venerdì 8 novembre 2019

 
LE TEMPS RETROUVÉ
Il Tempo ritrovato: un po’ di tempo allo stato puro nell’atmosfera della Grande Guerra 
 
di Gennaro Oliviero 
(Direttore della rivista Quaderni proustiani) 
 
 
Introduzione 
 
«A metà agosto del 1909, dal Grand Hôtel di Cabourg dove si alza alle nove e mezzo di sera, Proust scrive a Madame Straus: “ Mi leggerete – e più di quanto non vorreste – perché ho appena cominciato – e finito – tutto un lungo libro… Tutto è scritto, ma molte cose sono da rimaneggiare». Proust intendeva dire che del suo romanzo ha steso, di seguito, l’inizio e la fine. «Quest’opera è così meticolosamente “composta”…che l’ultimo capitolo dell’ultimo volume è stato scritto immediatamente dopo il primo capitolo del primo volume. Tutto quello che c’è di mezzo è stato scritto dopo, ma tanto tempo fa», spiegherà, dieci anni più tardi, nel dicembre del 1919, a Paul Souday».   
Ho inteso iniziare questo scritto riportando – alla lettera – l’incipit dell’introduzione con la quale Daria Galateria presenta la sua annotazione del Tempo ritrovato nel Meridiano Mondadori del 1993: un tributo affettuoso all’amica Daria e – al tempo stesso – il modo migliore per comprendere, attraverso le due affermazioni di Proust soprariportate – il “segreto” più profondo della struttura circolare della Recherche. Prosegue Daria Galateria: «Le primissime tracce del Tempo ritrovato si affacciano già nel Cahier de 1908: i motivi della vecchiaia e della memoria involontaria […] e il passaggio: “Alberi non avete più nulla da dirmi”, che riaffiora, come citazione dell’epoca dell’impotenza letteraria, nella sequenza della riflessione estetica, l’Adoration perpétuelle – che, per essere collocata durante la matinée dai Guermantes, Proust chiama ironicamente “l’estetica nel buffett”. Molti momenti di questa meditazione sono presenti nei primi dieci quaderni preparatori della Recherche, quelli chiamati Contre Sainte-Beuve perché Proust esita tra il romanzo e il progetto di un saggio polemico sul metodo del grande critico». 
 
Il segreto del romanziere   
Il Tempo ritrovato è il volume in cui, dopo una serie di riflessioni costanti e per certi versi conclusive (si ricordi però che Proust non ha avuto modo di rivedere integralmente il testo), nel Narratore si chiarisce progressivamente la natura della vocazione letteraria. In quello spazio sospeso che la biblioteca dei Guermantes diventa nell’ultima sezione del volume si avverano due movimenti sovrapponibili, centrifughi e centripeti insieme; le “intermittenze del cuore” si convertono in vere e proprie epifanie di senso, mentre il rapporto del soggetto con il Tempo si scioglie nel recupero dell’esperienza passata, che deve però ancora avvenire attraverso il racconto, la finzione; per il tramite delle riflessioni del Narratore, è Proust stesso a portare a termine una meditazione, che risale alle sue prime prove di critico, sul realismo in letteratura e sul proprio mezzo espressivo, la scrittura letteraria. 
Si è fatto cenno al “segreto” della Recherche; soffermiamoci quindi fuggevolmente sul “segreto del romanziere” tout-court. 
«L’intelligenza di un romanziere non ha altro scopo che d’illuminare il più possibile il segreto che si cela in lui. Questo segreto, al centro dell’opera, è multiplo fin quando l’autore non ha trovato la sua unità, e può essere alla fine anche un centro unico, dal quale riceverà luce tutta l’opera. Ricerca della felicità in Stendhal, Principio unico e divino della creazione in Balzac, occhio potente di Dio in Hugo. Cosicché, per ciascun scrittore, noi dobbiamo cercare di cogliere il punto di vista centrale a partire dal quale tutta l’opera si illumina e acquista un senso. In Flaubert questo sarà senza dubbio il sentimento della fatalità; in Gide la sincerità, in Proust ciò che egli chiama “Il tempo ritrovato”». Ho citato questa frase di Guy Michaud contenuta in L’œuvre et ses techniques (Libraire Nizet, Paris, 1957, pp. 119-120) perché ci da la misura del segreto della Recherche, opera in cui tutto sembra un arabesco, ricco di meandri sinuosi; ma si tratta solo di apparenza, di un effetto ottico, perché nella sua opera ogni dettaglio è smisuratamente ingrandito. Bisogna quindi guardare tutto da un punto di vista più alto: tutto procede in modo rettilineo ma non in superficie, ma nel senso della profondità. E’ una continua esplorazione a partire dalla frattura della quotidianità, a partire dalla madeleine inzuppata nel thé, la ricerca di una “essenza preziosa” fino alla scoperta del Tempo ritrovato. La scoperta del motivo del Tempo, mediatore tra identità e alterità, è il “segreto” fondamentale sul quale riposa tutta la Recherche:  questo “immenso edificio del ricordo”. 
 
Il mondo delle ombre e della morte prima della resurrezione 
 
Le passeggiate notturne del Narratore in compagnia di Gilberte aprono lo scenario del Tempo ritrovato. Sotto il chiar di luna il Narratore si ferma con la sua compagna al bordo di una valle: «au moment d’y descendre comme deux insectes qui vont s’enfoncer au coeur d’un calice bleuâtre».   
L’ouverture del Tempo ritrovato continua il movimento discendente verso il mondo delle ombre e della morte, cominciato già in quella lontana sera di Combray, nel bel chiaro di luna, quando  il bambino tormentato assiste dalla finestra alla partenza di Swann. La luna, simbolo del tempo e della morte illumina i grandi boulevards, ma Parigi è «plus noir que n’était le Combray de mon enfance». 
Nel corso della passeggiata del Narratore e del barone di Charlus, la luce irreale della luna fonde le passeggiate del 1914 e del 1916 in una sola, ma nel 1914 il compagno del Narratore si chiama Saint-Loup. I riflessi della luna hanno il potere di evocare non solo i momenti del passato di una persona ma anche il tempo antico della storia e della leggenda.   
La luna della Bibbia e delle Mille e una Notte è sempre la stessa che illumina la Parigi della guerra. Questo «splendeur antique inchangée d’une lune cruellement, mystérieusement sereine» ricorda le epoche e gli uomini scomparsi. Sotto il regno della Morte si inscrivono le città maledette cadute in rovina. Quando il Narratore, accompagnato da Charlus, si avvia nell’ultimo cerchio del suo girone infernale pensa all’iscrizione ritrovata sui muri di Pompei: Sodoma e Gomora. La frase presente sulle decorazioni pompeiane della casa di tolleranza di Jupien ricorda «la fin de la révolution française». La crudeltà dell’Oriente persiste nella civiltà moderna.   
Noi sappiamo come Mme Verdurin può essere feroce; ella s’aggrappa ai superstiti, cercando di convincerli che sono più utili alla Francia restando a Parigi; mangia i suoi croissants meditando le catastrofi descritte nel giornale, rivolgendo così il pensiero del lettore verso il simbolo della crudeltà, come anche la rue de la Seine «qui devait ressembler au Bosphore» ci fa conoscere il pensiero del Narratore.   
Se Charlus ha pensato poco prima agli spettacoli asiatici, il Narratore da parte sua potrebbe ricordarsi degli stessi sogni delle atmosfere orientali. La passeggiata sotto la luna rinforza il loro legame:  legami che si rafforzano tra i personaggi ma che al tempo stesso mostrano il loro viso di condannati a morte. Anche Saint-Loup sente che egli è «condamné d’avance». Prima della matinée conclusiva, la vita appare come un sogno, per il Narratore che viaggia in una vettura che sembra scivolare senza rumore nelle «allées couvertes d’un sable fin ou de feuilles mortes». Egli rivive le sue passeggiate infantili sugli Champs-Élysées lungo i viali, in compagnia della nonna ammalata, nel momento in cui le prime ombre del tramonto riportano alla mente la città dannata di  Pompei. Il tempo sembra che gli rivolga la parola e che si incarni sotto le spoglie della vecchiaia. Il trionfo del tempo risalta sotto il grido di Ubi sunt (Où sont les amis d’antan). Luna, rovine, vecchiaia fondono i loro segni in una verità sub lunare e destano nel viaggiatore impressioni profonde. Se i segni felici dei suoi cinque sensi hanno prodotto il miracolo, la resurrezione del tempo perduto - nel momento in cui il Narratore perde l’equilibrio sul selciato del cortile dei Guermantes - tenta di riportare la vittoria finale; che questa volta si presenta sotto una figura troppo semplice per essere presa sul serio, un orologio «où le  ressort déclenché de l’horlogerie va sonner l’heure». Il tempo manifesta il suo aspetto a-temporale attraverso la perdita dell’equilibrio: «Mais je manquai trois fois de tomber en descendant l’escalier». Al posto della resurrezione felice appaiono tre perdite: la memoria, la forza e il pensiero. Il futuro creatore sarà privato delle sue facoltà di lavoro. La sua vita sarà la preparazione al riposo eterno. Il letto, il punto di partenza del viaggiatore, l’attende al suo arrivo, quel letto che gli ricorda la tomba.   
Chiuso dietro la «porte funéraire» l’idea della morte si installa definitivamente come un amore presso il Narratore e gli tiene compagnia. E’ una risposta tardiva al giovane autore dei Plaisirs et les Jours che si chiede, nel brano intitolato Regrets et Rêveries, se dalle nozze con la morte potrà nascere la cosciente immortalità. Questo giovane autore chiamato Dominique (firma di Proust nel Figaro) incontra uno straniero che desidera che Dominique mandi via i suoi invitati per restare con lui, ma Dominique rifiuta. Egli è troppo giovane per restare solo. Questo straniero, incarnazione della morte fraterna, è riconosciuto dall’autore della Recherche. 
Nel Tempo ritrovato il «rendez-vous urgent capital avec moi-même» si scontra con la realtà rassicurata. Il tempo ritrovato è dunque la temporalità ritrovata, l’esperienza della presenza della morte come condizione stessa dell’arte. Se tutti gli artisti, Elstir, Bergotte, Vinteuil, si dissolvono per lasciare posto al nascente creatore, un altro personaggio appare sulla scena. E’ la Berma morente, abbandonata dai suoi figli. Questa figura dell’artista racchiude la verità del contrappunto del romanzo: la Berma muore e con essa muore anche la sua arte. E malgrado tutto non è nella stessa temporalità dell’arte che consiste la sua grande bellezza? Come scrisse Sigbrit Swahn, nel Bulletin de la Société des Amis de Marcel Proust et des Amis de Combray (N. 27 – 1977) «en laissant la victoire au Temps, Proust a retrouvé le seul moyen de le vaincre. Sa plus belle incarnation de l’artiste reste la mère profanée qu’est la Berma». Il che equivale a dire che in Proust l’esperienza artistica viene vissuta come rinuncia alla vita, in nome di una promessa di resurrezione che si presenta al Narratore proprio alla fine della sua  opera;  egli è – come ha scritto Jean-Yves Tadié – il  più grande scrittore del XX secolo: con costanza e determinazione ha rinunciato ai caratteri del romanzo classico unificando il suo discorso romanzesco attraverso il ricorrere di temi e immagini indimenticabili che sono scaturite dall’ “essenza” della sua vita. 
 
