mercoledì 20 maggio 2020


Storia e geopolitica del Sudafrica


Carta di Laura Canali
[Carta di Laura Canali]
* Testo tratto da A. BUTLER, Contemporary South Africa, London 2009, Palgrave Macmillan, pp. 5-32, per gentile concessione dell’editore.
5/06/2010
La scoperta dei diamanti e dell’oro intorno al 1870 cambia la moderna vicenda sudafricana. I protagonisti autoctoni, boeri e britannici. L’importanza dei contesti regionali e locali. Le diverse forme di apartheid e la conquista pacifica della democrazia.
di Anthony Butler
I sudafricani si considerano un popolo speciale. La loro unicità deriva dalla peculiare storia coloniale, dalla segregazione razziale e dalla trionfale democratizzazione del paese. Questa eccezionale storia ruota attorno all’apartheid – letteralmente «separatezza». L’eredità della segregazione e dell’apartheid, assieme alle differenze inconciliabili nell’interpretarne il significato, ostacola tuttora lo sforzo di creare un’identità nazionale consolidata e un ordine sociale coerente e inclusivo.
La storia del Sudafrica è stata forgiata dalla scoperta, attorno al 1870, di giacimenti di diamanti e poi di oro. E dalla reazione della potenza imperiale dominante, il Regno Unito, alle opportunità e ai rischi derivanti da tali scoperte. Tuttavia, se è vero che la storia del moderno Sudafrica comincia con la «rivoluzione dei minerali», le conseguenze di queste scoperte non possono essere ben comprese se non si approfondisce prima il complesso equilibrio di forze che, tra il 1870 e il 1880 circa, caratterizza il territorio che oggi si chiama Repubblica Sudafricana.
Rispecchiando le mappe geopolitiche dell’epoca, quattro sono le grandi storie che vi si svolgono: quella dei popoli khoisan; quella dei popoli africani formati da pastori e agricoltori; quella dei boeri – i coloni di discendenza europea – e quella degli imperialisti britannici.
La storia meno nota è quella della sottomissione dei primi abitanti della regione. Le società dedite alla caccia e alla pastorizia, note oggi come khoikhoi e san o complessivamente come khoisan, abitavano il territorio occidentale e quello nordoccidentale dell’Africa meridionale dal 1000 a.C. circa. La prima fase dell’insediamento europeo – durante il dominio della Compagnia olandese delle Indie orientali, nella seconda metà del secolo XVII – fu per loro particolarmente duro.
I coloni europei li soggiogarono molto rapidamente, anche a causa delle malattie che avevano introdotto. Nel 1870, all’interno delle frontiere dell’attuale Sudafrica, gli altri tre attori più forti – i protagonisti delle altre tre grandi storie sopra menzionate – già competono per lo sfruttamento delle risorse. Ma nessuno riesce a prevalere. Il primo e il più importante gruppo comprende alcuni popoli africani, noti nel periodo coloniale come xhosa e zulu. La loro capacità di resistenza alla colonizzazione europea è confermata dal fatto che, duecento anni dopo l’inizio dell’espansione coloniale, xhosa e zulu esprimono ancora società organizzate.
I regni patriarcali africani si erano diffusi nella regione a partire dal III secolo d.C. circa. Erano organizzazioni sociali dinamiche, che alla fine del secolo XVIII apparivano già diffuse sull’insieme del territorio del Sudafrica attuale, quasi fino al limite occidentale. Economia e organizzazione sociale ruotavano attorno all’allevamento. Politicamente quelle società erano costituite da comunità patriarcali guidate da un capo ereditario.
Contavano tra le mille e le cinquantamila anime, ma non erano società chiuse: includevano varie discendenze, immigrati da regioni povere e singoli individui provenienti da altri regni patriarcali. Non erano «tribù», come sottolinea Thompson: «Il concetto occidentale di tribù, utilizzato solitamente per indicare popolazioni all’interno delle quali si riproducono caratteristiche culturali stabilite, non può essere applicato a questi agricoltori africani». Erano semmai società fluide e politicamente affiliative: «Le persone interagivano, operavano e si accoppiavano, oltre a competere e a combattersi, scambiando idee e pratiche, ma anche rifiutandole»1.
La terza storia straordinaria è quella dei «boeri» (agricoltori), discendenti dai coloni di lingua olandese stabilitisi nella regione del Capo all’inizio del secolo XVII con la funzione iniziale di rifornire le navi della Compagnia olandese delle Indie orientali di carburante e di provviste. Gradualmente il Capo diventò anche la base di partenza per un’espansione dinamica, seppur discontinua, dei coloni verso l’interno.
L’esperienza delle società boere fu per molti aspetti simile a quella dei loro contemporanei africani. L’espansione verso nord e verso est, in regioni già occupate dalle società africane, ebbe inizio attorno alla fine del secolo XVIII. Il successo dei coloni boeri si spiega con una combinazione di fattori: l’abilità a sfruttare le divisioni all’interno delle società africane e la (disomogenea) cooperazione tra i bianchi; la superiorità tecnologica data dalle armi da fuoco e la capacità di preservare i beni e la ricchezza con un sistema economico più sofisticato di quello degli africani; e infine la capacità di sfruttare un’imprevista e importante trasformazione interna alle società africane.
I devastanti conflitti – Mfecane («distruzione») in zulu – scatenati dal tentativo di centralizzare il regno zulu nella regione tra il sistema montuoso della Grande Scarpata e l’Oceano Indiano misero infatti in moto una trasmigrazione massiccia di agricoltori da una parte all’altra della regione. Sulle cause di questi conflitti si dibatte ancora, ma sicuramente rilevante fu l’accresciuta competizione per la terra e l’acqua accentuata dal fatto che non c’erano nuovi territori sfruttabili.
Nei primi anni del secolo XIX, una serie di episodi di grave siccità portò a una concentrazione del potere e alla creazione di nuovi eserciti di dimensioni superiori ai precedenti. Gli importanti conflitti che ne derivarono sconvolsero le economie della regione, trasformando buona parte delle popolazioni in masse di rifugiati. Alcuni storici sostengono che la centralizzazione dello Stato zulu sia stata stimolata anche dal commercio con l’estero perché la necessità di controllare le rotte commerciali sollecitava una maggiore militarizzazione. Quali che siano state le dinamiche di queste migrazioni, lo sconvolgimento che ne risultò offrì ai coloni bianchi un’opportunità senza precedenti di colonizzare terre apparentemente «vuote» e non rivendicate da alcun gruppo sociale.
Nel frattempo, la colonia del Capo era diventata meno ospitale per i boeri. Il Regno Unito, che aveva assunto il controllo diretto del Capo nel 1795 per prevenire l’occupazione francese, stava introducendo nuove leggi e una nuova cultura che si scontravano con gli interessi boeri e minacciavano di ridurne il fin’allora incontestato controllo sulla manodopera locale.
L’influenza degli ideali della rivoluzione francese e le campagne evangeliche in Inghilterra contro la schiavitù minacciavano direttamente le pratiche quasi schiavistiche dei boeri. Dato che una loro migrazione verso est era bloccata dai regni patriarcali xhosa, che nelle guerre di frontiera avevano dimostrato una grande capacità di resistenza politica e militare, molti boeri intrapresero quella che un secolo più tardi sarebbe stata celebrata come «Grande Marcia» – Great Trek.
Si trattò in realtà di una catena di migrazioni graduali che verso la fine degli anni Trenta dell’Ottocento coinvolsero circa 12 mila persone, metà delle quali erano servitori khoi ed ex schiavi. Dopo sporadici scontri con le comunità africane incontrati lungo il percorso, i trekkers si stabilirono prima nel Natal e, dopo l’annessione britannica di quella regione, nell’Highveld, l’altopiano settentrionale. La loro indipendenza fu garantita dal fatto che i britannici, adeguandosi al declino dello spirito abolizionista a Londra, erano meno disposti a intervenire in difesa degli africani contro i trekkers.
