venerdì 15 maggio 2020


TEMPESTA SOLARE
Åsa Larsson
TRAMA

A Kiruna, una terra avvolta nell'eterna notte polare, giace il corpo massacrato del predicatore più famoso della Svezia, morto per la seconda volta. La prima volta era stato investito da un'auto ma si era risvegliato e aveva raccontato del regno fra la vita e la morte. Diventato una star, aveva usato la sua nuova forza per riunificare tre diverse congregazioni in un'unica, potente comunità religiosa. Chiamata dalla sorella della vittima, l'avvocato Rebecka torna alla sua città natale per aiutare l'amica di gioventù, sospettata dell'omicidio. Avvolte dalla neve e dal buio dell'inverno lappone, Rebecka e l'ispettrice di polizia Anna Maria Mella, in avanzato stato di gravidanza, indagano alla ricerca del vero colpevole.

TEMPESTA SOLARE

E fu sera e fu mattina:
il primo giorno

Quando Viktor Strandgård muore in effetti non è la prima volta. È riverso a terra nella chiesa della Fonte della Forza e guarda fuori dagli enormi lucernai sopra di lui. Sembra quasi che niente lo separi dal nero cielo invernale. 
Più vicino di così non si può arrivare, pensa. Quando si arriva alla chiesa in cima alla montagna alla fine del mondo, il cielo è così vicino che basta allungare una mano per toccarlo. 
L’aurora boreale si snoda come un drago nella notte. Stelle e pianeti devono cedere il passo al grande miracolo di luce che avanza senza fretta nella volta stellata. 
Viktor Strandgård segue con gli occhi il suo percorso capriccioso. 
Chissà se canta, si chiede. Come una balena solitaria nelle profondità del mare. 
E come se il suo pensiero l’avesse raggiunta, l’aurora si ferma per un attimo. Interrompe il suo viaggio imperturbabile. Osserva Viktor Strandgård con i suoi freddi occhi d’inverno. Perché è davvero bello come un’icona, lì dov’è sdraiato. Il sangue scuro come un’aureola attorno ai lunghi capelli biondi. Ora non sente più le gambe. Cade nel torpore. Non soffre. 
Curiosamente è alla sua prima morte che pensa, mentre fissa il drago negli occhi. Quella volta scendeva in bicicletta dalla discesa che porta all’incrocio tra la Adolf Hedinsvägen e la Hjalmar Lundbohmsvägen. Felice e devoto, con la chitarra in spalla. Ricorda la ruota della bicicletta che scivolava inesorabilmente sul ghiaccio mentre cercava di frenare. Ricorda di averla vista arrivare da destra, la donna sulla Fiat Uno rossa. Ricorda che si erano guardati, avevano visto la consapevolezza negli occhi dell’altro, uno scivolo di ghiaccio verso la morte. 
Con quell’immagine sulla retina, Viktor Strandgård muore per la seconda volta. Dei passi si avvicinano, ma lui non li sente. I suoi occhi non sono costretti a vedere di nuovo i riflessi del coltello. Il suo corpo riverso sul pavimento della chiesa come un involucro vuoto viene trafitto. Più e più volte. E il drago riprende indifferente il suo cammino lungo la volta stellata. 
Lunedì 17 febbraio

Rebecka Martinsson fu svegliata dal suo stesso respiro affannoso quando l’ansia le attanagliò lo stomaco. Aprì gli occhi nel buio. Nel momento esatto del passaggio dal sogno alla veglia ebbe la netta sensazione che ci fosse qualcuno nell’appartamento. Rimase ferma ad ascoltare, ma l’unico rumore che sentiva era il cuore che le martellava nel petto come una lepre spaventata. Annaspò sul comodino in cerca della sveglia fino a trovare il pulsante che illuminava il quadrante. Le quattro meno un quarto. Era andata a letto quattro ore prima ed era la seconda volta che si svegliava. 
È il lavoro, si disse. Lavoro troppo. È per questo che i pensieri mi frullano in testa tutta la notte come una ruota da criceto. 
Le faceva male la testa. Doveva aver digrignato i denti nel sonno. Tanto valeva alzarsi. Si avvolse nella coperta e andò in cucina. I piedi trovarono la strada senza bisogno della luce. Accese la caffettiera elettrica e la radio. Il segnale di intervallo andò in onda a ripetizione mentre l’acqua colava nel filtro e lei si faceva la doccia. 
Lasciò che i lunghi capelli si asciugassero da soli. Mentre si vestiva bevve una tazza di caffè. Durante il weekend aveva stirato e appeso nell’armadio i vestiti per tutta la settimana. Era lunedì. Sulla gruccia corrispondente erano appesi una camicetta bianco avorio e un completo blu marino di Marella. Annusò i collant del giorno prima, potevano andare. Facevano un po’ di pieghe alle caviglie, ma se li allungava e li ripiegava sotto al piede non si sarebbe notato. Avrebbe semplicemente dovuto evitare di togliersi le scarpe sotto la scrivania durante la giornata. Vale la pena di preoccuparsi delle calze e della biancheria solo se c’è la possibilità che qualcuno le veda. La sua biancheria era ingrigita dai ripetuti lavaggi. 

Un’ora più tardi sedeva davanti al computer in ufficio. Le parole le scorrevano come un torrente in piena dalla testa alle braccia e alla punta delle dita che volavano sulla tastiera. La mente riposava. L’inquietudine di quella mattina era scomparsa. 
È strano, pensò. Non faccio che lamentarmi che il lavoro mi rende infelice. Ma in realtà quando lavoro sono in pace con me stessa. Quasi felice. È quando non lavoro che mi faccio prendere dall’ansia. 
La luce dei lampioni della strada penetrava a fatica dalle grandi finestre con le inferriate. Per il momento si distinguevano ancora le singole macchine che passavano, ma ben presto il traffico avrebbe formato un unico brusio soffocato. Rebecka si appoggiò allo schienale e lanciò una stampa. Nel corridoio buio la stampante si mise in moto ed eseguì il primo ordine della giornata. Poi si sentì sbattere la porta d’ingresso. Rebecka sospirò e guardò l’ora. Le sei meno dieci. Fine della solitudine. 
Non riuscì a capire chi fosse arrivato. I tappeti spessi del corridoio attutivano i passi, ma poco dopo la porta del suo ufficio si aprì. 
«Disturbo?» 
Era Maria Taube. Spinse la porta con un fianco tenendo in mano due tazze di caffè. Sotto il braccio destro stringeva la stampa di Rebecka. 
Le due donne lavoravano da poco come avvocati specializzati in diritto tributario per lo studio Meijer & Ditzinger. L’ufficio era all’ultimo piano di un bell’edificio di fine secolo su Birger Jarlsgatan. I corridoi coperti da tappeti persiani semiantichi e i divani e le poltrone di morbida pelle invecchiata sparsi qua e là emanavano un senso di esperienza, potere, denaro e competenza. Era un ufficio che riempiva i clienti del giusto equilibrio di serenità e soggezione. 
«Penso che quando morirò sarò così stanca da desiderare che non ci sia un’altra vita» disse Maria posando una delle tazze sulla scrivania di Rebecka. «Ma questo naturalmente non vale per te, Maggie Thatcher. A che ora sei venuta in ufficio, stamattina? Sempre che tu sia andata a casa.» 
Avevano passato entrambe la domenica sera in ufficio a lavorare. Maria era andata a casa per prima. 
«Sono appena arrivata» mentì Rebecka prendendo la stampata. 
Maria si lasciò cadere sulla poltrona degli ospiti, si tolse le scarpe di pelle decisamente troppo care e raggomitolò le gambe. 
«Che tempaccio» disse. 
Rebecka guardò stupita fuori dalla finestra. Una pioggia fredda martellava i vetri. Non se n’era accorta. Non si ricordava nemmeno se stava già piovendo quando era venuta al lavoro. Il fatto è che non si ricordava se era venuta a piedi o aveva preso la metropolitana. Il suo sguardo si fissò come ipnotizzato sull’acqua che colava lungo i vetri. 
L’inverno a Stoccolma, pensò. Non c’è niente di strano se uno stacca la spina, quando esce. A casa sua era diverso. Con i crepuscoli bluastri e la neve scricchiolante, in pieno inverno. O verso l’inizio della primavera, quando ci si ferma a riposare nel primo spiazzo sgombro sotto un abete, dopo aver sciato lungo il fiume da casa della nonna a Kurravaara fino alla capanna di Jiekajärvi. La neve che cade dai rami con un sospiro di stanchezza. Caffè, arance e tramezzini nello zaino. 
All’improvviso la voce di Maria penetrò nella sua coscienza. La mente avrebbe voluto continuare a vagare, ma Rebecka fece uno sforzo e fissò lo sguardo sulle sopracciglia sollevate della collega. 
«Ci sei? Ti stavo chiedendo se ti va di ascoltare il notiziario.»  
«Certo.» 
Rebecka allungò un braccio verso la radio posata sul davanzale della finestra. 
Dio, quanto è magra, pensò Maria osservando la cassa toracica della collega che spuntava da sotto la giacca. Le si possono contare le costole. 
Rebecka alzò il volume e le due donne restarono sedute con le tazze in mano e la testa china come in preghiera. 
Maria chiuse gli occhi. Le bruciavano per la stanchezza. Quel giorno avrebbe dovuto finire di preparare il ricorso al tribunale amministrativo per la causa Stenman. Måns l’avrebbe uccisa, se gli avesse chiesto un’altra proroga. Sentiva un bruciore allo stomaco. Basta caffè prima di pranzo. Se ne stavano lì, rinchiuse come principesse in una torre, giorno e notte, sere e festività comprese, in quello splendido ufficio con tutte le sue dannate tradizioni che potevano andarsene al diavolo e tutti i suoi soci semialcolizzati che non facevano altro che sbirciarti sotto la camicetta, mentre fuori la vita andava avanti per la sua strada. Non si sapeva se mettersi a piangere o far scoppiare una rivoluzione, anche se poi l’unica cosa che si riusciva a fare davvero era trascinarsi fino a casa, sedersi di fronte alla tv e perdere i sensi nel suo sfarfallio ansiolitico. 
«Sono le sei, buongiorno dal notiziario del mattino. Un noto personaggio del mondo religioso è stato trovato assassinato questa mattina nella chiesa della Fonte della Forza a Kiruna. La polizia locale non ha ancora voluto commentare la notizia, limitandosi a dichiarare di non avere effettuato nessun fermo e di non avere ritrovato l’arma del delitto. Come dimostra una nuova ricerca, un numero sempre maggiore di comuni ignora gli obblighi della normativa assistenziale...» 
Rebecka ruotò la sedia girevole così in fretta che urtò la finestra con una mano. Spense la radio di scatto riuscendo nel frattempo a rovesciarsi il caffè sulle ginocchia. 
«Viktor» esclamò. «Non può essere nessun altro.»  
Maria la guardò sorpresa. 
«Viktor Strandgård? Il Ragazzo del Paradiso? Lo conoscevi?» 
Rebecka evitò lo sguardo di Maria. Alla fine si concentrò sulla macchia di caffè sulla gonna. Il volto vuoto e inespressivo. Le labbra strette e sottili. 
«È ovvio che lo conoscevo. Ma è da parecchi anni che non torno a Kiruna. Ormai non conosco più nessuno.» 
Maria si alzò dalla poltrona, si avvicinò a Rebecka e le tolse la tazza dalle dita contratte. 
«Se dici che non lo conoscevi per me va bene, tesoro, ma sembri sul punto di svenire. Sei pallidissima. Chinati in avanti e appoggia la testa fra le ginocchia.» 
Rebecka obbedì come una bambina. Maria andò in bagno e prese delle salviette di carta per cercare di salvare il tailleur di Rebecka. Quando tornò, la trovò di nuovo seduta normalmente. 
«Tutto a posto?» chiese Maria. 
«Sì» rispose Rebecka in tono assente, limitandosi a osservare inebetita la collega che le strofinava la gonna con una salvietta. «Lo conoscevo» disse poi. 
«Be’, non c’era bisogno della macchina della verità» commentò Maria senza alzare lo sguardo dalla macchia. «Ti dispiace che sia morto?» 
«Dispiacermi? Non lo so. No, forse mi fa paura.» 
«Paura?» 
Maria interruppe i suoi frenetici sfregamenti.  
«Paura di cosa?» 
«Non lo so. Che qualcuno possa...» 
Rebecka fu interrotta dallo squillo del telefono. Trasalì e restò a fissarlo senza rispondere. Al terzo squillo lo fece Maria. Poi posò una mano sul microfono perché la persona all’altro capo del filo non la sentisse e bisbigliò: «È per te, e dev’essere qualcuno da Kiruna, perché parla come un troll.» 



Quando squillò il telefono, l’ispettrice Anna-Maria Mella era già sveglia. La luna invernale riempiva la stanza di una vivida luce bianca. Le betulle di fronte alla sua finestra disegnavano sulle pareti figure bluastre. 
«Sono Sven-Erik, eri già sveglia?» 
«Sì, ma sono ancora a letto. Be’?» 
Sentì Robert sospirare e lanciò un’occhiata nella sua direzione. Si era svegliato? No, il suo respiro era tornato pesante e regolare. Bene. 
«Sospetto omicidio nella chiesa della Fonte della Forza» disse Sven-Erik. 
«E allora? Da venerdì scorso sono dietro una scrivania, te lo sei dimenticato?» 
«Lo so» rispose Sven-Erik. Aveva la voce preoccupata. «Ma cazzo, Anna-Maria, questa è una brutta storia. Vieni almeno a dare un’occhiata. Tra poco i tecnici avranno finito e potremo entrare. Si tratta di Viktor Strandgård, ed è un vero e proprio macello. Scommetto che nel giro di un’ora avremo qui tutte le stazioni televisive del paese con le telecamere e tutto l’armamentario.» 
«Sarò lì fra venti minuti.» 
Incredibile, pensò Anna-Maria. Mi telefona per chiedermi aiuto. Non è più lo stesso. 
Sven-Erik non aveva aggiunto altro, ma Anna-Maria lo aveva sentito sospirare di sollievo prima di riattaccare. 
Si girò verso Robert e contemplò il suo volto addormentato. Dormiva con la guancia appoggiata sul dorso di una mano e le labbra color uva ursina leggermente socchiuse. Trovava incredibilmente sexy che iniziasse a spuntargli qualche filo grigio tra i baffi arruffati e sulle tempie. Lui invece non faceva che guardarsi allo specchio del bagno per controllare le stempiature sempre più profonde. 
«Il deserto avanza» era solito lamentarsi. 
Lo baciò sulla bocca. La pancia la intralciava, ma ci arrivò lo stesso. Due volte. 
«Ti amo» la rassicurò lui nel sonno. Allungò una mano sotto la coperta per avvicinarla a sé, ma lei era già seduta sul bordo del letto. Fu subito assalita dal bisogno impellente di fare pipì. Ormai non faceva altro che andare in bagno. Quella notte si era già alzata due volte. 

Un quarto d’ora dopo Anna-Maria scese dalla sua Ford Escort nel parcheggio della chiesa della Fonte della Forza. Faceva ancora un freddo cane. L’aria le pizzicava le guance. Se respirava dalla bocca le facevano male la gola e i polmoni. Se respirava dal naso le si gelavano i pelucchi delle narici. Si avvolse la sciarpa attorno alla bocca e guardò l’ora. Massimo mezz’ora, poi la macchina non sarebbe più ripartita. Era un parcheggio molto grande, in grado di ospitare almeno quattrocento auto. La sua Escort rosso pallido aveva un’aria minuscola e miseranda accanto alla Volvo 740 di Sven-Erik Stålnacke. Una volante era parcheggiata accanto a quest’ultima. Per il resto il parcheggio ospitava solo una decina di macchine coperte di neve. I tecnici dovevano essersene già andati. Iniziò a risalire il vialetto che portava alla chiesa in cima alla Sandstesberget. La brina copriva le betulle come una glassa, e in cima alla collina l’imponente chiesa di Cristallo si stagliava contro il cielo notturno, attorniata da stelle e pianeti. Come un enorme cubetto di ghiaccio fosforescente che faceva concorrenza all’aurora boreale. 
Che megalomania architettonica, pensò arrancando lungo la salita. Quella congregazione di riccastri avrebbe dovuto regalare un po’ di soldi a Save the Children, invece. Ma di sicuro era più divertente cantare gospel in una splendida chiesa che scavare pozzi in Africa. 
Vide da lontano il suo collega Sven-Erik Stålnacke, l’assistente Tommy Rantakyrö e l’ispettore Fred Olsson sulla porta della chiesa. Sven-Erik, a testa scoperta come sempre, era perfettamente immobile con la schiena leggermente piegata all’indietro e le mani infilate al caldo nelle tasche del piumino. I due uomini più giovani gli giravano attorno eccitati come cuccioli. Non poteva ancora sentire i loro discorsi animati, ma glieli vedeva uscire di bocca sotto forma di nuvolette bianche. I cuccioli la salutarono per primi abbaiando allegramente appena la videro. 
«Ciao» latrò Tommy Rantakyrö. «Come andiamo?» 
«Tutto bene» gridò lei bonariamente in risposta. 
«Ormai si vede prima la pancia e dopo un quarto d’ora arrivi tu» disse Fred Olsson. 
Anna-Maria rise. 
Poi incrociò lo sguardo serio di Sven-Erik. Tra i suoi grossi baffi da tricheco si erano formati dei piccoli ghiaccioli. 
«Grazie per essere venuta» disse. «Spero che tu abbia già fatto colazione, perché questa roba ti farà passare l’appetito. Entriamo?» 
«Volete che vi aspettiamo?» 
Fred Olsson pestava i piedi nella neve guardando ora l’uno, ora l’altra. Sven-Erik sostituiva Anna-Maria, perciò formalmente il capo era lui. Ma quando c’era Anna-Maria non era così facile capire chi prendesse le decisioni. 
Anna-Maria tenne la bocca chiusa e guardò Sven-Erik. Era venuta solo a fargli compagnia. 
«Sarebbe meglio se poteste rimanere» disse Sven-Erik. «Per evitare che entri qualche persona non autorizzata prima che portino via il corpo. Ma restate pure nell’ingresso, se fa troppo freddo.» 
«No, che cavolo, possiamo stare fuori, era solo una domanda» assicurò Fred Olsson. 
«Certo» confermò Tommy Rantakyrö con le labbra blu. Dopo tutto erano uomini. E gli uomini non patiscono il freddo. 
Sven-Erik seguì Anna-Maria all’interno e richiuse il pesante portale alle loro spalle. Attraversarono il vestibolo deserto nella penombra. Lunghe file di grucce vuote sbatacchiarono come un carillon stonato nella corrente d’aria creatasi quando avevano aperto la porta. Due porte a battenti conducevano alla chiesa vera e propria. Sven-Erik abbassò inconsapevolmente la voce quando entrarono. 
«È stata la sorella di Viktor Strandgård a chiamare la centrale attorno alle tre. Lo aveva trovato morto e chiamava dal telefono dell’ufficio del pastore.» 
«Dov’è? In centrale?» 
«Negativo. Non ne abbiamo idea. Ho detto alla centrale di mandare qualcuno a cercarla. Non c’era nessuno in chiesa quando sono arrivati Tommy e Fredde.» 
«Cos’hanno detto i tecnici?» 
«Guardare e non toccare.» 
Il corpo era al centro della navata centrale. Anna-Maria si fermò a una certa distanza.  
«Ma che cazzo» esclamò. 
«Te l’avevo detto» rispose Sven-Erik alle sue spalle. 
Anna-Maria tirò fuori un piccolo registratore dalla tasca interna del piumino. Esitò un attimo. Di solito lo usava invece di prendere appunti. Ma questo caso, in realtà, non era suo. Forse avrebbe dovuto stare zitta e limitarsi a fare compagnia a Sven-Erik. 
Non farla tanto lunga, si disse accendendo il registratore senza guardare il collega. 
«Ore cinque e trentacinque del 16 gennaio» recitò nel microfono. «No, del 17. Sono nella chiesa della Fonte della Forza davanti a un cadavere che, a quanto sappiamo al momento, dovrebbe appartenere a Viktor Strandgård, comunemente noto come il Ragazzo del Paradiso. Il morto è al centro della navata. Si direbbe che abbiano infierito sul cadavere, perché c’è una puzza terribile e il tappeto è completamente inzuppato. Il liquido sembrerebbe sangue, ma è difficile dirlo con certezza, perché il tappeto è rosso. Anche gli abiti sono insanguinati e non si riesce a vedere bene la ferita all’addome, a parte il fatto che l’intestino sembra parzialmente fuoriuscito, ma di questo parlerà poi il medico legale. Le suole delle scarpe sono asciutte e il tappeto all’altezza dei piedi anche. Gli occhi sono stati strappati...» 
Anna-Maria si interruppe e spense il registratore. Girò attorno al cadavere e si chinò a guardargli il viso. Era stata sul punto di dire che era un bel cadavere, ma c’erano limiti a quello che poteva pensare ad alta voce davanti a Sven-Erik. Il volto del morto le ricordò l’Edipo Re. Lo aveva visto quando andava al ginnasio. All’epoca non era stata particolarmente colpita dalla scena in cui gli cavano gli occhi, ma ora l’immagine le tornò alla memoria con notevole intensità. Aveva di nuovo bisogno di andare in bagno. E non doveva dimenticarsi della macchina. Meglio darsi una mossa. Riaccese il registratore. 
«Gli occhi sono stati strappati e i capelli sono insanguinati. Deve avere una ferita alla nuca. Ferite da taglio sul lato sinistro del collo, ma senza fuoriuscita di sangue, e non ha più le mani...» 
Anna-Maria si voltò con aria interrogativa verso Sven-Erik che le indicò qualcosa tra le file di sedie. Si chinò faticosamente e guardò sul pavimento. 
«Una mano è a tre metri dal corpo, tra le sedie. Ma l’altra?» 
Sven-Erik alzò le spalle. 
«Non ci sono sedie rovesciate» proseguì. «Nessun segno di lotta. Sei d’accordo, Sven-Erik?» 
«Sì» rispose secco Sven-Erik, a cui non piaceva parlare nel registratore. 
«Chi è il tecnico incaricato delle foto?» chiese. 
«Simon Larsson.» 
Bene, pensò. Così avrebbero avuto delle buone immagini. 
«Per il resto la chiesa è in ordine» proseguì. «È la prima volta che ci entro. Centinaia di lampade in vetro smerigliato sulle parti di parete non in vetrocemento. Che altezza può avere? Sicuramente più di dieci metri. Enormi lucernai. Le sedie blu sono sistemate in file dritte come fusi. Quanta gente può ospitare? Duemila persone?» 
«Più la galleria» rispose Sven-Erik, girando per la sala e facendo scivolare lo sguardo sulle superfici come un aspirapolvere. 
Anna-Maria si voltò a osservare la galleria alle sue spalle. Le canne dell’organo andavano incontro al loro riflesso nel lucernaio. Era una vista mozzafiato. 
«Non c’è molto altro da dire.» Anna-Maria trascinava le parole come se qualche pensiero cercasse di farsi strada dal suo inconscio per infilarsi in una pausa tra le sillabe. «C’è qualcosa... qualcosa che mi fa sentire frustrata, in questa storia. Senza contare che è il cadavere più malridotto che abbia mai visto...» 
«Ehi! Sta arrivando il signor pm.» 
Tommy Rantakyrö aveva infilato la testa dalla porta. 
«E chi cazzo lo ha chiamato?» chiese Sven-Erik irritato, ma Tommy era già sparito. 
Anna-Maria lo guardò. Quattro anni prima, quando era diventata caposezione, Sven-Erik non le aveva praticamente rivolto la parola per sei mesi. Era profondamente offeso perché le avevano assegnato il posto a cui aspirava lui. E ora che si era abituato a farle da secondo non voleva più compiere il grande passo. Ma adesso doveva cavarsela da solo. A ogni modo, Anna-Maria gli rivolse uno sguardo di incoraggiamento quando il pm Carl von Post si precipitò in chiesa. 
«Cosa diavolo significa questa storia?» urlò von Post. 
Si tolse il berretto di pelo e si riassettò la criniera ricciuta con un gesto automatico della mano. Pestò i piedi che la breve passeggiata dal parcheggio alla chiesa aveva trasformato in due pezzi di ghiaccio nell’elegante paio di Church’s. Poi fece un passo in direzione di Sven-Erik e Anna-Maria, ma si bloccò quando vide il corpo sul pavimento. 
«Accidenti» esclamò osservandosi preoccupato le scarpe per controllare di non averle sporcate. 
«Perché nessuno mi ha chiamato?» proseguì rivolto a Sven-Erik. «Da questo momento assumo la direzione delle indagini preliminari. Preparati a fare due chiacchiere con il commissario capo, se hai cercato di tenermi fuori.» 
«Nessuno ha cercato di tenerti fuori. Solo non sapevamo cos’era successo, e in realtà non lo sappiamo nemmeno adesso» si giustificò Sven-Erik. 
«Stronzate!» sibilò il pm. «E tu cosa ci fai qui?» 
L’ultima frase era diretta ad Anna-Maria, che osservava in silenzio le braccia mozzate di Viktor Strandgård. 
«Sono stato io a chiamarla» spiegò Sven-Erik. 
«Ma bene» disse von Post a denti stretti. «Così hai chiamato lei, ma non me.» 
Sven-Erik non rispose e Carl von Post fissò Anna-Maria, che ricambiò tranquillamente il suo sguardo. 
Carl von Post strinse i denti. Non aveva mai potuto sopportare quella strega di donna-poliziotto. Non riusciva a capire perché i suoi colleghi della sezione investigativa sembravano quasi venerarla. Oltretutto era brutta come la notte. Un metro e cinquanta di altezza, con una faccia cavallina che le arrivava a metà corpo. Ora poi era pronta per il circo, con quella pancia enorme. Una specie di cubo grottesco, tanto largo quanto alto. L’inevitabile risultato di generazioni e generazioni di incesti nei villaggi isolati della Lapponia. 
Agitò una mano in aria come a cancellare le parole dure e ricominciò da capo. 
«Come stai, Anna-Maria?» chiese indossando il suo sorriso più affabile. 
«Bene» rispose lei in tono neutro. «E tu?» 
«Conto di avere la stampa alle calcagna tra un’ora o poco più. Scoppierà un casino infernale, perciò raccontatemi tutto quello che siete riusciti a sapere sia sull’omicidio che sul morto. In linea di massima so solo che era una celebrità religiosa.» 
Carl von Post si sedette su una delle sedie blu e si sfilò i guanti. 
«Ti racconterà tutto Sven-Erik» rispose Anna-Maria secca ma non scortese. «Io resterò seduta dietro una scrivania finché sarà il momento. Sono qui solo perché me l’ha chiesto Sven-Erik e perché due paia di occhi vedono meglio... be’, lo sai anche tu. E ora devo andare a pisciare. Se volete scusarmi.» 
Notò con soddisfazione il sorriso tirato sulle labbra di von Post mentre si avviava verso il bagno. Chi l’avrebbe detto che la parola pisciare gli avrebbe dato tanto fastidio... Si domandò se sua moglie si sforzasse di farla sulle pareti del water perché lo sgocciolio non turbasse le sue orecchiucce di rosa. Che stronzo. 
«Be’» disse Sven-Erik quando Anna-Maria si fu allontanata. «Non sappiamo molto di più di quello che puoi vedere da te. Qualcuno lo ha ammazzato. E non si è risparmiato, per così dire. Il morto è Viktor Strandgård, o il Ragazzo del Paradiso, come lo chiamavano. Era l’attrazione principale di questa congregazione. Nove anni fa ha avuto un terribile incidente. È morto all’ospedale. Il suo cuore ha smesso di battere, ma lo hanno rianimato e lui ha raccontato cosa era successo durante l’operazione e la rianimazione, per esempio che al dottore erano caduti gli occhiali e cose del genere. E ha raccontato di essere stato in Paradiso. Di avere incontrato Gesù e tutti gli angeli. Già, e poi una delle infermiere e la donna che lo aveva investito sono diventate credenti, e in un batter d’occhio Kiruna si è trasformata in un raduno di fanatici religiosi. Le tre congregazioni principali della città si sono unite in una nuova chiesa, la Fonte della Forza. La nuova congregazione si è ingrandita sempre di più e negli ultimi anni ha costruito questa chiesa, ha aperto una scuola, un asilo-nido e ha organizzato grandi incontri di risveglio. Fanno un sacco di soldi e attirano gente da tutto il mondo. Viktor Strandgård è, o meglio era, un dipendente a tempo pieno della congregazione e ha pubblicato un best seller...» 
«Heaven and back. In Paradiso e ritorno.» 
«Esattamente. È il loro vitello d’oro, ne hanno parlato sia l’“Expressen” che l’“Aftonbladet”, perciò ora la stampa sarà in fermento. Per non parlare della tv.» 
«Proprio così» disse von Post alzandosi con espressione impaziente. «Non voglio indiscrezioni. Mi occuperò io dei contatti con la stampa, perciò dovrai tenermi al corrente degli sviluppi degli interrogatori e così via. Voglio essere informato su tutto, hai capito? Quando i giornalisti inizieranno a farsi sentire, puoi dire che terrò una conferenza stampa a mezzogiorno sulla scalinata della chiesa. Qual è il prossimo punto al tuo ordine del giorno?» 
«Dobbiamo rintracciare la sorella, è stata lei a trovarlo, e poi dovremo parlare con i tre pastori della congregazione. Il medico legale sta arrivando da Luleå, dovrebbe essere qui da un momento all’altro.» 
«Bene. Voglio un rapporto sulle cause della morte e una ricostruzione verosimile dei fatti alle undici e mezza. È tutto. Se avete finito vorrei dare un’occhiata anch’io.» 




