemenza e convinzione che alla fine lui restava interdetto e ammutoliva, pieno di rabbia, davanti alla mia incrollabile fede. 
 Poiché H" parlava solamente in pubblico o in funzione del pubblico, le molte persone che lo attorniavano e formavano la sua corte non potevano non meravigliarsi se qualche volta lui voleva appartarsi con me, sia pure per poco. Ogni volta H'annunciava expressis verbis quei nostri incontri a quattr'occhi. "Devo parlare 
 con C"" diceva. Il tono faceva pensare a una questione importante, ma quei pochi minuti strappati alla sua frenetica attività erano poi dedicati esclusivamente alle discussioni su Anna. Senza dubbio H" si godeva i miei impetuosi contrattacchi, perché non prendevano mai di mira la sua persona ma erano vere e proprie apologie di Anna e contrastavano a tal segno con le sue oscene calunnie che lui stesso, H", ne aveva bisogno. Non poteva  farne a meno, aveva bisogno di quelle calunnie e delle mie apologie, e forse anch'io - ma solo adesso me ne rendo conto -  avevo bisogno delle une e delle altre per uscire dalla pena e dall'umiliazione che provavo a causa di Anna. 
 Gli altri, non avendo la minima idea del vero tema dei nostri colloqui, avevano l'impressione che H" si consultasse con me su certe questioni, come se tra me e lui esistesse un rapporto di fiducia, un rapporto indispensabile per l'intensa attività che H" doveva svolgere durante quelle settimane musicali. 
 Era della stessa opinione anche Gustel, che a modo suo doveva sorvegliare il marito. H" l'aveva richiamata spergiurando che non poteva vivere senza di lei, e per convincerla della sua importanza, per invogliarla ad assumere la sua nuova funzione, le aveva promesso la più assoluta sincerità. Gustel aveva il dovere di vigilare perché lui non fosse attirato in nuove complicazioni. Era ancora fresca la crisi seguita alla fuga di Carola Neher, che lo aveva piantato nel  modo più ignominioso e senza nessuna "circostanza attenuante". 
Era la prima volta che una storia di donne - o per meglio dire: una sconfitta di fronte a una donna - lo privava della capacità di lavorare, e lui, l'imperturbabile H", era rimasto talmente turbato da cercare rifugio in Gustel, la prima moglie, la moglie degli anni oscuri. Era sincero e non la ingannava nell'affidarle il nuovo incarico di vigilare su di lui affinché nessuna donna potesse nuocergli. 
 Gustel aveva dunque il diritto di scoprire, anche per fare una prova, quali fossero gli argomenti delle conversazioni confidenziali tra H'e me. Cominciò quindi a farsi sotto, e per guadagnarsi la mia amicizia, e forse anche il mio aiuto, arrivò perfino a parlarmi di sé, lei che era così ruvida e chiusa. La condotta di H" le causava indicibili sofferenze ogni volta che una donna collaborava con lui, e al convegno partecipavano anche molte musiciste: alcune cantanti, tra le quali una oltremodo seducente, disinvolta e pronta a tutto, ma anche una meravigliosa violinista che 
H" conosceva già da Vienna, una creatura infantile che incantava tutti con l'originalità delle sue espressioni, con una naturalezza che era però spiritualizzata e non priva di pretese. Questa violinista veniva da una famiglia di grande cultura musicale che le aveva dato anche, tra gli altri, il nome di Amadea in onore di Mozart. Del resto era degna di quel nome, perché in lei tutto era musica, ogni fibra e ogni respiro. In lei era natura ciò che un uomo 
come H" si era dovuto conquistare a prezzo di fatiche sovrumane. I tempi che doveva seguire rientravano in una forma di obbedienza: le partiture erano prescrizioni nel pieno senso della parola. Direttore d'orchestra e partitura erano per lei una cosa sola e inscindibile, e ogni ordine del direttore, 
qualunque ordine, era 
 una continuazione, un'estensione della partitura. Avrebbe dato 
la vita per 
 una partitura, e naturalmente anche per colui che ne era padrone e signore. Amadea - la chiamo col secondo dei suoi nomi, quello mozartiano, che in verità veniva usato solo in forma abbreviata - non  faceva alcuna differenza tra i signori della musica di allora, mentre faceva molta differenza tra le opere in sé e aveva in proposito idee e convinzioni ben radicate. Le sue capacità non erano solo di natura tecnica, s'intendeva di Bach, che forse era il Giove  del suo Olimpo, s'intendeva di Mozart, ma anche di novità assolute, davanti alle quali il colto pubblico viennese inorridiva come davanti al demonio. Fu tra i primi a suonare musiche di 
Alban Berg e Anton von Webern, e fu chiamata perfino a Londra per la loro esecuzione. Era però docilissima alle istruzioni dei veri usufruttuari di tutte le opere, i direttori d'orchestra: non si piegava alle loro persone, perché di queste non sapeva niente, bensì ai loro consapevoli ordini di potenti della musica. A Vienna aveva già collaborato con H", e a Strasburgo accettava che lui la convocasse per le prove alle sei del mattino; ed 
essendo 
 una creatura assolutamente limpida e 
 aperta, non sapeva nascondere la sudditanza che la legava a lui fino a farne il vero oggetto della gelosa sorveglianza di Gustel. 

 Io non m'intendevo molto di musica. Non me n'ero mai occupato dal punto di vista teorico. Ero un ascoltatore volonteroso, ma non avevo nessun metro per giudicare. Mi lasciavo impressionare dalle cose più disparate, da Satie e da Strawinsky, da Bartòk e da Alban Berg, ma senza una reale conoscenza, in un modo che non mi sarei mai permesso nelle cose letterarie. 
 Tanto più importante era per me osservare attentamente le persone nella molteplicità delle reazioni che si manifestano tra 
loro in simili circostanze. Ne ricavai esperienze 
incancellabili. Per la maggior parte si trattava di persone che non  ho più visto, e tuttavia le ho ancora davanti agli occhi, chiare e nette, a cinquant'anni di distanza: mi piacerebbe poter dire oggi a ciascuna di esse l'impressione che mi diede allora. Ma l'oggetto principale delle mie osservazioni nei giorni del convegno era colui che l'aveva indetto, l'uomo che ne era l'artefice e il cuore. Fu uno studio meticoloso e spietato, proprio come era lui. Non mi lasciavo sfuggire una parola, non un gesto, non un silenzio. Finalmente avevo davanti a me, allo stato puro e a portata di mano, ciò che volevo capire e rappresentare: un uomo di potere. (3)  Dopo il felice esito del convegno, come ultimo atto e come ultima occasione per ritrovarsi tutti insieme, fu annunciata una festa che doveva aver luogo a Schirmeck nei Vosgi. Più d'uno avrebbe  preferito partire prima, ma si voleva anche dare un attestato di gratitudine a H" per il suo straordinario impegno, e così quasi tutti rimasero per festeggiarlo. 
 La festa si tenne in un albergo, ma all'aperto. Seduti a lunghi 
tavoli, 
 ascoltammo parecchi discorsi. H" mi pregò esplicitamente di dire qualche parola sulle mie impressioni: sarebbe stato interessante, secondo lui, conoscere il parere di un profano, di un letterato. Mi trovai nella scabrosa situazione di dover dire qualche frase che corrispondesse alla verità senza lasciar trapelare  nulla delle cose più recondite che avevo scoperto in H'e che del resto non erano ancora mature nemmeno in me stesso. Mi limitai quindi a descrivere l'abilità con cui H" riusciva a riunire tante persone, e l'arte irresistibile con cui le costringeva a un'impresa comune. Le mie parole dovettero sembrargli troppo generiche, troppo neutre, lui si aspettava piuttosto un panegirico come quelli che aveva ascoltato da quasi tutti gli oratori della serata. Verso la fine della festa, quando la parte ufficiale si era conclusa e H'era ormai in vena di lasciarsi andare, arrivò il momento di vendicarsi. 
 Era stato festeggiato come maestro della bacchetta, e in verità nelle poche settimane del convegno aveva saputo fare miracoli con i suoi allievi. Ma adesso, dopo aver bevuto la sua parte, voleva divertirsi. H" si attribuiva un altro magistero del quale 
nessuno dei presenti aveva mai sentito parlare, e 
all'improvviso venne fuori con l'idea di leggere la mano a tutti, non  a uno, non ad alcuni, ma a tutti. Disse che gli bastava vedere la mano di una persona per conoscerne il destino, e raccomandò di non far ressa intorno a lui, di presentarsi uno alla volta, magari mettendosi in fila. Così avvenne. Dapprima ci fu qualche esitazione, ma non appena H'ebbe cominciato a leggere una mano, circa la metà dei presenti si alzò dai lunghi tavoli per mettersi docilmente in fila. H" si concentrò su ogni singolo, dando la precedenza a quelli che aveva più vicini a tavola. Era molto rapido, come in tutto quello che faceva, non tratteneva la mano a lungo, una breve occhiata gli bastava; e col piglio risoluto che gli era abituale pronunciava il verdetto. Si limitava a indicare quanti anni sarebbe vissuto il soggetto, non s'interessava del resto, delle sue qualità, delle sue prospettive per il futuro: a ciascuno dettava una determinata età e non spiegava come fosse arrivato a quella cifra. Non parlava più forte del solito, solo chi gli stava vicino poteva udire le sue parole. 
 Dopo la lettura della mano si vedevano visi soddisfatti ma anche visi preoccupati. Poi tutti tornavano ai loro posti e si sedevano in silenzio. Nessuno discuteva, nessuno domandava al vicino di ritorno: "Che cosa ha detto?". Ma ci fu un sorprendente cambiamento d'umore. La voglia di scherzare era passata. I fortunati ai quali si annunciava una lunga vita tenevano per sé la loro fortuna. Ma anche gli altri, quelli che secondo H'avevano poco  da vivere, si astenevano dal protestare o dal lamentarsi. Quanto a H", benché sembrasse assorto nell'esame delle mani, era ben attento a osservare chi si faceva avanti e chi no. Le mani appartenevano per lo più a persone che gli erano indifferenti, e lui le leggeva solo pro forma. Ma c'erano altri che aspettava al varco, e poiché io cercavo di tenermi indietro, cominciai a sentirlo in agguato. Ero seduto abbastanza vicino a lui, di fronte, ma spostato un po'"lateralmente, e non accennavo ad alzarmi per mettermi in coda. Tra una mano e l'altra H" mi lanciava rapide occhiate. Poi disse all'improvviso, con una voce acuta e così forte che fu udito da tutta la tavolata: "Che cosa le succede, C"? Ha paura?". Io non volevo lasciar credere che temevo il suo verdetto. Mi alzai e feci qualche passo per mettermi in fondo alla fila. "Ma no, venga qua subito," disse lui "altrimenti mi scappa un'altra volta!". Mi avvicinai a malincuore, e fu l'unica volta che H'interruppe l'ordine della fila. Afferrò avidamente la mia mano e dopo avervi gettato a malapena un'occhiata decretò: "Lei non arriva a trenta". Aggiunse anche una spiegazione, cosa che non aveva fatto con nessun altro: "La linea della vita si spezza, qui!". Lasciò cadere la mia mano come un oggetto inutile, mi guardò con un'espressione raggiante e sibilò: "Io arrivo a ottantaquattro. Sono appena a metà della vita, io. 
Ho solo quarantadue anni". "E io ne ho ventotto". "Lei non arriva a trenta, non ci arriva!". Ripeté la sentenza e si strinse nelle spalle: "Niente da fare. A che cosa servirebbe?". Con  una vita tale non si poteva intraprendere più nulla. A che potevano servire i due anni che H" mi assegnava? Due anni erano meno che niente. 
 Mi ritirai, per H'ero sistemato, ma il gioco non era finito. 
Tutti dovevano presentarsi al giudice, di ognuno lui doveva decidere il destino. Quasi con tutti l'operazione andava  avanti meccanicamente, solo perché erano lì. Se fossero stati delle mosche non sarebbe cambiato niente. Alcuni tuttavia erano oggetto di un'attenzione speciale. Non sempre capivo perché. Tornai al mio posto, quasi di fronte a H", e mi sedetti ad ascoltare. Qualcuno si sottraeva fingendosi ubriaco, e non c'era richiamo che potesse smuoverlo. I più si presentavano e si sentivano assegnare questo o quel destino. Per quelli che non erano mai incorsi nell'ira di H" contrariandolo in qualche modo, decideva il suo capriccio, ed essi avevano il permesso di arrivare più o meno all'età matura. Nessuno arrivava a ottantaquattro anni. Un gruppo di individui innocui e malleabili si sentì promettere sessanta e più anni. Ma non erano i suoi favoriti, perché costoro venivano presi di mira in modo particolare. Era chiaro che H" voleva disporre di tutti a suo piacimento. C'erano anche alcune donne, ma non se la cavarono meglio degli uomini. Morivano tutte prima degli uomini ai quali erano legate. Per H" le vedove avevano poca importanza, le donne cessavano di essere desiderabili se non c'era un uomo a cui 
rubarle. Tranne me, nessuno doveva morire a trent'anni. 
NOTE:
(1) Si veda Il frutto del fuoco, cit", p" 58. Gerda Müller 
(1894-1951) era famosa come interprete di personaggi tragici, da Clitennestra alla Pentesilea di Kleist ?N" d'T"*. 
(2) Carola Neher (1905-1942) si segnalò sulle scene tedesche come interprete di Shaw e di Brecht, oltre che di Klabund, il suo primo marito. Alla fine del 1931 ottenne a Berlino uno degli ultimi grandi successi con la prima rappresentazione di Storie del  bosco viennese di Ödön von Horvàth, che interpretò insieme con Peter Lorre, Hans Moser e Paul Hörbiger. Nel 1933 riparò a Mosca, ma fu arrestata nel 1939 e fucilata tre anni dopo nel campo d'internamento russo di Orenburg ?N" d'T"*. 
(3) "Non c'è alcuna espressione del potere più evidente dell'attività del direttore d'orchestra": così cominciano le pagine che Canetti dedica alla figura del direttore d'orchestra in Massa e potere (trad" di Furio Jesi, Adelphi, Milano, 1981, pp" 478-81) ?N" d'T"*. 
Parte seconda - Il dottor Sonne 
Un gemello in dono 
 In quell'anno 1933, sotto l'impressione degli avvenimenti in 
Germania, è nata la Commedia della vanità. Alla fine di gennaio 
Hitler era andato al potere. Da quel momento in poi ogni avvenimento sembrò sinistro e carico di oscuri significati. Tutto ti toccava da vicino, di tutto ti sentivi partecipe come se fossi presente a ogni scena di cui venivi a conoscenza. Nulla era stato previsto, ogni spiegazione e riflessione, ogni più ardita profezia sembravano acqua fresca a misurarle con la realtà. Ciò che  accadeva era inaspettato e nuovo in ogni particolare. La modestia dell'apparato concettuale che serviva da motore contrastava in maniera incredibile con la vastità degli effetti. E benché tutto riuscisse incredibile, su una cosa non c'erano dubbi:  che quegli avvenimenti potevano sfociare solo in una guerra, e  non già in una guerra riluttante e malsicura di sé, bensì animata da mire superbe e ingorde, come le guerre bibliche degli Assiri. 
 Su questo non c'erano dubbi, e tuttavia ci si cullava nella speranza che si potesse ancora evitare. Ma come evitarlo prima di aver capito? 
 Dal 1925 mi ero imposto il compito di scoprire che cos'è la massa, e dal 1931 anche quello di stabilire come il potere sorge dalla massa. Già durante quegli anni era difficile che passasse un giorno senza che i miei pensieri si volgessero al fenomeno della massa. Non volevo prendere scorciatoie, non volevo semplificare 
 le cose, mi sembrava assurdo isolare uno o due aspetti e trascurare così tutto il resto. Nessuna meraviglia, quindi, se ancora non avevo fatto molti progressi. Ero sulla traccia di alcune connessioni: quella tra massa e fuoco, per esempio, o la tendenza della massa a crescere - una proprietà che essa ha in comune col fuoco -; ma quanto più me ne occupavo tanto più appariva chiaro che mi ero accinto a un'impresa che potevo portare a termine solo impegnandovi la parte migliore della mia vita. 
 Ero pronto ad armarmi della pazienza necessaria, ma gli avvenimenti non erano così pazienti. Quando nel 1933 calò sul mondo la grande accelerazione che doveva trascinare tutto con sé, io non avevo ancora nulla da contrapporle sul piano teorico e sentivo  il grande bisogno interiore di raffigurare ciò che non capivo. 
 Già un anno o due prima, e in origine senza alcuna relazione con gli avvenimenti del tempo, mi ero messo a lavorare intorno all'idea di un divieto contro gli specchi. Quando andavo dal parrucchiere a farmi tagliare i capelli, era imbarazzante dover guardare sempre la propria immagine davanti a sé; quell'uomo dirimpetto, sempre uguale, mi dava un senso di costrizione, di oppressione. Così i miei sguardi vagavano a destra e a sinistra, dove sedevano persone che erano affascinate da se stesse. 
 Si guardavano a fondo, si studiavano, facevano smorfie per arrivare a una migliore conoscenza dei propri lineamenti, non si stancavano, non sembravano mai sazie di sé; e ciò che mi stupiva soprattutto era che non si curavano affatto di chi, come me, le osservava per tutto il tempo, tanto erano impegnate a occuparsi esclusivamente di se stesse. Erano tutti uomini, giovani e vecchi, rispettabili e meno rispettabili, così diversi l'uno dall'altro che 
si stentava a crederci, e tuttavia così simili nel loro comportamento: ognuno era in adorazione di se stesso, prostrato davanti alla propria immagine. 
 Ciò che mi colpiva in modo particolare era l'insaziabilità della contemplazione di sé; e una volta, nell'osservare due esemplari grotteschi, mi domandai che cosa sarebbe avvenuto se improvvisamente un divieto avesse privato la gente di un momento così prezioso, il più prezioso di tutti. Era possibile imporre un divieto capace di distogliere l'uomo dalla propria immagine? E quali altre vie poteva prendere la vanità se si cercava di tagliarle le gambe con la forza? Era un gioco divertente immaginare le conseguenze di un simile divieto, e per il momento non era impegnativo. Ma quando si arrivò ai roghi dei libri in Germania, quando si vide che razza di divieti venivano emanati e applicati all'improvviso, con quale imperturbabile pervicacia si poteva impiegarli per la produzione di masse entusiaste, allora fu come se il fulmine mi avesse colpito, e il divieto contro gli specchi cessò di essere un gioco e diventò una cosa seria.  Dimenticai ciò che avevo letto sulla massa, dimenticai quel poco che avevo scoperto, mi buttai tutto dietro le spalle e cominciai da  capo, come se per la prima volta mi trovassi di fronte a un avvenimento di carattere così generale; e concepii la prima parte della Commedia della vanità, la grande seduzione. Una trentina di personaggi, tutti viennesi fino alla minima inflessione dei loro diversissimi modi di parlare, popolano una zona che ha l'aspetto familiare del Wurstelprater. Ma è un Prater come nessuno l'ha ancora mai visto, dominato da un fuoco che continua a crescere durante il susseguirsi delle scene, attizzato e alimentato dai personaggi dell'azione. Come accompagnamento acustico si ode  il tintinnare degli specchi che in baracconi appositamente allestiti sono bersagliati da una pioggia di palle e ridotti in frantumi. La gente porta con le proprie mani i suoi specchi e ritratti, gli uni perché siano fracassati, gli altri perché finiscano in cenere. A questo divertimento popolare un banditore fornisce le parole d'ordine, e il vocabolo che ricorre più frequente e più imperioso nel suo discorso è "Noi!". Le scene sono disposte come a spirale: dapprima scene piuttosto lunghe, in cui personaggi ed eventi si chiariscono a vicenda, poi sempre più brevi. Tutto si riferisce sempre più al fuoco: prima da lontano, poi sempre più da vicino, finché un personaggio diventa il fuoco lui stesso precipitandosi tra le fiamme. 
 L'ossessione di quelle settimane me la sento ancora nelle ossa. C'era un calore dentro di me come se fossi io stesso il personaggio che diventa fuoco. Ma nonostante la frenesia che mi incalzava dovevo astenermi da ogni parola imprecisa e soffrivo per il morso che mi stringeva la bocca. Davanti ai miei occhi, dentro le mie orecchie sorgeva la massa di cui ero ancora lontano dal possedere una chiara visione. Come il vecchio facchino Franzi Nada crollavo sotto il peso degli specchi. Come Franzi, sua sorella, venivo arrestato e chiuso in prigione a causa del fratello perduto. Nelle vesti del banditore Wondrak aizzavo la massa, in quelle di Emilie Fant strillavo crudelmente e ipocritamente invocando il mio figlio crudele. Mi trasformavo nei personaggi più abominevoli e cercavo la mia giustificazione in quelli calpestati, che amavo. 
 Per me nessuno di quei personaggi è andato perduto. Per me ognuno è rimasto vivo, più delle persone che conoscevo a quel tempo. Tutti  i fuochi che mi avevano colpito da quando ero bambino sono confluiti nel fuoco del rogo dei ritratti. 
 La febbre che avevo in me nello scrivere non mi aveva abbandonato quando partii per Strasburgo. Mi misi in viaggio mentre stavo ancora lavorando alla prima parte, e lo straordinario è che le frenetiche settimane del convegno non mi distrassero minimamente dalla commedia. Il progetto era così ben definito dentro di me come nessuno degli altri cui mi sono dedicato. Dopo il convegno trascorsi il mese di settembre a Parigi e ripresi il lavoro esattamente al punto in cui l'avevo interrotto a Vienna. Terminai la prima parte e ne ero come inebriato. Credevo di essere riuscito a fare qualcosa di nuovo, a rappresentare una massa in forma drammatica, il suo aggregarsi, il 
suo ingrossarsi, il suo 
 esplodere. Sempre a Parigi scrissi anche molte scene della seconda parte. Vedevo benissimo tutto il seguito, perfino la terza parte mi stava sempre chiara davanti agli occhi. 

 Non ero uno sconfitto quando feci ritorno a Vienna. Il freddo diniego di Anna mi aveva colpito, ma non mi tormentava come forse sarebbe avvenuto in un altro momento. Mi sentivo così sicuro sotto l'ala della commedia che telefonai ad Anna come se non fosse successo niente, e le annunciai una visita all'atelier. Presi - al telefono - un tono freddo e distaccato, e questo le piacque. Lei era davvero fredda e distaccata. Non sfiorai neanche con una parola ciò che era accaduto tra noi, e fu un sollievo per lei, poiché detestava tutte le scene penose, i rimproveri, i rancori, le recriminazioni. Era soddisfatta di aver seguito il suo impulso più forte, quello che la spingeva alla libertà; ma io accennai alla commedia, della quale le avevo parlato prima della mia partenza, e sebbene per lei i lavori teatrali contassero poco o niente riuscì 
 esprimere qualche interesse (sapevo di non dovermi aspettare niente di più). Da quando ci conoscevamo, Anna voleva presentarmi il suo giovane maestro, Fritz Wotruba, che però si era assentato da Vienna prima che io partissi per Strasburgo. 
Adesso era ritornato, e lei lo avrebbe pregato di farsi trovare all'atelier il giorno della mia visita. Così avremmo pranzato insieme. 
 Aveva avuto una buona idea. Era la prima volta che la rivedevo dopo la rottura. Il sentiero in mezzo al giardino, lo scricchiolio della ghiaia, che mi parve molto più forte di quanto lo ricordassi, la serra che le serviva da studio, Anna nello stesso camiciotto azzurro, ma un po'"spostata rispetto alla statua, che era al centro. Questa volta Anna non aveva le dita nell'argilla, teneva le braccia abbassate e gli occhi rivolti a un giovane uomo che era inginocchiato davanti alla statua e vi armeggiava intorno con le dita. L'uomo mi volgeva le spalle, e non si alzò quando io 
entrai nell'atelier e Anna disse il mio nome. Non tolse le mani dall'argilla e continuò a impastarla, girò la testa verso di me restando inginocchiato e disse con voce profonda e sonante: "Anche lei sta in ginocchio davanti al suo lavoro?". Era una battuta scherzosa con cui voleva scusarsi per non essere balzato in piedi e non aver potuto darmi la mano. Ma anche una battuta aveva in lui peso e significato. Il suo "anche" era una forma di benvenuto. Così il suo e il mio lavoro erano messi sullo stesso piano, lo "stare in ginocchio" voleva esprimere una speranza, e cioè che anch'io, come lui, prendessi sul serio il mio lavoro. 
 Fu un buon inizio. Di quella prima conversazione mi è rimasta nella memoria soltanto la frase con cui cominciò. Ma vedo ancora 
Wotruba davanti a me, me lo vedo seduto di fronte, occupato con la sua costoletta. Anna aveva fatto servire il pranzo per noi ma non vi prendeva parte, restava in piedi, ogni tanto andava in giro per lo studio e poi si avvicinava di nuovo al tavolo per seguire la conversazione. Se ne interessava solo a metà, il cibo per lei non significava niente, poteva lavorare per giorni interi senza pensarci. Ma adesso la sua era anche una forma di riguardo, voleva offrirmi qualcosa ma nello stesso tempo pensava anche a Wotruba, che teneva in grande considerazione per l'energia che metteva nel lavorare la pietra più dura, per la sua inflessibile fermezza; perciò si era prodigata per lui ed era diventata la sua prima allieva. Era convinta che quell'incontro avrebbe avuto un seguito e ci lasciava soli a conversare insieme per la prima volta, senza immischiarsi e senza attirare l'attenzione su di sé. In quella occasione dimostrò molto tatto, perché se si fosse allontanata troppo avremmo avuto la sensazione di essere come domestici, ai quali si prepara il pasto a un tavolo appartato, nell'angolo. 
Si dava da fare qua e là nell'atelier, ma poi ritornava sempre da noi e seguiva la conversazione in piedi, come se fosse lì per servirci; tuttavia non si tratteneva a lungo, per non disturbare con la sua presenza. Ancora pochi mesi prima non si sarebbe lasciata sfuggire una sola parola di una simile conversazione, fosse la prima o anche una successiva. Allora aveva deciso di non trattarmi come una persona indifferente e si comportava di conseguenza. Adesso che aveva preso la decisione opposta, poteva dar prova di tatto e lasciare che la conversazione avvenisse in piena libertà. 
 Ma da quando avevamo cominciato a mangiare la conversazione ne soffriva. Mi colpirono subito le mani di 
Wotruba, lunghe, nervose, piene di forza ma straordinariamente sensibili, quasi creature a sé, con un proprio linguaggio che io cominciai a seguire più delle parole: non avevo mai visto mani così belle. La sua voce, che mi era piaciuta in quella prima frase, non la udivo più, per il momento era come se non dicesse niente, tanto era forte la prima impressione di quelle mani. Forse per questo ho dimenticato la conversazione. Wotruba era occupato a ritagliare pezzi di carne dai contorni netti, di forma regolare, quasi quadrata, e li portava alla bocca con un gesto veloce e deciso. Dava un'impressione di energia più che di ingordigia, il tagliare sembrava ancora più importante 
dell'ingoiare, e tuttavia 
 era impensabile che la forchetta si fermasse a metà strada, che Wotruba facesse una domanda o non aprisse la bocca solo perché l'altro stava parlando. Il boccone scompariva subito, inesorabilmente, e gli altri lo seguivano in rapida cadenza.  Le costolette erano filacciose, io mi sforzavo di togliere le parti che mi sembravano immangiabili, continuavo a trovarne, continuavo a tagliare, e ciò che avevo scartato rimaneva nel piatto. Tutto quel girare, rivoltare, dubitare, quel lavorare di punta e di taglio, quella manifesta riluttanza a mettere sotto i denti ciò che avevo nel piatto, contrastava in maniera così stridente col comportamento di Wotruba che a un certo punto lui se ne accorse, nonostante tutta l'attenzione dedicata alla sua costoletta. Rallentò un poco i gesti, notò lo scempio nel mio piatto: era come se ci avessero servito cibi totalmente diversi o come se lui e io appartenessimo a due specie differenti. La conversazione, che già era stata interrotta dalle compunte operazioni del mio commensale, prese un altro andamento: Wotruba guardava stupefatto. 
 Non poteva credere che l'individuo seduto davanti a lui trattasse la carne in maniera così indegna. Alla fine mi domandò se avevo intenzione di avanzare tutta quella roba. Io borbottai qualche parola sulla carne filacciosa, ma lui non ci badò granché, lui mangiava anche le filacce, tutto quello che faceva parte di un boccone ben squadrato. Davanti a una forma così netta e precisa non c'era niente da ridire. Tutto il mio lavorio gli riusciva disgustoso. Da quel primo incontro Wotruba si fece l'idea di avere a che fare con un pasticcione; e, come seppi poi, la sua impressione la riassunse subito dopo davanti alla moglie, a casa sua. 

 Al tempo in cui Fritz Wotruba diventò mio grande amico - non tardammo molto a considerarci fratelli gemelli - la mia consapevolezza di scrittore toccò uno dei punti più alti. Dopo avere sperimentato e ammirato l'aggressività di Karl Kraus, scoprivo quella dello scultore, il cui lavoro consisteva nell'aggredire quotidianamente la pietra più dura. Wotruba è stato l'essere più selvaggio che io abbia conosciuto, qualunque cosa discutessimo o facessimo insieme aveva sempre un carattere drammatico. Grande era il disprezzo per gli altri, per quelli che se la prendevano comoda, che non rifuggivano dai compromessi o forse non sapevano neppure che cosa volessero. Come due creature uniche nel loro genere, ci precipitavamo per le strade di Vienna, e 
l'andatura di Wotruba 
 era veramente un precipitarsi: arrivava rapido e impetuoso, chiedeva o si prendeva quel che voleva, e già si era precipitato via, prima ancora che si sapesse se era soddisfatto o no. A me piaceva quel suo modo di muoversi, che più d'uno temeva e tutti ormai conoscevano. 