Nonostante l’indipendenza, i boeri non riuscirono mai a emanciparsi dalla povertà e dalla vulnerabilità, né ad assumere un vero controllo del territorio sul quale rivendicavano il diritto di governare. Attorno al 1870, avevano in ogni caso stabilito una discreta presenza in vaste aree dei territori interni dell’Africa meridionale.
Infine, c’è la storia della potenza imperiale, la Gran Bretagna, sempre più dominante, benché in maniera disomogenea, sull’economia e sulla politica delle regioni costiere. Anche se la colonia britannica era molto meno numerosa di quella di origine olandese, poteva contare sul sostegno della potenza largamente inespressa di un grande impero. Inespressa perché Londra considerava il Capo solo una enclave secondaria. Infatti, l’annesse formalmente all’impero solo nel 1806, considerandone la collocazione strategica lungo le rotte del commercio verso l’India. «Come prima gli olandesi», ricorda Thompson, «i britannici non avevano alcun interesse materiale o vitale nel Sudafrica oltre alla regione del Capo» 2.
La scarsa importanza attribuita da Londra all’Africa meridionale si rispecchiava nella quota modesta del capitale d’Oltremare britannico che essa attraeva, nella limitata immigrazione dal Regno Unito e nella non elevata presenza di manodopera e di risorse. Nel 1870, negli Stati Uniti, gli abitanti di origine europea o di discendenza europea erano già 32 milioni e le ferrovie si estendevano per 53 mila miglia. Complessivamente, in tutta l’Africa meridionale i bianchi erano poco più di 250 mila e le ferrovie non superavano le 70 miglia. Il valore totale delle importazioni non andava oltre i 3 milioni di sterline l’anno e le esportazioni erano ancora più basse. La città più popolosa contava solo 50 mila abitanti.
Ma alle spalle di questa regione strategica si estendeva un vasto hinterland popolato in maniera diffusa da una società complessa, violenta e altamente anarchica. Fin verso la metà del secolo XIX, il «turbolento hinterland» continuò a richiamare un interesse minimo. Nel 1852, per impedire un’alleanza tra i sotho e gli emigrati boeri, i britannici decisero di concedere ai boeri l’indipendenza all’interno dell’allora Repubblica del Sudafrica (più tardi Transvaal). L’ulteriore resistenza dei sotho portò a una tregua tra gli europei e al ritiro dei colonialisti.
Il secolo XIX si caratterizzò quindi per una limitata immigrazione britannica. Ma nel 1820, il governo conservatore di Londra, nel tentativo di placare l’opposizione domestica, decise di finanziare l’emigrazione di 4 mila coloni nella cintura agricola di quella che oggi è la Provincia del Capo Orientale. I nuovi immigrati occuparono rapidamente posizioni importanti nel commercio e nelle attività economiche, ma si tennero culturalmente distanti dai precedenti coloni, fomentando così il crescente antagonismo fra i bianchi.
Tali divisioni non erano determinate particolarmente dalle influenze della «riforma» in Gran Bretagna. Il commercio degli schiavi era stato messo fuori legge nel 1807 (sottraendo agli agricoltori del Capo la possibilità di accedere a manodopera a costo quasi nullo) e, sulla scia della tassa sulla schiavitù stabilita nei Caraibi, a partire dal 1823 erano stati sia pur disomogeneamente imposti alcuni standard minimi per il cibo e il vestiario e un tetto alle ore lavorative della manovalanza nera, nonché limiti alle punizioni. In seguito furono introdotte norme volte a garantire uno status legale ai khoikhoi e agli ex schiavi (senza tuttavia sottrarli alla povertà e alla dipendenza economica).
Come spiega Thompson, «le riforme erano le riforme della libertà, ma la realtà era ancora quella dello sfruttamento» 3. Verso la metà del secolo XIX, quando il contributo della filantropia di stampo britannico andò scemando, i coloni britannici si trovarono sempre più – come gli afrikaner – nella condizione di uomini della frontiera che lottavano contro gli africani per una terra loro legalmente concessa, senza però il consenso degli abitanti originari. Furono questi coloni ad adattare alle nuove circostanze il razzismo pseudoscientifico diffuso in Gran Bretagna nel medio periodo vittoriano.
Il parziale ritiro della potenza coloniale britannica, attorno alla metà dell’Ottocento, fu compensato dalla sua crescente influenza economica nella colonia. Mentre gli afrikaner restavano fuori della portata di Londra, il cuore del territorio sudafricano cominciò a essere incorporato nell’impero. Il commercio faceva perno sul Capo, che aveva attratto manodopera migrante fin dal 1840. Laddove sussisteva qualche minaccia agli interessi della colonia del Capo, l’intervento della potenza britannica era rapido ed efficace. Il possesso del territorio portava con sé l’ineludibile per quanto involontaria responsabilità di stabilire un minimo di legalità e di ordine nella zona della frontiera. Queste pressioni, sommate a interessi militari, religiosi e commerciali, provocarono ripetuti interventi delle autorità britanniche, che suscitarono l’ostilità dei boeri.
Molte interpretazioni novecentesche europee della storia sudafricana descrivono erroneamente, per il periodo attorno al 1870, una dialettica tra statiche «tribù» africane e dinamici coloni. Ma le società africane non mostravano quei segni di disintegrazione che avevano interessato i popoli indigeni in molte altre colonie europee. I cambiamenti all’interno dei gruppi sociali africani erano innescati da fattori interni piuttosto che coloniali, e avevano subìto un’accelerazione a inizio Ottocento con l’emergere del regno zulu. Mentre alcuni africani potevano permettersi di premere sui vulnerabili afrikaner e su altri gruppi di coloni isolati che non potevano granché contare sul sostegno della potenza imperiale, altri avevano cominciato a cogliere le opportunità economiche offerte dagli insediamenti e dal commercio.
Attorno al 1870, tutti i relativamente piccoli quasi Stati del Sudafrica erano multietnici e multilinguistici. Molti mancavano delle basi di una qualsiasi unità geopolitica e culturale, rivelando una scarsa autocoscienza politica. Sarebbe quindi sbagliato considerare la storia dei gruppi sociali africani nel decennio successivo al 1870 come il tentativo di prendere in mano il destino delle rispettive collettività. I leader politici agivano nel tentativo di sopravvivere alle difficilissime circostanze. E i racconti – in parte mitici – con i quali rivendicavano il loro diritto al potere cambiavano in continuazione.
La creazione dello Stato, 1870-1910
La storia del Sudafrica nel quarantennio successivo al 1870 fu caratterizzata da un nuovo ritmo e da una nuova dimensione del cambiamento sociale, per effetto delle diverse forze che premevano sulle popolazioni della regione. La causa primaria di tali dinamiche fu la scoperta di giacimenti di diamanti e di oro e la reazione della potenza coloniale britannica a tali scoperte. Il loro effetto sconvolgente si tradusse in quattro sviluppi massicci che caratterizzeranno la trasformazione del Sudafrica in quel periodo: la guerra, l’unificazione, lo sviluppo economico e l’emergere di una classe lavoratrice migrante.
La scoperta dei diamanti, risalente al 1867, attraendo investimenti esteri e generando una domanda di manodopera senza precedenti segnò per il Sudafrica l’inizio del capitalismo moderno. Nel 1871 le miniere di diamanti impiegavano già 75 mila lavoratori di colore e lo sviluppo non solo nelle miniere, ma anche nelle fattorie, nelle nuove industrie, nelle ferrovie e nei lavori pubblici, produsse una carenza di manodopera. I diamanti furono presto superati dall’oro, scoperto nel 1886 a Witwatersrand, che avrebbe da lì a poco trasformato l’intera regione meridionale dell’Africa. Sebbene l’oro scoperto fosse di bassa qualità e la sua estrazione difficile, potenzialmente rappresentava un’enorme ricchezza, anche in quanto fattore centrale della liquidità e della stabilità di un’economia internazionale basata sul gold standard.
Sfruttare le miniere d’oro in maniera efficace e diretta era per il Regno Unito un imperativo strategico. Per questo alla potenza imperiale britannica occorreva un massiccio flusso di manodopera locale a basso costo e di manodopera specializzata dall’estero. Ma servivano anche le infrastrutture, il quadro normativo e la stabilità che solo un complesso Stato moderno e unificato avrebbe potuto fornire.