«Coraggio» disse Anna-Maria Mella a Sven-Erik Stålnacke. «È sempre meglio che dover interrogare i soliti guidatori di motoslitta ubriachi.» 
La sua Ford Escort non aveva voluto ripartire e Sven-Erik le stava dando un passaggio a casa. 
Non c’era poi tutta questa differenza, pensava in realtà. Ma Sven-Erik aveva bisogno di un po’ di incoraggiamento. 
«È quel dannato von Pest» rispose con una smorfia. «Non appena me lo trovo davanti mi viene voglia di mandare tutto a quel paese e restarmene seduto a scaldare la sedia finché è ora di tornare a casa.» 
«In questo momento non è a lui che dovresti pensare. Pensa a Viktor Strandgård, invece. Il pazzo che l’ha ucciso è ancora a piede libero e tu lo devi trovare. Lascia che von Pest strilli quanto gli pare e che parli con la stampa. Tanto noi sappiamo chi è che fa il lavoro vero.» 
«Come si fa a non pensarci? Ci sta addosso come un avvoltoio.» 
«Lo so.» 
Anna-Maria guardò fuori dal finestrino. Lungo le strade le case erano ancora addormentate nel buio. Solo in qualche rara finestra c’era già accesa una luce. Qua e là c’era ancora appesa qualche stella di carta natalizia. Quest’anno non c’erano stati incendi. Qualche rissa, naturalmente, ma non più del solito. Non si sentiva molto bene. Niente di strano. Era in piedi da più di un’ora e non aveva ancora mangiato niente. Si rese conto di aver perso il filo del discorso di Sven-Erik e si sforzò di ricordare di cosa stavano parlando. Le aveva chiesto come faceva a lavorare con von Post. 
«In realtà non ho mai avuto molto a che fare con lui» disse. 
«Cazzo, Anna-Maria, avrò bisogno del tuo aiuto. Avremo addosso una pressione enorme, anche senza bisogno di quel gradasso. L’aiuto dei colleghi sarà fondamentale.» 
«Questo mi sembra un ricatto bello e buono.» 
Anna-Maria non poté fare a meno di ridere. 
«Faccio quello che richiede la situazione. Ricatti e minacce compresi. D’altra parte un po’ di movimento ti farà bene. Potresti parlare con la sorella, quando l’avremo trovata. Aiutami solo a partire con il piede giusto.» 
«Va bene, chiamami quando l’avete trovata.» 
Sven-Erik si chinò sul volante e osservò il cielo stellato. 
«Che luna» sorrise. «Tempo perfetto per la caccia.» 
Nello studio legale Meijer & Ditzinger, Rebecka prese la cornetta dalle mani di Maria Taube. 
Un troll, aveva detto. Poteva essere solo una persona. L’immagine di un viso di bambola dal naso all’insù le apparve dietro le palpebre chiuse. 
«Rebecka Martinsson.» 
«Sono Sanna, non so se hai già sentito il notiziario, ma Viktor è morto.» 
«Sì, l’ho appena sentito. Mi dispiace.» 
Senza accorgersene, Rebecka prese una penna e scrisse «Di’ di no! NO!» su un post-it giallo. 
All’altro capo del filo Sanna Strandgård prese fiato. 
«So che ultimamente non ci siamo sentite spesso. Ma sei ancora la mia migliore amica. Non sapevo chi chiamare. Sono stata io a trovare Viktor in chiesa e io... ma forse sei occupata?» 
Occupata, pensò Rebecka sentendo l’irritazione salire come il mercurio in un termometro. Che razza di domanda. Davvero Sanna pensava che qualcuno avrebbe potuto rispondere di sì? 
«È ovvio che non sono occupata, se chiami per una cosa del genere» rispose gentilmente, premendosi una mano sugli occhi. «Quindi sei stata tu a trovarlo?» 
«È stato orribile.» La voce di Sanna era bassa e atona. «Sono arrivata in chiesa attorno alle tre di notte. Avrebbe dovuto cenare con me e le bambine, ma non è mai arrivato. Ho pensato semplicemente che se ne fosse dimenticato. Sai com’è quando prega da solo in chiesa, si dimentica del tempo e dello spazio. Glielo dico sempre, che si può essere cristiani in quel modo solo quando si è giovani e non si hanno figli. Io devo approfittarne per pregare quando sono al cesso.» 
Rimase un attimo in silenzio e Rebecka si domandò se si fosse resa conto di aver parlato di Viktor al presente. 
«Ma poi mi sono svegliata nel bel mezzo della notte» riprese Sanna. «E ho sentito che era successo qualcosa.» 
Si interruppe e iniziò a canticchiare un inno. Dio che ti prendi cura dei passeri del cielo. 
Rebecka fissò il testo sfarfallante sullo schermo che aveva davanti. Ma le lettere si staccavano dalle frasi e si raggruppavano a formare l’immagine del viso d’angelo di Viktor Strandgård coperto di sangue. 
Sanna riprese a parlare. La sua voce era sottile come il ghiaccio di settembre. Rebecka la conosceva bene. Sapeva che l’acqua gelida e scura turbinava appena sotto la superficie. 
«Gli hanno tagliato le mani. E aveva gli occhi... Ah, era tutto così strano. Quando l’ho voltato aveva la testa completamente... Credo di stare per impazzire. E la polizia mi sta cercando. Sono venuti a casa mia questa mattina presto, ma ho detto alle bambine di stare zitte e non abbiamo aperto. Crederanno di sicuro che sia stata io a uccidere mio fratello. Poi ho preso le bambine e me ne sono andata. Ho paura di crollare. Ma non è questa la cosa peggiore.» 
«No?» chiese Rebecka. 
«Sara era con me quando l’ho trovato. Anche Lova, ma dormiva nel passeggino fuori dalla chiesa. Sara è sotto shock. Non parla. Non fa altro che restare seduta a guardare fuori dalla finestra e a sistemarsi i capelli dietro le orecchie.» 
Rebecka sentì un nodo allo stomaco. 
«Per l’amor di Dio, Sanna, chiedi aiuto a qualcuno. Telefona all’ambulatorio psichiatrico e chiedi di vedere qualcuno urgentemente. Sia tu che le bambine avete bisogno di aiuto in questo momento. So che suona drammatico, ma...» 
«Non posso, lo sai» piagnucolò Sanna. «Mamma e papà diranno che sono impazzita e cercheranno di portarmi via le bambine. Sai come sono fatti. E la congregazione è contraria agli psicologi, agli ospedali e a tutte queste cose. Non capirebbero mai. Non ho il coraggio di andare alla polizia, non farebbero che peggiorare le cose. E non ho il coraggio di rispondere al telefono perché potrebbe essere qualche giornalista, è stato già abbastanza pesante all’inizio del risveglio, con tutta la gente che chiamava per dire che aveva solo avuto le allucinazioni e che era uscito di testa.» 
«Ma capisci anche tu che non puoi continuare a nasconderti» implorò Rebecka. 
«Non ce la faccio, non ce la faccio» ripeté Sanna come fra sé. «Scusa se ti ho chiamata, Rebecka. Ora ti lascio tornare al tuo lavoro.» 
Rebecka imprecò fra sé. Merda, merda, merda. 
«Arrivo» sospirò. «Devi farti interrogare dalla polizia. Vengo su e ti faccio compagnia, d’accordo?» 
«D’accordo» bisbigliò Sanna. 
«Ce la fai a guidare? Puoi andare a casa della nonna a Kurravaara?» 
«Posso chiedere a un amico di darmi un passaggio.» 
«Bene. Non c’è mai nessuno lì, in inverno. Porta con te Sara e Lova. Sai dov’è la chiave. Accendi la stufa. Io arriverò nel pomeriggio. Ce la fai fino ad allora?» 

Rebecka restò a fissare il telefono dopo aver riattaccato. Si sentiva svuotata e confusa. 
«È incredibile» disse rassegnata a Maria Taube. «Non ha nemmeno avuto bisogno di chiedermelo.» 
Rebecka guardò l’orologio. Poi chiuse gli occhi, inspirò dal naso raddrizzando la testa ed espirò dalla bocca abbassando le spalle. Maria glielo aveva visto fare spesso. Prima dei processi e delle riunioni importanti. O quando restava in ufficio a lavorare fino a tarda notte per una scadenza imminente. 
«Come va?» chiese Maria. 
«Meglio non chiedermelo.» 
Rebecka scosse la testa e guardò fuori dalla finestra per non incrociare lo sguardo preoccupato di Maria. Si morse forte le labbra. Aveva smesso di piovere. 
«Non dovresti essere sempre così tremendamente efficiente» le disse Maria con dolcezza. «A volte fa bene mollare la presa e mettersi a gridare.» 
Rebecka intrecciò le mani sulle ginocchia. 
Mollare la presa, pensò. Cosa succede se poi si scopre che non si finisce più di cadere? O se non si riesce a smettere di gridare? All’improvviso ci si ritrova a cinquant’anni. Imbottiti di tranquillanti, chiusi in qualche manicomio. E con un grido che non si spegne mai nella testa. 
«Era la sorella di Viktor Strandgård» disse, stupita lei stessa di quanto la sua voce suonasse composta. «Pare che lo abbia trovato lei, in chiesa. Ho l’impressione che lei e le sue due figlie abbiano bisogno di aiuto in questo momento, perciò mi prendo qualche giorno di ferie e le raggiungo. Porto con me il computer e lavoro da là.» 
«Questo Viktor Strandgård era una vera celebrità lassù, no?» 
Rebecka annuì. 
«Aveva avuto un’esperienza di morte temporanea e da allora a Kiruna c’è stato un vero e proprio boom religioso.» 
«Me lo ricordo» disse Maria. «Ne avevano parlato i giornali. Era stato in Paradiso e aveva raccontato per esempio che cadendo non ti facevi male, perché il terreno ti accoglieva come in un abbraccio. A me sembrava fantastico.» 
«Bah» proseguì Rebecka. «E poi è tornato sulla terra per raccontare che Dio aveva grandi progetti per la cristianità a Kiruna. Un grande risveglio venuto dal nord si sarebbe diffuso in tutto il mondo. Se le comunità si fossero unite e avessero creduto, sarebbero avvenuti miracoli e prodigi.» 
«Creduto in cosa?» 
«Nella forza di Dio. Nella visione. È andata a finire che quelli che hanno creduto alla sua storia si sono riuniti in una nuova congregazione, la Fonte della Forza. E la rossa Kiruna si è trasformata in un centro del risveglio. Poi Viktor ha scritto un libro che è stato tradotto in un sacco di lingue. Ha abbandonato gli studi e si è messo a predicare. La congregazione ha costruito una nuova chiesa, la chiesa di Cristallo, che avrebbe dovuto ricordare le sculture di ghiaccio che si realizzano tutti gli anni a Jukkasjärvi. E soprattutto non avrebbe dovuto ricordare la vecchia chiesa di Kiruna, che era terribilmente buia.» 
«E tu cosa c’entri con questa storia?» 
«Facevo parte della Chiesa della Missione già prima dell’incidente di Viktor. Perciò ero lì quando tutto è iniziato.» 
«E adesso?» chiese Maria. 
«Adesso sono atea» disse Rebecka con un sorriso triste. «Sono stata invitata dai pastori e dagli anziani a lasciare la comunità.» 
«Perché?» 
«È una lunga storia, e non è rilevante in questo momento.» 
«D’accordo» acconsentì Maria con qualche esitazione. «Cosa credi che dirà Måns, quando gli chiederai ferie con così poco preavviso?» 
«Niente. Si limiterà a uccidermi, smembrarmi e darmi in pasto ai pesci di Nybroviken. Gli parlerò appena arriva, ma prima devo chiamare la polizia di Kiruna perché non mettano dentro Sanna. Non reggerebbe.» 
 Il pm Carl von Post osservava le persone intente a impacchettare il corpo di Viktor Strandgård dalla porta della chiesa di Cristallo. Il medico legale, Lars Pohjanen, borbottava con una sigaretta tra i denti i suoi ordini all’assistente di laboratorio Anna Granlund e ai due inservienti grandi e grossi che reggevano la barella. 
«Cercate di raccogliergli i capelli in modo che non finiscano nella cerniera. Avvolgetegli il telo plastificato tutt’intorno, e fate attenzione quando lo sollevate, in modo da non far uscire l’intestino. Anna, procurati un sacchetto per la mano.» 
Un omicidio, pensò von Post. E coi fiocchi. Non la solita triste storia di un alcolizzato che uccide più o meno per sbaglio la compagna di sbronze. Un omicidio raccapricciante. Meglio ancora. Il raccapricciante omicidio di una celebrità. 
Ed era tutto suo. Bastava mettersi al timone, lasciare che il mondo accendesse i riflettori e far rotta verso la notorietà. E poi finalmente avrebbe potuto andarsene da quel buco di città. Non aveva mai avuto intenzione di restarci. Ma alla fine degli studi, il suo voto di laurea era appena sufficiente per un praticantato al tribunale di Gällivare. Poi aveva trovato un lavoro alla procura. Aveva fatto domanda per un’infinità di posti a Stoccolma, ma non ne aveva ottenuto nessuno. E senza che se ne accorgesse erano passati gli anni. 
Si fece di lato per lasciar passare i tizi che portavano fuori la barella con il corpo ben sigillato nel sacco di plastica grigia. Il medico legale li seguiva trascinando i piedi, con le spalle strette come se avesse freddo e lo sguardo a terra. La sigaretta gli pendeva ancora all’angolo della bocca. I capelli, di solito accuratamente pettinati a nascondere il cranio calvo, gli pendevano stancamente sulle orecchie. Dietro di lui c’era Anna Granlund, con un sacchetto di carta contenente la mano di Viktor Strandgård. Strinse le labbra quando incrociò lo sguardo di von Post. 
«Allora?» disse il pm in tono inquisitorio, fermandoli mentre uscivano. 
Pohjanen sembrò non capire. 
«Cosa mi puoi dire?» chiese von Post con impazienza. 
Pohjanen prese la sigaretta tra pollice e indice e tirò una profonda boccata prima di allontanarla dalle labbra sottili. 
«Be’, non ho ancora fatto l’autopsia» rispose con calma. 
Carl von Post sentì accelerare il battito cardiaco. Non aveva intenzione di tollerare alcuna forma di ostruzionismo. 
«Ma saprai dirmi qualcosa già da ora, no? Voglio essere tenuto costantemente informato.» 
Schioccò le dita come per illustrare la velocità con cui dovevano essergli trasmesse le informazioni. 
Anna Granlund gli guardò la mano, pensando a quando schioccava le dita ai suoi cani. 
Pohjanen osservò il pavimento in silenzio. Il suo respiro rumoroso, un po’ troppo veloce, si interruppe solo quando riportò la sigaretta alle labbra e aspirò con concentrazione. Carl von Post incrociò lo sguardo ostile di Anna Granlund. 
Cos’hai da guardare, pensò tra sé. Un anno fa, alla festa di Natale della polizia, mi guardavi in tutt’altro modo. Santo dio, era circondato da storpi e idioti. Pohjanen aveva un aspetto ancora peggiore che prima dell’operazione. 
«Allora!» ripeté incalzante quando ritenne che il medico legale fosse rimasto in silenzio abbastanza a lungo. 
Lars Pohjanen alzò lo sguardo sulle sopracciglia sollevate del pm. 
«Per il momento» disse con la sua voce roca che era poco più di un bisbiglio, «tutto quello che ti posso dire è che è morto e che verosimilmente il decesso è avvenuto per cause violente. È tutto, ora puoi farci passare.» 
Il pm vide Anna Granlund abbassare gli angoli della bocca nel tentativo di soffocare un sorriso. 
«E quando avrò il referto dell’autopsia?» sibilò von Post seguendoli all’esterno. 
«Quando sarà pronto» rispose Pohjanen lasciando che la porta della chiesa si chiudesse in faccia al pm. 

Von Post alzò la mano destra per fermare la porta della chiesa che si chiudeva, mentre con la sinistra si frugava in tasca in cerca del cellulare che aveva iniziato a vibrare. 
Era la centralinista della centrale di polizia. 
«Ho in linea una certa Rebecka Martinsson che dice di sapere dove si trova la sorella di Viktor Strandgård e di volerle fissare un appuntamento per un interrogatorio. Tommy Rantakyrö e Fred Olsson sono appena usciti a cercarla, perciò non sapevo se passare la chiamata a lei o a loro.» 
«Hai fatto bene, passamela.» 
Mentre aspettava che gli trasferisse la chiamata, von Post fece scorrere lo sguardo lungo la navata della chiesa. Era chiaro che l’architetto voleva ottenere un effetto ben preciso con il lungo tappeto rosso che correva lungo la navata centrale fino all’altare. Da entrambi i lati erano allineate file di sedie blu con gli schienali dal profilo ondulato. Il pensiero andava immediatamente al racconto biblico del mar Rosso che si apriva davanti a Mosè. Iniziò a passeggiare avanti e indietro lungo la navata. 
«Pronto» disse una voce di donna al telefono. 
Von Post rispose dicendo il suo nome e il suo titolo, e la donna proseguì. 
«Mi chiamo Rebecka Martinsson. Chiamo per conto di Sanna Strandgård. So che volete parlare con lei riguardo all’omicidio.» 


«Sì, mi hanno detto che puoi dirci dove possiamo trovarla.» 
«No, non è esattamente così» rispose la voce cortese e quasi eccessivamente ben modulata. «Dato che Sanna Strandgård vuole che le tenga compagnia durante l’interrogatorio e che al momento mi trovo a Stoccolma, pensavo di chiedere alla persona a capo delle indagini se possiamo passare dalla centrale questa sera o se è meglio domani mattina.» 
«No.» 
«Mi scusi?» 
«No» ripeté von Post senza curarsi di nascondere la sua irritazione. «Non va bene questa sera e non va bene domani mattina. Non so se lo hai capito, Rebecka come-ti-chiami, ma è in corso un’indagine per omicidio e voglio parlare con Sanna Strandgård adesso. Se fossi in te, consiglierei alla tua amica di non nascondersi, perché sono pronto a emettere immediatamente un mandato di cattura. Quanto a te, esiste un reato chiamato favoreggiamento. Si può finire in galera. Perciò, ora voglio che tu mi dica dove si trova Sanna Strandgård.» 
All’altro capo del filo ci furono alcuni secondi di silenzio. Poi la voce di donna riprese a parlare molto lentamente, facendo un evidente sforzo per controllarsi. 
«Temo che ci sia stato un equivoco. Non ho chiamato per chiederle il permesso di presentarmi più tardi insieme a Sanna Strandgård, ma per informarla che ha intenzione di farsi interrogare dalla polizia e che questo non può accadere prima di questa sera. Io e Sanna Strandgård non siamo amiche. Sono un avvocato dello studio Meijer & Ditzinger, se il nome vi dice qualcosa da quelle parti...» 
«Guarda che sono nato...» 
«E se fossi in lei eviterei le minacce» lo interruppe la donna. «Cercare di costringermi a rivelare dove si trova Sanna Strandgård rasenta la scorrettezza professionale, e se la ricercate senza che sia formalmente accusata di omicidio, e solo perché aspetta il suo legale prima di presentarsi per l’interrogatorio, vi garantisco che questo comporterà una denuncia al difensore civico.» 
Prima che von Post facesse in tempo a rispondere, Rebecka Martinsson proseguì in tono improvvisamente amichevole. 
«In realtà lo studio Meijer & Ditzinger non ha nessuna intenzione di crearvi problemi. In genere andiamo molto d’accordo con la procura. Almeno questa è la nostra esperienza nel distretto di Stoccolma. Spero che mi possa garantire che Sanna Strandgård verrà interrogata come d’accordo. Diciamo questa sera alle otto alla stazione di polizia.» 
Poi chiuse la conversazione. 
«Cazzo» esclamò Carl von Post quando si accorse di aver messo i piedi in una pozza di sangue e di un’altra sostanza appiccicosa che non voleva nemmeno sapere cosa fosse. 
Strofinò disgustato le scarpe sul tappeto dirigendosi verso l’uscita. Di quella ragazzetta boriosa si sarebbe occupato più tardi, quando sarebbe arrivata. Ma ora doveva prepararsi per la conferenza stampa. Si passò una mano sul viso. Doveva radersi. Fra tre giorni si sarebbe presentato alla stampa con la barba un po’ più lunga per avere l’aspetto dell’uomo provato che dà il massimo per catturare un assassino. Ma oggi doveva apparire ben rasato e leggermente spettinato. Avrebbe fatto furore. 
 L’avvocato Måns Wenngren, socio dello studio Meijer & Ditzinger, guardava Rebecka Martinsson da dietro la sua scrivania. Già la sua postura lo irritava. Non aveva assunto una posizione difensiva con le braccia conserte. Le teneva invece tranquillamente lungo i fianchi, come se stesse ordinando un gelato. Aveva detto quello che doveva dire e aspettava una risposta. Il suo sguardo riposava inespressivo sulla xilografia erotica giapponese appesa alla parete. Un giovane con i capelli lunghi inginocchiato di fronte a una prostituta, entrambi con il sesso scoperto. Le altre donne in genere evitavano di fissare quella stampa, ormai quasi bicentenaria. Måns Wenngren vedeva spesso i loro sguardi esplorare il quadro come cani curiosi. Ma non si soffermavano mai a lungo. Si abbassavano immediatamente o si fissavano su qualche altro punto della stanza. 
«Quanti giorni sarai assente?» le chiese. «Hai diritto a due giorni di permesso retribuito per motivi familiari, ti bastano?» 
«No» rispose Rebecka Martinsson. «E non si tratta della mia famiglia, anche se sono per così dire un’amica di famiglia.» 
Qualcosa nel suo modo di parlare diede a Måns Wenngren l’impressione che mentisse. 
«Purtroppo non posso sapere con certezza quanto tempo starò via» proseguì Rebecka guardandolo negli occhi. «Ho ancora parecchie ferie arretrate e...» 
Si interruppe. 
«E cosa?» concluse il suo capo. «Spero che non ti metterai a parlare di straordinari, Rebecka, perché mi deluderesti molto. L’ho già detto e lo ripeto, se voi assistenti non riuscite a svolgere i vostri incarichi nel normale orario lavorativo, non avete che da rinunciare a qualche incarico. Gli straordinari sono volontari e non retribuiti. Altrimenti potrei anche lasciarti sparire per un anno in permesso retribuito.» 
Aveva pronunciato l’ultima frase con una risatina conciliatoria, ma quando vide che Rebecka non accennava nemmeno un sorriso in risposta, riprese bruscamente la sua espressione critica. 
Rebecka osservò il suo capo in silenzio prima di rispondere. Aveva iniziato a leggiucchiare distrattamente alcune carte che aveva di fronte, per farle capire che il tempo a sua disposizione era scaduto. La posta del giorno era posata in una pila ordinata sulla scrivania, lungo il cui bordo erano allineati in parata alcuni oggetti dell’argentiere Georg Jensen. Niente foto. Sapeva che era stato sposato e che aveva due figli adulti. Tutto qui. Non li nominava mai. Nessun altro parlava mai di loro. In ufficio le cose si venivano a sapere lentamente. Ai soci e agli avvocati più anziani sicuramente piaceva spettegolare, ma erano abbastanza accorti da farlo tra di loro, non con i colleghi più giovani. Le segretarie erano decisamente troppo intimidite per tradire qualche segreto. Ma ogni tanto qualcuno si ubriacava a una festa e si lasciava sfuggire qualcosa, e a poco a poco si entrava a far parte del circolo degli iniziati. Sapeva che Måns beveva troppo, ma questo lo capiva chiunque lo incontrasse per strada. Con i ricci scuri e gli occhi azzurro ghiaccio, era ancora un bell’uomo. Anche se iniziava a essere un po’ sciupato, con le sue perenni borse sotto gli occhi e qualche chilo di troppo. Era ancora uno dei migliori tributaristi del paese. Sia per le cause penali che per quelle civili. E finché faceva guadagnare soldi allo studio poteva bere in pace, per quanto riguardava i suoi colleghi. Erano i soldi che contavano. Convincerlo a smettere di bere probabilmente sarebbe costato caro allo studio. Case di cura e periodi di malattia costavano fior di quattrini, soprattutto in termini di mancati introiti. Come per molti altri, la prima a rimetterci era stata la sua vita privata. 
Rebecka provava ancora una fitta di umiliazione quando ripensava alla festa di Natale dell’anno prima. Quella sera Måns aveva corteggiato tutte le altre colleghe di sesso femminile. Verso la fine della serata era arrivato anche il suo turno. Stropicciato, ubriaco e traboccante di autocommiserazione, le aveva messo una mano sulla nuca e le aveva tenuto un discorso sconclusionato sfociato in un patetico tentativo di portarsela a casa, o forse anche solo in ufficio, cosa ne sapeva. Da quel momento, a ogni modo, aveva capito cosa rappresentava agli occhi di lui. L’ultima spiaggia. Quella a cui si dà una botta dopo averci provato con tutte le altre, quando ormai si è al limite dell’incoscienza. Da quella volta i rapporti tra loro erano diventati freddi. Con lei non rideva e non parlava mai in modo rilassato come con le altre. Quanto a lei, comunicava con lui soprattutto via mail o per mezzo di biglietti che lasciava sulla sua scrivania quando lui non era in ufficio. Quell’anno non era andata alla festa di Natale. 
«Allora diciamo che prendo qualche giorno di ferie» disse senza l’ombra di un sorriso. «Porto con me il computer, così potrò andare avanti con il lavoro.» 
«D’accordo, per me fa lo stesso» rispose Måns in tono evidentemente infastidito. «Toccherà ai tuoi colleghi sopportare un carico di lavoro maggiore. Affiderò la Wickman AB a qualcun altro.» 
Rebecka si costrinse a non stringere i pugni. La stava punendo. La Wickman AB era un suo cliente. Era stata lei ad abbordarli e a costruire un buon rapporto. Ed erano contenti di lei. 
«Come preferisci» rispose scrollando impercettibilmente le spalle e abbassando lo sguardo sui bordi sfrangiati del tappeto Keshan. «Puoi contattarmi via mail, se ci fosse qualche problema.» 
Måns Wenngren provò l’impulso di avvicinarsi, prenderla per i capelli, piegarle il collo all’indietro e costringerla a guardarlo negli occhi. O anche soltanto di schiaffeggiarla. 
Rebecka si voltò per uscire. 
«E come ci arrivi fin lassù?» le chiese prima che facesse in tempo ad andarsene. «Ci sono degli aerei o bisogna aggregarsi a una carovana di renne?» 
«Ci sono degli aerei» rispose in tono neutro. 
Come se avesse preso la domanda sul serio. 



