mercoledì 13 maggio 2020

Sull'uso dei simboli in politica

Una rassegna delle riflessioni sull’uso politico dei simboli nel Novecento non porta a conclusioni definitive. È vero che i totalitarismi ne abusarono per fini manipolatori; forse, però, ebbero successo anche per l’atrofia simbolica della repubblica di Weimar e dei regimi liberali.

L'uso consapevolmente criminale del simbolismo da parte dei bolscevichi in Russia, dei fascisti in Italia e dei nazisti in Germania ha indotto molti osservatori a considerare le cerimonie, lo sventolio di bandiere e le uniformi, come una componente irrazionale e antidemocratica della politica, un orpello pericoloso da eliminare e da sostituire con il ragionamento.
È una tendenza basata non solo sui drammatici fatti della storia, ma anche sull’idea illuministica che gli individui facciano le loro scelte politiche sulla base di considerazioni puramente razionali, generalmente identificate con il calcolo dei propri interessi.
La versione attuale di questa idea, ormai diffusasi nell’opinione pubblica, si traduce nella tenace convinzione che i simboli rappresentino allettamenti destinati agli ingenui o strumenti nelle mani delle élite politiche per manipolare le masse.
Questa visione ignora però che non può esservi politica senza simbolismo, o senza i rituali e i miti attraverso cui esso si esprime. In primo luogo la sociologia e la filosofia contemporanee hanno efficacemente sottolineato che ogni processo cognitivo, incluso quello politico, è filtrato attraverso lenti sostanzialmente non razionali. Anche la dimensione che percepiamo come “reale” implica dunque una manipolazione di simboli. È una prospettiva che deve molto alle riflessioni della filosofia, per esempio di autori quali Ernst Cassirer e Suzanne Lange, secondo le quali l’uomo vive in un mondo simbolico da lui stesso creato, che funge da intermediario tra il mondo esterno e il mondo interiore.
La «ragnatela di simboli» che l’uomo ha tessuto, per usare il linguaggio di Ludwig Wittgenstein, non veicola solo contenuti cognitivi, ma suscita anche risposte emotive. Ed è questa la seconda ragione per cui la teoria della politica come scelta esclusivamente razionale appare fuorviante. Come osserva il filosofo della politica Michael Walzer, «lo Stato è invisibile; deve essere personificato per poter acquistare visibilità, simbolizzato per poter essere amato, immaginato prima di poter essere concepito».
A conferma, se mai ce ne fosse bisogno, dell’idea che l’uomo è mosso anche dalle emozioni e non esclusivamente da un freddo calcolo dell’interesse personale, vi è anche la psicologia politica. Lo psicologo David Sears, ad esempio, ha contrapposto l’approccio della «politica simbolica» a quello della scelta razionale, affermando che gli individui non valutano cognitivamente l’informazione a disposizione in modo realistico e sensato, ma si dimostrano in genere restii al cambiamento. «L’elaborazione simbolica», egli scrive «è in ultima istanza funzionale agli scopi razionali dell’individuo e della società, ma è tale non in virtù di un processo di deliberazione attenta e razionale, né di una valutazione dei costi e dei benefici». Di fatto, conclude Sears, «tutto dimostra che l’interesse personale ha un’influenza relativamente marginale sugli orientamenti politici».

Miti e rituali politici
Nella letteratura sul simbolismo politico una particolare attenzione è stata dedicata agli usi politici del rituale. È nel rituale, infatti, che ai simboli viene data pubblica espressione nel modo più solenne.
Vista in quest’ottica laica e antropologica, il rituale appare come qualsiasi insieme di azioni ripetitive e ridondanti, ricche di significati simbolici che legano il passato al presente e il presente al futuro comportando una complessa stimolazione fisiologica, fatta di gesti, canti, rumori, colori, odori. La manipolazione dei simboli nel rituale suscita emozioni che vengono associate a particolari visioni del mondo. Ma come avviene questa stimolazione?
L’antropologo britannico Victor Turner ha distinto una serie di caratteristiche del simbolismo. In primo luogo, i simboli realizzano una condensazione di significato, vale a dire che un unico simbolo unisce in un’associazione complessa una varietà di referenti. In secondo luogo, essi rappresentano una polarizzazione di significato. Con ciò Turner si riferisce al fatto che nei simboli esistono due poli semantici, uno ideologico e l’altro sensoriale: il simbolo evoca determinate visioni del mondo, certe idee relative alle entità sociali, alla storia e ai sistemi normativi, ma nello stesso tempo suscita anche particolari stati emotivi.
Turner afferma che attraverso i simboli dominanti «le norme etiche e giuridiche di una società entrano in stretto contatto con forti stimoli emozionali». Tali simboli possono essere di tipo religioso, come nel caso del crocefisso, politico o agonistico, come nel caso delle bandiere sventolate dopo la vittoria di una squadra nazionale.
Se è vero che gli antropologi hanno da tempo riconosciuto l’intima connessione esistente tra rito e mito, va pur detto che il riconoscimento della componente simbolica della vita pubblica all’interno della disciplina antropologica non è sempre stato dato per scontato. Si è piuttosto trattato di una graduale estensione alla società occidentale di attitudini irrazionali che prima erano principalmente rintracciate nei popoli “selvaggi”.