Il pastiche dei Goncourt 
 
Nelle pagine dedicate al pastiche dei Goncourt, presenti nel Tempo ritrovato,  emerge con forza l’idea della creazione artistica come frutto della capacità di andare oltre lo strato superficiale delle cose. Proust – contrariamente a quanto fa il Narratore nella Recherche, che invece di primo acchito si mette in discussione – condanna in maniera inequivocabile l’eccessiva attenzione ai dati della realtà, attribuendo all’artista un ruolo differente dalla pura trascrizione di ciò che ascolta e dall’esatta riproduzione di ciò che osserva. Le affinità tra Proust ed i Goncourt non mancano e si basano sull’attenzione alla psicologia dei personaggi che nei Goncourt è portata all’eccesso. Se, ancora, la ricchezza dei dettagli per Proust non è indice di per sé di genio creativo, il fatto che nelle pagine dei Goncourt il dettaglio sia valorizzato a scapito della concatenazione generale e la giustapposizione a scapito della concreta nozione logica, risulta apparentabile alla scelta proustiana delle inserzioni e delle digressioni. Forse proprio tale parziale contiguità condusse Proust a inserire il pastiche tra le pagine del Tempo ritrovato, ponendo l’accento sulla capacità di fare della propria vita e delle proprie esperienze un romanzo. Ne consegue che in Proust non vi è l’idea di una letteratura non realistica, ma di una letteratura che cerca di rappresentarci la realtà altra, una verità vera («Così la letteratura che s’accontenta di “descrivere le cose”, di darne appena un miserabile rilievo di linee di superfici, è, pur chiamandosi realista, la più lontana dalla realtà, quella che più ci impoverisce e ci rattrista, perché interrompe bruscamente ogni comunicazione del nostro io presente con il passato, di cui le cose serbavano l’essenza, e con il futuro, dove ci incitano a goderne nuovamente. E’ questa essenza che un’arte degna di tale nome deve esprimere; e se fallisce, dalla sua impotenza si  può ancora trarre un insegnamento (mentre non se ne può trarre alcuno dalle riuscite del realismo), e ciò che si tratta di una essenza parzialmente soggettiva e incomunicabile»). 
La realtà quindi non è un «residuo dell’esperienza» ma, come Proust fa dire al Narratore, «è il rapporto tra le sensazioni e i ricordi che circolano simultaneamente».   
 
La rappresentazione della Grande Guerra 
 
La narrazione riguardante la prima guerra mondiale occupa nell’ultimo volume della Recherche un posto  significativo, che appare tale anche alla luce dei saggi e delle conferenze che nel corso dello scorso anno e nel 2014 si sono registrati. Per limitarci a quanto svoltosi nell’ambito dell’Associazione Amici di Marcel Proust va ricordato il saggio di Sabrina Martina, di cui si dirà in seguito, la conferenza di Gennaro Oliviero nel gennaio 2014 presso la Società Italiana dei Francesisti a Salerno e quella recente di Philiphe Chardin, promossa da Silvia Disegni dell’Università “Federico II” e da Gennaro Oliviero, svoltasi a Napoli l’8 aprile ultimo 2014. Ritengo quindi meritevole di particolare interesse una trattazione ampia dell’argomento in questione. 
Come ha messo bene in evidenza Sabrina Martina (in “Quaderni proustiani” – 2014) lo storico si trova spesso davanti ad una massa opaca di fatti che deve cercare di interpretare. La scelta del romanziere è più agevole, perché egli non può che partire dal suo punto di osservazione, da quel segmento che si cela in lui. Proust sceglie quello della notte. Che la dimensione notturna, connessa al sonno e al sogno, sia collegata in un rapporto stretto con la dimensione storica dell’esistenza umana, è un fatto che appare confermato fin dalla prima pagina della Recherche, laddove il Narratore semiaddormentato ci dice che, durante il sonno che precedeva i suoi risvegli notturni, le riflessioni del libro avevano preso un aspetto particolare: «Mi sembrava di essere io stesso quello di cui il libro si occupava: una chiesa, un quartetto, la rivalità di Francesco I e Carlo V». L’inclusione all’interno di questi pensieri divenuti sogni di un tema di portata epocale come la contrapposizione tra i due grandi sovrani del sedicesimo secolo rispecchia la volontà di Proust di dare una dimensione storica  all’opera appena intrapresa, che si manifesta fin dalla sua ouverture.   
Questa lettura corrisponde ad una risposta affermativa al quesito che quasi tutti i lettori che si sono occupati del tema della guerra nella Recherche hanno  posto d’emblée come ineludibile: riuscì Proust a integrare il lungo capitolo sulla guerra, composto sotto la pressione immediata di un avvenimento storico che al momento della concezione dell’opera (già terminata nel 1913 quanto ad architettura e partizioni fondamentali) non poteva immaginare né prevedere? Come si giustifica questa “irruzione del presente” nel tempo di scrittura della Recherche? Lo scrittore–cercatore di leggi e lo storico avrebbero molto in comune. La notte orienta la riflessione del Narratore sulla storia; tale riflessione sembra “un colpo di pistola nel mezzo di un concerto”. 
La notte domina le passeggiate notturne del narratore a Parigi nel 1916 sotto il coprifuoco, quando “Parigi era almeno in certi quartieri, più buia di quanto non fosse la Combray della mia infanzia”, e il ricordo delle visite notturne di Swann interviene immediatamente dopo a collegare il tema della notte della storia e dell’identità narrativa dei  personaggi allo spazio e al tempo in cui si svolge la narrazione proustiana. 
Nel cuore della Grande Guerra, e soprattutto a partire dal 1916, Il Tempo ritrovato si arricchisce di tutto un universo, che Proust sintetizza in una lettera del dicembre del 1919, con una folgorante e ironica attenuazione: «Alla pubblicazione di Swann nel 1913, erano già scritti non soltanto À l’ombre des jeunes filles en fleurs, Le Côté de Guermantes e Le Temps retrouvé, ma anche una gran parte di Sodome et Gomorrhe. Ma durante la guerra (e senza toccar niente nella fine del libro, Le Temps retrouvé) ho aggiunto qualcosa sulla guerra che conveniva al carattere del signore di Charlus» (lettera a Rosny aîné). Vale la pena riportare l’osservazione al riguardo di Daria Galateria: «L’evocazione della guerra, i nuovi linguaggi e gli usi che suscita, il disfattismo di Charlus e il bordello di Jupien, tutte le alterazioni che il conflitto induce in Parigi – buia e silenziosa come Combray durante l’oscuramento, wagneriana nel corso dei bombardamenti, mondana o dannata nei suoi inferi, i rifugi dei grandi alberghi e i sotterranei del métro – sono miniaturizzati da Proust nel suo “qualcosa sulla guerra”». 
Dai tempi di Sodome Proust stendeva il manoscritto del romanzo sui quaderni di scuola che numerava, in cifre romane, da I a XX. Dalla metà del XV all’ultimo, sono occupati dal Tempo ritrovato. Proust morì prima di aver fatto eseguire il dattiloscritto dei quaderni del Tempo ritrovato, che uscì in due volumi, nel 1927, presso la Nouvelle Revue Française; come gli altri volumi postumi, La Prigioniera e Albertine scomparsa, era curato da suo fratello Robert, aiutato da Jean Paulhan. Le appassionate proteste proustiane sulla separazione tra l’io sociale e l’io che scrive nel Tempo ritrovato subiscono una forte attenuazione; la dimensione tra il Narratore e lo scrittore si accorcia, come nella Prigioniera per il protagonista chiamato per una volta Marcel, nel Tempo ritrovato una serie di lievi allusioni – alla traduzione di Sésame et les lys di Ruskin, ai Plaisirs et les jours «primo libro dell’autore», alle paperoles; tutto ciò fa segno a un sottinteso: un’identità, o meglio un travestimento. 
La confusione tra il Narratore e Marcel Proust va ben oltre l’innata tendenza del lettore a confondere l’istanza narrante di un romanzo e l’autore di esso. Basta pensare ai fenomeni di adesione che ancora oggi provocano la figura di Marcel Proust e la sua opera, con associazioni di amatori che si alimentano della suggestione dell’ “aura” proustiana, spesso interessati a rintracciare possibili rapporti tra personaggi e luoghi della finzione e personaggi e luoghi realmente esistiti. Philippe Lejeune è il teorico che più di altri, e a più riprese, ha riflettuto sulla natura del je della Recherche, arrivando a definire quelli che dovremmo riconoscere come elementi di un patto autobiografico che si instaura tra autore di un testo e lettore implicito.   
 
Cosa pensava realmente Proust della guerra? 
 