L’ispettrice di polizia Anna-Maria Mella si appoggiò allo schienale della sedia e osservò svogliatamente i documenti che aveva di fronte. Vecchie storie. Indagini arrivate a un punto morto. Furti d’auto vecchi di anni. Sfogliò il fascicolo più vicino. Violenza domestica, e grave, ma la donna aveva ritrattato le accuse sostenendo di essere caduta dalle scale. 
Doveva essere stato un bel volo, si disse Anna-Maria ripensando alle fotografie che le avevano scattato in ospedale. 
Prese un altro fascicolo. Furto di pneumatici in una ditta della zona industriale. Un testimone aveva visto chi aveva tagliato la recinzione e caricato i pneumatici su una Toyota Hilux, ma in un secondo interrogatorio improvvisamente non ricordava più niente. Evidentemente era stato minacciato. 
Anna-Maria sospirò. Non c’erano soldi per proteggere i testimoni in un misero caso di furto di pneumatici. Inserì nel computer i dati della Toyota e memorizzò il nome del proprietario. Piccoli criminali abituati a prendersi quello che vogliono. C’erano buone probabilità che si imbattesse di nuovo in quell’uomo in qualche altra circostanza. Fece qualche ricerca: condannato per maltrattamenti e possesso illegale di armi. Parecchie iscrizioni nel registro degli indagati. 
Coraggio, si disse. Non puoi continuare ad aprire e richiudere pratiche in questo modo. 
Mise da parte il furto di pneumatici. Non avrebbe portato da nessuna parte. Tanto valeva lasciar perdere. Dalla macchina del caffè di fronte al suo ufficio arrivò il rumore di un bicchiere di plastica che scendeva e si riempiva del suo triste liquido con un sonoro ronzio. Sperò che fosse Sven-Erik e che stesse venendo a darle qualche ragguaglio su Viktor Strandgård. Ma i passi si allontanarono nel corridoio, facendole capire che era qualcun altro. 
Non pensarci, si disse a mezza voce prendendo un altro fascicolo dalla pila. 
Il suo sguardo deviò immediatamente dal foglio che aveva davanti per vagare oziosamente sulla scrivania. Lanciò una mesta occhiata alla tazza di tè ormai freddo. Il solo pensiero del caffè le faceva venire la nausea. Ma d’altra parte non era mai stata una grande bevitrice di tè. Lo lasciava sempre lì a raffreddarsi. E la Coca-Cola le dava problemi di aerofagia. 
Quando suonò il telefono, rispose al primo squillo. Pensava che fosse Sven-Erik, ma era Lars Pohjanen, il medico legale. 
«Ho pronto il referto preliminare» disse con la sua voce rauca da caffettiera. «Vuoi venire a prenderlo?» 
«Se ne sta occupando Sven-Erik» rispose esitante. «E von Post.» 
Il tono di Pohjanen diventò brusco. 
«Be’, non ho intenzione di cercare Sven-Erik per tutta la città e il signor pm può leggersi il rapporto. Allora faccio le valigie e me ne torno a Luleå.» 
«No, aspetta. Vengo subito» disse Anna-Maria mentre all’altro capo del filo la conversazione veniva chiusa. 
Speriamo che abbia sentito l’ultima frase, pensò infilandosi gli stivali. Probabilmente ora che arrivo all’ospedale se ne sarà già andato. 

Trovò Lars Pohjanen nella sala fumatori del personale di guardia dell’ospedale. Era accasciato su un divano verde anni settanta. Aveva gli occhi chiusi e l’unico segno che era sveglio, o almeno vivo, era la sigaretta accesa che aveva in mano. 
«Bene» disse senza aprire gli occhi. «Vedo che la morte di Viktor Strandgård ti sta a cuore. Avrei detto che non era roba per te, Mella.» 
«Dovrò occuparmi di scartoffie fino al momento del parto» rispose restando sulla porta. «Ma è meglio che senta cos’hai da dire, visto che non c’è in giro nessun altro.» 
Il medico scoppiò in una risata gracchiante che si trasformò in un accesso di tosse, aprì gli occhi e la trafisse con il suo sguardo penetrante. 
«Te lo sognerai di notte, Mella. Da’ una mano anche tu a risolvere questa merda o ti ritroverai a interrogare i sospetti con la carrozzina durante il congedo di maternità. Andiamo?» 
Accompagnò le sue parole con un pomposo gesto di invito. 

 La sala autopsie era un locale lindo e ordinato. Pavimento in pietra senza una macchia, tre tavoli da autopsia in acciaio inossidabile, vaschette di plastica rossa sistemate in ordine di grandezza sotto il lavandino, due lavabi che Anna Granlund riforniva regolarmente di salviette immacolate. Il tavolo da dissezione era lavato e asciugato. In una stanza adiacente era in funzione una lavastoviglie. L’unica cosa che ricordava la morte era la lunga fila di contenitori trasparenti in cui frammenti bruni o grigiastri di cervelli e organi interni sotto formalina aspettavano di essere esaminati. E il cadavere di Viktor Strandgård, sdraiato sulla schiena su uno dei tavoli. Un’incisione gli correva lungo la nuca da un orecchio all’altro, e lo scalpo era stato sollevato e ripiegato sulla fronte per esporre la scatola cranica. Due lunghe ferite gli attraversavano il ventre, ricucite da punti approssimativi. Una era il taglio eseguito dai tecnici per esaminare gli organi interni. C’erano anche numerosi tagli più piccoli che Anna-Maria riconobbe al primo sguardo: ferite da coltello. Era pulito, ricucito e lavato, pallido sotto la luce del neon. Quel corpo nudo sul freddo tavolo d’acciaio le faceva impressione. Lei aveva ancora addosso il piumino. 
Lars Pohjanen indossò un camice verde da sala operatoria, infilò i piedi in un paio di logori zoccoli di legno che non portavano quasi più traccia del bianco originario e si mise un paio di sottili guanti di lattice. 
«Come stanno i ragazzi?» le chiese. 
«Jenny e Petter stanno bene. Marcus ha il cuore spezzato e passa gran parte del tempo sdraiato sul letto con le cuffie in testa a cercare di procurarsi un acufene.» 
«Poveretto» commentò Pohjanen con sincera partecipazione voltandosi verso Viktor Strandgård. 
Anna-Maria si domandò se stesse parlando di quest’ultimo o di Marcus. 
«Posso?» chiese tirando fuori il registratore dalla tasca. «Così poi sentono anche gli altri.» 
Pohjanen alzò le spalle in segno di consenso. Anna-Maria accese il registratore. 
«In ordine cronologico» disse il medico legale. «Prima la ferita da corpo contundente nella zona occipitale. Io e te non siamo in grado di voltarlo, ma la puoi vedere da qui.» 
Tirò fuori una tomografia e la sollevò. Anna-Maria la osservò in silenzio, pensando alle immagini in bianco e nero del suo bambino che aveva visto di recente. 
«Vedi la frattura dell’osso occipitale, qui. E qui c’è l’emorragia subdurale.» 
Il dito del medico legale indicò una zona nera. 
«Probabilmente se avesse ricevuto solo il colpo alla testa si sarebbe potuto salvare, ma non è detto» commentò. 
«Il tuo assassino probabilmente è destrimano» proseguì poi. «Bene, dopo la lesione alla testa è stata la volta di queste ferite da taglio all’addome e al petto.» 
«È impossibile fare supposizioni sull’altezza dell’assassino a partire dal colpo alla nuca, e purtroppo nemmeno le coltellate ci dicono qualcosa. Sono state inferte dall’alto verso il basso, e la mia supposizione è che Viktor Strandgård fosse in ginocchio quando è stato colpito. L’alternativa è che il tuo assassino sia un gigante, tipo giocatore di basket americano. Ma probabilmente è andata così: prima Strandgård ha ricevuto il colpo alla nuca. Bang.» 
Il medico legale si diede una manata sulla testa calva per illustrare il colpo. 
«La botta lo fa cadere in ginocchio - non ci sono escoriazioni o lividi sulle ginocchia, ma il tappeto era piuttosto morbido - e poi l’assassino lo colpisce due volte con un coltello. Perciò i colpi risultano inferti dall’alto. Difficile dire qualcosa sull’altezza dell’assassino, dunque.» 
«Quindi è morto per il colpo e le due coltellate?» chiese Anna-Maria. 
«Sì» proseguì Pohjanen soffocando un colpo di tosse. «La ferita al petto attraversa la parete della gabbia toracica, taglia la settima costola sinistra, perfora il pericardio e il ventricolo sinistro. Nell’altra ferita il coltello ha trapassato il fegato provocando un’emorragia nella cavità addominale.» 
«È morto subito?» 
Pohjanen alzò le spalle. 
«E le altre ferite?» chiese Anna-Maria. 
«Sono state inferte post mortem. Tutte. I colpi sono stati assestati da davanti, con violenza. Immagino che Viktor Strandgård fosse sdraiato sulla schiena. C’è anche questo lungo taglio che gli ha aperto il ventre.» 
Indicò la lunga ferita violacea sull’addome, tenuta chiusa da punti irregolari. 
«E gli occhi?» chiese Anna-Maria osservando le orbite cieche di Viktor Strandgård. 
«Guarda» disse Pohjanen sollevando una lastra. «Qui! Vedi questa scheggia che si è staccata proprio in corrispondenza della cavità orbitale? E qui! All’inizio non l’avevo visto, ma poi ho ripulito le orbite e ho osservato la scatola cranica. Le raschiature sul bordo dell’orbita. L’assassino gli ha infilato il coltello negli occhi e l’ha ruotato.» 
«Cosa diavolo voleva ottenere?» si lasciò sfuggire Anna-Maria con emozione. «E le mani?» 
«Anche quelle sono state recise post mortem. Una è stata ritrovata sul posto.» 
«Impronte digitali?» 
«Forse sui moncherini delle braccia, ma dovranno dircelo da Linköping. Anche se non ci spererei troppo. Ci sono un paio di segni di pressione attorno ai polsi, ma a quanto ho potuto vedere non ci sono impronte. Credo che diranno che chi gli ha tagliato le mani indossava i guanti.» 
Anna-Maria iniziava a sentirsi scoraggiata. Le era venuta una gran voglia di mettere le mani sull’assassino. Si rendeva conto che non avrebbe potuto sopportare che il caso venisse archiviato senza risultato. Pohjanen aveva ragione. Probabilmente si sarebbe sognata Viktor Strandgård. 
«Che tipo di coltello è stato usato?» chiese. 
«Un grosso coltello da caccia. Troppo largo per essere un coltello da cucina. Non a doppio taglio.» 
«E il corpo contundente?» 
«Potrebbe essere qualsiasi cosa» disse Pohjanen. «Una pala, una grossa pietra...» 
«Non è strano che sia stato colpito alle spalle e poi accoltellato da davanti?» chiese Anna-Maria. 
«Sì, ma sei tu la poliziotta.» 
«Forse erano più di uno» rifletté ad alta voce Anna-Maria. «C’è qualcos’altro?» 
«Non per il momento. Niente droghe. Niente alcol. E non mangiava da parecchi giorni.» 
«Cosa? Parecchi giorni?» 
Lei era costretta a mangiare praticamente un’ora sì e una no. 
«Non era disidratato, perciò non si tratta di problemi allo stomaco o anoressia. Ma si direbbe che avesse assunto soltanto liquidi. Il laboratorio ti saprà dire qualcosa di più. Puoi spegnere il registratore.» 
Le porse una copia del referto preliminare. Anna-Maria spense il registratore. 
«Non mi piace tirare a indovinare» disse Pohjanen schiarendosi la gola. «Soprattutto quando viene documentato.» 
Fece un cenno del capo verso il registratore che sparì nella tasca di Anna-Maria. 
«Ma i tagli sui polsi erano molto netti» proseguì. «Forse state cercando un cacciatore, Mella.» 
«Ah, sei qui» si sentì una voce dalla porta.  
Era Sven-Erik Stålnacke. 
«Sì» rispose Anna-Maria, imbarazzata per timore che il collega pensasse che stesse cercando di fargli le scarpe. «Pohjanen ha chiamato dicendo che se ne stava andando e...» 
Tacque, irritata per essersi messa a dare spiegazioni e a scusarsi. 
«Va bene, va bene» disse Sven-Erik allegramente. «Me lo racconterai in macchina. Abbiamo qualche problema con i pastori della congregazione. Accidenti, quanto ti ho cercata. Alla fine ho chiesto a Sonja del centralino chi ti aveva chiamato. Andiamo.» 
Anna-Maria lanciò a Pohjanen un’occhiata interrogativa e lui alzò le spalle e sollevò un sopracciglio per dire che avevano finito. 
«Il Färjestad ha dato una bella lezione al Luleå» fu il saluto di Sven-Erik al medico legale, accompagnato da un sogghigno. 
«Come se ci fosse bisogno di ricordarmelo» sospirò Lars Pohjanen frugandosi in tasca in cerca del pacchetto di sigarette. 

  
L’aereo per Kiruna era quasi pieno. Frotte di turisti che avrebbero guidato slitte trainate da cani e dormito su pelli di renna nell’albergo di ghiaccio di Jukkasjärvi, stretti gomito a gomito con sgualciti uomini d’affari di ritorno a casa con il giornale in mano. 
Rebecka si sedette al suo posto e allacciò la cintura. Il brusio delle voci, il trillo sintetico delle scritte che si accendevano e si spegnevano e il ronzio dei motori la fecero cadere in un sonno irrequieto. Dormì tutto il viaggio. 
Nel sogno corre in una distesa di more artiche. È una calda giornata d’agosto. Il calore del sole fa evaporare l’umidità del muschio. Un misto di sudore e lozione antizanzare le cola negli occhi. Brucia. Le lacrimano gli occhi. Una nuvola nera di moscerini le si infila nel naso e nelle orecchie. Non vede niente. C’è qualcuno che la insegue. Da vicino. E come sempre nei suoi sogni, le gambe non la reggono. Non hanno forza e il terreno è acquitrinoso. I piedi le sprofondano sempre di più nello spesso strato di licheni e qualcuno, o qualcosa, le dà la caccia. Ora non riesce più a sollevare i piedi. Sprofonda nell’acquitrino. Cerca di chiamare la mamma, ma dalla gola le esce solo un fioco pigolio. Poi sente una mano che le si posa sulla spalla. 
«Scusi, l’ho spaventata?» 
Rebecka aprì gli occhi e vide una hostess china su di lei, che le rivolse un sorriso incerto e le tolse la mano dalla spalla. 
«Stiamo per atterrare a Kiruna, dovrebbe raddrizzare il sedile.» 
Rebecka si portò una mano alla bocca. Aveva sbavato nel sonno? O peggio ancora, gridato? Non osando nemmeno guardare il suo vicino di posto, fissò l’oscurità fuori dal finestrino. Eccola laggiù. La città. Brillava con le sue luci in mezzo al buio delle montagne come un gioiello scintillante in fondo a un pozzo. Le si strinsero il cuore e lo stomaco. 
La mia città, pensò con un misto di malinconia, gioia, rabbia e paura. 

Venti minuti più tardi era alla guida di una Audi a noleggio, diretta a Kurravaara. Il villaggio era a quindici chilometri da Kiruna. Da bambina ci andava spesso in slitta. Era un ricordo felice. Soprattutto nel periodo tra l’inverno e la primavera, quando la strada era coperta di un bel ghiaccio spesso e lucido, che nessuno aveva rovinato con sabbia, sale o ghiaia. 
La luna illuminava il bosco vestito di neve. Ai lati della strada si alzavano due alte barriere di neve ghiacciata. 
Non è giusto, pensò, non avrei dovuto permettergli di portarmi via tutto questo. Che cavolo, prima di tornare a Stoccolma farò un giro in slitta. 
A che punto avrei dovuto comportarmi diversamente?, si domandò mentre l’auto filava in mezzo al bosco. Se potessi tornare indietro, sarei costretta ad arrivare fino a quella prima estate? O ancora più indietro? Forse a quella primavera. Quando ho incontrato Thomas Söderberg per la prima volta. Quando è venuto a parlare alla mia classe al liceo Hjalmar Lundbohm. Già allora avrei dovuto comportarmi diversamente. Avrei dovuto capire che tipo era. Non essere così dannatamente ingenua. I miei compagni di classe dovevano essere molto più furbi di me. Altrimenti perché non aveva conquistato anche loro? 
«Salve a tutti, vorrei presentarvi Thomas Söderberg. È il nuovo pastore della Chiesa della Missione. L’ho invitato come rappresentante delle chiese non conformiste.» 
È Margareta Fransson che parla. L’insegnante di religione.  
Sorride sempre, pensa Rebecka, perché lo fa? Non è un sorriso allegro, piuttosto sottomesso e propiziatorio. E poi compra tutti i suoi vestiti da Una mano tesa, un negozio di commercio equo e solidale che vende prodotti di cooperative femminili del Terzo Mondo. 
«Avete già incontrato Evert Aronsson, pastore della Chiesa di Svezia, e Andreas Gault, parroco della Chiesa cattolica» prosegue Margareta Fransson. 
«Credo che dovremmo incontrare anche un buddhista o un musulmano o qualcosa del genere» dice Nina Eriksson. «Perché invita solo i cristiani?» 
Nina Eriksson è la portavoce della classe. Le sue parole risuonano alte e forti nell’aula, sostenute da borbottii di incoraggiamento. 
«L’offerta a Kiruna non è particolarmente ampia» si giustifica mestamente Margareta Fransson. 
Poi lascia la parola a Thomas Söderberg. 
È bello, non c’è niente da fare. Capelli scuri e ricciuti e lunghe ciglia nere. Ride e scherza, ma a tratti diventa molto serio. È giovane per essere un pastore. E indossa un paio di jeans e una camicia. Disegna un ponte sulla lavagna. Parla di Gesù che ha dato la vita per loro. E ha costruito un ponte verso Dio. Perché Dio amava tanto il mondo da rinunciare al suo unico figlio. Dà del tu alla classe, anche se sta parlando a ventiquattro persone allo stesso tempo. Vuole che scelgano la vita. Che dicano sì. E ha una risposta a tutte le domande che la classe gli rivolge alla fine. Alcune lo fanno restare un attimo in silenzio. Aggrotta la fronte e annuisce pensosamente. Come se fosse la prima volta che glielo chiedono. Come se gli avessero dato qualcosa su cui riflettere. Molto più tardi Rebecka scoprirà che non era affatto la prima volta che gli rivolgevano quelle domande. Che la risposta era pronta da tempo. Ma chi fa le domande deve sentirsi speciale. 
Conclude la lezione invitandoli a un campo estivo della Chiesa della Missione a Gällivare. Tre settimane di lavoro e studio della Bibbia, senza paga ma con vitto e alloggio gratuiti. 
«Abbi il coraggio di essere curioso» li incoraggia. «Non puoi sapere che la fede cristiana non è roba per te prima di avere scoperto cosa significa davvero.» 
Rebecka ha l’impressione che guardi lei mentre parla. Lei ricambia risolutamente lo sguardo. E sente un fuoco. 

Lo spazzaneve era arrivato fino all’edificio grigio di eternit della casa della nonna. La luce al piano superiore era accesa. Rebecka prese la valigia e la borsa del Konsum. Si era fermata a fare la spesa per strada. Forse non ce n’era bisogno, ma non si sapeva mai. Chiuse la macchina. 
Ecco cosa sono diventata, si disse. Una che chiude a chiave la macchina. 
«Ehi» gridò una volta entrata. 
Non ottenne risposta, ma probabilmente Sanna e le bambine avevano chiuso la porta che dava sulle scale e non l’avevano sentita. 
Posò quello che aveva in mano e fece un giro al piano terra senza accendere le luci. C’era odore di casa vecchia. Linoleum e umidità. Aria stantia. I mobili erano ammassati lungo le pareti come vecchi fantasmi stanchi, coperti dai lenzuoli ricamati a mano della nonna. 
Salì cautamente la scala, attenta a non cadere perché la neve sotto le suole le rendeva scivolose. 
«Ehi» gridò di nuovo, sempre senza ottenere risposta. 
Rebecka aprì la porta dell’appartamento al piano superiore ed entrò nell’ingresso angusto e buio. Quando si chinò per abbassare la cerniera degli stivali, qualcosa di nero si lanciò verso il suo viso. Gridò e cadde all’indietro. Due allegri latrati e la forma scura si trasformò in una testa di cane. Una lingua rosa ne approfittò per ispezionarle la faccia. Altri due latrati di incoraggiamento, poi il cane la leccò di nuovo. 
«Tjapp, vieni qui!» 
Una bambina di circa quattro anni apparve sulla porta. Il cane fece una piroetta sulla pancia di Rebecka, corse dalla bambina, leccò anche lei e tornò scodinzolando sui suoi passi. Ma ormai Rebecka aveva fatto in tempo a rialzarsi. Il cane si consolò infilando il naso nella borsa della spesa.
 «Tu devi essere Lova» disse Rebecka accendendo la luce dell’ingresso e allontanando il cane dalla spesa con un piede. 
La piccola era avvolta in una coperta e Rebecka si rese conto all’improvviso che la casa era fredda. 
«Chi sei?» chiese Lova. 
«Mi chiamo Rebecka» rispose. «Andiamo in cucina.» 
Arrivata sulla soglia si fermò a osservare la scena in preda a un muto stupore. Le sedie erano rovesciate. I pezzotti della nonna ammonticchiati sotto il tavolo. Tjapp corse verso un mucchio di lenzuola che probabilmente avevano coperto i mobili della stanza. Le afferrò tra i denti e le scosse ringhiando giocosamente. C’era un forte odore di Aiax e di sapone. Guardando meglio, Rebecka si accorse che il pavimento era imbrattato di detersivo. 
«Cosa diavolo è successo?» esclamò. «Dove sono tua madre e tua sorella?» 
«Mi sono lavata» ammise Lova. «E anche Tjapp.» 
Dalla coperta in cui era avvolta uscì una manina che si mise a giocherellare con uno dei bottoni luccicanti del cappotto di Rebecka. La donna spostò la mano, irritata. 
«Dove sono tua madre e tua sorella?» ripeté. 
Lova indicò il divano letto incassato in una nicchia. C’era seduta una ragazzina di circa undici anni, con indosso un lungo montone grigio, forse di Sanna. Alzò gli occhi sottili da una rivista, con le labbra strette. Rebecka sentì un tuffo al cuore. 
Sara, pensò. Com’era diventata grande. E come assomigliava a Sanna. Gli stessi capelli biondi, anche se i suoi erano lisci come quelli di Viktor. 
«Ciao» disse Rebecka. «Cos’ha combinato tua sorella? Dov’è Sanna?» 
Sara alzò le spalle per indicare che non era compito suo badare alla sorellina. 
«Mamma si è arrabbiata» disse Lova tirando Rebecka per la manica del cappotto. «È nella bolla. È lì dentro.» 
Indicò la porta della camera da letto.  
«Chi sei?» chiese Sara sospettosa. 
«Mi chiamo Rebecka e questa è casa mia. In parte, almeno.» 
Si voltò verso Lova. 
«Cosa vuol dire nella bolla?» 
«Quando è nella bolla non risponde e non guarda» rispose Lova, senza riuscire a impedirsi di allungare di nuovo una mano verso i bottoni di Rebecka. 
«Dio santo» sospirò Rebecka togliendosi il cappotto e appendendolo nell’ingresso. 
Faceva davvero un freddo cane. Doveva accendere la stufa. 
«Conosco vostra madre» disse Rebecka iniziando a rimettere a posto le sedie. «I miei nonni abitavano qui. Non dirmi che hai del sapone anche nei capelli?» 
Guardò i ciuffi scompigliati e appiccicosi di Lova. Il cane si sedette e cercò di leccarsi la schiena. Rebecka si accovacciò e lo chiamò con il verso che usava sua nonna con tutti i cani di casa. 
«Tjö!» 
La bestiola si avvicinò immediatamente e dimostrò la sua sottomissione cercando di leccare le labbra di Rebecka. Era una bastardina, vide Rebecka. Una spessa pelliccia nera le incorniciava la testa. Gli occhi scuri erano lucidi e allegri. Rebecka le passò una mano tra il pelo e si annusò le dita. Sapeva di sapone. 
«Bella cagnolina» disse a Sara. «È tua?» 
Sara non rispose. 
«Per due terzi è di Sara e per un terzo è mia» rispose Lova come se avesse imparato la lezione a memoria. 
«Adesso voglio parlare con Sanna» disse Rebecka alzandosi. 
Lova la prese per mano e la condusse in camera. L’appartamento al primo piano era costituito soltanto dalla grande cucina e da una camera da letto dove una volta dormivano i bambini, mentre i nonni dormivano nella nicchia in cucina. Sanna era sdraiata su un fianco su uno dei letti, con le ginocchia che quasi toccavano il mento. Aveva il viso rivolto contro la parete e indossava solo una maglietta e un paio di mutande di cotone a fiori. I biondi capelli angelici erano sparsi sul cuscino. 
«Ciao, Sanna» disse Rebecka cautamente.  
La donna sul letto non rispose, ma Rebecka la vedeva respirare. 
Lova prese una coperta piegata in fondo al letto e la stese sulla madre. 
«È nella bolla» bisbigliò. 
«Capisco» rispose Rebecka a denti stretti. 
Diede una ditata nella schiena di Sanna, forte. 
«Andiamo» disse poi riportando Lova in cucina. 
Tjapp, dopo avere verificato che la padrona sul letto non correva alcun pericolo, le seguì. 
«Avete mangiato?» chiese Rebecka. 
«No» rispose Lova. 
«Tu e io ci conoscevamo, quando eri piccola» disse a Sara. 
«Io sono piccola» gridò Lova. «Ho quattro anni.» 
«Facciamo così» decise Rebecka. «Prima mettiamo a posto qui in cucina, poi prepariamo qualcosa da mangiare e scaldiamo l’acqua sulla stufa per lavare Lova e Tjapp.» 
«Ho anche bisogno di un’altra maglia» disse Lova. «Guarda!» 
Aprì la coperta rivelando una maglietta appiccicosa di sapone. 
«Hai anche bisogno di un’altra maglia» sospirò Rebecka stancamente. 