 Il luogo in cui sentivo più forte la mia affinità con Wotruba era il suo atelier. Il municipio di Vienna gli aveva assegnato due arcate sotto il viadotto della ferrovia urbana. Sotto un'arcata - o davanti a essa, se il tempo era buono - Wotruba si scagliava contro la sua pietra. Quando vi andai la prima volta, stava lavorando a una figura femminile distesa. Colpiva duro e faceva capire quanto fosse importante per lui la durezza della pietra; saltava improvvisamente da un punto della figura a un altro, ben distante dal primo, e vi applicava lo scalpello con rinnovato furore. Era chiaro quanto fosse essenziale nel  suo lavoro la parte delle mani, in che misura l'esito dipendesse dalle mani, e tuttavia si aveva l'impressione che egli addentasse la pietra. Una pantera nera, questo fu l'effetto che mi fece, una pantera che si nutrisse di pietra. Wotruba lacerava la pietra e vi affondava i denti. Non si sapeva mai in che punto avrebbe lanciato il suo prossimo assalto. Erano soprattutto quei balzi a far pensare a un felino, ma non avvenivano da una distanza qualsiasi, bensì da un punto all'altro della statua. Su ogni punto Wotruba si avventava con un'energia concentrata, e la forza con cui aggrediva si sprigionava in un certo senso là dove il balzo finiva. 
 Il giorno della mia prima visita al suo studio - Wotruba lavorava alla statua sepolcrale per la cantante Selma Kurz - i suoi balzi venivano dall'alto, e forse per questo mi venne fatto di pensare a una pantera che da un albero piomba sulla vittima. Era come se 
Wotruba dilaniasse la vittima - ma che senso può avere un 
"dilaniare" quando l'azione si esercita sul granito? Nonostante la  cupa concentrazione di Wotruba, era impossibile dimenticare anche  solo per un istante la materia con cui si batteva. Mi trattenni a lungo a osservarlo. Non sorrise una sola volta. Sapeva di essere osservato, ma non diede alcun segno di compiacenza. Era un'operazione mortalmente seria, quella che si compiva nella pietra. Compresi che Wotruba si presentava quale realmente era. La sua natura era così forte che aveva voluto scegliersi l'impegno più difficile. Per lui durezza e difficoltà coincidevano. Quando si ritraeva con un balzo improvviso, sembrava che lo facesse per sottrarsi ai colpi con cui la pietra avrebbe risposto. Era un omicidio, quello che interpretava davanti a te. Mi ci volle del tempo per capire che lui doveva uccidere. E non era un omicidio  nascosto, un omicidio che lasciasse dietro di sé tracce pressoché invisibili: Wotruba lo consumava a poco a poco, insistendo fino a che l'omicidio rimanesse come monumento. Di solito lavorava in solitudine, ma sentiva anche il bisogno di avere ogni tanto degli spettatori, senza per questo cambiare, rimanendo se stesso in tutto e per tutto, non attore, ma autore. Voleva qualcuno che comprendesse quanto faceva sul serio. Se l'arte è stata definita innumerevoli volte come un gioco, la sua non lo era affatto. Con le sue imprese avrebbe popolato la città e il mondo. Ero andato all'atelier pensando anch'io secondo l'opinione corrente, che a lui stesse a cuore la durata della pietra, l'integrità e la sopravvivenza delle sue creature. Ma quando potei assistere a come procedeva, a quell'inspiegabile combattimento, compresi che ciò che contava era la durezza della pietra e nient'altro. Quello era l'avversario con cui doveva battersi. Aveva bisogno di una pietra come altri di un tozzo di pane. Ma doveva essere il boccone più duro, e lui era lì ad attestare la durezza. 
 Lo presi sul serio a prima vista. Wotruba era quasi sempre serio. Per lui le parole avevano sempre un valore, parlava quando voleva qualcosa, e allora le sue parole esigevano, oppure mi parlava di qualcosa che l'angustiava, e allora non c'erano parole ambigue - com'è raro incontrare una persona le cui parole valgono! 
Sarà stato il mio odio contro ogni forma di mercantilismo a spingermi alla ricerca di tali parole. Il tira e molla delle parole, l'abitudine di buttarle fuori per poi riprendersele subito dopo, i loro labili contorni, il loro trascolorare, il loro dissolversi mentre tuttavia sono ancora lì, la loro frattura prismatica, la loro iridescenza, il loro correre via all'avventura prima che esse stesse lo vogliano, la viltà alla quale vengono piegate, il loro contegno servile - com'ero stufo di questa mortificazione delle parole, io che le prendevo tanto sul serio da rifiutarmi perfino di deformarle per gioco: io le volevo intatte e le volevo in tutta la loro forza. Mi rendevo conto che ognuno le adoperava a modo suo. La deformazione che non era dovuta a mala fede, che non era fatta per gioco, che conferiva alla parola proprio l'aspetto falso che corrispondeva a quello del parlante, la deformazione che lo metteva a nudo e diventava il parlante stesso - una simile deformazione io la rispettavo e la lasciavo  intatta com'era, non avrei osato toccarla, e soprattutto mi ripugnava addirittura l'idea di spiegarla. Ero soggiogato dalla terribile serietà delle parole, che valeva in ogni lingua e aveva il potere di rendere intangibile ogni lingua. 
 In Wotruba c'era questa terribile serietà delle parole. Il nostro incontro avvenne dopo che per quasi un anno e mezzo avevo sperimentato l'esatto contrario in F", un altro amico. Per F" le parole non avevano un senso intangibile, ma venivano voltate e rivoltate e servivano alla seduzione. Con lui il senso era uno e poi un altro, poteva cambiare nel giro di ore, e magari si trattava di cose apparentemente radicate, di convinzioni. Vedevo come F" assimilava quello che io dicevo, come le mie parole diventavano sue, talmente sue che io stesso non ne avrei riconosciuto la provenienza. Con lui poteva succedere che usasse le mie parole per polemizzare ad alta voce con me o anche, il che era ancor più singolare, con se stesso. E mi rivolgeva un sorrisetto estasiato quando poteva sorprendermi con una frase che aveva udito da me il giorno prima, e pretendeva il mio plauso, credendo forse che ciò fosse davvero sorprendente. Ma poiché non sapeva essere preciso, c'era sempre qualcosa di cambiato, così che il mio stesso pensiero, in quella versione, mi irritava. Allora insorgevo, e F" sembrava convinto che tra noi ci fosse una polemica, opinione contro opinione, mentre in realtà un'opinione si ribellava alla propria deformazione, e lui si era fatto bello semplicemente usando con disinvoltura la deformazione. 
 Wotruba invece sapeva ciò che aveva detto, e non lo dimenticava. Non dimenticava neanche ciò che aveva detto il suo interlocutore. Era come in uno scontro fisico: i due corpi erano sempre lì, non scomparivano, restavano impenetrabili. Potrà sembrare incomprensibile se dico che solo conversando appassionatamente con Wotruba compresi che cos'è la pietra. Non mi aspettavo di trovare in lui compassione per gli altri, in lui la bontà sarebbe apparsa ridicola. Per lui contavano due cose, soltanto queste due cose: il potere della pietra e il potere delle parole. In ogni caso si trattava dunque del potere, ma in una  combinazione dei suoi elementi talmente inconsueta che si accettava il tutto come una forza della natura e si cercava di non  esporvisi troppo, come se fosse un uragano. Il "Nero in piedi" 
 Nei primi mesi della nostra amicizia non avevo mai visto Marian  senza Fritz Wotruba. Insieme ti piombavano addosso e insieme ti stavano sotto il naso. Poiché ogni volta il discorso cadeva subito su un'impresa che bisognava portare a termine, su un nemico cocciuto che intralciava una certa commissione, un individuo della Vienna ufficiale contro il quale occorreva far scendere in campo un altro individuo ben disposto, poiché Marian era l'ariete che a testa bassa si lanciava contro qualsiasi muraglia, poiché  doveva riferire per filo e per segno i particolari della sua battaglia e non tralasciava la più piccola inezia, Wotruba la lasciava parlare a volontà e si limitava ad accompagnarla ogni tanto con qualche brontolio di approvazione. Ma anche quel poco che Wotruba tirava fuori in tali occasioni aveva un accento viennese fino all'ultima virgola, mentre il precipitoso eloquio di Marian, che nessuno e nulla poteva interrompere, veniva giù a cascata nel tedesco delle persone istruite. Non si avvertiva l'accento renano: benché Marian fosse di Düsseldorf, a giudicare dalla lingua poteva venire da una qualunque parte della 
Germania, tranne il Sud. Parlava con monotona insistenza, senza alzare o abbassare la voce, senza alcuna interpunzione o articolazione del discorso, soprattutto senza pause. Era una parlantina inesorabile, quando arrivava lei e attaccava era impossibile scapolarsela se prima non aveva detto tutto, e ogni volta era un resoconto minuziosissimo, uno breve non l'ha mai sentito nessuno dalla sua bocca. Non c'era scampo, davanti a lei tutti restavano sbigottiti, era come se una pietra ti fosse finita sopra o tu stesso fossi diventato pietra. E non c'era verso di distogliere l'orecchio. Di fronte a quelle raffiche verbali eri costretto a sorbirti ogni frase; anzi - è un particolare che mi riesce chiaro solo adesso - era una regolare successione di colpi di scalpello che dovevi lasciarti infliggere con rassegnazione. Eppure io non ero mai la persona da cui Marian voleva ottenere qualcosa a 
forza, ma semplicemente l'amico al quale faceva la sua relazione. Non oso pensare come doveva sentirsi chi era veramente oggetto degli attacchi di Marian. Per liberarsi aveva solo una via: concedere ciò che Marian chiedeva per Fritz. Se per caso veniva interrotta, o perché un ufficio chiudeva a una certa ora o perché la vittima era chiamata da un superiore o doveva rispondere al telefono, lei ritornava alla carica una volta ancora, e poi ancora e ancora. Nessuna meraviglia se alla fine la spuntava.  Marian, arrivata a Vienna giovanissima, era diventata allieva di Anton Hanak e così aveva conosciuto il giovane apprendista Fritz Wotruba, anche lui allievo di Hanak. Da allora era rimasta a Vienna, senza però assimilare nulla di quell'accento. 
Bisogna pensare che ogni giorno, per decenni, ebbe nell'orecchio la parlata di Wotruba, il più autentico dialetto viennese. Lui era fedele, con un fanatismo di cui non avevo mai visto l'uguale, alla  lingua che aveva imparato da bambino sul selciato di Vienna. Un'altra lingua non la imparò mai. In seguito, quando tentava di pronunciare qualche parola inglese o francese, l'effetto era comico: sembrava di sentire un postulante affetto da balbuzie o un accattone mutilato. Come ogni viennese, sapeva tirar fuori all'occorrenza un corretto tedesco di sapore ufficioso, e poiché era intelligente e scriveva un buon tedesco, allora non c'era niente di comico. Ma si arrendeva così malvolentieri a questa necessità, doveva compiere un tale sforzo che ne soffrivi con lui e respiravi di sollievo quando poteva ritornare se stesso e riprendere le sue inflessioni naturali. Marian non aveva mai preso neanche il più lieve accento: eppure aveva dedicato la sua vita a 
Fritz e alla sua causa, aveva rinunciato molto presto alla scultura per amore di Fritz, non ebbe mai un figlio e parlava in sua vece, parlava e parlava incessantemente. Tutto ciò che sentiva dire da lui, si traduceva subito in azione. Quando partiva per le sue missioni, non udiva più nulla, aveva in mente soltanto ciò che voleva ottenere per Fritz. Parlava e parlava, tutto il resto le scivolava addosso senza toccarla. Se lui era presente, tutte quelle parole non riuscivano - almeno allora - a disturbarlo  minimamente. Quando ero solo con lui, Fritz finiva col dirmi, credo, tutto quello che gli passava per la testa o lo angustiava. Ma nemmeno una volta l'ho sentito lamentarsi della loquacità di 
Marian. Ogni tanto fuggiva, scomparendo per qualche giorno, e allora Marian era molto in ansia per lui e andava a cercarlo dappertutto, a volte in mia compagnia. Ma non credo che Fritz cercasse scampo alla parlantina di Marian. La causa era piuttosto la fama che aveva conquistato così presto, il mestiere di artista di cui si sentiva prigioniero, forse addirittura qualcosa di più profondo, la pietra con cui si batteva e che per lui era una sorta di prigione. Non c'era nulla che temesse più della prigione, e mai provava una pietà così profonda come per i felini chiusi dietro le sbarre della gabbia. 

 Mi invitarono a pranzo nella loro casa della 
Florianigasse, al numero 31, dove Fritz aveva sempre abitato, ultimo di una grande famiglia che contava altri sette tra fratelli e sorelle. Adesso vi abitavano ancora, con lui e Marian, soltanto la vecchia signora Wotruba e la più giovane delle sorelle. La madre avrebbe pensato alla cucina in modo che noi tre potessimo starcene in pace a mangiare. Le avevano già parlato di me. 
 Era una donna molto curiosa e aveva un temperamento irascibile. Se qualcosa non le andava a genio faceva volare i piatti, e chi passava lì vicino doveva abbassare fulmineamente la testa per non farsi beccare. Si arrivava alla camera di Fritz e Marian solo attraversando la cucina. Ma era una bella camera, a sentire la loro descrizione, tutta arredata secondo il gusto di Marian, ci si poteva star comodi a conversare. Fritz sarebbe venuto a prendermi per non lasciarmi solo nella traversata della cucina, altrimenti poteva arrivarmi un piatto sulla testa. 
Domandai se per caso la mia presenza era sgradita a sua madre. 
Tutt'altro, disse Fritz, ne è felicissima, per questo prepara lei stessa le costolette, ed è anche una brava cuoca. Sì, ma allora perché tira i piatti in testa alla gente? Non si può mai sapere, disse lui, succede senza una ragione, è un ghiribizzo, un accesso d'ira. Per esempio, se lui ritarda per il pranzo. Quando è al lavoro, là sotto il viadotto, non pensa ad altro e può succedergli di rincasare due ore più tardi del previsto. Allora volano i piatti, ma lui non si è lasciato mai beccare. Lui ci ha fatto l'abitudine, sua madre ha un gran temperamento, è una ungherese, viene dalla campagna, è arrivata a Vienna facendo tutta la strada a piedi, allora era una ragazzina, poi è stata a servizio in ottime case. Con i suoi padroni ha dovuto frenarsi, tutto il suo temperamento l'ha messo da parte per gli otto figli. Con 
 loro non ha mai avuto la vita facile, con loro ha dovuto sfogarsi. "E se arriviamo tardi ci darà una strigliata, non è che tiri sempre i piatti". 
 Dunque, eravamo d'accordo. Fritz insistette per farmi da scorta e si dilungò più del solito. Lui, così imperturbabile, così pronto a far mostra della sua forza, appariva preoccupato e sprecava un mucchio di parole. Aveva molto rispetto per sua madre e la stimava proprio per le ragioni che lo inducevano a mettermi in guardia. Ebbi la sensazione che volesse far colpo su di me col ritratto che tracciava di sua madre. A guardarla sembra una donna deperita, diceva Fritz, ma l'apparenza inganna, è un fascio di nervi, una pelle dura, capace di tener testa a chiunque. Chi ha preso un ceffone da quelle mani non se lo dimentica. Il fazzoletto in  testa lo porta sempre, come le contadine in Ungheria. Non è mai cambiata, dopo tanti anni che abita a Vienna è rimasta la stessa. 
 Non è orgogliosa del suo Fritz? Non si può mai dire, non lo lascia mica vedere, davanti a un ospite soprattutto. Uno scrittore in visita, questo fa già colpo su di lei. Sì, perché legge volentieri, i libri le piacciono; ma sarà meglio stare attenti. 
 Fritz venne a prendermi in ritardo, quasi un'ora dopo. Io ero inquieto, dopo tutto quello che mi aveva detto. Sembrava che si fosse dimenticato del pericolo di uno scontro con sua madre. "Oggi si mette male," disse quando finalmente spuntò "dobbiamo correre". Non si scusava mai per un ritardo, ma quella volta almeno  avrebbe potuto darne una spiegazione. Io ero stizzito e mi sentivo volare il piatto sulla testa già molto prima che svoltassimo nella Florianigasse. Quando entrammo nella cucina, 
Fritz alzò ancora una volta il dito in segno di 
avvertimento. Sua madre era in piedi davanti al focolare: vidi prima il fazzoletto che le copriva la testa, poi la figura piccola e un po'"curva. Rimase zitta, non si girò nemmeno. Il figlio storse la bocca con aria preoccupata e mi bisbigliò: "Ehi, attenzione!". Dovevamo attraversare la cucina per arrivare all'ingresso della stanza. Fritz si chinò e con uno spintone mi costrinse ad abbassarmi. Eravamo sulla soglia della stanza quando arrivò il piatto, ben mirato alla testa di Fritz ma troppo alto. Poi  la donna si asciugò le mani nel grembiule e venne verso di noi. 
"Con quello non ci parlo" disse a voce alta, con accento ungherese, e mi diede il benvenuto nella maniera più cordiale. "Lo  fa apposta," aggiunse "si diverte a fare arrabbiare sua madre".  Sapeva che Fritz sarebbe arrivato anche più tardi del solito perché lei facesse il suo numero; e lei, proprio per questo, aveva tardato a preparare le costolette: non erano ancora ben asciutte, tanto peggio per noi. 
 Nella stanza splendevano la lastra di cristallo del tavolo e  i tubi d'acciaio delle sedie, una modernità un po'"programmatica  che corrispondeva alle idee di Marian più che alla sua persona. Alle pareti bianche erano appesi quadri di Merkel e di Dobrowsky, doni dei due artisti al giovane scultore che incarnava l'avanguardia della Sezession e ne era il membro più giovane e più contestato. L'assenza di oggetti superflui faceva risaltare ancora 
di più i quadri, e io fui attirato in particolare dai paesaggi arcadici di Merkel, che già in passato mi avevano colpito. Tra la stanza e la cucina non c'era una porta di comunicazione ma solo il vano aperto. La madre di Fritz, senza entrare nella stanza, udiva ogni parola dalla cucina e partecipava intensamente, se non altro con gli orecchi, alla conversazione. I piatti venivano fatti passare da una finestrella che serviva appunto per i pasti. Marian andava a prenderli e li posava sulla lastra di cristallo. Ed ecco arrivare le gigantesche costolette che formavano tutto il nostro pranzo. Wotruba assicurò che la carne non era filacciosa, tutt'altro: perciò avrei fatto meglio a non lavorare troppo di coltello, come quella volta da Anna, se non volevo che sua madre si offendesse. Poi si curvò sulla costoletta e cominciò a mangiare i suoi grossi bocconi quadrati, senza dire una parola. Non tolse gli occhi dal piatto neanche una volta, e finché non l'ebbe vuotato non partecipò minimamente alla conversazione: né una sillaba né un gesto. 
 Marian sosteneva la conversazione da sola. Prima si dilungò sulla colpa di cui mi ero macchiato nell'atelier di Anna, quando avevo tagliuzzato la carne e poi l'avevo lasciata lì e il piatto era tutto pieno di scarti, uno spettacolo che Fritz non aveva mai visto in vita sua. "Dalla Mahler c'era un cane nervoso" le aveva detto appena ritornato a casa; e poi le aveva spiegato che cosa avevo combinato con la carne. Da allora si era continuato a parlarne a tavola ogni giorno, Fritz le aveva messo addosso una grande curiosità; erano arrivati alla conclusione che io non ero soltanto un nemico della carne filacciosa ma della carne in generale; e adesso si vedrà se è proprio vero. Ma lei aveva notato subito che non era vero, lì da loro, e non appena ebbi finito la mia costoletta me ne trovai nel piatto una seconda, altrettanto gigantesca, senza che nessuno mi avesse chiesto niente. Marian si scusò spiegando che non c'era quasi altro, specialmente col dessert le cose andavano male, Fritz non tocca il formaggio, non mangia più formaggio da quando era bambino, e neanche la frutta conservata, perché non può soffrire che si faccia a pezzetti la frutta. Nel sentire queste notizie io guardai Fritz con aria dubitosa, e lui emise un grugnito a mò di conferma, non c'era  verso di cavarne una parola fintanto che aveva un po'"di carne nel piatto. A me interessava ormai tutto ciò che lo riguardava, perfino i particolari della sua vita fisica. In altre circostanze sarei scappato per non ascoltare discorsi simili, e invece ero tutto orecchi, come se si parlasse della sua scultura. Dalla cucina arrivò la voce della madre: "Ma lui mangia o siamo daccapo con le sue porcherie?". Anche lei era informata di quello che era avvenuto al nostro primo incontro. Marian portò via il mio piatto vuoto per testimoniare di persona che avevo mangiato tutto,  e subito mi fu servita una terza costoletta, che però rifiutai profondendomi in parole di lode per le prime due. 
 Quando ebbe finito, Fritz ritrovò la voce, e allora venni a  sapere cose interessanti. Gli domandai se aveva cominciato subito con le pietre: le sue mani non erano minimamente segnate. Ho già detto quanto erano cariche di sensibilità. Il  loro contatto, quando ci salutavamo, non mi riusciva mai indifferente. In tutti i decenni della nostra amicizia ho sempre avuto la sensazione che fossero ogni volta mani nuove, ma all'inizio destarono in me il ricordo di due mani diverse che si trovavano insieme, molto vicine, in uno stesso dipinto, ciascuna così eloquente che nessuna aveva il sopravvento sull'altra. Pensavo al dito di Dio nella scena della creazione di Adamo, nella Cappella  Sistina, e non saprei spiegare questo accostamento, perché da un solo dito la vita fluisce nella mano di Adamo, mentre nel mio caso mi veniva offerta una mano intera; ma dev'essere che io sentivo la forza della vita che da quel dito si trasmette nell'uomo futuro. 
Pensavo anche ad Adamo, alla sua mano intera. 
 Le pietre, disse Fritz, erano arrivate abbastanza presto, ma non aveva cominciato con le pietre. Era ancora molto piccolo, neanche sei anni, quando aveva grattato via lo stucco di una finestra 
per modellarlo. I vetri si 
 erano allentati, uno era caduto finendo in pezzi. L'avevano picchiato per questo. Lui lo aveva fatto un'altra volta, c'era soltanto lo stucco, doveva pur modellare qualcosa. Era più difficile mettere le mani su un pezzo di pane, erano otto figli, lo stucco delle finestre si plasmava meglio del pane, e lui fu picchiato un'altra volta, ma dalla madre, una cosa da niente in confronto alle botte del padre. 
 Il padre agguantava i fratelli maggiori e li picchiava così forte che alla fine erano diventati dei delinquenti. Ma questo venni a saperlo solo in seguito. Fritz parlava raramente del padre, che era odiato da tutti i fratelli, e quella volta, con la madre che poteva ascoltare dalla cucina, non si accennò mai a lui. 
 Il padre, di origine ceca, lavorante di sartoria, era morto già da un pezzo. Il fratello maggiore era stato condannato per un omicidio a scopo di rapina e aveva fatto una pietosa fine a Stein an der Donau. (1) Fritz mi confidò questa storia solo dopo che eravamo diventati come gemelli. Si portava addosso il marchio della violenza, ne soffriva, e il suo modo inquietante di battersi con la  pietra cominciai a capirlo quando seppi del destino toccato a quel fratello. La polizia teneva sempre d'occhio i ragazzi 
Wotruba. Fritz, il più giovane, molto più giovane dei fratelli ribelli, non poteva affacciarsi nella Florianigasse senza finire tra le braccia di un poliziotto. Ancora piccolissimo,  aveva assistito alle punizioni inflitte dal padre ai fratelli. 
Erano vere e proprie esecuzioni, con la cinghia di cuoio e grida terribili. La spietata severità del padre gli aveva fatto più impressione di tutte le colpe che i suoi fratelli potevano aver commesso. Era convinto che il padre avesse avviato i figli alla delinquenza proprio con quelle punizioni. Ma poiché gli restava davanti agli occhi la brutalità del padre, aveva anche il sospetto che tutto questo si fosse trasmesso dal padre ai figli per via ereditaria. 
 La paura di quella eredità non doveva più lasciarlo, fino a diventare un terrore panico del carcere e a condizionare i suoi rapporti quotidiani con la pietra. La pietra, la più dura e la più spessa delle materie, lo teneva prigioniero, e Fritz la addentava,  le si scagliava contro penetrandovi sempre più a fondo. Ogni giorno, per molte ore, si batteva con la pietra, e la pietra era diventata così importante per lui che non poteva più farne a meno, così importante - non come il pane, bensì come la carne. E" quasi da non credere, ma l'opera di Fritz Wotruba deve molto alla lotta tra il padre e i fratelli, al destino dei fratelli. Nulla di tutto questo traspare dalla sua scultura, è un legame profondo, così profondo che è entrato nell'essenza della sua materia. Bisogna conoscere la storia di Wotruba, anche le fughe che non sono mai mancate nella sua vita, l'amore appassionato per i 
felini prigionieri - nessun essere 
 umano poteva fargli pietà come una tigre in gabbia -, la sua paura  di avere figli, perché la follia omicida si potrebbe ereditare: al posto di un figlio si teneva un gatto. Bisognerebbe sapere tutto questo (e molte altre cose, a voler essere precisi) per comprendere perché Wotruba dovesse staccarsi e allontanarsi sempre più dalla carnalità della pietra, una carnalità che all'inizio era presente anche nella sua scultura, per esempio nel famoso Torso dei primi anni. 
 A vederlo in quella stanza arredata secondo i canoni del Bauhaus, ma con i quadri arcadici di Georg Merkel e gli eleganti dipinti di Dobrowsky alle pareti, mentre il resto della casa, specialmente la  cucina, era rimasto come ai tempi del padre violento, con la differenza che il potere era passato alla madre - ma che cos'era il fragoroso lancio dei piatti rispetto alle percosse brutali e interminabili del padre! -, dopo avere assistito al rabbioso  assalto della vecchia contro il ritardatario, alle manovre per schivare i piatti, dopo tutto questo non potevo immaginare  che si trattasse già di un progresso, di un incivilimento. Il padre era ormai scomparso, il fratello forse era già morto in prigione, e adesso, invece, c'era il gioco con la madre, il centro di tutto era la madre, che aveva resistito a tante prove e grazie al figlio più giovane poteva vivere una vita diversa, degna di lei, senza nessuna rinuncia all'antico ambiente: ancora la stessa casa,  la stessa cucina, ancora il selciato della Florianigasse. 

 Sotto il viadotto della ferrovia urbana, durante la mia prima visita all'atelier, avevo visto la grande figura eretta di un uomo scolpito nel basalto nero. Nessuna opera di scultori viventi mi aveva mai fatto tanta impressione. Stavo lì davanti e udivo il fragore della ferrovia che passava sopra il viadotto. Vi rimasi così  a lungo che sentii passare più di un treno. Nel ricordo non riesco a separare la statua da quel rumore. Era nata lì, tra quei rumori, frutto di un lavoro lungo e molto duro. C'erano da vedere altre statue, un buon numero, ma non troppe. L'atelier non sembrava proprio stipato. Era costituito da due grandi archi del 
viadotto ferroviario, e in uno stavano le statue che  avrebbero disturbato Wotruba mentre lavorava nell'altro. Se il tempo non era troppo cattivo, lui preferiva lavorare all'aperto. All'inizio mi ero sentito respinto dall'ambiente spoglio e dal frastuono dei treni, ma poiché non si vedeva niente di superfluo e ogni cosa aveva un interesse e un'importanza, ci si sentiva presto a proprio agio e si scopriva che quello era il posto giusto, che non poteva essercene uno più appropriato.  Ma non mi guardai troppo intorno, sebbene mi premesse dimostrare all'artista la mia attenzione, perché il "Nero in piedi", come lo chiamammo da allora, non allentava la sua presa su di me. Era come se fossi andato all'atelier solo per lui. Tentai di scrollarmelo di dosso, mi aveva reso muto, e io dovevo pur dire qualcosa. Dovunque mi appostassi, dovunque cercassi di posare gli occhi, era sempre il "Nero in piedi" a richiamare il mio sguardo, e così lo osservai da tutti gli angoli immaginabili e gli resi l'omaggio più grande attraverso il silenzio con cui mi aveva contagiato. 
 Questa statua è scomparsa. Fu sotterrata durante la guerra, come mi raccontò Wotruba, e non fu più ritrovata. Aveva suscitato aspre critiche, ed è possibile che lui non volesse più saperne. Quando fummo costretti a emigrare e a separarci - lui visse in 
Svizzera, io in Inghilterra -, Fritz era forse turbato dal ricordo  della passione che avevo concepito per il "Nero in piedi"; e poiché durante l'esilio aveva preso altre strade, molto diverse, al suo ritorno a Vienna non voleva più riallacciarsi a un'opera che aveva fatto a venticinque anni. E" vero, quella statua, con tutto ciò che io ne dicevo parlando con Fritz, gli precludeva la strada a cose nuove. Ero ostinato come lui, e con quei discorsi gli riuscivo importuno. Quando venne a trovarmi a Londra la prima volta dopo la guerra, io mi rifacevo ancora al "Nero in piedi" come termine di paragone per le sue opere più recenti, e non gli nascosi la mia delusione. Il suo periodo veramente nuovo, col quale si riallacciava anche agli esordi - io solo potevo rendermene conto - arrivando però a risultati di gran lunga superiori, non cominciò prima del 1950. E" dunque scomparsa l'opera che mi aveva legato a Wotruba, l'opera che dall'autunno 1933, quando la vidi per la prima volta, servì a definire l'idea che avevo di Wotruba fino al momento in cui, ventun anni dopo, alla fine del 1954, scrissi su di lui il saggio di cui non vorrei mai più cambiare una parola. 