Si può avere un’idea ciò che Proust veramente pensava della guerra leggendo le sue lettere dell’epoca. Se queste rivelano che durante gli anni 1914-1918 Proust era soprattutto preoccupato per la redazione del suo romanzo, per l’intento di essere riformato, da parecchi problemi di salute (riguardo agli occhi, particolarmente) e dalle inquietudini dovute alla situazione finanziaria, esse indicano chiaramente che, come il Narratore della Recherche, egli non era da meno interessato all’evoluzione del conflitto bellico. Proust afferma a più riprese che legge parecchi giornali al giorno per essere al corrente degli ultimi sviluppi e, in una lettera a Lucien Daudet del febbraio 1915, in risposta a una “diceria” secondo la quale «quando gli si parlava della guerra egli rispondeva: Quale Guerra? Non ho ancora il tempo per pensarci, mi occupo in questo momento dell’affaire Caillaux», egli insorge: «Ho tutte le ragioni del mondo, purtroppo non ho cessato un minuto di pensare alla guerra fin dall’inizio della mobilitazione e ho accompagnato mio fratello alla Gare de l’Est, e anche successivamente “strategicamente”, studiando ridicolmente la pianta dello Stato Maggiore». 
Essendo stato suo fratello e molti amici e conoscenti mobilizzati, Proust trascorre in effetti i quattro anni di guerra in uno stato di angoscia quasi permanente, giustificato anche dal fatto che perderà per effetto del conflitto due dei suoi più cari amici, Bertrand de Fénelon e Robert d’Humières. Scrive nel 1914 a Gabriel Astruc: «Sono molto inquieto per mio fratello e per molti amici dei quali tremo all’idea di trovare i loro nomi nella liste dei caduti». Aggiunge poi nel 1917: «Piango la morte di tutti, anche di persone che non ho mai conosciuto» spiegando «che è un sentimento che la guerra ha indotto in noi, a causa dell’angoscia quotidiana, quello di farci soffrire per degli sconosciuti». Va anche più lontano l’anno successivo, quando scrive a Jacques Truelle che «piange tutta la giornata, come un rammollito, per i paesi occupati e per le  cattedrali distrutte, ancor più di quanto lo faccia per i caduti». A questa ansietà e compassione si aggiungono l’umiliazione e il senso di colpevolezza per non essere stato arruolato: «Sono molto umiliato perché quando tutti servono il paese, io mi sento inutile». Pensa anche ai suoi problemi di salute che attenuano questo senso di colpevolezza: «benedico la malattia che mi fa soffrire, perché se questa sofferenza non serve a nessuno, almeno mi evita quella più grande che mi darebbe lo star bene, la vita facile, mentre soffrono e muoiono tante persone a cui va costantemente il mio pensiero».   
Un atteggiamento del genere avvicina Proust al Narratore del romanzo. Inoltre, sempre come quest’ultimo, la sua compassione per i soldati al fronte non gli impedisce di interessarsi al conflitto dal punto di vista strategico. Per citare Jean-Yves Tadié, «Proust si mostra […] nelle sue lettere un fine osservatore militare, desideroso di elevarsi, al di là dei fatti, fino alle idee generali, ai motivi che fanno agire l’avversario, alle leggi del loro pensiero». Il Proust della corrispondenza annuncia il Narratore del romanzo che non riesce a sottrarsi al lato estetico della guerra come quando, in occasione di un allarme aereo, non nasconde il suo entusiasmo. Va ricordato al riguardo quanto ha scritto Luc Fraisse: «Proust percepisce la guerra attraverso un certo numero di suggestioni artistiche».   Non v’è dubbio che Proust parteggi per l’armata francese (a differenza di quanto scrive a proposito di Charlus nel corso del conflitto) e si augura la vittoria del suo paese  pur sperando, come scrive a Reynaldo Hahn nell’agosto del 1914: «… che ci abbracceremo tutti a Parigi quando questi perfidi tedeschi saranno vinti. Ma nell’attesa quanto male essi fanno ai francesi». Quando la vittoria arriva, nel 1918, la sua reazione è misurata; egli non può fare a meno di pensare a quelli che non vedranno questa vittoria. Il giorno dell’armistizio scrive a Mme Straus:   
«Abbiamo troppo condiviso la preoccupazione per la guerra perché non ci scambiamo, la sera della vittoria, un saluto affettuoso, allegro per il nostro successo, malinconico per coloro che amiamo e che non lo vedranno. Meraviglioso questo finale “allegro presto” dopo un inizio e un andamento lentissimi. Che drammaturgo il destino, o l’uomo che ne è stato strumento. […] Ma per quanto grande sia la gioia per questa immensa, insperata vittoria, abbiamo tanti morti da piangere che un certo tipo di gaiezza non è la maniera più auspicabile di celebrare». 
Proust non è in effetti mai caduto nel patriottismo cieco, non ha mai condiviso l’isteria collettiva che dominava allora in Francia o creduto alle menzogne dei giornali di cui parla Charlus nel suo romanzo. Al contrario, stando alle sue lettere, egli non ha cessato di dar prova di una lucidità e di una obiettività ammirevoli. Così, nella notte dal 2 al 3 agosto 1914, qualche ora dunque prima che la Germania dichiarasse guerra alla Francia, in una lettera a Lionel Huser, mostra la sua opposizione a questa guerra di cui prevede uno spaventoso bilancio: «In questi giorni tremendi ho altro da fare che scrivere lettere e occuparmi dei miei poveri affari che, ti giuro, mi sembrano irrilevanti quando penso che milioni di uomini stanno per essere massacrati in una Guerra di mondi paragonabile a quella di Wells, perché l’imperatore d’Austria ritiene che gli farebbe comodo uno sbocco sul Mar Nero. […] Ho appena accompagnato mio fratello che partiva per Verdun a mezzanotte. Purtroppo ha voluto farsi mandare in prima linea. […] Non sapendo esattamente dove sono, dove vanno, cosa rischiano in questa terribile guerra le persone a cui vuoi bene, stà certo che la mia più calorosa simpatia le accompagna e ti accompagna. […] Spero ancora, io non credente, in un supremo miracolo che fermi all’ultimo istante lo scatenamento della macchina mortifera. Ma mi chiedo come un credente, un cattolico praticante come l’imperatore Francesco Giuseppe, persuaso di doversi presentare dopo la sua morte che non è lontana a Dio, possa accettare l’idea di dovergli rendere conto dei milioni di vite umane che dipendeva da lui non sacrificare». 
In seguito, dimostrando che egli non è affetto dalla propaganda onnipresente, scrive a più riprese, come dirà di Charlus, che egli non ha nulla contro i Tedeschi e che non comprende come persone preparate e intelligenti possano rifiutare la cultura germanica.  Scrive a Lucien Daudet: «Anch’io sono stato in pena, carissimo, per mio fratello. Il suo ospedale è stato bombardato mentre stava operando, con gli obici che scuotevano il tavolo operatorio. Ha avuto una citazione nell’ordine del giorno, ma non per questo, ma per i molti altri gesti di coraggio che compie di continuo. Purtroppo si espone a gravissimi pericoli, e finché durerà la guerra non saprò che notizie mi porterà il domani […] spero che non ci siano molti amici vostri fra i caduti sul campo dell’onore, ma si amano anche gli estranei, si piangono anche gli sconosciuti».  Dopo aver appreso la morte al fronte di Bertrand de Fénelon, ne fa l’elogio in una lettera a Louis d’Albufera: «Il suo coraggio è stato tanto più sublime in quanto non era mescolato a nessun odio. Egli conosceva a fondo la letteratura tedesca che io ignoro completamente. E diplomaticamente non era la Germania […] che egli riteneva responsabile delle guerra. Che questo punto di vista fosse erroneo è molto probabile; ma ciò testimonia almeno, fino a prova contraria, che il patriottismo di quest’eroe non aveva nulla di esclusivo e cieco». 
Più tardi, nel 1917, dopo aver letto il testo di una conferenza di Walter Berry, scrive non senza ironia a quest’ultimo: «E a questo proposito io vedo che voi siete mille volte peggiore di Capus che sopprime Strauss, Hegel ma che, accettando Goethe e Beethoven, non cancella tutto un secolo.
Voi scrivete che i Tedeschi sono affetti da militarismo irriducibile fin dall’epoca di Cristo…». 
Di Walter Berry scrive anche a Lionel Husser che le sue «manifestazioni di odio […] antigermaniche non appartengono né al mio temperamento, né al mio gusto». In effetti, Proust si augura la vittoria della Francia, ma critica molto raramente i Tedeschi, scagliandosi contro di essi solo in una lettera a Louis d’Albufera, nella quale ironicamente, dopo l’elogio di Fénelon e dopo aver affermato «che si generalizza troppo sui crimini tedeschi, egli rimprovera loro di essersi accaniti contro la cattedrale di Reims». 
Se, come scrive a Lucien Daudet, «Boche non figura nel mio vocabolario, e […] le cose mi sembrano molto meno chiare di quanto non pensino molte persone», ciò dipende dal fatto che contrariamente alla maggioranza dei suoi compatrioti (e come Charlus) egli non è manipolato dalla stampa e non cessa di attaccarne le menzogne.   
Fin dal 1914, in effetti, egli denuncia a Daniel Halévy: «In questo tempo in cui vi è tanto di sublime nei fatti, e così poco nelle parole e negli scritti, nei quali tutti dichiarano che la Guerra ha trasformato gli spiriti, ma lo annunciano in uno stile che mostra troppo che non ha trasformato proprio nulla, perché le stesse sciocchezze, le stesse banalità ritornano ancora nel confronto con i grandi avvenimenti che essi pensano di esprimere, […] in questo tempo dove non si può leggere un giornale senza disgusto e dove forse non c’è ancora una frase decente scritta sulla guerra».   
Più tardi scrive a Robert Dreyfus che egli trova tutti i giornali stupidi, tranne la Situation militaire di Bidou e a Gaston Gallimard che «i giornali sono veramente bestiali». Egli ne legge molti ogni giorni per seguire l’evoluzione del conflitto meglio che può, avendo cura di includere tra questi anche l’austero Journal de Genève apprezzato per la sua imparzialità.   
Tra i rari giornalisti che non vengono condannati da
Proust figura Paul Souday del Temps, al quale egli scrive nel 1915: «Provo molto piacere a dirvi quanto ho apprezzato, per la loro giustezza, la loro verve, il loro coraggio, gli articoli dove quasi soltanto voi, in tutta la stampa avete saputo dire e osare cose che bisogna pensare, ciò che molti pensano di Wagner e di Saint-Saëns, di Strauss».   
Il  patriottismo eccessivo non trova spazio nelle idee di Proust, che in una lettera a Mme Catusse si prende gioco di Robert de Montesquiou per aver, nel giugno del 1915 pubblicato Les Offrandes blessées (188 elegie sulla guerra): «Ha dovuto iniziare il primo giorno della mobilitazione. Quale fecondità!». Sempre a Mme Catusse, egli raccomanda che suo figlio ferito non riparta troppo presto per il fronte e aggiunge, riaffermando così la sua posizione sulla guerra: «Voi forse troverete i miei consigli troppo  pacifici e vi prego di credere che non provengono da un animo volgare. Ma io non ho mai accettato che si faccia dell’eroismo sulla pelle degli altri».   
Insomma, Jean-Yves Tadié non ha torto di pensare che  «le opinioni di M. de Charlus vanno […] al di là delle opinioni più moderate di Proust»; una lettura attenta delle lettere che egli ha scritto tra il 1914 e il 1918 confermano l’intuizione di Maurice Rieuneau che, senza all’epoca conoscere la maggior parte delle lettere che abbiamo citato, scriveva nel 1974: «La critica del nazionalismo passionale è troppo convincente, troppo irrefutabile perché Proust non ne tenga conto» in modo che «sul problema della guerra, Proust era emotivamente con Saint-Loup, ma molto lucido per giudicare i suoi compatrioti con lo spirito di Charlus». 
Il tema della guerra è percorso nel Tempo ritrovato da una tensione verso una verità che trascenda la sfera dell’azione, della storia nella sua bruta attualità, per raggiungere una comprensione non riduttiva, non ideologica del reale. Proust si accorge dell’inanità di ogni propaganda, della sua essenza manipolativa che svaluta anche le cause più nobili, e si vota alla ricerca della più scomoda delle verità, quella che emerge  dalla distruzione di tutte le forme di falsa coscienza su cui riposa abitualmente la nostra certezza di essere in buona fede. 
 