Il bisogno di stabilità e la necessità di manodopera spinsero la potenza imperiale a spezzare con la forza la resistenza delle società africane. E successivamente, a caro prezzo, Londra impiegò le armi anche contro gli afrikaner: fu la guerra del Sudafrica, detta anche guerra boera, che infuriò tra il 1899 al 1902. Obiettivo: l’unificazione del Sudafrica. Lungi dal rappresentare solo uno strumento legale o costituzionale, l’unità rispondeva alla volontà di creare uno Stato che consentisse alla potenza britannica di imporre i contratti, garantire i collegamenti per il trasporto delle merci, stabilire un insieme di norme che regolassero il lavoro e le attività e, infine, garantire la sicurezza strategica all’insieme del territorio che oggi corrisponde al Sudafrica. Così l’impero si sarebbe assicurato lo sfruttamento delle ricchezze minerarie della regione.
A testimoniare lo sviluppo economico nelle nuove aree urbane a cavallo del nuovo secolo – il terzo processo chiave del cambiamento – ecco la straordinaria crescita di Johannesburg e della regione del Witwatersrand, a segnalare la grandiosa trasformazione della geografia economica del Sudafrica. Nel 1880 Johannesburg non esisteva. Nel 1911 contava già 240 mila abitanti, mentre la regione del Witwatersrand ne ospitava complessivamente il doppio. Gli abitanti di Città del Capo, che si avviava a diventare un centro economico secondario, non arrivavano invece a 200 mila. Le nuove aree urbane erano un crogiuolo di diversità, dai minatori più poveri agli immigrati ben pagati, passando per una pletora di razze e di classi. Lo Stato continuava a gestire con molta accortezza la disponibilità di manodopera africana, facendola arrivare dall’interno secondo pratiche già consolidate. Per l’alto commissario britannico Milner, le riserve dei nativi africani, il controllo dei flussi di manodopera verso le aree urbane e la manipolazione dei capi africani erano strumenti necessari per garantire la disponibilità di forza lavoro necessaria all’economia coloniale. Per giustificare le politiche segregazionistiche, il potere coloniale ricorreva al darwinismo sociale, corroborato dalle nuove dottrine razziali provenienti dagli Stati Uniti.
Il quarto importante processo di cambiamento ebbe luogo in parte al di fuori delle città. In Sudafrica si era sviluppato il sistema della «manodopera migrante», che avrebbe caratterizzato la storia di questo paese nel tardo XX secolo. Esso consisteva nel trasferimento ciclico, spesso annuale, dei giovani lavoratori africani maschi fisicamente prestanti da e verso il centro dell’economia: le città. La storia del lavoro migrante in Sudafrica ebbe inizio nel Natal, dove le piantagioni di canna da zucchero dipendevano dalla manodopera proveniente dal Mozambico. La migrazione ciclica si trasformò poi in un sistema generalizzato tipico del paese e del subcontinente, che riforniva di manodopera a buon mercato il settore minerario, quello del commercio e quello agricolo, e che diventò, con il tempo, la spina dorsale del sistema industriale ed economico dell’apartheid.
La preferenza dei proprietari delle miniere per la poco costosa manodopera migrante coincise inizialmente con alcuni interessi degli africani stessi. Il lavoro dei giovani maschi – a Johannesburg, nel 1910, 9 abitanti di colore su 10 erano maschi – portava denaro ai padri di famiglia e ai capi. Solo gradualmente (e in buona misura grazie a un’azione sistematica e mirata del governo) il denaro cominciò a diventare necessario per sopravvivere anche nel Sudafrica rurale, fino a trasformare il lavoro migrante in una necessità. Negli anni Venti, in qualsiasi momento dell’anno tra il 30 e il 40% degli uomini attivi nelle aree rurali era al lavoro altrove.
Se ad anticipare e a forgiare questa trasformazione erano state la supremazia dei bianchi e la segregazione, i veri agenti del cambiamento furono le forze imper­sonali del mercato, la potenza dell’impero e il capitale. Nel 1910, l’Act of Union (legge per l’Unione) formalizzò l’esistenza del nuovo Stato, cementandone le strutture politiche. Grazie all’apparato politico d’impronta razziale, le nuove istituzioni consolidarono i privilegi dei bianchi, i quali si garantirono il monopolio del potere riservando a se stessi il diritto di voto. In questa fase si posero le fondamenta economiche, politiche e istituzionali della segregazione e dell’apartheid.
La segregazione e la prima apartheid, 1910-60
Il decennio successivo al 1910 è marcato dalla predominanza degli inglesi e dall’approfondirsi della segregazione razziale di cui beneficia l’alleanza politica tra gli agricoltori afrikaner, i bianchi proprietari delle miniere e chi da loro dipende. Durante la ricostruzione postunitaria, la questione della disponibilità di manodopera resta al centro della politica del governo. Le riserve dei nativi, il controllo dei flussi in ingresso – in altre parole, la gestione coercitiva della migrazione dei lavoratori africani nelle città esercitata tramite un complesso sistema di lasciapassare e di norme che regolano gli spostamenti degli africani nelle aree destinate agli europei – e le autorità tradizionali consenzienti sono gli affidabili strumenti politici per uno Stato votato a favorire il capitale minerario e quello agricolo. La popolazione africana che vive nelle campagne subisce le norme costrittive in ogni aspetto della propria vita, mentre grazie al sistema della manodopera migrante viene gradualmente trasformata in classe lavoratrice.
Il Native Land’s Act (legge sulla terra dei nativi) del 1913 destina l’87% della terra ai bianchi ed è la base per il divieto di acquisto di terra e di altre proprietà non legate al lavoro salariato da parte dei nativi. L’Urban Areas Act (legge sulle aree urbane) del 1923 crea infine gli strumenti legali per radicare sempre più le pratiche della segregazione e del controllo dei flussi in ingresso. Per gli africani, il controllo dei flussi, che inizialmente aveva costituito una possibilità di integrare il ricavo delle attività rurali con denaro contante, diventa una scelta inevitabile a seguito dell’aumento delle tasse, delle espropriazioni e della densità della popolazione nelle aree rurali.
Per reclutare lavoratori maschi giovani, la Camera delle miniere si avvale di commercianti, di criminali e dei capi tradizionali consenzienti. A partire dal 1910 questa prassi segue sempre il criterio del minor costo e riguarda aree geografiche sempre più vaste. Nel 1920, il sistema di controllo centralizzato dei flussi di forza lavoro tocca più di 200 mila lavoratori, cifra che negli anni successivi crescerà fino a toccare nel 1961 il picco di 430 mila migranti.
Nel frattempo, nel Sudafrica bianco, tra il 1907 e il 1933 – in un periodo di nazionalismo economico – si intensificano i conflitti di classe e la lotta tra i proprietari delle miniere e i lavoratori bianchi. Nel 1922, la rivolta del Rand, quando afrikaner e bianchi di lingua inglese si ribellano contro i capitalisti ma anche contro i neri, viene soffocata solo con la forza. Sul terreno restano oltre 200 vittime. Il governo del 1924, al quale partecipano sia il National Party (Np, Partito nazionalista) di Hertzog sia il Partito laburista, getta le basi di uno Stato sociale per gli afrikaner. L’emergere del nazionalismo afrikaner, esso stesso figlio della distorsione sociale, lancia un ponte tra i divari regionali e di classe.