 Oggi so benissimo che cosa ci sarebbe da criticare nel "Nero in piedi". Perciò posso parlare soltanto dell'esperienza di quel primo giorno. 
 La figura che ti stava di fronte, tutta nera e in grandezza  più che naturale, teneva una mano, la sinistra, nascosta dietro la schiena. La parte superiore del braccio si staccava dal corpo in maniera molto decisa e formava un angolo retto con la parte inferiore. Così il gomito spiccava netto e potente dal corpo,  quasi si tenesse pronto a ricacciare chiunque si avvicinasse troppo. 
 Il triangolo vuoto tra il torace e le due parti del braccio, l'unico spazio vistosamente vuoto che si notasse in tutta la figura, aveva qualcosa di minaccioso: faceva subito pensare alla mano invisibile, alla mano di cui avresti voluto scoprire la sorte. Sentivi che era solo nascosta, non amputata. Ma non osavi cercarla, cedevi a una sorta di magia che ti proibiva di abbandonare il tuo punto di osservazione. Prima di cominciare la ricerca, che presto o tardi era inevitabile, ti persuadevi della visibilità dell'altra mano. Nella parte destra della statua regnava la pace. Il braccio destro era tutto steso lungo il corpo, la mano aperta scendeva fin quasi all'altezza del ginocchio, sembrava tranquilla e priva di ogni carica ostile. Era così tranquilla che ad essa non pensavi affatto, colpito dal modo in cui l'altra mano si sottraeva alla vista. 
 L'uovo della testa era posato su un collo robusto che si assottigliava un poco verso l'alto (altrimenti sarebbe risultato più  largo della testa). Il viso era stretto, appiattito in avanti, 
 più viso che maschera nonostante la semplificazione dei tratti, scabro e muto, la fessura della bocca ben chiusa, a negare con energia e con sofferenza ogni confessione. Il torace e il ventre articolati in zone ben definite, piatti come il viso, dominati da robuste spalle cilindriche; la regione dei ginocchi accentuata fino a trasformarli quasi in emisferi; i grandi piedi puntati nettamente in avanti, uno vicino all'altro, ingranditi, come esigeva il peso di quel basalto; il sesso non nascosto e non invadente, quasi sottratto a una sua precisa raffigurazione. 
 Ma veniva il momento in cui ti liberavi per andare alla ricerca 
della mano che si nascondeva. La trovavi 
 - inaspettatamente - sopra la parte inferiore della schiena: allungata di traverso, enorme, i polpastrelli sporgenti, sproporzionata anche rispetto alla grande figura; e  devo ammettere che rimasi spaventato dalla violenza di quella mano. Non c'era nulla che ne denotasse la cattiveria, ma era capace di tutto. Ancora oggi sono convinto che la statua era nata in funzione di quella mano e che l'uomo che l'aveva ricavata dal basalto doveva nasconderla a tutti i costi, perché era una mano strapotente; e che la bocca che non voleva parlare custodiva il segreto della mano, e che il gomito che sporgeva minacciosamente in fuori ne difendeva l'accesso.  Andai al viadotto innumerevoli volte. La mia passione per la statua di basalto divenne il nocciolo della nostra amicizia. 
Guardavo la mano di Wotruba, la seguivo nel lavoro e stavo lì per ore, in una tensione non inferiore alla sua. Ma per quanto fossero  eccitanti le cose nuove alle quali stava lavorando, io non mi volgevo mai verso di lui senza prima dimostrare la mia reverenza per il "Nero in piedi". A volte trovavo la statua già all'aperto, perché in previsione della mia visita era stata spinta fuori dall'arcata per farmi piacere. A volte era messa dietro la porta aperta di una delle arcate, in modo che restasse isolata, senza altre statue che potevano disturbare l'effetto. Della mano non parlavo mai - di quante altre cose, del resto, non abbiamo mai parlato -, ma Wotruba era troppo intelligente per non notare che io avevo afferrato qualcosa che lui doveva dire col basalto, qualcosa che lui, nel suo orgoglio, non voleva dire con le parole. Uno dei suoi fratelli era Caino, l'omicida, e per tutta la vita Fritz si portò addosso la paura di dover uccidere a sua volta. Se non lo ha mai fatto, poteva ringraziare la pietra; e attraverso quella statua, il "Nero in piedi", ha lasciato intendere, almeno ai miei occhi, quale pericolo lo minacciasse. 
 In quella figura trovava forse espressione ciò che in Wotruba vi era di più immutabile. Il linguaggio era un'altra delle cose che in lui non potevano mutare. Le sue parole erano cariche dell'energia con cui le tratteneva. Non era un uomo taciturno e diceva la sua opinione su molti argomenti, ma sapeva quel che diceva, da lui non ho mai sentito chiacchiere inutili. Anche 
quando si parlava di qualcosa che non gli stava particolarmente a cuore, le sue frasi avevano sempre  una direzione. Se voleva conquistarsi le simpatie di qualcuno, poteva dire cose in cui era abbastanza evidente un calcolo grossolano; ma allora esagerava smaccatamente, in modo che tutto prendesse il tono di uno scherzo, sebbene in realtà le sue intenzioni fossero molto concrete. Tuttavia era anche capace di sbarazzarsi di ogni mira e di parlare con una chiarezza e insieme con una forza tali che chi lo ascoltava non sapeva resistergli e diventava come lui, limpido e forte. Non prendeva mai in prestito  un linguaggio diverso, usava sempre le parole del quartiere di 
Vienna in cui aveva giocato da bambino con le pietre del selciato; e si notava, stupefatti, come con quelle parole si potesse dire tutto, letteralmente tutto. Non era la lingua di Nestroy, grazie alla quale mi ero convinto già da un pezzo che esisteva un idioma viennese pieno di incredibili possibilità, un idioma che stimolava le trovate più fulminee e incantevoli, tanto comico quanto profondo, inesauribile, cangiante, di un'acutezza sublime alla quale un figlio di questo secolo disgraziato non potrà mai avvicinarsi veramente -, la lingua di Wotruba aveva forse solo un punto in comune con Nestroy: la crudezza, ossia proprio il contrario di quella cosiddetta dolcezza viennese che è tanto amata e screditata in ogni parte del mondo. 
 Parlo di Wotruba com'era allora, a ventisei anni, quando io lo conobbi, ossessionato dalla pietra e da propositi che non si potevano scindere dalla pietra, privo di ogni potere, pervaso da un'ambizione sul cui senso non aveva mai un attimo di dubbio, sicuro della sua causa come io lo ero della mia, così sicuro che lui e io ci sentimmo subito fratelli, senza alcun ritegno, senza esitazioni, senza vergogna, senza arroganza. Potevamo dirci cose che nessun altro avrebbe capito, perché ciò che dovevamo ancora tenere segreto  agli occhi del mondo diventava tra noi la più naturale delle confessioni. A me ripugnava la sua crudeltà come a lui ripugnava la mia "morale", ma eravamo entrambi così magnanimi da superare questi ostacoli. Io mi spiegavo la sua crudeltà con la durezza del lavoro in cui era impegnato. Lui vedeva nella mia "morale" la purezza di un ideale artistico su cui vegliavo gelosamente, l'equivalente della sua ambizione, per la quale nulla era abbastanza elevato. Quando proclamava il suo odio contro il Kitsch, eravamo un cuore e un'anima sola. Per me era come se parlasse della venalità. Per me era Kitsch tutto ciò che si faceva solo per denaro; per lui, tutto ciò che era molle e troppo facile da plasmare. Io ero cresciuto sotto la minaccia del denaro, lui con l'incubo della prigione in cui era finito suo fratello. 
 Gli diedi da leggere il manoscritto di "Kant prende fuoco". 
Ne fu conquistato come io lo ero stato dal "Nero in piedi". Si affezionò al personaggio di Fischerle. Conosceva il mondo in cui viveva Fischerle e conosceva ancor meglio la forza ossessiva di 
quell'ambizione. Non aveva nulla da 
 obiettare alla mancanza di scrupoli del nano scacchista, lui stesso sarebbe stato pronto a tutto pur di procurarsi una certa pietra. Non trovava "esagerato" il personaggio di Therese perché aveva fatto esperienze più dure. Gli piacevano i contorni netti dei personaggi, e naturalmente era di suo gusto Benedikt 
Pfaff, il poliziotto in pensione, ma anche il sinologo asessuato, e questo mi stupì molto, mentre non poteva sopportarne il fratello, lo psichiatra. Mi domandò se in questo caso non avevo commesso un errore, lasciandomi guidare dall'affetto per il minore dei miei fratelli, del quale gli avevo parlato. Nessun uomo, secondo lui, poteva avere tante pelli: forse avevo costruito una figura ideale, e ciò che uno scrittore fa nei suoi libri, Georges Kien lo faceva nella vita. Gli piaceva il "gorilla", e per contrasto il medico lo riempiva di orrore. In fondo Wotruba vedeva il 
"gorilla" con gli stessi occhi con cui lo vedeva 
 Georges Kien, ma a quest'ultimo non perdonava la facilità con cui si era convertito. A quel tempo Wotruba era pieno di diffidenza verso ogni tipo di conversioni, e spiegava che perfino il fabbro Jean, quel vecchio stupido, gli era più simpatico dello  psichiatra arrivato. Apprezzava molto, come un mio merito, il fatto che alla fine del libro lo psichiatra faccia fiasco e provochi con un discorso sbagliato la morte del sinologo tra le fiamme. 
Quel miserevole fiasco, mi disse una volta Wotruba, lo 
riconciliava alla fine col personaggio. 
NOTE:
 (1) Il nome di questa cittadina dell'Austria inferiore, sede di un penitenziario, significa "Pietra sul Danubio" ?N" d'T"*. Silenzio al Café Museum 
 Al Café Museum, dove andavo ogni giorno da quando abitavo di nuovo in città, c'era un uomo che mi colpiva perché stava sempre solo e non parlava con nessuno. Il fatto in sé non aveva nulla di eccezionale, c'erano altri che andavano al caffè per stare soli in mezzo a molta gente, ma l'uomo in questione si ostinava a nascondersi dietro i suoi giornali. Solo raramente, molto raramente, alzava gli occhi da dietro i giornali, e allora mi domandavo stupito se quella non era la faccia ben nota di Karl 
Kraus. Sapevo che non poteva essere: in quel locale frequentato da pittori, musicisti e letterati Karl Kraus non avrebbe trovato un attimo di pace, e in ogni caso sarebbe stato in compagnia di altra gente. Non era Karl Kraus, dunque, e tuttavia sembrava che l'uomo pensasse solo a nascondersi. Il viso era molto serio e stava immobile, mentre non avevo mai visto nulla di simile in Karl Kraus. A volte mi sembrava di cogliere un'espressione quasi impercettibile di dolore di cui attribuivo l'origine alla lettura dei giornali. Mi sorprendevo ad aspettare quasi con ansia i rari istanti  in cui quel viso si mostrava. Spesso interrompevo la lettura del mio giornale per accertarmi che lui fosse ancora immerso nel suo. Quando entravo al Café Museum cercavo per prima cosa lo sconosciuto e non tardavo a individuarlo, benché la faccia restasse invisibile, dalla rigidità con cui il braccio teneva il giornale - un oggetto pericoloso al quale l'uomo si aggrappava, qualcosa che avrebbe buttato via volentieri e cui dedicava tuttavia la massima attenzione. Cercavo di sedermi in modo da tenerlo sempre d'occhio, possibilmente di fronte a lui, un po'"di sbieco. Ero in soggezione davanti a quel silenzio, che presto era diventato importante per me, e non mi sarei mai seduto a un tavolino libero accanto a lui. Anch'io ero quasi sempre solo, ancora non conoscevo nessuno tra gli habitués del locale e tenevo alla mia tranquillità come lui alla sua. Stavo seduto un'ora o più di fronte a lui, di sbieco, sempre aspettando i momenti in cui gli vedevo la faccia. Le distanze tra noi erano mantenute, io avevo molto rispetto per lui senza sapere chi fosse, davanti alla sua concentrazione sentivo quasi di trovarmi davvero alla presenza di Karl Kraus, ma di un Karl Kraus come non l'avevo mai conosciuto: con la bocca chiusa. 
 Era lì tutti i giorni. In genere lo trovavo già seduto quando arrivavo, e non osavo pensare che mi aspettasse. Se però mi accadeva di non trovarlo, avvertivo un senso di impazienza, come se fossi io ad aspettarlo. Allora fingevo di sprofondarmi nel giornale, sicuramente non avrei saputo dire che cosa leggevo, e continuavo a guardare nella direzione della porta d'ingresso. Lui, poi, arrivava immancabilmente, alto e magro, rigido e schivo, 
quasi superbo, come se volesse evitare  ogni contatto e tenere alla larga le creature troppo loquaci. 
Ricordo ancora il mio stupore la prima volta che lo vidi camminare: era un po'"come se cavalcasse verso di me, neanche a cavallo sarebbe potuto stare più diritto di così. Mi ero aspettato un uomo più piccolo, con la schiena curva, ma era la testa ad avere quella sbalorditiva somiglianza. Non appena si sedeva al suo posto, ritornava a essere Karl Kraus, nascosto dietro i giornali ai quali dava la caccia.  Poiché non sapevo niente di lui, non avevo niente da dire su di lui. 
 Per un anno e mezzo lo vidi così, e diventò un pezzo muto della mia vita. Non parlai di lui con nessuno, non feci mai domande sul suo conto. Se non si fosse fatto vedere, avrei sicuramente finito col chiedere informazioni al cameriere. 
 Sentivo già allora, prima che avvenisse del tutto, che in me si preparava una svolta nei confronti di Karl Kraus. Non lo vedevo molto volentieri e non andavo più a tutte le sue serate, ma continuavo a rispettarlo e certamente non avrei osato contraddirlo. In lui non sopportavo la minima incoerenza, e anche quando l'incoerenza non era proprio evidente avrei preferito che stesse zitto. Così il suo ritratto, quello che vedevo ogni giorno al Café Museum, diventò per me una necessità, qualcosa a cui non potevo  più rinunciare. Era un ritratto, non un sosia, perché quando stava in piedi o camminava non aveva niente in comune con Karl Kraus, mentre gli somigliava come una goccia d'acqua quando stava seduto e leggeva il giornale. Non scriveva mai, non prendeva appunti. Leggeva e si nascondeva. Non leggeva mai un libro, e sebbene desse la sensazione di aver letto molto, leggeva soltanto il giornale. 
 Io avevo l'abitudine di buttare giù qualche nota al caffè, e il pensiero che lui potesse vedermi in quell'atto non mi divertiva affatto. Mi sembrava sconveniente scrivere in sua presenza. 
Quando alzava gii occhi fuggevolmente, io lasciavo cadere adagio la matita. Ero sempre sul chi vive, la mia vera attenzione, la massima attenzione, era rivolta a quel viso che appariva e subito scompariva di nuovo. Ostentavo un'aria innocente che forse lo traeva in inganno. Non credo che mi abbia sorpreso una sola volta nell'atto di scrivere. E tuttavia tendevo a pensare che vedesse tutto quanto, non solo me, che condannasse ciò che vedeva e che perciò si ritraesse così in fretta. Gli attribuivo un'eccezionale capacità di penetrazione, forse perché sapevo che in questo Karl 
Kraus era un maestro. Gli bastavano pochi attimi, non si soffermava, e forse - così speravo - quel che vedeva non era per lui così importante: erano le cose essenziali a tenerlo occupato, lo si poteva intuire dal disgusto che il giornale gli procurava. Gli errori di stampa gli erano diventati indifferenti. Non cantava arie di Offenbach, (1) non cantava per niente, aveva capito che la sua voce non si prestava al canto. Leggeva anche giornali stranieri, non solo quelli viennesi, non solo quelli tedeschi. Nel fascio di giornali che il cameriere gli portava ce n'era sempre uno inglese a sovrastare tutti gli altri. 
 Era meglio che non avesse un nome. Non appena lo avesse avuto, per me non sarebbe più stato Karl Kraus, e sarebbe finito quel processo di metamorfosi del grand'uomo che mi auguravo così ardentemente. Solo più tardi mi resi conto che nel corso di quella silenziosa relazione qualcosa si scindeva dentro di me. Le forze della venerazione si staccavano a poco a poco da Karl Kraus e si volgevano verso il suo muto ritratto. Era una profonda trasformazione del mio assetto spirituale, in cui la venerazione ha sempre avuto una parte centrale; e il fatto che il cambiamento avvenisse nel silenzio non faceva che aumentarne la portata. 
NOTE:
 (1) Karl Kraus dava la caccia agli errori di stampa, in cui trovava motivi per la sua vena satirica e aforistica, e adorava le operette di Offenbach, che interpretava con l'accompagnamento di un pianista. Si veda il saggio su Kraus in: E" Canetti, La coscienza delle parole, cit", pp" 61 sgg" ?N" d'T"*. Commedia a Hietzing 
 Tre mesi dopo il ritorno da Strasburgo e Parigi ero occupato a terminare la Commedia della vanità. La sicurezza con cui procedevo nella stesura della seconda e della terza parte aveva per  me qualcosa di esaltante. Era un lavoro che non mi causava sofferenza. Non scrivevo contro me stesso, non mi sentivo imputato in un processo, non c'era autodenigrazione. La vanità, che 
 era il tema dominante, non mi aveva mai dato molte preoccupazioni, potevo guardare il mondo liberamente, senza farmi scrupoli. Nella seconda parte della commedia, nel modo di elaborare l'idea di fondo, quella del divieto contro gli specchi e contro i ritratti, avevo ceduto all'influsso di un uomo che io consideravo il più ricco e il più stimolante di tutti i commediografi, e che senza dubbio lo era: Aristofane. E il fatto che 
 ammettessi francamente questo influsso, che non lo nascondessi, nonostante l'enorme distanza che separava me e chiunque altro da Aristofane, era forse il vero elemento liberatorio che mi aiutava nella stesura. 
 Perché non basta l'ammirazione per il passato, il riconoscimento della sua inarrivabile grandezza. Occorre anche osare qualche salto nella sua direzione e accettare il rischio che  questi salti falliscano e ci coprano di ridicolo. Bisogna solo guardarsi dall'adoperare quell'inarrivabile grandezza come se ancora andasse del tutto bene per i nostri fini, ma dobbiamo farcene stimolare e infiammare. 
 Può anche dipendere da questo modello se io speravo in un'immediata efficacia della commedia. L'urgenza era grande, gli avvenimenti in Germania incalzavano sempre più veloci, ma io non pensavo ancora a una situazione irreversibile. Ciò che era tenuto in movimento dalle parole poteva essere trattenuto dalle parole. Vedevo  nella mia commedia, non appena l'avessi finita, una legittima risposta al rogo dei libri. Occorreva dunque metterla in scena, dappertutto, in fretta, ma io non avevo relazioni nel mondo teatrale. Ero ancora paralizzato dal giudizio di condanna con cui 
Karl Kraus mi aveva fatto disprezzare e trascurare il teatro contemporaneo. In verità, nell'autunno del 1932 avevo mandato Nozze all'editore S" Fischer di Berlino, che aveva accolto il dramma nel suo repertorio teatrale, ma era arrivato troppo tardi e non si poteva più rappresentarlo. Il lettore della casa editrice, che a suo tempo si era pronunciato per l'accettazione del dramma, aveva dovuto lasciare Berlino e aveva assunto la direzione della sezione teatrale della casa editrice Zsolnay a Vienna. 
 Per afferrare il significato della commedia bisognava ascoltarla, perché era tutta costruita su quelle che io chiamavo maschere acustiche: ogni personaggio prendeva un netto risalto rispetto a tutti gli altri attraverso la scelta delle parole, l'accento, il ritmo, ma nelle opere drammatiche non c'era uno spartito in cui tutto questo potesse essere fissato. Le mie intenzioni potevo chiarirle solo con una lettura completa del testo. Così Anna Mahler mi propose di tenere una prima lettura della commedia in casa Zsolnay, davanti a un piccolo pubblico di persone competenti ed esperte anche nelle cose pratiche del teatro. Sarebbe stato presente anche quel lettore che conosceva già 
 Nozze e che a Berlino, senza sapere niente di me, si era espresso spontaneamente a favore della mia forma di dramma. La proposta di Anna mi persuadeva, la mia sola preoccupazione era la lunghezza. 
 "Dura quattro ore," dicevo io "e non voglio lasciar fuori neanche una scena. Non taglio una sola battuta. Chi ce la fa a resistere?". 
 "Bisogna dividere la lettura in due parti di due ore ciascuna," suggerì Anna "e completarla in due giorni successivi o, se non è possibile, con un intervallo di una settimana tra la prima e la seconda parte". 
 Anna non conosceva la commedia, ma dopo la lettura del romanzo, per il quale si era battuta dappertutto con molta convinzione, era sicura che un testo come quello che le avevo illustrato con tanti particolari meritava di essere sostenuto. A lei, in realtà, i drammi non interessavano, e credo che avesse un'antipatia innata per quella forma letteraria. Ma in questo caso aveva fatto la conoscenza del testo attraverso il mio racconto, ed era appunto il mio modo di raccontare l'unica cosa che le piacesse in me.  La madre di Paul Zsolnay, quella che Anna chiamava "zia Andy", era il personaggio principale della famiglia e aveva un grande ascendente sul figlio. La casa editrice era nata soprattutto per suo desiderio, espressamente per pubblicare le opere di Franz Werfel, e si era poi assicurata tutta una serie di autori allora molto considerati, ma anche alcuni veramente buoni, come Heinrich Mann. Anna aveva dato da leggere alla suocera il manoscritto di "Kant prende fuoco", e "zia Andy", avendo fatto qualche cattiva esperienza con le donne, ne aveva avuto un'impressione molto 
favorevole. Era lei la vera padrona di casa, il palazzo della Maxingstrasse era la sua residenza, anche se gli inviti per la lettura  
furono diramati ufficialmente da Anna. Io avevo insistito con Anna perché sua madre, Alma, non venisse. Anna mi aveva assicurato che non c'era alcun pericolo: per Alma Mahler io ero un perfetto sconosciuto, e in questi casi il pensiero di farsi vedere non la sfiorava nemmeno. Ma al suo posto sarebbe venuto certamente Werfel. Lui, Werfel, era molto curioso e in passato, quando ancora lavorava per l'editore Kurt Wolff, si era dedicato alla scoperta di giovani talenti. "Non credo che adesso abbia ancora voglia di scoprire qualcuno" dissi io, senza immaginare che le mie parole contenevano solo una parte, e quanto piccola, della verità. Per conto mio aspettavo con curiosità la comparsa di Werfel. Non avevo paura di lui, sebbene i suoi libri non mi piacessero affatto e il nostro primo incontro al concerto non mi avesse lasciato un ricordo gradevole. 
 Come ospite di riguardo era invitato Hermann Broch. Da più di un anno lo consideravo un mio amico. Mi sembrava di capire che avesse fiducia soprattutto nelle mie qualità di autore teatrale. Dopo il mio ritorno da Parigi alla fine dell'autunno, l'avevo presentato ad Anna accompagnandolo all'atelier. Eravamo andati insieme anche da Alma Mahler alla Hohe Warte. "Ehi, Annerl, il nostro Broch ha una calamità negli occhi" aveva detto Alma in presenza di Broch: voleva dire "calamita", e noi tre, Anna, Broch e io, eravamo rimasti molto imbarazzati per la forma in cui aveva espresso il suo sovrano compiacimento. In ogni modo sapevo che Broch aveva un sincero interesse a conoscere la commedia della quale gli avevo parlato tante volte. Dopo l'impressione che gli aveva fatto Nozze, non dubitavo che la commedia gli avrebbe "detto" qualche cosa. Riponevo in lui grandi speranze. In un ambiente in cui non contavo nulla e che forse vedeva in me addirittura un perturbatore della quiete, Broch era - escludendo Anna - il mio unico alleato da prendere sul serio. Per il resto, infatti, era soprattutto la casa editrice ad essere rappresentata: Paul Zsolnay, che io non stimavo granché, il suo direttore Costa, un bonvivant dall'eterno sorriso, e poi quel direttore della sezione teatrale a cui ho già accennato.  La lettura ebbe luogo un pomeriggio, davanti a un pubblico molto ridotto, non credo che ci fosse più di una dozzina di persone. 
Ero già stato qualche volta in visita in quella casa, accolto benevolmente dalla vecchia signora Zsolnay, che aveva in simpatia gli uomini di lettere ma aveva dovuto pazientare a lungo fino a che, grazie alla fondazione della casa editrice, intestata al figlio, avesse la possibilità di fare qualcosa di concreto per loro. Quel pomeriggio, prima della lettura, avvertivo l'incongruenza di quel salotto elegante: la prima parte della commedia si svolgeva in una specie di parco di divertimenti, tra personaggi grossolani che non avevano peli sulla lingua e dicevano in faccia tutto quello che avevano da dire. Temevo che l'atmosfera del salotto mi spingesse a usare mio malgrado un tono più sommesso e guardingo di quello adatto ai miei personaggi. Era un pericolo che dovevo evitare a ogni costo, e perciò, prima di cominciare, dissi alla vecchia padrona di casa: "E" una specie di commedia popolare, il linguaggio non è troppo raffinato". "Zia Andy" accolse le mie parole con buona grazia ma lasciando trasparire qualche dubbio. La persona competente per le "commedie popolari" era un altro beniamino della casa, Carl Zuckmayer, (1) che però non era presente; e poiché il concetto  
stesso di "commedia popolare" faceva inevitabilmente pensare a lui, non avrei potuto parlare più a sproposito. 
 In quell'ambiente mi sentivo un estraneo. Ero troppo inesperto per capire perché mai fossero venuti ad ascoltarmi. Se l'avessi saputo, mi sarei ben guardato dal presentarmi a quel pubblico. Mi affidavo alle due persone che ritenevo amiche e dal cui aiuto dipendeva tutto: Broch e Anna. Stimavo lui, amavo lei, e anche se 
Anna aveva tagliato corto dandomi il benservito, questo non aveva potuto cambiare nulla nei miei sentimenti per lei. Erano seduti a una certa distanza l'uno dall'altra, ma in modo da potersi vedere bene. Il loro consenso mi stava talmente a cuore che li tenevo sempre d'occhio. Proprio davanti a me era seduto Werfel, in tutta la sua mole, così che non mi sfuggiva la più lieve espressione della sua faccia. Tra me e lui c'era la stessa distanza che lo divideva dalla porta da cui era entrato nel salotto. Come si conveniva al personaggio principale di quella cerchia, era arrivato per ultimo. Stupiva l'attenzione quasi ansiosa con cui tutti gli altri, e soprattutto le persone della casa editrice, osservavano le reazioni di Werfel. Era entrato nel salotto con un "Salve!" buttato là in tono di familiarità, come se fosse ancora un bambino, franco, ingenuo, incapace di pensieri cattivi, in confidenza con Dio come con gli uomini, un'anima pia che trovava un posticino nel suo cuore per tutte le creature. Sebbene non avessi nessunissima simpatia per i suoi libri e piuttosto poca per lui, io fui tanto candido da prestar fede al suo "Salve!" e da pensare che proprio lì, per quella lettura, non dovevo aspettarmi nessuna ostilità da parte sua. 
 Cominciai con la battuta del banditore: "E noi, e noi, e noi, signori miei!". Fu una partenza a tutta forza, e fin dal principio la scena del parco dei divertimenti prese un ritmo così impetuoso che mi dimenticai completamente del salotto di "zia Andy" e di tutta la casa editrice Zsolnay, che in verità non potevo sopportare. Leggevo per Anna e per Broch. Immaginavo di leggere per Fritz Wotruba, che non era presente ma avrebbe apprezzato i miei personaggi. Pensando a lui, prestai un po'"del suo accento al banditore: non era proprio la cosa giusta, ma forse mi dava quella protezione particolare di cui avevo bisogno in un ambiente simile.  Dapprima non badai per nulla a Werfel, ma poi lui stesso si fece notare abbandonandosi a gesti che non potevano più sfuggirmi. 
Ero già molto avanti nella prima parte della commedia, al punto in cui prende la parola il predicatore Brosam. La violenza della predica, il suo tono barocco, che come molte ringhiose invettive  della letteratura tedesca si richiama ad Abraham a Sancta 
Clara, dovette particolarmente spazientire e stuzzicare Werfel: si batté la mano aperta sulla guancia carnosa, paf!, come per prendersi a schiaffi, tenne la mano premuta contro la guancia e si guardò intorno a sollecitare aiuti. Io, nell'udire quel "paf!", avevo puntato gli occhi su di lui. Era lì davanti a me, l'aria afflitta, 
la mano incollata alla faccia distorta in una smorfia, fermamente deciso a insistere in quell'espressione di sofferenza. Non mi lasciai distrarre e proseguii la lettura, nonostante la forte irritazione che mi procurava la prossimità di quella faccia carica di grasso e di sofferenza. 