Il Tempo ritrovato di Raoul Ruiz 
 
Dalla metà degli anni Sessanta in poi, la sfida posta al cinema dall’opera proustiana è stata raccolta da personalità artistiche quali Ennio Flaiano, Harold Pinter, Luchino Visconti e Joseph Losey: l’avventuroso progetto produttivo che li ha visti protagonisti ha avuto termine solo nel 1984 con Un amore di Swann di Volker Schlöndorff. Bisogna però attendere la fine del secolo scorso perché i film di Raoul Ruiz (Le Temps retrouvé, 1999) e Chantal Akerman (La captive, 2000) trasferiscano al cinema gli elementi più profondi della Recherche, senza perderne né sottigliezza né impatto poetico.   
Il bel libro di Anna Masecchia, Al cinema con Proust, (Marsilio, 2008) affronta l’argomento nella premessa di fondo che il rapporto tra romanzo e film, nel caso di A la recherche du temps perdu, merita un’attenzione in più per la particolare natura del romanzo, per il modo in cui è collocato nella storia delle forme letterarie e per come il cinematografo, scrittura del movimento e del tempo, pare essersi sentito sfidato dal capolavoro francese.   
Il contesto culturale ed epocale in cui il romanzo è stato scritto e alcune delle sue caratteristiche strutturali hanno infatti motivato un rapporto quasi inevitabile tra il cinema e la Recherche, nonostante l’idea “pessimistica” che Proust aveva del cinema («C’era chi pretendeva che il romanzo fosse una sorta di sfilata cinematografica delle cose. Questa concezione era assurda. Niente si allontana da ciò che abbiamo percepito in realtà più d’una tale visione cinematografica»). 
 Il libro della Masecchia – ricco di stimoli per gli studiosi e per gli amateurs di Proust – propone una ricostruzione di tale rapporto, un’indagine sulla ricezione cinematografica del testo e sull’eredità proustiana che il cinema può aver raccolto.   La storia “ufficiale” della ricezione cinematografica della Recherche ha inizio nel 1962, anno in cui la produttrice francese Nicole Stéphane apre la trattativa per acquisire i diritti di Du côté de chez Swann. Appassionata al progetto proustiano,  Stéphane riesce nel 1968, dopo lunghe trattative con la nipote di Proust, Suzy Mante-Proust, ad acquistare in maniera definitiva i diritti di Un amore di Swann. La produttrice dovrà attendere fino al 1984 per portare a termine il suo progetto, quando la quarta sceneggiatura, commissionata a Jean-Claude Carrière e a Peter Brook, diverrà il film Un amore di Swann di Volker Schlöndorff. 
Arriviamo al 1992, data di uscita del film di Raoul Ruiz, Le Temps retrouvé, di cui esiste la versione con doppiaggio in italiano, integralmente visibile nel web. L’interesse che i lettori possono avere nei confronti di un film ispirato al volume della Recherche più ricco di suggestioni estetiche, filosofiche, storiche etc… può rendere utile la messa in evidenza di alcune caratteristiche del film di Ruiz, che schematicamente possono essere così individuate, come puntualmente scrive Anna Masecchia: 
- trattasi di un film in cui – in coerenza con un elemento caratteristico dell’intera filmografia di tale autore – si sfalda qualsiasi idea di consequenzialità narrativa;   - la prossimità tra il percorso creativo ruiziano e la materia narrativa ed estetica presente nella scrittura romanzesca della Recherche appaiono davvero notevoli;   
- le epifanie, fulcro attorno al quale si costruisce la rivelazione estetica presente in Le Temps retrouvé, avvengono con un processo in cui l’estasi coincide con la visione della propria vita nella sua interezza e con l’annullarsi della paura della morte; 
- ognuna delle macrosequenze del film può essere ricondotta alle parti, anch’esse dai confini molto labili, in cui si suddivide l’ultimo volume della Recherche, con la sottolineatura che mai come nel Temps retrouvé riflessioni sull’arte, sull’amore, sulla gelosia, sulla Storia, sulla società contemporanea sono interconnesse le une con le altre, e questa caratteristica determina anche nel film che la messa in sequenza dei pochi elementi collocabili allo sviluppo  lineare del racconto entri in connessione con i numerosi flash-back memoriali e soggettivi, visioni mentali del protagonista. 
Si può riassuntivamente dire quanto segue, partendo dalla riflessione che nel Tempo ritrovato vi è l’esperienza di un’estasi metacronica provocata da ricordi involontari, estasi che suscita nel Narratore importanti riflessioni sulla possibilità di salvare dall’oblio e dall’errore mentale l’essenza varia ed individuale della vita: nel Temps retrouvé di Raoul Ruiz è in gioco una sorta di fratellanza poetica tra autore letterario e regista che, se consente la ri-creazione di temi e forme del romanzo all’interno del laboratorio creativo e artistico del regista, allo stesso tempo offre una nuova chiave interpretativa del testo e dell’universo proustiani. 
Queste notazioni (ma val la pena prendere diretta visione del libro di Anna Masecchia nel quale l’analisi è sviluppata attraverso numerosi livelli di lettura) ci fanno ben comprendere l’affermazione di Ruiz di aver coltivato il progetto di un film tratto dal romanzo proustiano, per almeno quindici anni. 
 
La bellezza del mondo 
(pensando al libro La Bellezza non si somma di Roberto Maggiani) 
 
Come dire e descrivere la bellezza del mondo? Per far questo, afferma Proust, bisogna superare «il disaccordo tra le nostre impressioni e la loro espressione». Ma che cosa significa accordo tra impressione ed espressione? In base a quale criterio si  può apprezzarne la giustezza? Proust sa bene che l’emozione non si comunica in virtù della sola intensità. Essa deve conquistare i mezzi, verbali, pittorici, ecc… che la interpreteranno per manifestarla. Per nascere, i poteri della parola richiedono un percorso di apprendistato, un progresso iniziatico. E da qui che nasce la “grandiosità” del Tempo ritrovato: l’ultimo volume della Recherche ripercorre – con gli strumenti della maturità infine raggiunta – tutta la serie semifittizia (ritorna il rapporto tra vita e opera) dei tentativi ingenui, degli errori, dei traviamenti, delle ferite che precedettero la chiara consapevolezza del compito da svolgere. Ma tutto ciò ha avuto un prezzo; la padronanza tardiva è stata pagata con l’accettazione di molte perdite, e soprattutto con l’ammissione del soccorso della memoria involontaria che va di pari passo con l’ascesi volontaria e con il rifiuto di ogni “idolatria”. Solo una volta invecchiato, l’adolescente esaltato che avrà ormai attraversato tanti lutti, tante futilità mondane, potrà descrivere l’emozione provata dinanzi allo spettacolo del tempo passato, nella spettacolare kermesse del Bal de têtes della Matinée Guermantes.   
La testimonianza dei ricordi del passato porta con sé, nello stesso istante, un compito etico; il senso di un dovere e un imperativo di conoscenza, «vedere più chiaro», vengono distintamente percepiti al di là del trasporto estetico. Il Narratore se ne rende conto attraverso la successione dei ricordi “involontari”, superando la sensazione di inquietudine che accompagna l’ebbrezza di tante nuove scoperte. Il giovane del passato era stato il testimone – affascinato, inerme, consapevole – di un futuro in cui il mondo gli sarebbe apparso in tutta la “verità”. («Certe frasi vorrebbero farmi credere d’esser quelle, ma non può essere vero. Dove sarebbe, dunque, la bellezza che trovavo in esse 
?»). 
Attraverso la memoria riflessiva, in risposta ai tanti segni che le intermittenze del cuore provocano in lui, il Narratore riconquista lo spettacolo della vita trascorsa. Retrospettivamente comprende che il tempo “perduto” è stato “ritrovato”; i tanti episodi narrati nei volumi precedenti erano stati solo gli antecedenti amorfi di ciò che ora si dispiega nelle pagine del Tempo ritrovato, in una scrittura “letteraria” perfettamente articolata. Il dovere viene alla fine soddisfatto, la conoscenza è acquisita: giustizia è infine resa a quell’ “istante” miracoloso che è il passato. Ecco allora apparire una gioia inesprimibile, ecco il superamento di ogni insufficienza e del passato timore di non riuscire a cogliere l’  “essenza” della vita. 
La narrazione offerta al lettore del Tempo ritrovato paga dunque un debito antico, consegnando al nostro sguardo tutta l’architettura, la cattedrale costruita nel corso della intera opera. La Recherche salda quindi un debito; espia, in un certo senso, un tempo in cui la verità delle sensazioni non era stata riconosciuta, e dà voce a una percezione del mondo che fino a quel momento non aveva trovato l’espressione compiuta. E’ la conferma che l’espressione è sempre in ritardo sull’impressione.   
Proust lo rivela accentuando lo scarto tra i due momenti. Il presente della sensazione non può essere descritto che al passato. E per giunta questo passato è una finzione : quello che leggiamo è un romanzo. Il miraggio letterario, la sua bellezza, consiste nel rendere credibile il gesto che li cattura, nel far credere che lo scrittore non sia interamente passato accanto alla vita, e alla verità. Proust non è stato il primo né il solo a sperimentare il “disaccordo” tra ciò che si offre allo sguardo e ciò che il linguaggio è in grado di dire. La distanza è troppo grande, la bellezza troppo inafferrabile, e lo spirito, per quanto faccia esso stesso parte di quel mondo che lo  incanta, sente di non avere la forza di registrarlo e fissarlo: La Bellezza non si somma.   
 