Un’ora più tardi Lova e Sara erano sedute davanti a un piatto di wurstel e purée in fiocchi. Lova aveva indosso un paio di jeans delle cugine di Rebecka e un maglione rosso con Asterix e Obelix, sbiadito dai molti lavaggi. Tjapp era seduta sotto il tavolo ad aspettare pazientemente la sua razione. Il fuoco nella stufa crepitava e scoppiettava. 
Rebecka diede un’occhiata all’orologio. Già le sette. Lei e Sanna dovevano anche andare alla stazione di polizia. La tensione le chiudeva lo stomaco. 
Sara annusò il maglione di Lova. 
«Puzzi» disse. 
«Non è vero» sospirò Rebecka. «I vestiti hanno un odore un po’ strano perché sono rimasti tanto tempo nei cassetti. Ma i suoi sono ancora peggio, perciò si tiene questi. Date a Tjapp i wurstel avanzati.» 
Lasciò le bambine in cucina, andò in camera e chiuse la porta. 
«Sanna» disse. 
Lei non si mosse. Era nella stessa posizione in cui l’aveva lasciata, con lo sguardo verso il muro. 
Rebecka si avvicinò al letto con le braccia conserte. 
«So che mi senti» disse in tono duro. «Non sono più quella di una volta, Sanna. Sono diventata più cattiva e più impaziente. Non ho nessuna intenzione di sedermi ad accarezzarti i capelli e a chiederti cosa c’è che non va. Puoi alzarti e vestirti. Altrimenti porto le bambine ai servizi sociali e dico che per il momento non sei in grado di occupartene. Poi prendo il primo aereo e torno a Stoccolma.» 
Ancora nessuna risposta. Non un movimento. 
«D’accordo» disse Rebecka dopo un po’. 
Prese fiato come per indicare che aveva aspettato abbastanza, poi si voltò e si diresse verso la porta della cucina. 
Si vede che doveva andare a finire così. Chiamerò la polizia e dirò dove si trova. La porteranno via di peso. 
Non appena posò la mano sulla maniglia sentì che Sanna si metteva a sedere, alle sue spalle. 
«Rebecka» disse soltanto. 
Rebecka aspettò mezzo secondo. Poi si voltò e si appoggiò alla porta, incrociando di nuovo le braccia sul petto. Come una mamma, come-la-mettiamo-adesso. 
E Sanna come una bambina si mordeva il labbro, implorava con gli occhi. 
«Scusami» mormorò con la sua voce roca. «So di essere la madre peggiore del mondo, e di valere ancora meno come amica. Mi odi?» 
«Hai tre minuti per vestirti e venire in cucina a mangiare» ordinò Rebecka prima di uscire a passo di marcia. 



Sven-Erik Stålnacke aveva parcheggiato davanti al pronto soccorso. Anna-Maria si appoggiò alla portiera mentre il collega si frugava in tasca in cerca delle chiavi. Non era facile respirare profondamente quando l’aria era così fredda, ma doveva cercare di rilassarsi. La pancia le era diventata dura come una palla di neve durante la breve passeggiata dalla sala autopsie alla macchina. 
«Ci sono tre pastori nella chiesa della Fonte della Forza» disse Sven-Erik cercando nell’altra tasca. «Ci hanno fatto sapere di essere pronti a riceverci, ma non ci mettono a disposizione più di un’ora. E non hanno intenzione di essere interrogati separatamente, ma tutti e tre insieme. Dicono di voler collaborare, ma...» 
«... ma non vogliono collaborare» concluse Anna-Maria. 
«Già. Cosa dobbiamo fare?» chiese Sven-Erik. «È il caso di usare le maniere forti?» 
«No, altrimenti l’intera congregazione si chiuderà come un’ostrica. Ma mi domando perché non vogliono parlarci separatamente.» 
«Non ne ho idea. Uno ha provato a spiegarmelo. Si chiama Gunnar Isaksson. Ma non ho capito una sola parola di quello che ha detto. Puoi provare a chiederglielo, quando li incontriamo. Accidenti, avrei dovuto buttarli giù dal letto questa mattina presto.» 
«No» rispose Anna-Maria scuotendo pensosamente la testa. «Non potevi fare altrimenti.» 
 L’aurora boreale continuava il suo viaggio nel cielo, avvolta in veli bianchi e verdi. 
«È incredibile» disse Anna-Maria piegando la testa all’indietro. «Quest’inverno c’è stata l’aurora boreale tutto il tempo. Hai mai visto niente del genere?» 
«No, sono le tempeste solari» rispose Sven-Erik. «È bello, ma salterà sicuramente fuori che è cancerogeno anche questo. Finirà che dovremo andare in giro con un parasole argentato per difenderci dall’irraggiamento.» 
«Ti donerebbe» rise Anna-Maria. 
Si sedettero in macchina. 
«A proposito» proseguì Sven-Erik. «Come sta Pohjanen?» «Non lo so, non mi è sembrato il momento adatto per chiederglielo.» 
«No, hai ragione.» 
Può chiederglielo anche lui, si disse irritata. 
Sven-Erik parcheggiò ai piedi della collina e iniziarono a risalire verso la chiesa. I mucchi di neve ai lati del vialetto erano scomparsi e il terreno attorno alla chiesa era disseminato di impronte di uomini e cani. Avevano perlustrato la zona in cerca dell’arma del delitto, nella speranza che l’assassino di Viktor Strandgård se ne fosse liberato fuori dalla chiesa o che l’avesse infilata in un mucchio di neve. Ma non avevano trovato niente. 
«E se non troviamo l’arma?» disse Sven-Erik rallentando il passo dopo aver notato che Anna-Maria aveva il fiatone. «Si può condannare qualcuno per omicidio senza prove tecniche?» 
«Come no, pensa a Christer Pettersson1

» ansimò Anna-Maria. 
Sven-Erik si fece una risata amara. 
«Be’, è un esempio consolante.»  
«Abbiamo trovato la sorella?» 
«No, von Post ha detto di avere preso accordi per interrogarla stasera alle otto, vedremo cosa ne esce.» 

Anna-Maria Mella e Sven-Erik Stålnacke entrarono nella chiesa della Fonte della Forza dieci minuti dopo le cinque del pomeriggio. I tre pastori erano seduti nell’ultima fila di sedie, rivolti verso l’altare. Erano presenti anche altre tre persone. Una donna di mezza età passava un ingombrante e rumoroso aspirapolvere sui tappeti. Anna-Maria pensò che aveva un’aria scheletrica, con i suoi pantacollant fuori moda e il maglione lilla che le arrivava quasi alle ginocchia. Ogni tanto doveva spegnere l’aspirapolvere e inginocchiarsi a raccogliere qualche rifiuto troppo grande. C’era anche un’altra donna di mezza età, decisamente più elegante con la sua gonna impeccabile, la camicetta ben stirata e il cardigan intonato. Percorreva le file di sedie lasciando una fotocopia a ogni posto. La terza persona era un giovane che passeggiava apparentemente senza scopo per la sala e sembrava parlare da solo. Aveva in mano una Bibbia. Ogni tanto si fermava davanti a una sedia, allungava una mano e sembrava parlare animatamente muovendo le labbra mute. Oppure alzava la Bibbia verso il soffitto e ripeteva una serie di frasi che ad Anna-Maria e Sven-Erik risultavano del tutto incomprensibili. Quando i due poliziotti gli passarono vicino, il giovane rivolse loro uno sguardo ostile. Il tappeto insanguinato era ancora al suo posto nella navata centrale, anche se qualcuno aveva spostato le sedie in modo che si potesse facilmente passare senza calpestare il punto in cui Viktor era caduto. 
«Bene, ecco la santa trinità» disse Sven-Erik nel tentativo di alleggerire la tensione quando i tre pastori si alzarono a salutarli. 
Nessuno dei tre accennò un sorriso. 
Dopo essersi seduta, Anna-Maria trascrisse i loro nomi sul suo taccuino, accompagnati da una breve descrizione, per essere in grado di ricostruire chi aveva detto cosa. Usare il registratore era fuori discussione. Probabilmente sarebbe già stato abbastanza difficile farli parlare così. 
«Thomas Söderberg» scrisse. «Quello bruno e bello, con gli occhiali alla moda. Intorno ai quaranta. Vesa Larsson, sulla quarantina anche lui, l’unico non in giacca e cravatta. Camicia di flanella e gilet di pelle. Gunnar Isaksson. Grasso e con la barba. Intorno alla cinquantina.» 
Rifletté sulle diverse strette di mano dei tre uomini. Thomas Söderberg gliel’aveva stretta incrociando il suo sguardo e mantenendo il contatto per qualche secondo. Era abituato a ispirare fiducia. Si domandò come avrebbe reagito se la polizia avesse preso qualche sua affermazione con sospetto. Il completo che indossava sembrava costoso. 
La stretta di Vesa Larsson era delicata. Non era abituato a stringere mani. Quando le loro dita si erano incontrate, in realtà aveva già finito di salutarla con un breve cenno del capo e il suo sguardo si era già spostato su Sven-Erik. 
Gunnar Isaksson le aveva quasi stritolato la mano. E non era la forza inconsapevole che a volte hanno gli uomini. 
Ha paura di apparire debole, si disse. 
«Prima di cominciare vorrei sapere perché avete voluto incontrarci tutti e tre insieme» esordì Anna-Maria. 
«Quello che è successo è una cosa terribile» rispose Vesa Larsson dopo un attimo di silenzio. «Ma siamo fermamente convinti che la congregazione debba restare unita nei prossimi tempi. E questo vale ancora di più per noi pastori. Ci sono forze che cercheranno di dividerci, e abbiamo intenzione di offrirgli il fianco il meno possibile.» 
«Capisco» disse Sven-Erik in un tono che indicava chiaramente che non capiva affatto. 
Anna-Maria lo osservò riflettere imbronciato, con i grossi baffi che gli sporgevano da sotto il naso come uno spazzolone. 
Vesa Larsson lanciò un’occhiata a Thomas Söderberg, giocherellando con un bottone del gilet di pelle. Questi non ricambiò lo sguardo ma annuì con fare pensoso alle sue parole. 
Ah, si disse Anna-Maria. La risposta di Vesa ha ottenuto l’approvazione del pastore Söderberg. Non è difficile capire chi è il capobranco. 
«Com’è strutturata la congregazione, da un punto di vista organizzativo?» chiese Anna-Maria. 
«Al vertice c’è Dio» rispose Gunnar Isaksson con voce sonora, puntando un dito verso l’alto. «Poi veniamo noi tre pastori e cinque fratelli anziani. Se volessimo paragonarla a un’impresa, potremmo dire che Dio è il proprietario, noi tre gli amministratori delegati e gli anziani il consiglio di amministrazione.» 
«Credevo che voleste chiederci di Viktor Strandgård» lo interruppe il pastore Söderberg. 
«Ci arriveremo, ci arriveremo» lo rassicurò Sven-Erik in tono quasi cantilenante. 
Il giovane con la Bibbia si era fermato davanti a una sedia e predicava a gran voce, agitando le mani, verso il sedile vuoto. Sven-Erik aveva l’aria perplessa. 
«Cosa fa?» disse agitando un pollice in direzione dell’uomo. 
«Prega per l’incontro di stasera» spiegò Thomas Söderberg. «Il parlare in lingue può sembrare un po’ strano se non ci si è abituati, ma non è un’impostura, glielo assicuro.» 
«È importante che la Chiesa sia preparata spiritualmente» chiarì il pastore Isaksson accarezzandosi la barba spessa e curata. 
«Capisco» ripeté Sven-Erik cercando aiuto nello sguardo di Anna-Maria. 
I baffi sporgevano a quasi novanta gradi dal viso. 
«Cosa potete dirci di Viktor Strandgård?» disse Anna-Maria. «Che tipo di persona era? Lei che opinione ne aveva, pastore Larsson?» 
Vesa Larsson sembrava a disagio. Deglutì a fondo prima di rispondere. 
«Era devoto. Molto umile. Tutti gli volevano bene, nella comunità. Si lasciava usare da Dio, semplicemente. Nonostante la sua, come dire, posizione elevata nella congregazione, non si tirava indietro nemmeno davanti ai compiti pratici. Faceva parte del gruppo di pulizia della chiesa, perciò lo si poteva vedere spolverare le sedie. Scriveva i manifesti prima degli incontri...» 
«... si occupava dei bambini» si inserì Gunnar Isaksson. «Abbiamo uno schema a rotazione per permettere anche a chi ha figli piccoli di ascoltare la parola di Dio.» 
«Sì, come ieri, per esempio...» proseguì Vesa Larsson. «Dopo l’incontro non ci ha raggiunti nel locale ristoro, ma è rimasto qui a mettere a posto le sedie. È lo svantaggio di non avere i banchi, è facile che la chiesa abbia un aspetto disordinato se non si rimettono a posto le sedie.» 
«Dev’essere un lavoraccio» disse Anna-Maria. «Sono moltissime. Nessuno è rimasto ad aiutarlo?» 
«No, aveva detto di voler restare solo» disse Vesa Larsson. «Purtroppo non chiudiamo mai la porta quando siamo in chiesa, perciò qualche pazzo deve...» 
Si interruppe e scosse la testa. 
«Viktor Strandgård sembra essere stato un bravo ragazzo» constatò Anna-Maria. 
«Sì, lo può ben dire» confermò Thomas Söderberg con un sorriso triste. 
«Sapete se aveva qualche nemico, o se aveva litigato con qualcuno?» chiese Sven-Erik. 
«No, nessuno» rispose Vesa Larsson. 
«Sembrava preoccupato per qualcosa?» proseguì il poliziotto. 
«No» rispose di nuovo Vesa Larsson. 
«Che ruolo aveva nella congregazione? Se ho capito bene, era assunto a tempo pieno?» chiese Sven-Erik. 
«Lavorava per Dio» rispose Gunnar Isaksson in tono pomposo, sottolineando la parola “Dio”. 
«E lavorando per Dio faceva anche guadagnare un bel po’ di soldi alla congregazione» commentò Anna-Maria. «Dove andavano a finire i proventi del suo libro? A chi andranno, ora che è morto?» 
Gunnar Isaksson e Vesa Larsson si voltarono verso il loro collega Thomas Söderberg. 
«Cos’hanno a che fare queste informazioni con un’inchiesta per omicidio?» chiese Thomas Söderberg in tono amichevole. 
«Si limiti a rispondere alla domanda» replicò Sven-Erik con voce cordiale, ma con una faccia che non ammetteva scherzi. 
«Viktor Strandgård aveva ceduto tutti i diritti del suo libro alla congregazione. Dopo la sua morte tutti i proventi continueranno a essere devoluti alla congregazione. Non c’è nessuna differenza, quindi.» 
«Quante copie ha venduto?» chiese Anna-Maria. 
«Più di un milione, comprese le traduzioni» rispose secco il pastore Söderberg. «E continuo a non capire cosa...» 
«Vendete anche qualcos’altro?» chiese Sven-Erik. «Che so, foto ricordo o cose del genere?» 
«Questa è una congregazione religiosa, non il fan club di Viktor Strandgård» rispose Thomas Söderberg in tono sferzante. «Non vendiamo foto ricordo, ma in effetti abbiamo altri introiti, per esempio dalla vendita delle videocassette.» 
«Che genere di videocassette?» 
Anna-Maria cambiò posizione. Doveva andare in bagno. 
«Registrazioni di prediche di noi tre o di Viktor Strandgård, o di qualche predicatore ospite. Registrazioni di incontri di preghiera e funzioni religiose» rispose il pastore Söderberg togliendosi gli occhiali e pulendoli con un fazzoletto immacolato. 
«Filmate i vostri incontri?» chiese Anna-Maria cambiando di nuovo posizione. 
«Sì» rispose Vesa Larsson, dato che Thomas Söderberg sembrava troppo occupato a pulirsi gli occhiali per rispondere. 
«Ieri sera c’è stato un incontro» riprese Anna-Maria. «E ha partecipato anche Viktor Strandgård. È stato filmato?» 
«Sì» rispose il pastore Larsson. 
«Vogliamo il nastro» affermò Sven-Erik. «E se ci sarà un incontro questa sera, anche quello. Anzi, tutti i nastri dell’ultimo mese, cosa ne dici Anna-Maria?» 
«Va bene.» 
Alzarono tutti gli occhi quando il rumore dell’aspirapolvere si zittì. La donna che stava facendo le pulizie l’aveva spento e si era avvicinata a quella ben vestita, e le due stavano bisbigliando tra loro osservando i pastori. Il giovane si era seduto su una delle sedie a sfogliare la sua Bibbia. Muoveva le labbra senza sosta. La donna ben vestita, vedendo che il colloquio tra i pastori e la polizia era arrivato a una pausa, colse l’occasione per avvicinarsi. 
«Scusate se vi interrompo» disse in tono gentile, per poi proseguire rivolta ai tre pastori, visto che nessuno l’aveva fermata. «Per l’incontro di stasera, cosa facciamo con...» 
Tacque e fece un gesto della mano verso la macchia di sangue dove era stato trovato Viktor Strandgård. 
«Dato che il pavimento non è verniciato, non credo che si riuscirà a cancellare le tracce... Forse bisognerebbe togliere il tappeto e coprire con qualcos’altro finché ne arriverà uno nuovo.» 
«Va bene» rispose Gunnar Isaksson. 
«Lascia stare, Ann-Gull» lo interruppe il pastore Söderberg lanciandogli un’occhiata quasi impercettibile. «Me ne occuperò io. La polizia ha quasi finito con noi, non è vero?» 
L’ultima frase era rivolta ad Anna-Maria e Sven-Erik. Quando i due non risposero, Thomas Söderberg rivolse alla donna un sorriso che voleva indicare che per il momento la conversazione era finita. Quella sparì come uno spiritello servizievole in direzione dell’altra donna. Poco dopo l’aspirapolvere tornò ad accendersi. 
I pastori e i poliziotti rimasero a guardarsi in silenzio. 
Tipico, pensò Anna-Maria irritata. Pavimento in legno non trattato, spessi tappeti di lana, sedie invece di banchi. È tutto molto bello, ma per niente facile da tenere pulito. Per fortuna hanno molte donne devote che lavorano gratis per Dio. 
«Non abbiamo molto tempo» disse Thomas Söderberg. La sua voce aveva perso ogni traccia di cortesia. 
«Questa sera è in programma una funzione e capirete anche voi che ci sono parecchie cose da preparare» proseguì quando non ottenne risposta dai due poliziotti. 
«Dunque» riprese Sven-Erik pensoso, come se avessero tutto il tempo del mondo. «Se Viktor Strandgård non aveva dei nemici, avrà avuto almeno degli amici. Chi gli era più vicino?» 
«Dio» rispose il pastore Isaksson con un sorriso trionfante. 
«La sua famiglia, naturalmente, sua madre e suo padre» disse Thomas Söderberg ignorando il commento del collega. «Il padre di Viktor, Olof Strandgård, è consigliere comunale per i cristiano-democratici. La congregazione detiene molti seggi in consiglio comunale, soprattutto tra i cristiano-democratici. In un certo senso si potrebbe definire il più grande partito borghese di Kiruna. Alle prossime elezioni contiamo di ottenere la maggioranza. Contiamo anche che la polizia non faccia niente che possa nuocere alla fiducia che abbiamo costruito tra gli elettori. Poi c’è la sorella di Viktor, Sanna. Avete parlato con lei?» 
«No, non ancora» rispose Sven-Erik. 
«Usate una certa delicatezza, è molto fragile» disse il pastore Söderberg. 
«Era lei il padre confessore di Viktor?» chiese Sven-Erik. 
«No» rispose Thomas Söderberg con un sorriso. «Non usiamo questo termine. Consigliere spirituale, piuttosto.» 
«Sapete se Viktor Strandgård fosse sul punto di rivelare qualcosa, prima di morire?» chiese Anna-Maria. «Su di sé, magari? O sulla congregazione?» 
«No» rispose Thomas Söderberg dopo un attimo di silenzio. «Cosa avrebbe potuto rivelare?» 
«Scusatemi» disse Anna-Maria alzandosi. «Devo usare la toilette.» 
Lasciò i quattro uomini e si diresse verso i servizi, in fondo alla chiesa. Fece due gocce di pipì e rimase seduta a far riposare lo sguardo sulle pareti piastrellate di bianco. I pensieri le rimbalzavano in testa. Negli anni passati in polizia aveva imparato a riconoscere i segni di tensione. Dal sudore freddo alle vertigini. In genere la gente si innervosiva quando parlava con la polizia. Ma era quando cercava di nascondere la tensione che diventava interessante. 
E c’era un sintomo di tensione che si aveva una sola possibilità di scoprire. Perché si verificava una volta sola. Ora lo aveva sentito. Proprio dopo avere chiesto se Viktor Strandgård stava per rivelare qualcosa prima di morire. Uno dei tre pastori, non era riuscita a capire quale, aveva inspirato profondamente. Una sola volta. 
«E che cazzo» disse ad alta voce, sorprendendosi di quanta soddisfazione potesse dare imprecare di nascosto in chiesa. 
Poteva non significare niente. Il fatto che qualcuno respirasse profondamente. È chiaro che avevano qualcosa da nascondere. Qualsiasi organizzazione di quelle dimensioni ce l’aveva. Anche la polizia. E di sicuro anche quella gente. 
«Ma questo non basta a fare di loro degli assassini» proseguì il dialogo con se stessa mentre tirava l’acqua. 
Ma c’erano altre cose che non quadravano. Perché per esempio Vesa Larsson aveva detto che Viktor Strandgård non era preoccupato se il suo “consigliere spirituale” era Thomas Söderberg, e quindi era lui che avrebbe dovuto conoscerlo meglio? 
Quando Sven-Erik e Anna-Maria lasciarono la chiesa e si diressero verso il parcheggio, la donna che aveva passato l’aspirapolvere li rincorse. Aveva ai piedi solo un paio di tubolari e degli zoccoli di legno, perciò tendeva a scivolare lungo la discesa. 
«Ho sentito che avete chiesto se aveva dei nemici» disse con il fiatone. 
«Sì?» disse Sven-Erik. 
«Certo che ne aveva» disse la donna stringendogli il braccio. «E ora che è morto diventeranno ancora più forti. Mi sento minacciata anch’io.» 
Lasciò Sven-Erik e si strinse nelle braccia in un vano tentativo di tenere lontano il freddo pungente. Non si era messa il cappotto. Teneva le ginocchia leggermente piegate per mantenere l’equilibrio in discesa. Il minimo sbilanciamento all’indietro avrebbe fatto scivolare gli zoccoli di legno.  
«Minacciata?» chiese Anna-Maria. 
«Dai demoni» disse la donna. «Vogliono che ricominci a fumare. Prima ero posseduta dal demone del fumo, ma Viktor Strandgård aveva imposto le mani su di me e mi aveva liberata.» 
Anna-Maria la guardò rassegnata. Non ce la faceva più.  
«Ne terremo conto» disse riprendendo a muoversi verso la macchina. 
Sven-Erik rimase dov’era e tirò fuori un block notes dalla tasca del piumino. 
«È stato lui ad assassinare Viktor» disse la donna.  
«Chi?» chiese Sven-Erik. 
«Il principe dei demoni» bisbigliò. «Satana. Sta cercando di intrufolarsi.» 
Sven-Erik rimise in tasca il notes e prese tra le sue la mano gelida della donna. 
«Grazie» le disse. «Ora è meglio che torni dentro se non vuole congelare.» 
«Volevo solo dirvelo» gridò la donna mentre si allontanava. 

All’interno della chiesa i pastori discutevano animatamente. 
«Non possiamo fare così» gridò infuriato Gunnar Isaksson, seguendo da vicino Thomas Söderberg che spostava le sedie attorno alla macchia scura sul pavimento in modo che si ritrovasse al centro di uno spazio circolare. 
«Sì che possiamo» replicò calmo Thomas Söderberg, per poi proseguire rivolto alla donna ben vestita: «Togli il tappeto dalla navata centrale. Lascia pure che resti la macchia di sangue. Compra tre rose e posale sul pavimento. Le sedie andranno tutte risistemate. Terrò la predica dal punto in cui è morto. La gente sarà seduta tutt’intorno.» 
«Vuoi che i fedeli ti guardino la schiena?» gemette Gunnar Isaksson. 
Thomas Söderberg si avvicinò al collega basso e grasso e gli posò le mani sulle spalle. 
Povero stronzo, pensò. Non hai abbastanza doti retoriche per parlare in un’arena. Un palcoscenico. Una piazza. Devi avere tutti seduti davanti a te e un pulpito a cui aggrapparti se ti trovi in difficoltà. Ma non posso permettere che la tua incapacità mi sbarri la strada. 
«Ricordate cosa abbiamo detto, fratelli?» disse a Gunnar Isaksson. «Dobbiamo restare uniti. Ti prometto che andrà tutto bene. La gente piangerà, pregherà, invocherà Dio e noi trionferemo - Dio trionferà. Di’ a tua moglie di portare un fiore da deporre nel punto in cui è stato ritrovato il suo corpo.» 
Ci sarà un’atmosfera incredibile, pensò Thomas Söderberg. 
Si disse che doveva raccomandare anche ad altre persone di portare dei fiori da deporre sul pavimento. Sarebbe diventato come il luogo dov’era stato ucciso Olof Palme. 
Vesa Larsson era ancora nella stessa posizione che aveva assunto durante il colloquio con la polizia. Non aveva preso parte alla discussione ed era rimasto seduto chino con il viso tra le mani. Forse piangeva, ma era difficile capirlo. 



