giovedì 7 maggio 2020


RESURREZIONE
Lev Nikolaevic Tolstoj.

...la primavera era la primavera.. 
“Per quanto gli uomini, ammucchiati in uno stretto spazio a centinaia di migliaia, cercassero di isterilire quella terra sulla quale si stringevano; per quanto coprissero quella terra di pietre affinchè nulla più ci crescesse; per quanto estirpassero ogni stelo di erba che vi germogliava; per quanto appestassero l’aria col carbon fossile ed il petrolio; per quanto tagliassero le piante e cacciassero tutti gli animali e tutti gli uccelli;  pur tuttavia la primavera era la primavera, anche in città” 

RESURREZIONE 

PARTE PRIMA

Allora accostatosi a Lui Pietro, gli disse: «Signore, fino a quante volte, peccando il mio fratello contro di me, gli perdonerò io? Fino a sette volte?»
Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette volte.»
S. MATTEO – Cap. XVIII – 21-22. 
E perchè osservi tu una pagliuzza nell’occhio del tuo fratello, e non fai riflesso alla trave che hai nell’occhio tuo? 
S. MATTEO – Cap. VII – 3. 
Quegli che è tra voi senza peccato, scagli il primo la pietra contro di lei. 
S. GIOVANNI – Cap. VIII – 7. 
Non v’ha scolare da più del maestro: ma chic-chessia sarà perfetto, ove sia come il suo maestro. 
S. LUCA – Cap. VI – 40. 

I. 
Per   quanto   gli   uomini,   ammucchiati   in   uno   stretto spazio   a   centinaia   di   migliaia,   cercassero   di   isterilire quella terra sulla quale si stringevano; per quanto co-prissero quella terra di pietre affinchè nulla più ci  cre-scesse; per quanto estirpassero ogni stelo di erba che vi germogliava; per quanto appestassero l’aria col carbon fossile ed il petrolio; per quanto tagliassero le  piante e cacciassero tutti gli animali e tutti gli uccelli; – pur tuttavia la primavera era la primavera, anche in  città. Il sole riscaldava, l’erba spuntava, cresceva e verdeggiava dovunque non la strappavano, e non solo sulle zolle dei giardini pubblici, ma anche fra i ciottoli delle vie; e le betulle, i pioppi, i viscioli allargavano i loro rami e le loro foglie odorose, ed i tigli gonfiavano le loro gemme pronte a sbocciare; i corvi, i passeri ed i colombi preparavano allegramente i loro nidi, e le mosche ronzavano vicino ai muri delle case, riscaldati dal sole. Ed erano allegri gli uccelli, gl’insetti, e le piante, ed i bimbi. Ma gli uomini – gli uomini adulti – non cessavano dall’ingannare e dal tormentare sè stessi e gli altri. Gli uomini consideravano per savia ed importante non quella mattinata primaverile, non quella bellezza del mondo di Dio, data per il bene di tutti gli esseri, – quella bellezza che predisponeva alla pace, all’accordo, all’amore; ma invece solo sacro ed importante ciò che essi stessi avevano inventato per dominare gli uni sugli altri. 
Così nell’ufficio di una prigione si considerava sacro ed importante non il fatto che a tutti gli animali, a tutti gli uomini, a tutte le donne, era stata data la calma e la gioia della primavera, ma invece la circostanza di avere, il giorno prima, ricevuto una carta bollata, con tanto di numero e d’intestazione, che dava l’ordine di condurre quella mattina, 28 aprile, alle ore 9, tre accusati – due donne ed un uomo – al Tribunale. Una di quelle donne, creduta la più colpevole, doveva esservi condotta separatamente. 
In conformità a quell’ordine, il 28 aprile, alle ore 8, il soprastante anziano entrò nello scuro e puzzolente corridoio della sezione femminile. 
Era seguito da una donna dal volto sofferente, da capelli crespi e già grigi, vestita di un giacca dalle maniche gallonate e con cinto blù. Era la soprastante delle carceri femminili. 
– Volete la Maslòva? gli dimandò avvicinandosi alla porta di una delle celle che davano su quel corridoio. 
Il soprastante girò una chiave nella toppa ed aprì la porta di una camera donde uscì un tanfo ancora più nauseabondo di quello che si sentiva nel corridoio, e gridò:
– Maslòva, al Tribunale! 
Poi richiuse la porta e stette ad aspettare. 
Perfino nel cortile della prigione l’aria era fresca, vivificante,   portatavi   dal   vento   che   soffiava   dalla   parte della   campagna.   Ma   nel   corridoio   si   aspirava   un’aria mefitica, un odore di tifo, un’atmosfera satura di deie-zioni, di catrame e di putredine, che rendeva subito triste ed abbattuto ogni nuovo arrivato. E la soprastante, quantunque avvezza a quell’ambiente viziato, lo risentì subito   anch’essa:   appena   entrata   nel   corridoio,   provò come una stanchezza ed un bisogno di dormire. 
Nella camera delle carcerate si sentiva un mormorìo confuso, prodotto da voci di donne e da piedi nudi che camminavano sul tavolato. 
–   Su,   più   presto!   Spicciati   dunque,   Maslòva,   dico! 
gridò il soprastante anziano nella porta socchiusa. 
Un paio di minuti dopo apparve una giovane donna, di statura piuttosto bassa, con un petto molto pieno, coperta di un pastrano di panno bigio passato al di sopra di una giacca e di una gonna bianca. Con passo sicuro, si accostò al vecchio soprastante e si fermò vicino a lui. 
Aveva ai piedi delle calze di tela e su queste le grosse scarpe di panno date dall’amministrazione delle carceri. 
Sulla testa portava un fazzoletto bianco, sotto al quale si vedevano – certo cacciate fuori a bella posta – alcune ciocche  di  capelli  neri  arricciati.  Il  volto della  donna aveva quel pallore speciale delle persone che rimangono per lungo tempo in un ambiente chiuso e che ha qualche cosa della patata coltivata nelle cantine sotterranee. Lo stesso pallore si vedeva sulle sue mani piccole e larghe, e sul grosso collo che usciva dall’ampio colletto del pastrano. E, su quel pallido volto, ciò che colpiva maggiormente erano i suoi occhi neri, lucenti, assai vivi, dei quali uno era leggermente losco. Stava molto ritta, col largo petto sporgente in fuori. Entrando nel corridoio, piegò il capo un po’ indietro, guardò il soprastante fisso negli occhi e si fermo come pronta ad obbedirgli in tutto ciò che le avrebbe richiesto. Il vecchio custode stava per chiudere la porta, allorchè ne fece capolino il volto pallido, severo, pieno di rughe di una vecchia dai capelli bianchi, che incominciò a parlare a Maslòva; ma il sorvegliante respinse la porta e la testa della vecchia scomparve. Nell’interno della camera si udì uno scoppio di risa. Maslòva sorrise anch’essa e si voltò verso lo sportello a graticola che si trovava nella porta. La vecchia vi si affacciò dalla parte interna e le gridò con voce rauca:
– Bada bene a non dire nulla di soverchio; ripeti sempre la stessa cosa, e buona notte! 
– Qualunque cosa avvenga, non potrà mai essere peggio di ora, rispose Maslòva scuotendo il capo. 
– Si sa che sarà una cosa e non due, disse il soprastante anziano, colla sicurezza governativa di essere un uomo di spirito. Sèguimi,  marche! 
L’occhio della vecchia, fino allora visibile dietro lo sportello, scomparve, e Maslòva camminando a piccoli passi rapidi seguì il custode lungo il corridoio. Discesero una scala di pietra, passarono davanti alle carceri degli uomini, assai più rumorose e puzzolenti di quelle delle donne, sempre guardati con curiosità dagli sportelli delle porte, ed entrarono nella stanza d’ufficio, dove stavano di già due soldati, coi fucili in mano. Il cancel-liere che vi era seduto dette ad uno dei soldati una carta tutta impregnata dall’odore del tabacco ed indicando la detenuta, gli disse: «Prendila in consegna!»
Il soldato, – un  mugik di Nigeninòvgorod, con un viso rosso, butterato dal vaiuolo, – mise la carta nel risvolto della   manica   della   sua   uniforme,   sorrise   ed   ammiccò maliziosamente al suo compagno, robusto giovane dagli zigomi   sporgenti.   I   due   soldati   e   la   detenuta   scesero un’altra scala e si diressero verso l’uscio principale. Oltrepassato questo, essi si trovarono in un cortile che attraversarono per uscire sopra una delle vie della città. 
I cocchieri delle carrozze d’affitto, i bottegai, le cuo-che, gli operai, gl’impiegati si fermavano sul loro passaggio e guardavano curiosamente la prigioniera. Alcuni scuotevano   il   capo,   pensando:  «Ecco   dove   mena   una cattiva condotta, che non è la nostra.» I bambini guardavano con spavento «la ladra» e si rassicuravano soltanto nel vedere che era scortata dai soldati e che non potrebbe più fare alcunchè di male. Un provinciale, che allora aveva bevuto il thè in un albergo, le si avvicinò, fece il segno della croce e le offrì un  copek. La donna arrossì, abbassò la testa e balbettò qualche cosa. 
Sentendo tanti sguardi fissi su di lei, essa esaminava di soppiatto, senza voltare il capo, quelli che la guardavano con maggiore attenzione, e quella curiosità generale la divertiva. Godeva pure di respirare quell’aria fresca, che contrastava con quella del carcere, ma i suoi piedi, poco avvezzi a camminare e calzati colle scarpe di panno, le facevano male allorchè li posava sui ciottoli delle vie: perciò guardava a terra e cercava di camminare con leggerezza. Passando davanti alla bottega di un farinaio, davanti alla quale passeggiavano, dondolandosi, alcuni colombi, poco mancò che non mettesse il piede sopra uno di essi. Il colombo prese il volo, sfiorando-le quasi un orecchio: essa sorrise, ma subito dopo sospirò profondamente al ricordo della propria posizione. 

II. 
La storia di Maslòva era semplicissima; essa era la figlia naturale di una guardiana di bestiame nella proprietà di due vecchie zitelle. 
Questa donna, mai maritata, faceva un figlio all’anno. 
Come spesso accade, i poveri piccini, battezzati subito dopo esser nati, morivano ad uno ad uno. La madre, naturalmente, non voleva nutrire quei figli che venivano non desiderati, di cui non sentiva la necessità, e che le impedivano di lavorare. 
Già cinque figliuoli se n’erano andati così. Il sesto, nato da  un  zingaro  di passaggio,  era una  bambina  la quale avrebbe seguito ben presto i suoi fratelli se il caso non   avesse   condotto   una   delle   due   vecchie   signorine nella   vaccheria   per   fare   alcuni   rimproveri   riguardanti una crema che sapeva di bestino.  Nella stalla trovò la puerpera distesa a terra con allato una bellissima creatu-rina che non chiedeva altro che di vivere. Dopo essersi lagnata per la crema, la vecchia signorina rimproverò le serve di aver lasciato nella stalla una donna che aveva partorito da poco, e stava per andarsene, quando, scorgendo la bambina, essa si raddolcì ed espresse perfino il desiderio di farle da madrina. Fece battezzare, dunque, la piccina, e per amore di lei, fece dare del latte alla madre a le regalò anche un po’ di denaro. E così fu che la bambina visse. 
Quando raggiunse il suo terzo anno, la madre ammalò e morì. La nonna, pur essa guardiana di bestiame, non sapeva che farne, e le due vecchie signorine se la presero in casa. Esse godevano nel guardare quella piccina dai grandi occhi neri; e la sua estrema vivacità e grazia le divertiva assai. 
La più giovane delle due signorine, ed anche la più indulgente, si chiamava Sofia Ivànovna ed era la madrina della fanciulletta. La maggiore, Maria Ivànovna, era propensa alla severità. Sofia Ivànovna adornava la fi-glioccia, le insegnava a leggere e pensava di farne una figliuola adottiva. Maria Ivànovna, al contrario, pretendeva farne una serva, o, tutt’al più, un’esperta cameriera. Seguendo questa idea, si mostrava esigente, dava ordini alla fanciulla, che perfino batteva qualche volta nei momenti di cattivo umore. Il risultato di queste due in-fluenze fu che, fattasi grande, essa si trovò ad essere una semi-cameriera ed una semi-signorina. Perciò le venne dato un nome corrispondente a questa situazione intermedia; infatti, non la si chiamava nè Kàtka, nè Kàtien-ka, ma Kàtuscia1.  Essa cuciva, metteva in ordine le stanze, ripuliva le imagini sacre col gesso, preparava le confetture, serviva il caffè e faceva anche dei piccoli bucati. 
Ogni tanto le signorine l’ammettevano a far loro compagnia ed essa leggeva ad alta voce davanti a loro.

1  I due primi nomi sono diminutivi volgari di «Caterina»; il terzo è invece un vezzeggiativo. 

Aveva avuto più di una richiesta di matrimonio, ma essa aveva sempre rifiutato; capiva che le sarebbe stato assai duro di vivere con un lavorante, guastata com’era dal contatto della vita molle e signorile delle sue padrone. 
Era vissuta così fino al suo sedicesimo anno. A quell’età un nipote delle vecchie signorine, allora studente, ricco e principe, era venuto a trovare le vecchie parenti e Kàtuscia se n’era innamorata, senza osare di confessarlo nè a lui, nè a sè stessa. Due anni dopo, il giovanotto che marciava contro i turchi, si fermò quattro giorni dalle vecchie zie, e sedusse Kàtuscia. Nel momento di partire, egli le dette di nascosto un biglietto di cento rubli e partì. Cinque mesi dopo la giovinetta si accorse di essere incinta. 
Da quel momento, tutto le fu di peso, ed era assediata dal pensiero di scongiurare la vergogna che la minaccia-va; continuava a servire le padrone, ma con negligenza ed   a   malincuore,   non   poteva   padroneggiare   un   sentimento che spesso la rendeva insolente con loro, e di cui si pentiva dopo. Non potendo reggere più, chiese di andarsene e le signorine, assai scontente di lei, la lasciarono partire. 
Dopo aver abbandonato le sue protettrici, entrò, come cameriera, in casa di uno  stanovoi 2.  

2 Delegato di polizia rurale

Ma costui, che aveva   cinquanta   e  più   anni,  si   affrettò   a   corteggiarla;   in modo che essa non rimase da lui che soli tre mesi. 
Un certo giorno, essendosi egli spinto più del solito, essa lo aveva qualificato di vecchio diavolo e d’imbecille, ed egli l’aveva licenziata per la sua insolenza. Avvicinandosi il termine della sua gravidanza, essa non potè pensare a cercarsi un altro posto, ed entrò in pensione presso una vedova la quale aveva un’osteria ed era levatrice nello stesso tempo. 
Il parto ebbe luogo senza troppe sofferenze. Ma essendo la levatrice andata presso una contadina ammalata, portò, al ritorno, la febbre puerperale a Kàtuscia. Anche il bimbo di costei ammalò, e lo si dovette mandare in un asilo dove morì in presenza della donna che ve l’aveva portato. 
La ricchezza di Kàtuscia consisteva in cento ventisette rubli: ventisette guadagnati da sè stessa e cento datile dal suo seduttore. 
Ma nel lasciare la sua ospite, non le restavano più, in tutto, che sei rubli. Non sapeva essere economa del suo denaro; lo spendeva per sè stessa, e più ancora per gli altri; ne dava a chi ne chiedeva. I due mesi passati in casa della levatrice le erano costati quaranta rubli; venticinque erano stati spesi per mandare il figlio  all’asilo; poi, col pretesto della compera di una vacca ed a titolo d’imprestito,   l’albergatrice   le   aveva  sottratto   ancora quaranta rubli; aveva in serbo venti rubli, ma Kàtuscia, li aveva spesi senza saper come, in compere inutili o in regali; per modo che, quando fu guarita, era completamente sprovvista di denaro e fu obbligata a cercarsi un posto. Ne accettò uno in casa di una guardia forestale, il quale era ammogliato. Ma, ad imitazione dello  stanovoi, egli cominciò fino dal primo giorno a perseguitarla con le sue galanterie. La giovane serva non lo poteva soffrire e cercava ogni mezzo per sottrarsi ai suoi attacchi. 
Ma il suo padrone la sorpassava in esperienza e fur-beria, e poichè egli era il padrone, poteva ordinarle ciò che gli tornava più comodo; avendo, dunque, spiato il momento   opportuno,  gli   riuscì   di   possederla.   Ma   sua moglie, la quale era venuta a sapere ogni cosa, lo sorprese un giorno in colloquio con Kàtuscia e schiaffeggiò quest’ultima. Ne nacque una lotta che servì di pretesto per licenziare la serva senza pagarle il salario dovutole. 
Allora Kàtuscia andò in città dove aveva una zia maritata ad un legatore. Costui si era trovato altra volta in buone condizioni di fortuna; ma i suoi clienti l’avevano lasciato ed egli si era dato ad ubriacarsi, spendendo alla cantina tutto il denaro che poteva procurarsi. 
Questa zia teneva una piccola lavanderia e stiratoria, colla quale nutriva i figli e manteneva il marito. 
Propose a Kàtuscia di prenderla come stiratrice; ma vedendo che vita faticosa e stentata facevano le altre donne che lavoravano per sua zia, Maslòva esitava ad accettare. Si recò perciò in un ufficio di collocamento per trovarci un posto. Infatti, trovò da collocarsi con una signora che aveva due figli che frequentavano il ginnasio. Una settimana dopo la sua entrata in quella casa, il maggiore dei giovani, alunno della sesta classe, non volle più saperne di studiare, e non dette più pace a Kàtuscia. 
La madre di lui ne rigettò tutta la colpa sulla giovane e la cacciò di casa. Non le fu possibile di trovare subito un altro posto; ma, un giorno, trovandosi nell’ufficio di collocamento, Maslòva vi vide una grossa signora con anelli alle  dita  e braccialetti  ai polsi. Questa  signora, avendo saputo che la giovane cercava un posto, le dette il suo indirizzo e l’invitò a venire a casa sua. Kàtuscia ci andò. La signora l’accolse con molta amabilità, le offrì dei pasticcini e del vino dolce; poi mandò la sua cameriera con un biglietto ad una certa persona. Verso sera, entrò nella stanza un uomo alto dai lunghi capelli briz-zolati e dalla barba bianca: questo vecchio signore si sedette subito vicino a Maslòva ed incominciò ad esaminarla coi suoi occhi lucenti ed a scherzare con lei. La padrona di casa lo chiamò per un momento nella stanza vicina, e Kàtuscia udì che essa diceva al nuovo venuto: 
«È fresca, fresca; viene dalla campagna.» Poi la padrona chiamò pure la giovane e le disse che quel signore era uno scrittore assai ricco, che le darebbe tutto ciò che essa vorrebbe, purchè sapesse piacergli. Infatti, essa gli piacque e lo scrittore le dette venticinque rubli, promet-tendole di venirla a vedere spesso. Questo danaro fu ben presto speso da Kàtuscia a pagare la pensione presso sua zia ed a comprare una veste nuova, un cappellino e dei nastri. Pochi giorni dopo, lo scrittore la mandò a chiamare, ed essa ci andò. Le diede ancora venticinque rubli e le propose di venire ad abitare in un quartierino separato, che avrebbe affittato. 
Vivendo   in   quel   quartierino,   Maslòva   conobbe   un giovane   commesso,   assai   allegro,   che   dimorava   nella stessa casa, e se ne innamorò. Essa stessa lo confessò al vecchio, e passò ad abitare in un altro quartierino. Il commesso   le   aveva   promesso   di   sposarla,   ma   un  bel giorno, senza neanche avernela avvisata, l’abbandonò e partì per Nigeni, e la Maslòva rimase sola. Avrebbe voluto continuare a vivere nella stessa casa; ma non le fu permesso. Il delegato della sezione le disse che poteva rimanervi solo a condizione di prendere la libretta gialla e di sottomettersi alla visita medica. Allora andò di nuova dalla zia. Vedendola con una veste alla moda, una mantiglia ed il cappellino, la zia l’accolse con rispetto e non ardì più farle la proposta di lavorare in casa sua, perchè, secondo lei, era ora salita ad un grado superiore nella società. Per Maslòva poi la questione da risolvere non era più se dovesse oppure no fare la stiratrice. Ora guardava con disprezzo quel lavoro da forzati che facevano quelle donne pallide e magre – alcune delle quali erano già tisiche – costrette a lavare ed a stirare in un ambiente riscaldato a 30 gradi di calore, ma colle finestra aperte tanto d’estate quanto d’inverno, e rabbrividi-va al solo pensiero di entrare in quella galera. E fu 
proprio in quel momento di estrema povertà per Maslòva, perchè non le riusciva di trovare alcun protettore, che s’imbattè in una ruffiana che cercava delle ragazze per le case di tolleranza. 
Maslòva aveva già da molto tempo imparato a fumare, ma negli ultimi tempi della sua unione col commesso, e, più ancora dopo che l’aveva abbandonata, si era sempre più abituata a bere. Il vino ed i liquori l’attiravano non solo perchè le parevano gustosi; ma, più ancora, perchè   le  davano   la   possibilità   di   dimenticare   quanto c’era di doloroso nella sua vita passata e presente, e le procuravano quella sicurezza e quella fede nei proprii meriti che non aveva senza di essi. Invece quando non beveva si sentiva triste ed umiliata. La ruffiana invitò lei e la zia ad un pranzo, e, dopo aver ubriacato la giovane, le propose di farla entrare in una buona casa, la migliore della città, spiegandole tutti i vantaggi e tutte le comodità di quella vita. Maslòva aveva dunque da scegliere o l’umiliante condizione di serva, nella quale avrebbe certo da subire la persecuzione degli uomini e la prostituzione clandestina mal retribuita, oppure un’esistenza sicura   e   tranquilla,   la   prostituzione   legale,   riconosciuta dalla legge, ben pagata, – e scelse quest’ultima. Oltre di ciò, essa credeva di vendicarsi in quel modo e del suo seduttore, e del commesso e di tutti gli uomini che le avevano fatto del male. Però vi era anche, per deciderla, una seduzione ancora più forte; era la promessa fattale dalla mezzana che avrebbe la libertà di scegliere tutte lepvesti che le sarebbero piaciute, sia in velluto, in faglia, in seta, e vesti da ballo che lasciavano nude le spalle e le braccia. Maslòva si vide già, nel pensiero, vestita con una veste di seta, di color giallo chiaro, scollata e adorna di   risvolti   in   velluto   nero;   allora,   non   resistendo   più, consegnò il suo passaporto. Una vettura fu chiamata in fretta   e   la   incettatrice   condusse   Maslòva   in   una   casa molto bene conosciuta da tutta la città; la casa della signora Kitàieva. 
Da quel giorno cominciò per Maslòva una vita che consiste nel violare, senza tregua, ogni legge divina ed umana, quella vita alla quale sono condannate oggigiorno centinaia di migliaia di donne non solo con l’autorizzazione del potere legale, tenero del benessere dei suoi amministrati, ma sotto la sua immediata protezione, vita di degradazione, mostruosa, la quale ha per conseguenza, nove volte su dieci, orribili malattie, la decrepitezza e la morte precoce. 
Di mattina e di giorno, un sonno pesante dopo le or-gie della notte. Verso le 3 o le 4 pomeridiane, un risveglio stanco in un letto sporco, l’acqua di Seltz, il caffè; poi il pigro errare di stanza in stanza, in camicia, in ac-cappatoio, in veste da camera, in pantofole; il guardare nella via attraverso le cortine calate e le persiane delle finestre;   le  dispute  molli,   le  male  parole  fra  donna  e donna; poi il lavaggio, il pettinarsi, il profumarsi il corpo, i capelli, il provare gli abiti, le discussioni colla padrona, il guardarsi nello specchio, l’applicarsi il belletto 
sul viso, sulle sopracciglia. Poi, il pranzo composto di cibi grassi, dolciastri; il vestirsi in vesti di seta chiara, col petto e le braccia nude, indi l’uscita nella sala sfarzosamente decorata e ben illuminata, e l’arrivo delle visite: la musica, il ballo, i confetti, il vino, il fumo, e l’unione carnale con giovani, con uomini di età matura, con adolescenti e con vecchi cadenti; con celibi, con ammogliati,   con   mercanti   e   commessi;   con   armeni, ebrei, tartari; con ricchi e poveri, con gente sana ed ammalata, con uomini ubriachi, turbolenti, grossolani, pre-potenti, teneri; con militari, borghesi, studenti, collegiali, – con gente di ogni condizione, età ed indole. E grida, e scherzi, e motteggi, e risse, e musica, e tabacco e vino, e vino e tabacco, ed ancora musica dalla sera fino all’al-ba. E la liberazione soltanto verso il mattino ed un sonno pesante. E così ogni giorno, tutta la settimana. Ed alla fine della settimana, la visita medica imposta dai regolamenti,  negli uffici della polizia, presieduta da impiegati governativi e da medici, dove uomini, talvolta seriamente e severamente, tal altra con un’allegria sensuale, calpestando quel sentimento di pudore che la natura ha dato nonchè agli uomini anche alle bestie – esaminano delle donne e rilasciano loro la patente che le autorizza a continuare coi loro complici quei stessi delitti che hanno commesso la settimana precedente. E di nuovo un’altra settimana. E così ogni giorno, di estate e d’inverno, nei giorni di lavoro e di festa. 
Così visse Maslòva per sette anni. In questo spazio di tempo, cambiò casa due volte ed andò una volta all’ospedale. Il settimo anno dopo la sua entrata in un postribolo e l’ottavo dopo la sua prima caduta, quando aveva già ventisei anni,  le accadde l’avvenimento pel quale l’avevano arrestata e pel quale la conducevano ora al tribunale, dopo sei mesi di carcere preventivo, in mezzo ad assassine ed a ladre. 