Tra il 1933 e il 1948, il Sudafrica emerge dalla depressione e si avvia a una seconda rivoluzione industriale. Sulla scia del rialzo del prezzo dell’oro conseguente al crollo del gold standard, unito poi alla crescente domanda di esportazioni manifatturiere dal Nord del mondo che si prepara per la guerra mondiale, l’economia si sviluppa rapidamente e gli interessi inglesi si diffondono al di là dei territori nei quali si svolge l’attività economica principale – l’estrazione dell’oro. La diffusione del benessere, sostenuta anche dal boom delle esportazioni, aiuta a finanziare i programmi sociali e di sostegno all’agricoltura. In questo periodo, tuttavia, si assiste anche alla crescita dell’Np «purificato» di D.F. Malan, che mira a una segregazione razziale ancora più rigida. L’unità tra i bianchi risente anche dello schieramento del Sudafrica dalla parte degli Alleati nella seconda guerra mondiale. Dopo la for­mazione del «governo di fusione» nel 1934, il secessionista Np riesce a mobilitare gli afrikaner su scala nazionale grazie alle numerose organizzazioni culturali ed educative, ai sindacati e alle corporazioni loro riservate. Gli agricoltori, i funzionari statali, gli insegnanti e i bianchi poveri si avvicinano sempre più ai nazionalisti.
La fine degli anni Trenta segna la fase estrema della segregazione. Nel 1936 è approvata una legislazione che fissa le riserve per i nativi e cancella il diritto di voto agli africani detentori di proprietà nel Capo, che fino a quel momento avevano goduto di tale eccezionale privilegio. È il momento che segna anche il punto più basso della resistenza nera. L’African National Congress (Anc), elitario, lontano dai lavoratori e dalla protesta radicale fin dalla sua fondazione nel 1913, continua a procedere sulla sua sterile strada. I movimenti politici indiani e dei coloureds riescono a organizzarsi soltanto attorno a questioni specifiche o locali. La resistenza politica si esprime più che altro all’interno delle Chiese e attraverso una diffusa non osservanza della legge.
In questi anni gli africani sono politicamente sulla difensiva. Si limitano a praticare le credenze religiose e le forme d’autorità tradizionali per difendere i diritti della terra e della pastorizia e per avanzare rivendicazioni su interessi particolari e localizzati nei contesti urbani.
L’economia fiorente degli anni di guerra porta all’allentamento della segregazione e all’inesorabile urbanizzazione. Nelle città sono attirati alla stessa stregua bianchi e neri, ma i cambiamenti che coinvolgono la popolazione africana sono particolarmente marcati. Tra il 1936 e il 1946, il numero degli africani nelle aree urbane cresce da 139 mila a 390 mila e per la prima volta molti di questi nuovi immigrati sono donne. La presenza degli africani nell’economia urbana si esprime politicamente in vari modi: fioriscono i sindacati, si apre un buon numero di posizioni con mansioni più specializzate e in diversi settori le barriere del colore vacillano. Le strutture formali della politica africana – in particolare, a partire dal 1944, l’Anc Youth League (Lega giovanile dell’Anc) – organizzano proteste specificamente inclusive con l’obiettivo di riunire gli oppositori alla segregazione. Il Partito comunista sudafricano lancia tra il 1943 e il 1944 varie campagne contro i lasciapassare e i boicottaggi dei bus diventano un importante strumento di protesta. Durante gli anni della guerra gli scioperi si intensificano, ma le agitazioni continuano anche nel dopoguerra con l’emergere di una nuova generazione di attivisti guidata da Nelson Mandela e da Oliver Tambo, che associa all’azione dell’Anc gli scioperi e le occupazioni di terre nel Rand.
Il 1948 è un anno significativo nella storia moderna del Sudafrica: il partito afrikaner Np vince la prima di diverse prove elettorali grazie allo slogan dell’apartheid. L’Np rimarrà al potere fino alle prime elezioni universali del 1994. Anche se tra la segregazione precedente alla guerra e l’apartheid del dopoguerra ci sono più elementi di continuità che di discontinuità, è solo negli anni Sessanta che il potere afrikaner si adopererà per produrre la deformazione sociale senza precedenti che segnerà la seconda fase dell’apartheid. Perché quindi il 1948 è considerato così frequentemente la data chiave nella storia sudafricana del XX secolo?
Innanzitutto, le elezioni generali del 1948 rappresentano un trionfo decisivo per la nuova generazione intransigente di politici afrikaner dell’Np. La loro non è una vittoria schiacciante né rappresenta un cambiamento radicale nel sentimento dei bianchi (e nemmeno in quello degli afrikaner). Il primo ministro sconfitto, Jan Smuts, ha perso buona parte del sostegno degli afrikaner a causa della strisciante paura suscitata dall’urbanizzazione dei neri e dalla presenza degli africani in lavori un tempo riservati ai bianchi, che erano stati mobilitati per andare in guerra. I problemi locali hanno un grande impatto nel Natal, dove la questione delle restrizioni sulle proprietà per gli indiani gioca un ruolo centrale. Nel Transvaal e nell’Orange Free State, l’incertezza degli agricoltori sulla futura disponibilità di forza lavoro e sulle intenzioni dell’United Party (Up) sposta i voti verso l’Np di Malan, nonostante questi sia originario del Capo Occidentale e abbia lì la sua base elettorale principale. Quattro afrikaner su dieci votano per l’Up, mentre l’Np, che conta anche sul voto del 20% degli abitanti di lingua inglese, raggiunge il 39%. Ancora una volta, la fortuna è dalla parte dell’Np. Sebbene l’Up e il Labour dispongano insieme del 53% dei suffragi, l’Np vince perché prevale, seppure di misura, laddove l’elettorato è prevalentemente rurale o peri-urbano. Per l’Np la vittoria chiave del 1948 è dunque quasi fortuita, dato che si è giocata sulla scelta di alcune minoranze e sul voto di protesta. Il nazionalismo afrikaner è diventato trasversale dal punto di vista di classe e regionale. E sul tema della segregazione è in grado di aggregare i lavoratori e gli agricoltori, mentre deve ancora conquistare l’egemonia sull’insieme dell’elettorato bianco.
La seconda ragione per la quale il 1948 è considerato un anno di svolta è lo slogan che segna la campagna elettorale dell’Np e che da allora in poi diventa la caratteristica comune del discorso politico del Sudafrica bianco: «apartheid», ossia separatezza.
L’apartheid di quell’anno chiave è tuttavia diversa da quella degli anni Sessanta. Confonderla con quella successiva sarebbe come rileggere la storia all’indietro. Lo slogan «apartheid», assieme alle paure legate all’urbanizzazione dei neri e alla competizione per i posti di lavoro su cui essa aveva richiamato l’attenzione, è un importante asso nella manica dell’Np nella sua stretta vittoria elettorale del 1948. La forza di questo termine sta nella sua ambiguità. I sostenitori dell’Np sono convinti che gli africani debbano restare esclusi dal potere politico e vogliono riaffermare la supremazia dei bianchi. Ma al di là di questo, il concetto di apartheid mette nello stesso sacco cose molto diverse. Ad esempio, avrebbero dovuto gli afrikaner lottare per una segregazione totale che mirasse a sostituire la manodopera africana con lavoratori bianchi (per nascita o per immigrazione) come molti intellettuali, uomini della Chiesa e insegnanti sostenevano? O era giusto che gli imprenditori e gli agricoltori continuassero a poter disporre di manodopera nera con una forma moderata e pragmatica di segregazione?
Lo slogan «apartheid» riesce ad aggregare nuovi elettori – quali i militari rientrati dal fronte – e a creare una base interregionale e trasversale alle classi attingendo a elettorati diversi. Si rivela così un modello di grande successo nel campo della retorica politica.
Una terza ragione dell’importanza storica del 1948 è il corpo di ripugnanti leggi che l’Np vara subito dopo la sua prima vittoria elettorale. Tra queste, la legge per la registrazione della popolazione, che obbliga ogni singola persona a rientrare in una delle quattro rigide categorie razziali stabilite: bianchi, coloureds, indianiasiatici e nativi (più tardi bantu o africani). Questa classificazione fornisce anche la base per l’elaborazione sistematica di un’architettura sociale ed economica che porterà poi al periodo dell’apartheid più estrema, o high apartheid. Nel primo periodo di governo, tuttavia, l’attenzione dell’Np si concentra su importanti aspetti simbolici della vita delle persone e sul mercato del lavoro. I matrimoni misti sono proibiti nel 1949 e nel 1950 la legge sull’immoralità vieta qualsiasi tipo di contatto sessuale tra bianchi e sudafricani di ogni altro gruppo. La segregazione abitativa è un altro campo importante dell’attività legislativa: la legge del 1950 sulle aree destinate ai gruppi etnici impone la segregazione per razza in tutto il paese. La legge del 1953 sulla segregazione nel tempo libero si applica ai trasporti, ai cinema, ai ristoranti e agli impianti sportivi e più tardi impone la segregazione anche nelle scuole primarie, in quelle superiori e nelle università.