 
Appendice  Argomento e genesi del Tempo ritrovato 
 
 L’ultimo volume della Recherche è composto di tre parti: il soggiorno a Tansonville da Gilberte, il signore di Charlus durante la guerra, la matinée dalla principessa di Guermantes; ma solo quest’ultima parte rispecchia il titolo del volume, poiché le prime due non sono che la preparazione della scoperta finale. 
 Durante il soggiorno a Tansonville il Narratore, che  prima scopre che in realtà le due “parti” della sua infanzia non sono inconciliabili e poi la verità sul comportamento di un tempo di Gilberte, riflette nuovamente sui cambiamenti di SaintLoup, divenuto omosessuale, e su Albertine; ma soprattutto, sente di nuovo la propria impotenza a scrivere che, in questa occasione, gli viene confermata dalla lettura del Journal dei Gouncourt (in realtà un pastiche composto da Proust). Forse , la magia della letteratura è illusoria. Il Narratore cerca di consolarsi ritirandosi in una casa di cura dove resterà fino al 1916. 
 Rientrando a Parigi durante la guerra, il Narratore vi constata, recandosi dai Verdurin, i cambiamenti della moda e del “mondo”. Riceve alcune notizie da Gilberte: Combray è occupata dai tedeschi. Saint-Loup gli fa una visita.     L’eroe, passeggiando di notte per le strade di Parigi, incontra Charlus, decaduto dalla sua posizione mondana, divenuto germanofilo, e che sempre più assomiglia agli altri omosessuali. Norpois e Brichot scrivono articoli di propaganda. Nel corso di una lunga conversazione con il Narratore, Charlus paragona Parigi a Pompei. Dopo averlo lasciato, il Narratore cerca un albergo: si imbatte, e entra, in una casa di tolleranza, tenuta da Jupien, dove Charlus si fa flagellare; scopre inoltre che Saint-Loup vi si è certamente recato. A causa di un bombardamento tutti i clienti si rifugiano nella metropolitana. Alcuni giorni dopo muore Saint-Loup; ripensando alla sua vita il Narratore la immagina parallela a quella di Albertine. Alla fine il Narratore si ritira in una nuova casa di cura, dove però non guarisce. 
 Trascorrono molti anni, e arriviamo così all’ultima parte, la “Matinée dalla principessa di Guermantes”.  Come risulta anche da un progetto, apparso all’inizio delle Fanciulle in fiore nell’edizione del 1919, questa parte è divisa in due sezioni, “L’adoration perpétuelle” e “Le temps retrouvé” (nel Cahier 51 del 1909, e nel 1910-1911 questa ultima sezione era intitolata “Le bal de têtes”). La prima sezione si apre con ritorno del Narratore a Parigi, durante il quale constata la propria mancanza di doti letterarie. Invitato a una matinée dalla principessa di Guermantes, lungo il percorso, incontra Charlus, ormai decaduto. Nel cortile del palazzo Guermantes si ha un vero e proprio colpo di scena: inciampando nel pavé ineguale, il Narratore prova una felicità simile a quella che aveva provato grazie alla madeleine. Così, ritrova il tempo perduto e comprende che l’opera d’arte è il solo mezzo per interpretare questi segni. Pensa allora, delineandola, a quella che dovrà essere la sua estetica: i materiali della sua opera gli saranno dati dalla sua vita passata, il dolore è servito a sviluppare la forza del suo spirito e comprende così la funzione dell’amore, della gelosia e dell’omosessualità. Tuttavia, poiché ci insegna che l’universale sta accanto al particolare, l’opera è segno di felicità. 
 Il Narratore – e siamo giunti alla sezione della Matinée – entra nel salone della principessa di Guermantes (che ora non è altro che la signora Verdurin, che il principe ha sposato, in seconde nozze). Qui non riconosce più nessuno: tutti i personaggi, lui compreso, hanno subito una metamorfosi, fisica e morale, ad opera del tempo. E tutti quelli che sono ancora vivi vengono allora passati in rassegna. Ci si accorge così che tutti i rapporti fra i diversi individui sono cambiati e che alcuni riassetti sociali hanno avuto luogo. Durante questo periodo la Berma è stata abbandonata da tutti. Apprendiamo il declino della duchessa di Guermantes, il legame del duca con Odette. Grazie all’incontro con la signorina di Saint-Loup, figlia di Robert e di Gilberte, la giovinezza del Narratore resuscita, anche col soccorso della parziale rivalutazione dell’intelligenza («Sentivo peraltro che le verità che l’intelligenza ricava direttamente dalla realtà non sono del tutto da disprezzare, perché potrebbero incastonare in una materia meno pura, ma pur sempre imbevuta di spiritualità, le impressioni che ci giungono al di fuori del tempo dall’essenza comune alle sensazioni del passato e del presente, ma che, se sono più preziose, sono anche troppo rare perché l’opera d’arte possa esserne unicamente composta. Sentivo premere dentro di me,
suscettibili d’essere utilizzate a tale scopo, una folla di verità concernenti le passioni, i caratteri, i costumi. Percepirle mi dava gioia; eppure mi sembrava di ricordare che alcune le avevo scoperte nella sofferenza, altre in ben mediocri piaceri»).    Le ultime pagine dell’opera costituiscono una conclusione estetica. In esse viene fatto un abbozzo di quello che dovrebbe essere il libro del Narratore che, malato, minacciato continuamente dalla morte, incompreso, lavora di notte. Nella sua opera darà la forma del Tempo, e ai suoi personaggi un posto considerevole in esso, poiché occupano età molto diverse nel Tempo, prima e ultima parola del  libro e termine principale del titolo. Ma “assaporiamo” le parole di Proust: «Se mi fosse stata lasciata, quella forza, per il tempo sufficiente a compiere la mia opera, non avrei dunque mancato di descrivervi innanzitutto gli uomini, a costo di farli sembrare mostruosi, come esseri che occupano un posto così considerevole accanto a quello così angusto che è riservato loro nello spazio, un posto, al contrario, prolungato a dismisura poiché toccano simultaneamente, come giganti immersi negli anni, periodi vissuti da loro a tanta distanza e fra cui tanti giorni si sono depositati – nel Tempo». 
 
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 Lunga e movimentata è la genesi del Tempo ritrovato. Il SainteBeuve era costituito solo da “ricordi di una mattinata” e la sua narrazione era integralmente retrospettiva. Ma scrivendo, Proust scopre l’articolazione fra il presente e il passato. Nello stesso anno in cui abbandona il Sainte-Beuve, scrive “Le bal de têtes”; ritornando in un salotto dopo un’assenza di quindici anni constata l’invecchiamento dei personaggi. Tra il 1910 e il 1911 riprende questo testo aggiungendovi un altro episodio, “L’adoration perpétuelle” in cui espone la sua estetica. Al tempo stesso Proust riporta nel Tempo ritrovato un certo numero di riflessioni che in un primo momento aveva posto all’inizio del romanzo in concomitanza con lo svolgimento degli avvenimenti: è questo il caso delle esperienze della memoria involontaria e di François le Champi, che il Narratore legge in “Swann” ma di cui si ricorda nel Tempo ritrovato. Quest’ultimo episodio diviene così la vera conclusione dell’opera, ne segna al tempo stesso la fine e la spiegazione. Del resto l’incertezza, l’interrogativo e la tensione sono mantenuti sino alla fine: dove ci  porta l’Autore? Si capisce allora come il Tempo ritrovato si sia arricchito di tutto ciò che era stato tolto dai volumi precedenti. A partire da questi due capitoli (la cui prima versione, nei Cahiers 51, 58 e 57, è stata pubblicata da H. Bonnet e da B. Brun con il titolo “Matinée chez la princesse de Guermantes”) Proust aggiunge a ritroso, da una parte, all’inizio, il soggiorno a Tansonville da Gilberte di Saint-Loup, previsto fin da subito e annunciato nel prologo di “Swann”, dall’altra, “Parigi durante la guerra del 1914”; questa sezione, composta sotto la pressione degli eventi sostituisce gli  ultimi sviluppi previsti per Charlus che rimane tuttavia il personaggio principale del nuovo episodio. Infine, quattro cahier supplementari redatti tra il 1917 e il 1922 contengono solo dei frammenti destinati a essere integrati nella struttura d’insieme, ovviamente nei volumi inediti. 
Il Tempo ritrovato uscì in due volumi, nel 1927, presso la  «Nouvelle Revue Française»; come gli altri volumi postumi, La Prigioniera e Albertine scomparsa, era curato da Robert Proust, aiutato da Jean Paulhan. Il manoscritto – scrive Daria Galateria - che Proust rimaneggiò fino alla fine era ancora da rivedere: affiorano alcuni errori e qualche ripetizione, due personaggi risuscitano, talvolta le aggiunte sono di dubbia collocazione; soprattutto, Proust non ha probabilmente fatto in tempo a integrare nel testo certi passaggi magistrali, come la rivelazione, introdotta nel modo più inatteso, improvviso e sconcertante per il lettore – e per Madame Cottard, che ne rinviene la traccia nelle  lettere del marito defunto - , di un’antica e mai sospesa relazione del dottor Cottard con Odette.   
Nonostante questa complessa stratificazione, e lunga sedimentazione del Tempo ritrovato, l’orchestrazione dei rimandi e dei riferimenti risponde a una strategia rigorosa.   
 