III. 
In quello stesso tempo in cui Maslòva, esausta dalla lunga camminata, si avvicinava colle sue due guardie al Tribunale del capoluogo, il nipote delle sue antiche protettrici, il principe Dmìtri Ivànovitsc Niehliùdof, che l’aveva sedotta, era ancora coricato nel suo gran letto a molle,   sopra   un   soffice   materasso   di   piume.  Avendo sbottonato il colletto della sua camicia da notte, di fina tela di batista, con una quantità di piegoline sul petto, egli stava fumando una sigaretta. Cogli occhi fissi guardava nel vuoto, pensava a ciò che farebbe quel giorno ed a ciò che aveva fatto il giorno prima. 
Essendosi ricordato della sera precedente, che aveva passata in casa dei Korciàghin, gente ricchissima e ben nota, la cui figlia – secondo quello che tutti credevano – 
egli doveva sposare, egli cacciò un sospiro. Poi, avendo buttato la sigaretta, volle toglierne un’altra da un porta-sigari d’argento; ma ci pensò meglio ed abbassando i suoi piedi bianchi e lisci, trovò con essi le pantofole, si 
buttò sulle grosse spalle una veste da camera di seta, ed alzandosi bruscamente, passò nel suo gabinetto da toletta, tutto saturo di un odore di elisir, di acqua di Colonia e di profumi. Ivi si pulì i denti, dei quali parecchi erano impiombati, si sciacquò la bocca con acqua profumata, poi   incominciò   a   lavarsi   e   ad   asciugarsi   con   diversi asciugamani. 
Dopo essersi lavato le mani con del sapone odoroso, e ben pulito le unghie, si lavò il viso ed il grosso collo in un bacile di marmo bianco e passò in una terza stanza dov’era pronta la sua doccia. Dopo essersi ben spruzza-to di acqua gelata si asciugò novellamente con un asciugamani a spugna, si mise una camicia ben stirata, calzò stivalini lucidi come specchi, e sedendosi davanti al tavolino da toletta, pettinò da prima la corta barba nera, poi i capelli già alquanto diradati sulla sommità del cranio. 
Tutti gli oggetti ch’egli impiegava per la sua toletta, come biancheria, vestiti, calzature, cravatte, spille, erano di prima qualità, semplici, eleganti e di gran valore. 
Avendo preso fra una decina di cravatte e altrettanti spilli, quelli che gli capitarono sotto la mano – lo sce-glierli lo avrebbe divertito tempo addietro, ma ora lo lasciava perfettamente indifferente, – Nehliùdof indossò il vestito ch’egli trovò spazzolato e preparato sopra una sedia, e benchè non completamente rinfrescato, ma pulito e profumato, entrò nella lunga stanza da pranzo, il cui impiantito di legno era stato strofinato la sera prima da 
tre  mugik 3.  Questa stanza da pranzo era guernita da una enorme dispensa di legno di quercia e da una tavola dello stesso legno capace di essere allungata, coi piedi scolpiti in forma di zampe di leone molto allargate, il che dava a quel mobile un aspetto imponente. 
La tavola era ricoperta da una tovaglia fina, bene inamidata, con quattro grossi nodi agli angoli; su di essa erano posti una caffettiera d’argento ripiena di fragrante caffè, una zuccheriera d’argento, un vaso da crema, dei panini freschi ed un cesto con biscotti. La posta del mattino   era   stata   messa   vicino   alla   posata;   erano   lettere, giornali e una dispensa della   Revue des Deux Mondes. 
Nel momento in cui Niehliùdof stava per aprire le lettere, la porta che conduceva nel corridoio si aprì per lasciar passare una grossa donna già vecchia, vestita di nero e col capo coperto da una cuffia di merletti. Era Agrafena Pètrovna, cameriera della defunta principessa, madre di Niehliùdof, la quale era morta da poco in quella medesima casa. La cameriera della madre era diventata ora la governante del figlio. 
Avendo vissuto molti anni all’estero con la madre di Niehliùdof, Agrafena Petrovna aveva acquistato un certo fare signorile. Stava in casa dei Niehliùdof fino dalla sua   infanzia   ed   aveva   conosciuto   Dmitri   Ivànovitsc quando questi si chiamava semplicemente Mitienka4. 

3 Contadini russi. 
4 Diminutivo di Dmitri. 

– Buongiorno, Dmitri Ivànovitsc! diss’ella. 
– Buongiorno, Agrafena Pètrovna! Che c’è di nuovo? 
chiese Niehliùdof. 
– C’è una lettera della principessa, rispose essa. Non so se è della signora o della signorina. La cameriera dei Korciàghin   l’ha   portata   già   da   molto   tempo   ed   essa aspetta in camera mia. 
E nel porgere la lettera. Agrafena Pètrovna ebbe un sorriso espressivo. 
Niehliùdof prese la lettera e rispose:
– Sta bene, risponderò subito. 
Ma avendo visto il sorriso di Agrafena Pétrovna, egli si era fatto scuro in viso, per la ragione stessa che aveva provocato quel sorriso; evidentemente Agrafena Pétrovna non ignorava che quella lettera veniva dalla giovane principessa Korciàghin, la quale, probabilmente, il suo padrone stava per sposare. 
Ed era precisamente questa supposizione che spiaceva a Niehliùdof. 
– Allora, disse Agrafena Pétrovna, dirò alla cameriera che aspetti. 
E avendo rimesso a posto una spazzola da tavola che era stata portata altrove, uscì di camera. 
Niehliùdof stracciò la busta profumata consegnatagli da Agrafena  Pétrovna;  la lettera era  scritta  sopra una carta grossa e di color cinerino, con caratteri allungati e puntuti. Egli lesse:
«Avendo, di mia scelta, assunto l’incarico di essere il vostro memoriale, vi ricordo che oggi, 28 aprile, dovete far parte del giurì alla Corte d’assisi, e, che, in conseguenza, non vi sarà possibile di accompagnarci, insieme ai Kòssolof, a visitare la galleria dei quadri, secondo la vostra promessa di ieri, promessa fatta colla vostra solita mancanza di riflessione;  à moins que vous ne soyez disposé   à   payer   à   la   cour   d’assises   les   300   roubles d’amende que vous refusez pour votre cheval5.  Vi ho pensato subito ieri dopo la vostra partenza. Non lo dimenticate!»
«Principessa M. Korciàghin.»
Nell’altra pagina era aggiunto:
« Maman   vous   fait   dire   que   votre   couvert   vous attendra   jusqu’à   la   nuit.   Venez   absolument   à   quelle heure que cela soit. »
«M. K.»
Niehliùdof aggrottò le sopracciglia. Quel biglietto era la continuazione di quel lavorìo, già incominciato da più di   due   mesi,   dalla   principessa   e   che   consisteva   nello stringerlo a poco a poco in legami sempre più difficili a spezzare. Intanto, per diverse ragioni – indipendenti da quello stato di spirito che fa esitare davanti al matrimonio

5 Le parole o le frasi che lascio in francese sono in questa lingua nell’originale russo. 

 le persone arrivate ad una età matura ed abituate al celibato, – non aveva alcuna voglia di dichiararsi in quel momento, anche se intenzionato a quel matrimonio. Le ragioni che ne lo impedivano non avevano nulla di comune colla seduzione e l’abbandono di Kàtuscia avvenuti   una   decina   d’anni   prima:   egli   aveva   dimenticato completamente tutta quella faccenda, nè poteva essa essere un ostacolo a questo matrimonio. Però c’era un altro motivo consistente in una relazione con una donna maritata la quale non voleva saperne di essere abbandonata,   benchè   Niehliùdof   si   fosse   deciso,   negli   ultimi tempi, a rompere ogni legame. 
Niehliùdof era molto timido con le donne, e questa sua timidezza aveva appunto spinto la signora a tenerlo sotto il suo giogo. Essa era moglie di un maresciallo della nobiltà del distretto nel quale Niehliùdof parteci-pava alle elezioni. Si era lasciato trascinare a poco a poco in un legame che diventava sempre più stretto e penoso. 
Da principio non aveva saputo resistere alla seduzione; ma, in seguito, sentendosi colpevole verso l’amante, non osava spezzare quei vincoli, contro la volontà di lei. 
Ecco perchè Niehliùdof credeva di non potersi dichiarare  colla   signorina   Korciàghin,   quand’anche   l’avesse voluto. 
Fra le lettere giuntegli ce n’era precisamente una del marito della sua amante. 
Nel riconoscerne la scrittura ed il suggello, egli aveva arrossito e si era sentito sferzato da un richiamo di energia   come   quando   si   è   vicini   al   pericolo.   Ma   avendo aperto la lettera, aveva subito riacquistato la sua calma. 
Il  maresciallo   della  nobiltà  del  distretto  dove  erano  i principali poderi di Niehliùdof, scriveva al principe per informarlo   che   a   fine   maggio   si   apriva   una   sessione straordinaria del Consiglio generale e lo pregava di assi-stervi  immancabilmente,  potendo  egli  « lui  donner un coup   d’épaule.»   Infatti   vi   si   doveva   decidere   su   due questioni importantissime; quella delle scuole e quella delle strade limitrofe, destinate entrambe a sollevare una violenta opposizione da parte dei reazionari. 
Questo maresciallo della nobiltà pure liberale, lottava, appoggiato da altri liberati dello stesso colore, contro la reazione che si era formata sotto Alessandro III; datosi corpo ed anima a questo còmpito, non aveva il tempo di accorgersi della infedeltà di sua moglie. 
E Niehliùdof si ricordò a questo proposito di tutte le angoscie che lo avevano assalito più di una volta, allorchè in un certo giorno egli avea creduto che tutto fosse scoperto, che un duello fosse divenuto necessario con quel marito contro il quale si era allora proposto di sparare in aria; poi, della scena terribile con l’amante, la quale in un eccesso di disperazione (secondo quello che si era immaginato) era corsa ad annegarsi nello stagno del parco, dove l’aveva invano cercato a lungo. 
E pensò: «Non posso andarvi per ora, nè fare alcuna cosa prima di aver avuto una sua risposta.» Difatti, otto giorni prima egli aveva scritto alla signora una lettera assai   concisa,   nella   quale   egli   riconosceva   la   propria colpa e si dichiarava pronto a tutto per redimersi, ma insisteva in ultimo sulla necessità di spezzare il loro legame, anche nell’interesse di lei. La risposta a questa lettera non veniva ancora e questo faceva sperar bene. Infatti, se essa avesse deciso di non romperla con lui, avrebbe risposto subito, o meglio, sarebbe accorsa come già aveva fatto altra volta. Niehliùdof sapeva che un ufficiale le faceva la corte, e benchè ne soffrisse, punto dalla gelosia, egli ne godeva pensando di liberarsi una buona volta da una menzogna che lo opprimeva. 
Niehliùdof trovò un’altra lettera che veniva dall’intendente principale dei suoi beni. Questi insisteva perchè il principe si recasse nel suo podere, allo scopo di confermare i diritti di successione ch’egli aveva eredita-ti da sua madre, e per decidere nello stesso tempo sul modo   di   amministrazione   ch’era   necessario   applicare oramai   ai   suoi   beni.   La   quistione   s’imponeva   in   due modi: continuare ad amministrare quei beni come quando era viva la principessa, ovvero, seguire i consigli dati altra volta alla principessa dal suo intendente, poi ripe-tuti al giovane principe, consistenti nel voler aumentare il materiale per poi coltivare direttamente le terre date in affitto ai contadini. In quest’ultimo caso il profitto dell’azienda doveva essere maggiore. L’intendente si scusava inoltre, del lieve ritardo nell’inviare al principe la somma di 3000 rubli di rendita, che gli verrebbe spedita col prossimo corriere. La colpa era tutta dei contadini, così poco coscienziosi quando si tratta di pagare, che l’intendente aveva stentato assai nel riscuotere quel danaro e si era visto nella necessità di ricorrere, per alcuni, alla forza. Questa lettera piacque e spiacque nello stesso tempo a Niehliùdof. 
Era contento di trovarsi padrone di una fortuna più considerevole che per lo passato; ma si ricordava, anche, che nella sua prima gioventù, egli era stato un ardente seguace delle teorie sociologiche dello Spencer, ed essendo egli un grande proprietario d’immobili, aveva provato alla lettura dei  Social statics una grande impressione pensando alla sua condizione ed alle leggi di equità che non ammettono la proprietà immobiliare in-dividuale. 
Con quella franchezza e spontaneità propria alla gioventù, egli si era detto allora che la terra non può essere l’oggetto di una proprietà privata; e non soltanto egli aveva scritto un saggio su tal questione allorchè era ancora studente alla Università, ma aveva realmente distribuito ai  mugik quella porzione di terreno lasciatagli dal padre, non volendo possedere quella terra, in contraddizione con le sue convinzioni. 
E ora che aveva ereditato da sua madre delle grandi proprietà egli doveva o rinunciare a quelle terre, come  aveva fatto dieci anni prima con le duecento   dessiàtin 6 lasciategli da suo padre, oppure considerare come erronee le sue antiche teorie su quella quistione. 
Il primo di quei due partiti era inaccettabile, perchè le rendite  costituivano   il  suo   solo  mezzo   di  sussistenza. 
Non si sentiva il coraggio di riprendere il servizio militare, nè di rinunciare alla vita oziosa e ricca alla quale era abituato; stimava questo un sacrifizio inutile, tanto più che non aveva più nè la forte convinzione di una volta, nè l’amor proprio ed il desiderio di farsi ammirare che aveva avuti così vivi in gioventù. In quanto al secondo partito di dimenticare le argomentazioni nette e precise comprovanti l’illegittimità del possesso individuale della terra, argomento pescato nel   Social statics dello Spencer e di cui qualche tempo dopo aveva trovato una brillante conferma nelle opere di Enrico George, era ormai troppo tardi per adottarlo. 
Ed ecco perchè la lettera del suo intendente gli era in-cresciosa. 

IV. 
Dopo aver bevuto il caffè, Niehliùdof andò nel suo gabinetto per vedere sulla circolare di partecipazione a che ora doveva trovarsi al tribunale e per rispondere al biglietto della giovane principessa. Per entrare nel gabinetto, doveva passare per il suo studio di pittura, dove stava un cavalletto con sopra un quadro e parecchi suoi studi e bozzetti.