 Volsi altrove lo sguardo e cercai Anna, nella speranza di trovare in lei consenso e aiuto. Ma Anna non mi guardava, non badava a me, i suoi occhi si erano immersi negli occhi di Broch e quelli di lui negli occhi di lei. Conoscevo quello sguardo: così, in altri tempi, gli occhi di Anna mi avevano guardato e, mi sembrava, mi avevano dato nuova vita. Ma io non avevo occhi con cui ricambiare, e ciò che vedevo adesso mi riusciva nuovo: perché Broch aveva occhi, e dal modo in cui lui e Anna erano assorti l'uno nell'altro capii che non mi ascoltavano, che all'infuori di loro non c'era nient'altro, che per essi non esisteva la corsa in folle del mondo che i miei personaggi sonori raffiguravano per loro: non era necessario denunciare quella corsa a vuoto, loro non se ne sentivano turbati, loro erano fuori posto in quel salotto come 
lo ero io con i miei personaggi, dei quali non  avrebbero afferrato il senso neppure in seguito; loro erano sciolti da tutto, assorti l'uno nell'altro. 
 Il gioco degli occhi di Anna era così eloquente che non badai più a Werfel. Continuai la lettura e mi dimenticai di lui. Quando lessi le cose terribili con cui si conclude la prima parte della commedia 
- una donna si getta nel fuoco ed è salvata all'ultimo momento 
-, il gioco degli occhi di Anna, dal quale non mi ero ancora liberato, si risvegliò in me. Io le offrivo l'occasione di indirizzarlo verso un altro, e quest'altro era uno scrittore che veneravo e del quale cercavo, con una sorta di fervore e con sforzi che spesso mi sembravano inutili, di meritarmi la simpatia. Anna aveva l'arma migliore per conquistarselo. Io stesso le avevo presentato Broch e adesso ero testimone di ciò che doveva accadere. A tutto questo, al vero avvenimento del futuro immediato, faceva da accompagnamento musicale la commedia in cui avevo riposto tante speranze. 
 Dopo la prima parte feci una pausa. Werfel si alzò e con aria contegnosa, ma come se avesse dimenticato la sofferenza di poco prima, riprese la voce bonaria del suo "Salve!" per dirmi: "Lei legge molto bene!". Non mi sfuggì che metteva l'accento sulla parola legge e che passava sotto silenzio la cosa essenziale. 
 Forse intuiva che proprio gli ascoltatori che meno m'interessavano  erano stati colpiti dal crescendo delle scene, che si facevano sempre più brevi a mano a mano che si avvicinava lo scoppio dell'incendio; e proprio per questo riservava a più tardi un giudizio vero e proprio. Anna taceva, non aveva udito neanche una parola, aveva altro a cui pensare. I toni volgari della commedia l'avrebbero disgustata in ogni caso, ma in quelle particolari circostanze, con Broch davanti agli occhi, non aveva tempo da perdere in riflessioni. Anche Broch taceva, e io capii che non era un silenzio che celasse interesse, e neppure un silenzio benevolo. Mi spaventai: dopo ciò che avevo notato, non potevo aspettarmi nulla da lui, non mi avrebbe aiutato, e tuttavia l'evidente paralisi in cui era caduto fu per me un duro colpo. In quella pausa mi sarei certamente dato per vinto se gli altri 
spettatori, quelli che non 
 erano miei amici, non avessero insistito perché continuassi la lettura. Una voce disse: "Ma lasciate che riprenda fiato. 
Dev'essere sfinito. Non è mica uno scherzo leggere in quel modo". 
Era "zia Andy", che non temeva di mostrare un po'"di compassione per il lettore. E pensare che proprio da lei mi ero aspettato la resistenza più forte, anzi una spiccata antipatia per quei 
"personaggi popolari", come io stesso li avevo chiamati. Ma le grida del bambino alla vista del fuoco le avevano strappato una sonora risata, alla quale si era associato suo figlio, che traeva solo da lei quel poco di vita che aveva in sé e doveva aver ricevuto il segnale della risata come attraverso un cordone ombelicale. Forse era questa anche la ragione del temporaneo riserbo di Werfel, che con i gesti di poco prima aveva preannunciato un atteggiamento beffardo. 
 Cominciai a leggere la seconda parte e sentii subito che l'atmosfera era molto cambiata. Non appena arrivai alla scena in cui le tre carissime amiche, la vedova Weihrauch, sorella Luise e la signorina Mai, si ritrovano nell'appartamento dell'imballatore 
Barloch, si creò un contrasto intollerabile tra la situazione che volevo rappresentare e il salotto del palazzo della Maxingstrasse in cui eravamo tutti riuniti, il lettore e gli ascoltatori. La scena descriveva una situazione non solo miserabile, ma odiosa e per di più immorale, di un'immoralità sconcertante per i viennesi: una moglie e una quasi moglie nella stessa casa, se pure si poteva chiamarla casa, e inoltre si parlava di due ragazze che vi convivevano, anche se non apparivano in scena. Le amiche erano 
appunto in visita dalla vedova Weihrauch, e il dialogo si soffermava sulle incre
dibili condizioni  
di vita in quel tugurio, denunciate a gran voce dalla vedova; poi arrivava il venditore ambulante con i frammenti di specchi, e il suo gergo caratteristico, proprio per essere esatto e ben noto ai viennesi, non poteva non fare scandalo. 
 Werfel aveva iniziato subito la sua offensiva. Non si prendeva 
più a schiaffi, ma si passava sul viso ora 
 una mano ora l'altra, si nascondeva gli occhi dietro le dita, come se non sopportasse più la vista del lettore, ma poi alzava di nuovo lo sguardo e cercava gli occhi degli altri, soprattutto dei  suoi compari della casa editrice, come se volesse comunicare il proprio disappunto, scuoteva gravemente la testa a ogni improperio e si agitava sulla sedia con tutta la sua mole. Poi, improvvisamente, nel mezzo del discorso del venditore ambulante, gridò: "Sa che cos'è lei? Uno che imita i versi degli animali!". Si rivolgeva a me, e con un insulto che non sarebbe potuto essere più pesante, più brutale, più disastroso. Werfel voleva mettermi nell'impossibilità di continuare, ma ottenne l'effetto opposto, perché lo scopo che mi ero prefisso era proprio quello: far risaltare ogni personaggio come un animale diverso e rendere riconoscibili tutti i personaggi attraverso le loro voci. Avevo trasferito la diversità degli animali nel mondo delle voci, e di fronte all'insulto di Werfel mi colpì come un fulmine il pensiero che 
 egli aveva visto giusto, senza tuttavia immaginare minimamente il perché di quella "imitazione dei versi degli animali". 
 Continuai a leggere imperterrito, ormai sfidando l'aperta ostilità con cui Werfel cercava di contagiare gli altri. La scena arrivò alla fine, tra le urla dell'imballatore Barloch che metteva in fuga il venditore ambulante. Werfel disse: "Sembra di sentire 
Breitner (2) con quella sua idiota imposta sugli articoli di lusso". Ma rimase ancora seduto, perché aveva in mente qualcosa di più clamoroso. Nella scena successiva era di turno il vecchio facchino Franzi Nada, appostato a un angolo della strada a guadagnarsi il pane facendo l'adulatore di professione. 
L'atmosfera della sala cambiò di nuovo, e io sentii salire verso di me qualcosa che somigliava a un certo calore. Prima che la scena finisse, Werfel saltò in piedi e gridò: "Basta, non se ne può più", mi voltò la schiena e si avviò per uscire. Smisi di leggere,  e lui, già nel vano della porta, si girò verso di me gridando: "E lasci perdere queste cose!". Quell'ultima offesa mirava ad annientare me insieme alla commedia, ma ebbe il risultato di commuovere la vecchia signora Zsolnay, che disse a voce alta all'indirizzo di Werfel: "Faresti bene a leggere il romanzo, Franzi!". Lui alzò le spalle, disse: "Sì, sì", e se ne andò. 
 Con questo, il destino della commedia era segnato. Forse Werfel era venuto col proposito di liquidarla. Ma forse alla sua indignazione aveva contribuito il fatto che durante la lettura aveva scoperto in me un allievo di Karl Kraus, dal quale lo divideva un odio mortale. Sapevo benissimo di essere spacciato, ma non volevo arrendermi pubblicamente e tirai avanti. Non badavo più a nessuno, ero tutto assorto nella commedia. Non so se Anna si fosse  distratta per il comportamento di Werfel e se avesse rinviato a un'altra occasione il gioco degli occhi. Sarei propenso a credere che non badò molto a quel colpo di scena per pensare solo alla cosa che al momento le stava più a cuore. Io interruppi la lettura a metà del testo, come era previsto, dopo la scena nella bottega di Therese Kreiss che terminava col grido ossessivo della donna: "Il diavolo! Il diavolo!". 
 Quando smisi di leggere, Broch si fece sentire per la prima volta. Anche lui, come la vecchia signora Zsolnay, aveva provato pietà per il lettore e perciò disse alcune parole con cui giustificò le mie ambizioni: "C'è da domandarsi se questo non sia il teatro del futuro". Non prendeva posizione, poneva semplicemente il quesito e tuttavia mi concedeva il merito di  aver tentato una strada nuova. Le parole di Broch sembrarono eccessive alla vecchia signora Zsolnay, che disse: "Bè, non sarà proprio il teatro del futuro. Ma questa, secondo lei, sarebbe una commedia popolare?". Qualunque cosa si potesse ancora dire, ormai non  aveva più valore. In realtà chi aveva voce in capitolo in quella casa era Franz Werfel, e lui non avrebbe potuto dire la sua opinione in maniera più esplicita. Ma le leggi della cortesia, nonostante tutto, furono rispettate. A distanza di una settimana, in un altro pomeriggio, avrei portato a termine la lettura. 
 Fatta eccezione per il più importante, gli ascoltatori furono gli stessi. Terminai la lettura per amore dei miei personaggi,  che raramente avevo sentito fino allora parlare ad alta voce. Di speranze non ne avevo, la commedia non aveva nessun avvenire. Ma quella lettura, benché priva di ogni speranza e di ogni scopo, riuscì ugualmente - e non saprei spiegarne la ragione - a rafforzare in maniera straordinaria la mia fede nel testo. Sono le sconfitte di così catastrofiche proporzioni a tenere in vita i poeti. 
NOTE:
 (1) L'autore della celebre commedia Il capitano di Köpenick 
(1931) era emigrato dalla Germania in Austria nel 1933 ?N" d'T"*. 
 (2) Hugo Breitner, assessore alle finanze nell'amministrazione socialdemocratica di Vienna col sindaco Karl Seitz (1923-1934). L'opposizione lo accusava di "sadismo fiscale" ?N" d'T"*. 
Alla ricerca dell'uomo buono 
 C'erano a Vienna alcune persone con le quali avevo rapporti frequenti, che vedevo spesso e alle quali non mi rifiutavo. Si dividevano in due gruppi contrapposti. Le une, forse sei o sette, avevano la mia ammirazione per la loro attività e per l'impegno che  vi profondevano. Erano uomini che seguivano una propria strada e non se ne lasciavano distogliere da nessuno, che aborrivano da ogni concessione e rifuggivano dal successo nel senso volgare della parola, che avevano le loro radici a Vienna - anche se non sempre erano le radici più remote -, che non si potevano immaginare in una cornice diversa e tuttavia non si lasciavano corrompere dalla città. Io li ammiravo e imparavo da loro come si possa portare a compimento un impresa senza deviare di un centimetro, anche se il mondo non vuol saperne. Certo, speravano tutti di essere compresi e apprezzati ancora in vita, ma erano abbastanza intelligenti per sapere quanto scarse fossero le probabilità, ed erano risoluti a tener fede ai loro intenti, anche a costo di dover sopportare sino alla fine dei loro giorni l'irrisione che li circondava. Questo modo di descrivere il loro atteggiamento avrà forse un tono eroico, ed essi erano tutti troppo seri e saggi per vedersi in una luce simile, ma non mancavano certo di coraggio e avevano una pazienza che a volte rasentava il sovrumano. 
 E poi c'erano gli altri, quelli che erano proprio l'opposto, pronti a qualunque compromesso in nome del denaro, della fama o del potere. Anche loro mi affascinavano, sia pure in tutt'altro modo. Volevo capirli a fondo, volevo sapere qual era il loro paesaggio interiore, scandagliarli in ogni fibra: era come se la salvezza dell'anima mia dipendesse dalla possibilità di comprenderli e di interpretarli come personaggi a tutto tondo. Li incontravo non meno spesso degli altri, e forse la curiosità che mi ispiravano era perfino maggiore, poiché ciò che vedevo di loro mi lasciava incredulo e quindi avevo bisogno di continue conferme. Non che io abdicassi a qualcosa quando ero in loro compagnia: non mi adattavo ad essi, né cercavo di rendermi simpatico; ma  non sempre capivano subito ciò che pensavo veramente di loro. Anche a questo gruppo appartenevano sei o sette personaggi principali, e il più cospicuo tra loro era Alma Mahler. 
 Mi riusciva molto difficile sopportare le relazioni che legavano il primo gruppo al secondo. Ero affezionato ad Alban Berg, ma lui era grande amico di Alma Mahler, entrava e usciva dalla sua casa, se c'era un ricevimento alla Hohe Warte non mancava mai  una volta, lo vedevo sempre in un angolo con sua moglie Helene e trovavo sollievo nella sua compagnia. E" vero che Berg se ne stava in disparte e non partecipava al frenetico affaccendarsi di 
 Alma, quando lei esibiva ospiti nuovi o "speciali"; è 
vero che 
 egli dedicava a certi invitati osservazioni taglienti che sembravano uscite dalla "Fackel" e che erano un refrigerio per il mio cuore non meno che per il suo; ma era lì, non mancava mai, e dalla sua bocca non ho mai udito una parola contro la padrona di casa.  Anche Broch incontrava tutte le persone possibili, e sebbene poi, quando eravamo soli, dicesse apertamente quel che ne pensava, non gli sarebbe mai passato per la mente di evitarle. Lo stesso accadeva per gli altri che meritavano di essere stimati e presi sul serio. Avevano tutti anche un secondo mondo, un mondo volgare in cui si muovevano senza insudiciarsi; anzi sembrava spesso che questo secondo mondo fosse necessario per tenere pulito il primo. Chi si isolava da tutti più di ogni altro era certamente Musil. Si sceglieva con ogni scrupolo le persone da incontrare, e se gli succedeva inaspettatamente, al caffè o altrove, di trovarsi in mezzo a gente che disapprovava, ammutoliva e per nulla al mondo si lasciava indurre a dire una parola.  Nelle mie conversazioni con Broch venne a galla un problema che potrebbe anche sembrare stravagante: esisteva un uomo buono? E se esisteva, come doveva essere? Gli mancavano certe qualità che servivano da molla agli altri? Era qualcuno che se ne stava in disparte oppure poteva muoversi liberamente in mezzo agli altri, reagire alle loro sfide ed essere ugualmente "buono"? Il problema interessava a Broch come a me. Evitammo di eluderlo avventurandoci in una ricerca di definizioni. Tutt'e due dubitavamo che una persona buona fosse mai possibile nel mondo che vedevamo - ognuno con i propri occhi - intorno a noi. Non dubitavamo che doveva essere fatta in un certo modo, se esisteva. A poterla incontrare, l'avremmo riconosciuta a prima vista. Tutt'e due, nel discutere  un problema che ai nostri occhi assumeva una curiosa urgenza,  eravamo convinti di sapere esattamente che cosa intendevamo. Non ci furono estenuanti e sterili discussioni per stabilire che cos'è buono. Già questo era abbastanza sorprendente, perché Broch e io dissentivamo su moltissime cose e ci mettevamo una pietra sopra. Ma in lui come in me l'uomo buono sussisteva come un'immagine  intangibile. Era soltanto un'immagine? Esisteva davvero? Dov'era? 
 A poco a poco passammo in rivista tutte le persone che conoscevamo. In un primo tempo ci eravamo occupati di persone di cui avevamo qualche notizia senza conoscerle, ma poi ci rendemmo conto che sapevamo troppo poco sul loro conto. Che senso aveva prendere per buoni i giudizi favorevoli o contrari se non potevamo verificarli con una opinione personale? Decidemmo dunque di limitarci alle persone che conoscevamo, a quelle che conoscevamo bene. Queste persone affiorarono l'una dopo l'altra, davanti a Broch come davanti a me, e ciascuna fu sottoposta a un esame. 
 Tutto ciò potrà sembrare pedantesco, ma in pratica 
significava semplicemente che Broch e io raccontavamo situazioni di cui eravamo stati testimoni e per le quali, per così dire, potevamo garantire. Era chiaro che noi non eravamo alla ricerca di un ingenuo: il buono che avevamo in mente doveva sapere quel che faceva. Doveva essere provvisto di una grande vitalità che gli potesse consentire delle scelte. Non era un individuo elementare o limitato, non era ignaro delle cose del mondo, aveva la 
capacità di vedere nell'animo altrui. Non si lasciava ingannare o addormentare dagli altri, era sveglio e attento, sensibile, vivo, agile; e solo se era in grado di soddisfare tutte queste condizioni, si poteva porre il quesito: nonostante ciò, era un uomo buono? Né a Broch né a me mancavano gli esempi da citare, di personaggi che conoscevamo o avevamo conosciuto in passato. Ma cadevano l'uno dopo l'altro, come birilli, e presto tutta la nostra ricerca prese il perfido sapore di un gioco al massacro: chi erano infatti coloro che si arrogavano il diritto di giudicare? Davanti a Broch mi vergognavo un po'"di non far valere abbastanza i meriti di un "candidato"; e forse anche lui, pur essendo per natura meno impetuoso, provava una certa vergogna davanti a me. Poi, improvvisamente, disse: "Ne conosco uno! Lo conosco! Il mio amico Sonne! Ecco l'uomo buono! E" lui!". Era un nome che non avevo mai sentito. Domandai: "Si chiama proprio Sonne?". (1) 
 "Sì. Può anche dire il dottor Sonne, se vuol togliergli un po' di aureola. E" esattamente quello che cerchiamo. In tutto e per tutto. Sarà per questo che non ci ho pensato subito". 
Venni a sapere che il dottor Sonne viveva appartato, che incontrava alcuni amici, pochi, e che qualche volta - raramente - andava perfino a trovarli. "Ma sì," disse Broch "poco fa lei ha accennato a Georg Merkel, il pittore". Merkel era stato uno dei nostri "candidati". "Qualche volta il dottor Sonne va a trovarlo, fuori città, a Penzing. Può incontrarlo da lui. E" la cosa più semplice del mondo. E" bell'e fatta". 
 Di Georg Merkel conoscevo i quadri, che alle mostre mi avevano già attirato più di una volta. Aveva all'incirca l'età di Broch e si faceva vedere al Café Museum, dove però andava più raramente di  altri pittori. Al caffè mi aveva colpito per un profondo foro nella fronte, proprio sopra l'occhio sinistro. Nella stanza di 
Wotruba avevo ammirato certi suoi quadri dall'aria molto francese, che avevano risentito presto dell'influsso dei neoclassicisti e che si distinguevano per una tavolozza molto personale, inconsueta per Vienna. Allora avevo chiesto sue notizie e mi ero fatto raccontare la sua storia. In seguito, tramite Wotruba, lo avevo conosciuto al Café Museum, come quasi tutti i pittori importanti di quel tempo. Di Merkel mi aveva subito affascinato il linguaggio, un tedesco molto scelto, con accento polacco, lento e solenne. Ogni frase era sostenuta da una profonda convinzione e serietà. Parlava come nella Bibbia, come se chiedesse la mano di Rachele. Erano cose di tutt'altro genere, che  con la Bibbia non avevano niente a che vedere, ma l'enfasi che 
Merkel metteva nel salutare, nell'ossequiare, nell'onorare faceva sì che l'interlocutore non potesse non sentirsi innalzato e considerato. Non era però difficile avvertire quanto il pittore prendesse sul serio anche se stesso, pur senza apparire presuntuoso. Se appena pronunciava un nome, quel nome restava nell'orecchio con quella pronuncia e quel tono, e a volte si era tentati di ripeterlo alla stessa maniera, ma sarebbe stato ridicolo perché quella che in Merkel era dignità naturale diventava in chiunque altro qualcosa di manierato. Le sue convinzioni erano cariche di sentimento fino all'orlo, a nessuno poteva venire in mente di discutere con lui. Mettere in dubbio una sola frase di Merkel sarebbe stato come mettere in dubbio tutta la 
sua persona. Di un atto volgare, di 
 una parola volgare non sarebbe mai stato capace, anche se questo può apparire incredibile in un uomo così enfatico, così appassionato. Ma bisognava poi vedere come parava le offese, con quanta fermezza ed energia, senza venir meno in nulla alla propria dignità, e come si guardava intorno, in quei momenti, per essere ben sicuro che anche tutti gli altri avessero udito, in un modo tale che la profonda ferita alla fronte diventava quasi un terzo occhio, l'occhio di un ciclope. Si era tentati di provocare la sua collera, tanto era meraviglioso ciò che la collera gli faceva dire, ma il rispetto e l'affetto per lui erano troppo grandi perché qualcuno cedesse alla tentazione. 
 Io vedevo in Georg Merkel l'incarnazione più eloquente di quella cultura slava di cui Vienna era così ricca. Aveva studiato a Cracovia, con Wyspianski, e questo può spiegare il persistere del suo legame linguistico col polacco. L'accento polacco non lo perse mai: dopo esser vissuto per decine d'anni a Vienna e in Francia - è morto in tardissima età - conservò sempre inflessioni polacche nel suo francese come nel suo tedesco. Di certe vocali non riuscì mai a impadronirsi, dalle sue labbra non ho 
sentito uscire una sola "ö". Due parole come "schön" e 
"österreich", che pure per lui erano tra le più importanti, non ha mai saputo pronunciarle nel modo giusto. Diceva: "Esterreich" e diceva: "Schèn". Quest'ultima parola suonava anche più strana quando Merkel, rapito dalla bellezza di una donna, non sapeva trattenersi dall'esclamare: "Ist sie nicht schèn! Schèn ist sie!". (2) Fu quello che Veza si sentì dire da lui, e con un'enfasi tale che ne fummo contagiati. Sia che Merkel venisse a trovarci, sia che andassimo noi da lui, sia che ci incontrassimo al Café Museum, non c'era verso: alla vista di Veza non poteva fare a meno di dire: "Schèn ist sie!", e l'esclamazione riusciva tanto più sorprendente perché Merkel si esprimeva per tutto il resto in un tedesco scelto e ben costruito. 
 Avevo conosciuto Georg Merkel poco prima di quella discussione con Broch, e venne naturale parlare di lui durante la nostra ricerca dell'uomo "buono". C'erano molti punti a suo favore, e tuttavia non votammo per lui: perché era essenziale, per  lui, la coscienza che aveva del proprio valore di artista. Con ciò Merkel si poneva per natura, per così dire, contro il resto dell'umanità, che non voleva saperne dell'arte, e rendeva giustizia  da solo a se stesso e ai suoi meriti. L'uomo "buono", come noi lo intendevamo, doveva essere più discreto. 
 Merkel era andato a Parigi qualche anno prima dello scoppio della grande guerra e vi aveva trascorso tanta parte della giovinezza da non perdere più l'impronta di quegli anni parigini. Forse non è mai esistito un sodalizio di pittori più assortito e più numeroso. Venivano da ogni parte ed erano pieni di speranze. 
Non cercavano di rendersi facile la vita, di prendere vie traverse per farsi apprezzare e diventare famosi. Per loro la pittura in sé era così importante che non pensavano ad altro. Gli stimoli non mancavano, la città era piena di pittori, si facevano sentire influssi orientali e africani, ma anche le tradizioni locali, medievali o classiche, conservavano per contrasto il loro valore. Non si era mai visto niente di simile, tanti erano i giovani pittori che tentavano strade nuove e personali.  Ci voleva forza per tirare avanti nella miseria, ma forse un'altra 
forza 
 era ancor più necessaria: quella per non cedere troppo facilmente alle suggestioni più diverse, per accettare soltanto ciò che corrispondeva al proprio temperamento, per infischiarsi di tutto il resto e lasciarlo agli altri. Sorse allora a Parigi una nuova nazione, quella dei pittori. Se oggi si passano in rivista i nomi di coloro la cui opera segna quel tempo per noi, e certamente lo segnerà per sempre, si resta stupiti davanti alla varietà delle loro origini: ogni Paese aveva i suoi giovani a Parigi, come se la città, la città stessa quale autorità suprema, li avesse arruolati al servizio della pittura. Ma essi non avevano obbedito a un ordine, accorrevano volontari, e le privazioni alle quali si assoggettavano senza paura erano compensate dall'idea di potersi trovare a Parigi con i loro simili, che vivevano in condizioni non meno difficili ma erano tutti, anche loro, animati dalla stessa fervida speranza di conquistare la gloria, lì, nella capitale mondiale dei pittori. 
 Lo scoppio della grande guerra aveva sorpreso Merkel a Parigi, dove viveva con la moglie Luise, pittrice anche lei. Viveva a Parigi con entusiasmo e passione, non avrebbe potuto trovare un'atmosfera più congeniale. Merkel ha sempre ripreso la strada di 
Parigi, e nell'insieme vi ha trascorso un buon terzo della sua vita. Ma allora, alla fine del luglio 1914, ebbe un solo pensiero: quello di ritornare in Austria a ogni costo, con sua moglie, per servire nell'esercito. Fu un viaggio avventuroso che durò più di qualche giorno, ma alla fine Merkel arrivò a casa, si presentò e andò al fronte. Tra gli ebrei colti della Galizia era diffuso allora un sentimento che si può chiamare patriottismo  austriaco. La gente aveva davanti agli occhi i pogrom russi. 
Gli ebrei vedevano nell'Imperatore Francesco Giuseppe un protettore. Questi sentimenti erano profondamente radicati in un uomo come Merkel. Non gli sarebbe bastato servire l'Austria in qualche ufficio stampa dell'esercito, star lì al sicuro e riempire gli altri di entusiasmo per la guerra. Per lui fare il soldato era una cosa naturale. La fuga da Parigi gli era riuscita, sia pure con stratagemmi e difficoltà, e Merkel andò a fare il soldato.  Pagò il suo amore per l'Austria con una grave ferita alla testa. Una scheggia di granata lo colpì alla fronte, poco sopra l'occhio, e lo privò della vista. Rimase cieco per alcuni mesi, non so esattamente quanti. Per lui, pittore, fu il periodo più terribile della sua vita. A me non ne ha mai parlato, e credo neanche  ad altri. Gli rimase la profonda cicatrice, e non si poteva mai  guardarlo in faccia senza pensare ai mesi della cecità. 
Ricuperò la vista, e tutto ciò che ha dipinto da allora portava il segno di quel miracolo. Poter vedere era il suo paradiso, ciò che aveva perduto l'aveva ritrovato, e ormai non poteva più vederlo in maniera diversa. Non gli si può dar torto se dipingeva "il bello": i suoi quadri divennero un perenne ringraziamento per la luce degli occhi. 
 Si diede il caso che fossi invitato per la prima volta in casa di Georg Merkel, a Penzing, poco dopo la discussione con Broch, quel gioco in cui avevamo messo tanto impegno. Merkel aveva casa e studio a Penzing, dove non di rado faceva venire gli amici la domenica pomeriggio per mostrare i suoi quadri. Lo conoscevo ancora poco, ma la sua storia mi era ormai familiare, soprattutto quella della ferita e del tremendo buco nella fronte. Mi sentivo attirato dal suo linguaggio melodioso, e sebbene i quadri che conoscevo di lui, nonostante l'incanto della sua tavolozza, fossero ben lontani da ciò che di solito mi affascinava nella pittura moderna, ero curioso di vedere altre opere nel suo studio. Mi aveva sempre interessato il modo in cui i pittori mostrano i loro quadri in privato. E" un gesto in cui si mescolano orgoglio, liberalità e suscettibilità, e il rapporto tra questi tre ingredienti era diverso in ogni pittore. 
 Arrivai un po'"in ritardo, tutti erano ancora seduti a prendere il tè. Avevo già incontrato di persona alcuni degli invitati, di  altri conoscevo il nome o le opere. Appartato da tutti, nella penombra, timido, quasi nascosto, era seduto un uomo di cui conoscevo il viso, da un anno e mezzo. Ogni pomeriggio era al Café Museum, barricato dietro i giornali. Somigliava a Karl Kraus (l'ho già raccontato), sapevo che non poteva essere lui, ma l'idea di vedere un Karl Kraus silenzioso, lontano da accuse e demolizioni, mi piaceva talmente che cercavo di immaginare che fosse lui. 
L'incontro quotidiano col suo viso, quell'incontro senza parole, lo usavo per liberarmi dal potere schiacciante che quella testa esercitava quando parlava. 
 Adesso la testa era lì, e io mi spaventai e ammutolii. Merkel intuì che qualcosa era accaduto, mi prese delicatamente per il braccio, mi condusse davanti a quel viso e disse: "E questo è il mio caro amico dottor Sonne". Nel presentare le persone il pittore metteva molto sentimento, non voleva che fosse un'arida formalità, e quando faceva incontrare due persone doveva essere per la vita. Non poteva sapere che da un anno e mezzo io osservavo con  la più scrupolosa attenzione ogni movimento di quell'uomo. Né sapeva che una settimana prima Broch aveva pronunciato per la 
 prima volta quel nome in mia presenza. L'ostinata ricerca dell'uomo buono, il gioco che Broch e io avevamo preso tanto sul serio, diventava realtà; e non era senza significato che quel nome e quel viso, che in me vivevano separati, diventassero tutt'uno nella casa di quel pittore dalla voce melodiosa.