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 Ad un (quasi) ottantenne, autore di questo scritto, sia consentito riportare una frase del finale del Tempo ritrovato ricca di suggestioni e riflessi personali : «Adesso capivo perché il duca di Guermantes, di cui guardandolo quando era seduto su una sedia, avevo ammirato quanto poco fosse invecchiato sebbene avesse sotto di sé tanti anni più di quelli che avevo io, non appena si era alzato e s’era sforzato di reggersi in piedi aveva vacillato su due gambe malferme come quelle di quei vecchi arcivescovi che non hanno più nulla di solido tranne la loro croce di metallo e attorno ai quali s’affacciano giovani seminaristi gagliardi, e non era poi riuscito ad avanzare che tremando come una foglia sulla poco praticabile cima dei suoi ottantatre anni, come se gli uomini fossero appollaiati su trampoli viventi che aumentano senza sosta sino a diventare, a volte più alti di campanili, sino a rendere difficili e perigliosi i loro passi, e da cui improvvisamente precipitano». 
G. O. 
 
Nota: Le citazioni della Recherche e della corrispondenza di Proust, presenti nel testo, si riferiscono alle edizioni di consueto riferimento: quella dei Meridiani Mondadori e quella di Gallimard, «Pléiade». 
Incipit di LE TEMPS RETROUVÉ 
 
traduzione di Alessandra Ponticelli Conti 
 
 
Tutta la giornata, in quella dimora di Tansonville un po’ troppo di campagna, che pareva un banale luogo di siesta tra una passeggiata e l’altra o durante un acquazzone, una di quelle dimore dove ogni sala assomiglia a un pergolato nel verde e dove, sulla tappezzeria delle camere, le rose del giardino nell’ una, gli uccelli degli alberi nell’ altra, vi hanno raggiunto e vi fanno compagnia – isolati se non altro – visto che si trattava di quelle vecchie tappezzerie nelle quali ogni rosa era separata dall’altra quel tanto perché la si potesse cogliere, se fosse stata vera, ogni uccello metterlo in gabbia e addomesticarlo, senza niente di quelle pesanti decorazioni delle camere di oggi dove, su uno sfondo d’argento, tutti i meli di Normandia son venuti a profilarsi in stile giapponese, per allucinare le ore che trascorrete a letto; tutta la giornata la passavo nella mia camera che si affacciava sulla bella vegetazione del parco e sui lillà dell’ingresso, sulle foglie verdi dei grandi alberi in riva all’acqua, scintillanti di sole, e sul bosco di Méséglise. Se, alla fine, guardavo tutto ciò con piacere era perché potevo dirmi: “è bello godere di così tanto verde dalla finestra della propria camera”, fino a che nell’ ampio quadro verdeggiante, non riconobbi, lui, al contrario dipinto di blu scuro, semplicemente perché era più lontano, il campanile della chiesa di Combray, non una mia figurazione di quel campanile, ma il campanile stesso, che, esibendomi, così, sotto gli occhi, la distanza delle leghe e degli anni, era venuto, in mezzo alla luminosa vegetazione e con tutt’altro tono, tanto scuro da sembrare quasi solo disegnato, a incorniciarsi nel riquadro della mia finestra. E se uscivo un attimo di camera, scorgevo in fondo al corridoio, poiché era orientato in modo diverso, come una striscia di scarlatto la tappezzeria di un salottino, che altro non era se non una semplice e leggera mussola, ma rossa e pronta a prendere fuoco non appena vi si fosse posato un minimo raggio di sole. 
Durante le nostre passeggiate, Gilberte mi parlava di come Robert si allontanasse da lei, ma per correre appresso ad altre donne. Ed è vero che erano in molte ad affollare la sua vita, ma, come certo cameratismo maschile per gli uomini che amano le donne, con quello spirito di difesa inutilmente prestata e di posto vanamente usurpato che hanno, nella maggior parte delle case, gli oggetti che non servono a niente. 
 
   