6 Una dessiàtin equivale a quasi un ettaro. 

 La vista di quel quadro, al quale aveva lavorato per due anni senza finirlo, di quei bozzetti ed in generale di tutta quella stanza, gli ricordò un sentimento penoso, il sentimento della propria impotenza, che, specialmente in quegli ultimi tempi, lo avea molto tormentato. 
Egli si spiegava quell’impotenza come un senso este-tico troppo sviluppato, ma pur sempre quella spiegazione era tutt’altro che piacevole. 
Sette anni prima di quell’epoca, egli aveva abbandonato il servizio militare, perchè si era figurato decisamente di aver una vocazione per la pittura, e dall’alto della sua attività artistica guardava con un certo disprezzo su tutte le altre occupazioni. Ora però riconosceva che non aveva più quel diritto. E perciò ogni circostanza che gli ricordava la pittura gli era spiacevole. Guardò mestamente tutti i sontuosi attrezzi del suo studio ed en-trò nel gabinetto con un umore tutt’altro che allegro. Il gabinetto era una stanza spaziosa e chiara, corredata di tutto ciò che poteva renderla bella e comoda. 
Avendo subito trovato la circolare nel tiretto dell’enorme suo scrittoio ed avendovi letto che doveva trovarsi al tribunale alle undici, Niehliùdof si sedette per rispondere alla principessa che la ringraziava dell’invito e che avrebbe fatto il possibile per giungere a tempo pel pranzo. Ma, dopo aver scritto un primo biglietto, lo lacerò: era troppo intimo; ne scrisse un secondo: era troppo freddo, quasi insultante. Lo stracciò pure e premè il bottone del campanello elettrico. 
Alla porta apparve un vecchio cameriere dalle fedine bianche, tutto vestito di grigio. 
– Fatemi il piacere, mandate a chiamare un  isvòscik 7. 
– Ubbidisco. 
– Dite – c’è una persona dei Korciàghin che sta aspettando – che ringrazio e che cercherò di andarci. 
– Ubbidisco. 
«Non è troppo cortese; ma non posso scrivere. La ve-drò stasera,» pensò Niehliùdof ed andò a vestirsi. 
Quando, dopo essersi vestito, uscì dalla casa, l’ isvò-
 scik,   che   lo   conosceva   da   molto   tempo,   lo   stava   già aspettando. 
– Ieri eravate allora allora uscito dalla casa del principe Korciàghin, gli disse il cocchiere voltando verso di lui il suo forte collo abbronzato dal sole; quando ci sono giunto, il portinaio mi disse: «È uscito proprio in questo momento.»
«Perfino i cocchieri da nolo sanno in quali relazioni mi trovo coi Korciàghin,» pensò Niehliùdof, e la questione non decisa che, in quegli ultimi tempi, l’occupava costantemente: «mi conviene oppur no sposare la principessina?»   gli   si   presentò   nuovamente,   ma   sempre   in modo tale che non potè neanche allora decidere in pro o in contro. 

7 Cocchiere da nolo. 

Due argomenti gli si presentavano in favore del matrimonio in generale: in primo luogo, oltre il vantaggio del focolare domestico, la possibilità di una vita morale in quanto a rapporti sessuali; in secondo luogo, il fatto più importante della speranza di dare con una moglie e dei figli, uno scopo alla propria esistenza, allora così vuota e priva di senso. Contro al matrimonio poi, c’erano pure due argomenti: prima, quella specie di timore che provano quasi tutti i celibi di una certa età di perdere la propria indipendenza e libertà, poi la paura istintiva che sempre inspira il mistero della donna. 
Nel caso particolare del suo matrimonio con Missy (il nome   della   principessina   Korciàghin   era   Maria,   ma, come in tutte le famiglie del gran mondo, le avevano dato un soprannome) il principale argomento favorevole si basava sull’ottima e nobile famiglia a cui apparteneva la giovane e sul fatto che dal modo di vestirsi al modo di parlare, di camminare, di ridere, essa era diversa dalla comune dei mortali, non per qualche qualità o merito speciale, ma per la sua «distinzione», – non sapeva dare altro nome a quella specialità, ma l’apprezzava oltremodo; il secondo argomento era che, fra tante persone, era lei che lo stimava  maggiormente, prova, secondo  lui, che essa lo comprendeva perfettamente. E questa com-prensione era, a sua volta, una prova della sua non comune intelligenza e della sicurezza del suo giudizio. Gli argomenti contrari al suo matrimonio con Missy erano pure due: primo, era assai probabile che gli sarebbe riuscito di trovare una fanciulla ancora più compita di lei, e, per conseguenza, più degna di diventare sua moglie; secondo, che essa aveva di già 27 anni, e quindi aveva probabilmente avuto altri amori – e quest’idea era penosa a Niehliùdof. La sua vanità non poteva conciliarsi al-l’idea che, anche nel passato, avesse potuto non amare lui. S’intende bene che essa non aveva potuto prevedere che un giorno lo avrebbe incontrato, ma pure quell’idea che avesse potuto essere innamorata di qualcheduno lo offendeva. 
Così gli argomenti pro e contro erano eguali in numero ed in forza, e Niehliùdof, ridendo di sè stesso, si para-gonava all’asino di Buridano, e rappresentava infatti la parte dell’asino che, messo fra due fasci di fieno, non sapeva a quale rivolgersi. 
«Del resto, si disse fra sè, non avendo ricevuto risposta di Maria Vassilievna (era il nome della moglie del maresciallo) e non avendo rotto completamente con lei, non posso ancora impegnarmi con un’altra». 
E questo pensiero, che poteva e doveva ritardare la decisione, gli era grato. 
«Penserò a tutto ciò più tardi», pensava egli mentre la carrozza correva silenziosamente sull’asfalto della via che conduceva al Tribunale. «Per ora, debbo adempiere con coscienza, come fo sempre tutte le cose mie, al dovere sociale che mi chiama qui. Del resto, qualche volta queste udienze sono assai interessanti». 
E passando davanti al portinaio entrò nel vestibolo del Tribunale. 

V. 
C’era già molta animazione nei corridoi del Tribunale allorchè Niehliùdof vi entrò. 
I   custodi   camminavano   rapidamente,   qualche   volta anzi, correvano addirittura, ma senza sollevare i piedi, bensì strisciando con essi, portando commissioni e carte; gli uscieri, gli avvocati, i cancellieri passavano ora da una parte ora dall’altra; i sollecitatori ed i giudicabili liberi erravano tristamente lungo le pareti, od erano seduti sopra lunghe panche in attesa di essere chiamati. 
– Dov’è il Tribunale del distretto? domandò Niehliù-
dof ad uno dei custodi. 
– Quale? C’è la sezione civile e la sezione penale. 
– Sono giurato. 
– Il tribunale penale. Potevate dirlo subito! Qui a destra, poi a sinistra, – la seconda porta. 
Niehliùdof andò in quella direzione. 
Vicino alla porta indicata dal custode stavano due uomini che aspettavano; l’uno era un grosso e grasso mercante dall’aspetto gioviale, il quale, avendo bevuto e fatto   colazione,   era   in   un’ottima   disposizione   di   mente; l’altro era un commesso d’origine ebrea. Parlavano del prezzo delle lane, allorchè Niehliùdof si accostò a loro colla domanda se fosse quella la camera dei giurati. 
– È qui, signore, è qui. Anche nostro fratello8 è giurato?   domandò   l’allegro   mercante   ammiccando   coll’occhio... Ebbene, lavoreremo insieme, continuò egli alla risposta  affermativa  di  Niehliùdof;  mercante  della seconda   ghilda 9  Baklàsciof,   diss’egli   porgendo   la   larga mano e stringendo mollemente quella del principe, – bisogna lavorare. Con chi ho io il piacere?... Niehliùdof disse il suo nome e passò nella camera dei giurati. 
In questa camera di mediocri dimensioni erano riuniti dieci uomini di tutte le condizioni sociali. Tutti quanti erano giunti in quel momento; alcuni erano seduti, mentre altri andavano su e giù, guardandosi scambievolmente e facendo conoscenza. C’era un colonnello ritirato, vestito   in   uniforme;   altri   giurati   erano   in   stifelius,   in giacca; uno solo aveva un abito di mugik. Un certo numero di essi avevano dovuto lasciare i loro affari e se ne dolevano a voce alta, benchè si vedesse dipinto sui loro volti un misto di orgoglio e di soddisfazione e la coscienza di adempiere ad un grande dovere sociale. 
Dopo un primo esame, alcuni gruppi si formavano senza affratellarsi di più. Si parlava del tempo, della primavera precoce, degli affari iscritti nel ruolo. Molti, fra i giurati, mostravano una viva premura di far conoscenza

8 Espressione russa per indicare familiarmente il prossimo, un collega, un confratello. 

9 Tutti i negozianti russi appartengono alla 1a o alla 2a  ghilda o classe, secondo l’importanza della patente che pagano. 
 Nota del Traduttore. 

 col principe Niehliùdof, la cui presenza tra loro, costituiva, secondo il loro modo di pensare, un onore eccezionale. E Niehliudof, come gli accadeva spesso in simili circostanze, trovava questo naturale e legittimo. Ma se gli si fosse chiesto del perchè di questa sua superiorità sulla maggior parte degli uomini, sarebbe stato molto imbarazzato nel rispondere; la sua vita, negli ultimi tempi, non aveva nulla di molto meritorio. È vero che parlava correntemente l’inglese, il francese ed il tedesco;  la sua biancheria, i suoi vestiti, le cravatte ed i bottoni dei polsini provenivano dai migliori negozi; ma questo non dimostrava   mica   una   superiorità   speciale,   neanche   ai suoi propri occhi. E intanto egli era perfettamente cosciente di questa superiorità, e considerava gli omaggi che gli si tributavano come una cosa dovuta, e si sarebbe offeso se non li avesse avuti. E precisamente un affronto di questo genere lo aspettava nella sala dei giurati. Fra costoro c’era un certo Pèter Gherassìmovitsc, – 
Niehliùdof non aveva mai saputo il suo nome di famiglia nè se ne curava tampoco – ch’egli aveva conosciuto altra volta come precettore dei figli di sua sorella. Dopo, costui aveva terminato i suoi studii e, attualmente, era professore di liceo. Niehliùdof l’aveva trovato sempre insopportabile, specialmente per la sua famigliarità, pel suo riso tronfio e in particolar modo per la sua «volgarità», secondo il detto della sorella di Niehliùdof. 
– Ah! la sorte è caduta pure su di voi? disse costui andando verso di lui e ridendo volgarmente. Perchè non vi siete fatto dispensare? 
– Non ho mai pensato di ottenere una dispensa, rispose seccamente Niehliùdof. 
– Ah!... Ecco un bel tratto di coraggio civile. Ma vi accorgerete ben presto che avrete a soffrire la fame e vi sarà impossibile il dormire! rispose il professore accen-tuando maggiormente il suo modo di ridere. 
«Sta a vedere che il figlio di un pop10 arriverà a darmi del tu, pensò Niehliùdof. E assunse un aspetto così funebre come se gli avessero annunciato la morte di tutti i suoi parenti; dopo di che egli volse le spalle a Peter Gherassìmovitsc e raggiunse un gruppo di persone che attorniava un individuo di alta statura, sbarbato e di apparenza molto decorosa, il quale parlava con animazione. Questo personaggio parlava di un processo che si stava giudicando proprio allora alla Camera civile, e ne discorreva  come   se  conoscesse  a  fondo  tutto l’affare, nominando coi loro cognomi e giudici e avvocati. Egli si scalmanava specialmente per dimostrare la meravigliosa direzione impressa ai dibattimenti da un celebre avvocato, in modo che la parte avversa, una vecchia signora,   perderebbe   certissimamente,   benchè   avesse   ragione da vendere. 
– Oh! un vero avvocato di genio!... esclamò egli. 
10 Sacerdote russo, per lo più di bassa nascita. 
Lo si ascoltava con rispetto e quando qualche giurato cercava di mettervi qualche parola, era subito interrotto, perchè egli solo aveva la pretesa di intendersi dell’affare. 
Benchè Niehliùdof fosse giunto in ritardo al tribunale, dovette rassegnarsi ad una lunga aspettativa nella sala del giurì. Si aspettava, per aprire la seduta, che un membro del tribunale ancora assente, fosse giunto. 

VI.
Il presidente della Corte d’Assise era giunto per tempo. Era un uomo alto e grosso con grandi fedine che in-cominciavano a farsi bianche. Era ammogliato, ma faceva una vita assai licenziosa, come pure sua moglie. Su questo punto si lasciavano reciprocamente ampia libertà d’azione. Quella stessa mattina il presidente aveva ricevuto un biglietto da una governante svizzera che era stata l’estate precedente in casa di lui e che ora, tornata dal sud per recarsi a Pietroburgo, lo avvertiva che lo avrebbe aspettato fra le 3 e le 6 all’Albergo d’Italia. Ed è perciò che desiderava aprire la seduta presto e chiuderla prima delle sei per giungere in tempo a far visita alla rossa Clara Vassìlevna, colla quale pochi mesi prima, essendo in campagna, aveva abbozzato un romanzetto. 
Entrato nel suo gabinetto, ne aveva richiusa la porta, aveva tolto dalla scansia inferiore di un armadio a muro un paio di manubri di ferro e aveva fatto venti movimenti in su, ai due lati, e in giù, poi si era abbassato tre 
volte sulle gambe tenendo i manubri al disopra della testa. 
«Non c’è cosa al mondo che ci conservi meglio della doccia e della ginnastica», disse fra sè tastandosi colla mano sinistra i muscoli del braccio destro. Gli rimanevano ancora due mulinelli da fare (egli era solito fare tutti questi esercizi prima delle lunghe sedute) quando la porta tremò. Qualcuno la spingeva per aprirla. 
– Permettete, disse questo «qualcuno». 
La porta si aprì ed entrò uno dei giudici della corte, un uomo di bassa statura, dalle larghe spalle con un viso arcigno sotto gli occhiali d’oro. 
– Di nuovo Matvei Nikìtitsc non è qui, disse egli con malumore. 
– Non ancora, rispose il presidente indossando l’uniforme. – È sempre in ritardo. 
– Mi meraviglio che non se ne vergogni, disse l’altro sedendosi con rabbia ed accendendo una sigaretta. 
Il giudice, uomo d’un’esattezza scrupolosissima, aveva avuto quella mattina una disputa assai violenta colla moglie, perchè questa aveva speso troppo presto il denaro datole per tutto il mese. Essa gli aveva chiesto un an-ticipo, ma egli aveva detto di no. Ne era risultata una scena. La moglie gli aveva dichiarato che, in tal caso, non ci sarebbe stato pranzo – e che era quindi inutile che tornasse a casa coll’idea di pranzarvi. Dopo ciò egli era uscito, ma col timore che la moglie mantenesse la minaccia fatta, perchè la sapeva capace di tutto. «Val  proprio la pena di fare una vita onesta, una vita morale come la faccio io», pensava egli guardando la faccia lucida, paffuta, contenta del presidente, il quale, coi gomiti allargati, lisciava colle sue belle mani bianche le sue folte fedine grigie che poi spartiva sul bavero ricamato delle sua uniforme; «costui è sempre allegro e di buon umore, – io, invece, ho un mondo di noie!»
Entrò il segretario portando al presidente certe carte chieste da quest’ultimo. 
– Ve ne sono assai grato, disse il presidente accendendo anche lui una sigaretta. Che affare chiameremo pel primo? 
– Ma, credo che sarebbe bene di cominciare coll’avvelenamento, rispose il segretario con aria d’indifferenza. 
– E sia pure coll’avvelenamento, disse il presidente calcolando fra sè che era un affare da spicciare per le quattro, per poi andarsene subito. – E Matvei Nikìtitsc non è venuto ancora? 
– Non ancora. 
– E Brevè? 
– È qui, rispose il segretario. 
– Ditegli dunque, se lo vedete, che incominceremo coll’avvelenamento. 
Brevè era il sostituto procuratore che doveva sostenere l’accusa in quell’affare. 
Uscito nel corridoio, il segretario vide Brevè. Colle spalle alzate nella sua uniforme sbottonata, col portafogli sotto l’ascella, egli gli corse incontro:
– Mihàil Pètrovitsc m’ha incaricato di chiedervi se siete pronto? gli domandò. 
– S’intende che sono sempre pronto, disse il procuratore. Qual’è il primo affare? 
– Quello dell’avvelenamento. 
– Benissimo, disse l’altro; ma, intanto, non trovava affatto   che   la   cosa   andasse,   «benissimo».   Non   aveva chiuso occhio tutta la notte. Alcuni suoi amici avevano offerto una cena ad un compagno che partiva, avevano bevuto molto e giocato fino alle due del mattino; poi erano andati a vedere delle ragazze in quella stessa casa, dove   sei   mesi   prima   si   trovava   anco   Maslòva.   In   tal modo non aveva ancora avuto il tempo di studiare la causa e desiderava ora leggerla in fretta. Il segretario, sapendo ciò, aveva apposta consigliato al presidente di far chiamare appunto quella causa. Il segretario aveva opinioni liberali, anzi radicali; Brevè invece era conser-vatore ed anche, come tutti i tedeschi che servono in Russia,   assai   attaccato   all’ortodossia,   ed   il   segretario non poteva soffrirlo e ne invidiava il posto. 
– E a che punto sta l’affare degli Scòptsi?11

11 Seguaci di una sètta religiosa che fanno voto di castità, e, per più sicurezza, si fanno castrare. 
 Nota del Traduttore. 

– Ho detto che non posso, rispose il sostituto; a causa dell’assenza dei testimoni, e così dichiarerò alla corte. 
– Ma è indifferente... 
– Non posso, ripetè il sostituto procuratore; ed agitando le braccia si ritirò nel suo gabinetto. 
Rimandava la causa degli Scòptsi non per motivo dell’assenza di un testimone poco importante, anzi inutile, ma soltanto perchè la causa, inscritta in un tribunale ove c’era una giuria intelligente, aveva gran probabilità di terminare coll’assoluzione degli accusati. D’accordo col presidente, la causa doveva essere portata davanti alla sessione di una piccola città di provincia, dove quasi tutti i giurati erano dei contadini, e dove, per conseguenza, c’era la quasi certezza di vederli condannati. 
L’animazione nel corridoio andava aumentando. La folla era maggiore davanti alla porta della sala del tribunale civile, dove si giudicava l’affare su menzionato, intorno al personaggio molto imponente, amatore di processi interessanti. 
Durante una interruzione, si era visto uscire dalla sala quella vecchia signora che il «geniale avvocato» aveva saputo così abilmente spogliare di tutti i suoi beni,  a profitto di un uomo d’affari che non ci aveva nessun diritto; e questo era a cognizione dei giudici e più ancora del sollecitatore e del suo avvocato. Ma gli argomenti di quest’ultimo erano così convincenti che non si poteva fare a meno di togliere i beni alla vecchia signora per darli all’affarista. La signora in questione era una grossa 
donna, stretta in una veste nuova, con grossi fiori al cappello. Quando fu nel corridoio si fermò, agitò le corte e grosse mani, mentre ripeteva al suo avvocato: «Cosa fa-ranno? Ve ne supplico! Ditemi a che punto stiamo!» Ma l’avvocato guardava i fiori del cappello, non l’ascoltava e ripeteva col pensiero rivolto altrove. 
Dietro la vecchia signora, era uscito dalla sala d’udienza il famoso avvocato che aveva saputo accomodare le cose in modo da spogliare così bene la signora dai grossi fiori, mentre che l’affarista, dal quale aveva avuto diecimila rubli, ne otteneva più di centomila. Passò in fretta, con l’aspetto soddisfatto, facendo risaltare il davanti della camicia inamidata e lucente nella larga apertura del panciotto. Tutti gli sguardi si rivolsero verso di lui e innanzi a quelle occhiate, tutto in lui pareva dire: 
«Ve ne prego, signori, tutti questi attestati di ammirazione sono superflui!» Poi si allontanò studiando il passo. 