NOTE:
(1) In tedesco Sonne vuol dire "sole" ?N" d'T"*.
(2) "Bella! Accidenti se è bella!" ?N" d'T"*.
Sonne
 Che cosa mi ha tanto affascinato nel dottor Sonne? Perché volevo vederlo ogni giorno, lo cercavo ogni giorno? Perché era diventato  l'oggetto della passione più ardente che un intellettuale mi avesse mai ispirato? 
 In primo luogo c'era l'assenza di 
 ogni riferimento personale. Sonne non parlava mai di sé. Non diceva mai niente in prima persona. Ma anche nel rivolgerti la parola non usava la forma diretta. Tutto era detto in terza persona e così collocato a una certa distanza. Bisogna cercare di immaginare che cos'era quella città e la vita dei suoi caffè, quel diluvio di discorsi in prima persona, tra asseverazioni,  confessioni e autoaffermazioni. Ognuno straripava di compassione per se stesso ed era gonfio della propria importanza. Ognuno si lamentava, ognuno ululava e suonava la propria tromba. Ma tutti vivevano anche pubblicamente in piccoli gruppi, perché avevano bisogno l'uno dell'altro per i loro discorsi e li sopportavano. 
 Si discuteva di tutto, e i giornali dispensavano la materia prima di uso comune. Era un tempo in cui accadevano già abbastanza cose, ma più ancora era un tempo in cui si sentiva quante cose stavano per accadere. Si era infelici per la piega degli avvenimenti nell'Austria di allora, ma si sapeva benissimo quanto maggiore fosse il peso degli avvenimenti nel vicino Paese che parlava la medesima lingua. Una catastrofe era nell'aria. Contro ogni attesa l'esplosione era rinviata di anno in anno. Nel nostro stesso Paese le cose andavano male, e se ne poteva avere la misura dal numero dei disoccupati. A ogni nevicata si diceva: "Farà piacere ai disoccupati". Alla spalatura il municipio di Vienna adibiva i disoccupati, che per breve tempo avevano qualcosa da guadagnare. La gente guardava gli spalatori al lavoro e si augurava, per il loro bene, che cadesse altra neve.  Per me quel periodo era sopportabile solo se vedevo il dottor Sonne. Era un'autorità alla quale avevo accesso ogni giorno. Mentre si era con lui, la conversazione toccava innumerevoli cose: cose che accadevano, da tutte le parti, e, ancor più, che minacciavano di accadere. Ci si sarebbe vergognati a parlarne in termini personali. Nessuno, al cospetto delle cose che si annunciavano, aveva il diritto di ritenersi avvantaggiato: non era un pericolo suo, il pericolo era di tutti. Rendersene conto e parlarne non era un merito, bastava un po'"di lucidità, nient'altro, ma appunto questa era la cosa più difficile da conquistare. Non si preparavano mai in anticipo gli argomenti su cui consultare il dottor Sonne. Non si faceva mai un programma. I temi venivano fuori spontaneamente, come le sue spiegazioni. Tutto 
ciò che Sonne diceva 
 aveva sempre la sua fonte nel pensiero: a me sembrava che non fosse mai alterato dal sentimento, e tuttavia non era qualcosa di freddo o di arido. Non c'era mai traccia di parzialità, non veniva fatto di sospettare: adesso parla a favore di questi o di quelli. Occorre dire che già allora l'aria era appestata da parole d'ordine e che riusciva difficile trovare un angolo che ne fosse libero, in cui non ci si sentisse soffocare. Il dottor Sonne sapeva essere preciso senza essere troppo conciso, ed era questa la sua massima virtù. Diceva quello che c'era da dire, in forma chiara e con contorni ben definiti, ma senza passar sopra a niente. Non tralasciava niente, era circostanziato. Se i suoi discorsi non fossero stati così affascinanti, si sarebbe potuto dire che su  ogni argomento rilasciava una perizia. Ma in verità era assai più 
che 
 una perizia, perché conteneva, senza che lui li indicasse per filo e per segno, i germi di ogni possibile miglioramento. 
 Non c'era tema di cui non si parlasse. Io accennavo a qualcosa 
che mi 
 aveva colpito, e lui magari voleva saperne di più, ma il suo desiderio di ragguagli non dava mai la sensazione di una richiesta. 
 Era il suo modo di avvicinarsi a una certa materia, ma l'interlocutore non veniva minimamente coinvolto. Forse poteva sembrare che la personalità di chi stava di fronte a Sonne non contasse affatto e che contassero solo le cose che a lui interessavano intellettualmente; ma era un errore, poiché se per caso era presente una terza persona il modo in cui si rivolgeva a questa era di nuovo un altro. Sonne faceva dunque delle differenze, ma per l'interessato non erano mai percettibili. Era inimmaginabile che in presenza di Sonne qualcuno si sentisse messo in sott'ordine. L'imbecillità lo faceva soffrire, ed evitava gli imbecilli, ma una volta in sua compagnia - per circostanze estranee alla volontà del dottor Sonne - nessuno avrebbe avuto la sensazione e la misura della propria imbecillità. 
 Dopo i preliminari di assaggio veniva sempre il momento in cui 
Sonne s'impadroniva di una materia e cominciava a parlarne in maniera appropriata ed esauriente. Allora non mi sarei mai sognato  di interromperlo, neppure con le domande che facevo volentieri  agli altri. Mettevo da parte ogni reazione esteriore, come un costume da maschera che non si attagliasse alla mia persona, e ascoltavo con la più profonda attenzione. Non ho mai ascoltato nessun altro a quel modo. Dimenticavo che era un essere umano a parlare, non mi preoccupavo di cogliere le peculiarità del suo modo di esprimersi. Per me Sonne non prese mai le sembianze di un personaggio, era il contrario di un personaggio. Se qualcuno mi avesse invitato a imitarlo, mi sarei rifiutato, e non solo per rispetto ma perché sarei stato veramente incapace di impersonarlo; anzi, l'idea stessa mi sembra ancora oggi non soltanto una meschina profanazione, ma un proposito destinato a un fiasco completo. 
 Ciò che Sonne aveva da dire su un certo tema era dunque circostanziato ed esauriente, ma si sapeva pure che non lo aveva mai detto prima. Era sempre qualcosa di nuovo, scaturito proprio allora. 
 Non era un giudizio sulle cose, era la legge delle cose. Ma l'aspetto più straordinario era che non si trattava di una materia  ben definita, nella quale egli fosse particolarmente ferrato. 
Non era uno specialista o, per meglio dire, non era lo specialista di una determinata disciplina: era invece lo specialista di tutte le cose delle quali di volta in volta l'ho sentito parlare. Grazie a lui scoprii che è possibile occuparsi delle materie più disparate senza diventare un perditempo o un chiacchierone. So che è un'affermazione molto impegnativa, e non la renderò più credibile se aggiungo che proprio per questo non posso riportare le cose di cui Sonne parlava, perché ognuno dei suoi discorsi equivarrebbe a un saggio, meditato ed estremamente vivo, così completo che non ne ricordo uno solo nella sua forma integrale. Citare qualche frammento sarebbe una meschina falsificazione. Sonne non era un aforista, e nonostante il rispetto che ho per questa parola sarebbe quasi una frivolezza riferirla a un uomo come lui. Era troppo "completo" per essere un aforista, gli mancava l'unilateralità e anche il gusto di sorprendere gli altri. 
Quando aveva esaurito un argomento, ci si sentiva illuminati e appagati, era una pagina chiusa, qualcosa su cui non si ritornava più perché non ci sarebbe stato nient'altro da dire. 
 Ma anche se non vorrei arrischiarmi a riferire le cose di cui parlava, c'è tuttavia un fenomeno letterario che può offrire un termine di paragone. In quegli anni leggevo Musil e non mi stancavo mai dell'Uomo senza qualità, di cui allora erano usciti i primi due 
volumi, circa mille pagine. Mi sembrava che in tutta la letteratura non ci fosse niente che si potesse paragonare all'opera di Musil. Ma mi stupiva anche il senso di familiarità che provavo ogni volta nell'aprire a caso uno dei due volumi. Era un linguaggio che conoscevo, un ritmo di pensiero che non mi era estraneo, e tuttavia - di questo ero certo - non esistevano libri come quelli. Passò un po'"di tempo prima che afferrassi il nesso: il dottor Sonne parlava come Musil scriveva. Ma non si deve credere che Sonne annotasse in privato cose che per qualche motivo non poteva pubblicare, e che poi attingesse, per le sue conversazioni, a quello che aveva già pensato e messo a punto. Non scriveva per sé in privato, e ciò che diceva nasceva lì per lì, mentre parlava. Ma nasceva con quella perfetta trasparenza che Musil raggiungeva solo nell'atto di scrivere. Ciò che io, da vero privilegiato, potevo udire giorno per giorno, erano i capitoli di un secondo Uomo senza qualità di cui nessuno è venuto a conoscenza. Infatti, anche se il dottor Sonne parlava con altre persone - non ogni giorno, ma di tanto in tanto -, quelli erano già altri capitoli. 
 A un'informe smania di sapere, di scorrazzare in questa e in quella direzione per poi lasciar perdere ciò che è stato solo sfiorato e non ancora afferrato, a questa curiosità che certamente è più che curiosità perché non ha alcun fine pratico e finisce in niente, a questo convulso agitarsi da tutte le parti, si può trovare solo un rimedio: la frequentazione di un uomo che abbia il dono di muoversi all'interno di tutto il conoscibile senza lasciarne perdere una briciola prima di averla valutata, e senza disgregarne l'unità. Le parole di Sonne non abolivano, non liquidavano nulla; anzi il tema era più interessante di prima, era  riordinato e illuminato. Egli apriva in te interi territori là dove prima c'erano soltanto punti oscuri, che erano pur sempre punti di domanda. Sapeva descriverti con la stessa precisione un uomo importante nella vita pubblica come un certo campo del sapere. 
Evitava di parlare di gente che tutt'e due conoscevamo di persona, e  quindi era escluso dalla sua analisi ciò che può trasformare una conversazione in un pettegolezzo. Ma per il resto usava gli stessi metodi per cose e persone. Forse era questo soprattutto a ricordarmi Musil: il suo modo di concepire gli uomini, di volta in volta, come peculiari campi del sapere. Per Sonne non poteva esservi una teoria unica da applicare a tutti gli uomini, e questo concetto gli era talmente estraneo che non vi accennava neppure. Ogni uomo era qualcosa di particolare, non solo un individuo a sé. 
 Detestava tutto ciò che gli uomini facevano contro gli uomini: non è mai esistito uno spirito meno barbaro di lui. Perfino quando doveva enunciare le cose che odiava, nelle sue parole non c'era mai odio: erano assurdità che metteva a nudo, nient'altro. 
 E" enormemente difficile cercare di spiegare fino a che punto evitasse ogni riferimento personale. Potevi aver passato con lui due ore nelle quali avevi imparato un'infinità di cose, ma il modo in cui ciò avveniva era tale che ogni volta ne restavi stupefatto. Di fronte a quella superiorità intangibile, come avresti potuto mettere te stesso sopra gli altri? Umiltà non era certamente una parola che Sonne avrebbe usato, ma ti congedavi da lui in una condizione di spirito che non si potrebbe definire diversamente; era però un'umiltà vigile, non quella di una pecora. 
 Io ero abituato ad ascoltare le persone, anche perfetti sconosciuti con i quali non avevo mai scambiato una parola. Con rabbia autentica ascoltavo coloro che non m'interessavano minimamente, e se non altro conservavo nell'orecchio l'accento di una  persona non appena era chiaro che non l'avrei più rivista. Non esitavo a stuzzicarla, a farla parlare, o con le mie domande o addirittura recitando una parte. Non mi ero mai chiesto se avevo il diritto di carpire dalla viva voce di un uomo tutto ciò che c'era da sapere sul suo conto. L'ingenuità con cui mi arrogavo  un tale diritto mi appare oggi inconcepibile. Senza dubbio vi sono qualità ultime che restano inesplicabili, e ogni tentativo di spiegarle è necessariamente ozioso. Alla categoria delle qualità ultime appartiene appunto questa, la mia passione per le persone. Si può descriverla, si può rappresentarla - la sua origine deve restare oscura per sempre. Posso parlare di fortuna se per lo meno, grazie ai quattro anni di noviziato trascorsi col dottor Sonne, scoprii ciò che vi era di equivoco in quella passione. 
 Mi resi conto che Sonne aveva riguardo verso tutto ciò che gli fosse vicino, senza però che qualcosa gli sfuggisse. Se non sprecava mai una parola sulle persone che di giorno in giorno stavano  intorno a noi, era una forma di tatto: non "toccava" nessuno, e  ciò valeva anche quando l'interessato non se ne sarebbe mai accorto. Il suo rispetto per i limiti altrui era assoluto. Era il suo "Ahimsa", come io lo chiamavo usando la parola indiana che indica il rispetto per ogni forma di vita. Ma oggi capisco che nell'atteggiamento di Sonne c'era piuttosto qualcosa di inglese. 
Aveva trascorso in Inghilterra un anno importante della sua vita, ed era questo uno dei pochi fatti privati, due o tre, che potei desumere dalle sue parole. Perché in sostanza io non sapevo niente di lui, e anche a parlarne con altri che lo conoscevano non veniva fuori niente di concreto. Forse era riluttanza a parlare di lui come di una qualunque altra persona, essendo molto difficile esprimere le cose che lo distinguevano e formavano la sua essenza; e poiché anche quelli che non avevano alcun senso della misura ammiravano il suo senso della misura, quando il discorso cadeva su Sonne ci si asteneva per una sorta di scrupolo da  ogni deformazione della sua fisionomia. 
 A lui non facevi domande, come lui non ne faceva a te. Avanzavi la tua proposta, cioè accennavi a un argomento come se già da un pezzo ti girasse per la testa, senza insistere, quasi  esitando. Anche lui esitava ad accettare l'invito. Mentre continuava a parlare d'altro soppesava ancora un poco la tua proposta. Poi, con un colpo netto, come se maneggiasse un bisturi, incideva l'argomento ed esponeva con una chiarezza cristallina e una completezza sbalorditiva quello che c'era da dire in proposito. Non è sviante definire glaciale quella chiarezza. E" la chiarezza di chi, dovendo molare vetri trasparenti, non è contento finché non scompare ogni macchia  opaca. Il dottor Sonne analizzava un argomento scomponendolo ma senza fargli perdere la sua unità. Non lo sezionava, lo illuminava a fondo. Sceglieva le singole parti da esporre alla luce, le prelevava con cautela e, dopo aver portato a termine l'operazione, con la stessa cautela le rimetteva al loro posto nel tutto. Per me era nuovo, inaudito, il fatto che uno spirito capace 
di tanta forza di penetrazione non disdegnasse nessun particolare. Ma ogni particolare diventava importante proprio perché doveva essere rispettato. 
 Sonne non era un collezionista: sapeva tutto, ma non teneva niente per sé come proprietà personale. Aveva letto tutto, ma non l'ho mai visto con un libro in mano. Era lui stesso la biblioteca che non possedeva. Dava l'impressione di aver già letto da tempo tutto ciò di cui si parlava. Non tentava mai di nascondere che se l'era annotato mentalmente. Non se ne faceva un vanto, non tirava fuori nulla a sproposito. Ma quando veniva l'occasione, tutto era lì, infallibilmente, ed era incredibile come non mancasse mai nulla. Vi erano persone che irritava con la sua precisione. Anche in presenza di donne non cambiava il suo modo di parlare, non era mai leggero: la sua spiritualità non si lasciava rinnegare, né la sua serietà. Non faceva mai il galante, non chiudeva gli occhi davanti alla bellezza, anzi la ammirava apertamente, ma non avrebbe mai cambiato se stesso per renderle omaggio: anche di fronte ad essa rimaneva immutabilmente lo stesso. Davanti alla bellezza, che scioglieva la lingua agli altri, accadeva che lui perdesse la parola, per ritrovarla solo quando la bellezza si era allontanata. Era il supremo omaggio di cui egli fosse capace, eppure era difficile trovare una donna che se ne rendesse conto. Forse era sbagliato il modo in cui si parlava di lui alle donne prima che lo 
incontrassero. Tu cominciavi 
 esaltando l'incommensurabile superiorità che lo poneva al di sopra di te stesso, e bastava questo a disturbare una donna, il cui amore per te conteneva già un elemento di venerazione e che in questo elemento viveva come in una propria atmosfera. Come avrebbe potuto accettare da te la testimonianza di un'altra venerazione, che per di più pretendeva di essere quella meglio riposta, l'unica giusta? Come avrebbe potuto rassegnarsi a veder manomesso il suo patrimonio di convinzioni? 
 Era così anche con Veza, che si rifiutava tenacemente di riconoscere il valore di Sonne. Mentre era molto affezionata a Broch, di Sonne non voleva saperne. Quando lo vide la prima volta, nella casa del pittore Georg Merkel, mi disse: "A Karl Kraus non somiglia. Come puoi dire una cosa simile? Se mai, somiglia alla mummia di Karl Kraus!". Alludeva al viso emaciato e ascetico di Sonne, alludeva anche al suo silenzio. In società, in mezzo a molte persone, Sonne non diceva una parola. Intuii che era colpito dalla bellezza di Veza, ma lei non avrebbe mai potuto desumerlo dalla fissità di quei lineamenti. Veza non modificò la sua 
 opinione neanche quando le furono riferite da altri, e naturalmente anche da me, le espressioni inattese che la sua bellezza aveva strappato al dottor Sonne. 
 Dopo un magnifico colloquio con lui al Cafè Museum tornavo a casa e trovavo un'accoglienza ostile da parte di Veza: "Sei stato col settimino, ti si legge in faccia. Non voglio sapere niente. 
Ma mi piange il cuore all'idea che ti perdi dietro a una mummia". Con quel "settimino" Veza intendeva dire che Sonne non era pienamente formato, che gli mancava qualcosa per essere una persona completa e normale. Io ero abituato alle reazioni estreme di Veza, ci accaloravamo a discutere di questa o quella persona, lei aveva sempre qualche intuizione giusta e poi calcava la mano con l'appassionata intransigenza che le era propria. Poiché io reagivo più o meno allo stesso modo, si arrivava agli scontri più accaniti, scontri 
che del resto piacevano a tutt'e due perché erano una perenne dimostrazione della piena sincerità che esisteva tra noi, il midollo della nostra relazione. Solo quando si trattava del dottor Sonne avvertivo in lei un rancore profondo, un rancore verso di me che non mi ero mai assoggettato a nessuno. Perfino con Karl Kraus - e 
Veza lo riconosceva - avevo salvaguardato interi territori di me stesso, mentre ora mi assoggettavo senza esitare, sempre, incondizionatamente. Veza non mi aveva mai sentito esprimere un dubbio su una frase di Sonne. 
 Di lui non sapevo niente, tutta la sua vita era nelle sue parole, ed egli vi era racchiuso a tal segno che sarebbe sembrato  un atto temerario scoprire su di lui qualcosa al di là delle sue parole. Tutti gli altri davano qualche segno della loro vita fisica,  e lui niente: neppure una malattia, neppure un lamento. Sonne era pensiero, solo pensiero, al punto che non c'era nient'altro che si potesse notare in lui. Con Sonne non si prendeva un appuntamento da un giorno all'altro, e se per caso succedeva che non si facesse vedere, lui non si sentiva in obbligo di spiegare la sua assenza. Allora pensavo naturalmente a una malattia, perché aveva una faccia smorta e un aspetto poco sano, ma per più di un anno ignorai perfino dove abitava. Avrei potuto chiedere il suo indirizzo a Broch o a Merkel. Non lo feci, mi sembrava più logico che non avesse un indirizzo. 
 Non mi stupii eccessivamente quando un pettegolo che avevo sempre evitato venne un giorno a sedersi al mio tavolino e mi domandò a bruciapelo se conoscevo il dottor Sonne. Dissi in fretta di no, ma quello non si rassegnò a star zitto, tanto era assillato da qualcosa che non gli dava pace e che non riusciva a spiegarsi: la storia di un'eredità finita in beneficenza. Quel dottor Sonne, 
mi disse, era nipote di un riccone di Przemy` sì e  aveva dato via per scopi benefici tutto il patrimonio ereditato dal nonno. Era un mentecatto, ma non era l'unico. C'era anche quel Ludwig Wittgenstein, un filosofo, il fratello di Paul 
Wittgenstein, il pianista che continuava a suonare con un braccio solo: anche lui aveva fatto la stessa cosa, solo che aveva ereditato i soldi dal padre, non dal nonno. E conosceva anche altri casi, quel pettegolo, e li enumerò uno per uno, con nome, cognome e altri dati precisi del testatore. Era un collezionista di eredità rifiutate o buttate via. Ho dimenticato i nomi che non mi dicevano niente, e può anche darsi che degli altri non volessi sapere, perché ero tutto preso dalla notizia riguardante il dottor Sonne. La accettai senza approfondire, mi piaceva talmente che 
 le prestai subito fede, tanto più che anche la storia su 
Wittgenstein rispondeva a verità. Da molte conversazioni avevo dedotto che Sonne sapeva che cos'era la guerra, e molto da vicino, pur senza aver fatto il soldato. Sapeva che cos'erano i profughi, esattamente come se fosse passato per quell'esperienza, e più ancora, come se si fosse preso cura dei profughi, come se ne avesse raccolto e diretto interi convogli per trapiantarli in luoghi  in cui la loro vita non fosse più in pericolo. Dal racconto di quel pettegolo conclusi che Sonne aveva impiegato per i profughi il patrimonio ricevuto in eredità. 
 Sonne era ebreo, e questo era l'unico dato esterno che mi fosse  noto fin dall'inizio, sebbene sia alquanto improprio definirlo un dato esterno. Nei nostri incontri si parlava spesso di religioni, di quelle indiane, di quelle cinesi, di quelle che si fondano sulla 
Bibbia. Di qualunque fede parlassimo, Sonne dimostrava nel suo modo conciso una sovrana conoscenza, ma ciò che soprattutto mi faceva impressione era la sua padronanza della Bibbia ebraica: sapeva citarne all'istante e testualmente ogni passo da qualunque libro e lo traduceva così, senza la minima esitazione, in un tedesco di straordinaria bellezza che a me sembrava il tedesco di un poeta. A queste conversazioni aveva dato lo spunto un esame della Bibbia nella traduzione che Martin Buber stava pubblicando a quel tempo e sulla quale Sonne faceva delle riserve. Io portavo volentieri il discorso su questo argomento, per me era un'occasione per conoscere il testo nella lingua originale. Fino allora avevo evitato di occuparmene, sarebbe stato imbarazzante approfondire un tema che mi era così vicino a causa della mia origine, mentre mi ero applicato a tutte le altre religioni con uno zelo che non è mai venuto meno. 

 Erano la chiarezza e l'energia della dizione di Sonne a ricordarmi il modo di scrivere di Musil. Una volta presa una strada, era esclusa qualsiasi deviazione se prima non si arrivava al 
punto dal quale Sonne poteva imboccare con la massima naturalezza altre strade. Ogni salto arbitrario era evitato. 
Nelle due ore circa che passavamo insieme ogni giorno si parlava di molte cose, e un elenco degli argomenti che si susseguivano potrebbe apparire - in contrasto con quello che ho appena detto - caotico e stravagante. Ma sarebbe un'illusione ottica, poiché se si potesse consultarne i testi, se esistesse un solo verbale di quelle 
 conversazioni, risulterebbe che ogni argomento in 
discussione veniva 
 esaurito prima che si passasse a un altro. Ma non è possibile riprodurre l'andamento dei nostri colloqui, a meno che si trovasse il coraggio - sarebbe un'impresa assurda! - di scrivere L'uomo senza qualità di Sonne. Ne verrebbe un testo che dovrebbe avere la precisione e la trasparenza proprie di Musil stesso, che assorbirebbe l'attenzione dalla prima all'ultima parola, che sarebbe ugualmente lontano dal sonno come dalla penombra, e si potrebbe aprire a caso, in un punto qualsiasi, senza riuscire meno avvincente. Musil non sarebbe mai potuto arrivare alla fine, chi si è votato all'affinamento di un tale processo di analisi vi resta impigliato per sempre: se gli fosse concesso di vivere in eterno, dovrebbe anche continuare a scrivere in eterno. Questa è la vera, l'intrinseca eternità di un'opera simile, ed è nella sua natura che questa eternità si rifletta sul lettore, il quale non arriva mai a un punto fermo e continua a leggere, ancora e sempre, ciò che altrove avrebbe avuto una fine. 
 Questa è dunque l'esperienza che io ho doppiamente vissuto a quel tempo, nelle mille pagine di Musil e in cento colloqui con Sonne. Il fatto che tra quelle e questi vi fosse una rispondenza è stata una fortuna, quale non è capitata a nessun altro. Se per il contenuto intellettuale e l'eccellenza della lingua un paragone  non era impossibile, si era invece agli opposti per le intenzioni più profonde. Musil era tutto immerso nella sua impresa, e benché gli fosse concessa la più ampia libertà di pensiero si sentiva subordinato a uno scopo; qualunque cosa gli accadesse, non rinunciava mai a quello scopo; aveva un corpo di cui riconosceva l'importanza e attraverso quel corpo rimaneva legato al mondo. Osservava il gioco degli altri che avevano la pretesa di scrivere, benché ci fosse lui a scrivere, e ne intuiva la nullità e la condannava. Apprezzava la disciplina, quella della scienza in particolare, ma non si privava di altre sue forme. L'opera che aveva intrapreso aveva anche il significato di una conquista; Musil ricuperava un impero tramontato, non la sua gloria, la sua protezione, la sua antica storia, ma piuttosto  quel che ricuperava erano tutte le diramazioni, sul piano spirituale, delle strade grandi e piccole che lo percorrevano: dagli uomini ricavava una carta geografica. Il fascino dell'opera di Musil si può ben paragonare a quello di una carta geografica. 
 Sonne invece non voleva niente. Che fosse così alto e si tenesse ben dritto era solo apparenza. Il tempo in cui pensava alla riconquista di un territorio era ormai lontano. Ignorai a lungo che aveva intrapreso in compenso la riconquista di una lingua. Non sembrava legato a nessuna fede, sebbene nessuna fede avesse segreti per lui. Era libero da ogni scopo e non si misurava con nessuno. Ma prendeva parte agli scopi degli altri, li valutava e li analizzava; e anche se usava per le sue perizie i criteri più 
rigorosi e spesso, forse quasi sempre, non si sentiva consenziente, il suo giudizio non riguardava l'impresa in sé, ma il risultato finale. 
 Dava l'impressione di essere il più oggettivo di tutti gli uomini, ma non perché gli oggetti e le cose avessero qualche importanza per lui, bensì perché non voleva niente per sé. Molti sanno che cos'è il disinteresse personale, e non pochi, disgustati dall'interesse egoistico che vedono intorno a sé, cercano di liberarsene. Ma in quegli anni di Vienna ho conosciuto solo una persona che fosse totalmente immune dall'egoismo, appunto il dottor Sonne. Neanche in seguito ho mai incontrato un uomo come lui. Al tempo in cui le varie forme di saggezza orientale trovavano innumerevoli adepti e la rinuncia agli scopi terreni diventava un fenomeno di massa, c'era sempre al fondo anche un'ostilità contro lo spirito, così come si era sviluppato nelle culture europee. Tutto veniva demolito, in particolare era messa al bando l'acutezza dello spirito, si rinunciava a partecipare alle cose del mondo circostante e così ci si sottraeva anche alla responsabilità verso il mondo. Nessuno poteva sentirsi colpevole di ciò con cui non voleva aver niente a che 
 fare. "Vi sta bene" era il motto che esprimeva un 
atteggiamento largamente diffuso. Sonne aveva abbandonato ogni sua attività nel mondo, e io non sapevo il perché di una simile rinuncia. Restava però nel mondo, legato con i pensieri a ognuno dei  suoi fenomeni. Lasciava cadere le mani, ma non voltava le spalle al mondo: anche nell'equilibrio e nell'imparzialità delle sue parole si poteva avvertire la sua passione per questo mondo, e io ero portato a credere che non facesse niente solo perché non voleva far torto a nessuno. 
 Attraverso Sonne capii per la prima volta che cosa fa l'integrità di una persona: è la capacità di non farsi toccare da nulla, neanche dalle domande, e di disporre di sé senza venir meno ai propri motivi e alla propria storia. Mai una volta mi feci domande sulla sua persona, per me Sonne rimaneva intangibile, anche nei pensieri. Parlava di molte cose e non era avaro di giudizi se qualcuna non gli piaceva. Ma io non cercavo mai i motivi delle sue parole, che si reggevano di per sé, chiare e nette, staccate da tutto, anche dalla loro fonte. A quel tempo era ormai un caso raro, anche prescindendo dalla qualità di quelle parole. L'infezione psicoanalitica aveva fatto progressi, e proprio  allora l'esempio di Broch me ne dava la misura. In Broch ciò mi irritava meno che in altri esseri più comuni, perché la sua personalità, come ho già detto, aveva una sua struttura così particolare che anche le spiegazioni più banali, quelle appunto che avevano corso allora, non avrebbero intaccato la sua peculiare natura. Ma in generale accadeva che a quel tempo non si potesse dire  una frase in una conversazione senza che fosse immiserita con le motivazioni che erano subito lì a portata di mano. Il fatto che si trovassero sempre le stesse motivazioni per ogni cosa, la noia indicibile che ne scaturiva, la sterilità che ne risultava, tutto questo sembrava dar fastidio a ben pochi. Nel mondo succedevano le cose più stupefacenti, ma tutte venivano collocate sullo stesso squallido sfondo: di questo sfondo si parlava e si credeva di avere spiegato quelle cose, che perciò cessavano di essere stupefacenti. Là dove doveva intervenire il pensiero, gracidava un coro saccente di ranocchi. 