Studi sul sacro sul simbolico
Nell’introduzione di African political systems, uno studio del 1940, i due esponenti più illustri dell’antropologia sociale britannica, Meyer Fortes ed E.E. Evans-Pritchard scrivevano che «L’uomo africano non vede al di là dei simboli; si potrebbe sostenere che se egli ne comprendesse il significato oggettivo, essi perderebbero ogni potere su di lui. Tale potere risiede nel loro contenuto simbolico e nella loro associazione con le istituzioni nodali della struttura sociale, come ad esempio la monarchia».
L’approccio dei due antropologi era chiaramente influenzato dall’opera del grande sociologo Émile Durkheim la cui interpretazione delle cerimonie religiose tra gli aborigeni all’inizio del Novecento aveva sottolineato il nesso tra sacro e politica: il totem oggetto di adorazione rappresenterebbe secondo Durkheim non solo una forza sovrannaturale, ma il gruppo sociale stesso. Le idee di Durkheim influenzarono anche i sociologi, tanto che negli Stati Uniti ebbe un notevole impatto un articolo pubblicato da Robert Bellah in cui le concezioni durkheimiane venivano applicate alla società industriale contemporanea. Il sociologo vi sosteneva che in America, accanto alle varie Chiese, esistesse una forma distinta di religione, che definì «religione civile», consistente in un «complesso di credenze, simboli e rituali attinenti a cose sacre e istituzionalizzati in una collettività».
Tale religione sarebbe stata caratterizzata da un sistema simbolico compiutamente elaborato, con una mitologia (in cui la fondazione della nazione era equiparata alla Genesi biblica, e George Washington a un Mosè nazionale) e un complesso sistema rituale (con giorni festivi come il 4 luglio, giorno dell’Indipendenza). Solo grazie a questa religione civile i diversi popoli che formavano gli Stati Uniti potevano costituirsi in un’unità politica.
Negli ultimi trent’anni diverse correnti teoriche hanno focalizzato l’attenzione sull’interpretazione dei simboli politici. La più importante fa capo all’opera di Clifford Geertz, centrata sui meccanismi attraverso i quali l’uomo conferisce senso al mondo e crea significati. A proposito dei simboli e dei riti legati alla figura del sovrano e ai capi politici, egli osserva: «La distinzione apparentemente ovvia tra il cerimoniale del potere e la sua sostanza diventa meno netta, persino meno reale; ciò che conta è il modo in cui vengono trasformati l’uno nell’altro, un po’ come accade tra massa ed energia [...]. Al centro politico di ogni società complessa vi sono sia un’élite che governa sia un insieme di forme simboliche le quali esprimono il fatto che essa detiene realmente il potere». Questi gruppi elitari giustificano il loro potere attraverso l’uso di simboli che ereditano dal passato o creano ex novo. «Sono proprio questi simboli (corone e cerimonie di insediamento, limousines e conferenze) che contrassegnano il centro come tale e fanno apparire tali cerimonie non solo importanti, ma anche connesse in qualche maniera imperscrutabile al modo in cui è costruito il mondo. La serietà dell’alta politica e la solennità del culto derivano da impulsi più simili di quanto possa apparire a prima vista».