VII. 
Finalmente   giunse   Matvei   Nikìtitsc,   e   l’usciere,   un omiciattolo magro con un lungo collo, che camminava curvo sopra un fianco, entrò nella camera dei giurati. 
Quest’usciere era un onest’uomo che aveva anche studiato all’Università ma che non aveva potuto rimanere in alcuno degli impieghi che aveva ottenuti, perchè, aveva il vizio di ubriacarsi. Da tre mesi occupava quel posto di usciere, procuratogli da una contessa che proteg-geva sua moglie e ne era contento. 
– Dunque, signori, ci siete tutti? diss’egli inforcando la sua lente sul naso. 
– Mi pare di sì, rispose l’allegro mercante. 
– Ecco verificheremo, disse l’usciere e cavato un foglio di carta dalla tasca, cominciò a fare l’appello dei nomi, guardando ora attraverso il suo   pince-nez, ora al di sopra di esso. 
– Il consigliere di stato I. M. Nikofòrof. 
– Presente! rispose il personaggio importante che conosceva a fondo tutte le cause. 
– Il colonnello in ritiro Ivan Semènovitsc Ivànof. 
–   Presente!   ripetè   un   uomo   magro   in   un’uniforme fuori uso. 
– Il mercante della seconda ghilda Piotr Baklàsciof. 
– Son qui! rispose il gioviale negoziante con un sorrise che gli faceva spalancare la bocca. Pronti! 
– Il luogotenente della guardia, principe Dmitri Niehliùdof. 
– Son io, rispose Niehliùdof. 
L’usciere, guardando il principe al di sopra della sua lente con un’aria di deferenza speciale, sembrava volerlo distinguere e come separare dai suoi compagni. 
– Il capitano Iùri Dmitrevitsc Dancenko, il mercante Gregorio Efimovitsc Kuliesciof, ecc. ecc. 
Tutti i giurati, salvo due, erano presenti. 
– Ed ora, signori, favorite nella sala, conchiuse l’usciere mostrando la porta con un gesto amabile. 
Tutti   si   diressero   verso   la   porta   e   passarono   l’uno dopo l’altro. Dopo aver traversato il corridoio, entrarono nella sala d’udienza. 
Questa sala era uno stanzone ampio e lungo. Una delle sue estremità era occupata da un tavolato più alto al quale si accedeva mercè tre gradini. In mezzo a questo tavolato stava una tavola coperta di un panno verde con una larga frangia pure verde, ma di una tinta più oscura. 
Dietro la tavola c’erano tre poltrone, con delle spalliere altissime di quercia scolpita, e dietro queste, in una cor-nice dorata, era appeso al muro un gran ritratto dell’imperatore in piedi, in uniforme di generale col nastro a tracolla, il tutto dipinto in colori assai vivi. Nell’angolo destro,   un’imagine   di   Gesù   Cristo   coronato   di   spine, sormontava lo scrittoio del procuratore. Nell’angolo sinistro stava il tavolino del segretario, e più davanti, verso il pubblico, una divisione in legno e vicino ad essa il banco degli accusati, ancora vuoto. Dalla parte destra, sul tavolato, erano disposte due file di sedie, egualmente colle spalliere alte per i giurati; più giù, delle tavole per gli avvocati. Tutto questo stava nella parte alta della sala divisa in due da una inferriata. La parte bassa invece, era tutta occupata da banchi, i quali, andavano sempre elevandosi l’uno al disopra dell’altro fino alla parete. 
Sui primi di questi banchi erano sedute quattro donne, vestite come operaie di fabbrica o domestiche, e due uomini, egualmente del ceto operaio, tutti evidentemente colpiti dall’imponenza della sala, giacchè parlavano fra di loro a bassa voce e con una certa timidezza. 
Subito dopo che i giurati si furono seduti, l’usciere si avanzò   fino   al   centro   del   tavolato,   e,   con   voce   alta, come se avesse voluto spaventare tutti gli astanti, gridò:
– Entra la corte! 
Tutti si alzarono ed i giudici montarono sul tavolato. 
Dapprima il presidente coi suoi muscoli e le sue belle fedine. Poi, il giudice malinconico coi suoi occhiali di oro, ancora più tetro di prima, perchè prima di essere entrato nella sala, aveva incontrato suo cognato, candi-dato alla magistratura, il quale lo avevi informato che era stato in casa della sorella e che costei gli aveva dichiarato che non ci sarebbe stato pranzo. 
– È dunque evidente che andremo a pranzare in cantina, aveva detto il cognato, ridendo. 
– Non c’è di che ridere, aveva risposto il giudice malinconico, facendosi sempre più triste. 
E, finalmente, veniva il terzo giudice, quel tale Matvei Nikìtisc che era sempre in ritardo. Era un uomo barbuto, con grandi e buoni occhi gonfi. Soffriva di un catarro di stomaco e quella stessa mattina, per consiglio del medico, aveva incominciato una nuova cura che l’aveva trattenuto in casa ancora più tardi del solito. Ora, al momento di salire sul tavolato, aveva un’aria assai preoccupata, perchè aveva la manìa di indovinare con ogni mezzo possibile le risposte ad enigmi che si proponeva a sè stesso. Questa volta si era detto che se per arrivare  alla sua poltrona, il totale dei suoi passi fosse divisibile per tre, la sua nuova cura lo avrebbe guarito dal suo catarro; se no, no. I passi fatti erano ventisei, ma ne fece uno corto corto e col ventisettesimo giunse alla poltrona. La figura del presidente e dei due magistrati, sul tavolato e nelle loro uniformi dai colletti gallonati, era molto imponente. Essi stessi lo sentivano, e quasi confusi dalla propria grandezza, tutti e tre si af-frettarono a sedersi, cogli occhi modestamente abbassa-ti, sulle loro sedie scolpite, innanzi alla grande tavola verde sulla quale erano posti un oggetto triangolare sor-montato dall’aquila imperiale, boccali di vetro simili a quelli che si vedono, pieni di confetture, nelle vetrine dei dolcieri, poi dei calamai, delle penne, dei foglietti di carta bianca, e molte matite temperate di fresco. 
Il   sostituto   procuratore   entrò   dietro   i   giudici.   Egli pure raggiunse in fretta il suo posto con l’inseparabile portafogli sotto l’ascella, e agitando il braccio. Appena seduto, non avendo un solo minuto da perdere per preparare la sua requisitoria egli s’immerse nello studio del suo fascio di scritture legali. Bisogna dire, che essendo stato nominato da poco tempo sostituto, si presentava solo per la quarta volta in corte d’assise. La sua grande ambizione gli lasciava sperare una brillante carriera, alla sola condizione di ottenere delle condanne in tutti i processi nei quali egli si fosse mischiato. Conosceva solo per sommi capi l’affare dell’avvelenamento, ed aveva già steso il piano generale della sua requisitoria; non gli 
restava altro ora, che conoscere meglio i dettagli, ed egli vi lavorava appunto prendendo note sugli inserti. 
In quanto al segretario, seduto all’estremità opposta dell’impalcato, con tutte le carte da leggere preparate innanzi a lui, dava una scorsa ad un articolo di un giornale proibito, ricevuto la sera prima, con l’intenzione di parlarne al giudice dalla gran barba, il quale aveva le stesse sue opinioni politiche. 

VIII

Il presidente, data una scorsa agli atti, fece alcune domande all'usciere e al cancelliere e, ottenute delle risposte affermative, dispose che venissero condotti gli imputati. Subito la porta dietro la sbarra si aprì ed entrarono due gendarmi col berretto e le sciabole sguainate, e dietro di loro prima un imputato, un uomo rosso e lentigginoso, e poi due donne.
L'uomo indossava il camiciotto dei carcerati, troppo ampio e lungo per lui.
Entrando in tribunale, teneva le mani tese lungo le cuciture e i pollici rigidi e allargati, trattenendo con questa posizione le maniche troppo lunghe che gli cadevano. Senza guardare i giudici e il pubblico, osservava attentamente la panca intorno a cui stava girando. Alla fine vi si sedette composto, a un'estremità, lasciando il posto alle altre e, puntato lo sguardo sul presidente, si mise a muovere i muscoli delle guance, come sussurrando qualcosa. Dopo di lui entrò una donna non più giovane, anche lei in divisa da detenuta. Sul capo della donna era annodato il fazzoletto delle carcerate, il volto era grigio-bianco, senza ciglia né sopracciglia, ma con gli occhi rossi. Questa donna sembrava assolutamente calma. Mentre andava al suo posto, il camiciotto le s'impigliò in qualcosa, lei lo liberò diligentemente, senza fretta, e si sedette.
La terza imputata era la Maslova.
Non appena entrò, gli occhi di tutti gli uomini che erano in aula si volsero verso di lei e a lungo non si staccarono dal suo volto bianco dagli occhi lucenti, neri brillanti, e dal suo seno alto che sporgeva sotto la divisa.
Persino il gendarme accanto a cui era passata la fissò senza distogliere gli occhi mentre passava e prendeva posto e poi, quando si fu seduta, quasi sentendosi in colpa si voltò in fretta, si riscosse e puntò gli occhi sulla finestra dritto dinanzi a sé.
Il presidente aspettò che gli imputati prendessero posto, e non appena la Maslova si fu seduta si rivolse al cancelliere.
Ebbe inizio la consueta procedura: si elencarono i giurati, si discusse sugli assenti, s'inflisse loro un'ammenda, si decise su coloro che avevano chiesto di essere esentati e si sostituirono gli assenti con dei giurati di riserva. Poi il presidente piegò dei bigliettini, li mise in un vaso di vetro e dopo essersi rimboccato un po' le maniche ricamate dell'uniforme, denudando le braccia molto pelose, con gesti da prestigiatore cominciò a estrarre un bigliettino dopo l'altro, a spiegarlo e a leggerlo. Poi il presidente si risistemò le maniche e invitò il sacerdote a condurre i giurati al giuramento.
Il sacerdote, un vecchietto dalla faccia gonfia e giallastra in tonaca marrone, con una croce d'oro sul petto e un'altra piccola decorazione appuntata di lato sulla tonaca, muovendo lentamente le gambe gonfie sotto la veste si avvicinò al leggio che stava sotto l'immagine.
I giurati si alzarono e, accalcandosi, si mossero verso il leggio.
- Prego, - disse il sacerdote, toccandosi la croce sul petto con la mano paffuta e aspettando che tutti i giurati si avvicinassero.
Questo sacerdote era stato ordinato quarantasei anni prima e si preparava a festeggiare fra tre anni il proprio giubileo come l'aveva recentemente festeggiato l'arciprete della cattedrale. Era poi sacerdote del tribunale distrettuale dal tempo dell'apertura dei tribunali ed era molto orgoglioso di aver fatto prestare giuramento a diverse decine di migliaia di persone e di continuare a esercitare il ministero alla sua venerabile età, per il bene della chiesa, della patria e della famiglia, alla quale avrebbe lasciato, oltre alla casa, un capitale di non meno di trentamila rubli in titoli di rendita. Il fatto che il suo lavoro in tribunale, consistente nel far giurare la gente sul vangelo, in cui il giuramento è esplicitamente proibito, fosse un cattivo lavoro, non gli era mai passato per la testa, e non solo non gli pesava, ma anzi amava quell'occupazione abituale, che spesso gli faceva incontrare dei signori così perbene. Ora non senza piacere aveva conosciuto il celebre avvocato, che gli incuteva gran rispetto per aver guadagnato ben diecimila rubli con la sola causa della vecchietta dagli enormi fiori sul cappello.
Quando i giurati furono tutti saliti sulla pedana, il sacerdote, piegando di lato il capo calvo e canuto, lo infilò nell'apertura bisunta della pianeta e, ravviatosi i capelli radi, si rivolse ai giurati:
- Alzate la mano destra, e mettete le dita così, - disse lentamente, con voce senile, alzando la mano paffuta con le fossette sopra ogni dito e riunendo le dita a pizzico. - Ora ripetete dopo di me, - disse e cominciò: -
Prometto e giuro su Dio onnipotente, davanti al santo suo vangelo e alla vivificante croce del Signore, che nella causa in cui... - diceva, facendo delle pause dopo ogni frase. - Non abbassate le mani, tenetele così, - si rivolse a un giovanotto che aveva abbassato la mano, - che nella causa in cui...
Il signore prestante con le basette, il colonnello, il mercante e altri tenevano le mani con le dita riunite come voleva il sacerdote, bene in alto e con sicurezza, quasi con un piacere particolare; gli altri quasi controvoglia, insicuri. Gli uni ripetevano le parole a voce troppo alta, quasi con foga, e un'espressione che diceva: «E io comunque parlerò finché mi pare», gli altri sussurravano appena, restavano indietro e poi, come spaventati, raggiungevano il sacerdote fuori tempo; gli uni tenevano le dita strette strette, quasi temendo di lasciarsi scappare qualcosa, con gesto di sfida, gli altri invece lasciavano andare le dita e poi le richiudevano. Tutti erano a disagio, solo il vecchio sacerdote era convinto senz'ombra di dubbio di fare una cosa molto utile e importante. Dopo il giuramento il presidente invitò i giurati a eleggersi un capo. I giurati si alzarono e, accalcandosi, passarono nella camera di consiglio, dove quasi tutti presero subito una sigaretta e si misero a fumare. Qualcuno propose come capo il signore prestante, e tutti furono subito d'accordo e, gettati via e spenti i mozziconi, tornarono in aula. Il neoeletto dichiarò al presidente di essere stato scelto come capo, e tutti di nuovo, scavalcandosi le gambe a vicenda, si sedettero in due file sulle sedie dagli alti schienali.
Tutto andò senza intoppi, ben presto anche non senza solennità, e questa esattezza, consequenzialità e solennità facevano evidentemente piacere ai partecipanti, confermando in loro la coscienza di svolgere un serio e importante compito sociale. Tale era la sensazione che provava anche Nechljudov.
Non appena i giurati si furono seduti, il presidente tenne loro un discorso sui loro diritti, doveri e responsabilità. Pronunciando il suo discorso, il presidente mutava continuamente posizione: ora si appoggiava sul gomito sinistro, ora sul destro, ora sullo schienale, ora sui braccioli della poltrona, ora pareggiava i bordi dei fogli, ora accarezzava il tagliacarte, ora tastava la matita.
I loro diritti, secondo le sue parole, consistevano nella facoltà di interrogare gli imputati tramite il presidente, avere carta e matita ed esaminare i corpi del reato. Il dovere consisteva nel giudicare non erroneamente, ma secondo giustizia. E la responsabilità consisteva nell'essere soggetti a sanzioni in caso d'inosservanza del segreto di consiglio e di contatti con estranei.
Tutti ascoltavano con reverenziale attenzione. Il mercante, diffondendo odore di vino attorno a sé e trattenendo un rutto rumoroso, annuiva a ogni frase in segno di approvazione.

IX

Terminato il suo discorso, il presidente si rivolse agli imputati.
- Simon Kartinkin, si alzi, - disse.
Simon scattò in piedi nervosamente. I muscoli delle sue guance cominciarono a muoversi ancora più in fretta.
- Il suo nome?
- Simon Petrov Kartinkin, - pronunciò in fretta e con voce stridula la risposta evidentemente preparata in anticipo.
- La sua condizione?
-
Contadina.
- Di quale governatorato, distretto?
- Governatorato di Tula, distretto di Krapivno, comune di Kupjansk, villaggio di Borki.
- Quanti anni ha?
-
Trentatrè,
nato
nel milleottocento...
-
Religione?
- Siamo di religione russa, ortodossa.
-
Coniugato?
-
Nossignore.
- Qual è la sua occupazione?
- Inserviente di corridoio all'albergo «Mauritania».
- È mai stato sotto processo?
- Non sono mai stato sotto processo, perché prima noi si viveva...
- Non è mai stato sotto processo prima?
- Dio scampi, mai.
- Ha ricevuto una copia dell'atto d'accusa?
-
Sì.
- Si sieda. Evfimija Ivanova Boèkova, - il presidente si rivolse all'imputata successiva.
Ma Simon continuava a restare in piedi e nascondeva la Boèkova.
- Kartinkin, si sieda.
Kartinkin
restava
sempre in piedi.
- Kartinkin, si sieda!
Kartinkin restava sempre in piedi e si sedette soltanto quando accorse l'usciere e, inclinando la testa di lato e spalancando innaturalmente gli occhi, disse con un sussurro tragico: «Seduto, seduto!».
Kartinkin si sedette in fretta come si era alzato, e avviluppatosi nel camiciotto ricominciò a muovere le guance in silenzio.
- Il suo nome? - con un sospiro di stanchezza il presidente si rivolse alla seconda imputata, senza guardarla e consultando il foglio che gli stava davanti. La procedura era così abituale per il presidente, che per accelerarne il corso poteva occuparsi di due cose contemporaneamente.
La Boèkova aveva quarantatré anni, era una borghese di Kolomna e anche lei lavorava come cameriera all'albergo «Mauritania». Non era mai stata sotto processo o inchiesta, aveva ricevuto la copia dell'atto d'accusa.
La Boèkova dava le sue risposte senz'ombra di esitazione e con un tono come se a ogni risposta volesse dire: «Sì, Evfimija, e Boèkova, la copia l'ho ricevuta e me ne vanto, e non permetterò a nessuno di riderne». Si sedette subito, senza aspettare che glielo dicessero, non appena finirono le domande.
- Il suo nome? - il presidente donnaiolo si rivolse alla terza imputata con una certa particolare amabilità. - Bisogna alzarsi, - aggiunse in tono dolce e carezzevole, notando che la Maslova restava seduta.
La Maslova si alzò con un rapido movimento e con un'espressione di disponibilità, sporgendo il suo alto seno, senza rispondere, guardava dritto in faccia il presidente con i suoi occhi neri, sorridenti e un po' strabici.
- Come si chiama?
- Ljubov', - disse in fretta.
Intanto Nechljudov, messosi il pince-nez, guardava gli imputati via via che venivano interrogati. «Non può essere, - pensava, senza staccare gli occhi dal volto dell'imputata, - ma come Ljubov'?», - pensò quando ebbe udito la sua risposta.
Il presidente voleva continuare con le altre domande, ma il giudice con gli occhiali lo fermò, sussurrando arrabbiato qualcosa. Il presidente fece un segno di assenso col capo e si rivolse all'imputata:
- Come Ljubov'? - disse. - Qui risulta un altro nome.
L'imputata
taceva.
- Le sto domandando qual è il suo vero nome.
- Il nome di battesimo? - chiese il giudice arrabbiato.
- Prima mi chiamavo Katerina.
«Non può essere», - continuava a dirsi Nechljudov, e intanto sapeva già senz'ombra di dubbio che era lei, quella stessa ragazza, pupilla o cameriera, di cui un tempo era stato innamorato, proprio innamorato, e che poi in una sorta di folle annebbiamento aveva sedotto e abbandonato e di cui in seguito non si era più ricordato, perché quel ricordo era troppo tormentoso, lo accusava troppo chiaramente e dimostrava che lui, così orgoglioso della sua correttezza, aveva agito con quella donna in maniera non solo scorretta, ma addirittura infame.
Sì, era lei. Adesso egli vedeva chiaramente quella peculiarità esclusiva, misteriosa, che distingue ogni viso dall'altro, lo fa particolare, unico, irripetibile. Nonostante il pallore innaturale e la pienezza del viso, questa peculiarità, cara, esclusiva peculiarità, era in quel viso, nelle labbra, negli occhi un po' strabici e soprattutto in quello sguardo ingenuo e sorridente e nell'espressione di disponibilità non solo sul volto, ma in tutta la persona.
- È così che doveva dire, - di nuovo con particolare dolcezza disse il presidente. - E il patronimico?
- Sono figlia illegittima, - disse la Maslova.
- Ma dal padrino di battesimo, che nome ha preso?
-
Michajlova.
«E cosa avrà commesso?» - continuava intanto a pensare Nechljudov, respirando a fatica.
- E il cognome, il soprannome qual è? - continuava il presidente.
- Mi hanno registrata col nome di mia madre, Maslova.
-
Condizione?
-
Borghese.
- Religione ortodossa?
-
Ortodossa.
- Occupazione? Che lavoro faceva?
La Maslova taceva.
- Che lavoro faceva? - ripeté il presidente.
- Ero in una casa, - disse.
- In quale casa? - domandò severamente il giudice con gli occhiali.
- Lo sa anche lei in quale, - disse la Maslova, sorrise e, dopo una rapida occhiata in giro, fissò di nuovo il presidente.
C'era qualcosa di così insolito nell'espressione del viso, di così terribile e patetico nel significato delle parole pronunciate da lei, in quel sorriso e in quella rapida occhiata che aveva lanciato a tutta la sala, che il presidente chinò il capo, e nell'aula per un momento scese un assoluto silenzio. Il silenzio fu interrotto dalla risata di qualcuno del pubblico.
Qualcuno si mise a zittire. Il presidente sollevò il capo e proseguì l'interrogatorio:
- È mai stata sotto processo e inchiesta?
- Mai, - disse piano la Maslova, sospirando.
- Ha ricevuto una copia dell'atto di accusa?
-
Sì.
- Si sieda, - disse il presidente.
L'imputata sollevò la gonna dietro con quel movimento con cui le donne eleganti si aggiustano lo strascico, e si sedette, infilando le piccole mani bianche nelle maniche della divisa, senza distogliere gli occhi dal presidente.
Iniziò l'appello dei testimoni, il loro allontanamento, la decisione sul perito medico-legale e il suo invito nell'aula delle udienze. Poi si alzò il cancelliere e cominciò a leggere l'atto d'accusa. Leggeva forte e chiaramente, ma così in fretta che la sua voce, che pronunciava male la «l»
e la «r», si fondeva in un unico ronzio ininterrotto e soporifero. I giudici si appoggiavano ora all'uno, ora all'altro bracciolo della poltrona, ora sul tavolo, ora sullo schienale, ora chiudevano gli occhi, ora li riaprivano e bisbigliavano fra loro. Un gendarme trattenne diverse volte lo spasimo iniziale di uno sbadiglio.
Degli
imputati,
Kartikin non smetteva di muovere le guance, la Boèkova sedeva perfettamente tranquilla e diritta, grattandosi di tanto in tanto la testa sotto il fazzoletto.
La Maslova ora sedeva immobile, ascoltando e guardando il lettore, ora trasaliva e sembrava voler fare delle obiezioni, arrossiva, e poi sospirava gravemente, cambiava posizione delle mani, guardandosi intorno, e di nuovo fissava il lettore.
Nechljudov sedeva in prima fila sulla sua alta sedia, secondo dal fondo, e toltosi il pince-nezguardava la Maslova, e nella sua anima si svolgeva un lavorio complesso e tormentoso.