 Nella sua opera Musil era totalmente immune da quel contagio, 
 e il dottor Sonne ne era immune nelle sue 
conversazioni. Non mi faceva mai domande che sfiorassero il privato. Io non raccontavo niente di me e mi guardavo dalle confessioni. Avevo davanti agli occhi l'esempio della sua dignità e mi comportavo come lui: per quanto appassionate fossero le discussioni, tutto ciò che riguardava solo lui personalmente ne restava escluso. Gli atti d'accusa non mancavano, ma non trovavano in lui il minimo compiacimento. Prevedeva le cose peggiori, le enunciava con estrema esattezza, ma non se ne rallegrava quando poi avvenivano. Per lui il male restava il male anche se i fatti gli davano ragione. Nessuno aveva una visione così chiara del corso degli avvenimenti. Non oserei dire a parole tutto ciò che di terribile lui sapeva già allora. Si sforzava di non 
 lasciar trasparire quanto lo tormentassero le cose che prevedeva. Si guardava dal farle balenare all'interlocutore come una minaccia o un castigo. La sua circospezione era commisurata al grado di sensibilità di cui sapeva capace l'ascoltatore. Non offriva ricette, sebbene ne conoscesse molte. Era così risoluto come se dovesse pronunciare una sentenza, ma sapeva anche, con un semplice gesto della mano, esonerare da quella sentenza colui che gli stava di fronte. La sua era più che circospezione, si dovrebbe parlare anche della sua delicatezza; e ancora oggi mi domando come  quella delicatezza si conciliasse con un rigore implacabile.  Solo oggi so che non sarei mai riuscito a staccarmi da Karl 
Kraus senza il sodalizio quotidiano con Sonne. Era lo stesso volto: come vorrei poter dare un'idea visiva dell'identità di quelle facce mostrando delle fotografie (che però non ci sono)! Eppure - e non so come rendere plausibile questa affermazione - era al tempo stesso una faccia diversa, la faccia che tre anni dopo vidi nella maschera mortuaria di Karl Kraus, la faccia di Pascal. Qui la collera si era trasformata in sofferenza, e dalla sofferenza che si infligge a se stessi si resta segnati. Il fondersi di quei due volti: il volto del polemista profetico e il volto dell'uomo paziente che ha la forza di abbracciare tutto quello che è possibile a uno spirito senza per questo diventare presuntuoso - il 
 loro fondersi mi liberò dalla tirannia del polemista intransigente, senza togliermi ciò che da lui avevo ricevuto, e mi riempì di rispetto per ciò che mi restava irraggiungibile: in Pascal lo avevo intuito, in Sonne lo avevo davanti a me. 

 Come ho già detto, tra le molte cose che Sonne conosceva a memoria, dal principio alla fine, c'era la Bibbia. Sapeva citare  qualunque passo in ebraico, senza esitare e senza dover riflettere. Tuttavia non faceva sfoggio di queste gesta mnemotecniche, che non avevano mai nulla di teatrale. Era passato più 
 di un anno dall'inizio dei nostri rapporti prima che io esprimessi qualche riserva sulla veste che Martin Buber aveva dato alla Bibbia nella sua traduzione tedesca; e Sonne non solo approvò le mie riserve, ma si addentrò nel testo originale ebraico con una lunga serie di esempi. Il modo in cui citava e commentava molti brevi capitoli mi fece cadere di colpo una benda dagli occhi: mi resi conto che Sonne doveva essere un poeta, e 
proprio in quella lingua ebraica che 
 usava davanti a me. 
 Non osai fargli una domanda diretta, perché quando lui stesso si asteneva dal fornire ragguagli si evitava di toccare l'argomento. In quel caso, tuttavia, la discrezione non mi impedì di chiedere notizie ad altri che lo avevano conosciuto già anni prima. 
Seppi così - e se ne parlava come se la cosa fosse diventata un segreto ormai da qualche tempo - che Sonne era uno dei fondatori della nuova poesia ebraica. 
 Giovanissimo, all'età di quindici anni, sotto il nome di Abraham ben Yitzchak, aveva scritto un certo numero di poesie ebraiche che avevano suggerito a qualcuno, esperto in entrambe le lingue, un paragone con Hölderlin. Erano pochissime poesie, forse nemmeno una dozzina, in forma di inni, e di una tale perfezione che l'autore era stato annoverato tra i maestri di quella lingua chiamata a nuova vita. Ma poi Sonne aveva smesso subito, e nessun'altra poesia era venuta alla luce. Si pensava che si fosse imposto il divieto di scrivere poesie. Non ne parlava mai, dicevano i miei informatori: anche su questo argomento, come su tanti altri, manteneva un silenzio inviolabile. 
 Io mi sentii in colpa per avere scoperto tutto questo contro la sua volontà, e per un'intera settimana non misi piede al Café Museum. Per me Sonne era diventato una guida, quale non avevo mai conosciuta, e ciò che avevo saputo sulle sue poesie giovanili, per 
quanto tornasse a suo onore, 
 era in un certo senso una limitazione. Sonne diventava più piccolo perché aveva fatto qualche cosa. Eppure aveva fatto molto di più, e anche di questo venni a sapere per caso e a poco a poco. Si era allontanato da tutto, e per quanto facesse magistralmente ogni cosa che lo toccava, questo non era bastato ancora a soffocare i suoi scrupoli, e severi motivi di coscienza l'avevano indotto a rinunciare. Tuttavia, per parlare solo della prima cosa che venni a sapere, indubbiamente egli era rimasto un poeta. Non era poesia il fascino della sua parola, la precisione e la grazia con cui trovava la sua strada tra i temi più ardui, attento a non trascurare nulla che fosse degno di considerazione (tranne la sua persona) e a inquadrare l'oggetto con la massima esattezza, senza abbassarsi al suo livello? E poi la sua capacità di dominare l'orrore che pure provava, il suo dono nascosto di intuire ogni sentimento dell'interlocutore, la delicatezza dei suoi riguardi? Ma adesso sapevo che aveva avuto un nome anche come poeta e che lo aveva ripudiato, mentre io miravo a conquistarmi quel nome che ancora non avevo. Mi vergognavo di non potervi rinunciare e mi vergognavo di essermi procurato quelle notizie: di sapere che in altri tempi Sonne era stato qualcosa di grande, qualcosa a cui non teneva più. Come potevo presentarmi a lui senza chiedergli il motivo di quel disprezzo? Forse mi disapprovava perché davo tanta importanza allo scrivere? Non aveva letto nulla di mio, non avevo pubblicato neanche un libro, e Sonne poteva conoscermi solo dai nostri colloqui, nei quali lui contestava quasi tutto e io quasi niente. 
 Mi riusciva quasi insopportabile non poterlo vedere, perché sapevo che a quella data ora lui era seduto al Café Museum e forse guardava verso la porta girevole per vedere se arrivavo. Di giorno in giorno avevo sempre più forte la sensazione che non avrei resistito  senza di lui. Dovevo trovare il coraggio di presentarmi a Sonne tacendo quello che adesso sapevo, di riprendere la conversazione al punto in cui mi ero congedato da lui l'ultima volta, e di rinunciare a conoscere la sua opinione sullo scopo della mia vita fino al giorno in cui ci fosse stato il libro, che volevo sottoporre al suo giudizio, e al suo giudizio soltanto. 

 Conoscevo l'intensità delle ossessioni, la forza incisiva delle parole continuamente ripetute, gli atti sempre uguali che dopo mille volte non perdevano mai la loro efficacia: era così che 
 Karl Kraus agiva sul prossimo. E adesso io mi trovavo in compagnia di un uomo che aveva la stessa faccia e un rigore non 
inferiore, ma 
 era un uomo tranquillo, perché in lui non c'era fanatismo e non c'era la volontà di sopraffarti. Era uno spirito che non respingeva niente, che si rivolgeva a ogni tipo di esperienza con la stessa energia accumulata. Anche per lui il mondo era diviso tra il male e il bene, non era possibile alcun dubbio su ciò che era 
bene e ciò che 
 era male, ma lasciava a te la libertà di decidere e soprattutto di reagire a modo tuo. Nulla era attenuato o abbellito, tutto era presentato con una chiarezza che accoglievi come un dono, restandone stupito e anche un po', vergognoso, come un dono per il quale non ti si chiedeva niente in cambio, se non un orecchio aperto. 
 L'accusa ti era risparmiata. Bisogna pensare con quale violenza avevano agito su di te le accuse incessanti di Karl Kraus, come penetravano e prendevano possesso di te per non lasciarti mai più (ancora oggi scopro le ferite che mi avevano causato, e non tutte si sono cicatrizzate): quelle accuse avevano tutta la forza di comandi, e poiché le approvavi in anticipo e non cercavi mai di eluderle, forse sarebbe stato meglio per te se avessero avuto anche l'urgenza propria dei comandi, perché allora sarebbe stato possibile dar loro un seguito e ti sarebbero rimaste addosso soltanto le spine (neanche questo sarebbe stato lieve). Ma le frasi di Karl Kraus, compatte come mattoni nelle mura di una fortezza, continuavano a pesare su di te come un tutto unico, grevi e massicce, un carico paralizzante che dovevi portarti in giro; e sebbene poi me ne fossi sbarazzato in gran parte durante quell'anno di lavoro forzato intorno al romanzo e poi con la febbre del dramma, restava pur sempre il pericolo che le mie lotte di liberazione fallissero e si concludessero in una dura schiavitù spirituale. 
 La liberazione arrivò con quel viso che somigliava tanto a quello dell'oppressore ma diceva ogni cosa in maniera diversa, più complessa, più ricca, più articolata. Invece di Shakespeare e di Nestroy mi veniva data la Bibbia, ma non era una costrizione,  era un argomento tra innumerevoli altri, e anch'essa intatta, in tutta l'esattezza del suo testo originale. Se per una ragione qualunque il discorso cadeva sulla Bibbia, mi avveniva di  ascoltare una citazione abbastanza ampia di cui non comprendevo il significato, e subito dopo, frase per frase, una traduzione illuminante ma ben fondata in ogni particolare, la traduzione di un poeta, per la quale tutto il mondo mi avrebbe invidiato. Ero il solo a ricevere quel dono, senza doverlo chiedere, e lo ricevevo così come scaturiva dalla fonte. Naturalmente mi avveniva di ascoltare anche altre citazioni, ma molte di queste le 
 conoscevo, e allora non avevo la sensazione che 
rappresentassero l'essenza vera di chi le pronunciava, l'essenza della sua infanzia e della sua saggezza. Solo allora cominciai a sentire vicini i profeti della Bibbia con la loro voce autentica. Li 
 avevo scoperti quindici anni prima negli affreschi di 
Michelangelo, e l'impressione di quelle figure era stata così enorme da tenermi a distanza dalle loro parole. Ora conoscevo i profeti dalla bocca di un solo uomo, come se lui fosse tutti loro insieme. Somigliava ai profeti, ma nello stesso tempo ne era dissimile: non aveva il loro furore esaltato, ma come loro era un uomo pervaso dall'angoscia per il futuro, di cui mi parlava apparentemente senza emozione, un uomo al quale mancava in  ogni caso l'unica, la più terribile emozione dei profeti, che vogliono aver ragione anche quando annunciano il peggio. Sonne avrebbe dato tutto, fino all'ultimo dei suoi respiri, per non 
aver ragione. Vedeva la guerra, che 
 esecrava, ne vedeva il decorso. Sapeva come si potesse ancora evitarla, e avrebbe fatto qualunque cosa pur di vanificare il suo tremendo vaticinio. Quando ci separammo dopo quattro anni di  amicizia - io andai in Inghilterra, lui a Gerusalemme, e non ci scrivemmo mai una lettera -, accadde punto per punto, in ogni particolare, ciò che mi aveva predetto. Io fui doppiamente colpito dagli avvenimenti, perché vedevo compiersi quello che avevo già appreso dalla sua bocca. Per tanto tempo l'avevo tenuto dentro di me, ed ecco che, inesorabilmente, si avverava. 

 La ragione del portamento di Sonne, più che eretto, un po', rigido, venni a saperla molto tempo dopo la sua morte. Da giovane,  mentre andava a cavallo (avvenne a Gerusalemme, credo), era caduto di sella procurandosi una lesione alla colonna vertebrale. Non saprei dire come poi guarì e se anche in seguito fosse sempre costretto a portare qualche apparecchio per sostenere la schiena. Ma questa era la causa del suo portamento, della sua "regalità", come qualcuno la chiamava con poetica esagerazione. 
 Quando mi traduceva i salmi o i detti sapienziali, a me appariva un poeta regale. Che un uomo simile, profeta e poeta insieme, potesse scomparire così completamente da non farsi notare dietro il suo schermo di giornali, e tuttavia fosse ben consapevole di tutto ciò che avveniva intorno a lui, quella sua mancanza di colore, come si potrebbe chiamarla, e quella sua vita modesta e discreta, erano ciò che stupiva di più in lui.  Ho dato rilievo a un solo argomento delle nostre 
conversazioni al Café Museum, quello biblico. Poiché non enumero qui  tutti gli altri, potrebbe sorgere l'impressione che Sonne fosse uno di quelli che mettono in mostra il loro ebraismo. Era vero proprio il contrario. Sonne non ha mai usato la parola "ebreo", né per sé né per me. La lasciava da parte. Era una parola indegna di lui, sia come titolo di merito sia come bersaglio di turbe ostili. Era impregnato della tradizione, senza mai compiacersene. Delle cose meravigliose che conosceva come nessun altro, non si faceva un merito. A me dava l'impressione di non essere credente. Il rispetto che aveva per ogni persona gli impediva  di escludere chicchessia, fosse anche l'ultimo degli uomini, dalla piena cittadinanza nel consorzio umano.  In molte cose era un modello, e da quando l'ho conosciuto nessuno sarebbe più potuto diventare un modello per me.  Egli lo era con le qualità che i modelli devono avere per essere 
 efficaci. Allora, cinquant'anni fa, mi sembrava irraggiungibile, e irraggiungibile è rimasto per me. Nell'Operngasse 
 Anna Mahler riceveva molte visite al numero 4 
dell'Operngasse, nel suo atelier al pianterreno. Era nel centro della città, perché in fondo il vero centro di Vienna era l'Opera, e sembrava giusto che la figlia di Mahler, dopo essersi liberata definitivamente dai vincoli del suo matrimonio, abitasse proprio là dove il padre, il sommo, l'imperatore della musica a 
Vienna, aveva esercitato la sua signoria. Chi conosceva la madre di 
Anna ed era ricevuto nella villa sulla Hohe Warte, chi vi andava senza chiedere niente per sé, chi era già abbastanza celebre per non doversi preoccupare della carriera, approfittava volentieri delle pause del lavoro per passare da Anna. 
 Ma c'era anche un altro motivo di richiamo, ed erano i ritratti che Anna faceva ai visitatori. Gli uomini illustri che Alma si compiaceva di legare alla propria persona, quelli che formavano la sua "collezione", e tra i quali pescava di tanto in tanto, vuoi per un matrimonio, vuoi per il proprio piacere, venivano ridotti o, meglio, innalzati da Anna a una galleria di ritratti. Chi era abbastanza noto veniva pregato di offrire la propria testa, ed erano pochi quelli che non fossero disposti a dargliela. Così accadeva spesso di trovare persone che stavano lì in animata conversazione mentre Anna modellava la loro testa. In questi casi la mia visita non riusciva indesiderata perché io coinvolgevo la gente nella conversazione e questo aiutava Anna nel suo lavoro. Lei teneva le orecchie ben aperte e intanto modellava. Più d'uno  sosteneva che il suo vero talento si manifestava in questo campo.  Voglio ricordare alcune delle persone che andavano da lei e che ora compongono qualcosa di molto simile a una vera galleria. Non poche le avevo già incontrate, nella Maxingstrasse o alla Hohe 
Warte. A questo gruppo apparteneva Carl Zuckmayer, e anche a lui 
Anna fece la testa. Zuckmayer era appena stato in Francia e raccontava le sue impressioni di viaggio. Raccontava con vivacità, con teatrale esuberanza. In Francia, dunque, non si poteva andare da nessuna parte senza imbattersi in Monsieur Laval. Era ad ogni angolo, la faccia universale. Entravi in un ristorante, non avevi ancora varcato la soglia, e chi ti veniva incontro? Monsieur Laval! 
Entravi in un caffè pieno come un uovo, cercavi un posto per sederti, e chi si alzava in quel momento lasciandoti libera una sedia? Monsieur Laval! All'albergo i portieri si davano il cambio: sempre Monsieur Laval! Accompagnavi tua moglie a fare un acquisto nella Rue de la Paix: chi si faceva avanti per servirla? 
Monsieur Laval! Gli incontri con Monsieur Laval davano lo spunto a un'infinità di storie. Era il personaggio pubblico, era l'immagine dei francesi. Oggi, dopo tutto quello che è successo, può suonare molto più sinistro, ma allora aveva qualcosa di farsesco, e ciò che era irresistibile non era tanto l'elemento teatrale del racconto quanto la vigorosa impudenza del narratore. 
 Il clou stava nella ripetizione continua, in cento forme: andavi sempre a cozzare nello stesso individuo, tutti erano lui e lui era tutti; ma ogni volta chi ti stava di fronte non  era mai un vero Monsieur Laval, bensì Zuckmayer, come se sulla scena gli avessero assegnato la parte di un Laval. Zuckmayer parlava per conto suo, senza curarsi di chi lo ascoltava. Quel giorno c'ero soltanto io, oltre ad Anna, e avevo la sensazione di essere molti ascoltatori: se Zuckmayer interpretava i molti Laval, io interpretavo i molti ascoltatori. Io ero anche loro, e tutti loro, riuniti in me, erano sbalorditi dall'aria di innocenza quasi incredibile che irradiava da Zuckmayer, un'atmosfera carnevalesca in cui non accadeva niente di male perché la comicità aveva trasfigurato tutto il male. Se oggi ripenso a quella vivacissima storia di Monsieur Laval, mi colpisce soprattutto la misura in cui ciò che vi era di sinistro in quel personaggio si trasformava per Zuckmayer in comico di situazione. 
 Da Anna incontrai anche figure che soggiogavano per la bellezza, addirittura per una bellezza purissima, come quella che per me prendeva forma nelle maschere mortuarie. Ero colpito dall'aspetto  di Victor De Sabata, il direttore d'orchestra. Dirigeva alla 
Staatsoper e veniva tra una prova e l'altra. Bastava attraversare la strada, l'Operngasse: l'atelier di Anna era come una dépendance del teatro. Questa era la sensazione che De Sabata doveva provare venendo dal podio che era stato di Mahler. In pochi passi era dalla figlia di Mahler, e il fatto che fosse lei a ritrarlo, a giustificare l'aspirazione del suo viso all'immortalità,  non solo aveva un senso, ma sembrava a me il coronamento della vita stessa di De Sabata. A volte ero presente quando lui faceva la 
sua apparizione, rapido e sicuro, 
 una figura slanciata che nonostante la fretta aveva un che di sonnambolico, il viso molto pallido, della bellezza di un morto, ma un viso che non somigliava a nessuno pur nella regolarità dei lineamenti. Era come se De Sabata camminasse a occhi chiusi, e tuttavia quegli occhi guardavano e vi era in essi, quando si posavano su Anna, qualcosa di allegro. - Non fu un caso, per me,  se De Sabata diventò una delle più belle teste di Anna. 
 Anche la testa di Werfel fu modellata allora nell'Operngasse. Senza dubbio gli sorrideva l'idea di essere effigiato in un luogo così vicino al grande tempio del canto. Ci stava volentieri: era un atelier molto semplice, lontano dalla sfarzosa villa della Hohe Warte e lontano anche dal palazzo del suo  editore nella Maxingstrasse. Io evitavo di andarci quando sapevo che c'era Werfel. Ma a volte capitavo lì anch'io senza annunciarmi. Lo facevo molto volentieri, e allora mi imbattevo in Werfel, seduto nel piccolo cortile dal tetto di vetro. Rispondeva al mio saluto come se non fosse successo niente, e non lasciava 
trasparire rancore per quello che mi 
 aveva fatto. Era addirittura così generoso da domandarmi come stavo, e poi portava subito il discorso su Veza, di cui ammirava la bellezza. Una volta, durante un ricevimento alla Hohe Warte, si era inginocchiato davanti a lei, le aveva cantato un'aria d'amore, impegnandosi con tutta la sua mole, sempre piegato su un ginocchio, 
sino alla fine, e si era alzato solo dopo 
 aver dichiarato a se stesso che l'esecuzione gli era riuscita perfettamente, come a un tenore professionista; e in effetti aveva una bella voce. Werfel paragonava Veza a Rowena, la celebre attrice della Habimah che anche a Vienna aveva sostenuto la parte dell'ossessa nel Dybuk trascinando tutti all'entusiasmo. Veza non avrebbe potuto ricevere un omaggio migliore, perché alla fine si era stancata di sentirsi paragonare alle donne andaluse. E Werfel diceva sul serio, il suo non era un complimento, probabilmente era sincero in tutto ciò che diceva, e forse era proprio questo uno dei motivi per cui suscitava un'impressione di ambiguità in chi aveva una natura un po'"critica. Quelli che cercavano di difenderlo nonostante l'antipatia che ispirava, lo chiamavano "un meraviglioso strumento". 
 Quando era seduto, semplicemente seduto, e non faceva niente di particolare, Werfel offriva un curioso spettacolo. Tutti erano abituati a sentirlo declamare o cantare, due cose che in lui si avvicendavano facilmente. Alla conversazione, in cui aveva sempre la parte del leone, provvedeva stando in piedi. Le idee, le trovate non gli mancavano, ma poi le rovinava subito con un eccesso di parole. Chi lo ascoltava avrebbe voluto poter riflettere su qualche punto e si augurava una pausa, un attimo di tregua, uno solo, non di più, ma arrivava quel diluvio di parole e spazzava via tutto. Per Werfel ogni parola che gli usciva di bocca era importante, la cosa più stupida aveva lo stesso timbro perentorio di quella insolita o sorprendente. Non era capace di parlare senza appassionarsi, era qualcosa che corrispondeva alla sua natura ma che scaturiva anche dalla sua convinzione più profonda. Si distingueva da un predicatore perché parlava quasi cantando, ma al pari di un predicatore si sentiva più a suo agio stando in piedi. 
Scriveva i suoi libri in piedi, davanti a un leggio. Considerava le sue parole di elogio un atto di filantropia. Il sapere gli faceva orrore, come la riflessione. Per non dover riflettere, apriva subito il fuoco con tutte le sue batterie. Aveva assimilato dagli altri molte cose importanti, e spesso tuonava come se fosse 
lui stesso la fonte di grandi concetti. Traboccava di sentimento: in lui, pur così grasso, era un continuo gorgogliar di amore e di sentimento, ci si aspettava di trovare per terra, lì intorno, laghetti di commozione e si restava quasi delusi scoprendo che intorno a lui tutto era ancora asciutto come intorno agli altri. 
Non si rassegnava facilmente a sedersi, salvo quando ascoltava musica: allora stava lì teso e bramoso, perché in quegli attimi  solenni si caricava di sentimento fino all'orlo. Mi sono domandato spesso che cosa gli sarebbe successo se per tre anni buoni non ci fosse stata in tutto il mondo una sola opera da ascoltare. Credo che sarebbe dimagrito e deperito, che sarebbe addirittura morto di fame, non senza esplodere in epicedi prima che si compisse la tragedia. Altri si nutrono del sapere, dopo essercisi arrovellati intorno abbastanza a lungo; lui si nutriva di suoni che si guadagnava con tanto sentimento. 
 Werfel aveva una brutta testa, ma Anna ne cavò il meglio. 
Lei, che rifuggiva da tutto ciò che era grottesco se non prendeva i colori della fiaba, esagerò il volume di quella testa, composta essenzialmente di grasso, e le diede - la scultura era in grandezza superiore al naturale - una forza che non aveva. Tra le teste di grandi uomini che stavano sparse e si moltiplicavano rapidamente nell'atelier di Anna, quella di Werfel non sfigurava neanche tanto. Non poteva essere come la testa di De Sabata - che era bella come la maschera funebre di Baudelaire. Ma poteva reggere il confronto con quella di Zuckmayer. 
 Tra gli ospiti di Anna non mancavano - per me - le grandi sorprese. Se molti venivano dalla Staatsoper, dove avevano i loro 
impegni, ed erano attratti all'atelier da un richiamo comprensibile e legittimo, altri venivano dai negozi della 
Kärntnerstrasse, dove facevano i loro acquisti. Un giorno, quando già  mi ero seduto e avevo cominciato a raccontare qualcosa ad Anna, 
Frank Thiess entrò come un colpo di vento in compagnia della moglie: una coppia elegante, entrambi avvolti in morbidi cappotti di lana chiara, con pacchetti che pendevano da tutte le dita, pacchetti di fogge diverse, niente di pesante, niente di voluminoso, quasi contenessero leggeri assaggi di cose ricercate. Quando lui e lei diedero la mano, sembrò che offrissero regali da scegliere liberamente, ma si affrettarono a chiedere scusa perché dovevano andar via subito, e neppure deposero i regali. Thiess parlava molto in fretta, in un tedesco con sfumature nordiche, a voce piuttosto alta. Non avevano proprio tempo, disse, ma passavano di lì e non potevano non affacciarsi a salutare l'artista: le sculture le avrebbero guardate con comodo un'altra volta. Poi, nonostante la fretta, venne giù un diluvio di piccole avventure nei negozi della Kärntnerstrasse, e poiché non ero mai stato in uno di quei posti, a me sembrava di ascoltare il resoconto di una spedizione in terre esotiche. Più che un resoconto era un fiume in piena; e stavano sempre in piedi, perché non c'era il tempo per deporre pacchetti e cappotti. 
Intanto però Thiess imprimeva una lieve oscillazione ai pacchetti in 
modo che testimoniassero di volta in volta che lui stava parlando del negozio da cui provenivano. Ben presto tutti i pacchetti cominciarono a dondolare come marionette appese alle dita di Thiess. L'aria era tutta profumata, e il camerino attiguo all'atelier in cui Anna usava accompagnare i suoi ospiti si 
riempì in pochi minuti degli aromi più raffinati, che non emanavano nemmeno dai pacchetti ma dalle avventure di quel giro di acquisti. Non si parlò d'altro, e soltanto la madre di Anna riuscì  a interloquire con qualche frase di cortesia a denti stretti; e quando i Thiess se ne furono andati - al momento del congedo evitarono, per prudenza, di allungare la mano con i pacchetti - ci domandammo se era passato di lì qualcuno. Anna, che preferiva astenersi da commenti negativi, si mise a scalpellare la sua statua. A lei non era estraneo, come a me, il mondo dei negozi eleganti che era appena affluito nel suo atelier e subito ne era defluito. Lei lo conosceva attraverso sua madre, che aveva spesso 
accompagnato nella Kärnt 
 -nerstrasse e nel Graben; ma era un mondo che odiava: nel separarsi 
dal marito che la madre le aveva imposto per ragioni di politica familiare, aveva abbandonato anche quel mondo. 
 Ormai Anna si era liberata di tutti gli obblighi mondani della 
Maxingstrasse. Non doveva più preoccuparsi dei ricevimenti. Non perdeva  il suo tempo, non era più sottoposta a controlli. Quando qualcosa la irritava, afferrava lo scalpello. Si buttava nel lavoro e voleva che fosse il più duro possibile. Benché nel profondo non avesse niente in comune con Wotruba, c'era una cosa che aveva imparato da lui: un anelito al monumentale, perché richiedeva il lavoro più pesante. Nella parte inferiore del viso di Anna si leggeva una tensione della volontà che la faceva somigliare molto a suo padre. 

 Quella di Frank Thiess era stata più o meno una visita di convenienza. Forse nemmeno lui si rendeva conto di non avere niente  da dire ad Anna. I suoi rapidi gorgheggi, che però si tenevano piuttosto sulle note alte, era capace di eseguirli con tutti. Ma 
Paul Zsolnay, il marito che Anna aveva piantato da poco, era l'editore di Thiess. Quella fuggevole visita di omaggio, nel bel mezzo delle seduzioni della Kärntnerstrasse, voleva essere un  atto di fedeltà e insieme una sorta di dichiarazione di neutralità. Thiess era soddisfatto della propria apparizione e forse sapeva addirittura che dalle sue dita pendeva tutto ciò che Anna aveva perso abbandonando Zsolnay. 
 Solo gli scrittori realmente "liberi", quelli abbastanza conosciuti e molto letti, quelli che perciò non dovevano dipendere dalla casa editrice perché ogni altro editore era pronto ad accoglierli, solo quelli che passavano per celebrità tra  i lettori di allora potevano permettersi di andare da Anna per una visita di omaggio. La gente andava e veniva, e in giro si diceva chi era stato da lei. Quelli che erano considerati lacchè della casa editrice preferivano non farsi vedere. Molti che prima l'avevano incensata e avrebbero dato qualunque cosa per essere invitati ai suoi ricevimenti, adesso la evitavano e si tenevano alla larga dall'Operngasse. C'erano anche quelli che di colpo si mettevano a parlar male di lei. Sua madre, che aveva un grande ascendente sulla vita musicale di Vienna, era invece lasciata in pace, benché da ogni poro le sprizzassero calcolo e politica di potere familiare. 
