lunedì 11 novembre 2019


LA FORZA DEL CARATTERE
James Hillman
Adelphi

I vecchi dovrebbero essere esploratori. T.S. ELIOT

PREFAZIONE PER IL LETTORE Invecchiare non è un accidente. È una necessità della condizione umana; ed è l’anima a volerlo. L’invecchiamento è inscritto nella nostra fisiologia; eppure, il fatto che la vita umana duri a lungo dopo l’età feconda e ben oltre il periodo di funzionalità dei muscoli e di acuità dei sensi ci rende perplessi. Per questo motivo si sente il bisogno di idee immaginative capaci di aggraziare il diventare vecchi e di parlare alla vecchiaia con l’intelligenza che essa si merita. Nel presente libro troverete appunto questo tipo di visione. Esso offre la promessa di dare refrigerio alla mente del lettore con una pioggia di intuizioni che mirano a influire profondamente, addirittura indelebilmente, sulla transizione agli anni più tardi della vita. Insomma, perché viviamo tanto a lungo? Gli altri mammiferi si danno per vinti, mentre noi andiamo avanti per quaranta, cinquanta, talvolta addirittura sessanta anni dopo la menopausa. A ottantotto anni, eccoci ancora qui, che tiriamo la carretta o indugiamo sulle nostre sdraio. Io non mi sento di aderire alla teoria secondo la quale la longevità umana è il risultato artificiale della civiltà, della sua scienza e dei suoi servizi sociali, che sfornerebbero questa schiera di mummie viventi, paradossi sospesi in una zona crepuscolare. I vecchi come ritardatari. Proviamo invece a carezzare l’idea che il carattere ha bisogno di quegli anni in più e che la lunga durata della vita non ci è imposta né dai geni né dalla medicina conservazionistica né da un accordo collusivo con la società. Gli ultimi anni della vita confermano e portano a compimento il carattere.     Ciò che la natura umana vuole soprattutto sapere circa la natura umana non è quale catena evolutiva conduca dalle più remote origini all’adesso immediato. Noi vogliamo capire che senso ha, al di là del logoramento e dell’esaurimento delle forze, il fatto di invecchiare. A che cosa serve? Che scopo ha? Queste domande ci colgono all’improvviso, nel mezzo della vita, durante (ma non soltanto) la famosa «crisi della mezza età» (come sa di americano questa formula...). Quella crisi riassume due paure: Sto andando in là con gli anni; ma anche: Rispetto a ciò che realmente sono, a che punto mi trovo? Vecchiaia e carattere insieme. Questa diffusa sindrome riguarda non tanto la metà dell’arco della vita, quanto la crisi centrale della natura di una persona, non tanto il fatto di essere troppo vecchi, quanto il fatto di essere ancora troppo giovani. Non la perdita delle capacità; la perdita delle illusioni. Scopriremo più cose sulla nostra crisi della mezza età guardando indietro in modo critico al prolungamento sentimentale dell’adolescenza, che non concentrando l’attenzione sulla casa di riposo che ci aspetta di qui a quarant’anni. È la proiezione dell’adolescenza a impedirci di essere nel mezzo della vita e a stendere un sudario di paura sulle affascinanti domande della sua ultima parte. Quarant’anni non è come averne ottanta, abbiamo davanti a noi più «tempo di veglia» di quanto non ne abbiamo alle spalle. L’incontro con la vecchiaia nel mezzo del cammino è prematuro. Ancora non si è sviluppata la capacità di percezione atta a scandagliarne le immagini; perciò le risposte che si trovano a metà della vita più che altro riflettono le nostre paure. Questo libro arrischierà risposte molto diverse. Per spiegare la vecchiaia ci rivolgiamo di solito alla biologia, alla genetica e alla fisiologia geriatrica, ma per comprendere la vecchiaia abbiamo bisogno di qualcosa di più: dell’idea di carattere. La biologia non è il corpo, è soltanto un modo di descrivere il corpo. La vecchiaia è mediata dalle storie che si raccontano su di essa. La biologia racconta un tipo di storia, la psicologia un altro. O per meglio dire, la psicologia si sforza di comprendere le spiegazioni della biologia. La nostra realtà di esseri viventi e pensanti precede le nostre spiegazioni su come viviamo e pensiamo. Un approccio psicologico alla vecchiaia deve attenersi a questa priorità. Se l’idea di anima (anche se non riusciamo a spiegarcela) ha il primo posto nella nostra scala dei valori, allora le nostre idee dovrebbero essere in accordo con il nostro effettivo sistema di valori. Ciò significa che dobbiamo psicologizzare la vecchiaia, scoprire l’anima che ha dentro. Nel normale corso della vita, la vecchiaia termina nella morte, e il normale modo di pensare la vecchiaia salta alla medesima conclusione. Se l’invecchiare finisce sempre nel morire, questo significa forse che il fine dell’invecchiare è quello di morire? La biologia considera l’invecchiamento un processo che porta all’inutilità. Ma proviamo a considerare la vecchiaia una struttura, invece che un processo, una struttura che possiede una sua natura essenziale. Proviamo a domandarci perché gli anni della vecchiaia assumono una certa forma e mostrano certe caratteristiche. Forse la «inutilità» va considerata esteticamente. Che l’anima, prima di andarsene, debba essere invecchiata al punto giusto? In tal caso, possiamo immaginarci l’invecchiamento come una trasformazione nella bellezza non meno che nella biologia. I vecchi sono come immagini in bella mostra che traspongono la vita biologica nell’immaginazione, nell’arte. I vecchi diventano qualcosa che colpisce la memoria, rappresentazioni ancestrali, personaggi della commedia della civiltà, ciascuno una figura unica, insostituibile, preziosa. Invecchiare: una forma d’arte?     