X

L'atto d'accusa suonava così: «Il 17 gennaio 188* all'albergo
"Mauritania" morì di morte improvvisa il mercante della seconda corporazione Ferapont Emel'janoviè Smel'kov, di Kurgan. Il medico della polizia locale del IV distretto certificò che il decesso era sopravvenuto per aneurisma, causato dall'abuso di bevande alcoliche. Il corpo di Smel'kov fu inumato.
Trascorsi alcuni giorni il mercante Timochin, compaesano e amico di Smel'kov di ritorno da Pietroburgo, apprese le circostanze che avevano accompagnato la morte di Smel'kov, manifestò il dubbio che qualcuno avesse potuto avvelenarlo allo scopo di derubarlo del denaro che portava con sé.
Tale sospetto trovò conferma nell'istruttoria preliminare, che stabilì: 1) che Smel'kov poco prima della morte aveva incassato dalla banca 3800
rubli in argento. Mentre all'inventario degli averi del defunto da porre in custodia risultava una somma di soli 312 rubli e 16 copeche. 2) Smel'kov aveva trascorso tutto il giorno della vigilia e tutta l'ultima notte prima di morire con la prostituta Ljubka (Ekaterina Maslova) nella casa di tolleranza e nell'albergo "Mauritania", dove, per incarico di Smel'kov e in sua assenza, Ekaterina Maslova si recò dalla casa di tolleranza per prendere del denaro, che tolse dalla valigia di Smel'kov, aperta con la chiave datale dal medesimo, in presenza dei camerieri dell'albergo
"Mauritania", Evfimija Boèkova e Simon Kartinkin. Nella valigia di Smel'kov, quando la Maslova l'aprì, la Boèkova e il Kartinkin lì presenti videro dei mazzi di banconote da cento rubli. 3) Al ritorno di Smel'kov dalla casa di tolleranza all'albergo "Mauritania" insieme alla prostituta Ljubka, quest'ultima, dietro suggerimento del cameriere Kartinkin, diede da bere a Smel'kov della polverina bianca, ricevuta dal Kartinkin, in un bicchierino di cognac. 4) La mattina successiva la prostituta Ljubka (Ekaterina Maslova) vendette alla sua padrona, tenutaria della casa di tolleranza, la teste Kitaeva, l'anello di brillanti di Smel'kov, dicendo di averlo ricevuto in dono da lui stesso. 5) La cameriera dell'albergo
"Mauritania" Evfimija Boèkova il giorno successivo alla morte di Smel'kov versò sul proprio conto corrente alla locale banca commerciale 1.800 rubli in argento.
L'esame
medico-legale,
l'autopsia
e l'analisi chimica dei visceri dello
Smel'kov rivelarono un'indubbia presenza di veleno nell'organismo del defunto, che permise di concludere che il decesso era stato conseguenza dell'avvelenamento.
Chiamati a deporre in qualità di accusati, Maslova, Boèkova e Kartinkin si protestarono innocenti, dichiarando: la Maslova di essere stata effettivamente mandata da Smel'kov all'albergo "Mauritania", dalla casa di tolleranza dove, secondo la sua espressione, lavorava, per portargli del denaro, e di aver là aperto la valigia del mercante con la chiave datale da lui stesso, di avervi prelevato 40 rubli, come le era stato ordinato, ma di non aver preso altro denaro, come potevano confermare la Boèkova e il Kartinkin, in presenza dei quali aveva aperto e richiuso la valigia e preso i soldi. Affermò inoltre che, tornata una seconda volta nella camera del mercante Smel'kov, gli aveva effettivamente dato da bere nel cognac, su istigazione del Kartinkin, certe polverine che credeva sonnifere, affinché il mercante si addormentasse e la lasciasse libera al più presto. L'anello le era stato regalato da Smel'kov stesso dopo che egli l'aveva picchiata e lei si era messa a piangere e voleva andarsene via.
Evfimija Boèkova dichiarò di non saper nulla del denaro sparito, e di non essere mai entrata nella stanza del mercante, dove invece la sola Ljubka aveva agito indisturbata, e che se qualcosa era stato sottratto al mercante era stata Ljubka a sottrarlo, quando era arrivata con la chiave del mercante per prendere il denaro. - A questo punto della lettura la Maslova trasalì, aprì la bocca e si voltò a guardare la Boèkova. - E quando a Evfimija Boèkova fu presentato il suo conto in banca di 1.800 rubli in argento, - continuava a leggere il cancelliere, - e le fu domandato da dove le venisse quella somma, lei rispose che erano i risparmi che aveva accumulato in dodici anni di lavoro insieme a Simon Kartinkin, con cui si accingeva a sposarsi. Simon Kartinkin, a sua volta, nella sua prima deposizione confessò di aver rubato il denaro insieme alla Boèkova, su istigazione della Maslova, giunta con la chiave dalla casa di tolleranza, e di averlo diviso con la Maslova e la Boèkova. - A questo punto la Maslova trasalì, fece addirittura per alzarsi, divenne di porpora e cominciò a dire qualcosa, ma l'usciere la fermò. - Infine, - il cancelliere continuava la lettura, - Kartinkin ammise di aver dato alla Maslova la polverina per fare addormentare il mercante; nella sua seconda deposizione invece negò di aver preso parte al furto del denaro e di aver consegnato alla Maslova la polverina, incolpando di tutto lei sola. Quanto al denaro depositato in banca dalla Boèkova, dichiarò, d'accordo con lei, che era stato ricevuto da entrambi in dodici anni di servizio dai signori che avevano così compensato i loro servigi».
Seguivano poi nell'atto d'accusa la descrizione dei confronti fra gli imputati, le deposizioni dei testimoni, i pareri degli esperti, eccetera.
La conclusione dell'atto d'accusa era la seguente:
«In considerazione di quanto esposto sopra, il contadino del villaggio di Borki Simon Petrov Kartinkin di 33 anni, la borghese Evfimija Ivanova Boèkova di 43 anni e la borghese Ekaterina Michajlova Maslova di 27
anni sono accusati di aver rubato, il 17 gennaio 188*, essendosi precedentemente accordati fra loro, il denaro e l'anello del mercante Smel'kov per un ammontare di 2.500 rubli in argento e di avergli somministrato del veleno a scopo di omicidio, provocando con ciò la morte di Smel'kov. Questo reato è contemplato dai commi 4 e 5
dell'articolo 1453 del Codice penale. Perciò, anche in base all'articolo 201
del Codice di procedura penale, il contadino Simon Kartinkin, Evfimija Boèkova e la borghese Ekaterina Maslova sono rinviati al giudizio del tribunale distrettuale con la partecipazione di una giuria popolare.»
Così il cancelliere terminò la lettura del lungo atto d'accusa e, ripiegati i fogli, si sedette al suo posto, ravviandosi con entrambe le mani i lunghi capelli. Tutti sospirarono di sollievo, con la piacevole consapevolezza che ora l'indagine era iniziata e presto tutto si sarebbe chiarito, e giustizia sarebbe stata fatta. Solo Nechljudov non provava questa sensazione: era tutto preso dall'orrore di ciò che poteva aver commesso quella Maslova che aveva conosciuto come una fanciulla innocente e incantevole dieci anni prima.

XI

Quando terminò la lettura dell'atto d'accusa, il presidente, consultatosi con gli altri membri della corte, si rivolse a Kartinkin con un'espressione che diceva chiaramente: adesso sì che sapremo tutta la verità fin nel minimo dettaglio.
- Contadino Simon Kartinkin, - cominciò, piegandosi a sinistra.
Simon Kartinkin si alzò, mettendosi sull'attenti e protendendosi in avanti con tutto il corpo, senza cessare di muovere le guance in silenzio.
- Lei è accusato di aver sottratto, il 17 gennaio 188*, in complicità con Evfimija Boèkova e Ekaterina Maslova, il denaro appartenente al mercante Smel'kov dalla sua stessa valigia e di aver poi portato dell'arsenico e convinto Ekaterina Maslova a somministrare il veleno allo Smel'kov nel vino, causandone la morte. Si riconosce colpevole? - disse e si piegò a destra.
- È impossibile, perché il nostro mestiere è servire i clienti...
- Lo dirà poi. Si riconosce colpevole?
- Ma no, signore. Io ho solo...
- Lo dirà poi. Si riconosce colpevole? - ripeté calmo ma fermo il presidente.
- Non posso fare queste cose, perché...
Di nuovo l'usciere accorse da Simon Kartinkin e con un sussurro tragico lo fermò.
Il presidente, con l'aria che la faccenda fosse conclusa, spostò il gomito e la mano con cui teneva il foglio e si rivolse a Evfimija Boèkova.
- Evfimija Boèkova, lei è accusata di avere, il 17 gennaio 188*
all'albergo «Mauritania», in complicità con Simon Kartinkin e Ekaterina Maslova, sottratto al mercante Smel'kov dalla sua valigia il denaro e l'anello e, divisa la refurtiva fra di voi, aver somministrato del veleno al mercante Smel'kov per occultare il delitto. Si riconosce colpevole?
- Io non sono colpevole di nulla, - cominciò l'imputata, spavalda e ferma. - Io non sono neanche entrata nella stanza... È stata questa schifosa qui a entrare e a combinare tutto.
- Lo dirà poi, - disse di nuovo con la stessa pacata fermezza il presidente. - Dunque non si riconosce colpevole?
- Non sono stata io a prendere i soldi, e non sono stata io ad avvelenare, io non sono neanche entrata nella stanza. Se ci fossi entrata, l'avrei sbattuta fuori.
- Non si riconosce colpevole?
-
Niente
affatto.
-
Benissimo.
- Ekaterina Maslova, - cominciò il presidente, rivolgendosi alla terza imputata, - lei è accusata di aver rubato, giunta dalla casa di tolleranza all'albergo «Mauritania» con la chiave della valigia del mercante Smel'kov, il denaro e l'anello di questi, - diceva come una lezione imparata a memoria, tendendo intanto l'orecchio al suo collega di sinistra, che stava dicendo che secondo l'elenco dei corpi del reato mancava una boccetta. -
Di aver rubato dalla valigia il denaro e l'anello, - ripeté il presidente, - e, divisa la refurtiva e ritornata con il mercante Smel'kov all'albergo
«Mauritania», di aver dato da bere allo Smel'kov del vino avvelenato, che ne causò la morte. Si riconosce colpevole?
- Non sono colpevole di nulla, - lei cominciò a parlare svelta, - come ho detto prima, così ripeto adesso: non li ho presi, non li ho presi e non li ho presi, io non ho preso nulla, e l'anello me lo ha regalato lui...
- Non si riconosce colpevole del furto di duemilacinquecento rubli? -
disse il presidente.
- Dico che non ho preso nient'altro che i quaranta rubli.
- Bene, e di aver dato al mercante Smel'kov una polverina nel vino, si riconosce colpevole?
- Di questo sì. Solo che credevo fosse un sonnifero, come mi avevano detto, e che non avrebbe fatto niente. Non pensavo e non volevo. Lo dico dinanzi a Dio: non volevo, - disse.
- Dunque non si riconosce colpevole di aver rubato il denaro e l'anello del mercante Smel'kov, - disse il presidente. - Ma riconosce di avergli dato la polverina?
- Cioè lo riconosco, credevo fosse un sonnifero. Gliel'ho dato solo perché si addormentasse: non volevo e non pensavo.
- Benissimo, - disse il presidente, palesemente soddisfatto dei risultati ottenuti. - Dunque racconti come sono andate le cose, - disse appoggiandosi allo schienale e posando le mani sul tavolo. - Racconti tutto come è stato. Può migliorare la sua posizione con una confessione sincera.
La Maslova, continuando a guardare dritto in faccia il presidente, taceva.
- Racconti come sono andate le cose.
- Come sono andate? - cominciò a un tratto la Maslova, rapidamente.
- Arrivai all'albergo, mi accompagnarono nella stanza, lui era là, e già parecchio ubriaco. - Pronunciò la parola «lui» con una particolare espressione di terrore, spalancando gli occhi. - Io volevo andarmene, ma lui non mi lasciava.
Tacque, come se a un tratto avesse perso il filo o si fosse ricordata di qualcos'altro.
- Bene, e poi?
- E poi cosa? Poi rimasi un po' e me ne tornai a casa.
A quel punto il sostituto procuratore si alzò a metà, appoggiandosi su un gomito in maniera innaturale.
- Desidera fare una domanda? - chiese il presidente e alla risposta affermativa del sostituto procuratore fece cenno che gli passava il suo diritto di interrogare.
- Desidererei proporre una domanda: l'imputata conosceva già da prima Simon Kartinkin? - disse il sostituto procuratore senza guardare la Maslova.
E, fatta la domanda, serrò le labbra e corrugò la fronte.
Il presidente ripeté la domanda. La Maslova fissò spaventata il sostituto procuratore.
- Simon? Sì, - disse.
- Ora desidererei sapere in cosa consisteva questa conoscenza dell'imputata con Kartinkin. Si vedevano spesso?
- In cosa consisteva la conoscenza? Mi invitava dai clienti, non era una conoscenza, - rispose la Maslova, spostando inquieta lo sguardo dal sostituto procuratore al presidente e viceversa.
- Desidererei sapere perché Kartinkin invitava dai clienti solamente la Maslova, e non le altre ragazze, - disse il sostituto procuratore socchiudendo gli occhi, ma con un lieve, scaltro sorriso mefistofelico.
- Non lo so. Che ne so io, - rispose la Maslova, guardandosi intorno spaventata e fermando per un attimo lo sguardo su Nechljudov: - invitava chi gli pareva.
«Possibile che mi abbia riconosciuto?» - pensò con orrore Nechljudov, sentendo che il sangue gli affluiva al viso, ma la Maslova, senza distinguerlo dagli altri, si voltò subito e fissò di nuovo il sostituto procuratore con aria spaventata.
- L'imputata nega dunque di aver avuto dei rapporti intimi con Kartinkin? Benissimo. Non ho altro da chiedere.
E il sostituto procuratore tolse subito il gomito dalla cattedra e si mise ad annotare qualcosa. In realtà non annotava nulla, ripassava soltanto con la penna le lettere del suo promemoria, ma aveva visto che i procuratori e gli avvocati facevano così: dopo un'abile domanda inserivano nella loro arringa una nota destinata a distruggere l'avversario.
Il presidente non si rivolse subito all'imputata, perché stava chiedendo al giudice con gli occhiali se era d'accordo sulla formulazione dei quesiti già preparati e scritti in anticipo.
- E poi cosa accadde? - riprese a domandare il presidente.
- Arrivai a casa, - continuò la Maslova, guardando ora con più coraggio il solo presidente, - consegnai i soldi alla padrona e andai a dormire. Mi ero appena addormentata che mi sveglia Berta, una delle ragazze. «Alzati, il tuo mercante è tornato.» Io non volevo uscire, ma madame me lo ordinò. Allora lui, - di nuovo pronunciò quella parola, lui, con evidente terrore, - lui continuava a offrir da bere alle nostre ragazze, poi voleva ancora mandare a prendere del vino, ma i soldi erano finiti. La padrona non volle fargli credito. Allora mi mandò nella sua stanza. E disse dov'erano i soldi e quanti ne dovevo prendere. E io andai.
Il presidente intanto confabulava con il collega di sinistra e non ascoltava quello che diceva la Maslova, ma per dimostrare che aveva udito tutto, ripeté le sue ultime parole.
- Lei andò. E poi? - disse.
- Arrivai e feci tutto come mi aveva ordinato; andai nella stanza. Non ci andai da sola, ma chiamai Simon Kartinkin e lei, - disse indicando la Boèkova.
- Mente, io non sono neanche entrata... - stava per cominciare la Boèkova, ma la fermarono.
- In loro presenza presi quattro biglietti rossi, - proseguì la Maslova accigliandosi e senza guardare la Boèkova.
- Ebbene, e l'imputata non notò, mentre prendeva i quaranta rubli, quanto denaro c'era? - domandò di nuovo il procuratore.
La Maslova trasalì, non appena il procuratore si rivolse a lei. Non sapeva come e perché, ma sentiva che egli le voleva male.
- Non li contai; vidi solo che erano banconote da cento rubli.
- L'imputata vide le banconote da cento rubli: ho finito.
- Bene, e allora gli portò il denaro? - riprese a interrogare il presidente, guardando l'orologio.
-
Sì.
- Bene, e poi? - domandò il presidente.
-
E
poi
lui mi riprese con sé, - disse la Maslova.
- Bene, e in che modo gli diede da bere la polverina nel vino? -
domandò il presidente.
- In che modo? La versai nel vino e gliela diedi.
- E perché gliela diede?
Lei, senza rispondere, fece un sospiro grave e profondo.
- Non mi lasciava più andare, - disse dopo un breve silenzio. - Non ce la facevo più. Esco in corridoio e dico a Simon Michajloviè: «Almeno mi lasciasse andare. Sono stanca». E Simon Michajloviè mi dice: «Ha stufato anche noi. Vogliamo dargli del sonnifero; così lui si addormenta e tu te ne vai». Io dico: «Bene». Credevo che fosse una polverina innocua. Così mi diede il pacchettino. Entrai, e lui stava disteso dietro il tramezzo e subito mi ordinò di dargli del cognac. Io presi dal tavolo una bottiglia di Fin Champagne, ne versai due bicchieri, per lui e per me, e nel suo bicchiere sciolsi la polverina e gliela diedi. Certo non gliel'avrei data, se avessi saputo.
- Bene, e come si procurò l'anello? - chiese il presidente.
- L'anello me lo regalò lui.
- E quando glielo regalò?
- Quando arrivammo insieme in camera io volevo andarmene, e lui mi colpì sulla testa e mi ruppe il pettine. Io mi arrabbiai, volevo andar via.
Lui si tolse l'anello dal dito e me lo regalò, perché restassi, - disse.
A questo punto il sostituto procuratore fece di nuovo per alzarsi e con la stessa aria di finta innocenza chiese il permesso di fare ancora alcune domande e, quando gli fu accordato, reclinò il capo sul colletto ricamato e chiese:
- Desidererei sapere quanto tempo l'imputata trascorse nella camera del mercante Smel'kov.
Di nuovo la Maslova s'impaurì, e facendo correre inquieta lo sguardo dal sostituto procuratore al presidente, disse in fretta:
- Non ricordo quanto.
- Bene, e non ricorda l'imputata se, uscita dalla stanza del mercante Smel'kov, andò da qualche altra parte in albergo?
La Maslova rifletté.
- Entrai nella stanza accanto, che era vuota, - disse.
- E perché vi entrò? - chiese il sostituto procuratore, infervorandosi e rivolgendosi direttamente a lei.
- Andai a rimettermi in ordine e ad aspettare la carrozza.
- E Kartinkin era nella camera con l'imputata o no?
- Venne anche Kartinkin.
- E perché ci venne?
- Era rimasto del Fin Champagne del mercante, lo bevemmo insieme.
- Ah, beveste insieme. Benissimo.
- E l'imputata parlò con Simon, e di che?
La Maslova si accigliò di nuovo, si fece di porpora e rispose rapidamente:
- Che cosa gli dissi? Non dissi niente. Quello che è stato l'ho raccontato tutto, non so nient'altro. Fate di me quello che volete. Non sono io la colpevole, ecco tutto.
- Ho finito, - disse il procuratore al presidente e, sollevando le spalle in modo innaturale, si mise ad annotare rapidamente sugli appunti per la sua requisitoria che l'imputata confessava di essere entrata con Simon in una camera vuota.
Scese
il
silenzio.
- Non ha niente da aggiungere?
- Ho detto tutto, - rispose lei, sospirando, e si sedette.
Dopodiché il presidente annotò qualcosa su un foglio e, ascoltato ciò che gli comunicava sottovoce il collega alla sua sinistra, annunciò sospesa per dieci minuti l'udienza, si alzò in fretta e uscì dall'aula. La consultazione fra il presidente e il giudice alla sua sinistra, quello alto e barbuto con i grandi occhi buoni, verteva su un lieve disturbo di stomaco avvertito da quest'ultimo, per cui desiderava farsi un massaggio e prendere delle gocce.
Questo egli aveva comunicato al presidente, e su sua richiesta l'udienza era stata sospesa.
Dopo i giudici si alzarono anche i giurati, gli avvocati, i testimoni, e con la piacevole consapevolezza di aver già svolto parte di un compito importante, cominciarono a muoversi in varie direzioni.
Nechljudov entrò nella stanza dei giurati e si sedette alla finestra.