Diversamente da molte leggi successive, questo corpo normativo dell’apartheid così misero e ottuso non mira a cambiare le strutture economiche del Sudafrica ma serve semplicemente a palesare il disprezzo razziale.
Il mito del 1948 come anno di rottura è alimentato anche dall’Np, che nel trentennio successivo farà riferimento a quella data come all’inizio dell’esecuzione del «grande piano» – l’apartheid – da parte dei suoi leader. Il concetto del «grande piano» prende piede perché affascina sia i liberal sia gli afrikaner. I primi se ne avvalgono per condannare gli afrikaner in quanto oppressori sistematici. I secondi lo usano per enfatizzare il loro controllo sugli eventi e per nascondere dietro alla perfezione morale di una presunta elaborazione teorica la confusa realtà dell’oppressione. Alcuni studiosi, tuttavia, fanno notare che la politica dell’Np dopo il 1948 è costituita essenzialmente da una continuità pragmatica con le strategie di governo precedenti – seppure radicalizzate – e da risposte puntuali del partito a singole questioni.
L’apartheid degli anni Cinquanta è in sostanza lo strumento per risolvere problemi specifici, latenti quanto profondi, non solo nella sfera economica, ma più in generale in tutti i campi della politica sociale. Nelle aree urbane, i nazionalisti vogliono ristabilire il controllo sulla crescita della popolazione nera e lanciano una strategia di «stabilizzazione» che prevede la distruzione delle baraccopoli, la «purificazione» delle aree bianche e la costruzione di townships adiacenti alle principali città «europee» segregate per razza (e in seguito, qualche volta, secondo criteri etnici). Il complesso sistema di leggi sui lasciapassare usato per controllare i movimenti dei lavoratori africani fin dal tardo secolo XIX (e al Capo anche prima) è ora affiancato da un nuovo sistema che permette di incriminare e deportare i «trasgressori».
Nelle aree rurali, i mal concepiti compromessi sulla re-tribalizzazione sono formalizzati dalla legge del 1951 sulle autorità bantu che, tramite un sistema abbinato di amministrazione da parte delle autorità «tradizionali», crea un ambito totalmente distinto per la politica africana.
L’Np consolida subito il vantaggio elettorale abolendo «l’eccezione del Capo» (dove ad alcuni non bianchi era consentito votare) e manipolando il voto in Namibia. In secondo luogo, si adopera per creare un nuovo clima morale tra gli elettori bianchi. Il palese, sistematico razzismo della legislazione degli anni Cinquanta, sommato alla rigida classificazione della popolazione, rende possibile concepire esistenze sociali ben distinte per ogni gruppo razziale o etnico. Infine, l’Np trascina su questa linea politica anche i burocrati di lingua inglese e gli afrikaner più radicali, in particolare i membri di un gruppo nazionalista e clandestino dell’establishment afrikaner, il Broederbond. I membri del Bond erano molto attivi nell’affermare la predominanza politica degli afrikaner. Verso la metà degli anni Cinquanta occupavano già posti chiave nel cuore del potere esecutivo. Il dipartimento per gli Affari dei nativi, in particolare, che si occuperà di elaborare le politiche razziali degli anni Sessanta, crescerà fino a diventare uno Stato nello Stato.
L’intervento dello Stato è un tema cruciale nella politica degli anni Cinquanta. Nel 1948, i nazionalisti sono convinti che «la maggior parte dei problemi che lo Stato deve affrontare siano risolvibili con successo se si espande semplicemente il raggio d’azione e l’intensità dell’intervento statale sul fronte sociale, politico ed economico» 4. Il rapporto della Commissione Fagan del 1946 raccomanda di creare uffici per il lavoro e documenti d’identità «idealmente volontari» per tenere sotto controllo l’urbanizzazione degli africani (ammettendo in ogni caso che questi spostamenti della popolazione africana dovevano essere tollerati).
Ascesa e caduta dell’high apartheid
I governi degli anni Cinquanta non furono per certi aspetti un’eccezione nella storia del Sudafrica – né dell’Africa coloniale, dove la supremazia bianca e l’esclusione degli africani dall’attività politica formale erano la norma. La seconda fase dell’apartheid, invece, quella che coincide con gli anni Sessanta, rappresenta qualitativamente un periodo ben distinto nella storia del paese, in quanto comporta un mutamento di direzione e non un semplice accumularsi di misure che approfondiscono la segregazione. I trasferimenti forzati di massa dei neri residenti in terre «sbagliate», le nuove homelands, detti anche «bantustan», e la «re-tribalizzazione» mirata impongono all’ingegneria sociale un balzo verso una nuova dimensione: lo Stato aumenta la sua influenza, il controllo poliziesco si intensifica e si assiste a una lotta tra i vari apparati militari e della sicurezza per il dominio sul potere sudafricano.
La dottrina segregazionista è sostituita dalla più pericolosa nozione di «sviluppo separato», che parte dall’idea che gli africani e gli altri non bianchi debbano risiedere e godere dei loro diritti di cittadinanza in territori stabiliti su base etnica – le homelands. Se fino al 1961 la supremazia bianca e la segregazione si sono tradotte nella quotidianità politica e legislativa in un’esplicita gerarchia razziale, da quell’anno in poi l’Np si impegna a un’uguaglianza formale tra i gruppi intesi in termini etnici. La spiegazione di questa tendenza è da ricercarsi in parte nei movimenti di lotta anticoloniale in altre zone dell’Africa e in particolare nell’esperienza degli ex protettorati britannici del Botswana, del Lesotho e dello Swaziland, che molti leader politici afrikaner avevano sperato inizialmente di potere incorporare nel Sudafrica, sulla base della loro dipendenza dall’economia del Witwatersrand. Se i nazionalisti africani potevano premere per l’indipendenza di Stati definiti artificialmente, perché non si sarebbe potuta concedere l’«indipendenza» a Stati altrettanto artificiali all’interno del Sudafrica stesso?
Lo «sviluppo separato» rappresenta il concetto chiave di questa fase dell’apartheid. La quale culmina nel trasferimento dei diritti politici degli africani all’interno dei bantustan. Nel 1970, tutti gli africani sono obbligati ad assumere la cittadinanza in una specifica homeland. Nel decennio successivo, quattro homelands saranno dichiarati nominalmente indipendenti, pur se non riconosciuti a livello internazionale.
La dottrina dello «sviluppo separato» implicava che ogni sudafricano dovesse appartenere a un gruppo etnico, nazione o tribù e che ciascuno di questi gruppi dovesse disporre di una propria terra autogovernata. Le categorie etniche furono imposte alla popolazione nera, perlopiù maldisposta, tramite pervasivi meccanismi di ingegneria sociale. La categorizzazione burocratica di un intero popolo secondo le regole della discendenza divise le comunità e persino le famiglie. I conseguenti trasferimenti di popolazioni – semplificati da una classificazione ufficiale per razza e gruppo etnico – furono brutali. Tra il 1960 e il 1989, i trasferimenti forzati coinvolsero ben 3,5 milioni di persone che, sulla base delle regole della burocrazia, risiedevano in posti «sbagliati» dal punto di vista etnico.
Gli homelands non si avvicinarono mai all’autosufficienza economica o alla legittimazione politica. La principale fonte di reddito continuava a essere il lavoro salariato nel cuore bianco dell’economia sudafricana. I bantustan erano giustificati innanzitutto come sede politica naturale delle etnicità, sulla spinta della «re-tribalizzazione» sistematica. L’etnicità e il tribalismo diventarono quindi il pilastro principale dell’autogoverno delle homelands. Le affiliazioni etniche avevano anche lo scopo di negare agli africani il concetto di nazionalità sudafricana come base corretta della loro identità politica. Le divisioni etniche ufficiali degli anni Sessanta furono stabilite sulla base degli studi realizzati nei decenni precedenti da esperti e da missionari europei. Ci si basava sulla loro visione, rivelatasi poi profondamente sbagliata, secondo cui le culture e le lingue «tribali» avevano una natura permanente.