La religione laica della Nazione
La maggior parte degli studi sociologici e antropologici, sulla scia di Durkheim, hanno concentrato l’attenzione sui modi in cui il rituale viene utilizzato per preservare la coesione sociale. Si è sviluppata così un’imponente letteratura con numerosi studi dedicati, ad esempio, ai rituali legati alla figura del sovrano o ai modi in cui i capi si servono di riti per consolidare il potere, rafforzare la propria legittimità e delegittimare quella degli avversari.
Idee simili hanno goduto recentemente notevole popolarità anche tra gli storici, tanto che vi è stato in questo campo un boom di studi dedicati al simbolismo. Questa corrente storiografica si è affermata soprattutto in Francia, in passato più attenti a focalizzare l’attenzione sui grandi personaggi, sulle imprese militari, e sullo sviluppo di ideologie e di istituzioni. Anche questa corrente, però, ha tendenzialmente analizzato il simbolismo come uno strumento di esercizio “verticale” del potere.
George Mosse ne è senza dubbio uno degli esponenti più influenti. Il suo testo più influente, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania, pubblicato nel 1975, sviluppa l’idea che la nazione non debba esser considerata come una realtà storica predefinita, ma come un concetto politico e culturale creato e propagandato dall’alto verso il basso dai capi politici dei movimenti nazionali ottocenteschi attraverso un processo di pedagogizzazione nazionale che agiva sulle emozioni e sulla fascinazione emotiva delle masse. Per far presa sui milioni di analfabeti che popolavano le città e le campagne ottocentesche, i leader politici connotarono il discorso nazional-patriottico in senso religioso, così da mobilitare emotivamente la coscienza popolare. Questa nuova “religione laica”, la nazione, istituì ovviamente una serie di pratiche di culto, nonché un vasto corredo di simbologie, allegorie e mitologie patriottiche che avrebbero dovuto incarnare la passata grandezza e il fecondo avvenire dello Stato-nazione.
Un’altra prospettiva che osserva il fenomeno del nazionalismo come costruzione simbolica dall’alto è quella di genere. L’autrice che forse più ha approfondito gli effetti oppressivi dell’ideologia nazionalista sulle donne è Anne McClintock. Secondo la studiosa femminista ogni forma di nazionalismo si fonda su un meccanismo di equiparazione simbolica tra l’idea di nazione a quella della famiglia, continuamente ribadita dalla iconografia nazionalista e in espressioni quali “patria” (che fa riferimento alla figura del padre) o “naturalizzazione” (che rimanda alla famiglia come “comunità naturale” primaria). Facendo leva sulla relazione “nazione = famiglia”, i rapporti gerarchici tra uomini e donne all’interno della società verrebbero giustificati in quanto espressione di quelli familiari e questi ultimi, a loro volta, risultano rafforzati in quanto indissolubilmente connessi con il bene della collettività nazionale.
Tuttavia i processi simbolici all’opera nel rituale sono importanti non solo per i detentori del potere, ma anche per i loro avversari, e se la stabilità politica dipende dalla capacità di creare e di mantenere in vita una particolare combinazione di simboli, miti e riti, lo stesso vale per il successo di rivolte o rivoluzioni. Ne consegue che nelle società in cui la legittimità del potere è fortemente contestata, il rito può essere parte integrante di un processo di opposizione.


La rivoluzione simbolica francese
Ad aprire la strada a questo orientamento della ricerca sono stati gli storici della rivoluzione francese, Maurice Agulhon in particolare, i quali hanno messo in rilievo l’influenza della grande rivoluzione sull’affermarsi degli elementi simbolici centrali dello Stato-nazione moderno.
Lo Stato moderno, osserva Agulhon, deve avere una bandiera che lo rappresenti, e deve altresì essere personificato in qualche modo o da un capo di Stato (un sovrano, un presidente, ecc.) o da una figura storica allegorica, ruolo assunto in Francia dalla Marianne.
Oltre a una vasta gamma di simboli che rappresentano il governo, sigilli, blasoni e simili, ogni Stato moderno ha il proprio pantheon di notabili, le cui statue compaiono nelle pubbliche piazze.
Vista in questa prospettiva, la Rivoluzione francese appare caratterizzata da un’attività simbolica addirittura frenetica. Basti pensare al tricolore: inventato per sostituire la bandiera bianca dei realisti il giorno successivo alla presa della Bastiglia (impresa dotata anch’essa di un alto valore simbolico, rispetto al quale il suo esito pratico, la liberazione di un manipolo di prigionieri, fu del tutto trascurabile), esso divenne il simbolo della prima Repubblica. Subito dopo la sconfitta di Napoleone a Waterloo, il tricolore venne messo al bando e sostituito dalla bandiera bianca. Quindici anni dopo, con la Rivoluzione di luglio del 1830, si ebbe un ulteriore capovolgimento, e il tricolore si impose definitivamente. Come osserva Agulhon, questi cambiamenti di bandiera non erano semplicemente il risultato di una lotta politica condotta su un altro terreno, ma avevano implicazioni emotive di enorme rilevanza, che costituivano una componente essenziale della lotta politica stessa: «Gli oscuri militanti che il 28 luglio 1830 issarono il tricolore in cima alle torri di Notre-Dame e all’Hotel-de-Ville, quando l’esito della battaglia era ancora incerto, contribuirono a risospingere il popolo nella lotta con rinnovato ardore. La vista della bandiera, si disse, produsse un effet électrique».
Una volta insediato, il governo rivoluzionario francese varò un vasto progetto di innovazione dell’apparato simbolico, che andava dall’introduzione di determinati capi di abbigliamento, come la coccarda tricolore, all’organizzazione di imponenti riti di massa dalla meticolosa coreografia, come la festa della Libertà. In questa occasione a Parigi venivano esibiti tutti i simboli del nuovo regime: quattro uomini portavano enormi tavole in cui era incisa la Dichiarazione dei diritti dell’uomo; busti di Rousseau, Voltaire e Benjamin Franklin venivano portati in corteo nelle strade; nei pressi della Bastiglia veniva reso omaggio a una statua raffigurante la Libertà, mentre alla statua di Luigi XV erano posti un berretto rosso sul capo e una benda sugli occhi. Analogamente, durante la festa dell’Essere Supremo, a Parigi nel 1794, il regime intensificò gli sforzi per sostituire ai riti religiosi quelli statali. Mezzo milione di persone (metà della popolazione di Parigi) partecipò alla parata o la osservò sfilare tra gli edifici addobbati e gli imponenti monumenti costruiti per l’occasione, tra cui un’enorme montagna artificiale eretta al centro della città. Qui, Robespierre dette fuoco a una statua in cartapesta raffigurante l’Ateismo, scoprendo sotto il suo involucro un’immagine della Saggezza, mentre alle sue spalle la folla intonava inni rivoluzionari. L’acme emotivo fu raggiunto quando la folla, accompagnata dal rullio di duecento tamburi, intonò la Marsigliese recentemente composta, che terminò tra i colpi assordanti dell’artiglieria.