XII

Sì,
era
Katjuša.
Ecco quali erano stati i rapporti di Nechljudov con Katjuša.
La prima volta, Nechljudov aveva visto Katjuša quando, al terzo anno d'università, aveva passato l'estate dalle zie, preparando una tesi sulla proprietà terriera. Di solito con la madre e la sorella trascorreva l'estate nella grande tenuta materna nei dintorni di Mosca. Ma quell'anno sua sorella si era sposata, e la madre era andata all'estero per le cure termali.
Nechljudov poi doveva scrivere la tesi, e decise di passare l'estate dalle zie.
Nella loro casa fuori dal mondo si stava tranquilli, non c'erano distrazioni, e inoltre le zie amavano il loro nipote ed erede, e lui amava loro, amava la loro vita semplice e all'antica.
Nechljudov in quell'estate dalle zie viveva quello stato d'esaltazione di quando un giovane riconosce per la prima volta, non per insegnamenti altrui, ma da solo, tutta la bellezza e l'importanza della vita e tutto il significato della missione in essa assegnata all'uomo, vede la possibilità di un perfezionamento infinito di sé e del mondo intero e vi si dedica non solo con la speranza, ma con l'assoluta certezza di raggiungere tutta la perfezione che si immagina. Quell'anno già all'università aveva letto la Statica sociale di Spencer, e le considerazioni di Spencer sulla proprietà terriera avevano prodotto su di lui una forte impressione, soprattutto perché lui stesso era figlio di una grande possidente. Suo padre non era ricco, ma la madre aveva ricevuto in dote circa diecimila desjatiny di terra.
Egli capì allora per la prima volta tutta la crudeltà e l'ingiustizia della proprietà privata della terra, ed essendo una di quelle persone per cui il sacrificio in nome di esigenze morali costituisce il supremo godimento spirituale, decise di non valersi del diritto di proprietà sulla terra e subito cedette ai contadini la terra ereditata dal padre. E proprio su questo tema stava scrivendo la sua tesi.
Quell'anno la sua vita in campagna dalle zie si svolgeva così: si alzava molto presto, talvolta alle tre, e prima dell'alba andava a fare il bagno nel fiume sotto la collina, talvolta ancora immerso nella nebbia del mattino, e tornava quando sull'erba e sui fiori c'era ancora la rugiada.
Talvolta la mattina, bevuto il caffè, si metteva a scrivere la sua tesi o a leggere le fonti, ma molto spesso invece di leggere o scrivere usciva di nuovo e vagava per i campi e i boschi. Prima di pranzo si addormentava in qualche angolo del giardino, poi a tavola rallegrava e divertiva le zie con il suo buonumore, poi cavalcava o andava in barca e la sera di nuovo leggeva o teneva compagnia alle zie, facendo un solitario. Spesso nelle notti, soprattutto di luna, non riusciva ad addormentarsi perché provava una traboccante, irrequieta gioia di vivere, e invece di dormire passeggiava in giardino, talvolta fino all'alba, con i suoi sogni e i suoi pensieri.
Così felicemente e serenamente trascorse il primo mese della sua vita dalle zie, senza badare a Katjuša, via di mezzo fra la cameriera e la pupilla, con i suoi occhi neri e le gambette svelte.
A quel tempo il diciannovenne Nechljudov, educato sotto l'aluccia della madre, era un giovane completamente innocente. Sognava la donna solo come moglie. E tutte le donne che non potevano, secondo il suo modo di vedere, essere sua moglie, per lui non erano donne, ma persone. Ma accadde che quell'estate, all'Ascensione, dalle zie giunse una loro vicina con i figli, due signorine e un ginnasiale, e con un giovane pittore di origine contadina, loro ospite.
Dopo il tè si misero a giocare a gorelki nel prato già falciato dinanzi alla casa. Presero anche Katjuša. Dopo alcuni scambi, a Nechljudov toccò correre in coppia con Katjuša. A Nechljudov aveva sempre fatto piacere vedere Katjuša, ma non gli era mai neppure passato per il capo che fra lui e lei potesse esserci qualcosa di più.
- Sì, adesso quelli chi li prende? - disse l'allegro pittore che stava
«sotto», correndo velocissimo sulle sue corte e storte, ma forti gambe da contadino, - a meno che non inciampino.
- Tanto non ci prenderà!
- Uno, due, tre!
Batterono le mani tre volte. Trattenendo a stento il riso, Katjuša scambiò svelta il posto con Nechljudov, strinse con la forte e ruvida manina la grande mano di lui e si lanciò a correre verso sinistra, facendo scricchiolare la gonna inamidata.
Nechljudov correva veloce, non voleva farsi prendere dal pittore, e si lanciò a perdifiato. Quando si voltò, vide che il pittore inseguiva Katjuša, ma lei, muovendo agilmente le giovani gambe elastiche, non si lasciava prendere e si allontanava a sinistra. Davanti c'era un'aiuola di cespugli di lillà, dietro la quale non correva mai nessuno, ma Katjuša, voltandosi a cercare Nechljudov, gli fece cenno col capo di raggiungerla oltre l'aiuola.
Egli capì e corse dietro i cespugli. Ma lì, dietro i cespugli, c'era un fossatello di cui ignorava l'esistenza, pieno di ortiche; v'inciampò e cadde, pungendosi le mani con le ortiche e bagnandole con la prima rugiada della sera, ma subito si rialzò, ridendo di se stesso, e corse in uno spazio libero.
Katjuša, raggiante col suo sorriso e gli occhi neri come le more bagnate, gli volava incontro. Si avvicinarono e si presero per mano.
- Si è punto, eh?, - disse lei, ravviandosi con la mano libera la treccia scomposta, respirando affannosamente e sorridendo, e intanto lo guardava di sotto in su.
- Non sapevo neanche che ci fosse un fossato, - disse sorridendo anche lui e senza lasciarle la mano.
Lei gli si avvicinò, e lui, senza neppure sapere come fosse successo, tese il viso verso di lei; Katjuša non si scostò, egli le strinse più forte la mano e le baciò le labbra.
- Oh bella! - esclamò lei e, sfilando la mano con un brusco movimento, scappò via.
Corse al cespuglio di lillà, ne strappò due rami di fiori bianchi che già si sfogliavano, e frustandosi con essi il viso acceso e voltandosi a guardarlo, agitando animatamente le braccia tornò verso il gruppo dei giocatori.
Da quel momento i rapporti fra Nechljudov e Katjuša mutarono, e fra loro si stabilirono quei particolari rapporti che possono esistere fra un giovane innocente e un'altrettanto innocente ragazza, attratti l'uno verso l'altra.
Bastava che Katjuša entrasse nella stanza o che Nechljudov vedesse anche solo in lontananza il suo grembiule bianco, e tutto gli appariva come illuminato dal sole, tutto diventava più interessante, più allegro, più importante; la vita diventava più gioiosa. E la stessa cosa provava lei. Ma non soltanto la presenza e la vicinanza di Katjuša producevano questo effetto su Nechljudov; era sufficiente sapere che Katjuša esisteva, e per lei che esisteva Nechljudov. Se Nechljudov riceveva lettere spiacevoli dalla madre, o la sua tesi non andava avanti, o provava la malinconia senza motivo dei giovani, gli bastava ricordare che esisteva Katjuša e che l'avrebbe rivista, e tutto questo svaniva.
Katjuša aveva molto da fare per casa, ma riusciva a sbrigare tutto per tempo e nei momenti liberi leggeva. Nechljudov le diede Dostoevskij e Turgenev, che aveva appena letto. Più di tutto le piaceva «Un angolo quieto» di Turgenev. Le conversazioni fra loro avvenivano frammentariamente, negli incontri in corridoio, sul balcone, in cortile, e talvolta nella stanza della vecchia domestica delle zie, Matrëna Pavlovna, con cui viveva Katjuša e nella cameretta nella quale talvolta Nechljudov andava a prendere il tè mordicchiando una zolletta di zucchero. E queste conversazioni in presenza di Matrëna Pavlovna erano le più piacevoli.
Chiacchierare quando erano soli era peggio. Subito gli occhi cominciavano a dire qualcosa di completamente diverso, molto più importante di quello che diceva la bocca, le labbra tremavano e li prendeva una specie di terrore, per cui si separavano in fretta.
Questi rapporti continuarono fra Nechljudov e Katjuša per tutto il tempo della sua permanenza dalle zie. Le zie se ne accorsero, si spaventarono e ne scrissero perfino all'estero alla principessa Elena Ivanovna, la madre di Nechljudov. La zia Mar'ja Ivanovna temeva che Dmitrij allacciasse una relazione con Katjuša. Ma era un timore infondato: Nechljudov, senza saperlo, amava Katjuša come amano le persone innocenti, e il suo amore era la migliore protezione dalla caduta sia per lui che per lei. Egli non solo non aveva il desiderio di possederla fisicamente, ma era addirittura inorridito all'idea di una tale possibilità. I timori della poetica Sof'ja Ivanovna invece, che Dmitrij, col suo carattere integro e risoluto, innamoratosi della ragazza si mettesse in mente di sposarla senza curarsi della sua origine e condizione, erano di gran lunga più fondati.
Se Nechljudov allora si fosse reso chiaramente conto del suo amore per Katjuša, e soprattutto se avessero cercato di convincerlo che non poteva e non doveva in alcun modo unire il suo destino a una ragazza del genere, allora sarebbe facilmente potuto accadere che, con la dirittura che gli era propria, egli decidesse che non c'era alcun motivo per non sposare la ragazza, chiunque essa fosse, visto che l'amava. Ma le zie non gli parlarono dei loro timori, e così lui partì senza rendersi conto del suo amore per la ragazza.
Era convinto che il suo sentimento per Katjuša fosse solo una delle manifestazioni della gioia di vivere che colmava allora tutto il suo essere, condiviso da quella cara, allegra fanciulla. Ma quando partì e Katjuša, ferma sul terrazzino d'ingresso con le zie, lo seguì con i suoi occhi neri pieni di lacrime e un po' strabici, egli sentì tuttavia che stava abbandonando qualcosa di meraviglioso, prezioso, che non si sarebbe mai più ripetuto. E divenne molto triste.
- Addio, Katjuša, grazie di tutto, - disse al di sopra della cuffietta di Sof'ja Ivanovna, salendo in carrozza.
- Addio, Dmitrij Ivanoviè, - disse lei con la sua voce dolce e affettuosa e, trattenendo le lacrime che le riempivano gli occhi, corse nell'andito, dove poteva piangere liberamente.

XIII

Passarono tre anni senza che Nechljudov vedesse Katjuša. E la rivide soltanto quando, appena promosso ufficiale, mentre andava a raggiungere l'esercito si fermò dalle zie: ma era ormai un uomo completamente diverso da quello che aveva trascorso l'estate da loro tre anni prima.
Allora era un giovane onesto, altruista, pronto a dedicarsi a ogni buona causa, adesso era un corrotto, raffinato egoista, amante solo del suo piacere. Allora il mondo di Dio gli appariva un mistero che con gioia ed entusiasmo cercava di decifrare, adesso tutto in questa vita era semplice e chiaro e determinato dalle condizioni materiali in cui si trovava. Allora necessaria e importante era la comunione con la natura e gli uomini che avevano vissuto, pensato e sentito prima di lui (la filosofia, la poesia), adesso necessari e importanti erano le istituzioni umane e i rapporti con i compagni. Allora la donna appariva un essere misterioso e affascinante, affascinante proprio per il suo mistero, adesso il significato della donna, di qualunque donna tranne quelle della sua famiglia e le mogli degli amici, era molto preciso: la donna era uno dei migliori strumenti di un piacere già sperimentato. Allora non aveva bisogno di denaro, e poteva accontentarsi di meno di un terzo di quello che gli dava la madre, poteva rinunciare alla proprietà del padre e cederla ai contadini, adesso invece non gli bastavano i millecinquecento rubli al mese che gli passava la madre, e con lei c'erano già spiacevoli discussioni a causa del denaro. Allora egli considerava suo autentico io il suo essere spirituale, adesso considerava se stesso il suo sano, forte io animale.
E tutto questo terribile mutamento si era compiuto in lui solo perché aveva cessato di credere a se stesso e aveva cominciato a credere agli altri.
E aveva cessato di credere a se stesso e aveva cominciato a credere agli altri perché vivere credendo a se stesso era troppo difficile: credendo a se stesso, doveva risolvere ogni questione non in favore del proprio io animale, che cercava gioie facili, ma quasi sempre contro di esso; credendo invece agli altri, non c'era nulla da risolvere, tutto era già risolto e risolto sempre contro l'io spirituale e a favore di quello animale. Non solo: credendo a se stesso si esponeva sempre alle critiche della gente, credendo agli altri riceveva l'approvazione di coloro che lo circondavano.
Così, quando Nechljudov pensava, leggeva, parlava di Dio, della verità, della ricchezza, della povertà, tutti coloro che lo circondavano lo giudicavano fuori luogo e in parte ridicolo, e la madre e la zia con benevola ironia lo chiamavanonotre cher philosophe, mentre quando leggeva romanzi, raccontava aneddoti piccanti, andava a vedere vaudevilles comici al teatro francese e poi li riportava allegramente, tutti lo lodavano e incoraggiavano. Quando credeva necessario limitare le sue esigenze e portava un vecchio cappotto e non beveva vino, tutti la consideravano una stranezza, una posa eccentrica, mentre quando spendeva grosse somme per la caccia o per l'arredamento di uno studio straordinariamente sfarzoso tutti lodavano il suo buon gusto e gli facevano regali costosi. Quando era vergine e voleva restarlo fino al matrimonio, i parenti temevano per la sua salute, e persino la madre non si rattristò, anzi si compiacque, quando seppe che era diventato un vero uomo e aveva soffiato una certa dama francese a un compagno. Mentre all'episodio di Katjuša, che gli potesse venire in mente di sposarla, la principessa madre non poteva pensare senza orrore.
Ugualmente quando Nechljudov, raggiunta la maggiore età, cedette ai contadini la piccola proprietà che aveva ereditato dal padre, perché riteneva ingiusto il possesso della terra, questo suo gesto fece inorridire la madre e i familiari, e fu per lui costante motivo di biasimo e derisione da parte di tutti i suoi parenti. Non si stancavano di ripetergli che i contadini che avevano ricevuto la terra non solo non si erano arricchiti, ma anzi si erano impoveriti, poiché avevano aperto tre bettole nel villaggio e smesso completamente di lavorare. Quando invece Nechljudov, entrato nella guardia, con i suoi compagni altolocati spese e perse al gioco tanto denaro che Elena Ivanovna dovette prelevarne dal capitale, essa quasi non se ne rammaricò, stimando fosse naturale e perfino un bene vaccinarsi così in gioventù e in buona compagnia.
Sulle prime Nechljudov lottò, ma lottare era troppo difficile, perché tutto quello che riteneva buono credendo a se stesso era ritenuto cattivo dagli altri, e al contrario tutto quello che riteneva cattivo credendo a se stesso era ritenuto buono da quanti lo circondavano. E Nechljudov finì per arrendersi, cessò di credere a sé e credette agli altri. E in un primo tempo questo rinnegare se stesso gli dispiacque, ma la sensazione spiacevole durò pochissimo, e ben presto Nechljudov, che nel frattempo aveva cominciato a fumare e bere, smise di provarla e anzi avvertì un gran senso di sollievo.
E Nechljudov, con la passionalità della sua natura, si diede tutto a questa nuova vita, approvata da quanti lo circondavano, e soffocò completamente in sé la voce che esigeva qualcosa di diverso. E ciò che era cominciato dopo il trasferimento a Pietroburgo si compì col suo ingresso nell'esercito.
Il
servizio
militare in genere corrompe gli uomini, mettendo coloro che vi accedono in condizioni di ozio assoluto, cioè di assenza di un lavoro ragionevole e utile, ed esonerandoli dai comuni obblighi umani, in cambio dei quali propone soltanto l'onore convenzionale del reggimento, dell'uniforme, della bandiera e, da un lato, un potere illimitato sul prossimo, e dall'altro una sottomissione servile ai superiori di grado.
Ma quando a questa corruzione del servizio militare in genere, col suo onore dell'uniforme e della bandiera, con la sua autorizzazione alla violenza e all'omicidio, si unisce anche la corruzione della ricchezza e della vicinanza alla famiglia imperiale, come accade nell'ambiente dei reggimenti scelti della guardia, in cui prestano servizio soltanto ufficiali ricchi e nobili, allora la corruzione raggiunge, nelle persone che vi soggiacciono, uno stato di completa follia egoistica. E in tale follia egoistica si trovava Nechljudov da quando era entrato nell'esercito e aveva cominciato a vivere come vivevano i suoi compagni.
Non c'era nulla da fare se non andare alle esercitazioni o alla rivista con gente uguale a lui, in un'uniforme magnificamente cucita e spazzolata non da lui stesso, ma da altri, con un elmo e un'arma che pure era stata fatta, e lucidata, e presentata da altri, su un magnifico cavallo, pure addestrato, e scozzonato, e nutrito da altri, e galoppare, e tirar di sciabola, sparare e insegnare le stesse cose ad altri. Questa era l'unica occupazione, e le persone più altolocate, giovani, vecchi, lo zar e la sua cerchia non solo l'approvavano, ma la compensavano con lodi e ringraziamenti. Poi, dopo queste occupazioni, si riteneva buono e importante, sperperando denaro ricevuto da fonti invisibili, riunirsi per mangiare, e soprattutto bere, nei circoli degli ufficiali o nei ristoranti più costosi, e poi teatri, balli, donne, e poi di nuovo cavalcare, tirar di sciabola, galoppare e di nuovo sperperare denaro, e vino, carte, donne.
Questa vita ha un effetto particolarmente corruttore sui militari, perché se un civile conduce una vita del genere, nel profondo dell'anima non può non vergognarsene. I militari invece ritengono che così debba essere, si vantano, sono fieri di tale vita, soprattutto in tempo di guerra, come accadde a Nechljudov, che entrò nell'esercito dopo la dichiarazione di guerra alla Turchia. «Siamo pronti a sacrificare la vita in guerra, e perciò questa esistenza spensierata e allegra non solo è perdonabile, ma anche necessaria per noi. Dunque noi la conduciamo».
Così pensava confusamente Nechljudov in quel periodo della sua vita; sentiva poi in tutto quel tempo l'entusiasmo della liberazione da tutte le barriere morali che si era posto prima, e si trovava continuamente in uno stato cronico di follia egoistica.
In tale stato si trovava quando, dopo tre anni, si fermò dalle zie.