LE TEMPS RETROUVÉ 
     
Chapitre I 

Tansonville  
     
Toute la journée, dans cette demeure de Tansonville un peu trop campagne, qui n'avait l'air que d'un lieu de sieste entre deux promenades ou pendant l'averse, une de ces demeures où chaque salon a l'air d'un cabinet de verdure, et où sur la tenture des chambres, les roses du jardin dans l'une, les oiseaux des arbres dans l'autre, vous ont rejoints et vous tiennent compagnie – isolés du moins – car c'étaient de vieilles tentures où chaque rose était assez séparée pour qu'on eût pu, si elle avait été vivante, la cueillir, chaque oiseau le mettre en cage et l'apprivoiser, sans rien de ces grandes décorations des chambres d'aujourd'hui où, sur un fond d'argent, tous les pommiers de Normandie sont venus se profiler en style japonais, pour halluciner les heures que vous passez au lit, toute la journée je la passais dans ma chambre qui donnait sur les belles verdures du parc et les lilas de l'entrée, sur les feuilles vertes des grands arbres au bord de l'eau, étincelants de soleil, et sur la forêt de Méséglise. Je ne regardais, en somme, tout cela avec plaisir que parce que je me disais : c'est joli d'avoir tant de verdure dans la fenêtre de ma chambre, jusqu'au moment où dans le vaste tableau verdoyant je reconnus, peint lui au contraire en bleu sombre, simplement parce qu'il était plus loin, le clocher de l'église de Combray, non pas une figuration de ce clocher, ce clocher lui-même qui, mettant ainsi sous mes yeux la distance des lieues et des années, était venu, au milieu de la lumineuse verdure et d'un tout autre ton, si sombre qu'il paraissait presque seulement dessiné, s'inscrire dans le carreau de ma fenêtre. Et si je sortais un moment de ma chambre, au bout du couloir j'apercevais, parce qu'il était orienté autrement, comme une bande d'écarlate, la tenture d'un petit salon qui n'était qu'une simple mousseline mais rouge, et prête à s'incendier si un rayon de soleil y donnait. 
Pendant nos promenades, Gilberte me parlait de Robert comme se détournant d'elle, mais pour aller auprès d'autres femmes. Et il est vrai que beaucoup encombraient sa vie, et, comme certaines camaraderies masculines pour les hommes qui aiment les femmes, avec ce caractère de défense inutilement faite et de place vainement usurpée qu'ont dans la plupart des maisons les objets qui ne peuvent servir à rien. 
Une fois, que j'avais quitté Gilberte assez tôt, je m'éveillai au milieu de la nuit dans la chambre de Tansonville, et encore à demi endormi j'appelai : « Albertine ». Ce n'était pas que j'eusse pensé à elle, ni rêvé d'elle, ni que je la prisse pour Gilberte. Ma mémoire avait perdu l'amour d'Albertine, mais il semble qu'il y ait une mémoire involontaire des membres, pâle et stérile imitation de l'autre, qui vive plus longtemps comme certains animaux ou végétaux inintelligents vivent plus longtemps que l'homme. Les jambes, les bras sont pleins de souvenirs engourdis. Une réminiscence éclose en mon bras m'avait fait chercher derrière mon dos la sonnette, comme dans ma chambre de Paris. Et ne la trouvant pas, j'avais appelé : « Albertine », croyant que mon amie défunte était couchée auprès de moi, comme elle faisait souvent le soir, et que nous nous endormions ensemble, comptant, au réveil, sur le temps qu'il faudrait à Françoise avant d'arriver, pour qu'Albertine pût sans imprudence tirer la sonnette que je ne trouvais pas. 
Robert vint plusieurs fois à Tansonville pendant que j'y étais. Il était bien différent de ce que je l'avais connu. Sa vie ne l'avait pas épaissi, comme M. de Charlus, tout au contraire, mais, opérant en lui un changement inverse, lui avait donné l'aspect désinvolte d'un officier de cavalerie – et bien qu'il eût donné sa démission au moment de son mariage – à un point qu'il n'avait jamais eu. Au fur et à mesure que M. de Charlus s'était alourdi, Robert (et sans doute il était infiniment plus jeune, mais on sentait qu'il ne ferait que se rapprocher davantage de cet idéal avec l'âge), comme certaines femmes qui sacrifient résolument leur visage à leur taille et à partir d'un certain moment ne quittent plus Marienbad (pensant que, ne pouvant espérer garder à la fois plusieurs jeunesses, c'est encore celle de la tournure qui sera la plus capable de représenter les autres), était devenu plus élancé, plus rapide, effet contraire d'un même vice. Cette vélocité avait d'ailleurs diverses raisons psychologiques, la crainte d'être vu, le désir de ne pas sembler avoir cette crainte, la fébrilité qui naît du mécontentement de soi et de l'ennui. Il avait l'habitude d'aller dans certains mauvais lieux, et, comme il aimait qu'on ne le vît ni y entrer, ni en sortir, il s'engouffrait pour offrir aux regards malveillants des passants hypothétiques le moins de surface possible, comme on monte à l'assaut. Et cette allure de coup de vent lui était restée. Peut-être aussi schématisait-elle l'intrépidité apparente de quelqu'un qui veut montrer qu'il n'a pas peur et ne veut pas se donner le temps de penser. 
Pour être complet il faudrait faire entrer en ligne de compte le désir, plus il vieillissait, de paraître jeune, et même l'impatience de ces hommes, toujours ennuyés, toujours blasés, que sont les gens trop intelligents pour la vie relativement oisive qu'ils mènent et où leurs facultés ne se réalisent pas. Sans doute l'oisiveté même de ceux-là peut se traduire par de la nonchalance. Mais, surtout depuis la faveur dont jouissent les exercices physiques, l'oisiveté a pris une forme sportive, même en dehors des heures de sport et qui se traduit par une vivacité fébrile qui croit ne pas laisser à l'ennui le temps ni la place de se développer. 
Devenant beaucoup plus sec, il ne faisait presque plus preuve vis-à-vis de ses amis, par exemple vis-à-vis de moi, d'aucune sensibilité. Et en revanche il avait avec Gilberte des affectations de sensibleries poussées jusqu'à la comédie, qui déplaisaient. Ce n'est pas qu'en réalité Gilberte lui fût indifférente. Non, Robert l'aimait. Mais il lui mentait tout le temps, et son esprit de duplicité, sinon le fond même de ses mensonges, était perpétuellement découvert. Et alors il ne croyait pouvoir s'en tirer qu'en exagérant dans des proportions ridicules la tristesse réelle qu'il avait de peiner Gilberte. Il arrivait à Tansonville obligé, disait-il, de repartir le lendemain matin pour une affaire avec un certain Monsieur du pays qui était censé l'attendre à Paris et qui, précisément rencontré dans la soirée près de Combray, dévoilait involontairement le mensonge au courant duquel Robert avait négligé de le mettre, en disant qu'il était venu dans le pays se reposer pour un mois et ne retournerait pas à Paris d'ici là. Robert rougissait, voyait le sourire mélancolique et fin de Gilberte, se dépêtrait – en l'insultant – du gaffeur, rentrait avant sa femme, lui faisait remettre un mot désespéré où il lui disait qu'il avait fait un mensonge pour ne pas lui faire de peine, pour qu'en le voyant repartir pour une raison qu'il ne pouvait pas lui dire elle ne crût pas qu'il ne l'aimait pas (et tout cela, bien qu'il l'écrivît comme un mensonge, était en somme vrai), puis faisait demander s'il pouvait entrer chez elle et là, moitié tristesse réelle, moitié énervement de cette vie, moitié simulation chaque jour plus audacieuse, sanglotait, s'inondait d'eau froide, parlait de sa mort prochaine, quelquefois s'abattait sur le parquet comme s'il se fût trouvé mal. Gilberte ne savait pas dans quelle mesure elle devait le croire, le supposait menteur à chaque cas particulier, et s'inquiétait de ce pressentiment d'une mort prochaine, mais pensait que d'une façon générale elle était aimée, qu'il avait peut-être une maladie qu'elle ne savait pas, et n'osait pas à cause de cela le contrarier et lui demander de renoncer à ses voyages. Je comprenais, du reste, d'autant moins pourquoi il se faisait que Morel fût reçu comme l'enfant de la maison partout où étaient les SaintLoup, à Paris, à Tansonville. 
Françoise, qui avait déjà vu tout ce que M. de Charlus avait fait pour Jupien et tout ce que Robert de Saint-Loup faisait pour Morel, n'en concluait pas que c'était un trait qui reparaissait à certaines générations chez les Guermantes, mais plutôt – comme Legrandin aidait beaucoup Théodore – elle avait fini, elle personne si morale et si pleine de préjugés, par croire que c'était une coutume que son universalité rendait respectable. Elle disait toujours d'un jeune homme, que ce fût  Morel ou Théodore : « Il a trouvé un Monsieur qui s'est toujours intéressé à lui et qui lui a bien aidé. » Et comme en pareil cas les protecteurs sont ceux qui aiment, qui souffrent, qui pardonnent, Françoise, entre eux et les mineurs qu'ils détournaient, n'hésitait pas à leur donner le beau rôle, à leur trouver « bien du cœur ». Elle blâmait sans hésiter Théodore qui avait joué bien des tours à Legrandin, et semblait pourtant ne pouvoir guère avoir de doutes sur la nature de leurs relations, car elle ajoutait : « Alors le petit a compris qu'il fallait y mettre du sien et y a dit : « Prenez-moi avec vous, je vous aimerai bien, je vous cajolerai bien », et ma foi ce Monsieur a tant de cœur que bien sûr que Théodore est sûr de trouver près de lui peut-être bien plus qu'il ne mérite, car c'est une tête brûlée, mais ce Monsieur est si bon que j'ai souvent dit à Jeannette (la fiancée de Théodore) : Petite, si jamais vous êtes dans la peine, allez vers ce Monsieur. Il coucherait plutôt par terre et vous donnerait son lit. Il a trop aimé le petit Théodore pour le mettre dehors, bien sûr qu'il ne l'abandonnera jamais. 
» 
De même estimait-elle plus Saint-Loup que Morel et jugeaitelle que, malgré tous les coups que Morel avait faits, le marquis ne le laisserait jamais dans la peine, car c'est un homme qui avait trop de cœur, ou alors il faudrait qu'il lui soit arrivé à luimême de grands revers. 
C'est au cours d'un de ces entretiens, qu'ayant demandé le nom de famille de Théodore, qui vivait maintenant dans le Midi, je compris brusquement que c'était lui qui m'avait écrit pour mon article du Figaro cette lettre, d'une écriture populaire et d'un langage charmant, dont le nom du signataire m'était alors inconnu. 
Saint-Loup insistait pour que je restasse à Tansonville et laissa échapper une fois, bien qu'il ne cherchât visiblement plus à me faire plaisir, que ma venue avait été pour sa femme une joie telle qu'elle en était restée, à ce qu'elle lui avait dit, transportée de joie tout un soir, un soir où elle se sentait si triste que je l'avais, en arrivant à l'improviste, miraculeusement sauvée du désespoir, « peut-être du pire », ajouta-t-il. Il me demandait de tâcher de la persuader qu'il l'aimait, me disant que la femme qu'il aimait aussi, il l'aimait moins qu'elle et romprait bientôt. « Et pourtant », ajouta-t-il, avec une telle félinité et un tel besoin de confidence que je croyais par moments que le nom de Charlie allait, malgré Robert, « sortir » comme le numéro d'une loterie, « j'avais de quoi être fier. Cette femme qui me donna tant de preuves de sa tendresse et que je vais sacrifier à Gilberte, jamais elle n'avait fait attention à un homme, elle se croyait elle-même incapable d'être amoureuse. Je suis le premier. Je savais qu'elle s'était refusée à tout le monde tellement que, quand j'ai reçu la lettre adorable où elle me disait qu'il ne pouvait y avoir de bonheur pour elle qu'avec moi, je n'en revenais pas. Évidemment, il y aurait de quoi me griser, si la pensée de voir cette pauvre petite Gilberte en larmes ne m'était pas intolérable. Ne trouves-tu pas qu'elle a quelque chose de Rachel ? », me disait-il. Et en effet j'avais été frappé d'une vague ressemblance qu'on pouvait à la rigueur trouver maintenant entre elles. Peut-être tenait-elle à une similitude réelle de quelques traits (dus par exemple à l'origine hébraïque pourtant si peu marquée chez Gilberte) à cause de laquelle Robert, quand sa famille avait voulu qu'il se mariât, s'était senti attiré vers Gilberte. Elle tenait aussi à ce que Gilberte, ayant surpris des photographies de Rachel, cherchait pour plaire à Robert à imiter certaines habitudes chères à l'actrice, comme d'avoir toujours des nœuds rouges dans les cheveux, un ruban de velours noir au bras, et se teignait les cheveux pour paraître brune. Puis sentant que ses chagrins lui donnaient mauvaise mine, elle essayait d'y remédier. Elle le faisait parfois sans mesure. Un jour où Robert devait venir le soir pour vingt-quatre heures à Tansonville, je fus stupéfait de la voir venir se mettre à table si étrangement différente de ce qu'elle était, non seulement autrefois, mais même les jours habituels, que je restai stupéfait comme si j'avais eu devant moi une actrice, une espèce de Théodora. Je sentais que malgré moi je la regardais trop fixement dans ma curiosité de savoir ce qu'elle avait de changé. Cette curiosité fut d'ailleurs bientôt satisfaite quand elle se moucha, car, malgré toutes les précautions qu'elle y mit, par toutes les couleurs qui restèrent sur le mouchoir, en faisant une riche palette, je vis qu'elle était complètement peinte. C'était cela qui lui faisait cette bouche sanglante et qu'elle s'efforçait de rendre rieuse en croyant que cela lui allait bien, tandis que l'heure du train qui s'approchait sans que Gilberte sût si son mari arrivait vraiment ou s'il n'enverrait pas une de ces dépêches dont M. de Guermantes avait spirituellement fixé le modèle : « Impossible venir, mensonge suit », pâlissait ses joues et cernait ses yeux. 