 Anna si esponeva ai pettegolezzi, 
 era coraggiosa (continuò sempre a esserlo) e si costruiva nel piccolo atelier dell'Operngasse quella specie di museo di teste celebri. Era un'impresa legittima, purché una testa riuscisse bene, e non era poi un caso troppo raro. Lei non immaginava fino a che punto quel museo fosse anche un riflesso della vita di sua madre.  Alla madre interessava il potere, in ogni forma: la celebrità  in primo luogo, il denaro e il prestigio che procura piaceri. Per Anna, invece, al centro di tutto c'era qualcosa di più importante, l'enorme ambizione di suo padre. Voleva lavorare, e senza risparmiarsi, rendendosi la vita quanto più dura fosse possibile. 
L'incontro con Wotruba, il suo maestro, le 
 aveva fatto conoscere appunto quel lavoro duro, lungo e difficile di cui aveva bisogno. Non si concedeva attenuanti per il fatto di essere donna, era risoluta a faticare come l'uomo giovane e forte che era il suo maestro. Non le sarebbe mai venuto in mente  che il modo di lavorare di Wotruba poteva dipendere anche da un 
destino diverso. Per Anna le differenze di origine non 
contavano, e mentre sua madre pronunciava la parola "proletario" col disprezzo che provava per gli schiavi, come se si trattasse di qualcosa fuori delle categorie umane, di una mercanzia in vendita, necessaria, da usare tutt'al più anche per l'amore nel caso di un uomo eccezionalmente bello, mentre sua madre innalzava volentieri quelli che già stavano in alto, Anna non faceva distinzione tra gli esseri umani. Per lei l'origine e la classe sociale non avevano alcun peso, a lei importavano solo le persone in sé; ma poi si vide che questo atteggiamento bello e nobile non è sufficiente: per sapere che cosa valgono gli uomini occorre 
non solo fare  esperienze, ma anche tenersele a mente. 
 In lei il senso della libertà era molto importante, era il motivo principale della rapidità con cui si scioglieva da ogni legame; ed era così forte da far supporre che ogni sua nuova relazione fosse poco seria, concepita fin dall'inizio come un capriccio di breve 
durata. Per contro, Anna scriveva lettere "assolute" e soprattutto si aspettava dichiarazioni "assolute". Per Anna, forse, le lettere composte per lei come se fossero poesia erano più importanti dell'amore stesso; e ciò che la incantava di più erano le storie che le venivano raccontate. 
 Andavo spesso da lei, specialmente da quando aveva l'atelier  nell'Operngasse, e le riferivo tutto ciò che attirava il mio interesse. Sciorinavo davanti a lei quello che succedeva nel mondo e quello che mi passava per la testa. Nel periodo del mio entusiasmo per Sonne poteva accadere che riferissi ad Anna cose molto serie, e lei stava sempre ad ascoltare e ne sembrava affascinata. Quando poi mi decisi a un passo che meditavo già da un 
 pezzo, quando accompagnai Sonne nell'atelier - a lui interessava conoscere la figlia di Gustav Mahler -, quando le presentai il meglio che ci fosse per me al mondo, il più delicato di tutti gli esseri umani, e lo feci col rispetto che dovevo a lui e che non nascosi nemmeno davanti a lei, allora Anna reagì con la generosità che era la sua dote più bella, lo accolse per quello che  era, lo ammirò - nonostante l'aspetto ascetico di Sonne -, lo ascoltò con la stessa attenzione con cui ascoltava me, ma con quel tanto di solennità che io mi aspettavo per lui, e lo pregò di ritornare. La volta successiva, quando la rividi a tu per tu, Anna mi fece l'elogio di Sonne, lo giudicò uno degli uomini più interessanti che avesse mai visto, e poi mi domandò più volte quando sarebbe ritornato. 
 Da parte sua Sonne mi aveva detto cose molto 
intelligenti sulle teste di Anna, e io le riferii a lei. Anche nelle grandi statue Sonne riconosceva una nostalgia romantica ancora incontaminata. Riteneva che il senso del tragico fosse ancora negato ad Anna, la quale, secondo Sonne, non aveva proprio niente in comune con Wotruba, perché la sensibilità musicale, così forte in lei, era del tutto assente in lui. In verità quelle 
statue si ricollegavano alla musica di Gustav Mahler, a molte sue composizioni, 
ma erano frutto della volontà di  
Anna più che della sua ispirazione. Non si poteva dire che cosa ne 
sarebbe venuto fuori in avvenire, ma una qualche rottura nella sua vita avrebbe forse avuto conseguenze molto benefiche. Sonne diceva tutto questo con simpatia: sapeva quel che lei significava per me, e per nulla al mondo avrebbe voluto ferirmi, ma dal modo in cui rinviava al futuro le fortune artistiche di Anna intuii che per il momento non trovava una grande originalità nel suo lavoro. Per 
le teste, invece, il giudizio era positivo. Gli piaceva soprattutto quella di Alban Berg, mentre quella di Werfel gli sembrava "gonfiata", come i suoi romanzi sentimentali, che Sonne 
detestava. Anna 
 era stata contagiata da Werfel, disse Sonne, e in quella scultura aveva accentuato tutto ciò che vi era di vacuo ed enfatico in lui, a tal segno che molti, pur conoscendo quella bruttissima testa al naturale, avrebbero ritenuto Werfel un uomo importante vedendone il ritratto. 
 Anna ascoltò Sonne proprio come lo ascoltavo io. Non lo interruppe mai, non fece domande, e non si stancava di ascoltarlo. Poiché era solo in visita, Sonne non si trattenne più di un'ora. Fu molto gentile, e trovandosi lì in mezzo alle pietre,  alla polvere e agli scalpelli, ne dedusse che Anna volesse riprendere il lavoro. Non c'era bisogno per lui di guardare le statue per capire la determinazione che lei metteva nella scultura: bastavano gli attrezzi dell'atelier; e lo 
 aveva molto colpito la parte inferiore del viso di Anna, la parte volitiva, che trovò somigliante a quella di Gustav Mahler. Era l'unico tratto in comune tra la figlia e il padre, poiché per il resto, occhi, fronte e naso, non esisteva la minima somiglianza. 
Anna non era mai così bella come quando ascoltava, alla sua maniera, immobile, gli occhi spalancati, talmente commossa e assorta che nulla poteva distrarla: una bambina, per la quale diventavano favole anche i discorsi seri, a volte aridi, purché fossero completi. Era così anche quando io le raccontavo qualcosa; e adesso era lui a parlare, l'uomo le cui parole contavano per me come quelle della Bibbia che mi recitava e mi commentava. Ora ascoltavo le cose totalmente diverse che Sonne diceva per lei, e potevo osservare Anna senza imbarazzo, tutta intenta a quelle parole. Avevo la sensazione che lì, in quel momento, Anna non fosse più nel mondo di sua madre, ma al di là di ogni considerazione di successo e di tornaconto. Io sapevo che Anna, nella sua essenza, era più delicata e più nobile della madre, né avida né ipocrita, ma che i giochi di potere di quella granitica vecchia la gettavano continuamente in situazioni che con lei non avevano nulla a che fare, che non le interessavano minimamente e in cui doveva agire secondo le istruzioni, come una marionetta appesa a fili perversi. 
 Solo nell'atelier Anna era libera da tutto ciò, e forse era tanto attaccata al lavoro perché quella era l'ultima cosa a cui sua  madre l'avrebbe spinta, dal momento che il profitto, commisurato alla fatica, era zero. A me sembrava però che Anna non si sentisse del tutto libera quando andavo a trovarla, e infatti, sebbene desiderasse le mie visite, tutto dipendeva poi da uno sforzo incessante, dalla mia inventiva; e io ne ero talmente consapevole che non mi sarei arrogato il diritto di rimanere da lei se non mi fosse venuta qualche idea appropriata. Anna mi parve veramente libera, come non l'avevo mai vista, il giorno in cui accompagnai da lei il dottor Sonne. Allora, senza esitazioni né pose, si abbandonò a una lezione di cui sentiva tutta la profondità e la purezza, una lezione che non le fruttava nulla, che non poteva utilizzare, che anche alla corte di sua madre non avrebbe fatto impressione a nessuno, dal momento che il nome di Sonne là non significava nulla; anzi, poiché Sonne non voleva avere un nome e 
perciò non lo  aveva, non vi sarebbe stato nemmeno invitato. 
 Dopo un'ora, quando Sonne si alzò per andarsene, io rimasi. 
Sicuramente egli pensò che volessi restare ancora. Ma era solo il pudore a trattenermi. Mi sembrava indelicato uscire in sua compagnia. L'avevo condotto all'atelier quasi facendo da scorta, da guida all'essere eccezionale che egli era. Adesso conosceva la strada e desiderava ritirarsi. Nessuno doveva disturbarlo. Anche quando se ne andava, restava immerso nei suoi pensieri e continuava, solo con se stesso, la conversazione che aveva iniziato. Lo avrei accompagnato se ne avesse espresso il desiderio,  ma lui, a sua volta, era troppo riguardoso per esprimerlo. 
Riteneva che godessi del suo favore perché andavo molto spesso da lei. Ma questo era tutto ciò che sapeva. Non avrei mai pensato di dirgli di più su una faccenda così privata. Forse immaginava quanto io fossi stato ferito; ma non credo, perché non tentò mai di consolarmi nella sua maniera inimitabile, ossia descrivendo una situazione in apparenza diversissima che sarebbe stata soltanto una trasposizione della mia. Rimasi dunque con Anna, e quando il giorno dopo rividi Sonne al Café Museum egli non accennò in nessun modo a quella visita. Del resto non mi ero trattenuto a lungo all'atelier, ma solo il tempo necessario perché Sonne si 
allontanasse abbastanza, e 
 avevo poi trovato un pretesto per congedarmi da Anna. Tra lei e me non ci fu nessuna discussione su Sonne. Egli rimase intangibile. Parte terza - Il caso 
Musil 
 Musil - senza che la cosa desse molto nell'occhio - era sempre 
in armi, pronto alla difesa e all'attacco. Il suo 
atteggiamento era la sua sicurezza. Si sarebbe potuto pensare a una corazza, ma era piuttosto un guscio. Ciò che frapponeva tra sé e il mondo come una netta separazione non se l'era messo addosso, era cresciuto con lui. Non si permetteva interiezioni. Evitava le parole sentimentali, ogni frase di cortesia gli riusciva sospetta. Fra tutte le cose tracciava confini, come intorno a se stesso. Diffidava delle mescolanze e delle fratellanze, delle effusioni e delle esagerazioni. Era un uomo allo stato solido e si teneva alla larga dai liquidi e dai gas. Aveva grande familiarità con la fisica, non solo l'aveva studiata a fondo, gli era penetrata nello spirito fino a diventare sangue del suo sangue. 
Probabilmente non c'è mai stato uno scrittore che fosse in tale misura un fisico, rimanendolo anche nel corso dell'opera di tutta la sua vita. Alle conversazioni approssimative non prendeva parte, e se si trovava in mezzo ai soliti chiacchieroni, ai quali a Vienna era impossibile sfuggire, si ritraeva nel suo guscio e restava muto. Tra gli scienziati si sentiva nel proprio elemento e ritrovava la naturalezza. Presupponeva allora che si partisse da qualcosa di preciso e si procedesse verso qualcosa di preciso. Per le vie tortuose provava disprezzo e odio. Ma non mirava assolutamente al semplice: un istinto infallibile gli rivelava l'inadeguatezza del semplice, ed era capace di demolirlo facendone un minuzioso ritratto. Il suo spirito era attrezzato troppo riccamente, era troppo attivo e acuto per appagarsi del semplice. 
 Non si sentiva mai inferiore, in nessun ambiente; e per quanto di  rado, in mezzo alla gente, si prefiggesse di farsi avanti e di scendere in battaglia, coglieva ogni buona occasione come se fosse venuto il momento di una sfida. La battaglia venne più tardi, anni più tardi, quando si trovò solo. Non dimenticava niente. Qualsiasi confronto sostenuto se lo teneva impresso nella memoria, in ognuno dei suoi dettagli, e poiché un intimo impulso della sua natura lo obbligava a volerli vincere tutti, già per questo era impossibile il compimento di un'opera che tutti doveva comprenderli. 
 Si sottraeva ai contatti indesiderati. Voleva rimanere padrone del proprio corpo. Credo che non desse volentieri la mano. Per lui sarebbe andato benissimo l'uso inglese di evitare la stretta di mano. Teneva agile e vigoroso il proprio corpo e ne disponeva in ogni particolare. Ne faceva anche oggetto di riflessioni, assai più di quanto usassero gli intellettuali del suo tempo. Sport e igiene erano per lui una cosa sola, i loro precetti scandivano la sua giornata, regolavano la sua vita. In ognuno dei personaggi che ideava immetteva un uomo sano, se stesso. Per lui le più grandi stravaganze prendevano risalto sullo sfondo di qualcosa che era cosciente della propria salute fisica e della propria vitalità. Aveva un'intelligenza prodigiosa, poiché vedeva esattamente e sapeva pensare ancor più esattamente: perciò non si smarriva mai in un personaggio. Conosceva la strada per uscirne, ma non lo faceva subito, preferiva rinviare, perché si sentiva così sicuro di sé. 
 Non si sminuisce il suo valore mettendo in rilievo l'elemento agonistico che era in lui. Di fronte agli uomini assumeva una posizione di combattimento. In guerra non si sentì fuori posto, nella guerra vedeva un modo di mettersi alla prova. Fu ufficiale e si sforzò di rimediare con la sollecitudine per i suoi uomini a ciò che lo opprimeva come una brutale degradazione della vita. Verso la sopravvivenza aveva un atteggiamento naturale o diciamo tradizionale, e non se ne vergognava. Al posto della guerra, quando la guerra finì, subentrò la competizione: in questo era come un greco antico. 
 Un uomo che gli aveva messo il braccio intorno alla vita, come faceva con tutti quelli che così voleva ammansire o farsi amici, diventò il più durevole dei suoi personaggi. Questo non lo salvò dal morire assassinato. L'indesiderato contatto del braccio lo 
tenne in vita per altri vent'anni. (1) 
 Ascoltare i discorsi di Musil era un'esperienza tutta particolare. Non aveva nulla di manierato. Era troppo se stesso per  far pensare a un attore. Non ho mai saputo di nessuno che l'abbia  sorpreso a recitare una parte. Parlava piuttosto in fretta, ma senza mai essere precipitoso. Dai suoi discorsi non si notava che molti pensieri gli si affollavano alla mente insieme: prima di esporli li scomponeva a uno a uno. In tutto ciò che diceva regnava un ordine che incantava. Non nascondeva il suo disprezzo per l'ebbrezza dell'ispirazione, di cui si riempivano la bocca soprattutto gli espressionisti. Per lui l'ispirazione era troppo preziosa per farne uno strumento di esibizione. Niente gli ripugnava quanto la werfeliana bava alla bocca. Musil era pieno di pudore e non metteva in mostra l'ispirazione. Le faceva posto all'improvviso,  in immagini inattese, stupefacenti, ma poi tornava subito a circoscriverla con la linearità delle sue frasi. Era nemico delle 
alluvioni verbali, e quando si  esponeva alla prolissità di un altro 
 - il che era già motivo di stupore - lo faceva per gettarsi risolutamente a nuoto in quella fiumana, per attraversarla e dimostrare a se stesso che dall'altra parte, anche con le acque più torbide, c'era sempre una sponda. Si sentiva a suo agio quando c'era qualche ostacolo da superare, ma non lasciava mai trapelare nulla della sua decisione di impegnare combattimento. Di colpo era, con sicurezza, in mezzo alla materia, e non ci si accorgeva che ci fosse un combattimento, si era affascinati dalla cosa in sé, e benché il vincitore fosse lì davanti, agile ma irremovibile, non si pensava più al suo trionfo perché la cosa in sé era diventata troppo importante. 
 Ma questo era solo un aspetto del comportamento pubblico di Musil. 
 Quella sicurezza andava infatti di pari passo con una sensibilità 
di cui non ho mai conosciuto l'uguale. Per 
 uscire da se stesso doveva trovarsi in un gruppo di persone in cui la sua statura fosse riconosciuta. Musil non "funzionava" dappertutto, aveva bisogno di determinati elementi rituali. C'erano  persone dalle quali poteva proteggersi solo tacendo. Colpiva subito il fatto che aveva in sé qualcosa di una tartaruga, e  molti conoscevano di lui soltanto il guscio. Se un certo ambiente non gli andava a genio, non diceva una parola. Poteva entrare in un locale e uscirne più tardi senza essersi fatto riconoscere con una  sola frase. Non credo che questo gli riuscisse agevole, e sebbene il viso non lasciasse trasparire la minima reazione, per tutta la durata di quel silenzio si sentiva offeso. Aveva ragione di non riconoscere la superiorità di nessuno: tra quelli che passavano per scrittori, a Vienna non c'era nessuno che gli stesse alla pari, e forse neppure in tutta l'area di lingua tedesca. 
 Conosceva il proprio valore, e almeno su questo punto decisivo non fu mai sfiorato da dubbi, né allora né poi. I pochi che ne erano convinti, per lui non ne erano abbastanza convinti: costoro infatti, per sostenere più efficacemente la causa di Musil, usavano affiancare al suo il nome di questo o quello scrittore. 
 Durante gli ultimi quattro o cinque anni 
dell'indipendenza austriaca, quando Musil era ritornato da 
Berlino a Vienna, si sentiva parlare di una triade di nomi che venivano portati sugli scudi dall'avanguardia: Musil, Joyce e 
Broch, oppure Joyce, Musil e Broch; e se oggi, dopo cinquant'anni, si riflette un poco su quello che così veniva messo insieme, appare molto comprensibile che a Musil non piacesse quella singolare trinità. All'Ulisse, pubblicato allora in tedesco, egli opponeva un rifiuto categorico. Gli ripugnava profondamente l'atomizzazione del linguaggio, e se mai si pronunciava in proposito, cosa che faceva con riluttanza, la definiva "antiquata", poiché secondo lui si rifaceva a una psicologia associazionistica ormai superata. Negli anni di Berlino aveva frequentato i fondatori della psicologia della forma, una scuola che apprezzava molto e alla quale probabilmente si riallacciava con la sua opera principale. Il nome di Joyce lo infastidiva, quello che Joyce aveva intrapreso non aveva niente a che  fare con lui. Quando io gli parlai del mio "incontro" con Joyce, 
avvenuto a Zurigo all'inizio del 1935, diede segni di insofferenza. "E lei ne ha una buona opinione?" domandò; e potei dirmi fortunato se sviò il discorso da Joyce e non mi piantò in asso. 
 Ma quello che proprio gli riusciva insopportabile, in letteratura, era il nome di Broch. Musil lo conosceva già da molti anni: come industriale, come mecenate, come maturo studente di matematica. Come scrittore non riusciva a prenderlo sul serio. Nella trilogia di Broch vedeva una copia della propria opera, di un'impresa che lo teneva occupato ormai da decenni; e il fatto che  Broch l'avesse portata a termine così presto, subito dopo averla cominciata, gli ispirava la diffidenza più profonda. Su questo punto non faceva complimenti, e da Musil non mi è mai accaduto di udire una parola buona sul conto di Broch. Non posso ricordare i commenti che Musil fece di volta in volta su Broch, forse perché mi trovavo nella difficile situazione di stimarli moltissimo tutt'e due. Una tensione tra loro o addirittura una battaglia mi sarebbe riuscita intollerabile. Appartenevano entrambi, su questo per me non c'era dubbio, a un minuscolo gruppo di persone che s'impegnavano a fondo nella letteratura, che non scrivevano per la popolarità e per il successo nel senso più volgare. Per 
me, allora, questo  era forse anche più importante della loro stessa opera. 
 Doveva essere ben strano ciò che Musil provava quando sentiva parlare di quella trinità letteraria. Come poteva credere che qualcuno avesse capito il significato della sua opera se nello stesso istante pronunciava il nome di Joyce, che per lui incarnava tutto il contrario dei suoi intendimenti? Così, se Musil non esisteva per i lettori della letteratura corrente di quegli anni, da Zweig a Werfel, anche quelli che lo portavano sugli scudi lo mettevano in una compagnia che lui non poteva accettare. Quando gli amici gli raccontavano di qualcuno che apprezzava incondizionatamente L'uomo senza qualità e sarebbe stato felice di conoscerne l'autore, la sua prima domanda era: "Chi altri apprezza?". 
 Spesso la sua ipersensibilità è stata ritorta contro di lui. Io vorrei difenderla, per intima convinzione, benché ne sia stato vittima io stesso. Musil si trovava nel bel mezzo della grande impresa che voleva portare a termine. Non poteva immaginare che essa era destinata a non aver fine, in un doppio senso: il suo destino infatti era non solo l'immortalità, ma anche l'incompletabilità. Nella letteratura tedesca non c'era un'impresa paragonabile. La rifondazione dell'Austria attraverso un romanzo, chi avrebbe osato tentarla? La conoscenza di quell'impero, non  attraverso i suoi popoli ma partendo dal suo centro, chi avrebbe potuto attribuirsela? E quante altre cose ancora contiene quest'opera, tante che non vorrei neppure cominciare a parlarne. Ma la consapevolezza che lui, Musil, era quell'impero tramontato, lui come nessun altro, lui solo, gli conferiva un diritto tutto particolare a quella sua ipersensibilità, un  diritto sul quale evidentemente nessuno ha ancora riflettuto. Quella materia incomparabile che lui era, doveva forse lasciarsi  tirare impunemente di qua e di là? Bisognava lasciare che le versassero dentro qualunque cosa e permettere così che s'intorbidasse e si contaminasse? La suscettibilità per la propria persona, che appare ridicola quando si tratta di Malvolio, non è affatto ridicola quando riguarda un mondo peculiare, estremamente complesso, altamente evoluto e ricco, un mondo che un uomo porta in sé e può salvaguardare solo con la ipersensibilità prima di riuscire a manifestarlo. 
 Quella di Musil non era altro che una salvaguardia contro l'intorbidamento e l'inquinamento. La chiarezza e la trasparenza 
della scrittura non è  una qualità automatica che, una volta acquisita, rimane e resiste: dev'essere acquisita sempre di nuovo e senza sosta. Bisogna avere la forza di dire a se stessi: io voglio così, solo così; e perché sia così, io devo essere proprio colui che non lascia penetrare in sé  nulla che possa nuocere al suo intento. La tensione tra l'enorme ricchezza di un mondo già concepito e tutto ciò che ancora potrebbe investirlo ma dev'essere respinto, è mostruosa. La decisione su  ciò che dev'essere respinto può prenderla soltanto colui che porta in sé quel mondo; e i giudizi che su questo atteggiamento possono poi dare gli altri, e specialmente coloro che non portano in sé alcun mondo, sono giudizi presuntuosi e meschini. 
 C'è una sensibilità agli alimenti sbagliati, ma va detto che anche un nome deve continuamente alimentarsi per poter governare a dovere l'impresa di colui che lo porta. Un nome che è nella fase della crescita ha una sua propria alimentazione che lui  solo può conoscere, che lui stesso decide. Fintanto che un'opera di una tale ricchezza è in via di sviluppo, il nome  ipersensibile è il migliore. 
 In seguito, quando è morto colui che si è difeso con la propria suscettibilità e ha compiuto la propria opera, quando il nome è finito sui banchi di tutti i mercati, brutto e gonfio come un pesce che puzza, allora possono farsi avanti gli annusatori e sputare su tutto le loro sentenze, inventando a posteriori le regole di un  corretto comportamento e irridendo quella suscettibilità come un'ipertrofica vanità - l'opera è lì, essi non possono più annullarla, e saranno loro a squagliarsi al sole insieme alla loro impudenza, saranno loro a colar via senza lasciare traccia. 

 Non erano pochi quelli che ridevano di lui per la sua sprovvedutezza nelle cose materiali. Broch, un uomo che conosceva benissimo il valore di Musil, che non era incline alla malignità e certamente era pieno di compassione per gli esseri umani, mi disse, quando per la prima volta portai il discorso su Musil: "E" un re nell'impero della carta". Voleva dire che Musil regnava su uomini e cose solo al suo scrittoio, in mezzo alla carta, mentre poi, nella  vita, era irrimediabilmente alla mercé delle circostanze e delle cose, inerme e inetto, obbligato a dipendere dall'aiuto degli altri. Era noto che Musil non sapeva maneggiare il denaro, anzi 
cercava di non prenderlo nemmeno in mano, tanta  era la sua avversione. Preferiva non andare solo da nessuna parte, c'era quasi sempre sua moglie, che provvedeva per lui a prendere i biglietti del tram e a pagare il conto al caffè. Non portava denaro addosso, io non gli ho mai visto in mano una moneta o una banconota. Si sarebbe potuto credere che il denaro fosse incompatibile con la sua concezione dell'igiene. Si rifiutava di pensare al denaro, che lo annoiava e lo infastidiva. Era  dunque perfettamente naturale che sua moglie gli scacciasse di torno il denaro come si fa con le mosche. Quando l'inflazione gli fece perdere tutto quello che possedeva, si trovò in una situazione molto critica. La durata dell'impresa a cui si era votato era in stridente contrasto con la scarsezza dei mezzi che dovevano sostenerla. 
 Quando era ritornato a Vienna, i suoi amici avevano fondato una "Società Musil" i cui membri si impegnavano a versare un contributo mensile per consentirgli di lavorare all'Uomo senza qualità. Musil conosceva la lista dei soci e si faceva ragguagliare sulla puntualità dei loro versamenti. Non credo che si sentisse mortificato dall'esistenza di quella società. Pensava giustamente che i soci si rendessero conto del valore dell'impresa. Per loro era un onore poter contribuire a quell'opera. Sarebbe stato ancora meglio se un numero maggiore di sottoscrittori si fosse fatto avanti. Io avevo sempre il sospetto che  ai suoi occhi quella "Società Musil" fosse una sorta di ordine cavalleresco. Esservi ammessi era un privilegio, e mi domandavo se lui ne avrebbe escluso gli individui immeritevoli. Occorreva un supremo disprezzo del denaro per continuare a lavorare, in simili condizioni, a un'opera come L'uomo senza qualità. Quando l'Austria fu occupata da Hitler, tutto finì, poiché i membri della società erano in maggioranza ebrei. 
 Nei suoi ultimi anni, quando viveva in Svizzera nella più assoluta indigenza, Musil ha scontato in modo terribile il suo disprezzo per il denaro. Per quanto sia penoso pensare al grado di umiliazione in cui era ridotto, tuttavia non vorrei immaginarmi Musil in condizioni diverse. Il suo sovrano disprezzo per il denaro, che non era affatto legato a qualche inclinazione per una vita ascetica, la mancanza di qualunque vocazione al profitto 
 - si 
 esita a chiamarla "vocazione", tanto è diffusa e comune - sono tratti che appartengono all'essenza intima del suo spirito. Musil non ne faceva uno scandalo, non protestava assumendo pose da ribelle, non ne parlava: il suo imperturbabile orgoglio lo induceva a non dar conto a se stesso della propria situazione, benché la conoscesse esattamente e non trascurasse ciò che essa significava per gli altri. 
 Broch era membro della "Società Musil" e versava 
regolarmente il suo contributo mensile. Non lo diceva, io ne ebbi notizia da altri. Come scrittore doveva soffrire per l'aspro giudizio negativo di Musil, che in una lettera lo accusava 
espressamente di 
 aver copiato nella trilogia dei Sonnambuli lo schema dell'Uomo senza qualità. Se poi, parlando con me, definì Musil "un re nell'impero della carta", credo che si possa perdonarlo. Per me questa ironica definizione non ha valore. Anche a tanti anni di distanza dalla morte di Musil e di Broch, io vorrei respingerla. 
Broch, che già aveva dovuto soffrire non poco sotto il peso dell'eredità mercantile di suo padre, è morto in esilio, in condizioni di miseria paragonabili a quelle di Musil. Non voleva essere un re, e non lo fu in nessun regno. Musil fu un re nell'Uomo senza qualità. 
NOTE:
 (1) Nell'Uomo senza qualità il personaggio di Paul Arnheim, cui è affidata la direzione dell'Azione Parallela, riprende molti tratti di Walther Rathenau, che Musil aveva conosciuto a Berlino nel gennaio 1914 e che fu assassinato nel giugno 1922, quando era ministro degli Esteri della Repubblica di Weimar. Rathenau restò in vita "per altri vent'anni" perché Musil continuò a lavorare al suo romanzo fino alla morte, nel 1942 ?N" d'T"*. Joyce senza specchio 
L'anno 1935 cominciò per me tra ghiaccio e granito. A 
Comologno, lassù nella meravigliosa cornice della Val Onsernone coperta di ghiaccio, feci per alcune settimane il tentativo di collaborare con Wladimir Vogel a una nuova opera lirica. Forse era  stato assurdo intraprendere un simile tentativo, perché proprio non mi andava l'idea di sottostare a un compositore, di adattarmi alle sue esigenze. Mi ero immaginato che si trattasse, come diceva 
Vogel, di un'opera di nuovo genere, nella quale compositore e poeta avessero uguali diritti. Ma si vide che quella parità non era assolutamente possibile: io leggevo a Vogel ciò che avevo scritto, lui ascoltava con tranquillo distacco, ma poi mi sentivo umiliato dal sussiego con cui esprimeva la sua approvazione, annuendo col capo e pronunciando una sola parola: "Bene", con annesso incoraggiamento: "Vada avanti così!". Se avessimo litigato, per me sarebbe stato tutto più facile. La sua approvazione  e più ancora il suo incoraggiamento mi fecero passare la voglia di continuare. 