Per dare un senso agli anni più tardi della vita e alle difficoltà spesso assurde e alle ridicole degradazioni che accompagnano la vecchiaia, conviene ritornare su una delle domande più profonde che il pensiero umano ha formulato: Che cosa è il carattere, e in che modo esso ci vincola nelle forme che viviamo? Ciò che invecchia non sono soltanto le nostre funzioni e i nostri organi, ma tutta quanta la nostra natura, quella particolare persona che siamo diventati, e che siamo già da anni. Il carattere è andato plasmando la nostra faccia, le nostre abitudini, le nostre amicizie, le nostre peculiarità, il livello della nostra ambizione con il suo corso e i suoi errori. Il carattere influisce sul nostro modo di dare e di ricevere; sui nostri amori e sui nostri figli. Torna a casa con noi la sera e può tenerci svegli a lungo, la notte. Io e voi non siamo i primi a trovarci ad affrontare la vecchiaia, anche se per noi è la prima volta. Da sempre gli esseri umani invecchiano; perché allora non attingere all’esperienza di altri, in altre epoche? Per la nostra cultura, questo sarebbe un modo nuovo di affrontare il problema. Il trarre le nostre idee dalle ricerche più recenti limita drasticamente ai dati più nuovi la nostra ottica: e gran parte dei nuovi dati sarà già obsoleta quando questa pagina sarà stata stampata e vi sarà arrivata in mano. Inoltre, gran parte dei nuovi dati scaturisce dalla negazione. Una delle motivazioni sottese alle ricerche sull’invecchiamento, infatti, è la pulsione a cancellare la vecchiaia, a debellarla quasi fosse un cancro. Anch’io voglio debellare un’idea, o almeno voglio respingere la nozione monolitica che noi si sia fondamentalmente creature fisiologiche e che di conseguenza il nostro pensiero su di noi possa essere ridotto a pensiero sul nostro corpo. È una nozione che ci condanna a morte: ecco che diventiamo vittime dell’invecchiamento. Siamo convinti che la nostra intera esistenza sia soggiogata e governata (in un modo che acquista evidenza drammatica negli anni finali della vita) dalla fisiologia. L’idea che voglio mettere al posto di questa dice invece che è al carattere che siamo in realtà soggiogati. «Il carattere» scriveva Eraclito agli albori del pensiero occidentale «è il destino». No, caro Napoleone, non la geografia; no, caro Freud, nemmeno l’anatomia: il carattere! È il carattere che governa: che governa anche la fisiologia. Sosterremo, con tutta l’autorevolezza e l’ostinazione che ancora ci restano, che l’eredità genetica è plasmata nella particolare forma che ci distingue dal carattere, da quella specifica configurazione di tratti, manie, predilezioni e adesioni ideali, da quella riconoscibile figura che porta il nostro nome, la nostra storia e una faccia che rispecchia un «me». Allora saremo in grado di guardare al decadimento di corpo e mente come a qualcosa che non è soltanto un’afflizione. Lo riconnetteremo a una verità sottostante di cui già siamo convinti sul piano del sentimento: Esiste un qualcosa che plasma ciascuna vita umana in un’immagine globale, comprendente le sue contingenze casuali e i suoi momenti sprecati in attività inutili. Spesso gli ultimi anni sono dedicati a esplorare tali particolari insignificanti, ad avventurarsi negli errori passati per scoprirvi configurazioni comprensibili. La comprensione che la mente invecchiata cerca di applicare al suo invecchiato corpo trasforma quel corpo in una metafora, aggiungendo ai processi biologici un livello ulteriore di significato. La vecchiaia deletteralizza la biologia proprio quando più ne siamo fatti schiavi. Gli anni della vecchiaia consentono una seconda lettura di quelli che erano sembrati soltanto problemi biomedici letterali. Altre culture parlano dell’apertura del «terzo occhio», del consolidarsi del «corpo sottile». Io questo lo interpreto nel senso che la prospettiva psicologica viene in primo piano, che il terreno fondante dell’essere si è spostato verso l’anima. Il deletteralizzare la biologia non è un negare la biologia. Non possiamo negare l’esistenza di alcuno dei processi degenerativi, di alcuna delle influenze genetiche. Vogliamo semplicemente spostare questi arredi dal primo piano allo sfondo, riordinare le nostre priorità. Ciò che viene per primo nel tempo (batteri, mitocondri, muffe e brodi, composti chimici, cariche elettriche) non sta necessariamente al primo posto nel sistema di valori o nel pensiero. Inoltre (e a scriverlo è una biologa evoluzionista, Lynn Margulis),1 «il salto dalla più complessa mescolanza di elementi chimici organici alla cellula più elementare non è mai stato colmato. Mai, né teoricamente né in laboratorio, si è creata la vita a partire da sostanze chimiche, per quanto complesse». La vita dipenderà pure da batteri, muffe e composti chimici, ma il pensiero arriva a complessità che non si possono ridurre a mattoni precedenti. Questo è uno dei grandi enigmi del pensiero: il pensiero è capace di dare origine alle proprie specie, di selezionare idee innaturali e di palesare la propria evoluzione; inoltre, un mucchio di pensieri assolutamente «inadatti» sopravvive. Se la vecchiaia è necessaria per portare a compimento il carattere, che dire allora di coloro che non ci arrivano, che muoiono prima dei cinquant’anni? Forse ha ragione il modo di dire comune: «È morta troppo presto»; «La sua morte è stata prematura». Con ciò intendiamo dire che il loro carattere non è arrivato alla fine della gestazione. E tutti coloro, ed erano la stragrande maggioranza, che nei secoli passati sono arrivati soltanto ai trenta, quarant’anni? Forse che il loro carattere non era formato, rifinito? Forse a quei tempi la vecchiaia era meno necessaria. Le culture antiche (come molte culture «arcaiche» di oggi) ritualizzavano la formazione del carattere con iniziazioni, feste pubbliche e funerali; e i più anziani istruivano la collettività. Benché i loro anziani possano essere stati più giovani per età dei nostri, la loro presenza si faceva ancora sentire nella società, dove vigilavano su ciascun membro del gruppo con un occhio costante al carattere. Da quando la psicoanalisi ha descritto le «fissazioni» e gli «arresti» nello sviluppo del carattere e i «disturbi caratteriali» infantili, l’idea stessa di carattere si è fissata all’infanzia. Per studiare lo sviluppo del carattere, la psicologia si è rivolta al passato individuale, trascurando il dato evidente che in quasi tutti noi il carattere disvela appieno la propria forza formativa molto più tardi. Noi diventiamo tipici di ciò che siamo semplicemente durando nel tempo. Il nostro modo di invecchiare, i nostri abituali modelli di comportamento e lo stile della nostra immagine mostrano il carattere in corso d’opera. Così come il carattere guida l’invecchiamento, l’invecchiamento disvela il carattere.     La vecchiaia deve avere i suoi dèi, così come l’infanzia e la giovinezza hanno i loro protettori a ispirare le prodezze del primo amore e una spericolata avventurosità. La tarda età invita altri dèi, per conoscere i quali occorrono molti lenti anni. Le loro pretese e le loro ispirazioni potranno essere di un altro genere, ma non gli possiamo dire di no, né più né meno che agli dèi che chiamano in gioventù. Scoperte e promesse non appartengono soltanto alla giovinezza; la vecchiaia non è esclusa dalla rivelazione.