Rebecka e Sanna stavano andando in città. Abeti grigiastri carichi di neve sfrecciavano accanto alla macchina nella luce dei fari. Il silenzio imbarazzato era come una stanza che si riduceva sempre di più. Le pareti e il soffitto si muovevano verso l’interno e verso il basso. A ogni minuto che passava diventava sempre più difficile respirare liberamente. Rebecka guidava. I suoi occhi andavano dal tachimetro alla strada e viceversa. Il freddo intenso faceva sì che non si slittasse anche se la strada era coperta di neve pressata. 
Sanna sedeva con una guancia appoggiata al finestrino freddo, arrotolandosi una ciocca di capelli attorno a un dito. 
«Non potresti dire qualcosa?» chiese dopo un po’. 
«Non sono abituata a guidare in campagna» disse Rebecka. «Faccio fatica a guidare e a parlare contemporaneamente.» 
Si rese conto lei stessa di quanto fosse palese la bugia, come uno scoglio appena sotto la superficie dell’acqua. Ma non aveva importanza. Anzi, forse era proprio quella la sua intenzione. Guardò l’ora. Le otto meno un quarto. 
Non litigare proprio adesso, si raccomandò. Hai fatto salire in barca Sanna. Ora la devi anche riportare a terra. 
«Credi che le bambine se la caveranno da sole?» chiese. 
«Hanno promesso di fare le brave» rispose Sanna raddrizzandosi sul sedile. «E poi torniamo presto, no? Non oso chiamare nessuno, meno gente sa dove sono, meglio è.» 
«Perché?» 
«Ho paura dei giornalisti. So come può andare a finire. E poi ci sono mamma e papà... Ma adesso parliamo di qualcos’altro.» 
«Vuoi parlare di Viktor? Di cosa è successo?» 
«No. Tanto tra poco dovrò raccontarlo alla polizia. Parliamo di te, così mi calmo. Come stai? Sono davvero passati sette anni dall’ultima volta?» 
«Mmh» rispose Rebecka. «Ma ogni tanto ci siamo sentite al telefono.» 
«Chi l’avrebbe detto che avevi ancora la casa a Kurravaara!» 
«Sì, zio Affe e Inga-Lill non possono permettersi di rilevare la mia parte. Credo che siano arrabbiati perché sono solo loro a investire tempo e denaro nella casa. Ma d’altra parte sono loro che se la godono. Io venderei volentieri. A loro o a qualcun altro, per me è lo stesso.» 
Si domandò se quello che aveva appena detto fosse vero. Davvero la casa della nonna o la capanna di Jiekajärvi non le davano alcuna gioia? Solo perché non ci andava mai? Il solo pensiero della capanna, di avere un posto tutto suo, lontano dalle costruzioni, nella tundra, in mezzo a boschi e paludi, non era già una gioia sufficiente? 
«Sei diventata così, come dire, affascinante. E sicura, in un certo senso. Naturalmente ho sempre pensato che fossi bella. Ma ora sembri uscita da un telefilm. Anche i capelli sono perfetti. Io me li taglio da sola.» 
Sanna si passò le dita con un certo compiacimento tra gli spessi riccioli biondi. 
Lo so, Sanna, pensò con rabbia Rebecka. Lo so che sei tu la più bella del reame. E senza spendere un soldo in vestiti o parrucchieri. 
«Non puoi dire qualcosa?» chiese Sanna implorante. «Mi sento un’idiota, ma ti ho chiesto scusa. E sono tutta rigida dalla paura. Sentimi le mani, sono gelate.» 
Sfilò una mano dal guanto di montone e l’allungò verso Rebecka. 
È fuori di testa, pensò Rebecka infuriata tenendo le mani ben strette sul volante. È completamente fusa, cazzo. 
Sentimi la mano, Rebecka, senti come trema. È gelata. Ti voglio così bene, Rebecka. Se fossi un ragazzo mi innamorerei di te, lo sai? 
«Hai una bella cagnetta» disse Rebecka sforzandosi di mantenere la voce calma.  
Sanna ritirò la mano. 
«Sì» disse. «Tjapp. Le bambine la adorano. Ce l’ha data un tizio lappone che conosciamo. Suo padre non si occupava di lei. Non quando beveva, almeno. E lo faceva spesso. Ma non è riuscito a rovinarla. È così allegra e obbediente. Ed è davvero affezionata a Sara, sai? Non fa altro che posarle la testa sulle ginocchia. Mi fa piacere, perché le bambine sono state così sfortunate con gli animali domestici nell’ultimo anno.» 
«Davvero?» 
«O forse non è sfortuna, non lo so. A volte sono così irresponsabili. Non ne ho idea. In primavera è scappato il coniglio perché Sara aveva dimenticato di chiudere bene la porta della gabbietta. E si è rifiutata di ammettere che era colpa sua. Poi abbiamo preso un gatto. E l’autunno scorso è sparito anche quello. Anche se naturalmente non per colpa di Sara. Succede, con i gatti. Sarà stato investito o qualcosa del genere. Abbiamo avuto anche dei porcellini d’India e sono spariti anche loro. Non oso nemmeno pensare a dove siano finiti. Si saranno fatti la tana nei muri o negli interstizi e staranno rosicchiando tutta la casa. Ma Sara e Lova... mi fanno impazzire. Come adesso che Lova si è impiastricciata di sapone e detersivo, e ha sporcato anche il cane. E Sara che è rimasta a guardare senza impedirglielo. Non ce la faccio più. Lova non fa altro che sporcare dappertutto. No, adesso parliamo di qualcosa di più divertente.» 
«Guarda che splendida aurora boreale» disse Rebecka chinandosi sul volante per osservare il cielo. 
«Sì, quest’inverno è stato incredibile. Ci sono delle tempeste sul sole, è per quello. Non hai mai nostalgia di casa?» 
«No, forse, non lo so.»  
Rebecka si mise a ridere. 
In lontananza si vedeva la chiesa di Cristallo. Sembrava galleggiare come una nave spaziale sopra la luce dei lampioni della strada. Poco dopo le case iniziarono a infittirsi. La strada di campagna si trasformò in una strada di città. Rebecka spense gli abbaglianti. 
«Ti trovi bene laggiù?» chiese Sanna. 
«Lavoro molto» rispose Rebecka. 
«E la gente?» 
«Non lo so. Non mi sento così a mio agio, se è questo che vuoi sapere. Ho sempre l’impressione di arrivare dalla campagna. Puoi imparare a guardare nella direzione giusta quando brindi e a scrivere biglietti di ringraziamento per questo e per quello, ma non puoi nascondere chi sei. Perciò è facile sentirsi sempre un po’ degli estranei. E poi non sai mai cosa pensano di te. Sono sempre dannatamente gentili con tutti, che qualcuno gli piaccia oppure no. Qui da noi almeno sai da che parte sta la gente.» 
«Ah sì?» chiese Sanna. 
Rimasero in silenzio, ognuna con i suoi pensieri. Superarono il cimitero e si avvicinarono a un distributore Statoli. 
«Ci fermiamo a prendere qualcosa da bere?» chiese Rebecka. 
Sanna annuì e Rebecka entrò al distributore. Rimasero sedute in macchina senza dire niente. Nessuna delle due accennò a scendere né guardò l’altra. 
«Non avresti mai dovuto andartene» disse Sanna sconsolata. 
«Sai benissimo perché me ne sono andata» disse Rebecka voltando la testa perché Sanna non la vedesse in viso. 
«Credo che tu sia stata l’unico amore di Viktor, sai?» esclamò Sanna. «Credo che non ti abbia mai dimenticata. Se fossi rimasta...» 
Rebecka si voltò di scatto. La rabbia la infiammò come il cannello di una saldatrice. Tremava violentemente e le parole le uscirono di bocca incerte e spezzate. Ma uscirono. Non riuscì a fermarle. 
«Aspetta un attimo» gridò. «Adesso chiudi il becco un secondo e chiariamo questa cosa.» 
Una donna con un labrador in sovrappeso al guinzaglio si fermò sentendola gridare e guardò incuriosita dentro la macchina. 
«Non ho la minima idea di cosa stai parlando» proseguì Rebecka senza abbassare la voce. «Viktor non è mai stato innamorato di me, non ha nemmeno mai avuto una cotta. Non voglio più sentire una sola parola a questo proposito. Non ho intenzione di assumermi la colpa del fatto che tra noi non ha funzionato. E di sicuro non ho intenzione di assumermi la colpa del fatto che è stato assassinato. Sei davvero fuori di testa se stai pensando una cosa del genere. Vivi pure nel tuo universo parallelo, se vuoi, ma non cercare di tirarmici dentro.» 
Tacque e picchiò i palmi delle mani sul finestrino. Poi se le picchiò in testa. La donna con il cane fece un passo indietro e si allontanò spaventata. 
Buon dio. Devo calmarmi, pensò Rebecka. Non posso guidare in questo stato. Uscirei di strada. 
«Non volevo dire questo» piagnucolò Sanna. «Non ho mai pensato che fosse colpa tua. Se è colpa di qualcuno, è colpa mia.» 
«Cosa? Che Viktor è stato ucciso?»  
Rebecka tornò attenta di colpo. 
«Tutto» mormorò Sanna. «Che sei stata costretta ad andartene. Tutto!» 
«Piantala» sibilò Rebecka, di nuovo in preda a una rabbia che spazzò via il tremore e le trasformò le gambe in due blocchi di acciaio e di ghiaccio. «Non ho intenzione di stare qui a consolarti e a dirti che non è stata colpa tua. L’ho già fatto centinaia di volte. Ero una persona adulta. Mi sono fatta gli affari miei e ne ho accettato le conseguenze.» 
«Sì» rispose Sanna obbediente. 
Rebecka accese la macchina e imboccò slittando la Malmvägen. Sanna si portò una mano alla bocca quando un automobilista in arrivo suonò il clacson. Dalla Hjalmar Lund-bohmsvägen videro le luci accese negli uffici della LKAB davanti alla miniera. Rebecka notò che non le sembravano più così grandi. Quando abitava lì l’edificio le sembrava enorme. Superarono l’austera facciata del municipio con la sua strana torre dell’orologio che si innalzava verso il cielo come un nero scheletro d’acciaio. 
Sto dicendo la verità, pensò Rebecka. Non è mai stato innamorato di me. Ma posso capire che tutti lo pensassero. Glielo lasciavamo credere, Viktor e io. Era iniziato già quella prima estate. Durante il campo estivo con Thomas Söderberg a Gällivare. 

Alla fine sono in undici a fare il campo estivo. Per tre settimane lavoreranno, vivranno e studieranno la Bibbia insieme. Il pastore Söderberg e sua moglie Maja sono i responsabili del campo. Maja è incinta. Ha lunghi capelli lucenti, non si trucca mai ed è sempre dolce e allegra. Solo qualche volta Rebecka la vede premersi un pugno sulle reni. Allora Thomas la prende fra le braccia e le dice: «Tossiamo cavarcela anche senza di te. Va’ a riposarti un pochino.» 
In genere lei lo guarda con sollievo e gratitudine. È un lavoro duro fare la moglie del pastore. 
Anche Magdalena, la sorella di Maja, dà una mano. Si muove veloce come un topolino. Suona la chitarra e insegna ai ragazzi canzoni di lode al Signore. 
Viktor e Sanna Strandgård sono tra gli undici. Si notano subito. Si assomigliano molto. Hanno entrambi lunghi capelli biondi. Quelli di Sanna sono ricci naturali. Il naso all’insù e gli occhi grandi le danno sempre un’espressione da bambola. 
Continuerà a sembrare una bambina anche quando avrà ottant’anni, si dice Rebecka costringendosi a non fissarla. 
Sanna è l’unica dei ragazzi a professarsi cristiana. Ha solo diciassette anni e ha con sé una bambina. Sara, di tre mesi. 
«Io e Gesù abbiamo una fantastica storia d’amore» dice Sanna con un sorriso. 
Lei e Thomas Söderberg hanno un tipo diverso di fede. Thomas dimostra la sua in vari modi. 
«La parola fede» dice, «ha la stessa radice di fidarsi, essere convinto. Se dico “ho fede in te, Rebecka”, voglio dire che credo che soddisferai le mie aspettative.» 
«Non so» protesta Sanna. «Secondo me credere è semplicemente credere. Non sapere. Dubitare, a volte. Ma scommettere comunque su Dio. Ascoltare i suoi sussurri nel bosco.» 
Viktor si china in avanti e arruffa i capelli della sorella maggiore. 
«Di sicuro la tua testa è piena di sussurri e brusii, Sanna» dice ridendo. 
Lui non è credente. Ma gli piace discutere. Lega spesso in una coda i lunghi capelli biondi. Ha la pelle così chiara che tende quasi all’azzurrino. Le altre ragazze lo guardano, ma lui trova presto un modo per tenerle a distanza. Porta avanti un gioco con Rebecka. 
Rebecka non è stupida. Si rende conto in fretta che i suoi sguardi non significano niente e che non ha il permesso di ricambiare le sue brevi carezze sui capelli o su una mano. Impara a restare ferma e a diventare l’oggetto della sua ammirazione non ricambiata. Ha anche lei il suo tornaconto. L’ammirazione di Viktor migliora la sua posizione nel gruppo. Ha sbaragliato la concorrenza delle altre ragazze e questo le vale un certo rispetto. 
Durante lo studio della Bibbia, all’inizio le opinioni di Thomas Söderberg divergono da quelle dei partecipanti. I ragazzi non capiscono. Perché l’omosessualità è un peccato? Com’è possibile che solo la fede cristiana sia nel giusto? Cosa succede a tutti i musulmani, per esempio, vanno all’inferno? Perché non si possono avere rapporti sessuali prima del matrimonio? 
Thomas ascolta e spiega. Bisogna decidersi, dice. O si crede in tutta la Bibbia, oppure si possono scegliere delle parti e credere solo a quelle, ma allora che razza dì fede sarebbe? Sbiadita e inefficace. 
Passano le tiepide nottate estive seduti sul pontile sul lago a schiacciare le zanzare che si posano sulle braccia e a discutere e riflettere. Sanna si sente a posto con il suo Dio. Rebecka si sente tra le rapide di un torrente. 
«È perché sei stata chiamata» dice Sanna. «Vuole averti. Se non dici di sì adesso, potresti perderti per sempre. Non puoi rimandare la decisione perché magari non sentirai più questo desiderio.» 
Alla fine delle tre settimane tutti i partecipanti tranne due si sono affidati a Dio. Tra i neoconvertiti ci sono anche Viktor e Rebecka. 

«E tu e Viktor?» le chiede Thomas Söderberg quando il campo estivo si avvicina alla fine. «Cosa c’è tra voi?» 
Lui e Rebecka stanno facendo una passeggiata fino alla cooperativa per comprare del latte. Rebecka inspira il buon odore di asfalto caldo. È felice che Thomas abbia voluto farle compagnia. In genere deve condividerlo con tutti gli altri. 
«Non lo so» dice Rebecka esitante, mentre decide di non dire la verità. «Forse lui è interessato, ma io in questo momento ho tempo solo per Dio. Voglio provare a puntare tutto su di lui.» 
Strappa un ramoscello di betulla. Le tenere foglioline verdi sanno d’estate e di felicità. Se ne infila una in bocca e la mordicchia. 
Thomas strappa una foglia anche lui e se la infila in bocca. Sorride. 
«Sei una ragazza intelligente, Rebecka. Dio ha grandi progetti per te, lo so. È un periodo fantastico quando ci si innamora di Dio. Fai bene a godertelo.» 

Sentì la voce di Sanna, prima lontanissima, poi più vicina. Le aveva messo una mano sul braccio. «Guarda» pigolò Sanna. «Oh, no.» 
Erano arrivate alla stazione di polizia. Rebecka aveva parcheggiato. All’inizio non capì cosa stava guardando Sanna. Poi vide la giornalista che correva loro incontro con il microfono in resta. Dietro di lei un uomo puntò la telecamera nella loro direzione come un’arma nera. 



Nella chiesa di Cristallo la moglie del pastore Gunnar Isaksson faceva finta di pregare con gli occhi socchiusi. Mancava un’ora all’incontro di quella sera. Sul palco si stava scaldando il coro gospel. Trenta giovani uomini e donne in pantaloni neri e felpa violetta con un’esplosione di giallo e arancio e la scritta «Joy» sul davanti. 
All’inizio era stata innamorata quasi dolorosamente di quella chiesa. L’acustica divina. Come ora. Vocali prolungate che si inanellavano verso il soffitto per poi precipitare dove solo i bassi potevano arrivare. La luce calda. Le notti polari fuori dalle enormi vetrate. Una bolla di forza divina nella morsa del freddo e dell’oscurità. 
I musicisti stavano accordando la chitarra elettrica e il basso. Si sentì uno schiocco sordo quando il tecnico delle luci accese i riflettori. I tecnici del suono litigavano con un microfono che non voleva funzionare. Ci parlavano dentro senza che si sentisse niente e poi all’improvviso emise un fischio penetrante. 
Le prudevano le braccia. Quella mattina lo sfogo era rosso e gonfio. Si domandava se potesse essere psoriasi. Purché Gunnar non se ne accorgesse. Non voleva essere oggetto delle sue preghiere. 
Avevano riorganizzato tutta la sala. Le sedie ora erano sistemate attorno al punto in cui avevano ritrovato Viktor. Sembrava di essere al circo. Vide suo marito seduto in prima fila. La nuca grassa che straripava dal colletto della camicia bianca. Accanto a lui era seduto Thomas Söderberg, che cercava di concentrarsi per la predica serale. Vide Gunnar che fissava le pagine della Bibbia, deciso a non disturbare, per poi dimenticarsene e mettersi a borbottare. La mano destra si allungò e si mise a disegnare ampi gesti nell’aria. 
Dopo le vacanze di Natale aveva deciso di dimagrire. Quel giorno aveva saltato la cena. Mentre lei sedeva al tavolo della cucina davanti a un piatto di spaghetti, lui aveva mangiato tre pere in piedi, la schiena larga china sul lavandino. Risucchi e gorgoglii. Il succo delle pere che gocciolava nel lavandino. La mano sinistra che teneva stretta la cravatta contro lo stomaco. 
Guardò l’ora. Tra un quarto d’ora avrebbe lasciato la sedia accanto a quella di Thomas Söderberg, avrebbe raggiunto furtivamente la macchina e sarebbe andato a mangiarsi un hamburger clandestino da Empes. Per poi tornare con la bocca piena di gomme alla menta. 
Se proprio devi mentire, fallo almeno a qualcuno a cui importa qualcosa, le veniva voglia di gridargli. A me no di certo. 
All’inizio era un altro uomo. Lavorava come bidello nella scuola media dove lei insegnava mentre continuava a studiare all’università, cosa che lui trovava ammirevole. Le aveva fatto una corte poco discreta e appariscente. Si inventava commissioni da fare in sala professori quando lei aveva un’ora libera. Scherzi e risate e una scorta inesauribile di barzellette che non facevano ridere. E sotto a tutto ciò un’insicurezza che la commuoveva. I commenti entusiasti dei colleghi. Il fatto che battesse le mani incantato quando lei andava dal parrucchiere o si comprava una camicetta nuova. Lo vedeva con gli alunni in cortile. Gli erano affezionati. Un bidello simpatico. Cosa le importava allora se non leggeva libri. 
Era stato dopo, quando era stato messo nell’ombra da Thomas Söderberg e Vesa Larsson, che il suo bisogno di autoaffermazione si era risvegliato. 
Nei primi tempi frequentava insieme a lui la Chiesa battista. All’epoca era una congregazione a rischio di estinzione. O meglio, destinata all’estinzione. I fedeli sembravano entrare in chiesa solo per riposarsi un attimo prima di proseguire il loro cammino verso la tomba. Signe Persson, con i radi capelli fini perfettamente ondulati. Lo scalpo che si intravedeva sotto, segnato da macchie brune. Arvid Kalla, un tempo scaricatore alla LKAB. Ora semiassopito nel banco della chiesa con le grandi mani inermi sulle ginocchia. 
Era ovvio che non potevano permettersi un pastore, avevano a malapena i soldi per riscaldare la chiesa. Gunnar gestiva la congregazione come una ditta individuale. Faceva quello che gli premettevano i pochi soldi che c’erano e sospirava sul resto. Come la macchia di umido nel vestibolo. La parete che si spanciava come un ventre sempre più gonfio. I tappeti che si sfilacciavano. L’idea era che i fedeli predicassero a turno ogni domenica. Dato che nessun altro si offriva volontario, toccava sempre a Gunnar Isaksson. 
Non c’era mai un filo da perdere nelle sue prediche. Pescava a casaccio nel repertorio delle chiese non conformiste che conosceva fin da ragazzo. Eppure il percorso era sempre molto simile, con tappe obbligatorie in luoghi ben noti come «il battesimo dello spirito», «il Signore rende tutto nuovo» e «attingere direttamente alla fonte». Il viaggio finiva invariabilmente con un invito al risveglio rivolto al gregge ben disposto e redento ormai da tempo. 
L’unica consolazione era che le altre congregazioni della città non se la passavano molto meglio. Una baracca cadente con un perenne odore di chiuso, ecco cos’era il tempio di Dio a Kiruna. 
Gunnar si alzò e si diresse verso l’uscita. Arrivato al punto in cui avevano trovato il corpo di Viktor, rallentò il passo in segno di rispetto. C’era già un mucchietto di fiori e di biglietti sul pavimento. Le rivolse un rapido sorriso e una strizzatina d’occhio. Un segnale che sembrava voler dire che andava in bagno o a scambiare due parole con qualcuno al guardaroba. 
Non era stupido. Per niente. Lo dimostrava il fatto che fosse riuscito ad arrivare dov’era. Al vertice di quella congregazione insieme a Thomas Söderberg e Vesa Larsson. Senza nessuna formazione da pastore. Senza nessun talento come pescatore di anime. Anche quello richiedeva una certa abilità. 
Ripensò a quando Gunnar le aveva detto che la Chiesa della Missione aveva un nuovo pastore. Con una giovane moglie. 
Qualche settimana dopo Thomas Söderberg aveva assistito a una funzione nella chiesa battista. Si era seduto nel secondo banco e aveva annuito in segno di approvazione alla predica di Gunnar, tra sorrisi di incoraggiamento e di sollecitudine. La moglie Maja al suo fianco, come un’allieva modello. 
Poi si erano fermati a bere il caffè con la congregazione. Fuori regnava un buio grigiastro e invernale. Nubi cariche di neve. Il giorno che si apprestava a finire senza nemmeno essere iniziato del tutto. 
Maja parlava sonoramente all’orecchio di Arvid Kalla. Aveva chiesto a Edit Svonni la ricetta dei biscotti. 
Thomas Söderberg e Gunnar si erano immersi in un’animata conversazione con due fratelli del direttivo. Alternanza di seri cenni d’assenso e risate fragorose come in un balletto ben studiato. 
E le domande d’obbligo a tutta la gente del sud: come vi trovate? Patite il freddo e il buio? La risposta era stata unanime: benissimo. Si trovavano benissimo. Non sentivano minimamente la mancanza del fango e della pioggia. Il prossimo Natale lo avrebbero festeggiato a Kiruna. 
Non si sentivano affatto mandati al confino in una terra inospitale. Nessun commento sul vento tagliente o sul buio che opprime il cuore. La loro risposta aveva addolcito i volti dei fedeli. 
Quando se n’erano andati, Gunnar le aveva detto: «Gente simpatica. Ha molte idee, il ragazzo.» 
Fu l’ultima volta che chiamò Thomas Söderberg, che pure aveva dieci anni di meno, “il ragazzo”. 
Due settimane più tardi aveva incontrato Thomas Söderberg in città. Lei stava spingendo la carrozzina in mezzo a una tormenta di neve. Andreas aveva due mesi e mezzo e dormiva. Lo spingeva avanti e indietro per le strade di Kiruna con la piccola Anna di due anni a rimorchio come un pacco piagnucolante. Aveva freddo ai piedi e alle mani. 
Si sentiva uno straccio. La stanchezza la invadeva come un impasto grigio che lievitava sempre di più. Avrebbe potuto crollare da un momento all’altro. Odiava Gunnar. Perdeva continuamente la pazienza con Anna. Voleva soltanto piangere. 
Thomas l’aveva raggiunta da dietro. Le aveva posato una mano sulla spalla sinistra mentre si portava al suo fianco. Un mezzo abbraccio per una frazione di secondo di troppo. Quando lei si era voltata, Thomas stava sorridendo. L’aveva salutata come se fossero vecchi amici. Aveva detto ciao ad Anna, che si era aggrappata alle gambe di lei rifiutandosi di rispondere. Aveva guardato Andreas come se fosse un angelo del Signore in bavaglino e babbucce. 
«Sto cercando di convincere Maja ad avere bambini» aveva ammesso. «Ma...» Non aveva concluso la frase. Aveva tirato un profondo respiro, lasciando morire il sorriso. Poi aveva recuperato il buon umore. «In effetti la capisco» aveva detto. «Siete voi donne a portare il carico più pesante. Sarà quando sarà.» 
Andreas si era mosso nella carrozzina. Era ora di tornare a casa ad allattarlo. Avrebbe voluto invitare Thomas a pranzo, ma non aveva osato chiederglielo. Le aveva fatto compagnia per un pezzo di strada. Era così facile parlare con lui. Gli argomenti di conversazione saltavano fuori da soli, collegandosi ai precedenti come anelli di una catena. Alla fine si erano ritrovati all’incrocio a cui avrebbero dovuto separarsi. 
«Vorrei fare di più per Dio» aveva detto lei. «Ma i bambini assorbono tutte le mie energie, e anche qualcosa di più.» 
La neve cadeva attorno a loro come uno sciame di frecce affilate, facendogli strizzare gli occhi. Sembrava un arcangelo dai ricci scuri in un piumino blu dall’aria poco costosa. I jeans infilati negli stivali alti. Il berretto di maglia fatto a mano con disegni inca. Si era chiesta se glielo avesse fatto Maja. Maja che non voleva avere bambini. 
«Ma Karin» aveva risposto. «Non capisci che stai facendo esattamente quello che vuole Dio? Occupati dei bambini. Sono la cosa più importante in questo momento. Ha dei progetti per te, ma in questo momento... in questo momento devi stare con Anna e Andreas.» 
Sei mesi dopo aveva organizzato il suo primo campo estivo. Un piccolo seguito di ragazzi appena redenti seguiva ogni suo passo come un corteo di paperottoli. Lo avevano scelto come genitore spirituale. Uno di loro era Viktor Strandgård. 
Lei, Gunnar, Vesa Larsson e sua moglie Astrid furono invitati a condividere la loro gioia quando erano stati battezzati. Gunnar aveva ingoiato l’invidia e aveva partecipato. Aveva capito che gli conveniva unirsi al campo del vincitore. Allo stesso tempo aveva dato inizio all’eterno confronto. Il desiderio di voler brillare a sua volta. Il suo sguardo aveva assunto un velo di malizia. 
Lei stessa non era senza colpa. Non aveva forse detto mille volte a suo marito: «Non lasciare che Thomas ti schiacci. Non può decidere tutto lui.» 
Era convinta di sostenere il marito. Ma forse in realtà aveva solo voluto cambiarlo. 
Thomas Söderberg si alzò e si avvicinò al coro gospel. Indossava un completo nero. Di solito le sue cravatte erano a colori vivaci, al limite dell’audace. Quella sera ne indossava una grigia e discreta. Un punto esclamativo rovesciato sotto la giacca. 
Portava la sua ricchezza senza ostentazione come una volta aveva portato la sua... non povertà, pensò... la sua mancanza di denaro. Due persone con uno stipendio da pastore. Ma la cosa non era mai sembrata preoccuparli. Nemmeno quando avevano avuto dei bambini. 
Poi le cose erano cambiate. Ora era lì nel suo elegante completo di lana a parlare con il coro. A dire che quello che era successo era terribile. Una delle ragazze scoppiò in singhiozzi. I compagni più vicini la circondarono con le braccia. 
Andava bene piangere, disse Thomas. Bisognava piangere i morti. Ma, e qui fece un gran respiro e pronunciò ogni parola singolarmente, separata da una breve pausa, non andava bene perdere. Non andava bene indietreggiare. Non andava bene battere in ritirata. 
Non ce la fece a stare a sentire il resto. Sapeva più o meno cosa avrebbe detto. 
«Ciao, Karin. Dov’è Gunnar?» 
Maja, la moglie di Thomas Söderberg, si sedette accanto a lei. Lunghi capelli lisci color sabbia. Un po’ di trucco discreto. Niente rossetto. Niente ombretto. Solo un velo di mascara e di fard. Non che Thomas avesse qualcosa in contrario alle donne truccate, ma Karin immaginava che preferisse una moglie senza trucco. Qualche anno prima Maja avrebbe voluto tagliarsi i capelli, ma Thomas si era opposto. 
«Era qui poco fa. Starà per tornare.» 
Maja annuì. 
«E Vesa e Astrid?» chiese. 
Rigido controllo delle presenze, quella sera. Karin sollevò le sopracciglia e scosse la testa in risposta. 
«È molto importante che stiamo tutti vicini» disse Maja a mezza voce. 
Karin guardò la rosa rossa sulle sue ginocchia. 
«La deporrai con gli altri fiori?» 
Maja annuì. 
«Ma aspetto che inizi l’incontro. Non riesco a rendermi conto che sia successo davvero. È così irreale.» 
Sì, è irreale, pensò Karin. Come andrà a finire senza Viktor? 
Viktor che si rifiutava di tagliarsi i capelli e di mettersi in giacca e cravatta. Che rinunciava a un aumento di stipendio e convinceva Thomas a dare il denaro a Medici senza frontiere. Ricordò quando era andata al raduno a Stoccolma, sette anni prima. Il suo stupore quando aveva visto tutti quei ragazzi uguali a Viktor. In metropolitana e nei caffè. Brutti berretti lavorati a ferri o all’uncinetto. Borse a tracolla. Jeans che pendevano dai fianchi stretti. Giacche di camoscio anni sessanta. L’andatura lenta e noncurante. Una specie di antimoda riservata ai belli e sicuri di sé. 
Viktor apparteneva alla corte di Thomas Söderberg ma non si era mai trasformato a sua immagine e somiglianza. Piuttosto l’opposto. Nullatenente e senza ambizioni. Morigerato. Anche se questo forse dipendeva dal fatto che Rebecka Martinsson lo aveva distrutto con la sua follia. Era difficile dirlo con certezza. 
Ora Maja si chinò verso di lei. Un bisbiglio all’orecchio. 
«Ecco Astrid. Ma dov’è Vesa?» 