 Ho conservato alcuni abbozzi di quel lavoro: non poteva venirne fuori niente di buono. Al momento di lasciare Comologno mi sentii ripetere un'ultima volta un "Vada avanti così!" e mi resi conto che Vogel non avrebbe più avuto mie notizie. Mi vergognavo di dirglielo: se la voglia mi era passata, quale motivo avrei potuto addurre? Era una di quelle inesplicabili situazioni che ho conosciuto più e più volte nella mia vita: mi sentivo ferito nel mio orgoglio senza che il "colpevole" potesse immaginare che cos'era successo, perché lui non aveva fatto niente, proprio niente. Forse - quasi inavvertitamente - mi aveva fatto sentire che  si metteva al di sopra di me. E io potevo sottostare soltanto per mia libera scelta. Dovevo essere io a decidere chi mettevo sopra di me. I miei dèi me li trovavo io, io decidevo chi erano; e se qualcuno, di testa sua, riteneva di poter essere uno di quegli dèi, magari con pieno diritto, io dovevo scomparire dalla sua vita, io sentivo in lui una minaccia. 
 Le settimane di Comologno non rimasero tuttavia senza conseguenze. Una domenica d'inverno, all'aperto, lessi ai miei padroni di casa e a Vogel la Commedia della vanità, e trovai 
ascoltatori più attenti di quelli che 
 avevo avuto dagli Zsolnay. Il padrone di casa e sua moglie presero da allora a ben volermi e mi proposero di tenere una lettura a Zurigo, nella loro casa della Stadelhoferstrasse, durante il viaggio di ritorno da Comologno. Avevano una bella sala in cui usavano invitare alle loro serate il mondo intellettuale zurighese.  Così, ancora in gennaio, ebbe luogo la prima lettura importante di una parte della Commedia della vanità, davanti ad ascoltatori  veramente illustri. C'era anche James Joyce, di cui feci la conoscenza in quell'occasione. Lessi la prima parte della commedia, in purissimo dialetto viennese, senza un'introduzione esplicativa, in una sala affollata, e non pensai che la maggior parte dei presenti non poteva capire il dialetto viennese, da me adottato con tanta convinzione e con tutte le logiche variazioni. Ero 
così soddisfatto del rigore e della coerenza dei miei personaggi viennesi che proprio non avvertii l'umore del pubblico, che era piuttosto sfavorevole. 
 Nell'intervallo fui presentato a Joyce, il quale si espresse in termini molto bruschi e molto personali: "Io mi faccio la barba col rasoio, senza specchio!". Lo disse mettendo l'accento sulle parole "senza specchio"; ed era certo un'impresa temeraria se si considera che aveva la vista debolissima, anzi era ormai quasi cieco. Rimasi costernato da una reazione così ostile, quasi che io lo avessi attaccato personalmente. Pensai che l'idea del divieto contro gli specchi, l'idea centrale della commedia, lo avesse irritato perché i suoi occhi erano così mal ridotti. Per un'ora aveva dovuto sorbirsi quel dialetto viennese che lui, nonostante il suo virtuosismo linguistico, non poteva capire. Solo una scena era scritta in tedesco corrente, e Joyce vi aveva colto la battuta sulla rasatura davanti agli specchi. Ad essa si riferiva col suo penoso commento. 
 L'irritazione per non essere stato in grado di seguire la lingua della commedia - lui, l'uomo di cui si diceva che padroneggiasse innumerevoli lingue! - si era appuntata sul fenomeno di guardarsi allo specchio, messo sotto accusa proprio nell'unica scena di cui aveva afferrato il senso. Quell'accusa, che in apparenza aveva una giustificazione morale, Joyce l'aveva riferita a se stesso. Perciò aveva reagito dichiarando che lui, pur facendosi la barba col rasoio, non aveva bisogno di specchi: non 
c'era pericolo che si tagliasse il collo. Questa dichiarazione, tipica della vanità maschile, sembrava tolta di peso dalla mia commedia. Ero imbarazzato per la sventatezza con cui  avevo fatto subire quel testo a Joyce. Era il testo che io volevo leggere, ma invece di mettere sull'avviso i padroni di casa, mi 
ero molto compiaciuto che Joyce avesse accettato l'invito; e troppo tardi mi accorgevo del guaio che avevo combinato con i miei specchi. Col suo motto "senza specchio" Joyce era sceso in campo per difendersi, e adesso, con mia profonda costernazione, mi vergognavo anche per lui, per quanto vi era di incontrollato nella sua sensibilità che lo diminuiva ai miei occhi. Lasciò la sala quasi subito, forse credendo che la storia degli specchi dovesse continuare anche dopo l'intervallo; e tuttavia il fatto che egli fosse venuto ad ascoltarmi fu considerato un punto a mio favore, un privilegio. Quanto a quel commento tagliente, c'era da aspettarselo da un uomo come lui. 
 Fui presentato ad altri nomi illustri, ma l'intervallo non era lungo e io non avevo la nozione del tempo. Mi sembrava che gli ascoltatori fossero incuriositi, forse lo erano davvero, io avvertivo la loro perplessità e facevo assegnamento sulla seconda  parte della lettura. Avevo scelto "Il buon padre", un capitolo del romanzo che di lì a poco si sarebbe intitolato Die Blendung. A 
Vienna l'avevo già letto spesso, in privato e in pubblico, e 
ormai lo consideravo un cavallo di battaglia, quasi fosse la parte essenziale di un libro molto letto e universalmente noto. Ma per il pubblico quel libro non esisteva ancora, e se a 
Vienna era almeno diventato un tema di conversazione, a 
Zurigo gli ascoltatori se lo sentivano arrivare addosso come qualcosa di totalmente sconosciuto. 
 Non avevo ancora finito di pronunciare l'ultima frase quando 
Max Pulver, (1) l'unico che si fosse presentato in smoking, saltò in piedi, dritto come un fuso, e gridò allegramente a tutta la sala: "Sadismo di sera, bel tempo si spera!". Il maleficio era rotto, e tutti poterono dare libero sfogo al loro dissenso. La serata si protrasse ancora per un bel po', io feci più o meno la conoscenza di tutti i presenti, e ciascuno mi disse a modo suo la propria irritazione, specialmente per la seconda parte della lettura. I più cortesi mi trattarono con l'indulgenza dovuta  a un giovane scrittore non privo di talento che ha solo bisogno di essere guidato sulla retta via. 
 Fu questo, per esempio, l'atteggiamento di Wolfgang Pauli, (2) il fisico, per il quale avevo il massimo rispetto. Con benevolenza egli mi tenne una piccola lezione, prima dicendo che avevo idee aberranti e poi raccomandandomi con una certa insistenza di dargli ascolto, visto che lui mi aveva ascoltato per tutta la sera.  In verità io non lo ascoltavo, e quindi non saprei neanche adesso riferire le sue parole, ma i miei orecchi si erano chiusi per un motivo che lui non avrebbe mai indovinato: il suo aspetto mi ricordava Franz Werfel, solo il suo aspetto naturalmente, e questo particolare non poteva non preoccuparmi dopo le esperienze fatte con Werfel esattamente un anno prima. Pauli aveva però un modo di parlare del tutto diverso, non era ostile, anzi mi dimostrava simpatia: credo - ma qui potrei anche sbagliare - che la retta via sulla quale voleva guidarmi fosse quella junghiana. Dopo la sua ammonizione riuscii a dominarmi così bene che stetti ad ascoltarlo - con apparente attenzione - fino in fondo. Lo ringraziai addirittura per le sue interessanti considerazioni, e ci lasciammo in perfetta armonia. 
 Bernard von Brentano, (4) e Hitler era al potere da due anni. 
L'ingenuità della mia domanda era pari all'orgoglio puerile con cui Pulver dava quelle notizie. Mi rispose senza cambiare tono, più con gentilezza che con iattanza, quasi alla maniera viennese (era vissuto a Vienna per un certo periodo), e con l'aria di chiedere scusa: 
 "Molto interessanti, davvero. Glielo direi volentieri, ma sono tenuto al riserbo più rigoroso. E" come il segreto professionale dei medici". 
 Intorno a Max Pulver, intanto, tutti avevano drizzato le orecchie nell'udire quei nomi pericolosi. La padrona di casa, che era già informata, si avvicinò e disse severamente, indicando Pulver: 
 "Pur di parlare è capace di giocarsi la testa". 
 Ma Pulver fece osservare che era capacissimo di tacere, altrimenti non gli avrebbero mandato quei campioni: 
 "Da me nessuno saprà niente". 
 Oggi sarei disposto a pagare anche più di allora pur di sapere qualcosa sul contenuto delle sue analisi. 
 Nella lista degli invitati figuravano anche C" G" Jung e Thomas 
Mann, che non si erano fatti vedere. Mi domandai se Pulver si fosse vantato anche con Thomas Mann dei saggi di scrittura che la Gestapo gli aveva affidato. Sembrava che la presenza di esuli dalla 
Germania non lo turbasse. E ce n'erano molti nella sala: uno era 
Bernard von Brentano, un altro Kurt Hirschfeld dello Schauspielhaus. Avevo addir
ittura l'impressione che la loro presenza  
stuzzicasse Pulver a fare le sue "rivelazioni", e mi sentivo tentato di restituirgli l'accusa di sadismo, ma ero troppo timido per farlo, e anche troppo poco conosciuto. 
 Ma la vera regina della serata fu proprio la padrona di casa. Si  sapeva della sua amicizia con Joyce e con Jung. Non c'era celebrità, scrittore, pittore o compositore, che non frequentasse la sua casa. Era una donna intelligente, con lei si poteva parlare, aveva la mente aperta a ciò che quei personaggi le  dicevano, sapeva discutere con loro senza arroganza. 
S'intendeva di sogni, e questo la legava a Jung, ma si diceva che perfino Joyce le raccontasse i propri sogni. Nella casa che si era fatta sopra Comologno offriva rifugio a non pochi artisti che potevano andarvi a lavorare. Da vera signora si occupava di cose che non andavano solo a sua gloria. La paragonavo tra me a quel personaggio di Vienna che faceva il bello e il cattivo tempo nella maniera più ottusa e dominava la scena senza alcun discernimento, con le sue pretese, con l'avidità e con l'alcool. La 
signora di Vienna la conoscevo meglio, da più anni, ed è incredibile quello che viene fuori da una più lunga conoscenza delle persone, ma credo che il confronto si risolva molto giustamente a favore della signora di Zurigo; e vorrei, se fosse ancora viva, che sapesse della mia buona opinione. 
 Fu nella sua casa che ritrovai la fiducia in me, tra gli invitati 
di quella sera, tra le persone che mi ascoltarono e mi condannarono, e forse mi condannarono perché mi avevano capito solo a metà. Appena pochi giorni prima mi ero vergognato per il mio 
 tentativo di rendermi utile a un compositore come suo subalterno, e anche se si trattava di un compositore che stimavo, avevo motivo di dubitare che mi considerasse un suo pari. Nella casa di quella signora a Comologno mi era sembrato di subire un'umiliazione, senza che nessuno ne fosse veramente colpevole. 
Adesso la stessa signora, nella sua casa di Zurigo, mi dava l'occasione di mettere alla prova la mia ultima opera, alla quale ero  legato con tutte le mie fibre, davanti a un pubblico in cui non mancavano persone che ammiravo; e mi dava l'occasione di subire quella sconfitta che era soltanto mia e alla quale potevo contrapporre, intatte, la mia forza e la mia convinzione. 
NOTE:
(1) Max Pulver (1889-1952), scrittore svizzero, è ricordato specialmente per un trattato di grafologia, pubblicato nel 1931, in cui seguiva i metodi del tedesco Ludwig Klages ma interpretava la scrittura nei suoi significati simbolici, applicando la teoria psicoanalitica ?N" d'T"*. 
(2) Nato a Vienna nel 1900, ebbe la cattedra di fisica teorica a Zurigo nel 1928 e a Princeton nel 1940. Nel #"de ottenne il Nobel per la scoperta del principio di esclusione o "principio di 
Pauli". Morì a Zurigo nel 1958 ?N" d'T"*. 
 (4) L'eccidio del 30 giugno 1934, noto anche come "la notte dei 
lunghi coltelli": Hitler eliminò Ernst Röhm e i suoi collaboratori delle SturmAbteilungen prendendo a pretesto la minaccia di un Putsch contro il regime ?N" d'T"*. Il benefattore 
 Jean Hoepffner era il direttore delle "Strassburger Neueste Nachrichten", il gi
ornale più letto dell'Alsazia, che usciva ogni  
giorno in due lingue, tedesco e francese, e si distingueva per il suo senso dell'equilibrio e della misura. Il giornale pubblicava con scrupolo le informazioni che servivano all'Alsazia e non si spingeva  molto oltre gli interessi regionali se non era proprio necessario per i temi economici di carattere più generale. A Strasburgo non conoscevo nessuno che non comprasse il giornale di Hoepffner, la sua 
tiratura era di gran lunga la più alta, lo si vedeva 
 esposto dappertutto. Non era un giornale che eccitasse gli animi, 
la parte culturale non aveva nulla che la distinguesse particolarmente, chi s'interessava a cose del genere si rivolgeva alla grande stampa parigina. 
 La tipografia e gli uffici del giornale si trovavano in un sobrio edificio della Blauwolkenstrasse, o Rue de la Nuée Bleue, verso il cortile, ma anche in ogni stanza del palazzo si udiva il rumore delle macchine tipografiche. Jean Hoepffner non abitava 
nello stabile, ma al secondo piano aveva un 
appartamentino di due stanze che metteva a disposizione degli amici venuti da fuori. L'appartamento era stipato di vecchi mobili che lui stesso aveva scovato dai rigattieri nel corso degli anni. La sua più grande passione era quella di frugare nelle botteghe dei rigattieri, ed era felice quando credeva di avere scoperto qualche pezzo che poi finiva tra le altre anticaglie della piccola foresteria. Era come se Hoepffner avesse sistemato lassù, in quelle due stanze, una sua personale bottega di rigattiere in cui non si vendeva niente e che, secondo lui, riuniva  i pezzi migliori. L'onore di vedere quella bottega toccava soltanto agli amici ammessi ad abitarvi, e quando gli occhi di 
Hoepff 
 -ner, due occhi chiarissimi, si spalancavano su un pezzo che egli esaltava con candido entusiasmo, non trovavi il coraggio di dirgli la verità, e cioè che quel pezzo non ti piaceva per niente. Stavi zitto, sorridevi, ti congratulavi con lui, e appena era possibile parlavi d'altro. 
 Era questo il modo in cui cercavi 
 ogni giorno di toglierti dall'imbarazzo quando, come accadde a  me, occupavi l'appartamentino per qualche settimana. Nelle due stanze, infatti, non c'era soltanto tutto quello che avevi  trovato all'inizio, ma continuavano ad arrivare novità perché quasi ogni giorno Hoepffner si presentava con un nuovo oggetto, per lo più di piccole dimensioni, come se si sentisse in dovere di contribuire al benessere dell'ospite arricchendo le due stanze di cose sempre nuove e sorprendenti. La foresteria era piena, non era facile trovare posto per gli ultimi arrivi, ma Hoepffner ci riusciva ugualmente. Credo di non aver mai abitato in un posto più 
 contrario ai miei gusti, tutto sembrava polveroso e 
inutilizzato, e sebbene qualcuno provvedesse ogni giorno alle pulizie non ti saresti stupito di trovare muffa dappertutto. Ma sarebbe stata soltanto una muffa simbolica, perché a guardar bene tutto era scrupolosamente pulito e quell'impressione di muffa derivava piuttosto dal carattere degli oggetti e dal fatto che nessuno si accordava con l'altro. 
 Quelle due stanze, nelle quali mi trattenevo solo per dormire e per la colazione del mattino, quando mi veniva portato su il caffè,  furono teatro delle più amabili conversazioni. La mattina, prima di recarsi nel suo ufficio al primo piano, il signor Hoepff 
 -ner veniva a trovarmi e mi faceva compagnia mentre prendevo il caffè. Aveva i suoi scrittori preferiti, li rileggeva continuamente, non riusciva a saziarsene, e voleva parlarne con me. Al primo posto cera Adalbert Stifter, del quale conosceva quasi tutto, e certe sue cose gli erano così care che, mi diceva, le aveva lette più di cento volte. La sera, quando rincasava dall'ufficio, si godeva il suo Stifter. Era scapolo e viveva solo col suo cane barbone, mentre alla cucina e all'andamento della casa provvedeva 
una governante che era al suo servizio da anni. Il signor Hoepffner non perdeva 
tempo in cose superflue, sapeva apprezzare i  
piatti preparati per lui da quella vecchia e brava alsaziana, ci beveva sopra il suo vino e poi, dopo aver giocato un po'"col barbone, si disponeva a leggere Der Hagestolz, (1) di cui non si stancava di tessermi le lodi. Per Stifter trovava toni più seri di quelli riservati alle anticaglie con le quali lo vedevo spesso 
arrivare. Ma 
 era evidente che tra le sue antichità e Stifter esisteva un rapporto, e lui non si sarebbe mai sognato di negarlo. 
 Gli domandai una volta perché continuasse a leggere le stesse cose. Rimase stupito, ma non se la prese. C'era forse qualche altro libro da leggere? Le cose moderne non poteva sopportarle,  era tutta roba cupa e disperata, non c'era verso di trovarvi una sola persona buona; e questo era contrario alla verità. Lui aveva una certa esperienza della vita, nella sua professione aveva conosciuto molta gente, ma non si era mai imbattuto in una sola persona malvagia. La gente bisognava vederla così com'è, e non attribuirle intenzioni che non aveva. Stifter, appunto, era lo scrittore che più di ogni altro aveva questo dono, e da quando lui se n'era reso conto, tutti gli altri lo annoiavano o gli facevano venire il mal di testa. 
 All'inizio ebbi l'impressione che Hoepffner non avesse mai letto altro, ma mi accorsi poi di essere in errore, perché lui stesso ammise di avere molto caro un altro libro che aveva letto non meno 
 spesso. Forse il titolo mi 
 avrebbe stupito. Sembrava che Hoepffner volesse scusarsi ancora un poco prima di rivelarlo. Bisognava pur sapere, mi disse, come sarebbe il mondo se esistessero persone malvagie. Era anche questa un'esperienza necessaria, benché fosse pura illusione. Lui l'aveva fatta, e pur sapendo quanto fosse lontano dalla realtà il quadro tracciato in quel libro, esso era scritto così stupendamente che bisognava leggerlo; e lui se lo rileggeva di continuo. Come c'era gente che leggeva romanzi polizieschi per poi cercare sollievo nel mondo reale, così lui leggeva il suo Stendhal, La Certosa di Parma. Gli confessai che Stendhal era il mio preferito tra gli scrittori francesi, che ne avevo fatto il mio maestro e che mi ero sforzato di 
imparare da lui. (2) "Imparare da lui?" domandò il signor Hoepffner. "Ma l'unica cosa da imparare è che il mondo, per fortuna, non è così". 
 Era convinto che La Certosa di Parma fosse sì un capolavoro, ma in quanto deterrente, e la sua convinzione era così pura che mi vergognavo davanti a lui. Dovevo dirgli tutta la verità su di me e finii col confessare quel che avevo scritto. Gli 
 esposi il mio "Kant prende fuoco", e lui ascoltò con interesse. "Come deterrente," disse "mi sembra che il suo libro sia anche meglio della Certosa di Parma. Io non lo leggerò mai, ma sarebbe bene che la gente lo leggesse. Avrebbe un buon effetto. La gente, dopo averlo letto, si sveglierebbe come da un incubo e apprezzerebbe la realtà vedendo quanto è diversa da quel sogno". Era comprensibile, disse, che nessun editore avesse ancora osato pubblicare il libro, neanche quelli che avevano avuto parole di stima per il manoscritto: ci voleva coraggio, ed erano ben pochi ad averne. 
 Credo che volesse aiutarmi e mascherasse questo desiderio nella maniera più delicata. Non aveva nessuna voglia di leggere una cosa simile, la descrizione che gli avevo fatto era già abbastanza  repulsiva. Ma aveva saputo dalla nostra comune amica, Madame Hatt, che non avevo ancora pubblicato niente, e questa non sembrava la migliore raccomandazione per uno scrittore di quasi trent'anni. Poiché non poteva essere realmente favorevole a un libro simile, aveva escogitato un intento pedagogico per giustificarne l'esistenza: era un deterrente. Senza perdere tempo e senza esitare, nel corso di quella stessa conversazione, disse che dovevo guardarmi in giro alla ricerca di un buon editore, uno che credesse nel libro anche se non era disposto a rischiare tanto. Lui, Jean Hoepffner, avrebbe poi garantito l'editore da ogni perdita. "Ma è anche possibile" osservai "che nessuno voglia leggere il libro".  "E allora la perdita me l'assumo io" disse Hoepffner. "A me le cose vanno fin troppo bene, e non ho una famiglia da mantenere". 
 Sembrava la soluzione più naturale del mondo. Non tardò a convincermi che lo faceva con entusiasmo, che non c'era niente di più semplice; e intanto mi dimostrava che il mondo era fatto anche di persone buone ed era ben diverso da quello del mio libro; che il libro bisognava leggerlo soltanto per ritornare con rinnovata fiducia al mondo reale, che era fatto di buona gente. 
 
 Quando ritornai a Vienna, le cose da raccontare non 
mancavano. Il viaggio mi aveva portato a Comologno e a Zurigo, a 
Parigi e a Strasburgo, c'erano stati avvenimenti imprevisti, avevo incontrato persone ragguardevoli. Ne riferii a Hermann 
Broch, e lui disse senza mezzi termini, con una rapidità che non gli era abituale, che mi invidiava per una cosa: l'incontro con James 
Joyce. In verità io non 
 avevo nessun motivo per sentirmene onorato. Quel commento così tagliente e mascolino, "Io mi faccio la barba col rasoio, senza specchio!", mi era sembrato una beffa e un segno di incomprensione totale. Broch non era dello stesso parere: secondo lui, stava a indicare che c'era qualcosa che aveva colpito Joyce. Con quella risposta Joyce si era scoperto. Non era uomo capace di dire sciocchezze. Avrei forse preferito qualche parolina sgusciante, non impegnativa? Broch voltò la frase da tutte le parti, tentando 
diverse interpretazioni. Si compiaceva della loro contraddittorietà, e quando gli feci osservare che trattava quella frase banale e del tutto insignificante come il responso di un oracolo, lui annuì senza esitare, perché lo era veramente, sì, era la frase di un oracolo; e si avventurò in altre interpretazioni. 
 Secondo Broch, il fatto che Joyce avesse perso la calma era un punto a favore della commedia. E naturalmente Joyce aveva afferrato ogni battuta: o forse credevo che un uomo simile, dopo tanti anni trascorsi a Trieste, non 
 avesse una perfetta padronanza dell'accento austriaco? Per Broch l'argomento non era ancora esaurito, e quando interruppe il mio tentativo di riprendere il racconto del viaggio e ritornò 
ancora su Joyce, perché gli era venuta in mente 
un'altra possibile interpretazione, mi resi conto che per lui 
Joyce era diventato un modello, 
 una figura che si cerca di emulare e da cui è impossibile  liberarsi veramente. Broch era un uomo quanto mai cortese, alieno da ogni forma di arroganza, ma non ci fu verso di dissuaderlo, qualunque cosa dicessi sulla crudele alterigia di Joyce. Quella apparente crudeltà, se pure era lecito chiamarla così, era solo la conseguenza delle molte operazioni agli occhi, e non significava niente. Ciò che interessava a Broch era la fermezza con cui Joyce affrontava la celebrità, e la sua era una celebrità nobile, eletta,  come nessun'altra. Compresi che per Broch era quello, solo quello, il genere di celebrità che contava. Non c'era nulla, sicuramente, che gli stesse tanto a cuore quanto la stima di Joyce,  e la speranza di arrivare a un risultato "parallelo", per così dire, ha poi avuto una parte decisiva nella nascita della sua 
Morte di Virgilio. 
 Ma Broch fu poi sinceramente felice quando gli raccontai di Jean 
 Hoepffner e della sua offerta, che destò in lui una meraviglia non inferiore alla mia. Un uomo che leggeva quasi soltanto 
Stifter, che rifiutava in blocco la letteratura moderna, che già dopo le prime pagine avrebbe respinto con orrore il mio "Kant prende fuoco", si diceva disposto a provvedere perché il manoscritto vedesse la luce. "A questo punto," disse Broch "il libro farà la sua strada. E" un libro troppo intenso e forse anche troppo inquietante per essere dimenticato. Non oso dire se lei, con questo libro, farà del bene ai lettori. Ma intanto il suo amico, senza dubbio, fa del bene. Agisce senza tener conto dei propri pregiudizi. Non riuscirebbe mai a capire il romanzo. Ma non lo leggerà nemmeno. E neanche medita di assicurarsi così un titolo di merito presso i posteri. Ha intuito che lei è uno scrittore vero e, per dir così, vuole fare del bene alla letteratura nel suo insieme, perché per lui la letteratura è Stifter, verso il quale ha tanta riconoscenza. Quello che mi piace di più in questo Hoepffner è il suo modo di travestirsi nella vita. Il direttore di una tipografia e di un giornale! Più in là di così il travestimento non potrebbe andare. Adesso le sarà facile trovare un editore". 
 
 I fatti gli diedero ragione, e proprio Broch contribuì in parte alla riuscita dell'impresa, sia pure involontariamente. Alcuni giorni dopo incontrò Stefan Zweig, che si trovava a Vienna per due motivi: doveva sottoporsi a una radicale cura dentistica e doveva fondare una nuova casa editrice per i suoi libri, dal momento che l'InselVerlag, in Germania, non poteva più pubblicarglieli. 
Credo che gli avessero estratto tutti i denti, o quasi. Un suo 
amico, Herbert Reichner, pubblicava "Philobiblon", una rivista molto buona. Zwei
g  
decise di affidargli i suoi libri e di aggiungervi come contorno qualche altra opera di cui non ci fosse da vergognarsi. 
 Per caso, poco dopo il mio ritorno a Vienna, incontrai Zweig al 
Café Imperial. Era seduto tutto solo in 
 una delle sale posteriori e si teneva la mano davanti al viso per nascondere la bocca sdentata. Sebbene non gli piacesse farsi vedere in quello stato, mi fece segno di avvicinarmi e mi invitò a 
prender posto al suo tavolino. "Da Broch ho saputo tutto" disse.  "Lei ha conosciuto James Joyce. Se ha qualcuno che garantisce per il suo romanzo, posso raccomandare al mio amico Reichner di pubblicarlo. Ma lei deve farsi scrivere una prefazione da Joyce. Così il libro non passerà inosservato". 
 Dissi subito che era un'idea da scartare senz'altro. Non avrei mai potuto chiedere a Joyce una cosa simile. Joyce non aveva la più pallida idea del manoscritto. Era quasi cieco. Come si poteva imporgli una lettura del genere? E poi, anche se avesse avuto i migliori occhi del mondo, non gli avrei mai fatto quella richiesta. Anzi, una prefazione non l'avrei chiesta a nessuno. Il libro doveva essere letto per quello che era, non aveva bisogno di stampelle. 
 Usai un tono così brusco che io stesso ne rimasi un po'' spaventato. "Volevo soltanto aiutarla" disse Zweig, e si rimise rapidamente la mano davanti alla bocca. "Ma se lei non vuole...". La conversazione era finita, me ne andai per la mia strada e non mi pentii minimamente di avere respinto con tanta energia quella proposta. Avevo salvato il mio amor proprio. D'altra parte non avevo perduto niente. Anche se la cosa fosse stata possibile - ma per me era del tutto escluso -, mi riusciva insopportabile l'idea di presentare il libro con una introduzione di Joyce, buona o cattiva che fosse. Disprezzai Zweig per la sua proposta. Ma forse fu una fortuna che non lo disprezzassi troppo, perché poco dopo ricevetti una lettera della casa editrice 
Herbert Reichner, nella quale si parlava della garanzia, sì, ma non si  accennava affatto a una prefazione. Poiché la lettera mi invitava anche a mandare con urgenza il manoscritto, andai a consultarmi con  Broch, il quale mi persuase ad accettare; e io inviai il manoscritto. 
NOTE:
(1) "Il vecchio scapolo", un racconto del 1844 in cui Stifter descrive la solitudine di un uomo che ha dovuto rinunciare alla felicità ?N" d'T"*. 
(2) "...leggevo e rileggevo continuamente Il rosso e il nero di Stendhal" (La coscienza delle parole, cit", p" 340); "...mi affidai a un altro modello, per il quale nutrivo un'ammirazione non minore: Il rosso e il nero di Stendhal. Ogni giorno, prima di cominciare a scrivere, leggevo qualche pagina, ripetendo quel che aveva fatto Stendhal stesso con un altro modello, il famoso nuovo Codice civile della sua epoca" (Il frutto del fuoco, cit", p" 374) ?N" d'T"*. 
Gli ascoltatori