È indispensabile riconoscere come il nostro modo di pensare l’ultima parte della vita sia irrimediabilmente intrappolato nel disprezzo per la cosiddetta «terza età», un concetto classista, che relega tutte le persone anziane in una categoria con precisi, ineluttabili handicap dovuti al collasso dell’organismo e all’esaurimento delle sue riserve. Il modello occidentale è fondato sulla biologia e sull’economia. Le idee di anima, di carattere individuale e di influenza della consapevolezza sui processi vitali sono diventati accessori decorativi, buoni per alleviare la disperazione e camuffare «la verità vera» sulla vecchiaia. Ciò che convenzionalmente si intende per terza età, questa «verità vera», ci fa sentire in trappola, e ci pone in conflitto. O precipitiamo nell’infelicità sempre più pessimistica, ossessionati già a cinquant’anni dal pensiero del declino fisico e mentale, o neghiamo ottimisticamente la «verità vera» con eroici programmi di crescita spirituale e di mantenimento della forma fisica. Le due visioni, quella pessimistica e quella ottimistica, partono dalla medesima premessa: La vecchiaia è un’afflizione. Eccola, la «verità vera»: che tu la debelli o che vi soccomba, la vecchiaia è per sua natura inconfutabilmente solitaria, indigente, maligna e, soprattutto, troppo lunga. Ci sembra di vederci: paralizzati dalla povertà, scaricati in una squallida casa di riposo, matti, muti e maleodoranti, in attesa della fine. Proviamo a immaginare che ottimisti e pessimisti abbiano ragione entrambi, e contemporaneamente. Sì, la vecchiaia è un’afflizione... in particolare, è afflitta dall’idea di afflizione. Finché consideriamo ogni tremore, ogni macchiolina epatica sulla pelle, ogni nome dimenticato esclusivamente come indizio di declino, ecco che affliggiamo la nostra mente tanto quanto la sta affliggendo la vecchiaia. Il ripetersi stesso, ogni volta che vediamo la nostra faccia allo specchio, di questa diagnosi negativa su ciò che ci sta accadendo dimostra la potenza dell’idea alla quale abbiamo imbrigliato l’ultima parte della nostra vita. Alla mente piacciono le idee. Ne chiede di fresche, non importa se non sono cotte a puntino. La mente si tiene occupata rigirando idee. La mente è per natura curiosa, inventiva, trasgressiva. Agli anziani si consiglia appunto di mantenere la mente attiva per ritardare il declino delle funzioni cerebrali. Le ricerche dicono che il lavoro mentale ricostruisce le cellule cerebrali: se non le usi le perdi; e non ha importanza quello che pensi, purché la mente sia mantenuta in esercizio, come i muscoli. Ma le idee non sono semplicemente vitamine che servono a mantenere desta la mente; anche la mente serve alle idee. Rigirandole e smontandole, la mente mantiene vive le idee e impedisce che rimbambiscano. Le idee che abbiamo sulla vecchiaia hanno bisogno di essere sostituite. Come un’anca che non sostiene più il peso o come un cristallino con la cataratta, che non ci consente più di vedere al di fuori della nostra testa, dobbiamo portarle in sala operatoria. Ma la sostituzione di abiti mentali logori richiede sia grinta sia capacità di resistenza. Per rompere con le idee correnti sulla vecchiaia potrà essere necessario fare irruzione al loro interno. Allora magari scopriremo che tante idee convenzionali, che offrono rifugio dalla tirannia della vecchiaia, in realtà servono per nascondersi dalla forza del carattere. È una bella consolazione credere che stiamo diventando più saggi, che il nostro giudizio si fa più lucido, che le modificazioni fisiologiche dell’apparato genitale sono, come diceva Sofocle, liberatorie. Sembrerà magari più facile essere vecchi, se si accettano i cliché sulla terza età e ci si convince che gli atteggiamenti che emergono con l’età non sono rivelazioni della nostra natura essenziale bensì soltanto gli effetti dell’invecchiamento. Per esempio, mi commuovo fino alle lacrime per una gentilezza ricevuta, oppure mi sento di offrire aiuto a qualcuno che ha problemi. Anziché accettare la mia mitezza come un tratto del carattere, preferisco glissare dicendo: «Invecchiando mi sono rammollito». Oppure mi racconto che è l’età, e non il mio carattere, a farmi pronunciare certi odiosi commenti razzisti, o lasciare mance striminzite, o spiare i miei vicini. «Sono soltanto una povera vittima dell’invecchiamento»: prima me la racconto e poi mi faccio condizionare dal mio racconto, ovvero è la coda che agita il cane. Più a lungo rimaniamo attaccati a idee logore, più queste ci influenzano negativamente, agendo come patologie. La patologia principale della vecchiaia è l’idea che ne abbiamo. Sono la nostra giovinezza e una cultura che deriva le sue idee dalla giovinezza che possono renderci morbosa la vecchiaia. Arrivati ai cinquanta o sessant’anni, è ora di incominciare un altro tipo di terapia: la terapia delle idee.     L’invecchiamento è diventato la paura maggiore di tutta una generazione. Ciò che noi temiamo individualmente la società lo predice demograficamente. Somme immense vengono spese per estirpare le cause dell’invecchiamento e per ritardarne l’arrivo. Ciò nonostante, la vecchiaia avanza con il passo regolare della statistica. I prossimi decenni saranno sempre più dominati dalla popolazione anziana. Non sappiamo se il ventunesimo secolo sarà rinverdito o meno dalla consapevolezza ecologica, ma di sicuro sarà ingrigito da una popolazione sempre più vecchia. Le nazioni sviluppate stanno invecchiando rapidissimamente; alcune, con l’estendersi della longevità, non riescono neppure a compensare le morti con le nascite. L’imperitura lotta di classe tra ricchi e poveri diventerà, nel nuovo secolo, una lotta tra Vecchi e Giovani. Nel suo stupendo libro, America the Wise, Theodore Roszak attende con gioia il trionfo dei vecchi. Il semplice fatto che siano così numerosi potrebbe rivoluzionare la società, aiutandola a passare dal nostro predatorio capitalismo e dallo sfruttamento ambientale a quella che Roszak definisce «la sopravvivenza del più mite».2 La sempre crescente percentuale di anziani nella popolazione fa pendere la bilancia in favore di valori che, secondo Roszak, stanno a cuore agli anziani: l’alleviamento delle sofferenze, la nonviolenza, la giustizia, l’accudimento e la conservazione «della salute e della bellezza del pianeta».3 Ciascuno di noi può contribuire a promuovere la visione di Roszak: innanzitutto, esorcizzando l’idea morbosa di vecchiaia che mantiene i cittadini anziani paralizzati nella depressione, immeschiniti dalla rabbia e alienati dalla loro vocazione di «antenati»; in secondo luogo, ripristinando l’idea di carattere, che rafforza la fede nell’unicità dell’individuo come forza strumentale capace di influire su ciò che ciascuno apporta al pianeta. L’indagine approfondita del carattere che possiamo condurre invecchiando ci porta in una terra inesplorata. Le mappe correnti della vecchiaia, che non tengono conto del carattere, sono piene di dati oggettivi ma piatte, senza vette di ispirazione e profondità di anima; mentre gli scritti sul carattere si presentano non tanto come guide alle miniere e alle sorgenti della natura umana, quanto come manuali per educare, e reprimere, i giovani. Benché i moralisti cerchino di cooptarne l’idea nei loro programmi, prima che morale la forza del carattere è naturale. Prima di essere sottoposto alla disciplina morale, il carattere va indagato come idea.     T.S. Eliot ha scritto: «I vecchi dovrebbero essere esploratori»; per me questo significa: segui la curiosità, indaga idee importanti, rischia la trasgressione.4 Secondo l’acuto filosofo spagnolo José Ortega y Gasset, l’idea di «indagine» è l’equivalente più vicino a ciò che i greci intendevano con alétheia, l’attività della mente che ha dato il via a tutta la filosofia occidentale: «il tentativo ... di porci in contatto con la nuda realtà ... nascosta dietro il manto della falsità».5 Spesso la falsità indossa il manto di verità comunemente accettate, della 
 che condividiamo collettivamente. Una terapia delle idee potrebbe liberarci dalle convenzioni che impediscono alla nostra mente di compiere interessanti trasgressioni. Per vedere la forza del carattere a distanza ravvicinata, dobbiamo lasciarci coinvolgere senza riserve negli eventi dell’invecchiare. E questo richiede, oltre che curiosità, anche coraggio. Per «coraggio» intendo la forza di abbandonare le idee vecchie per abbandonarsi alle idee strane, attuando uno slittamento del significato e dell’importanza degli eventi che temiamo. Intendo il coraggio di essere curiosi. La curiosità è una delle grandi pulsioni del genere umano e forse della vita animale in genere; è quel desiderio di esplorare il mondo che spinge la scimmia e il topo a uscire dalla tana per le loro rischiose avventure. Per noi esseri umani, l’avventura ha luogo sempre più dentro la mente. Questo coraggio della mente il grande filosofo Alfred North Whitehead lo ha chiamato «l’avventura delle idee». «Il pensiero» scrive Whitehead «è una straordinaria modalità di eccitamento».6 1. Lynn Margulis (con Dorian Sagan), Stamps and Small Steps: The Origin of Life and Our Cells, «Netview: Global Business News», 3 agosto 1997, p. 3. 2. Theodore Roszak, America the Wise: The Longevity Revolution and the True Wealth of Nation, Houghton and Mifflin, New York, 1998, p. 240. 3. Ibid., p. 248. 4. T.S. Eliot, Four Quartets, Faber & Faber, London, 1944, II.5.