Sotto il regime dell’apartheid, il tribalismo artificiale ricevette nuovo impulso. Così emersero nuovi gruppi, come le élite burocratiche e politiche dei bantustan, per i quali tribalismo e sistema degli homelands rispondevano ai propri interessi. Ogni bantustan destinato a godere dell’indipendenza politica doveva disporre di istituzioni pubbliche, mantenendo separato il potere giudiziario da quello esecutivo. E contava su una élite politica (spesso formata proprio dai «leader tradizionali» già riconosciuti) pronta a governare. Oltre a questi «burocrati degli homelands», era sorta anche una nuova classe di commercianti e uomini d’affari radicati nelle homelands che si era inserita nello spazio lasciato dai commercianti e dagli imprenditori bianchi e che traeva vantaggio dai nuovi sussidi elargiti dallo Stato.
Mentre i diritti politici degli africani restavano confinati all’interno dei bantustan, le elezioni «democratiche» avevano conferito all’Np la legittimazione per consolidare il proprio dominio. Nel 1960, il Broederbond aveva occupato i posti chiave nell’esecutivo del Sudafrica, dai quali guidava un’ambiziosa centralizzazione dei poteri dello Stato. Le autorità locali che negli anni Cinquanta avevano ostacolato il controllo dei flussi migratori furono facilmente aggirate. Negli anni Sessanta lo Sta­to centrale era in grado di gestire i flussi senza ostacoli. La resistenza politica africana sosteneva chi avesse richiesto nuove misure e invocava una profonda rivoluzione dello sviluppo separato. Ma fu piuttosto il rifiuto di milioni di singoli lavoratori di veder controllati i propri movimenti a rendere alla fine insostenibile il sistema dei flussi.
Tra il 1960 e il 1970, mentre il numero degli abitanti africani nelle aree urbane crollava di circa 200 mila unità, la popolazione nei bantustan cresceva di circa 1 milione. L’estremo sovraffollamento e il conseguente impoverimento delle riserve, nonché la riduzione artificiale dei posti di lavoro nelle aree urbane bianche, avevano creato un forte incentivo perché milioni di lavoratori sfidassero il sistema di controllo dei flussi.
La transizione verso la democrazia
Come crollò questa grande struttura messa in piedi dall’apartheid più estrema? Quali processi spiegano il suo abbandono? Come si arrivò a negoziare il «miracolo» di una transizione democratica tra un regime razzista e il suo oppositore «terrorista», l’Anc? Il crollo del regime dell’apartheid e l’accordo negoziato per un regime democratico furono influenzati profondamente da alcuni fondamentali eventi internazionali.
Nel mondo degli anni Settanta e Ottanta il nazionalismo economico appariva sempre meno praticabile perché, grazie ai tassi di cambio variabili e ad altri fattori, i movimenti finanziari internazionali scavalcavano le barriere dei singoli Stati. I trasferimenti di tecnologia e la collaborazione internazionale in campo industriale intensificarono le pressioni sugli Stati. I teorici della deregulation economica imposero una nuova ortodossia neoclassica, o «consenso di Washington», che si scontrava totalmente con le basi stataliste e antimercatiste dell’apartheid. Sul piano interno, lo Stato sudafricano affrontava da tempo una crisi strutturale. Le istituzioni che dovevano controllare i flussi migratori e che in realtà non erano mai state molto efficaci cominciarono a cedere, mentre contemporaneamente accelerava il ritmo di crescita della popolazione urbana nera. L’impatto della crisi degli investimenti produttivi si fece sentire con forza.
La crisi economica del blocco sovietico aveva ridotto l’interesse degli Stati Uniti e delle altre potenze occidentali per i regimi clienti, come quello del Sudafrica. Con l’indipendenza di Angola, Mozambico, Zimbabwe e Namibia, Pretoria aveva perso i regimi cuscinetto che la proteggevano a nord. I molti esperimenti geopolitici che negli anni Novanta si svolgevano simultaneamente nell’Africa meridionale indicavano una tendenza generale verso istituzioni e pratiche democratiche – la stessa direzione favorita dalle esigenze della crescita economica, dell’attrazione di investimenti nel paese e della legittimazione politica internazionale. Tutto ciò, sommato alla stagnazione dell’economia, al crollo del controllo della manodopera e all’urbanizzazione, rendeva realistica l’ipotesi della collaborazione tra l’Anc e il governo dell’Np. Si poteva puntare a una transizione negoziata, ma ci vollero decenni di opposizione politica organizzata per impedire che l’Np l’evitasse o la rinviasse. La più importante organizzazione anti-apartheid, l’Anc, era stata anzitutto, a partire dagli anni Sessanta, un’organizzazione dell’esilio. Ora però aveva adottato un doppio approccio verso la lotta. Uno pacifico, l’altro militare, o quasi. Con l’offensiva diplomatica contro il regime dell’apartheid, sotto la guida del suo leader Oliver Tambo, l’Anc aveva lanciato con successo una campagna per conquistarsi un forte sostegno internazionale in Occidente, nel blocco sovietico e nel mondo in via di sviluppo. Minor successo avevano ottenuto le operazioni quasi militari lanciate dall’Anc contro il regime, usando i vicini Stati coloniali come base. La lotta armata era inefficace soprattutto a causa della sofisticazione dell’intelligence sudafricana e della sua capacità di infiltrarsi nell’Anc. C’è chi sostiene che sia stata l’ala militare dell’Anc, Umkhonto we Sizwe (Mk), a fornire all’Np e ai suoi alleati a Londra e a Washington una giustificazione per il rifiuto della «trattativa con i terroristi».
Alla fine fu il conflitto politico interno a rivelarsi decisivo nel costringere l’Np a sedersi al tavolo negoziale. I giovani e gli studenti, dopo la decisiva rivolta cominciata a Soweto nel 1976, si battevano senza sosta a favore del cambiamento.
L’ultima fase della battaglia vide protagonisti un regime afrikaner sempre più militarizzato e oppressivo e un potente movimento di protesta di massa, che includeva lavoratori organizzati, studenti e associazioni comunitarie. Esso fu in grado di esercitare una pressione tattica continua sul regime dell’apartheid.
Nel 1983 fu formato l’United Democratic Front (Udf). Vi confluì, su una piattaforma comune di lotta contro l’apartheid, un ampio spettro di organismi civili, religiosi, studenteschi e di lavoratori. Negli anni Ottanta, i sindacati neri indipendenti avevano costituito la potente Federazione dei sindacati sudafricani (Cosatu), pro Anc, che più tardi si sarebbe dimostrata capace di paralizzare totalmente l’economia.
Decisive furono però le proteste locali, diffuse già a partire dal 1984 – a partire dal Vaal fino al Rand Orientale, al Natal, al Capo Orientale e al Free State – su cui l’Anc non esercitava sostanzialmente alcuna influenza. I tentativi dell’Anc di capitalizzare queste rivolte si rivelò tatticamente inetto. Una minoranza di esiliati accorti capì che avrebbe potuto far leva su questi focolai per reclutare nuovi quadri e per integrarli in una disciplinata organizzazione clandestina, di cui il movimento di liberazione chiaramente non disponeva. Ma nella leadership esiliata prevalse l’idea di trasformare i comitati di difesa delle townships in «gruppi di combattimento» che sfidassero il regime dell’apartheid.
Per mettere in atto questa strategia, che si sarebbe rivelata sbagliata, tra il 1985 e il 1986 l’Mk decise di infiltrare massicciamente questi movimenti con i suoi 150 quadri mal equipaggiati e mal addestrati. Grazie a questo sforzo riuscì a raddoppiare in poco tempo la propria presenza sul territorio. Non ci volle molto tuttavia perché i servizi di sicurezza dello Stato riuscissero a catturare i quadri, a ucciderli e a restaurare lo status quo. In nessun momento i quadri spediti sul territorio erano riusciti ad assumere un ruolo di avanguardia nelle proteste delle comunità.