La moglie del pastore Vesa Larsson entrò nella chiesa di Cristallo. Sul palco Thomas Söderberg stava pregando con il coro gospel prima della funzione. 
La camminata in salita dal parcheggio le aveva appiccicato la camicetta sotto le ascelle. Per fortuna aveva un cardigan. Si passò rapidamente un dito sotto gli occhi nel caso le fosse colato il mascara. Una volta si era vista in uno dei filmati degli incontri. Fuori nevicava e lei era passata a raccogliere le offerte conciata come un panda ammaestrato. Da allora si controllava sempre allo specchio del guardaroba. Ma quella sera era pieno di gente e lei era così stressata. 
Nello spazio circolare lasciato dalle sedie era stato deposto un mucchio di fiori e biglietti. 
Viktor è morto, pensò. 
Cercava di convincersi che era vero. 
Viktor è morto sul serio. 
Poi vide Karin e Maja. Maja le rivolse un cenno frenetico con la mano. Non aveva una sola possibilità di evitarle. Non le restava che raggiungerle. Erano entrambe vestite di scuro. Lei invece aveva frugato nell’armadio per un’ora. Tutti i suoi abiti erano rossi, rosa e gialli. Aveva un unico tailleur scuro. Blu marino. Ma la cerniera della gonna non si chiudeva. Alla fine aveva scelto un lungo cardigan di maglia che le nascondeva il sedere e le cosce. Ora che vedeva Karin e Maja si sentì trasandata. Trasandata e sudata. 
«Dov’è Vesa?» bisbigliò Maja prima ancora di darle il tempo di sedersi. 
Sorriso amichevole. Occhi pericolosi. 
«È malato» rispose. «Ha l’influenza.» 
Si rese conto che non le avevano creduto. Maja richiuse la bocca e inspirò dal naso. 
In fondo avevano ragione. Tutto il suo corpo rifiutava quasi dolorosamente di sedersi lì, ma si accasciò ugualmente sulla sedia accanto a Maja. 
E Thomas aveva finito di pregare con il coro e si dirigeva verso di loro. 
Così dovrò rispondere anche a lui, pensò la donna. 
Sentì una fitta quando Thomas posò una mano sul braccio di Maja e le rivolse un rapido, caldo sorriso di saluto. Poi le chiese di Vesa. Astrid rispose di nuovo: «È malato. Ha l’influenza.» Thomas la guardò con compassione. 
Povera donna, con un marito così debole, immaginò che stesse pensando. 
«Vai pure a casa, se sei preoccupata per lui» disse Thomas. 
Scosse la testa obbediente. 
Preoccupata. Provò a ripetere tra sé la parola. 
No, avrebbe dovuto preoccuparsi parecchi anni prima. Ma allora era troppo impegnata a stare dietro ai bambini e alla casa. E quando aveva scoperto di avere motivo di preoccupazione era già troppo tardi. Era già ora dei rimpianti. Di superare il dolore di essere abbandonata. Di imparare a convivere con la vergogna di non contare abbastanza per Vesa. 
Era quella la vergogna. Che la faceva restare seduta accanto a Maja anche se non ne aveva nessuna voglia. Che la faceva ingozzare di pane ancora mezzo congelato davanti alla porta aperta del frigorifero quando i ragazzi erano a scuola. 
Era vero che andavano ancora a letto insieme, anche se raramente. Ma al buio. In silenzio. 
E poi quella mattina. I ragazzi erano andati a scuola. Vesa dormiva nello studio. Quando era andata a portargli il caffè si era seduto sul letto in pigiama. Con la barba lunga e gli occhi gonfi. Linee profonde attorno alla bocca. Le sue belle mani da artista dalle dita lunghe parcheggiate sulle ginocchia. Il pavimento attorno al letto ingombro di libri. Costosi libri d’arte dalle pagine satinate. Molti sulle icone russe. Sottili tascabili della loro stessa casa editrice. All’inizio era Vesa a curare le copertine. Poi all’improvviso si era messo in testa di non avere tempo. 
Aveva posato il vassoio con il caffè e le tartine sul pavimento. Poi si era inginocchiata sul letto dietro il marito. I fianchi di lui stretti tra le ginocchia di lei. Aveva lasciato che la vestaglia si aprisse e gli aveva premuto il seno e la guancia contro la schiena mentre gli stringeva le spalle con le mani. 
«Astrid» si era limitato a dire lui. 
Imbarazzato e dispiaciuto. Riempiendo il suo nome di scuse e sensi di colpa. 
Lei era andata in cucina. Aveva acceso la radio e la lavastoviglie. Aveva preso Baloo sulle ginocchia e aveva pianto nella pelliccia del cane. 
Thomas Söderberg si chinò verso le tre donne abbassando la voce. 
«Avete avuto notizie di Sanna?» chiese. 
Astrid, Karin e Maja scossero la testa. 
«Chiedi a Curt Bäckström» disse Astrid. «Le sta sempre appresso.» 
Le mogli dei pastori girarono le teste come periscopi. Fu Maja a vederlo per prima. Agitò una mano facendogli cenno di raggiungerle finché l’uomo si alzò a malincuore e si diresse verso di loro. 
Karin lo osservò. Sembrava sempre così ansioso. Camminava un po’ esitante, quasi di sbieco. Come se avvicinarsi di fronte fosse troppo aggressivo. Le guardava con la coda dell’occhio, ma spostava sempre lo sguardo appena qualcuno cercava di incrociarlo. 
«Sai dov’è Sanna?» chiese Thomas Söderberg. 
Curt scosse la testa. Per sicurezza aggiunse anche: «No.» 
Era chiaro che mentiva. Aveva gli occhi spaventati. E allo stesso tempo decisi. Non aveva intenzione di rivelare il suo segreto. 
Come un cane che ha trovato un osso nel bosco, pensò Karin. 
Curt li guardava da sotto in su. Quasi rannicchiato su se stesso. Come se Thomas da un momento all’altro potesse gridargli «lascia!» e dargli una botta sul naso. 
Thomas Söderberg sembrava irritato. Si agitava come se avesse voluto scuotersi di dosso le tre donne. 
«Voglio solo essere sicuro che stia bene» disse. «Non le deve succedere niente.» 
Curt annuì e lasciò scorrere lo sguardo sulla galleria che stava iniziando a riempirsi di gente. Alzò la Bibbia che aveva in mano e se la premette sul petto. 
«Voglio testimoniare» disse a bassa voce. «Dio ha qualcosa da dire.» 
Thomas Söderberg annuì. 
«E se senti Sanna, dille che ho chiesto di lei» aggiunse.  
Astrid lo guardò. 
E se tu senti Dio, pensò, digli che non faccio altro che chiedere di lui.
Il capo di Rebecka Martinsson, l’avvocato Måns Wenngren, era tornato a casa tardi, per non dire la mattina presto. Aveva passato la serata da Sophie’s, dove aveva offerto da bere a due ragazze insieme a un cliente dello studio, socio di un’impresa informatica di recente quotata in borsa, specializzata in tecnologia industriale. Quelli erano clienti piacevoli. Grati per ogni singola corona che riuscivano a sottrarre al fisco. I clienti accusati di falso in bilancio o di reati fiscali di solito non avevano voglia di bere qualcosa con il proprio avvocato. Preferivano ubriacarsi a casa da soli. 
Quando Sophie’s aveva chiuso, aveva mostrato il suo bell’ufficio accogliente a Marika, una delle ragazze, e poi l’aveva fatta salire su un taxi con qualche banconota in mano. 
Entrando nella casa buia di Floragatan, come al solito si disse che avrebbe dovuto trovarsi un appartamento più piccolo. Non c’era da stupirsi se ogni volta che tornava a casa si sentiva, sì... come si sentiva di nuovo in quel momento, a trovare l’appartamento così deserto... 
Gettò su una sedia il cappotto di cachemire grigio e accese ogni interruttore che trovò andando in soggiorno. Dato che raramente era a casa prima delle undici, il timer del videoregistratore era sempre programmato sull’ora dei notiziari. Accese l’apparecchio e mentre partiva la sigla del telegiornale di TV4 andò in cucina ad aprire il frigorifero. 
Ritva aveva fatto la spesa. Bene. Doveva essere un gioco da ragazzi tenere pulito il suo appartamento e riempirgli il frigorifero di cibo fresco. Non metteva mai in disordine, tranne le poche volte in cui invitava gente a casa. Le cibarie comprate da Ritva in genere erano ancora intatte quando venivano sostituite da altre più fresche. Immaginava che se le portasse a casa prima che si guastassero. A lui andava benissimo. Aprì un cartone di latte e bevve direttamente dalla confezione, aguzzando le orecchie verso il soggiorno. L’omicidio di Viktor Strandgård era la notizia del giorno. 
Era per quello che Rebecka era andata a Kiruna, pensò Måns Wenngren tornando in soggiorno. Sprofondò nel divano di fronte alla tv con il cartone di latte in mano. 
«Il noto personaggio religioso Viktor Strandgård è stato trovato morto nella chiesa di Cristallo a Kiruna» disse la conduttrice. 
Era una elegante donna di mezza età che era stata sposata con un conoscente di Måns. 
«Ciao, Beate, come va?» disse questi sollevando il cartone di latte verso lo schermo come in un brindisi, per poi bere una profonda sorsata. 
«Secondo fonti interne alla polizia, è stata la sorella di Viktor Strandgård a trovare 0 cadavere, e sempre secondo la stessa fonte l’omicidio è stato molto brutale» proseguì l’annunciatrice. 
«Dai, Beate, tutto questo lo sappiamo già» disse Måns. 
All’improvviso si rese conto di quanto era ubriaco. Si sentiva il cervello lento e stupido. Decise di farsi una doccia non appena finito il telegiornale. 
L’annunciatrice lanciò un servizio. Una voce maschile accompagnava le immagini che scorrevano sullo schermo. Prima riprese invernali dell’imponente chiesa di Cristallo in cima alla collina. Poi immagini della polizia che batteva la zona attorno alla chiesa. Avevano anche inserito alcuni fotogrammi di un incontro della congregazione, presentando brevemente la figura di Viktor Strandgård. 
«Non c’è dubbio che l’accaduto abbia suscitato forte commozione a Kiruna» proseguì il giornalista. «Lo si è potuto verificare questa sera, quando Sanna Strandgård, sorella della vittima, si è presentata alla stazione di polizia per essere interrogata in compagnia del suo avvocato.» 
Le immagini ora mostravano un parcheggio coperto di neve. Una giovane giornalista correva affannata verso due donne che scendevano da un’Audi. I capelli rossi le spuntavano come una coda di volpe dal berretto di lana. Era buio, ma si intravedeva una facciata di mattoni rosso spento sullo sfondo. Non poteva essere altro che la stazione di polizia. Una delle donne che scese dall’Audi teneva la testa china e non si vide altro che una giacca di montone e un berretto di pelo calato fin sugli occhi. L’altra era Rebecka Martinsson. Måns alzò il volume e si piegò in avanti sul divano. 
«Che cazzo» borbottò tra sé. 
Rebecka gli aveva detto che andava lassù perché era un’amica di famiglia, pensò. La notizia che fosse l’avvocato della sorella doveva essere un errore. 
Osservò il volto teso di Rebecka mentre si dirigeva a passi rapidi verso la stazione di polizia con un braccio attorno all’altra donna, che doveva essere la sorella di Viktor Strandgård. Con il braccio libero cercava di tenere lontano il microfono della donna che le rincorreva. 
«È vero che gli hanno cavato gli occhi?» chiese la giornalista con un marcato accento di Luleå. 
«Come ti senti, Sanna?» proseguì quando non ottenne risposta. «È vero che avevi con te le bambine quando lo hai trovato?» 
Una volta arrivate all’ingresso della stazione di polizia, la volpe rossa sbarrò loro risolutamente la strada. 
«Mio dio» sospirò Måns. «Cos’è questa storia? La versione lappone del giornalismo d’assalto all’americana?» 
«Credete che si tratti di un omicidio rituale?» insisté la giornalista. 
La telecamera zumò sulle sue guance arrossate dal freddo per poi spostarsi sui profili di Rebecka e dell’altra donna. Sanna Strandgård alzò le mani a ripararsi il viso. Gli occhi grigi di Rebecka lampeggiarono verso la telecamera, poi si fissarono sulla giornalista. 
«Levati di mezzo» disse in tono secco. 
Le parole e l’espressione di Rebecka suscitarono un ricordo spiacevole nella memoria di Måns. Risaliva alla festa di Natale dell’anno prima. Aveva cercato di attaccare bottone e lei lo aveva guardato come se fosse qualcosa che aveva trovato pulendo lo scarico della doccia. Se non ricordava male, era esattamente quello che gli aveva detto. Con lo stesso tono secco: «Levati di mezzo.» 
Da quell’episodio Måns aveva tenuto le distanze. L’ultima cosa al mondo che voleva era che si sentisse molestata e desse le dimissioni. Ma non doveva nemmeno mettersi strane idee in testa. Se non aveva funzionato, pazienza. 
All’improvviso sullo schermo tutto capitò molto in fretta. Måns si fece attento e tenne pronto il dito sul tasto pausa del telecomando. Rebecka alzò un braccio per passare, e all’improvviso la giornalista era scomparsa dall’inquadratura. Rebecka e Sanna Strandgård le passarono più o meno sopra ed entrarono nella stazione di polizia. La telecamera seguì le loro schiene mentre si sentiva la voce infuriata della giornalista che diceva: «Ahi, il braccio. Hai ripreso la scena?» 
A questo punto si inserì di nuovo la voce del giornalista della redazione. 
«L’avvocato lavora per il noto studio Meijer & Ditzinger di Stoccolma, ma nessuno dai loro uffici ha voluto commentare gli avvenimenti della serata.» 
Måns vide scioccato che avevano inserito un’immagine d’archivio della facciata dello studio. Premette il tasto pausa. 
«Non posso crederci, cazzo» imprecò, alzandosi dal divano con tanta foga da rovesciarsi il latte sulla camicia e sui pantaloni. 
Cosa diavolo stava combinando, pensò. Aveva davvero assunto il patrocinio di quella Sanna Strandgård senza l’autorizzazione dello studio? Doveva esserci un equivoco. Non poteva essere stata così avventata. 
Afferrò il cellulare e compose un numero. Nessuna risposta. Si premette la radice del naso tra pollice e indice cercando di riordinare i pensieri. Mentre andava a prendere il computer portatile, compose un altro numero di telefono. Ancora nessuna risposta. Era sudato e senza fiato. Posò il computer sul tavolo della cucina e rifece partire il videoregistratore. Ora si vedeva il pm Carl von Post davanti alla chiesa della Fonte della Forza. 
«Maledizione» imprecò Måns cercando di aprire il computer mentre teneva il cellulare tra l’orecchio e la spalla. 
Si sentiva goffo e agitato. 
Finalmente trovò l’auricolare, in modo da poter telefonare e usare il computer allo stesso tempo. Tutti i numeri che chiamò squillavano senza che nessuno rispondesse. Sicuramente i telefoni si erano arroventati durante il telegiornale. Gli altri soci si dovevano essere chiesti cosa diavolo ci facesse uno dei suoi tributaristi lassù a stendere una giornalista in diretta. Controllò la segreteria telefonica e vide che c’erano quindici messaggi. Quindici. 
Carl von Post lo guardava fisso dallo schermo mentre dava i primi ragguagli sull’indagine. Erano i soliti commenti di rito su ricerche che proseguivano a ritmo serrato, controlli a tappeto, interrogatori dei membri della congregazione e ricerche dell’arma del delitto. Il pm indossava un’elegante giacca di lana grigia con sciarpa e guanti intonati. 
«Dannato damerino» commentò Måns Wenngren senza rendersi conto che Carl von Post si vestiva quasi esattamente come lui. 
Finalmente qualcuno rispose al telefono. Era l’irritato marito di uno dei soci donna dello studio. Era sposata con un uomo molto più giovane che viveva a spese della moglie di successo, facendo finta di studiare all’università o qualcosa del genere. 
Poteva andarsene affanculo, lui e il suo tono irritato, pensò Måns. 
Quando la collega prese il ricevitore, il colloquio fu molto breve. 
«Possiamo incontrarci subito?» chiese Måns irritato.  
«In piena notte?» 
Guardò il suo Breitling. Le quattro e un quarto. 
«D’accordo, allora ci vediamo alle sette. Cerchiamo di rintracciare anche gli altri.» 
Quando chiuse la conversazione mandò una mail a Rebecka Martinsson. Non aveva nemmeno risposto al telefono. Chiuse il computer e si alzò, sentendosi i pantaloni appiccicati alle gambe. Abbassò lo sguardo e vide il latte che aveva rovesciato. 
«Brutta stronzetta» borbottò togliendosi i pantaloni. «Brutta stronzetta.»

E fu sera e fu mattina:
il secondo giorno


L’ispettrice di polizia Anna-Maria Mella dorme un sonno irrequieto nell’ora del lupo, l’ora in cui il sonno è più profondo e gli incubi più vividi. Il cielo è coperto e la stanza è buia. Sembra quasi che Dio abbia messo una mano a coppa sulla città come un bambino che ha catturato un insetto. Ora nessuno potrà sfuggire.
Anna-Maria gira la testa di qua e di là per sfuggire alle voci e ai volti del giorno appena concluso che si sono trasferiti nel suo sogno. Il bambino le scalcia energicamente nella pancia. 
Nel sogno il pm Carl von Post avvicina il volto a Sanna Strandgård e cerca di estorcerle risposte che non può dare. Minaccia di interrogare le sue figlie, se non risponde. E più domande fa, più lei si chiude in se stessa. Alla fine sembra non ricordare più niente. 
«Cosa ci facevi in chiesa in piena notte? Cosa ti ha spinta ad andarci? Qualcosa devi pur ricordare. Hai visto qualcun altro? Ti ricordi di aver chiamato la polizia? Eri arrabbiata con tuo fratello?» 
Sanna nasconde il viso fra le mani. 
«Non ricordo. Non lo so. È venuto a trovarmi in piena notte. All’improvviso era accanto al mio letto. Aveva l’aria triste. Quando si è dissolto nell’aria ho capito che doveva essere successo qualcosa...» 
«Si è dissolto?»  
Il pm sembra non sapere se ridere omollarle uno schiaffo. 
«Quindi avresti ricevuto la visita di un fantasma e capito che era successo qualcosa a tuo fratello?»  
Anna-Maria si lamenta fino a svegliare Robert, che si solleva su un gomito e le accarezza i capelli. 
«Ssst, Mia-Mia» la tranquillizza. Continua a ripetere il suo nome e ad accarezzarle i capelli color paglia finché la donna fa un respiro profondo e si calma. Rilassa il volto e smette di lamentarsi. Quando riprende a respirare calma e regolare, si riaddormenta anche lui. Chi conosce Carl von Post penserà che quella notte dorma bene. Che la giornata appena trascorsa gli abbia permesso di fare il pieno di attenzioni e sogni d’oro per il futuro. Dovrebbe dormire con un sorriso soddisfatto sulle labbra. Ma anche Carl von Post si gira e si rigira nel letto. Stringe la mascella digrignando i denti. Il suo sonno è sempre così. Gli avvenimenti della giornata non hanno cambiato le cose. 
Rebecka Martinsson? Dorme profondamente nel divano letto nella casa dei suoi nonni. Il suo respiro è calmo e regolare. Tjapp è sdraiata accanto a lei e Rebecka dorme con le braccia strette attorno al suo corpicino caldo e il naso affondato nella lanosa pelliccia nera. Qui i suoni del mondo esterno non arrivano. Niente macchine e niente aerei. Niente nottambuli rumorosi e niente pioggia che batte contro le finestre. Nella camera accanto, Lova 
mormora nel sonno e si stringe più vicino a Sanna. La casa scricchiola e geme, come se anche lei si rivoltasse nel sonno. 