La manipolazione totalitaria
Anche le rivoluzioni totalitarie del XX secolo in Europa hanno attirato l’attenzione degli studiosi sul ruolo del simbolismo politico nei cambiamenti di regime. Emblematica a questo riguardo fu la presa di potere dei bolscevichi in Russia nel 1917. Costituito da un piccolo gruppo di rivoluzionari concentrato in poche aree urbane, il movimento bolscevico doveva trovare il modo di diffondere la propria influenza sul vasto territorio euroasiatico. Occorreva conferire un’identità al nuovo regime agli occhi della popolazione, dotarlo di legittimità e assicurargli la fedeltà di una varietà di popoli diversi. E tutto ciò poteva essere realizzato solo inventando un vasto repertorio di simboli e di riti associati, dall’assalto al Palazzo d’Inverno alla visita alla tomba di Lenin.
Tanto per Mussolini, che in passato aveva militato tra i socialisti, quanto per Hitler, che nel Mein Kampf parla con toni ammirati della potenza delle dimostrazioni socialiste, i riti, i miti e i simboli del socialismo costituirono una lezione. Hitler si servì del potere dei simboli nel creare il movimento nazista e successivamente nel costruire il regime. La svastica e il saluto nazista furono al centro del movimento, istituendo una demarcazione tra i fedeli e i nemici e aizzando odi e passioni. Hitler affermava di aver imparato la lezione del potere dei simboli e dei rituali politici da una dimostrazione marxista di massa svoltasi a Berlino nell’imminenza della prima guerra mondiale: «Un oceano di bandiere rosse, di sciarpe e di fiori rossi conferiva a tale dimostrazione un aspetto imponente», scrive Hitler, «potei sentire e capire personalmente quanto facilmente l’uomo del popolo soccombe al fascino suggestivo di uno spettacolo tanto grandioso e impressionante».

L’atrofia simbolica di Weimar

Se riconosciamo che ogni società ha i propri miti che ne raccontano le origini e ne santificano le norme, non possiamo snobbare la dimensione simbolica della politica, relegandola a un’attitudine infantile o reazionaria.
Gli stessi fatti storici su cui questa convinzione si basa dimostrano quanto essa sia invece centrale. Come dimostra Emilio Gentile nel suo studio Il culto del littorio, Mussolini dedicò grande attenzione alla creazione di un ricco sistema simbolico per rafforzare il suo potere e consolidare il sostegno popolare al suo regime.
«A differenza degli altri partiti, i fascisti assegnarono al simbolismo politico una funzione predominante nell’azione e nell’organizzazione, attribuendogli, nel linguaggio e nei gesti, espressione e significato esplicitamente religiosi. Anche nell’elaborazione della sua liturgia, come per la mitologia, il fascismo si comportò come una religione sincretica, assimilando i materiali che riteneva utili per sviluppare il proprio corredo di riti e simboli».
La cosa più importante, però, nota Gentile è che il fascismo potè approfittare dell’incapacità dimostrata dai suoi predecessori nell’elaborare un soddisfacente sistema simbolico per lo Stato italiano laico: nell’età giolittiana i riti pubblici suscitavano scarsa partecipazione o entusiasmo popolare; spesso erano considerati poco più che esercizi militari. Il fatto poi che la Chiesa avesse per lungo tempo contestato la legittimità dello Stato rifiutandone il simbolismo contribuì in modo significativo a creare la situazione in cui si trovava il Paese nel primo dopoguerra. Occorre allora, piuttosto che negare, nutrire e orientare in senso democratico la ritualità politica democratica