Queste lotte furono rese famose nel mondo dal discorso con cui la moglie di Nelson Mandela, Winnie Madikizela-Mandela, si era dichiarata a favore del «necklacing» («collare»), una tecnica per uccidere utilizzando un pneumatico riempito di carburante cui si dava fuoco. Nell’aprile del 1986, a Munsieville, vicino a Krugersdorp, Madikizela-Mandela dichiarò che «insieme, mano nella mano, armati di fiammiferi, con il nostro “collare”, libereremo questo paese». Le uccisioni dell’anno precedente a KwaNobuhle e a Duduza, ampiamente pubblicizzate, avevano già spinto l’arcivescovo Desmond Tutu a minacciare di «fare i bagagli e partire con la mia famiglia, lasciando questo bellissimo paese». Il discorso dell’aprile 1986 scatenò nel Sudafrica bianco e all’estero una campagna di demonizzazione contro Winnie Mandela.
Da allora, la maggior parte dei sudafricani ha scelto di cancellare dalla propria memoria i roghi pubblici e di convincersi che questa tecnica non ha mai costituito una politica dell’Anc. Nel 1992, il dipartimento per l’Informazione e la propaganda del movimento di liberazione fu quindi in grado di affermare senza contraddirsi che «la tecnica del “collare” era un metodo di esecuzione barbaro e inaccettabile che l’Anc non ha mai approvato». Ciononostante, le ambiguità riguardo ad alcune uccisioni via «collare» non sono mai del tutto scomparse. Come quando nel 1985 e nel 1986 Oliver Tambo sostenne che sebbene le vittime «non fossero state felici» di indossare il «collare», egli non avrebbe condannato chi era stato spinto a utilizzarlo.
Nella realtà, l’Anc non era un potenziale istigatore all’uso tattico del «collare», semmai era un osservatore distante e impotente. Le parole del segretario generale dell’Anc, Alfred Nzo, in un’intervista al Times di Londra, riflettono perfettamente l’impotenza dei leader in esilio: «Qualunque cosa le persone decidano di usare per eliminare i nemici, si tratta di una decisione che spetta a loro. Se decideranno di usare la tecnica del “collare”, li sosterremo».
La tecnica del «collare» rimase soprattutto una «punizione» utilizzata dai membri delle comunità locali e al loro interno. L’ambiguità dei leader dell’Anc testimonia probabilmente il tentativo di non ammettere i limiti del proprio potere, piuttosto che un’ipotetica decisione morale assunta dagli esiliati e dai prigionieri.
Nel corso degli anni Ottanta, lo slogan unificante dell’Anc e delle altre forze antiapartheid diventò quello di «rendere il paese ingovernabile». Nel 1986, il governo rispose dichiarando lo stato di emergenza e procedendo a una diffusa campagna di arresti e di processi fasulli. Nel 1988 furono messe fuori legge 30 organizzazioni dell’opposizione. A causa delle restrizioni imposte alla stampa, sugli assassini politici e sulla tortura da parte delle autorità, come anche sulla violenza ormai inarrestabile nelle townships, in Sudafrica si sapeva meno che all’estero. Anche se le misure di emergenza riuscivano a contenere e a frenare la strategia dell’ingovernabilità promossa dall’opposizione, esse provocavano allo stesso tempo una più forte e massiccia condanna internazionale del regime di Pretoria. Ciò produceva un certo impatto sui sudafricani bianchi.
Intanto, i mutamenti ideologici all’interno delle élite politiche ed economiche avevano portato molti intellettuali afrikaner a disertare l’Np, mentre si sviluppava­no contatti tra l’Anc in esilio e alcuni imprenditori sudafricani. Nel 1989, la svolta grazie al coraggio e all’abilità tattica del nuovo presidente Frederik Willem de Klerk, un afrikaner convinto della necessità di negoziare un compromesso con l’opposizione.
Il fatto che i due schieramenti si sedessero infine al tavolo dei negoziati non fu in fondo una sorpresa. Dopotutto, tra i leader dell’Np e quelli dell’Anc le differenze ideologiche non erano così marcate. Gli uni e gli altri erano statalisti e nazionalisti, pragmatici in materia di politiche economiche e pubbliche, disposti al compromesso. Le prospettive del negoziato apparivano quindi ottime. Nonostante le varie esperienze di esilio, di prigionia e di lotta nel paese, i membri dell’Anc mostravano un senso di responsabilità quasi patologico che li induceva a privilegiare la coesione della loro organizzazione. L’Np invece aveva seri dubbi sull’affidabilità e sull’integrità dei militari e, con qualche eccezione, dell’apparato di sicurezza. Ma il rischio di disintegrazione dello Stato o di colpo di Stato era modesto. Come bassa era la probabilità di una guerra civile, nonostante il violento conflitto nel Natal.
Il processo negoziale confermò che entrambe le parti volevano l’accordo. Secondo la testimonianza di una persona coinvolta direttamente nelle trattative, furono soprattutto le fortissime pressioni economiche e dell’opinione pubblica internazionale a spingere l’allora leader dei «falchi» dell’Np, Pieter Willem Botha, ad avviare contatti con l’Anc, verso la metà del 1987. Nel febbraio del 1990, de Klerk, succeduto a Botha, procedette alla decisiva legalizzazione delle organizzazioni dell’opposizione, alla prescrizione di alcuni reati imputati a singoli individui e a un’amnistia selettiva per i prigionieri. Da lì a poco, il governo acconsentì al ritorno degli esiliati politici e, nel tentativo di ristabilire il controllo sulle townships, sancì la fine dello stato di emergenza imposto nel 1986.
Gli intensi negoziati avviati nel 1991 si conclusero a Natale con una dichiarazione congiunta in cui le due parti si impegnavano a negoziare nel quadro della Convention for a Democratic South Africa (Convenzione per un Sudafrica democratico – Codesa). La Codesa raggruppava 18 organizzazioni politiche favorevoli a un Sudafrica «non diviso», a una legislazione sui diritti, a un sistema multipartitico con un governo costituzionale, alla separazione dei poteri, alle libertà civili e ad altre libertà di cui tutti i cittadini avrebbero dovuto godere.
In varie occasioni il negoziato sembrò arenarsi o imboccare strade sbagliate. Nel 1992 si impantanò perché il gruppo di lavoro della Codesa sui princìpi costituzionali non trovava l’intesa sul tipo di maggioranza che avrebbe controllato l’as­semblea costituente. Ma nel marzo 1993, le 26 parti coinvolte nel negoziato erano nuovamente riunite. Il presupposto di base delle trattative era il «consenso», che tuttavia rapidamente diventò un «consenso sufficiente». Come osserva Johnston, i negoziati Anc-Np poggiavano «sull’assunto che entrambe le parti contassero su un “consenso sufficiente”, ossia un consenso al proprio interno». Il lavoro dei comitati tecnici che dovevano individuare le soluzioni riguardanti i problemi della violenza, della legislazione discriminatoria, dei media, della commissione elettorale, dei diritti umani e delle questioni costituzionali era già avviato nell’aprile del 1993, così come si era già concordato che il Consiglio esecutivo di transizione (Tec) assumesse le funzioni di governo nel periodo immediatamente precedente alle prime elezioni non razziali. A settembre era già stata redatta ed era entrata in vigore la costituzione del Sudafrica (nota come costituzione della transizione o ad interim ) ed era stata approvata la legislazione per le «elezioni libere e giuste».