5. José Ortega y Gasset, The Origin of Philosophy, trad. ingl. di T. Talbot, W.W. Norton & Co., London-New York, 1967, pp. 62-63. 6. Alfred North Whitehead, Modes of Thought, Capricorn Books, New York, 1958, p. 50.

PREFAZIONE DELL’AUTORE Perché i vecchi diventano moralisti, sentimentali e radicali? Si incatenano agli alberi minacciati; marciano nelle manifestazioni; urlano slogan. Fanno la predica a orecchie con gli auricolari del walkman sul declino morale dell’Occidente. Noi vecchi ci indigniamo, ci arrabbiamo, ci vergogniamo. Perché non ci basta uscire di scena in dissolvenza; lasciare che la nostra luce svanisca dietro le colline grigie? Il crepuscolo non è l’immagine giusta, perché il tramonto del sole è segnato dal fuoco, un’ultima protesta, un richiamo alla bellezza. Noi vorremmo riaccendere il giorno, non lasciarlo affievolire nella serenità della sera. «Più luce» disse Goethe morendo. Non rondinelle cinguettanti al tramonto, ma vespri incessanti; campane che chiamano a raccolta; una vocazione a fare prediche. «Secondo Platone, la spoliazione degli Dei e la sovversione dello Stato sono crimini scusabili se commessi sotto l’influsso della vecchiaia avanzata».7 Sarà stato un impulso sovversivo a sollecitare questo libro? Immaginiamoci di essere incalzati dal nostro tema, il Carattere, e anche da quella variazione sul tema che è il carattere dell’autore, il tutto mentre portiamo il bagaglio di moralismo, sentimentalismo e radicalismo che i vecchi hanno legato alla schiena. La scrittura come fardello; come avventura; come disvelamento. Personalmente, non tengo davvero a leggere una parola di più su come rafforzare il carattere e acquisire la saggezza della vecchiaia. Jung, che pure è stato colui che per primo nominò l’archetipo del Vecchio saggio, e addirittura ci si era a volte identificato, scrisse: «Mi consolo con il pensiero che solo gli sciocchi si aspettano la saggezza».8 «E la saggezza dell’età avanzata?» domanda T.S. Eliot in Quattro quartetti. «Avevano ingannato noi / o ingannato se stessi, gli antenati dalla voce pacata, / lasciandoci in eredità nient’altro che una ricetta d’inganni?».9 Saggezza, compassione, comprensione e tutte le altre belle qualità assegnate agli anziani servono più che altro come tranquillizzanti idealizzazioni controfobiche di fronte alla forza impertinente del carattere che invecchia raggomitolato nella loro anima, pronto a scattare. Noi vecchi, a metà strada fra il ruolo spettrale dell’antenato e la nuda sensibilità del puro spirito, quando ci arrabbiamo siamo capaci di far guizzare la lingua letale di un cobra. Abbiamo la miccia corta. Quello che chiedo a un libro è quello che voglio scrivere: un libro che io stesso vorrei leggere. Si direbbe che in età avanzata gli scrittori abbiano a disposizione soltanto una ristretta gamma di scelte: memorie della vita vissuta in precedenza, revisioni e ritrattazioni di opere scritte in precedenza, riepiloghi difensivi di pensieri pensati in precedenza. Non ci sarà un’alternativa? Un libro sull’ultima parte della vita non può essere uno studio oggettivo, indifferente rispetto a colui che lo scrive. C’entra anche la sua vita, sicché la scrittura, se viene davvero dal cuore, dirà qualcosa anche del carattere dello scrittore. Gli scrittori sono personaggi delle loro stesse narrazioni. Che un libro si annunci come non di narrativa e si presenti come storia, scienza, ricerca o «libro verità», non basta a nascondere la sua qualità di opera dell’immaginazione. Mai, in nessuna cosa che scriviamo, ci possiamo liberare del nostro carattere. I vecchi soldati non fanno che combattere sempre, in ogni nuova causa in cui si impegnano, la prima delle loro campagne. L’ultima parte della vita è piena di ripetizioni e di ritorni alle ossessioni di fondo. La mia guerra (e ho ancora da vincere la battaglia decisiva) è quella contro le modalità di pensiero e i sentimenti condizionati che predominano nella psicologia e di conseguenza anche nel modo in cui noi tutti pensiamo e viviamo il nostro essere. Di tali condizionamenti nessuno è più dispotico delle convinzioni che bloccano la mente e il cuore nella morsa della scienza positivistica (geneticismo e computerismo), dell’economia (capitalismo esasperato), delle fedi monomaniacali (fondamentalismi). L’idea di carattere è estranea a tutte queste cose e io me ne faccio paladino appunto perché essa è così fuori dallo scenario contemporaneo. Parte del mio lavoro lo svolgerà l’idea stessa, perché le idee sono forze che si impossessano della mente e non mollano la presa finché non gli abbiamo dedicato qualche pensiero. L’idea di carattere chiama la scrittura; vuole finire sulla pagina stampata. La parola stessa deriva dal greco kharássein, «incidere, tratteggiare, iscrivere», e da kharaktér, che indica sia lo strumento che produce segni incisivi e affilati, sia i segni così prodotti, come le lettere di un sistema di scrittura. «Carattere» rimanda alle qualità distintive di un individuo e può anche indicare il personaggio di un’opera narrativa o teatrale. È una parola che avvolge insieme i tratti particolari dell’individualità dello scrittore, l’atto dello scrivere e il libro inteso come un teatro popolato dall’immaginazione. Ma che tipo di scrittura scrive un vecchio, in che maniera scrive? «Non sempre è facile» disse Wallace Stevens «distinguere tra scrivere e guardare fuori dalla finestra».10 E come diceva Paul Valéry? «Pensare? ... Pensare! È perdere il filo». «Mettersi a scrivere è l’unica cosa che fa smettere di pensare, capisce?» disse al suo intervistatore David Mamet.11 E come procede questo scrivere che fa smettere di pensare? Risponde Don DeLillo: « L’opera ... vien fuori da tutto il tempo che lo scrittore spreca. Gironzoli per la stanza, guardi dalla finestra, vai fino in fondo al corridoio, ritorni alla pagina...».12 Il passo lo stabilisce la tartaruga. Noi siamo trasportati sul suo dorso. L’esplorazione come un pensare lento, e il pensiero come uno scrivere ancora più lento: noi vecchi siamo grandi intenditori di fili perduti e di tempi morti, perché non ce la facciamo a tenere dietro al pensiero usuale. Il modo usuale di pensare la vecchiaia si arresta di fronte alla morte. Ma la morte non è il punto di arrivo di questo libro, così come non è una prospettiva particolarmente audace da cui considerare la vecchiaia. Che cosa potrebbe essere più usuale delle allegorie tratte dalla natura? Alberi maestosi piantati su solidi tronchi, una tartaruga secolare sul fondo dell’oceano, il sapore pieno dei vini e dei formaggi invecchiati (davvero Ripeness is all, «l’importante è essere maturi»?). La mia passione non può essere placata da ciò che è evidente, neppure se fosse probatorio. Finire nella morte non è certo un modo per addentrarsi in territori proibiti. Mi torna in mente l’esortazione di Maurice Blanchot: «Scrivere le cose che è proibito leggere».13 Tutti abbiamo la nostra opinione sulla morte. Come dice Woody Allen: «morire è una delle poche cose che si riesce a fare con facilità, basta sdraiarsi».14 I rabbini, i monaci, i filosofi dell’antichità, i predicatori puer e i veggenti televisivi possono riempirvi la testa di insegnamenti al riguardo. Una delle poche osservazioni empiriche che sembrano fondate dice che, se pure gli dèi amano chi muore