XIV

Nechljudov si fermò dalle zie perché la loro tenuta era sulla strada che doveva percorrere per raggiungere il reggimento e perché esse lo avevano pregato insistentemente, ma soprattutto si fermò per rivedere Katjuša. Forse in fondo all'anima aveva già cattive intenzioni contro Katjuša, che gli suggeriva il suo io animale ormai sfrenato, ma non era cosciente di queste intenzioni, e desiderava semplicemente tornare in quei luoghi dov'era stato così bene e rivedere le zie, un poco ridicole ma care e buone, che lo circondavano sempre, senza che lui se ne accorgesse, di un'atmosfera d'affetto e di ammirazione, e rivedere la cara Katjuša, di cui gli era rimasto un così piacevole ricordo.
Giunse alla fine di marzo, il venerdì santo, con le strade impraticabili e sotto una pioggia torrenziale, cosicché giunse completamente fradicio e intirizzito, ma vigoroso ed eccitato, come si sentiva sempre in quel periodo. «Starà ancora da loro?» pensava entrando nel noto, antico cortile della tenuta delle zie, recinto da un muretto di mattoni e ingombro di neve caduta dal tetto. Si aspettava di vederla accorrere sul terrazzino al suono della sua campanella, ma dalla stanza delle serve uscirono due donne scalze e succinte con dei secchi, che stavano evidentemente lavando i pavimenti. Lei non c'era neppure sul terrazzino principale; uscì solo il servitore Tichon, in grembiule, anche lui probabilmente impegnato nelle pulizie. In anticamera comparve Sof'ja Ivanovna in abito di seta e cuffietta.
- Che carino sei stato a venire! - esclamò Sof'ja Ivanovna baciandolo.
- Mašen'ka non sta molto bene, si è stancata in chiesa. Ci siamo comunicate.
- Auguri, zia Sof'ja, - disse Nechljudov, baciando le mani di Sof'ja Ivanovna, - mi scusi, l'ho bagnata.
- Vai in camera tua. Sei tutto inzuppato. E hai anche i baffi...
Katjuša! Katjuša! Presto, preparagli il caffè.
- Subito! - rispose la voce nota dal corridoio.
E il cuore di Nechljudov ebbe un sussulto di gioia. «È qui!» E fu come se il sole fosse spuntato da dietro le nubi. Nechljudov andò allegramente con Tichon nella sua stanza di una volta per cambiarsi d'abito.
Nechljudov avrebbe voluto chiedere di Katjuša a Tichon: cosa faceva? come stava? non doveva sposarsi? Ma Tichon era così ossequioso e nello stesso tempo austero, insisté così fermamente per versargli lui stesso l'acqua della brocca sulle mani, che Nechljudov non si decideva a fargli domande su Katjuša e chiese soltanto dei suoi nipoti, del vecchio stallone, del cane da guardia Polkan. Tutti stavano bene, tranne Polkan, che era diventato rabbioso l'anno prima.
Toltosi gli indumenti bagnati, Nechljudov aveva appena cominciato a rivestirsi, quando sentì dei passi rapidi e qualcuno bussò alla porta.
Nechljudov riconobbe sia i passi sia i colpi alla porta. Così camminava e bussava solo lei.
Si gettò sulle spalle il cappotto bagnato e andò alla porta.
-
Avanti!
Era lei Katjuša. Sempre la stessa, ancora più carina di prima. Sempre di sotto in su guardavano i suoi ingenui occhi neri, sorridenti e un po'
strabici. Indossava, come prima, un grembiule bianco pulito. Aveva portato da parte delle zie una saponetta profumata appena tolta dalla carta, e due asciugamani; uno grande, russo, e uno di spugna. Il sapone intatto con le lettere impresse, e l'asciugamano, e lei stessa: tutto era ugualmente pulito, fresco, intatto, piacevole. Ancora come un tempo le sue dolci labbra ferme e rosse s'increspavano di gioia incontenibile, al vederlo.
- Bentornato, Dmitrij Ivanoviè! - proferì a fatica, e il suo viso si coprì di rossore.
-
Ciao...
Buongiorno,
- non sapeva se darle del «tu» o del «lei», e
arrossì a sua volta. - Come va la vita? Bene?
- Grazie a Dio... Ecco, la zia le manda il suo sapone preferito, alla rosa, - disse posando il sapone sul tavolo e gli asciugamani sul bracciolo della poltrona.
- Il signore ha il suo, - Tichon si levò in difesa dell'indipendenza dell'ospite, indicando con orgoglio il grande nécessaire aperto di Nechljudov, con i coperchi d'argento e un'enorme quantità di boccette, spazzole, brillantine, profumi e ogni sorta di oggetti da toilette.
- Ringrazi la zia. Come sono felice di essere qui, - disse Nechljudov, sentendo nell'anima la stessa gioia e la stessa tenerezza di un tempo.
Lei sorrise soltanto in risposta alle sue parole e uscì.
Le zie, che avevano sempre voluto bene a Nechljudov, questa volta gli riservarono un'accoglienza ancor più gioiosa del solito. Dmitrij andava alla guerra, dove avrebbe potuto restare ferito. Le zie ne erano commosse.
Nechljudov
aveva
organizzato il suo viaggio in modo da trattenersi dalle zie soltanto una giornata, ma quando ebbe visto Katjuša accettò di festeggiare con loro la Pasqua, che sarebbe stata di lì a due giorni, e telegrafò al suo amico e compagno Šenbok, con cui doveva incontrarsi a Odessa, perché anche lui facesse un salto dalle zie.
Fin dal primo giorno, appena rivide Katjuša, Nechljudov provò per lei lo stesso sentimento di un tempo. Proprio come allora, non poteva vedere senza emozione il grembiule bianco di Katjuša, non poteva udire senza gioia il suo passo, la sua voce, la sua risata, non poteva guardare senza tenerezza i suoi occhi neri come le more bagnate, specialmente quando sorrideva, e soprattutto non poteva vedere senza turbamento come lei arrossiva incontrandolo. Sentiva di essere innamorato, ma non come prima, quando questo amore era per lui un mistero e non si decideva a confessare a se stesso che amava, e quando era convinto che amare si potesse una volta sola: adesso era innamorato, se ne rendeva conto e se ne rallegrava, e sapeva confusamente, pur celandolo a se stesso, in cosa consistesse l'amore e cosa potesse derivarne.
In Nechljudov, come in tutti, c'erano due uomini. L'uomo spirituale, che cerca per sé solo quel bene che possa essere un bene anche per il prossimo, e l'altro, l'uomo animale, che cerca il bene solo per sé e per questo bene è pronto a sacrificare il bene del mondo intero. In quel periodo della sua follia egoistica, determinata in lui dalla vita pietroburghese e militare, quest'uomo animale dominava in lui e aveva completamente schiacciato l'uomo spirituale. Ma rivedendo Katjuša e sentendo di nuovo ciò che aveva provato un tempo per lei, l'uomo spirituale sollevò la testa e cominciò a rivendicare i propri diritti. E in quei due giorni prima della Pasqua in Nechljudov si svolse un'incessante, inconfessata lotta interiore.
Nel profondo dell'anima egli sapeva che doveva partire e che non c'era motivo di restare dalle zie, sapeva che non sarebbe potuto venirne nulla di buono, ma si sentiva così bene, così lieto, che non l'ammetteva, e restava.
Il sabato sera, alla vigilia della Pasqua, il sacerdote col diacono e il chierico, percorse a fatica in slitta fra pozzanghere e fango, a quanto raccontavano, le tre verste che separavano la chiesa dalla casa delle zie, vennero a celebrare il mattutino.
Nechljudov assisté in piedi al mattutino con le zie e la servitù, lanciando continuamente occhiate a Katjuša che stava sulla porta e portava l'incensiere, scambiò il triplice bacio augurale con il sacerdote e le zie e già voleva andare a dormire, quando sentì in corridoio i preparativi di Matrëna Pavlovna, la vecchia cameriera di Mar'ja Ivanovna, che insieme a Katjuša stava per recarsi in chiesa a far benedire i dolci e le focacce pasquali.
«Vado anch'io», - pensò.
Per andare alla chiesa non c'era strada praticabile né su ruote né in slitta, perciò Nechljudov, che dalle zie si comportava come a casa propria, ordinò che gli sellassero lo stallone e, invece di andare a dormire, indossò l'uniforme scintillante con i calzoni attillati, sopra infilò il cappotto e partì alla volta della chiesa sul vecchio stallone grasso e appesantito che non cessava di nitrire, nell'oscurità, fra le pozzanghere e la neve.

XV

Per tutta la vita poi quel mattutino restò per Nechljudov uno dei ricordi più luminosi e intensi.
Quando nell'oscurità nera, rischiarata solo qua e là dalla neve biancheggiante, entrò nel cortile, sguazzando nell'acqua sul cavallo che drizzava le orecchie alla vista dei lampioncini accesi intorno alla chiesa, la messa era già iniziata.
I contadini, riconosciuto il nipote di Mar'ja Ivanovna, lo condussero in un luogo asciutto dove potesse smontare e lo accompagnarono in chiesa, offrendosi di legargli il cavallo. La chiesa era piena di folla festosa.
A destra gli uomini: vecchi con caffettani e laptifatti in casa e pezze da piedi candide e giovani in caffettani nuovi di panno cinti da fusciacche sgargianti e stivali. A sinistra le donne, con gli scialletti di seta rossa, i corpetti di felpa con le maniche scarlatte e le gonne variopinte, azzurre, verdi e rosse, e gli stivaletti ferrati. Dietro di loro stavano le modeste vecchine con gli scialletti bianchi e i caffettani grigi, con le sottane di lana all'antica e le scarpe o i lapti nuovi; fra le une e le altre c'erano i bambini tutti agghindati con le teste unte d'olio. Gli uomini si segnavano e inchinavano, scuotendo i capelli; le donne, soprattutto le vecchie, fissando gli occhi sbiaditi su un'icona con le candele premevano forte le dita giunte sul fazzoletto in fronte, sulle spalle e sul ventre, e sussurrando qualcosa si piegavano stando in piedi o si prostravano in ginocchio. I bambini, imitando i grandi, pregavano con impegno, quando li si guardava.
L'iconostasi d'oro ardeva di candele che circondavano da tutti i lati i grandi ceri filettati d'oro. Il lampadario era pieno di candele, dai cori si udivano le gaie melodie dei cantori volontari, con i ruggiti dei bassi e le sottili voci bianche dei ragazzi.
Nechljudov si portò avanti. Nel mezzo stava l'aristocrazia: un proprietario terriero con la moglie e il figlio vestito alla marinara, il commissario di polizia, il telegrafista, un mercante in stivaloni alti, il sindaco con la medaglia, e a destra dell'ambone, dietro la possidente, Matrëna Pavlovna con un vestito lilla cangiante e uno scialle bianco con la frangia e Katjuša in un abito bianco dal corpino pieghettato, con una cintura azzurra e un fiocchetto rosso sui capelli neri.
Tutto era festoso, solenne, allegro e bellissimo: i sacerdoti nei luminosi paramenti argentei con le croci d'oro, il diacono e i chierici nelle dalmatiche argentee e dorate delle solennità, e gli eleganti cantori volontari con i capelli unti d'olio, e le allegre melodie ballabili delle canzoni festose, e l'incessante benedizione del popolo da parte dei sacerdoti con i tre ceri ornati di fiori, con le esclamazioni continuamente ripetute: «Cristo è risorto! Cristo è risorto!» Tutto era bellissimo, ma più bella di tutto era Katjuša in abito bianco e cintura azzurra, con il fiocchetto rosso sui capelli neri e gli occhi raggianti ed estatici.
Nechljudov sentiva che lei l'aveva visto, anche senza voltarsi. Se ne accorse quando le passò accanto per andare all'altare. Non aveva niente da dirle, ma escogitò qualcosa e disse, passandole vicino:
- La zia ha detto che romperà il digiuno dopo l'ultima messa.
Come sempre quando lo vedeva, il sangue giovane affluì su tutto il caro viso, e gli occhi neri, ridenti e lieti si fermarono su Nechljudov, guardando ingenuamente di sotto in su.
- Lo so, - disse sorridendo.
In quel momento il chierico, aprendosi un varco fra la folla con una caffettiera di rame, passò accanto a Katjuša e, senza guardarla, la urtò con un lembo della dalmatica. Evidentemente per rispetto verso Nechljudov, il chierico per scansarlo aveva urtato Katjuša. E Nechljudov si stupiva che quel chierico non capisse che tutto ciò che esisteva lì e ovunque al mondo esisteva solo per Katjuša, e che si poteva disdegnare tutto al mondo, ma non lei, perché era il centro di tutto. Per lei brillava l'oro dell'iconostasi e ardevano tutte le candele del lampadario e dei candelieri, per lei erano quei canti di giubilo: «È la Pasqua del Signore, gioite o genti». E tutto ciò che di buono c'era al mondo, tutto era per lei. E gli sembrava che Katjuša lo capisse. Così sembrava a Nechljudov, quando guardava la sua figura snella nell'abito bianco con le piegoline e il viso lieto e assorto, dall'espressione del quale vedeva che ciò che gli cantava nell'anima cantava ugualmente nell'anima di lei.
Nell'intervallo fra la prima e la seconda messa Nechljudov uscì dalla chiesa. La folla si apriva dinanzi a lui e s'inchinava. Qualcuno lo riconosceva, altri domandavano «Chi è?». Sul sagrato si fermò. I mendicanti lo circondarono, egli distribuì gli spiccioli che aveva nel borsellino e scese gli scalini del terrazzino.
Si era già fatto abbastanza chiaro da vedere, ma il sole non sorgeva ancora. La gente si era seduta sulle tombe intorno alla chiesa. Katjuša restava in chiesa, e Nechljudov si fermò ad aspettarla.
La folla continuava a uscire, e battendo i chiodi degli stivali sulle lastre di pietra scendeva i gradini e si sparpagliava per il cortile della chiesa e il cimitero.
Un vecchio decrepito con il capo dondolante, il pasticciere di Mar'ja Ivanovna, fermò Nechljudov, scambiò con lui il triplice bacio augurale, e sua moglie, una vecchietta con il pomo d'Adamo rugoso sotto lo scialletto di seta, gli diede, togliendolo da un fazzoletto, un uovo giallo zafferano.
Subito si avvicinò un giovane contadino muscoloso e sorridente, con un farsetto nuovo e una fusciacca verde.
- Cristo è risorto, - disse ridendo con gli occhi, si avvicinò a Nechljudov investendolo col suo buon odore tipico di contadino, e solleticandolo con la sua barbetta riccia lo baciò per tre volte proprio in mezzo alla bocca con le sue labbra ferme e fresche.
Mentre Nechljudov baciava il contadino e ne riceveva un uovo marrone scuro, apparve il vestito cangiante di Matrëna Pavlovna e la graziosa testolina nera con il fiocchetto rosso.
Lei subito lo scorse, al di sopra delle teste di quelli che le camminavano davanti, ed egli vide il suo volto illuminarsi.
Katjuša e Matrëna Pavlovna uscirono sul sagrato e si fermarono per fare l'elemosina. Un mendicante con una cicatrice rossa al posto del naso si accostò a Katjuša. Lei tolse qualcosa dal fazzoletto, glielo diede e poi si avvicinò a lui e, senza esprimere la minima ripugnanza, anzi con la stessa gioia radiosa negli occhi, lo baciò tre volte. Mentre baciava il mendicante, i suoi occhi incontrarono lo sguardo di Nechljudov. Sembrava chiedere: va bene quello che sto facendo?
«Sì, sì, cara, tutto va bene, tutto è bellissimo, ti amo».
Scesero dal sagrato ed egli le si avvicinò. Non voleva scambiare il bacio pasquale con lei, voleva solo starle più vicino.
- Cristo è risorto! - disse Matrëna Pavlovna, chinando il capo e sorridendo con un'aria che diceva che quel giorno erano tutti uguali, e asciugatasi la bocca con il fazzoletto arrotolato gli porse le labbra.
- In verità, - rispose Nechljudov, baciandola. Si voltò a guardare Katjuša. Lei arrossì e in un attimo gli si avvicinò.
- Cristo è risorto, Dmitrij Ivanoviè.
- In verità è risorto, - disse lui. Si baciarono due volte, parvero riflettere se bisognava andare avanti, e quasi avessero deciso che sì, bisognava, si baciarono la terza volta, ed entrambi sorrisero.
- Non andate dal sacerdote? - chiese Nechljudov.
- No, Dmitrij Ivanoviè, stiamo un po' qui sedute, - disse Katjuša, sospirando profondamente, come dopo una lieta fatica, a pieni polmoni e guardandolo dritto negli occhi con i suoi occhi docili, verginali, innamorati e un pochino strabici.
Nell'amore fra un uomo e una donna c'è sempre un momento in cui questo amore raggiunge il suo zenit, quando in esso non c'è nulla di cosciente, di razionale e nulla di sensuale. Quel momento fu per Nechljudov la notte della Pasqua di resurrezione. Quando adesso ricordava Katjuša, di tutte le situazioni in cui l'aveva vista, quel momento offuscava tutti gli altri. La testolina nera, liscia e lucente, l'abito bianco con le piegoline che modellava castamente la sua figura snella e il piccolo seno, e quel rossore, e quei dolci occhi neri e lucenti, un po' strabici per la notte insonne, e i due tratti salienti di tutto il suo essere: la purezza dell'amore verginale non solo per lui - egli lo sapeva - , ma per tutti e tutto al mondo, e non solo ciò che è bello: per quel mendicante che aveva baciato.
Egli sapeva che in lei c'era l'amore, perché quella notte e quella mattina l'aveva riconosciuto in se stesso, e aveva riconosciuto che in quell'amore egli si fondeva in un'unica cosa con lei.
Ah, se tutto si fosse fermato al sentimento di quella notte! «Sì, tutta quell'orribile storia accadde solo dopo quella notte della Pasqua di resurrezione!» - pensava adesso, seduto alla finestra nella stanza dei giurati.

XVI

Tornato dalla chiesa, Nechljudov ruppe il digiuno con le zie e per rinfrancarsi, secondo un'abitudine presa al reggimento, bevve della vodka e del vino, se ne andò in camera sua e si addormentò subito, vestito. Lo svegliarono dei colpi alla porta. Dal modo di bussare riconobbe che era lei; si alzò, stropicciandosi gli occhi e stiracchiandosi.
- Katjuša, sei tu? Entra, - disse, alzandosi.
Lei socchiuse la porta.
- È pronto in tavola, - disse.
Indossava lo stesso abito bianco, ma senza il fiocco nei capelli.
Guardandolo negli occhi, s'illuminò come se gli avesse annunciato qualcosa di straordinariamente gioioso.
- Adesso vengo, - rispose afferrando il pettine per ravviarsi i capelli.
Lei rimase un attimo di troppo. Egli lo notò e, gettato il pettine, si mosse verso di lei. Ma Katjuša immediatamente si volse in fretta e andò via con i suoi passi sempre leggeri e svelti sulla passatoia del corridoio.
«Che scemo, - si disse Nechljudov - perché non l'ho trattenuta?»
E la raggiunse di corsa nel corridoio.
Cosa volesse da lei, neppure lo sapeva. Ma gli sembrava che, quando era entrata nella sua stanza, avrebbe dovuto fare qualcosa che tutti fanno in quelle circostanze, e non l'aveva fatto.
- Katjuša, aspetta, - disse.
Lei
si
voltò.
- Che c'è? - disse, rallentando.
-
Niente,
solo...
E facendo uno sforzo su se stesso e ricordando come agiscono in questi casi tutti gli uomini nella sua situazione, abbracciò Katjuša per la vita.
Lei si fermò e lo guardò negli occhi.
- No, Dmitrij Ivanoviè, non si deve, - disse arrossendo fino alle lacrime, e con la sua mano forte e ruvida allontanò il braccio che la cingeva.
Nechljudov la lasciò, e per un attimo non solo sentì un senso di disagio e vergogna, ma anche schifo di sé. Avrebbe dovuto credere a se stesso, ma non capì che quel disagio e quella vergogna erano i sentimenti migliori della sua anima che cercavano di esprimersi,e al contrario gli parve che fosse la sua stupidità a parlare, e che occorresse fare come fanno tutti.
La raggiunse ancora una volta, di nuovo l'abbracciò e baciò sul collo.
Questo bacio era ormai completamente diverso dai primi due: uno inconsapevole dietro il cespuglio di lillà e l'altro, quella mattina in chiesa.
Questo era spaventoso, e lei lo sentì.
- Ma che cosa sta facendo? - gridò con una voce tale, come se egli avesse irrimediabilmente rotto qualcosa di infinitamente prezioso, e fuggì via di corsa.
Egli entrò in sala da pranzo. Le zie eleganti, il dottore e la vicina stavano in piedi vicino agli antipasti. Tutto era così consueto, ma nell'anima di Nechljudov c'era la tempesta. Non capiva nulla di quel che gli dicevano, rispondeva a sproposito e pensava solo a Katjuša, ricordando la sensazione di quell'ultimo bacio, quando l'aveva raggiunta in corridoio.
Non poteva pensare a nient'altro. Quando lei entrava nella stanza, pur senza guardarla sentiva con tutto il suo essere la sua presenza e doveva fare uno sforzo su se stesso per non rivolgerle lo sguardo.
Dopo il pranzo si ritirò subito in camera sua e lì camminò a lungo, in preda a una forte agitazione, tendendo l'orecchio ai suoni nella casa e aspettando i suoi passi. Così l'uomo animale che dimorava in lui non solo aveva rialzato il capo, ma si era schiacciato sotto i piedi l'uomo spirituale che era stato durante il suo primo soggiorno e quella mattina stessa in chiesa, e quello spaventoso uomo animale adesso dominava incontrastato nella sua anima. Pur continuando a tenderle agguati, quel giorno non riuscì a incontrarla da solo a solo neppure una volta. Probabilmente lo sfuggiva.
Ma verso sera le accadde di dover andare nella stanza accanto a quella occupata da lui. Il dottore si fermava per la notte e Katjuša doveva preparare il letto all'ospite. Udendo i suoi passi, Nechljudov, camminando senza far rumore e trattenendo il respiro, quasi si preparasse a un delitto, entrò dietro di lei.
Con le mani infilate in una federa pulita e tenendo il cuscino per gli angoli, si voltò verso di lui e sorrise: ma non era il sorriso allegro e gioioso di prima, era spaventato, pietoso. Quel sorriso sembrava dirgli che ciò che faceva era male. Egli si fermò per un attimo. A quel punto la lotta era ancora possibile. Benché debolmente, si faceva ancora sentire la voce del vero amore per lei, che gli parlava di lei, dei suoi sentimenti, della sua vita.
Ma l'altra voce diceva: bada, ti lascerai sfuggire iltuo piacere, la tua felicità. E questa seconda voce soffocava la prima. Le si avvicinò risolutamente. E uno spaventoso, irrefrenabile impulso bestiale s'impossessò di lui.
Senza lasciarsela sfuggire dalle braccia, Nechljudov la fece sedere sul letto, e sentendo che bisognava fare ancora qualcosa, si sedette accanto a lei.
- Dmitrij Ivanoviè, mio caro, per favore, mi lasci, - diceva lei con voce lamentosa, - sta arrivando Matrëna Pavlovna! - gridò, divincolandosi, e davvero qualcuno veniva verso la porta.
- Allora vengo da te stanotte, - disse Nechljudov. - Sei sola, vero?
- Che dice? Mai e poi mai! Non si deve, - diceva lei solo con le labbra, ma tutto il suo essere sconvolto e turbato diceva altro.
Chi si avvicinava alla porta era davvero Matrëna Pavlovna. Entrò nella stanza con una coperta in mano e, rivolta un'occhiata di rimprovero a Nechljudov, redarguì aspramente Katjuša perché aveva preso la coperta sbagliata.
Nechljudov uscì in silenzio. Non si vergognava neppure. Aveva visto dall'espressione del viso di Matrëna Pavlovna che lo biasimava, e aveva ragione di biasimarlo, sapeva che quanto faceva era male, ma l'impulso bestiale sprigionatosi dal suo antico sentimento di amore buono per Katjuša si era impossessato di lui e regnava incontrastato, senza riconoscere null'altro. Ora sapeva cosa bisognava fare per soddisfare quell'impulso, e cercava solo il mezzo.
Per tutta la sera fu un'anima in pena; ora andava dalle zie, ora le lasciava per tornare in camera sua o sul terrazzino e pensava a un'unica cosa, come vederla da sola: ma lei lo sfuggiva, e Matrëna Pavlovna cercava di non perderla d'occhio.