L’intero processo era stato sviluppato solo da istituzioni già esistenti: un’indicazione estremamente chiara dello straordinario grado di controllo che le due parti negoziali avevano sugli eventi. Alla redazione della costituzione ad interim fu dedicata un’attenzione estrema, quasi si trattasse di un contratto e non di un’impalcatura di regole generali. Il Tec – il gabinetto alternativo cui sarebbe spettato il potere esecutivo nel periodo pre-elettorale – si attenne quindi a norme stabilite da statuti molto dettagliati. Anche gli altri accordi di transizione furono definiti con altrettanta cura, inclusa la tabella di marcia secondo la quale si sarebbe dovuto approvare la costituzione finale, formulata secondo 34 princìpi costituzionali, entro il maggio 1996, sotto la supervisione della Corte costituzionale. Nonostante che l’Inkhata Freedom Party (Ifp) avesse più volte minacciato la rottura, il negoziato fu una dimostrazione trionfale del controllo detenuto dalle élite. Nel 1994, pochi anni dopo l’inizio del negoziato, Nelson Mandela era presidente del Sudafrica.
La cronologia e le condizioni della stesura della costituzione finale produssero soluzioni chiare e nette, necessarie a superare differenze molto radicate tra le principali parti coinvolte nella trattativa. Mentre l’Np voleva la stesura completa e definitiva della costituzione prima delle elezioni libere, l’Anc preferiva invece che dalle elezioni scaturisse un’assemblea costituente dotata dei poteri per riscrivere la costituzione da zero. L’inclusione dell’obbligo di rispettare i princìpi costituzionali – assieme alle garanzie offerte dal principio della decisione consensuale, dal governo di unità nazionale e dalla Corte costituzionale – permisero a de Klerk di convincere la propria base elettorale ad accettare un accordo che favoriva l’Anc. Le concessioni aggiuntive da parte dell’Anc – le «sunset clauses» («clausole del tramonto») e la garanzia delle pensioni per vaste categorie di dipendenti dello Stato e delle forze di sicurezza – si rivelarono pienamente efficaci, nonostante fossero palesemente un modo di comprarsi il consenso di molti futuri ex dipendenti dello Stato (la garanzia di una pensione per i membri della polizia militare era probabilmente la più efficace e spudorata di tali misure). Certi cambiamenti legislativo- costituzionali, tra cui la fine della «sovranità parlamentare» ereditata dal pen­siero legislativo britannico, resero meno minacciosa l’idea della regola della maggioranza. La fiducia fu consolidata elevando la costituzione al nuovo status di legge suprema del paese e allargando l’ambito della revisione di costituzionalità delle misure legislative e amministrative. Inoltre, nella costituzione furono inclusi alcuni diritti fondamentali, elevandoli così al di sopra della portata del parlamento. In particolare, la costituzione esplicitava in maniera chiara e ferma i diritti di proprietà.
I negoziatori elaborarono poi un sistema elettorale che garantisse l’accesso al parlamento anche ai partiti più piccoli. Ciò grazie a un modo di scrutinio proporzionale senza sbarramento. Un seggio era assegnato con lo 0,25% dei voti. In modo da garantire un certo numero di seggi ai leader di due partiti molto visibili quanto deboli, il Democratic Party e il Pan Africanist Congress.
Tra le altre garanzie concordate, il carattere multipartitico del governo di transizione; la definizione dei diritti fondamentali; la limitazione dell’uso dei poteri di emergenza; l’insediamento di nuovi tribunali con poteri di revisione e di nuovi uffici, tra cui quello del garante pubblico; una commissione per i diritti umani e una commissione finanziaria e fiscale.
In retrospettiva, i negoziati dei primi anni Novanta furono meno drammatici di quanto sembrasse allora. Appariva già abbastanza chiaro quali sarebbero stati gli attori principali della scena politica sudafricana. Per i giornalisti e per gli studiosi, in Sudafrica e all’estero, l’Anc era però un organismo insondabile almeno quanto l’establishment afrikaner. Considerate singolarmente, le varie entità che sostenevano l’Anc – i sindacati, i comunisti, gli esiliati e gli ex prigionieri politici – apparivano comprensibili, ma la loro unione da un giorno all’altro in un nuovo contesto politico apriva possibilità tutt’altro che definite. A questo crogiolo si aggiungevano le particolari caratteristiche di regioni quali il Natal (con il suo Congresso indiano e con l’Ifp) e il Capo Occidentale (con le sue politiche coloured e le numerose associazioni civiche politicizzate). Africanismo, comunismo, socialismo, coscienza nera, cartismo ed effetti di decenni di esilio: ognuno di questi aspetti lasciava interdetti gli osservatori. Da questa confusione scaturiranno le elezioni del 1994, che sembreranno infatti un miracolo, l’annuncio di una nuova èra.
Il governo dell’Anc
A causa delle difficoltà e delle turbolenze che l’Anc ha recentemente affrontato, si tende spesso a sottostimare le dimensioni dei suoi successi. E la grandiosità delle sfide politiche ed economiche che l’Anc ha dovuto superare in questi anni di governo. Alla gestione di una profonda disuguaglianza e divisione sociale si deve aggiungere la necessità di neutralizzare diversi potenziali conflitti, di allentare le tensioni razziali ed etniche e di disciplinare i leader potenzialmente antidemocratici. Inoltre, l’Anc è riuscito in questi anni a creare un consenso tra ex comunisti, sindacalisti, tradizionalisti delle aree rurali, leader religiosi e imprenditori neri. Cinque sono i successi particolarmente significativi dell’Anc nei primi anni di governo democratico.
Il primo è stato garantire la stabilità, riducendo drasticamente la violenza politica e ridimensionando fortemente i conflitti territoriali che caratterizzarono le elezioni del 1994, in particolare nel KwaZulu-Natal. Nonostante la sua predominanza elettorale, l’Anc è quasi sempre riuscito a evitare l’uso di strumenti non democratici per raggiungere i propri obiettivi. Ha preservato la partecipazione pubblica alle elezioni democratiche – anche se calante – e ha elaborato un programma di governo integrato che ha contribuito a contenere i conflitti sociali e a stabilizzare il consenso democratico. I suoi programmi, costruiti con estrema cura, hanno aiutato a strutturare le scelte elettorali dei cittadini. L’Anc ha filtrato le rivendicazioni e infine ha neutralizzato conflitti ideologici potenzialmente divisivi.
Secondo, la sua invulnerabilità elettorale gli ha permesso di imporre programmi di stabilizzazione economica impopolari ma necessari. La politica economica dell’Anc, in generale ortodossa e persino conservatrice, ha favorito una crescita economica sostenibile. In questo modo – pur pagando il prezzo politico di porre il peso dell’aggiustamento economico soprattutto sulle spalle dei poveri – il partito al potere ha rafforzato la democrazia.
Terzo, l’Anc ha creato un nuovo sistema di governo partendo dal caos dello Stato dell’apartheid. La portata di questa conquista non gli è stata ancora sufficientemente riconosciuta. Eppure il governo dell’Anc ha incorporato gli ex bantustan, ha creato nuove municipalità e province, ha riconfigurato il centro dello Stato, ha strutturato la pianificazione nazionale.
Quarto, l’Anc è riuscito a preservare un buon livello di fiducia tra i cittadini più poveri, per i quali il primo decennio di democrazia ha significato un arretramento piuttosto che un miglioramento delle proprie condizioni economiche. L’elettorato sudafricano ha mantenuto aspettative realistiche sul ritmo del cambiamento, grazie anche alla capacità dell’Anc di costruire un rapporto di fiducia con la propria base elettorale.
Infine, l’Anc ha svolto un ruolo cruciale nello scoraggiare il conflitto razziale ed etnico. L’antagonismo razziale è un prodotto inevitabile della storia politica e sociale del paese. Dopo tre secoli di supremazia bianca, di segregazione e di apartheid – culminati con il trasferimento forzato degli africani nei bantustan, con il divieto di compiere un qualsiasi lavoro che non fosse di bassa manovalanza, con il divieto di detenere proprietà e con la riduzione a una vita di solo lavoro in nome dell’«educazione bantu» – il governo dell’Anc ha affrontato sfide formidabili nella speranza che non fossero insormontabili.*
(traduzione di Guiomar Parada)

1. Cfr. L. THOMPSON, A History of South Africa, London 1990, Yale University Press, p. 11.
2. Ivi, p. 53.
3. Ivi, p. 65.
4. P. BONNER ET AL. (a cura di), Apartheid’s Genesis 1935-1962, Johannesburg 1993, Witwatersrand University Press, p. 31.