giovane, la morte preferisce i molto vecchi. La morte non è un soggetto adatto per il pensiero perché non può essere assoggettata al pensiero; la morte è al di là del pensiero, inattingibile con i suoi metodi. La logica, le dimostrazioni, la sperimentazione rimangono con un pugno di mosche. La morte non ha una psicologia, non ha altra fenomenologia se non i simbolismi, gli spiritualismi e le speculazioni metafisiche. Nessuno ne sa nulla. È avere Nulla su cui pensare. «L’uomo libero non pensa a niente meno che alla morte» disse Spinoza.15 È dunque fondamentale per la nostra indagine disfare la coppia morte-vecchiaia, ricostituendo invece l’antica connessione tra vecchiaia e unicità del carattere. L’idea di «vecchio» è presente in varia misura in molti fenomeni il cui carattere ammiriamo, come le vecchie navi, le vecchie case, le vecchie fotografie; in questi casi, l’aggettivo «vecchio» non rimanda né a qualcosa che ha passato la mezza età né a qualcosa che è avviato verso la morte. Alla domanda: «Perché sono vecchio?» la risposta usuale è: «Perché sto morendo». I fatti tuttavia dimostrano che, invecchiando, io rivelo più carattere, non più morte. Non sto negando il fatto che alla fine morirò, ma non ho intenzione di passare gli ultimi anni della mia vita a scrivere di una cosa che non posso conoscere. Ben più importante è considerare gli anni della vecchiaia alla stregua di uno stato dell’esistenza, e il fenomeno «vecchiaia» come un fenomeno archetipico, con i suoi miti e i suoi significati. È questa la sfida più audace: scoprire un valore nel diventare vecchi senza prenderlo in prestito dalle metafisiche e dalle teologie della morte. La vecchiaia in se stessa, una cosa a sé stante, liberata dal cadavere. L’interesse appassionato per «la vecchiaia» come possibilità archetipica presente in tutte le cose, come qualcosa che è dato con la natura umana così come con la natura di tutte le cose esistenti, è appunto ciò che manca nella nostra società, ciò di cui sentono la mancanza e che anelano a scoprire, più di tutti, le persone anziane. Perché noi vecchi sappiamo che dovremo trascorrere i nostri giorni e le nostre notti sotto gli auspici dell’implacabile dio che governa gli ultimi anni della vita e che esige sacrifici. Lo stato di abbandono in cui versa quel dio si rispecchia nello stato di abbandono in cui sono lasciati gli anziani nelle nostre case di riposo, dove la routine ha preso il posto dei riti, santuari secolari privi di una visione trascendente, di un fondamento archetipico. Il restauro del Tempio al Vecchio non richiede una costruzione letterale. Si potrebbe incominciare con una ricostruzione letteraria, una ricostruzione scritta, attraverso una scrittura costruttiva. Abbiamo dunque l’audacia di immaginarci la nostra indagine come un rito, e la speranza che i nostri pensieri e le nostre parole invochino la benedizione delle potenze che governano il nostro tema. Immaginiamoci che stia per avere inizio una consacrazione. 7. George Rosen, Madness in Society, Routledge & Kegan Paul, London, 1968, p. X. 8. C.G. Jung, Letters, a cura di G. Adler e A. Jaffé, vol. I, Princeton University Press, Princeton, N.J., 1973, p. 516. 9. Eliot, Four Quartets, cit., II.2. 10. Kathleen Woodward, At Last, the Real Distinguished Thing: The Late Poems of Eliot, Pound, Stevens, and Williams, Ohio State University Press, Columbus, 1980, p. 122. 11. David Mamet, citato in John Lahr, Fortress Mamet, «The New Yorker», 17 novembre 1997, p. 82. 12. Don DeLillo, citato in David Remnick, Exile on Main Street, «The New Yorker», 15 settembre 1997, p. 47. 13. Maurice Blanchot, The Writing of the Disaster, trad. ingl. di Anna Smock, University of Nebraska Press, Lincoln and London, 1995, p. 10. 14. Woody Allen, Without Feathers, Random House, New York, 1975, p. 102. 15. Baruch Spinoza, Ethics, IV, Everyman’s Library, London, 1910, p. 187 (trad. it. Etica, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, p. 208).

PREFAZIONE AL LIBRO Questo libro è formato di tre parti principali, che seguono il tema del carattere attraverso tre fasi. Ma non sono le solite tre: infanzia, maturità, vecchiaia. Infatti, questo libro si diffonde, piuttosto, sui cambiamenti a cui va soggetto il carattere nell’ultima parte della vita. In primo luogo, il desiderio di durare il più a lungo possibile; poi, i cambiamenti che avvengono nel corpo e nell’anima man mano che la capacità di durare ci lascia e il carattere si espone e si conferma sempre più; infine, emerge una terza tessera del mosaico: ciò che resta quando ce ne siamo andati. Durare, Lasciare, Restare. Tre parti, tre idee portanti. Ogni libro è costruito sulle idee, questo libro in particolare. La capacità di intrattenere idee provandone piacere è sempre stata una delle giustificazioni del fatto di scrivere e di leggere libri e di tenerceli cari. Il capitolo della prima parte intitolato «Longevità» esamina i significati più ampi sottintesi in questa idea, le aspirazioni che la accompagnano, come la si possa estendere al di là delle misure di efficienza biologica e delle aspettative statistiche. Nella prima parte viene inoltre esaminata l’idea di «vecchio» e perché tale connotazione sia essenziale a ciò che amiamo del carattere di una persona, di un luogo, di un oggetto. La seconda parte analizza i sintomi fisici che la vita ci invia quando incominciamo a lasciarla, cercando di vedere il ruolo che tali sintomi svolgono nella formazione del carattere. Questa parte costituisce il cuore del libro, perché va dritta al cuore di ciascuna vita. «Lasciare» cerca di mostrare, in una dozzina di brevi capitoli, come le disfunzioni della vecchiaia si trasformino in funzioni del carattere. Gli acciacchi, gli impedimenti e i temuti sintomi degli ultimi anni della vita, nel trovare il loro scopo, cambiano significato. L’idea da intrattenere durante questa parte del libro, e della vita, è che il carattere impara dal corpo la saggezza. «Lasciare» ricollega la psicologia alla sua prima patria storica, la filosofia. Il compito del filosofo, diceva Nietzsche, è quello di «creare valori». Oggi i valori sono spesso liquidati come mere opinioni personali e sono trasformati in dogmi o mercanzie per attirare convertiti o compratori; perciò, scoprendo nella vecchiaia valori duraturi, lo psicologo-filosofo si troverà, come diceva Nietzsche, «in contraddizione con il suo oggi».16 In questo senso, il presente libro è anche un libro di filosofia, dove i vecchi filosofi sono stati accolti con affetto perché ci aiutassero a creare valori. Tra «Lasciare» e «Restare» ho inserito un breve interludio: «La forza della faccia». Questo excursus sostiene che le facce vecchie sono segnate dal carattere, che la loro bellezza rivela il carattere e che la loro perdurante forza come immagini di intelligenza, autorevolezza, tragedia, coraggio e profondità dell’anima è dovuta al carattere. L’assenza di queste qualità nella società contemporanea e nelle sue figure pubbliche è dovuta, sosterremo in questa sezione, alla falsificazione della faccia vecchia che ci viene pubblicamente proposta. La terza parte, «Restare», cerca di venire a capo dell’antico detto: «Il carattere è il destino». Perché ciò che resta è la porzione di destino che il carattere unico e irripetibile di ciascuna persona