Martedì 18 febbraio

Appena prima delle sei, Tjapp svegliò Rebecka premendole il naso sul viso. 
«Buon giorno, cucciola» bisbigliò. «Cosa vuoi? Devi fare i bisognini?» 
Armeggiò in cerca della lampada e l’accese. La cagnetta trotterellò uggiolando verso la porta, poi tornò verso Rebecka e le premette di nuovo il naso sul viso. 
«Ho capito, ho capito.» 
Si alzò a sedere sul letto ma rimase avvolta nella coperta. Faceva freddo in cucina. Tutto qui dentro mi ricorda la nonna, pensò. Mi sembra ieri che dormivo con lei nel divano letto e al mattino potevo restare al caldo sotto le coperte mentre lei si alzava ad accendere la stufa e a preparare il caffè. 
Le sembrava di vedere Theresia Martinsson seduta al tavolo a ribalta ad arrotolarsi la prima sigaretta del mattino. Usava carta di giornale al posto delle cartine, che secondo lei costavano troppo. Strappava accuratamente il margine di una pagina del «Norrbottenskurir» del giorno prima. Era della larghezza giusta e senza inchiostro, perciò perfetto per lo scopo. Ci spargeva sopra una presa di tabacco e arrotolava una sigaretta sottile tra i pollici e gli indici. Indossava il grembiule a scacchi blu e neri e aveva capelli argentei accuratamente infilati sotto il fazzoletto. Nella stalla le vacche muggivano per chiamarla. «Buon giorno pikku-piika» le diceva con un sorriso. «Sei sveglia?» 
Pikku-piika. Signorina.  
Tjapp abbaiò impaziente. 
«Arrivo, arrivo» rispose Rebecka. «Devo solo accendere la stufa.»  
Aveva dormito con i calzettoni di lana ai piedi, e sempre avvolta nella coperta si avvicinò alla vecchia stufa e aprì lo sportello. Tjapp si sedette pazientemente davanti alla porta ad aspettare. Ogni tanto uggiolava per essere sicura di non venire dimenticata. 
Rebecka prese un coltellaccio e staccò con mano esperta alcune schegge da un ceppo accanto alla stufa. Appoggiò due ciocchi di pino sopra un mucchietto di pezzi di corteccia e schegge di legno e accese. Il fuoco prese rapidamente. Infilò un ciocco di betulla che avrebbe bruciato più lentamente del pino e richiuse lo sportello.  
Dovrei dedicare più tempo a pensare alla nonna, si disse. Chi ha detto che è meglio concentrarsi sul presente? Nella mia memoria ci sono molte stanze abitate dalla nonna. Ma non passo mai un po’ di tempo con lei. E cos’ha da offrire il presente? 
Tjapp ringhiò e fece una piroetta accanto alla porta. Rebecka si infilò i vestiti. Erano gelati e la costrinsero a vestirsi con movimenti rapidi e bruschi. Infilò i piedi in un paio di stivali che trovò in ingresso. 
«Dovrai fare in fretta» disse a Tjapp. 
Uscendo accese la luce fuori dalla casa e dalla stalla. 
La temperatura era un po’ più mite. Il termometro segnava quindici gradi sotto zero e il cielo basso nascondeva la luce degli astri. Tjapp si accucciò poco lontano e Rebecka si guardò attorno. Il giardino era stato spalato fino alla porta della stalla. La neve era stata ammucchiata contro le pareti della casa per isolarle dal freddo. 
Chi era stato, si chiese Rebecka? Possibile che sia stato Sivving Fjällborg? Che continui a spalare il cortile della nonna anche se lei non c’è più? Ormai dovrebbe essere attorno alla settantina. 
Cercò di distinguere nel buio la casa di Sivving dall’altro lato della strada. Più tardi, con il chiaro, avrebbe controllato se sulla cassetta delle lettere ci fosse ancora scritto Fjällborg. 
Avanzò lungo la parete della stalla. La luce esterna si rifletteva sulle rose di brina sulle finestre sbarrate. La seconda porta era quella della serra della nonna. Le vetrate rotte fissavano Rebecka con occhi vuoti e accusatori. 
Dovresti stare qui, dicevano. Dovresti occuparti della casa e del giardino. Guarda com’è ridotto l’intonaco. Immagina in che condizioni saranno le tegole sotto la neve. E la nonna che era sempre così attenta. Così attiva. 
Come se le avesse letto nei pensieri cupi, Tjapp arrivò di corsa abbaiando allegramente dal buio del giardino. 
«Ssst» rise Rebecka. «Sveglierai tutto il paese.» 
Subito arrivarono in risposta due latrati lontani. La cagnetta nera ascoltò attentamente. 
«Non pensarci nemmeno» la avvertì Rebecka. 
Forse avrebbe dovuto portare un guinzaglio. 
Tjapp le lanciò un’occhiata obbediente e decise che anche Rebecka poteva essere accettabile come compagnia. Infilò allegramente il naso nella neve sottile, si rialzò e scosse la testa. Poi invitò Rebecka a giocare battendo le zampe davanti sul terreno e appiattendo la parte anteriore del corpo. 
Dai, giochiamo, dicevano i suoi occhi neri. 
«Ti prendo!» gridò allegramente Rebecka lanciandosi verso il cane. 
Ruzzolò immediatamente a terra. Tjapp arrivò di corsa come un uragano, la superò con un balzo degno di un cane da circo, si rigirò nello spazio di un francobollo e si fermò con la lingua rosa penzoloni e un sorriso canino a incitare Rebecka a rialzarsi e provare ancora. Rebecka rise e si lanciò di nuovo all’inseguimento del cane. Tjapp volò oltre il mucchio di neve e Rebecka le si arrampicò dietro. Poi affondarono entrambe nella neve intatta. 
«Mi arrendo» disse Rebecka ansimando dopo una decina di minuti. 
Era seduta sul terreno ghiacciato, con le guance rosse e coperta di neve. 
Quando tornarono dentro, Sanna si era alzata e stava preparando il caffè. Rebecka si spogliò. Gli strati più esterni si infradiciarono rapidamente per la neve che si scioglieva, mentre quelli più vicini al corpo erano già zuppi di sudore. Trovò una maglietta, un maglione Helly-Hansen e un paio di mutandoni lunghi dello zio Affe in un cassetto. 
«Carino» commentò Sanna con una risatina. «Mi fa piacere vedere che ti adegui in fretta alla moda locale.» 
«Un bel paio di mutandoni dona a chiunque» rispose Rebecka agitando il fondoschiena per sventolare il tessuto cascante. 
«Dio, quanto sei magra» esclamò Sanna. 
Rebecka raddrizzò immediatamente la schiena e si versò il caffè in silenzio. 
«Sembri proprio prosciugata, dovresti mangiare e bere meglio.» 
Parlava con voce dolce e preoccupata. 
«Sì» sospirò vedendo che Rebecka continuava a tacere. «È una fortuna per chi so io che gli uomini apprezzino un po’ di carne. Anche se naturalmente sarebbe bello essere così piatte.» 
Fortuna per me che mi trovi carina almeno tu, allora, pensò Rebecka sarcastica. 
Il suo silenzio rendeva Sanna loquace e insicura. 
«Ma sentimi» disse. «Sembro davvero una chioccia. Tra un po’ ti chiederò se prendi le vitamine.» 
«Ti spiace se guardo il telegiornale?» chiese Rebecka. 
Senza aspettare la sua risposta andò alla tv e la accese. L’immagine era disturbata. Probabilmente c’era della neve sull’antenna. 
Dopo un servizio su un caso di malversazione di fondi europei, partì quello sull’omicidio di Viktor Strandgård. La voce del giornalista raccontò che la caccia all’assassino proseguiva con indagini di routine e che la polizia non aveva ancora alcun sospetto. Sullo schermo le immagini si susseguivano. Poliziotti che battevano con i cani la zona attorno alla chiesa di Cristallo in cerca dell’arma del delitto. Il pm Carl von Post che raccontava di ricerche a tappeto, interrogatori di membri della congregazione e frequentatori delle funzioni. Poi apparve la Audi rossa di Rebecka. 
«Oh no» esclamò Sanna posando rumorosamente la tazza di caffè sul tavolo. 
«Anche la sorella di Viktor Strandgård, che ha trovato il corpo della vittima, è stata sentita ieri sera dalla polizia, dopo un antefatto piuttosto concitato.» 
La scena venne trasmessa per intero, anche se nel servizio del mattino il sonoro era stato cancellato, tranne il «levati di mezzo» soffocato di Rebecka. La notizia che la giornalista aveva denunciato l’avvocato per aggressione venne data brevemente prima delle previsioni del tempo che sarebbero andate in onda dopo la pubblicità. «Ma non hanno fatto vedere com’era invadente e insopportabile quella giornalista» disse Sanna meravigliata. 
Rebecka sentì una fitta al diaframma. 
«Cosa c’è?» chiese Sanna. 
Cosa posso risponderle, si disse Rebecka abbandonandosi su una sedia. Che ho paura di perdere il lavoro. Che mi ostracizzeranno fino a costringermi a dare le dimissioni. Mentre lei ha perso il fratello. Dovrei chiederle di nuovo di Viktor. Chiederle se ha voglia di parlarne. Solo che non voglio essere di nuovo coinvolta nella sua vita e assumermi responsabilità al posto suo. Voglio tornare a casa. Voglio sedermi al computer a scrivere una relazione sugli oneri pensionistici. 
«Cosa credi che sia successo, Sanna?» le chiese. «Con Viktor, voglio dire. Hai detto che è stato mutilato. Chi credi che possa aver fatto una cosa del genere?» 
Sanna si agitò sulla sedia, a disagio. 
«Non lo so. È quello che ho detto anche alla polizia. Davvero non lo so.» 
«Non hai avuto paura quando lo hai trovato?»  
«Non ci ho pensato.» 
«Cos’hai pensato, allora?» 
«Non lo so» disse Sanna mettendosi le mani in testa. «Credo di aver gridato, ma non sono sicura nemmeno di questo.» 
«Hai detto alla polizia che è stato Viktor a svegliarti, che è per quello che sei andata lì.» 
Sanna alzò gli occhi e fissò Rebecka. 
«Lo trovi davvero così strano? Credi che tutto finisca solo perché il corpo smette di funzionare? Era in piedi accanto al mio letto, Rebecka. Aveva l’aria incredibilmente triste. E mi sono resa conto che non era lì fisicamente. Così ho capito che era successo qualcosa.» 
No, non lo trovo affatto strano, pensò Rebecka. Sanna ha sempre visto più cose di tutti noi. Un quarto d’ora prima che qualcuno le facesse un’improvvisata, lei metteva su il caffè. «Sta arrivando Viktor» diceva semplicemente. 
«Eppure...» iniziò Rebecka. 
«Per favore» disse Sanna. «Non ne voglio parlare. Non oso. Non ancora. Devo tenere duro. Per le bambine. Grazie per essere venuta. Anche se sei una donna in carriera. Tu forse crederai che abbiamo perso i contatti, ma io ti penso spesso. Mi dà forza anche solo sapere che ci sei.» 
Ora era Rebecka ad agitarsi a disagio. 
Smettila, pensò. Non siamo amiche. Una volta contava così tanto quello che pensava di me. Che dicesse che ero importante per lei. Ma ora mi dà solo l’impressione che mi stia tessendo attorno una tela. 
Tjapp fu la prima a sentire il rumore della motoslitta e le interruppe per mettersi a ringhiare. Raddrizzò le orecchie e guardò fuori dalla finestra. 
«Sta arrivando qualcuno?» chiese Rebecka. Non capiva da dove arrivasse il rumore, ma le sembrava che qualcuno avesse fermato la motoslitta in folle nei paraggi della casa. Sanna appoggiò la fronte al vetro con le mani a coppa attorno agli occhi per vedere qualcosa che non fosse la sua immagine riflessa. 
«Ah, no» esclamò con una risata imbarazzata. «È Curt Bäckström. È lui che ci ha dato un passaggio fino a qui. Credo che sia un po’ innamorato di me. Ma è davvero gentile. Assomiglia vagamente a Elvis. Forse potrebbe essere il tuo tipo, Rebecka.» 
«Piantala» disse Rebecka in tono deciso. 
«Cosa c’è? Cos’ho fatto?» 
«Hai sempre fatto così da quando ti conosco. Attiri un sacco di fuori di testa e poi dici che sono i tipi per me. No, grazie.» 
«Scusami» rispose Sanna in tono ferito. «Mi dispiace se la gente che conosco non è abbastanza distinta per te. E come fai a dire che è fuori di testa? Non lo conosci nemmeno.» 
Rebecka si avvicinò alla finestra e guardò in cortile. 
«Se ne sta seduto sulla sua motoslitta, praticamente in piena notte, a montare la guardia alla tua casa, senza salire. Ho detto tutto.» 
«E non è mica colpa mia se certi uomini mi si attaccano» proseguì Sanna. «O forse pensi anche tu che sono una puttana, come Thomas.» 
«No. Ti chiedo semplicemente di evitare di fare commenti sul mio aspetto o di offrirmi i tuoi corteggiatori respinti.» 
Rebecka afferrò la sua borsa e si chiuse in bagno sbattendo la porta. 
«Digli di salire» gridò verso la cucina. «Non può restare seduto lì al freddo come un cane abbandonato.» 
Mio dio, pensò mentre chiudeva a chiave la porta del bagno. L’abbigliamento indecente di Sanna. Non è più un mio problema. Ma all’epoca irritava molto Thomas. E visto che io e Sanna dividevamo un appartamento, per qualche strano motivo era una mia responsabilità. 
«Vorrei che parlassi a Sanna del suo abbigliamento» le dice Thomas Söderberg. 
Non è contento di lei. Lo percepisce in ogni poro. Ed è come sentirsi schiacciata a terra. Quando sorride si spalancano le porte del cielo e sente l’amore di Dio, anche se non la sua voce. Ma quando Thomas assume quell’espressione delusa, tutto in lei sembra spegnersi. Non resta che una stanza deserta. 
«Ci ho provato» si difende. «Le ho detto che deve fare attenzione a come si veste. Che non deve usare maglie così scollate. E che deve portare il reggiseno e usare gonne più lunghe. E lei lo capisce, ma... sì, è come se la mattina non vedesse cosa si mette. Se non sono lì a controllare, se ne dimentica. Poi la si incontra per strada e sembra...» 
Esita davanti alla parola “puttana”. A Thomas non piacerebbe sentirle usare una parola del genere. 
«... e sembra non so cosa» riprende. «Le chiedi com’è vestita e si guarda stupita. Non lo fa apposta.» 
«Non mi importa se non lo fa apposta» dice Thomas Söderberg in tono duro. «Finché non si vestirà in modo adeguato non le permetterò di assumere un ruolo di spicco nella congregazione. Come faccio a lasciarla testimoniare o cantare nel coro o guidare la preghiera quando il novanta per cento degli uomini non farebbe che guardarle i capezzoli che si intravedono sotto il maglione o pensare di infilarle una mano fra le gambe?» 
Tace e guarda fuori dalla finestra. Sono seduti nella sala di preghiera sul retro della chiesa. La luce aspra del sole primaverile entra dalle finestre alte e strette. La chiesa è ospitata in un edificio in cemento progettato da Ralph Erskine. Gli abitanti di Kiruna lo chiamano “il barattolo di tabacco”. E per amore di coerenza la chiesa finisce per essere chiamata “la presa del Signore”. Rebecka trova che fosse più bella prima. Austera e spartana. Come un convento, con i muri e il pavimento in cemento grezzo e i banchi di legno. Ma Thomas Söderberg ha fatto sostituire il vecchio pulpito fisso con uno mobile in legno. E ha fatto mettere il parquet. Perché non fosse così deprimente. Ora sembra una chiesa qualunque. 
Thomas fa scorrere lo sguardo sul soffitto, dove c’è una macchia di umidità. Si forma sempre alla fine dell’inverno, quando la neve inizia a sciogliersi. 
Quel modo di restare in silenzio e di evitare il suo sguardo fa capire tutto a Rebecka. Thomas Söderberg è arrabbiato con Sanna perché tenta anche lui. Anche lui è uno degli uomini che vorrebbero infilarle una mano fra le gambe e... 
La rabbia le esplode nel petto come una rosa ardente. 
Maledetta, impreca fra sé. Brutta piccola sgualdrina. 
Sa che non è facile essere pastore. Thomas è sottoposto a ogni genere di tentazioni. Il nemico non vorrebbe altro che vederlo cadere. E il sesso è un suo punto debole. Lo ha confessato apertamente ai ragazzi del gruppo di studi biblici. 
Ricorda quando ha raccontato loro di avere ricevuto la visita di due angeli. Non aveva potuto evitare di sentirsi attratto da uno dei due. E lei se n’era accorta. 
«È la cosa peggiore che potrebbe succedere» aveva detto. «Mi trasformerei nel mio opposto. Diventerei un essere di oscurità quanto ora lo sono di luce.» 

Sanna bussò cautamente alla porta del bagno. 
«Rebecka» disse. «Scendo a dire a Curt di salire. Prima o poi hai intenzione di uscire di lì, no? Preferirei non restare sola con lui, e le bambine dormono...» 

Quando Rebecka uscì dal bagno, Curt Bäckström era seduto al tavolo della cucina. Stringeva tra le mani una tazza di caffè che portava cautamente verso le labbra chinando allo stesso tempo la testa per non doverla alzare troppo. Non si era tolto gli stivali e si era limitato a sfilarsi la parte superiore di una tuta da sci che gli pendeva alla vita. Lanciò un’occhiata di soppiatto a Rebecka e la salutò senza incrociare il suo sguardo. 
Come faceva a dire che somigliava a Elvis?, si domandò Rebecka. I capelli, naturalmente. E l’espressione triste. 
Curt aveva capelli neri e ondulati che lo spesso berretto di pelo gli aveva appiccicato alla fronte. Gli angoli esterni degli occhi gli pendevano un po’ verso il basso. 
«Accipicchia» esclamò Sanna ammirando Rebecka dalla testa ai piedi. «Come sei elegante. È strano, sono solo un paio di jeans e un maglione, eppure fanno il loro effetto. Si capisce che è roba di lusso. Scusami» aggiunse poi premendosi una mano su un sorriso imbarazzato. «Non dovevo fare commenti sul tuo aspetto.» 
«Volevo solo vedere come stavi» si inserì Curt.  
Allontanò la tazza del caffè per sottolineare che stava per andarsene. 
«Sto bene» rispose Sanna. «Insomma, per modo di dire. Ma Rebecka mi è stata di grande aiuto. Se non fosse venuta con me alla polizia, non so se ce l’avrei fatta.» 
Allungò una mano e sfiorò delicatamente il braccio di Rebecka. 
Rebecka vide i muscoli attorno alla bocca di Curt irrigidirsi. Spinse indietro la sedia per alzarsi. 
Brava, Sanna, pensò Rebecka. Digli quanto mi vesto bene. Quanto ti sono stata d’aiuto. E toccami, così capisce quanto siamo vicine. Così tu prendi le distanze e quella con cui lui se la prende sono io. Come se fossi un pedone da piazzare davanti alla regina minacciata. Ma io non sono il tuo chaperon. Il pedone si ribella. 
Posò velocemente una mano sulle spalle di Curt. 
«Resta ancora un po’» disse. «Fa’ compagnia a Sanna. Perché non fate colazione? Io devo scendere un attimo alla macchina a prendere il telefono e il computer. Poi mi siedo al piano di sotto a fare qualche telefonata e a scrivere qualche mail.» 
Sanna la seguì con uno sguardo difficile da interpretare mentre usciva nell’ingresso per infilarsi gli stivali. Erano bagnati, ma doveva solo scendere un attimo fino alla macchina. Sentiva Sanna e Curt che parlottavano a bassa voce in cucina. 
«Hai l’aria stanca» disse Sanna. 
«Sono stato in chiesa a pregare tutta la notte» rispose Curt. «Abbiamo iniziato una catena di preghiera, in modo che ci sia sempre qualcuno lì a pregare. Dovresti andarci anche tu. Prenotati anche solo per una mezz’ora. Thomas Söderberg ha chiesto di te.» 
«Ma non gli hai detto dove sono?» 
«No, è ovvio. Ma non dovresti allontanarti dalla congregazione in questo momento, anzi, è lì che ti dovresti rifugiare. E dovresti tornare a casa.» 
Sanna sospirò. 
«Non so più di chi fidarmi. Perciò non devi dire a nessuno che sono qui.» 
«Non lo farò. E se c’è qualcuno di cui ti puoi fidare, Sanna, sono io.» 
Rebecka si affacciò sulla soglia in tempo per vedere le mani di Curt che cercavano quelle di Sanna. 
«Le mie chiavi» disse Rebecka. «Sono sparite, sia quelle della macchina che quelle di casa. Devo averle perse nella neve mentre giocavo con Tjapp.» 
Rebecka, Sanna e Curt si misero a cercare le chiavi con le torce accese. Non aveva ancora iniziato a fare chiaro e i loro coni di luce fendevano l’oscurità, illuminando il cortile, i mucchi di neve e le impronte fresche.
«È un’impresa disperata» sospirò Sanna scavando in un punto a caso. «Le chiavi sprofondano se la neve non è battuta.»
Tjapp si piazzò accanto a lei e iniziò a scavare come una forsennata. Trovò un ramo e partì a razzo tenendolo in bocca.
«E anche di quella non c’è da fidarsi» disse seguendo con gli occhi Tjapp, che già dopo qualche metro era stata inghiottita dall’oscurità. «Potrebbe averle prese in bocca e mollate chissà dove.»
«Tanto vale che tu e Curt rientriate con il cane» disse Rebecka cercando di nascondere la sua irritazione. «Forse le bambine si saranno svegliate e tra un po’ non distinguerò più le mie orme dalle vostre.»
Aveva i piedi gelati e bagnati.
«Non voglio rientrare» piagnucolò Sanna. «Voglio aiutarti a trovare le chiavi. Le troveremo. Dovranno pur essere da qualche parte.»
Curt era l’unico che sembrava di buon umore. Sembrava quasi che il buio lo proteggesse un po’ dalla timidezza. E il movimento e l’aria fresca lo avevano rinvigorito.
«Questa notte è stato davvero incredibile!» raccontò a Sanna tutto eccitato. «Dio non faceva che ricordarmi la sua forza. Ne ero pieno fino all’orlo. Dovresti andare in chiesa, Sanna. Mentre pregavo sentivo la sua forza fluire in me. E ho iniziato a parlare in lingue Shakka baraj. E danzavo nello spirito. Ogni tanto mi sedevo e lasciavo che la Bibbia si aprisse dove Dio voleva che leggessi. Ed erano tutte promesse per il futuro. Pam, pam, pam. Una dopo l’altra.»
«Potreste pregare che ci faccia ritrovare le chiavi, allora» borbottò Rebecka.
«Sembrava quasi che mi incidesse negli occhi le parole della Bibbia con il laser» proseguì Curt. «Perché le diffondessi. Isaia, 43,19: “Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa”.»
«Puoi pregare anche da sola di trovare le tue chiavi» replicò Sanna.
Rebecka fece una risatina che sembrò piuttosto uno sbuffo.
«O Isaia, 48,6» proseguì Curt in tono solenne. «“Tutto questo hai udito e visto; non vorresti testimoniarlo? Ora ti faccio udire cose nuove e segrete che tu nemmeno sospetti”.»
Sanna raddrizzò la schiena e diresse la luce della torcia negli occhi di Rebecka.
«Hai sentito cosa ho detto?» chiese in tono serio. «Perché non preghi da sola per le tue chiavi?»
Rebecka alzò una mano per schermarsi dalla luce.
«Piantala!» disse.
«E credo che Dio mi abbia mostrato tutti i passi del Nuovo Testamento dove si dice che non bisogna travasare vino nuovo in orci vecchi» disse Curt a Tjapp, che ormai sembrava l’unica ad ascoltarlo. «Perché altrimenti scoppiano. E tutti i passi in cui si dice che non bisogna rattoppare un abito vecchio con del tessuto nuovo, perché il nuovo strapperebbe il vecchio facendo un danno peggiore.»
«Se vuoi che preghiamo per trovare le tue chiavi lo faremo» disse Sanna senza spostare il fascio di luce dal viso di Rebecka. «Ma non fingere che Dio ascolti più le preghiere mie e di Curt che le tue. Non calpestare il sangue di Gesù.»
«Piantala con questa storia» sibilò Rebecka puntando a sua volta la torcia verso il viso di Sanna. Curt tacque e osservò le due donne.
«Curt» chiese Rebecka guardando dritto nel fascio di luce della torcia di Sanna. «Credi che Dio ascolti allo stesso modo le preghiere di tutti?»
«Certo» disse. «Lui non ha problemi di udito, anche se poi ci può essere qualcosa che impedisce che venga fatta la sua volontà.»
«Ma se qualcuno non vive secondo la sua volontà? Allora Dio non può influenzare la sua vita allo stesso modo, non è così?»
«Già.»
«Ma così si arriva alla giustificazione per opere» esclamò Sanna disperata. «Che ruolo ha la grazia, allora? E Dio cosa credi che pensi di questa dottrina del prega-e-leggi-la-Bibbia-un’ora-al-giorno-per-una-fede-ben-riuscita? Io prego e leggo la Bibbia quando sento la sua mancanza. È così che vorrei essere amata. Perché Dio dovrebbe essere diverso? E la storia di vivere secondo la sua volontà. È uno degli scopi della vita. Non il mezzo per vincere alla lotteria delle preghiere.»
Curt non rispose.
«Scusami, Sanna» disse Rebecka alla fine abbassando la torcia. «Non avevo intenzione di mettermi a litigare su argomenti di fede. Non con te, almeno.»
«Perché tanto sai che vinco io» ribatté Sanna con un sorriso, abbassando la torcia a sua volta.
Rimasero un attimo in silenzio a guardare i fasci di luce sulla neve.
«Questa storia delle chiavi mi fa impazzire» disse poi Rebecka. «Stupida cagnetta! È tutta colpa tua.»
Tjapp abbaiò in assenso.
«Non ascoltarla» disse Sanna abbracciando Tjapp. «Non sei una stupida cagnetta. Sei il cane più bello e intelligente che ci sia. E ti voglio tanto bene.» Tjapp ricambiò le manifestazioni di affetto cercando di leccare la faccia di Sanna.
Curt le osservava geloso.
«È una macchina a noleggio, no?» chiese poi. «Posso andare in città e farmi dare le chiavi di riserva.»
Aveva parlato a Sanna, ma lei sembrava non sentirlo. Era completamente assorbita da Tjapp.
«Mi faresti un grande piacere» rispose Rebecka.
Come se ti interessasse fare un piacere a me, si disse osservando le spalle cascanti dell’uomo che aspettava che Sanna si accorgesse di lui.
Sivving Fjällborg, si disse poi. Ha le chiavi di riserva della casa. O almeno le aveva una volta. Lo andrò a trovare.