XVII

Così passò tutta la sera, e giunse la notte. Il dottore andò a dormire.
Le zie si coricarono. Nechljudov sapeva che Matrëna Pavlovna adesso era nella camera da letto delle zie e Katjuša in quella della servitù - sola. Uscì di nuovo sul terrazzino. La notte era buia, umida, tiepida, e la nebbia bianca che in primavera scaccia l'ultima neve o si diffonde dall'ultima neve che si scioglie riempiva tutta l'aria. Dal fiume, che era a cento passi sotto la scarpata dinanzi alla casa, provenivano strani rumori: era il ghiaccio che si rompeva.
Nechljudov scese dal terrazzino e scavalcando le pozzanghere, sulla neve ghiacciata, si avvicinò alla finestra della stanza della servitù. Il cuore gli batteva così forte nel petto che lo sentiva; il respiro ora si fermava, ora erompeva in un sospiro pesante. Nella stanza della servitù era accesa una piccola lampada. Katjuša sedeva sola al tavolo, soprappensiero, e guardava nel vuoto. Nechljudov la osservò a lungo senza muoversi: voleva sapere cosa avrebbe fatto credendo che nessuno la vedesse. Per un paio di minuti restò immobile, poi alzò gli occhi, sorrise, scosse il capo quasi per rimproverarsi e, cambiata posizione, posò di scatto le mani sul tavolo e fissò gli occhi nel vuoto.
Egli stava fermo e la guardava e involontariamente ascoltava insieme il battito del proprio cuore e gli strani rumori che giungevano dal fiume. Là sul fiume, nella nebbia, si svolgeva un instancabile, lento lavorio, e ora qualcosa ansimava, ora scricchiolava, ora si sgranava, ora sottili lastre di ghiaccio tintinnavano come vetro.
Egli stava fermo, guardando il volto pensoso di Katjuša, tormentato da un lavorio interiore, e ne provava pena, ma, cosa strana, questa pena non faceva che intensificare la sua concupiscenza per lei.
La
concupiscenza
lo possedeva tutto.
Bussò alla finestra. Lei, come per una scossa elettrica, sussultò in tutto il corpo, e il terrore si riflesse sul suo viso. Poi scattò in piedi, andò alla finestra e accostò il viso al vetro. L'espressione di terrore non abbandonò il suo volto neppure quando, fattasi schermo agli occhi con le mani, lo riconobbe. Il suo volto era insolitamente serio: non l'aveva mai visto così. Sorrise solo quando sorrise lui, sorrise come per sottometterglisi, ma nella sua anima non c'era sorriso, c'era paura. Le fece un segno con la mano, chiamandola in cortile. Ma lei scosse il capo: no, non sarebbe uscita, e rimase ferma alla finestra. Egli avvicinò ancora una volta il viso al vetro e voleva gridarle di uscire, ma in quel momento lei si voltò verso la porta: qualcuno doveva averla chiamata. Nechljudov si scostò dalla finestra. La nebbia era così fitta che alla distanza di cinque passi dalla casa già non si vedevano più le finestre, ma solo una massa nereggiante, in cui brillava la luce rossa della lampada, che pareva enorme.
Sul fiume continuava quello strano ansimare, frusciare, scricchiolare e tinnire del ghiaccio. Nella nebbia del cortile un gallo cantò, altri risposero lì vicino, e in lontananza dal villaggio si udirono dei chicchirichì che si interrompevano e si fondevano in un unico grido. Tutto intorno, tranne il fiume, era completamente silenzioso. Era già il secondo canto del gallo.
Dopo essere passato e ripassato un paio di volte dietro l'angolo della casa, mettendo ripetutamente il piede nelle pozzanghere, Nechljudov tornò alla finestra della stanza della servitù. La lampada era ancora accesa, e Katjuša sedeva di nuovo sola al tavolo, come indecisa. Non appena egli si avvicinò alla finestra, gli lanciò un'occhiata. Bussò. E, senza guardare chi bussasse, lei subito corse fuori dalla stanza, ed egli sentì schiudersi e poi cigolare la porta esterna. L'aspettava già vicino all'andito e subito l'abbracciò in silenzio. Lei gli si strinse contro, sollevò il viso e con le labbra incontrò il suo bacio.Stettero dietro l'angolo dell'ingresso in un luogo asciutto, senza neve, ed egli era pieno di un tormentoso desiderio insoddisfatto. Improvvisamente di nuovo schioccò e cigolò allo stesso modo la porta esterna, e si udì la voce adirata di Matrëna Pavlovna:
-
Katjuša!
Si strappò da lui e tornò nella sua stanza. Egli udì scattare il gancio.
Dopodiché tutto tacque, l'occhio rosso alla finestra scomparve, restò solo la nebbia e il movimento sul fiume.
Nechljudov andò alla finestra: non si vedeva nessuno. Bussò: nessuno gli rispose. Nechljudov tornò in casa dall'ingresso principale, ma non si addormentò. Si tolse gli stivali e a piedi nudi percorse il corridoio verso la sua porta, accanto alla stanza di Matrëna Pavlovna. Prima sentì russare tranquillamente Matrëna Pavlovna, e già voleva entrare, quando essa a un tratto si mise a tossire e a rivoltarsi nel letto cigolante.
S'immobilizzò e aspettò così per qualche minuto. Quando tutto tacque di nuovo e si udì solo un russare tranquillo, cercando di posare i piedi su tavole che non scricchiolassero proseguì fino alla porta di lei. Non si sentiva nulla. Evidentemente lei non dormiva, perché non si udiva il suo respiro. Ma, non appena egli sussurrò «Katjuša», balzò in piedi, andò alla porta e adirata, così gli parve, cercò di persuaderlo ad andarsene.
- Ma che modi sono? È mai possibile? Le zie sentiranno, dicevano le sue labbra, ma tutto il suo essere diceva: «Sono tutta tua».
E Nechljudov capiva solo questo.
- Su, apri un momento. Ti supplico, - diceva parole senza senso.
Lei tacque, poi egli sentì il fruscio della mano che cercava il gancio.
Il gancio scattò, ed egli penetrò dalla porta aperta.
L'afferrò, vestita com'era nella ruvida camicia di tela grezza senza maniche, la sollevò e la portò via.
- Ah! Che cosa fa? - mormorava lei.
Ma egli non badava alle sue parole, mentre la portava in camera sua.
- Ah, non si deve, mi lasci, - diceva, ma intanto si stringeva a lui...
Quando tremante e silenziosa, senza nulla rispondere alle sue parole, se ne fu andata, egli uscì sul terrazzino e si fermò, cercando di comprendere il significato di quanto era accaduto.
Fuori era più chiaro; giù, sul fiume, lo scricchiolio e il tintinnio e l'ansimare si erano ancora intensificati, e ai suoni di prima si era aggiunto un gorgoglio. La nebbia cominciava a posarsi, e oltre il muro di nebbia era emersa la luna calante, illuminando foscamente qualcosa di nero e di spaventoso.
«Cos'è dunque: una grande felicità o una grande disgrazia quella che mi è capitata?» - si domandava. «È sempre così, fanno tutti così», - si disse e andò a dormire.

XVIII

Il giorno dopo il brillante, allegro Šenbok raggiunse Nechljudov dalle zie e le affascinò completamente con la sua eleganza, gentilezza, allegria, generosità e col suo affetto per Dmitrij. La sua generosità, pur piacendo molto alle zie, le lasciò tuttavia un po' perplesse tanto era esagerata. A dei mendicanti ciechi sopraggiunti diede un rublo, distribuì quindici rubli in mance alla servitù, e quando Sjuzetka, il cagnolino maltese di Sof'ja Ivanovna, si scorticò a sangue una zampa in sua presenza, egli, offertosi di fasciarla, senza pensarci un attimo strappò il suo fazzoletto di batista finemente orlato (Sof'ja Ivanovna sapeva che fazzoletti del genere costavano non meno di quindici rubli la dozzina) e ne fece delle bende per Sjuzetka. Le zie non avevano mai visto persone così e ignoravano che quello Šenbok aveva duecentomila rubli di debiti che non sarebbe mai riuscito a pagare, e lo sapeva, per cui venticinque rubli in più o in meno non facevano alcuna differenza.
Šenbok si fermò soltanto un giorno e la notte seguente partì insieme a Nechljudov.
Non potevano più restare, perché scadeva ormai l'ultimo termine per presentarsi al reggimento.
Nell'anima di Nechljudov in quell'ultimo giorno passato dalle zie, mentre era ancor fresco il ricordo della notte, si sollevarono e lottarono due sentimenti: da una parte, brucianti, i ricordi sensuali dell'amore fisico, che pure gli aveva dato molto meno di quanto promettesse, e un certo orgoglio per aver raggiunto il suo scopo; dall'altra la coscienza che quanto aveva fatto era molto male, e che questo male andava riparato, e riparato non per lei, ma per se stesso.
Nello stato di follia egoistica in cui si trovava, Nechljudov pensava soltanto a sé: si chiedeva se l'avrebbero condannato e fino a che punto, nel caso fossero venuti a sapere come aveva agito con lei, e non a quello che lei provava e a cosa sarebbe stato di lei. Pensava a Šenbok, che forse indovinava i suoi rapporti con Katjuša, e ciò lusingava il suo amor proprio.
- Ecco perché tutto a un tratto vuoi così bene alle ziette, - gli disse Šenbok dopo aver visto Katjuša, - da passare una settimana intera da loro.
Anch'io al tuo posto non me ne sarei andato. È un incanto!
Pensava anche che, benché fosse un peccato andarsene ora, senza aver pienamente goduto l'amore con lei, la necessità della partenza aveva il vantaggio di rompere subito dei rapporti che sarebbe stato difficile mantenere. Pensava poi che bisognava darle del denaro, non per lei, non perché di quel denaro poteva aver bisogno, ma perché così si fa sempre, e l'avrebbero ritenuto un disonesto se, avendo abusato di lei, non l'avesse poi pagata. E così le diede quel denaro: quanto riteneva consono alla propria e alla sua condizione.
Il giorno della partenza, dopo pranzo, l'aspettò nell'andito. Lei avvampò nel vederlo e voleva passare oltre, indicando con gli occhi la porta aperta della stanza della servitù, ma egli la trattenne.
- Volevo salutare, - disse, sgualcendo nella mano una busta con un biglietto da cento rubli. - Ecco, io...
Lei indovinò, si accigliò, scosse il capo e gli allontanò la mano.
- No, prendi, - mormorò e le infilò la busta in seno, poi, quasi si fosse scottato, con una smorfia e un gemito corse in camera sua.
E a lungo poi camminò su e giù per la stanza, e si contorse, e saltò perfino, e gemette forte, come per un dolore fisico, ricordando quella scena.
«Ma che dovevo fare? È sempre così. Così ha fatto Šenbok con la governante di cui raccontava, così ha fatto lo zio Griša, così ha fatto mio padre quando viveva in campagna e gli è nato da una contadina quel figlio illegittimo Miten'ka che vive tuttora. E se tutti fanno così, significa che così bisogna fare». In questo modo cercava di consolarsi, ma non ci riusciva. Quel ricordo gli bruciava la coscienza.
In fondo, proprio in fondo all'anima sapeva di aver agito così male, in maniera così ignobile e crudele, che con la coscienza di quell'azione non poteva non solo giudicare chicchessia, ma neppure guardare negli occhi la gente, e tanto meno considerarsi il giovanotto meraviglioso, nobile e magnanimo che credeva di essere. Mentre doveva considerarsi tale per continuare a vivere arditamente e allegramente. Dunque c'era un solo mezzo: non pensarci. E così fece.
La vita in cui entrava, - i posti nuovi, i compagni, la guerra, - lo aiutarono. E quanto più viveva tanto più dimenticava, e alla fine si dimenticò davvero del tutto.
Solo una volta, quando dopo la guerra passò a trovare le zie con la speranza di rivederla, e seppe che Katjuša ormai non c'era più, che poco dopo la sua visita se n'era andata per partorire, aveva partorito chissà dove poi, secondo quanto avevano sentito le zie, si era completamente guastata, gli si strinse il cuore. Dalle date il bambino che aveva dato alla luce poteva essere suo figlio, ma poteva anche non esserlo. Le zie dicevano che s'era guastata e che era corrotta di natura, proprio come la madre. E questo giudizio delle zie gli fece piacere perché in qualche modo lo giustificava.
In un primo tempo voleva comunque cercare lei e il bambino, ma poi, proprio perché in fondo all'anima il pensiero gli causava troppo dolore e vergogna, non fece gli sforzi necessari a rintracciarli e ancor più dimenticò il suo peccato e smise di pensarci.
Ma ecco che ora quel caso sorprendente gli ricordava tutto ed esigeva che riconoscesse la spietatezza, la crudeltà e l'infamia che gli avevano permesso di vivere tranquillamente per quei dieci anni con un tal peccato sulla coscienza. Ma era ancora lontano da quel riconoscimento, e adesso pensava solo all'eventualità che tutto si risapesse, e che lei o il suo difensore raccontassero tutto e lo svergognassero pubblicamente.

XIX

In tale stato d'animo si trovava Nechljudov, tornato dall'aula del processo nella stanza dei giurati. Sedeva vicino alla finestra, ascoltando i discorsi che si facevano intorno a lui, e fumava senza interruzione.
L'allegro
mercante
evidentemente approvava di tutto cuore gli svaghi del collega Smel'kov.
- Be', amico, faceva bisboccia alla grande, alla siberiana. E non era neanche di gusti malvagi: visto che figliola si è scelto?
Il capo della giuria stava esponendo certe considerazioni, per cui tutto sarebbe dipeso dalla perizia. Pëtr Gerasimoviè scherzava con il commesso ebreo, e scoppiarono a ridere. Nechljudov rispondeva a monosillabi alle domande che gli rivolgevano e desiderava una cosa sola: esser lasciato in pace.
Quando l'usciere con suo passo sghembo invitò di nuovo i giurati nell'aula delle udienze, Nechljudov provò paura, quasi non andasse a giudicare, ma fosse condotto lui a giudizio. In fondo all'anima sentiva già di essere un mascalzone che doveva vergognarsi a guardare in faccia la gente, ma intanto, per abitudine, con la consueta sicurezza di sé nei movimenti salì sulla pedana e si sedette al suo posto, secondo dopo il capo, accavallando le gambe e giocherellando col pince-nez.
Anche gli imputati erano stati portati altrove e appena ricondotti in aula.
In aula c'erano delle facce nuove, i testimoni, e Nechljudov notò che la Maslova lanciò diverse occhiate, come se non potesse distogliere lo sguardo da una donna grassa molto elegante, vestita di seta e velluto, che sedeva in prima fila davanti alla sbarra, con un cappello alto dal grande fiocco e un'elegante borsetta al braccio nudo fino al gomito. Era, come seppe poi, una testimone, la padrona della casa in cui viveva la Maslova.
Cominciò
l'interrogatorio
dei
testimoni: nome, religione, eccetera.
Poi, dopo che alle parti venne chiesto come volevano interrogare, se sotto giuramento o no, di nuovo arrivò lo stesso vecchio sacerdote, muovendo a fatica le gambe, e di nuovo, aggiustandosi la croce d'oro sul petto vestito di seta, con la stessa calma certezza di svolgere un compito assolutamente utile e importante, fece giurare i testimoni e il perito. Al termine del giuramento fecero uscire tutti i testimoni tranne una, la Kitaeva, appunto, padrona della casa di tolleranza. Le chiesero cosa sapesse di quella faccenda. La Kitaeva, con un sorriso falso e la testa che ondeggiava nel cappello ad ogni frase, con accento tedesco fece un racconto circostanziato e chiaro.
Innanzitutto da lei alla casa era venuto il cameriere Simon, che conosceva, a chiederle una ragazza per un ricco mercante siberiano. Aveva mandato Ljubaša. Qualche tempo dopo Ljubaša era tornata insieme al mercante.
- Il mercante era già in estasi, - diceva la Kitaeva con un lieve sorriso, - e da noi continuava a bere e offrire a ragazze; ma siccome a lui non bastavano i soldi, manda in camera sua quella stessa Ljubaša per cui aveva una predilezione, - disse lanciando un'occhiata all'imputata.
A Nechljudov parve che la Maslova a questo punto sorridesse, e quel sorriso gli parve ributtante. Uno strano, indefinito senso di disgusto misto a compassione si levò in lui.
- E che opinione aveva della Maslova? - arrossendo tutto timido domandò l'uditore giudiziario, difensore d'ufficio della Maslova.
- Ottima, - rispose la Kitaeva, - ragazza istruita e chic. Lei era educata in una buona famiglia, e sapeva leggere francese. Ogni tanto beveva un po' troppo, ma non perdeva mai la sua testa. Bravissima ragazza.
Katjuša guardava la padrona, ma poi a un tratto portò gli occhi sui giurati e li fermò su Nechljudov, e il suo viso si fece serio e perfino severo.
Uno dei suoi occhi severi era strabico. Piuttosto a lungo questi due occhi dallo sguardo strano fissarono Nechljudov, e nonostante il terrore che lo assalì neppure lui poté distogliere lo sguardo da quegli occhi strabici dalle cornee bianchissime. Ricordava quella notte terribile con il ghiaccio che si rompeva, la nebbia, e soprattutto quella luna calante, capovolta, che era sorta poco prima del mattino e aveva illuminato qualcosa di nero e spaventoso. Quei due occhi neri che guardavano lui e oltre lui gli ricordavano quella cosa nera e spaventosa.
«Mi ha riconosciuto!» - pensò. E Nechljudov quasi si rattrappì, in attesa del colpo. Ma non l'aveva riconosciuto. Sospirò tranquillamente e tornò a guardare il presidente. Anche Nechljudov sospirò. «Ah, purché si faccia in fretta», - pensava. Provava adesso una sensazione simile a quella che provava a caccia, quando gli toccava finire un uccello ferito: schifo, e compassione, e dispetto. L'uccello agonizzante si dibatte nel carniere: è disgustoso, e fa pena, e si ha voglia di finirlo e dimenticarlo al più presto.
Tale sensazione confusa provava adesso Nechljudov, ascoltando l'interrogatorio dei testimoni.
XX