incarna. Essere unici è essere strani, diversi, atipici, senza uguali in alcun luogo; le eccentricità, che per tutta la vita abbiamo cercato di smussare, di conformare alla norma, riemergono nell’ultima parte della vita per comporre l’immagine che resterà. La terza parte mette in chiaro le differenze esistenti tra l’enigma del carattere e l’idea astratta del Sé tanto amata dagli psicologi, nonché tra il carattere e l’idea, più popolare, di personalità, che è più adatta, semmai, al fascino delle celebrità e agli interessi della giovinezza. Un’ulteriore distinzione percorre tutto il libro: la distinzione tra il carattere inteso come struttura morale da inculcare per mezzo di precetti e da sostenere con la forza di volontà e la coercizione, e il carattere inteso come lo stile estetico di tratti durevoli, quale si esprime in gusti e comportamenti individualizzati. Perché ciò che resta dopo che abbiamo lasciato la scena è un’immagine caratteristica, in particolare quella presentata negli ultimi anni, e non già i precetti morali che abbiamo cercato di propugnare sotto l’erroneo nome di «carattere». L’immagine che rimane di noi, quel modo unico di essere e di fare che lasciamo nella mente di altri, continua ad agire su di loro, nell’aneddotica, nei ricordi, nei sogni; come modello ideale, come voce guida, come antenato protettivo: una forza potente all’opera in coloro che hanno ancora una vita da vivere. Una prefazione dovrebbe spiegare di che cosa tratta il libro, dare un sunto dell’opera nel suo insieme. Ma se un libro è sia pure lontanamente psicologico, il tentativo è destinato a fallire. Perché? Perché la psicologia non tratta di un argomento, non sta al di fuori, non si presta a un riassunto, un estratto. Un libro che invita l’anima a partecipare alla sua indagine ci trascina dentro il labirinto dell’anima. La prefazione cercherà di svolgere il labirinto su una mappa in piano, ma non potrà rendere giustizia alle svolte e controsvolte e ai passaggi bui, o ai momenti in cui, all’improvviso, si sbuca alla luce. Forse, il massimo che questa prefazione possa fare è di augurare Buon viaggio al libro, di esprimere gratitudine per la sua esistenza, per il fatto che abbia trovato la mano e l’occhio, e forse anche la mente e il cuore, di qualcuno disposto a leggerlo. 16. Friedrich Nietzsche, Beyond Good and Evil, trad. ingl. di H. Zimmer, Foulis, Edinburgh, 1911, pp. 211-12 (trad. it. Al di là del bene e del male, Adelphi, Milano, 1977, p. 120). PARTE PRIMA DURARE         Versa ancora: io lo sopporterò. SHAKESPEARE, Re Lear I LONGEVITÀ         Prosegue, ed è se stesso, lento, e indiscusso, e scompostamente presente, che stoico! D.H. LAWRENCE, Tortoise Family Connections     Nelle nostre società competitive, «durare» ha finito per significare «durare di più di». «Ho superato l’età di mio padre e di entrambi i miei nonni!». «Secondo i dottori, dovrei essere morto da tre anni». «Con me, le compagnie di assicurazione farebbero bancarotta. Ho già incassato di pensione molto più di quanto abbia versato». La fortuna e la misericordia del Signore sono sicuramente dalla mia parte, perché nel grafico della speranza di vita alla nascita ho oltrepassato la media. Non soltanto ho battuto la mia eredità genetica, i miei compagni di infanzia e gli attuari, ho respinto la morte stessa. La vita: una competizione con tutti e con la morte, sicché il fatto di vivere più a lungo diventa una vittoria, che a ogni compleanno ripropone il famoso passo di san Paolo: «La morte è stata ingoiata per la vittoria ... O morte, dov’è il tuo pungiglione?». La nostra esperienza dell’invecchiamento è talmente imbevuta delle cifre sugli anni che restano da vivere fornite dalle tabelle sulla longevità, che stentiamo a credere come per secoli l’età avanzata sia stata associata non già con la morte, bensì con la vitalità e il carattere. I vecchi non erano pensati principalmente come individui arrancanti con passo incerto verso la porta della morte, ma come saldi depositari delle usanze e delle leggende, come custodi dei valori locali, come esperti di arti e mestieri, come voci apprezzate del consiglio cittadino. Ciò che contava era la forza del carattere comprovata da una lunga vita. La mortalità era associata semmai alla giovinezza: nati morti e mortalità infantile, ferite in battaglia, duelli, rapine, condanne capitali, pirateria; i rischi professionali delle attività agricole, della miniera, della pesca; faide familiari e delitti passionali; epidemie e pestilenze che falcidiavano la popolazione nel fiore degli anni. I cimiteri erano punteggiati dalle corte tombe dei bambini. L’intimo abbinamento di longevità e mortalità, quel nesso che lega in un matrimonio monogamo l’archetipo del vecchio e l’idea della morte, si impadronisce della nostra mente soltanto nel diciannovesimo secolo, con i progressi della demografia. In Francia, la filosofia positivista promuove lo studio statistico della popolazione, che sposterà la morte dalla sfera del privato e dello spirituale a quella della sociologia, della politica e della medicina. Le statistiche sulla durata della vita mostravano una caduta del tasso di mortalità letta come indice del progresso della civiltà. La società nel suo insieme poteva comprovare il proprio miglioramento spostando in avanti le cifre della longevità, e la longevità poteva essere spostata in avanti grazie a nuove metodiche mediche (vaccinazione, pastorizzazione, sterilizzazione) e a programmi di igiene pubblica (acqua potabile, trattamento dei liquami, impianti di aerazione). La demografia rinsaldò ulteriormente la sua presa quando Émile Durkheim, uno dei padri della sociologia, analizzando le statistiche sui suicidi, dimostrò come ciascun distretto della Francia presentasse un tasso di suicidi praticamente invariato da un decennio all’altro. Ci si poteva attendere che nell’anno entrante un numero prevedibile di abitanti di ogni dato distretto si sarebbe suicidato. Quando l’incidenza del suicidio si stempera nella analisi per classe, occupazione, ereditarietà, religione, età, eccetera, allora l’atto del suicidio diventa un dato della sociologia del tutto indipendente dalla psicologia dell’individuo che lo compie. Il dato statistico diventa una forza societaria, che condanna una precisa percentuale di persone di ciascun distretto a darsi la morte con le proprie mani. Il dato che  diventa il fato. Il grafico della aspettativa di vita possiede una sua forza incontestabile. Se vai a collocarti sul grafico come, poniamo, femmina adolescente, avrai una speranza di vita di almeno settant’anni. A sessanta, scopri che la longevità presunta è aumentata; adesso sarà settantotto anni, forse di più. Una volta arrivata a settantotto, le tabelle statistiche situeranno la scadenza a ottantasei. E via aumentando. Perfino se arrivi a cento anni, i matematici attuariali parlano della «probabilità condizionata» che tu abbia davanti ancora qualche mese, o anno. Le statistiche confermano che, quanto più a lungo duri, tanto più a lungo durerai, sicché per ogni anno che invecchi puoi aspettarti un giorno in più sulla «curva tendente all’infinito della statistica attuariale». La curva non sa predire quando finirà la tua longevità; ma sembra piuttosto trasportarti sempre più avanti, all’infinito. Anziché condurti verso la morte, rivelando il nudo dato della tua mortalità, essa funge da annuncio statistico di immortalità! Se «durare» significa qualcosa d’altro e di più che superare in durata le aspettative statistiche, allora che cos’è che «dura»? Che cos’è quel «qualcosa» che permane e tiene duro? Che cosa mai potrà durare attraverso tutte le vicende di una lunga vita, rimanendo costante dall’inizio alla fine? Né il nostro corpo né la nostra mente rimangono identici; corpo e mente non possono evitare il cambiamento. Ciò che invece sembra rimanere identico a se stesso per tutto il tempo e fino alla fine è una componente psicologica costante che ti segnala come un essere diverso da tutti gli altri: il tuo carattere individuale. Tu.     