Erano le sette e un quarto quando Rebecka entrò a casa di Sivving Fjällborg senza suonare il campanello, come erano abituate lei e la nonna. Le finestre erano buie, perciò probabilmente Sivving dormiva ancora. Ma Rebecka non poteva aspettare. Accese la luce dell’ingresso e pulì la suola degli stivali sul pezzotto che copriva il linoleum. C’era della neve anche sopra gli stivali, ma ormai non poteva bagnarsi più di così. Una scala portava al piano superiore, mentre una porta verde scuro conduceva allo scantinato. La porta della cucina era chiusa. Chiamò in direzione del buio al piano superiore.
«C’è nessuno?»
Subito si sentì il latrato di un cane in cantina, seguito dalla voce possente di Sivving: «Zitta, Bella! Seduta! Un attimo, per favore!»
Si sentirono dei passi sulla scala e poco dopo Sivving comparve sulla porta dello scantinato. I suoi capelli erano diventati completamente bianchi e forse si erano un po’ diradati, ma per il resto non era affatto cambiato. Aveva le stesse sopracciglia perennemente sollevate, come se stesse sempre scoprendo qualcosa di inatteso o sentendo una bella novità. La camicia di flanella a scacchi bianchi e blu si abbottonava a fatica sullo stomaco prominente ed era infilata in un paio di pantaloni militari sorretti da una cintura di cuoio resa lucida dagli anni.
«Ma non mi dire, Rebecka!» esclamò aprendosi in un largo sorriso.
«Vieni, Bella!» gridò poi da sopra una spalla, e due secondi dopo una femmina di bracco tedesco si precipitava su dalle scale.
«Ciao» disse Rebecka accarezzandola con un sorriso. «Sei tu che hai quel vocione?»
«Sì, abbaia come un maschiaccio» disse Sivving. «Ma dato che tiene lontano i piazzisti non mi posso lamentare. Entra!»
Aprì la porta della cucina e accese la luce. Era perfettamente ordinata e sapeva un po’ di chiuso.
«Accomodati» disse con un gesto verso il piccolo divano.
Rebecka gli spiegò come mai era lì, e mentre Sivving cercava le chiavi si guardò attorno. I pezzotti a strisce bianche e verdi erano perfettamente allineati sul pavimento di pino. Sul tavolo non c’era una cerata ma una tovaglia di lino perfettamente stirata, con al centro un vaso di rame con fiori secchi e tralci di bambagia selvatica. Le finestre davano su tre lati, e da quella alle sue spalle si vedeva la casa della nonna. Con la luce del giorno, ovviamente. Adesso si vedeva solo il riflesso della lampada appesa al soffitto.
Dopo averle dato le chiavi, Sivving si sedette accanto a lei. Dava l’impressione di non sentirsi a suo agio nella sua stessa cucina. Restava seduto sul bordo del divanetto di legno dipinto di rosso. Anche Bella sembrava non trovare pace e continuava a fare avanti e indietro come un’anima in pena.
«Ne è passato di tempo» disse Sivving con un sorriso, osservando Rebecka. «Stavo per prepararmi un caffè. Ne vuoi?»
«Volentieri» rispose Rebecka abbozzandosi una tabella di marcia in testa.
Per fare le valigie non ci sarebbero voluti più di cinque minuti. Per riordinare la casa una mezz’ora. Avrebbe fatto in tempo a prendere l’aereo delle dieci e mezza, se Curt fosse arrivato con le chiavi.
«Vieni» disse Sivving alzandosi.
Uscì dalla cucina e scese in cantina, sempre seguito da Bella. Rebecka li imitò.
Nello scantinato regnava un’atmosfera accogliente. Contro una parete c’era un letto rifatto. Bella si sistemò subito nella sua cuccia accanto al letto. La ciotola dell’acqua e quella del cibo erano immacolate. Davanti allo scaldabagno era sistemato un lavamano, mentre su un tavolo pieghevole era posato un fornelletto elettrico.
«Puoi prendere quello sgabello» disse Sivving indicandoglielo con il dito. Poi afferrò un bricco da campeggio e due tazze da una mensola appesa alla parete. Quando aprì il barattolo, il profumo del caffè si mescolò all’odore di cane, di cantina e di sapone. Su un filo erano stese un paio di mutande, due camicie di flanella e una maglietta con la scritta Kiruna Truck.
«Mi devi scusare» disse Sivving con un cenno del capo in direzione delle mutande. «Ma non sapevo che avrei avuto visite.»
«Non capisco» disse Rebecka confusa. «Dormi quaggiù?»
«Sì» disse Sivving passandosi una mano sulla barba mentre contava i misurini di caffè che versava nel bricco. «Ormai sono due anni che Maj-Lis se n’è andata.»
Rebecka mormorò qualche parola di condoglianze.
«Sì, è stato un cancro allo stomaco. L’hanno aperta, ma non hanno potuto far altro che richiuderla. A ogni modo la casa era troppo grande per me. I ragazzi se n’erano andati da un sacco di tempo, e una volta che Maj-Lis non c’era più... All’inizio ho smesso di usare il piano superiore. Mi bastavano la cucina e la cameretta al piano terra. Poi io e Bella ci siamo resi conto che in realtà stavamo sempre in cucina. Perciò ho spostato la televisione e ho iniziato a dormire sul divano. E ho smesso di usare anche la cameretta.»
«E alla fine ti sei trasferito quaggiù.»
«Sì, è molto più facile da tenere pulito. E la lavatrice e la doccia sono quaggiù. Così ho comprato quel piccolo frigorifero. È più che sufficiente.»
Indicò un frigorifero nell’angolo, sul quale era posato uno scolapiatti.
«Ma cosa dicono Lena e...» Rebecka cercò di ricordare il nome del figlio di Sivving.
«Mats. Ecco, il caffè è pronto. Già, Lena protesta e fa il diavolo a quattro e pensa che il suo vecchio si sia rimbambito. Quando viene a trovarmi con i ragazzi mette a soqquadro tutta la casa. Ed è un bene, in un certo senso, perché altrimenti potrei anche decidermi a vendere. Si è trasferita a Gällivare e ha tre figli. Ma iniziano a diventare grandi e a vivere la loro vita. Anche se gli piace pescare e perciò vengono spesso in primavera. Latte? Zucchero?»
«Niente, grazie.»
«Mats è separato, ma ha due figli. Robin e Julia. Vengono per le vacanze, in genere. E tu come te la passi, Rebecka? Ti sei sposata? Hai figli?»
Rebecka sorseggiò il caffè bollente. Le facevano male i piedi per il freddo.
«Né l’uno né l’altro.»
«Già, ovviamente non osano avvicinarsi.»
«Cosa vuoi dire?» chiese Rebecka ridendo.
«Sto parlando del tuo caratteraccio» disse Sivving alzandosi a prendere un pacco di dolci alla cannella dalla credenza. «Sei sempre stata pronta a tirar fuori il coltello. Prendi un dolcetto. Santo dio, ricordo quella volta che hai acceso un fuoco di fianco alla strada. Eri alta un soldo di cacio. Te ne stavi lì con la mano alzata come un poliziotto, quando tua nonna e io siamo arrivati di corsa. “Fermi! Non vi avvicinate!” gridavi in tono autoritario. E come ti sei arrabbiata quando lo abbiamo spento. Volevi arrostirci del pesce.»
Sivving rideva tanto da doversi asciugare una lacrima al ricordo. Bella sollevò la testa ed emise un allegro latrato.
«O quella volta che hai tirato un sasso in testa a Erik perché i ragazzi non volevano lasciarti salire in barca con loro» proseguì ridendo a crepapelle.
«Tutti reati caduti in prescrizione» commentò Rebecka con un sorriso, dando a Bella un pezzetto del suo dolce. «Sei tu che hai spalato il cortile?»
«Sì, a Inga-Lill e Affe fa piacere poterne fare a meno, quando vengono. E un po’ di movimento mi fa bene.»
Si diede una pacca sullo stomaco.
«C’è nessuno?»
Dalle scale si sentì la voce di Sanna. Bella si alzò abbaiando.
«Siamo quaggiù» gridò Rebecka.
«Salve» disse Sanna entrando. «È tutto a posto, mi piacciono i cani.»
L’ultima frase era rivolta a Sivving che teneva Bella per il collare. Sanna si chinò e lasciò che il cane le annusasse il viso. Sivving assunse un’espressione seria.
«Sanna Strandgård» disse. «Ho sentito di tuo fratello. È terribile. Condoglianze.»
«Grazie» disse Sanna con il cane tra le braccia. «Rebecka, ha chiamato Curt. Sta arrivando con le chiavi.»
Sivving si alzò.
«Caffè?»
Sanna annuì e accettò una tazza di porcellana spessa con una decorazione a fiori gialli e marroni lungo il bordo. Sivving la invitò a prendere anche un dolce alla cannella avvicinandole il pacchetto.
«Sono buoni» disse Rebecka. «Chi li ha fatti? Tu?»
Sivving grugnì una risposta imbarazzata.
«No, è stata Mary Kuoppa. Non sopporta l’idea che ci sia qualcuno in paese senza dolci fatti in casa.»
Rebecka sorrise del suo modo di pronunciare Mary. Faceva rima con Harry.
«Non si chiamerà Meri, questa povera donna?» disse Sanna ridendo.
«Ah sì? Lo pensava anche l’insegnante della scuola elementare» disse Sivving spazzolando dalla tovaglia alcune briciole che Bella si affrettò a leccare da terra. «Ma Mary continuava a guardare fuori dalla finestra facendo finta di non sentire, quando la chiamava Meri.»
Questa volta lo pronunciò belando come una pecora. Rebecka e Sanna ridacchiarono scambiandosi un’occhiata d’intesa come due ragazzine. Tutti i contrasti tra loro sembravano scomparsi.
Dopo tutto ci tengo a lei, si disse Rebecka.
«Non c’era anche qualcuno in paese che si chiamava Slark?» chiese poi. «Perché l’idolo dei suoi genitori era Slark Gabbie?»
«No» rise Sivving. «Dev’essere stato da qualche altra parte. Qui in paese non c’è mai stato nessuno Slark. In compenso tua nonna da ragazza conosceva una tizia davvero da compatire. Quando è nata era molto gracile e, credendo che non sarebbe sopravvissuta, avevano chiesto al maestro di scuola di battezzarla d’urgenza. Questo maestro si chiamava Fredrik qualcosa. A ogni modo la bambina sopravvisse e dovette essere battezzata nuovamente in chiesa. Il pastore ovviamente parlava solo svedese e i genitori solo finlandese del Tornedal. Così il pastore prese in braccio la bambina e chiese ai genitori come avrebbe dovuto chiamarsi. I genitori credevano che avesse chiesto chi aveva amministrato il battesimo d’urgenza e risposero: “Feki se kasti”, è stato Fredrik a battezzarla. E il pastore scrisse Fekisekasti sul registro parrocchiale. E sai che rispetto c’era per il pastore a quei tempi. La ragazza rimase Fekisekasti per tutta la vita.»
Rebecka guardò l’ora. Ormai Curt doveva essere arrivato. Sarebbe riuscita a prendere l’aereo, anche se non aveva molto tempo.
«Grazie per il caffè» disse alzandosi.
«Parti?» chiese Sivving. «Non ti sei fermata molto.»
«Sono arrivata ieri e riparto oggi» rispose Rebecka con un sorriso.
«Sai come sono le donne in carriera» aggiunse Sanna. «Sempre in viaggio.»
Rebecka si infilò i guanti con movimenti bruschi.
«Be’, non è stato esattamente un viaggio di piacere» disse.
«Lascio le chiavi al solito posto» aggiunse poi rivolta a Sivving.
«Devi tornare in primavera» disse Sivving. «Andremo alla vecchia capanna di Jiekajärvi. Ti ricordi una volta, quando ci andavamo tutti insieme? Io e tuo nonno prendevamo la motoslitta. Tu, tua nonna, Maj-Lis e i bambini andavate con gli sci.»
«Mi piacerebbe» rispose Rebecka, rendendosi conto che era la verità.
La capanna, pensò. Era l’unico posto dove la nonna si concedeva di non fare niente. Una volta pulite le bacche raccolte durante il giorno. O spiumata ed eviscerata l’eventuale preda della giornata.
Le sembrava di rivedere la nonna immersa in un racconto dell’«Hemmets Journal» mentre lei giocava al gioco dell’oca o a rubamazzo con il nonno. Dato che nella capanna c’era molta umidità quando restava chiusa, il mazzo si era gonfiato fino al doppio del suo spessore normale. Il tabellone del gioco dell’oca si era imbarcato al punto che i segnalini facevano fatica a restare al loro posto. Non aveva importanza.
E la serenità di addormentarsi mentre i grandi chiacchieravano attorno al tavolo proprio accanto a lei. O di scivolare nel sonno al suono della nonna che lavava i piatti in una bacinella di plastica rossa, con il calore che irraggiava dalla stufa.
«Mi ha fatto piacere vederti» disse Sivving. «Davvero. Non è così, Bella?»
 Rebecka accompagnò in città Sanna e le bambine e parcheggiò di fronte a casa loro. Avrebbe preferito salutarle rapidamente in macchina e ripartire. Gli addii veloci in macchina erano i migliori. Era difficile abbracciarsi, soprattutto con le cinture allacciate. Perciò si evitavano gli abbracci. E in macchina c’erano altre cose da dire che non le solite frasi sul doversi rivedere presto e sul non dover lasciar passare così tanto tempo. Qualche parola sul non dimenticare i bagagli sul sedile posteriore o nel bagagliaio ed era tutto finito. Poi, quando la portiera si richiudeva su tutte le frasi non dette, si poteva salutare con la mano e premere l’acceleratore senza retrogusti fastidiosi in bocca. Si evitava di restare lì in piedi come degli idioti a cercare le parole con i pensieri che frullavano in testa come uno sciame di zanzare. No, sarebbe rimasta in macchina. E non avrebbe slacciato la cintura di sicurezza.
Ma quando fermò la macchina, Sanna scese di corsa senza dire una parola. Tjapp la seguì a ruota. Rebecka si sentì obbligata a scendere anche lei. Alzò il bavero della giacca, ma non bastò a riparare le orecchie dal freddo che si intrufolò immediatamente sotto il tessuto e si aggrappò ai lobi come due mollette per stendere. Guardò l’appartamento di Sanna. In un piccolo condominio in affitto con le pareti in legno verde bosco e il tetto rosso. Il cortile non veniva spalato da tempo. Le poche macchine parcheggiate vi avevano lasciato profonde tracce di pneumatici. Una vecchia Dodge svernava sotto un mucchio di neve. Sperava di non restare bloccata quando sarebbe uscita. L’edificio apparteneva alla LKAB. Ma dato che ci abitava solo gente comune, risparmiavano sullo spazzaneve. Se qualcuno voleva usare la macchina poteva spalarsi il cortile da solo.
Sara e Lova erano ancora sul sedile posteriore. Stavano recitando una filastrocca accompagnata da tocchi delle mani e dei gomiti che Sara padroneggiava dall’inizio alla fine e Lova cercava di imparare con grande fatica. La piccola si interruppe parecchie volte e ogni volta entrambe scoppiarono in grandi risate prima di ricominciare.
Tjapp correva in giro come un’ossessa, assorbendo con il piccolo naso nero tutte le novità sul terreno. Girò attorno a due macchine sconosciute. Lesse con grande attenzione un haiku disegnato a gocce gialle dal cane del vicino sul vialetto imbiancato. Seguì la provocante traccia di un topo che si era infilato sotto il portico, dove non lo poteva seguire.
Sanna piegò la testa all’indietro e annusò l’aria.
«C’è odore di neve» disse. «Sta per nevicare. Molto.»
Si voltò verso Rebecka.
Quanto assomiglia a Viktor, si disse Rebecka trattenendo il respiro.
La pelle trasparente, quasi azzurrina, tesa sopra gli zigomi alti. Anche se le guance di Sanna erano un po’ più tonde, come quelle di un bambino.
E la postura, pensò. Identica a quella di Viktor. La testa sempre un po’ inclinata, da un lato o dall’altro, come se fosse leggermente allentata.
«Be’, allora è meglio che mi metta in viaggio» disse Rebecka cercando di arrivare ai saluti, ma Sanna si era seduta sui talloni a chiamare Tjapp.
«Qui, bella! Vieni qui, streghetta.»
Tjapp arrivò di corsa come un guanto nero lanciato per aria.
Sembra l’illustrazione di un libro di fiabe, si disse Rebecka. La cagnetta nera con piccole stelle di neve sulla pelliccia. Sanna come una silfide dei boschi, con la sua giacca di montone al ginocchio e il berretto di pelo sulla cascata di riccioli biondi.
Sanna ci sapeva fare con gli animali. In un certo senso si assomigliavano, lei e Tjapp. La cagnetta che era stata maltrattata e trascurata per anni. Dov’erano andate a finire tutte le sue sofferenze? Erano scivolate via, sostituite dalla gioia di tuffare il naso nella neve fresca o di abbaiare a uno scoiattolo spaventato su un pino. E Sanna. Aveva appena trovato suo fratello accoltellato in chiesa. Ed eccola qui che giocava con il cane.
Non l’ho vista versare una lacrima, pensò Rebecka. Niente fa presa su di lei. Né i dolori né le persone. Forse nemmeno le sue stesse figlie. Ma non è più un mio problema. Non ho nessuna colpa da espiare. Adesso parto e non penserò più a lei o alle sue figlie o a suo fratello o a questo buco di città.
Si avvicinò alla macchina e aprì la portiera posteriore.
«Adesso dovete scendere, bambine» disse a Sara e Lova. «Devo andare all’aeroporto.»
«Ciao» gridò loro alle spalle mentre sparivano su per le scale di casa.
Lova si voltò e la salutò con la mano. Sara fece finta di non sentire.
Provò un senso di abbandono quando la giacca rossa di Sara scomparve attraverso la porta. Un’immagine di quando lei e Sanna abitavano insieme illuminò una stanza buia della sua memoria. Era seduta con Sara in braccio a leggere la storia di Petter e delle sue quattro caprette. La guancia contro i capelli soffici della piccola. L’indice di Sara sulle figure.
Ma è così, pensò Rebecka. Io me lo ricorderò sempre. Lei se n’è dimenticata.
Sanna all’improvviso era accanto a lei. Giocare con Tjapp le aveva acceso due macchie rosate sulle guance azzurrine.
«Entra a mangiare qualcosa prima di partire.»
«Il mio aereo parte fra mezz’ora, quindi...»
Rebecka concluse la frase scuotendo la testa.
«Ci saranno anche altri aerei» la implorò Sanna. «Non ho nemmeno avuto l’occasione di ringraziarti per essere venuta. Non so cosa avrei fatto se...»
«È tutto a posto» sorrise Rebecka. «Devo andare sul serio.»
Continuando a sorridere, tese una mano per salutarla.
Era un messaggio chiaro, se ne rese conto lei stessa mentre toglieva la mano dal guanto. Sanna abbassò lo sguardo e rifiutò di stringergliela.
Cazzo, pensò Rebecka.
«Una volta eravamo sorelle» disse Sanna senza alzare gli occhi. «E ora ho perso sia un fratello che una sorella.»
Emise una breve risata senza gioia che sembrava più un singhiozzo.
«Dio dà e Dio prende. Sia lodato il suo nome.»
Rebecka si irrigidì per resistere all’impulso improvviso di abbracciare Sanna e consolarla.
Non ci provare, pensò infuriata lasciando cadere la mano. Certe cose non si possono aggiustare. E sicuramente non in tre minuti mentre ci si saluta al freddo.
Iniziava ad avere i piedi gelati. Le scarpe di Stoccolma erano troppo sottili. Fino a un momento prima le facevano male le dita. Ora non le sentiva più. Cercò di muoverle un pochino.
«Ti chiamo quando arrivo» disse sedendosi in macchina.
«Sì, certo» disse Sanna in tono apatico, osservando Tjapp che si accucciava all’angolo della casa per rispondere a un saluto lasciato sulla neve.
Magari l’anno prossimo, pensò Rebecka girando la chiave d’accensione.
Quando alzò lo sguardo sullo specchietto retrovisore vide che Sara e Lova erano uscite sul portico.
C’era qualcosa nei loro occhi che le fece vacillare il terreno sotto i piedi.
No, no, pensò. Tutto va come deve andare. Non è successo niente. Vattene da qui.
Ma i suoi piedi non ne volevano sapere di lasciare la frizione e premere l’acceleratore. Rimase ferma con lo sguardo fisso sulle bambine. Vide i loro occhi sbarrati, vide le labbra che si muovevano per gridare a Sanna qualcosa che Rebecka non poteva sentire. Vide le loro braccia alzarsi a indicare l’appartamento per poi ricadere quando una persona uscì sul portico.
Era un poliziotto in uniforme che si avvicinò a Sanna con passo deciso. Rebecka non riusciva a sentire cosa stava dicendo.
Guardò l’orologio. Ormai era assurdo anche provare a prendere l’aereo. Non poteva andarsene adesso. Scese dalla macchina con un profondo sospiro. Si avvicinò lentamente a Sanna e al poliziotto. Le bambine rimasero sul portico, sporgendosi dalla ringhiera coperta di neve. Lo sguardo di Sara era fisso su Sanna e il poliziotto. Lova stava mangiando i grumi di neve che le si erano attaccati ai guanti.
«In che senso, perquisizione?»
Il tono di Sanna interruppe i giochi di Tjapp, che si avvicinò preoccupata alla sua padrona.
«Non potete entrare in casa mia senza permesso. Non è così?»
L’ultima domanda era rivolta a Rebecka.
Nello stesso momento uscì il pm Carl von Post. E dopo di lui due poliziotti in borghese. Rebecka li riconobbe. Erano la donna con la faccia da cavallo, come si chiamava, Mella. E il tizio con i baffi da tricheco. Dio santo, credeva che quei baffi si fossero estinti negli anni settanta. Sembrava che si fosse incollato uno scoiattolo morto sotto il naso.
Il pm si avvicinò a Sanna. Teneva in mano un sacchetto di plastica dal quale ne estrasse un secondo, più piccolo e trasparente. Conteneva un coltello lungo una ventina di centimetri. Aveva l’impugnatura nera e lucida e la punta leggermente ricurva.
«Sanna Strandgård» disse tenendo il sacchetto con il coltello un po’ troppo vicino al viso di Sanna. «Lo abbiamo appena trovato a casa sua. Lo riconosce?»
«No» rispose Sanna. «Sembra un coltello da caccia. Io non vado a caccia.»
Ora anche Sara e Lova si avvicinarono. Lova tirò la manica del montone di Sanna per attirare la sua attenzione.
«Mamma» piagnucolò.
«Aspetta un attimo, piccola» disse Sanna in tono assente. Sara si strinse alla madre tanto che Sanna fu costretta a fare un passo indietro per non perdere l’equilibrio. La ragazzina seguiva i movimenti del pm con gli occhi, cercando di capire cosa stava succedendo tra quegli adulti dalla faccia seria che circondavano la sua mamma.
«È sicura?» insistette von Post. «Guardi bene» disse rivoltando il coltello di qua e di là.
Il freddo faceva scricchiolare il sacchetto di plastica mentre le mostrava il coltello da tutti i lati, tenendolo un po’ per la lama, un po’ per il manico.
«Sì, sono sicura» rispose Sanna indietreggiando. Evitò di guardare di nuovo il coltello.
«Forse sarebbe meglio aspettare con le domande» disse Anna-Maria Mella con un cenno del capo verso le bambine aggrappate a Sanna.
«Mamma» continuava a ripetere Lova strattonando il braccio di Sanna. «Mamma, devo fare la pipì.»
«Ho freddo» piagnucolò Sara. «Voglio entrare.»
Tjapp si muoveva inquieta, cercando di infilarsi tra le gambe di Sanna.
Illustrazione numero due del libro di fiabe, pensò Rebecka. La silfide dei boschi è stata catturata dagli abitanti del villaggio che l’hanno circondata e la tengono ferma per le braccia e per la coda.
«Tiene gli asciugamani e le lenzuola nel cassetto del divano in cucina, non è vero?» proseguì von Post. «Di solito ci tiene anche i coltelli, in mezzo alle lenzuola?»
«Aspetta un attimo, tesoro» disse Sanna a Sara che la tirava per il cappotto.
«Devo fare la pipì» frignò Lova. «Me la sto facendo addosso.»
«Ha intenzione di rispondere alla domanda?» insistette von Post.
Anna-Maria Mella e Sven-Erik Stålnacke si scambiarono un’occhiata alle spalle di von Post.
«No» disse Sanna con voce tesa. «Non tengo i coltelli nel divano.»
«E questa» proseguì von Post insistente, tirando fuori un altro sacchetto trasparente. «Questa la riconosce?»
Era una Bibbia. Aveva la copertina di pelle marrone lucidata dall’uso. I bordi delle pagine avevano perso quasi completamente la doratura originaria e i fogli erano scuriti dalle ripetute consultazioni. Un po’ dappertutto spuntavano segnalibri, cartoline, nastri intrecciati, ritagli di giornale.
Sanna si accasciò con un lamento fino a ritrovarsi seduta per terra.
«All’interno della copertina c’è scritto Viktor Strandgård» proseguì implacabile Carl von Post. «Può confermarmi se è davvero la Bibbia di Viktor e spiegarmi cosa ci faceva nel suo divano? Non è forse vero che la portava sempre con sé, e quindi anche quell’ultima sera?»
«No» bisbigliò Sanna. «No.»
Si premette le mani sul viso.
Lova cercò di allontanargliele per incrociare il suo sguardo. Quando non ci riuscì, scoppiò in un pianto irrefrenabile.
«Mamma, voglio andare viaaa» singhiozzò.
«Si alzi» disse von Post in tono duro. «La dichiaro in arresto per il sospetto omicidio di Viktor Strandgård.»
Sara si voltò bruscamente verso il pm.
«Lasciala stare» gridò.
«Potresti portare via le bambine?» disse von Post impaziente all’agente Tommy Rantakyrö.
Questi fece un passo incerto verso Sanna. Allora Tjapp balzò fuori e si mise davanti alla sua padrona. Chinò la testa, abbassò le orecchie e scoprì i denti in un ringhio soffocato. Tommy Rantakyrö indietreggiò.
«D’accordo, adesso è davvero troppo» disse Rebecka a von Post. «Voglio fare un esposto.»
L’ultima frase era rivolta ad Anna-Maria Mella, che osservava le case circostanti. A ogni finestra le tende si muovevano in preda alla curiosità.
«Vuole fare...» disse von Post per poi interrompersi scuotendo la testa. «Per quanto mi riguarda può venire alla centrale per una denuncia per aggressione presentata da una giornalista di TV4.»
Anna-Maria Mella sfiorò il braccio di von Post.
«Iniziamo ad avere pubblico» disse. «Non sarebbe simpatico se qualcuno dei vicini chiamasse la stampa parlando di brutalità della polizia e cose del genere. Potrei sbagliarmi, ma mi sembra che il tizio dell’appartamento lassù a sinistra ci stia riprendendo.»
Alzò un braccio e indicò una delle finestre.
«Forse è meglio se io e Sven-Erik ce ne andiamo, in modo da non sembrare un esercito» proseguì. «Possiamo telefonare ai tecnici. Vuoi che esaminino l’appartamento, no?»
Il labbro superiore di von Post fremette per l’irritazione. Cercò di guardare verso la finestra indicata da Anna-Maria Mella, ma l’appartamento era completamente buio. Poi si rese conto che forse stava guardando dritto in una telecamera e distolse rapidamente lo sguardo. L’ultima cosa che voleva era essere collegato ad accuse di brutalità della polizia o attirarsi l’astio dei media.
«No, preferisco parlare io con i tecnici» rispose. «Tu e Sven-Erik potete portare Sanna Strandgård in centrale. Fate sigillare l’appartamento.»
«Ci rivedremo» disse a Sanna prima di salire sulla sua Volvo Cross Country.
Rebecka notò lo sguardo con cui Anna-Maria Mella seguì la macchina del pm.
Accidenti, pensò ammirata. Faccia di cavallo lo ha fregato. Voleva che se ne andasse e... Sì, era intelligente.
Non appena Carl von Post se ne fu andato, il cortile tornò silenzioso. Tommy Rantakyrö aspettava un cenno da Anna-Maria o Sven-Erik. Sara e Lova erano in ginocchio nella neve, abbracciate alla loro mamma che era ancora seduta per terra. Tjapp si era accucciata accanto a loro, intenta a leccare la neve. Quando Rebecka si chinò ad accarezzarle la pelliccia agitò leggermente la coda come per farle capire che era tutto a posto. Sven-Erik rivolse ad Anna-Maria uno sguardo interrogativo.
«Tommy» disse Anna-Maria rompendo il silenzio. «Puoi andare a chiudere l’appartamento insieme a Olsson? Mettete un sigillo al lavandino perché nessuno lo usi finché arrivano i tecnici.»
«Sanna» disse Sven-Erik. «Siamo terribilmente dispiaciuti per tutta questa confusione. Ma la situazione è quella che è. Devi venire con noi alla centrale.»
«C’è qualcuno che si può occupare delle bambine?» chiese Anna-Maria.
«No» disse Sanna sollevando la testa. «Voglio parlare con il mio avvocato, Rebecka Martinsson.»
Rebecka sospirò.
«Sanna, non sono il tuo avvocato...»
«Voglio parlare lo stesso con te.»
Sven-Erik lanciò alla sua collega uno sguardo dubbioso.
«Non so se...» iniziò.
«Ah, piantatela» sibilò Rebecka. «L’arresto non è ancora stato convalidato. Ha il diritto di parlare con me. Restate pure ad ascoltare, non abbiamo intenzione di parlare di segreti.»
Lova frignò qualcosa all’orecchio di Sanna.
«Cosa dici, tesoro?»
«Me la sono fatta addosso» piagnucolò Lova.
Tutti gli sguardi conversero sulla piccola. Effettivamente sui suoi vecchi jeans era comparsa una macchia scura.
«Lova deve mettersi dei pantaloni asciutti» disse Rebecka ad Anna-Maria Mella.
«Sentite, bambine» disse la donna-poliziotto a Sara e Lova. «Adesso saliamo in casa a prendere un paio di pantaloni per Lova e poi torniamo giù dalla vostra mamma. Non andrà da nessuna parte nel frattempo. Ve lo prometto.»
«Fate come vi dice» disse Sanna. «I miei angioletti. Prendete qualche vestito anche per me. E qualcosa da mangiare per Tjapp.»
«Mi spiace» disse Anna-Maria. «I tuoi vestiti no. E tutto quello che hai addosso il pm lo vorrà mandare a Linköping.»
«È tutto a posto» disse Rebecka. «Ti procurerò dei vestiti nuovi, Sanna. D’accordo?»
Le bambine salirono in casa con Anna-Maria. Sven-Erik si sedette sui talloni a qualche distanza da Sanna e Rebecka a giocare con Tjapp. Sembravano intendersela perfettamente.
«Non posso aiutarti, Sanna» disse Rebecka. «Sono una tributarista, non mi occupo di cause penali. Se hai bisogno di un difensore, posso aiutarti a trovarne uno bravo.»
«Non capisci?» mormorò Sanna. «Devi essere tu. Se non mi aiuti tu non ci sarà nessun altro. Allora mi rimetterò a Dio.»
«Smettila» la implorò Rebecka.
«No, sei tu che devi smetterla» disse Sanna con veemenza. «Ho bisogno di te, Rebecka. E le mie bambine hanno bisogno di te. Me ne frego di quello che pensi di me, ma ora ti prego. Cosa vuoi che faccia? Che mi metta in ginocchio? Che dica che devi farlo in nome della nostra vecchia amicizia? Devi essere tu.»
«Cosa vuol dire che le bambine hanno bisogno di me?»
Sanna si aggrappò alla giacca di Rebecka con entrambe le mani.
«Mamma e papà me le porteranno via» disse avvilita. «Non deve succedere. Capisci? Non voglio che Sara e Lova stiano con i miei genitori neanche per cinque minuti. E ora non posso impedirglielo. Ma tu sì. Fallo per Sara.»
I suoi genitori. Pensieri e ricordi facevano a gara per venire alla luce. Il padre di Sanna. Ben vestito. Distinto. Con i suoi modi gentili e affettuosi. Aveva ottenuto una certa popolarità come politico locale. Rebecka lo aveva perfino visto sui giornali nazionali, qualche volta. Alle prossime elezioni probabilmente si sarebbe presentato nelle liste dei cristiano-democratici. Ma sotto la facciata cordiale si nascondeva un tiranno inflessibile. Perfino il pastore Thomas Söderberg aveva dovuto chinare la testa in molte questioni che riguardavano la congregazione. E Rebecka ricordava con turbamento di quando Sanna le aveva raccontato con noncuranza - come se fosse successo a qualcun altro - che aveva regolarmente ucciso i suoi animali domestici. Sempre senza preavviso. Cani, gatti, uccelli. Non aveva potuto tenere nemmeno l’acquario che le aveva regalato un insegnante delle medie. A volte la madre spiegava che era perché Sanna era allergica. Altre perché trascurava lo studio. Più spesso non c’era nessuna spiegazione. Non si poteva nemmeno pronunciare la domanda ad alta voce. E Rebecka ricordava Sanna che sedeva con Sara sulle ginocchia quando la piccola non voleva dormire. «Non voglio diventare come loro» diceva. «Loro si limitavano a chiudermi a chiave in camera.»
«Devo parlare con il mio capo» disse Rebecka.
«Ti fermi?» chiese Sanna.
«Per un po’» rispose Rebecka con la gola stretta.
Sanna si illuminò in viso.
«È tutto quello che ti chiedo» disse. «Quanto tempo ci potrà mai volere? Dopotutto sono innocente. Non crederai che sia stata io, vero?»
L’immagine di Sanna che vagava in piena notte, alla luce dei lampioni, con il coltello insanguinato in mano, prese forma nella mente di Rebecka.
Ma in quel caso perché sarebbe tornata là, si chiese? Perché avrebbe preso con sé Lova e Sara per “trovarlo”?
«Certo che no.»