Identico: in che senso? Sono talmente cambiato, sono così diverso, eppure, a dispetto di tutti i cambiamenti, qualcosa continua ad assicurarmi che sono sempre lo stesso. Potrei perdere la mia identità sociale, la mia configurazione fisica e la mia storia personale, eppure qualcosa rimarrà identico, sopravviverà alle più profonde traversie. Questo libro sostiene che è l’idea di carattere a fornire tale nocciolo duraturo. Se principio di identità è il termine usato dai filosofi per indicare ciò che noi percepiamo come il nostro carattere, ci toccherà scoprire qualcosa di più su di esso: che cosa è e come agisce? E non sarà un’impresa da poco, visto che i filosofi non hanno mai smesso di rifletterci sopra da quando Platone ha fatto di Identità e Diversità due delle categorie fondamentali che governano l’esistenza di tutte le cose, che conformano il nostro modo di pensarle, e addirittura che le rendono possibili.17 I filosofi giocano con il rompicapo dell’identità. Prendiamo, per esempio, il nostro paio di calzini di lana preferito. Si fa un buco in un tallone, e noi lo rammendiamo. Poi si fa un buco al posto dell’alluce, e rammendiamo anche quello. Rammenda oggi, rammenda domani, alla fine sono più i rammendi della lana originale e il nostro amato calzino è fatto di una lana completamente diversa. Eppure è sempre lo stesso calzino. In relazione all’aspetto e in relazione al suo compagno infilato nell’altro piede, è sempre lo stesso calzino. I due calzini vanno a spasso insieme, stanno ripiegati insieme nel cassetto; anzi, anche in relazione a se stesso, riguardo alla propria identità, si tratta sempre dello stesso calzino, benché sia diverso. E qui i filosofi possono rifarsi a Platone, applicando le idee archetipiche di Identità e Diversità. Il calzino è completamente diverso dall’originale per quello che riguarda la lana, ma la sua forma è rimasta la stessa. Nonostante la radicale alterazione materiale, il mio calzino non diventa mai un «altro» calzino. La materia di cui è fatto è diversa; la sua forma è uguale. Per «forma» i filosofi intendono l’aspetto del calzino, ciò per cui lo riconosciamo come un calzino. A questo punto, le calze tubolari sollevano problemi concettuali! Per esempio: quand’è che un calzino può non avere l’aspetto di un calzino pur rimanendo sempre un calzino? Per «forma» i filosofi intendono anche la funzione del calzino in quanto fa coppia con il suo compagno e in quanto calza perfettamente il mio piede (la forma che segue la funzione). C’è poi un terzo significato, che a noi interessa particolarmente: la forma come il principio attivo che governa il modo in cui la nuova lana si integra nel vecchio calzino. La forma, insomma, è la forma visibile e la forza formatrice del visibile. Lo vedete come ci stiamo avvicinando alla nozione di carattere? Il corpo umano è simile al nostro calzino: si scrolla via le sue cellule, ricambia i fluidi, fa fermentare nuove colture di batteri per sostituire quelli morti. Con il passare del tempo, la materia di cui il nostro corpo è fatto diventa tutt’altra, ma noi siamo sempre noi, gli stessi. Non ho un centimetro quadrato di pelle visibile che sia uguale a prima, non un grammo di materia ossea uguale, eppure io non sono qualcun altro. Si direbbe che esista un’immagine innata che non dimentica il mio paradigma di base e mi mantiene fedele a me stesso, in carattere con me stesso. L’idea di DNA sembra troppo angusta per contenere le dimensioni psichiche della nostra immagine, unica e irripetibile. Per abbracciare la nostra complessità abbiamo bisogno di un’idea più ampia. Alcuni filosofi greci e alcuni pensatori della Chiesa medioevale attribuivano questa coerenza nel mutamento all’idea di forma. Certuni arrivavano a sostenere che la forma individualizza: ciò che fa sì che ciascuna persona e ciascuna cosa siano diverse da ogni altra persona e cosa è la forza attiva della forma. Non esistono due forme uguali. Ciascuno di noi è mantenuto nella sua specifica immagine individuale dal principio della forma. Per usare una delle suggestive espressioni di William James, ciascuno di noi è «un ciascuno». In quanto «ciascuni» siamo unici, perché ciascuno di noi ha, o è, uno specifico carattere che rimane lo stesso. È molto importante, a questo riguardo, afferrare bene che noi siamo unici dal punto di vista qualitativo. Tu hai il tuo stile, la tua storia, il tuo insieme di tratti, il tuo destino. Tu sei essenzialmente diverso da me, e io da te, in virtù della perdurante identità con se stesso di ciascuno dei rispettivi caratteri individualizzati. Se la differenza tra me e tutti gli altri fosse definita dalla fisica, dalla logica, dalla politica, dall’economia e dal diritto, ciascuno di noi sarebbe un uno-numero, privo di caratteristiche necessarie. Il diritto dice: «Tutti sono uguali davanti alla legge»; la politica dice: «Ogni cittadino, un voto»; la fisica dice: «Due corpi non possono mai occupare lo stesso spazio nello stesso tempo»; l’economia inserisce tutti i ciascuni in categorie: consumatori, produttori, padroni, datori di lavoro. Quando ognuno è intercambiabile con chiunque altro, per segnalare l’individualità basta un diverso numero sulla carta di identità. Ma poiché l’unicità dipende dalle differenze qualitative che formano la coerente identità della nostra individualità, ecco che, per mantenerci diversi gli uni dagli altri e uguali a noi stessi, è necessaria l’idea di carattere. Ma torniamo al nostro calzino. Se ciò che sopravvive alla lana è la forma, allora il preoccuparsi del deterioramento fisico (dei punti in cui il calzino si sta logorando) ci impedisce di cogliere un elemento decisivo. D’accordo, il calzino è pieno di buchi, e rammendarlo nei punti deboli lo mantiene funzionale. Ma sarebbe più proficuo per la nostra mente riflettere sull’enigma di questo principio formale che resiste intatto attraverso le sostituzioni materiali. Non mi si venga a dire che la duratura forza del carattere conta di meno della durabilità della lana! A volte i punti e i rammendi non prendono. La medicina controlla attentamente che non si verifichino casi di rigetto dopo le trasfusioni, i trapianti d’organo e gli innesti ossei. Il principio formale che garantisce l’identità, nonostante l’introduzione di materiale estraneo, dalla medicina viene chiamato sistema immunitario. Il sistema immunitario accetta o rifiuta le sostituzioni in base al suo proprio codice innato. Il nuovo materiale va integrato nell’integrità della persona. Ovvero, come si sarebbe detto nove secoli fa nelle dispute teologiche, la materia va accomodata nella forma. Deve accordarsi con la mia immagine innata. La nuova parte (rene, anca, ginocchio) deve diventare la mia anca, il mio ginocchio, il mio rene. La lana nuova deve diventare me. Che cos’è che trasforma quella «cosa» in un «me»?     La psicologia moderna, di qualsivoglia scuola, interpreta la assimilazione degli eventi in un «me» come una funzione del carattere. Solo che le varie scuole di psicologia usano parole differenti per indicare il carattere, per esempio «personalità», «l’Io», «il Sé», «organizzazione comportamentale», «struttura integrativa», «identità», «temperamento». Questi termini sostitutivi non riescono però a rappresentare con precisione gli stili di assimilazione che sono il marchio di fabbrica dell’individualità. Ciascuno di noi risponde al mondo in maniera diversa, gestendo la propria vita secondo uno stile particolare. Il termine «carattere» rimanda a un insieme di tratti e di qualità, di abitudini e di motivi ricorrenti; richiede un linguaggio descrittivo come quello usato nelle referenze, nelle lettere di raccomandazione, nei giudizi delle maestre delle elementari, nelle sceneggiature e nei romanzi, nelle recensioni sulla recitazione degli attori, nei necrologi. «L’Io», «il Sé», «la personalità» sono nude astrazioni, che non ci dicono niente sull’essere umano che si presume esse abitino e governino. Al massimo, queste parole rimandano alla identicità unificante delle persone, mentre ne trascurano le differenze uniche e irripetibili. È una tale boccata di aria fresca scoprire come alcune delle più antiche e più fondamentali idee della filosofia –Identità e Diversità, Forma e Materia –siano all’opera nella nostra vita quotidiana, addirittura nel nostro corpo. Per me è una vera e propria gioia che questi princìpi un po’vaghi e passati di moda abbiano un’applicazione pratica e se ne possa parlare come di fatti corporei. Che bisogno abbiamo di essere esortati a costruirci il carattere e a temprarlo, quando il carattere è già un dato, è la forza costante che ci mantiene quelli che siamo e mantiene il nostro corpo aderente alla sua forma? Immaginatevi il corpo come un antico filosofo, il corpo come un luogo di saggezza, secondo l’idea preannunciata già nel titolo di due libri scritti rispettivamente da Walter Cannon e da Sherwin Nuland, due medici specialisti. Cannon negli anni Trenta e Nuland negli anni Novanta scrivono che la nostra fisiologia sa benissimo quello che fa. C’è all’opera una saggezza. Ecco: l’idea di carattere rende più comprensibile questa saggezza che ci governa. Inoltre, se consideriamo il carattere qualcosa di più di un insieme di tratti o di un’accumulazione di abitudini, virtù e vizi, e piuttosto come una forza in atto, allora il carattere potrebbe essere il principio informatore dell’invecchiamento del corpo. E l’invecchiamento diventa una rivelazione della saggezza del corpo. Due sono le ragioni della mia insistenza sul ruolo della forma nell’organizzazione della materia. Innanzitutto, voglio controbattere gli spacciatori di materialismo, i quali tentano di venderci l’idea che noi siamo complicati pezzi di biotecnologia, paragonabili ai più avanzati chip di un computer. Qualsiasi forma mostriamo è l’effetto di sottostanti impulsi biogenetici. La forma è riducibile alla materia: ubbidisce alle sue leggi ed è plasmata da materiale genico. Visto che l’azione formatrice è compiuta dalla materia, non c’è bisogno di alcuna distinta idea di forma. A rappresentare tutta una schiera di affermazioni analoghe in analoghi libri, citerò un brano sintetico, ben scritto, e pazzesco, di uno dei maggiori scienziati cognitivisti a livello mondiale. «La mente è un sistema di organi di calcolo, predisposto dalla selezione naturale a risolvere i problemi che i nostri antenati affrontavano nella loro vita di cercatori di foraggio ... La mente è le operazioni del cervello; nella fattispecie, il cervello elabora le informazioni, e il pensiero è una sorta di calcolo ... I vari problemi dei nostri antenati erano casi particolari di un unico gigantesco problema dei loro geni: massimizzare il numero di copie che sarebbero passate nella generazione successiva».18 Perché ho definito pazzesco il passo citato? Perché questa descrizione di antenati cercatori di foraggio, di geni con problemi da risolvere e della selezione naturale come deus ex machina lascia senza risposta le domande di fondo. Eanche perché essa è esposta in modo assiomatico, non come un mito o una semplificazione riduttiva, ma come verità evidente in sé, il che permette a Pinker di dichiarare bellamente, poco dopo, che la psicologia è una branca dell’ingegneria. Il ridurre la psicologia a ingegneria fa violenza al significato della forma. La mia forma è ben più del modo in cui sono stato assemblato. Sappiamo tutti che per durare bisogna tenersi in forma, ma «tenersi in forma» non significa soltanto stare in allenamento. Forse che una alimentazione corretta, il fare moto e l’andare a letto prima di mezzanotte soddisfano tutti i bisogni della vostra forma? Il primo significato di «forma» rimanda a «creare», il che presuppone una forza la quale, pur essendo invisibile, rende ciascuna creatura visibile secondo il proprio stile. L’espressione generica «elaborazione delle informazioni» fa sparire tutta la storia di sottigliezze del pensiero che l’idea di forma trasmetteva. La seconda ragione per cui insisto tanto sulla forma è perché, quando si trattano problemi che riguardano la psicologia, bisogna mantenere un punto di vista psicologico. Dopo tutto, la vita, per chi la vive, è piena di complicazioni psicologiche alle quali la biochimica e la fisiologia cerebrale offrono ben scarso conforto. Per queste scienze, interrogativi come: Perché viviamo? Perché viviamo a lungo e con la probabilità di deterioramento biologico? non sono pertinenti. Anche ammettendo che biochimica e scienze affini eliminino il deterioramento e prolunghino la durata della vita, spiegare il «come» non esaurisce il «perché?».     Per le domande antiche, forti, fondamentali, mi piace rivolgermi a pensatori antichi, forti, fondamentali, come Aristotele... in modo particolare Aristotele, il quale ha sviluppato l’idea di forma in relazione al corpo e all’anima. Ecco che cosa dice Aristotele. L’anima è la forma del corpo, «il principio del suo movimento», nonché la causa finale o scopo del corpo. In quanto «sostanza degli esseri viventi», tale forma, detta psyché, «influenza» e «comanda» il corpo ed è «parte dell’animale in senso più autentico che non il corpo», benché gli interessi dell’uno e dell’altra «siano i medesimi». L’anima dà forma al corpo, pur essendo di per sé incorporea e dunque non localizzabile in un organo, cellula o gene, così come la forma del calzino non è localizzabile nella lana. A causa della sua incorporeità, «la bellezza dell’anima è più difficile da vedere della bellezza del corpo».19 Millenni dopo, il premio Nobel per la fisica Richard Feynman descrisse a sua volta la forma che ci mantiene identici a noi stessi: «Ciò che chiamo la mia individualità è soltanto una configurazione, una danza ... Gli atomi entrano nel mio cervello, danzano una danza, poi se ne escono: ci sono sempre nuovi atomi, che però eseguono la medesima danza, perché ricordano com’era la danza ieri».20