« Ah ! vois-tu, me disait Saint-Loup – avec un accent volontairement tendre qui contrastait tant avec sa tendresse spontanée d'autrefois, avec une voix d'alcoolique et des modulations d'acteur – Gilberte heureuse, il n'y a rien que je ne donnerais pour cela. Elle a tant fait pour moi. Tu ne peux pas savoir. » Et ce qui était le plus déplaisant dans tout cela était encore l'amour-propre, car Saint-Loup était flatté d'être aimé par Gilberte, et, sans oser dire que c'était Morel qu'il aimait, donnait pourtant sur l'amour que le violoniste était censé avoir pour lui des détails qu'il savait bien exagérés sinon inventés de toute pièce, lui à qui Morel demandait chaque jour plus d'argent. Et c'était en me confiant Gilberte qu'il repartait pour Paris. J'eus, du reste, l'occasion, pour anticiper un peu, puisque je suis encore à Tansonville, de l'y apercevoir une fois dans le monde, et de loin, où sa parole, malgré tout vivante et charmante, me permettait de retrouver le passé. Je fus frappé de voir combien il changeait. Il ressemblait de plus en plus à sa mère. Mais la manière de sveltesse hautaine qu'il avait héritée d'elle et qu'elle avait parfaite, chez lui, grâce à l'éducation la plus accomplie, s'exagérait, se figeait ; la pénétration du regard propre aux Guermantes lui donnait l'air d'inspecter tous les lieux au milieu desquels il passait, mais d'une façon quasi inconsciente, par une sorte d'habitude et de particularité animale ; même immobile, la couleur qui était la sienne plus que de tous les Guermantes, d'être seulement de l'ensoleillement d'une journée d'or devenue solide, lui donnait comme un plumage si étrange, faisait de lui une espèce si rare, si précieuse, qu'on aurait voulu la posséder pour une collection ornithologique ; mais quand, de plus, cette lumière changée en oiseau se mettait en mouvement, en action, quand par exemple je voyais Robert de Saint-Loup entrer dans une soirée où j'étais, il avait des redressements de sa tête si joyeusement et si fièrement huppée sous l'aigrette d'or de ses cheveux un peu déplumés, des mouvements de cou tellement plus souples, plus fiers et plus coquets que n'en ont les humains, que devant la curiosité et l'admiration moitié mondaine, moitié zoologique qu'il vous inspirait, on se demandait si c'était dans le faubourg Saint-Germain qu'on se trouvait ou au Jardin des Plantes et si on regardait un grand seigneur traverser un salon, ou se promener dans sa cage un merveilleux oiseau. Pour peu qu'on y mît un peu d'imagination, le ramage ne se prêtait pas moins à cette interprétation que le plumage. Il disait ce qu'il croyait grand siècle et par là imitait les manières des Guermantes. Mais un rien d'indéfinissable faisait qu'elles devenaient les manières de M. de Charlus. « Je te quitte un instant, me dit-il, dans cette soirée où Mme de Marsantes était un peu plus loin. Je vais faire un doigt de cour à ma nièce. » Quant à cet amour dont il me parlait sans cesse, il n'était pas d'ailleurs que celui pour Charlie, bien que ce fût le seul qui comptât pour lui. Quel que soit le genre d'amours d'un homme, on se trompe toujours sur le nombre des personnes avec qui il a des liaisons, parce qu'on interprète faussement des amitiés comme des liaisons, ce qui est une erreur par addition, mais aussi parce qu'on croit qu'une liaison prouvée en exclut une autre, ce qui est un autre genre d'erreur. Deux personnes peuvent dire : « la maîtresse de X..., je la connais », prononcer deux noms différents et ne se tromper ni l'une ni l'autre. Une femme qu'on aime suffit rarement à tous nos besoins et on la trompe avec une femme qu'on n'aime pas. Quant au genre d'amours que Saint-Loup avait hérité de M. de Charlus, un mari qui y est enclin fait habituellement le bonheur de sa femme. C'est une loi générale à laquelle les Guermantes trouvaient le moyen de faire exception parce que ceux qui avaient ce goût voulaient faire croire qu'ils avaient, au contraire, celui des femmes. Ils s'affichaient avec l'une ou l'autre et désespéraient la leur. Les Courvoisier en usaient plus sagement. Le jeune vicomte de Courvoisier se croyait seul sur la terre, et depuis l'origine du monde, à être tenté par quelqu'un de son sexe. Supposant que ce penchant lui venait du diable, il lutta contre lui, épousa une femme ravissante, lui fit des enfants... Puis un de ses cousins lui enseigna que ce penchant est assez répandu, poussa la bonté jusqu'à le mener dans des lieux où il pouvait le satisfaire. M. de Courvoisier n'en aima que plus sa femme, redoubla de zèle prolifique et elle et lui étaient cités comme le meilleur ménage de Paris. On n'en disait point autant de celui de SaintLoup parce que Robert au lieu de se contenter de l'inversion, faisait mourir sa femme de jalousie en cherchant sans plaisir des maîtresses ! 
Il est possible que Morel, étant excessivement noir, fût nécessaire à Saint-Loup comme l'ombre l'est au rayon de soleil. On imagine très bien dans cette famille si ancienne un grand seigneur blond, doré, intelligent, doué de tous les prestiges et recelant à fond de cale un goût secret, ignoré de tous, pour les nègres. Robert, d'ailleurs, ne laissait jamais la conversation toucher à ce genre d'amours qui était le sien. Si je disais un mot : « Oh ! je ne sais pas, répondait-il avec un détachement si profond qu'il en laissait tomber son monocle, je n'ai pas soupçon de ces choses-là. Si tu désires des renseignements là-dessus, mon cher, je te conseille de t'adresser ailleurs. Moi, je suis un soldat, un point c'est tout. Autant ces choses-là m'indiffèrent, autant je suis avec passion la guerre balkanique. Autrefois cela t'intéressait, l'histoire des batailles. Je te disais alors qu'on reverrait, même dans les conditions les plus différentes, les batailles typiques, par exemple le grand essai d'enveloppement par l'aile de la bataille d'Ulm. Eh bien ! si spéciales que soient ces guerres balkaniques, Lullé-Burgas c'est encore Ulm, l'enveloppement par l'aile. Voilà les sujets dont tu peux me parler. Mais pour le genre de choses auxquelles tu fais allusion, je m'y connais autant qu'en sanscrit. » Ces sujets que Robert dédaignait ainsi, Gilberte, au contraire, quand il était reparti, les abordait volontiers en causant avec moi. Non, certes, relativement à son mari car elle ignorait, ou feignait d'ignorer tout. Mais elle s'étendait volontiers sur eux en tant qu'ils concernaient les autres, soit qu'elle y vît une sorte d'excuse indirecte pour
Robert, soit que celui-ci, partagé comme son oncle entre un silence sévère à l'égard de ces sujets et un besoin de s'épancher et de médire, l'eût instruite pour beaucoup. Entre tous, M. de Charlus n'était pas épargné ; c'était sans doute que Robert, sans parler de Morel à Gilberte, ne pouvait s'empêcher, avec elle, de lui répéter, sous une forme ou sous une autre, ce que le violoniste lui avait appris. Et il poursuivait son ancien bienfaiteur de sa haine. Ces conversations, que Gilberte affectionnait, me permirent de lui demander si, dans un genre parallèle, Albertine, dont c'est par elle que j'avais entendu la première fois le nom, quand jadis elles étaient amies de cours, avait de ces goûts. Gilberte refusa de me donner ce renseignement. Au reste, il y avait longtemps qu'il eût cessé d'offrir quelque intérêt pour moi. Mais je continuais à m'en enquérir machinalement, comme un vieillard qui, ayant perdu la mémoire, demande de temps à autre des nouvelles du fils qu'il a perdu. 
Un autre jour je revins à la charge et demandai encore à 
Gilberte si Albertine aimait les femmes. « Oh ! pas du tout. – Mais vous disiez autrefois qu'elle avait mauvais genre. – J'ai dit cela, moi ? vous devez vous tromper. En tout cas si je l'ai dit – mais vous faites erreur – je parlais au contraire d'amourettes avec des jeunes gens. À cet âge-là, du reste, cela n'allait probablement pas bien loin. » 
Gilberte disait-elle cela pour me cacher qu'elle-même, selon ce qu'Albertine m'avait dit, aimait les femmes et avait fait à Albertine des propositions ? Ou bien (car les autres sont souvent plus renseignés sur notre vie que nous ne croyons) savait-elle que j'avais aimé, que j'avais été jaloux d'Albertine et (les autres pouvant savoir plus de vérité que nous ne croyons, mais l'étendre aussi trop loin et être dans l'erreur par des suppositions excessives, alors que nous les avions espérés dans l'erreur par l'absence de toute supposition) s'imaginaitelle que je l'étais encore et me mettait-elle sur les yeux, par bonté, ce bandeau qu'on a toujours tout prêt pour les jaloux ? En tout cas, les paroles de Gilberte, depuis « le mauvais genre » d'autrefois jusqu'au certificat de bonne vie et mœurs d'aujourd'hui, suivaient une marche inverse des affirmations d'Albertine qui avait fini presque par avouer des demirapports avec Gilberte. Albertine m'avait étonné en cela comme sur ce que m'avait dit Andrée, car pour toute cette petite bande, si j'avais d'abord cru, avant de la connaître, à sa perversité, je m'étais rendu compte de mes fausses suppositions, comme il arrive si souvent quand on trouve une honnête fille et presque ignorante des réalités de l'amour dans le milieu qu'on avait cru à tort le plus dépravé. Puis j'avais refait le chemin en sens contraire, reprenant pour vraies mes suppositions du début. Mais peut-être Albertine avait-elle voulu me dire cela pour avoir l'air plus expérimentée qu'elle n'était et pour m'éblouir, à Paris, du prestige de sa perversité comme la première fois, à Balbec, par celui de sa vertu. Et tout simplement, quand je lui avais parlé des femmes qui aimaient les femmes, pour ne pas avoir l'air de ne pas savoir ce que c'était, comme dans une conversation on prend un air entendu si on parle de Fourier ou de Tobolsk encore qu'on ne sache pas ce que c'est. Elle avait peut-être vécu près de l'amie de Mlle Vinteuil et d'Andrée, séparée par une cloison étanche d'elles qui croyaient qu'elle n'en était pas, ne s'était renseignée ensuite – comme une femme qui épouse un homme de lettres cherche à se cultiver – qu'afin de me complaire en se faisant capable de répondre à mes questions, jusqu'au jour où elle avait compris qu'elles étaient inspirées par la jalousie et où elle avait fait machine en arrière, à moins que ce ne fût Gilberte qui me mentît. L'idée me vint que c'était pour avoir appris d'elle, au cours d'un flirt qu'il aurait conduit dans le sens qui l'intéressait, qu'elle ne détestait pas les femmes, que Robert l'avait épousée, espérant des plaisirs qu'il n'avait pas dû trouver chez lui puisqu'il les prenait ailleurs. Aucune de ces hypothèses n'était absurde, car chez des femmes comme la fille d'Odette ou les jeunes filles de la petite bande il y a une telle diversité, un tel cumul de goûts alternants, si même ils ne sont pas simultanés, qu'elles passent aisément d'une liaison avec une femme à un grand amour pour un homme, si bien que définir le goût réel et dominant reste difficile. C'est ainsi qu'Albertine avait cherché à me plaire pour me décider à l'épouser, mais elle y avait renoncé elle-même à cause de mon caractère indécis et tracassier. C'était, en effet, sous cette forme trop simple que je jugeais mon aventure avec Albertine, maintenant que je ne voyais plus cette aventure que du dehors. 
Ce qui est curieux et ce sur quoi je ne puis m'étendre, c'est à quel point, vers cette époque-là, toutes les personnes qu'avait aimées Albertine, toutes celles qui auraient pu lui faire faire ce qu'elles auraient voulu, demandèrent, implorèrent, j'oserai dire mendièrent, à défaut de mon amitié, quelques relations avec moi. Il n'y aurait plus eu besoin d'offrir de l'argent à Mme Bontemps pour qu'elle me renvoyât Albertine. Ce retour de la vie, se produisant quand il ne servait plus à rien, m'attristait profondément, non à cause d'Albertine, que j'eusse reçue sans plaisir si elle m'eût été ramenée, non plus de Touraine mais de l'autre monde, mais à cause d'une jeune femme que j'aimais et que je ne pouvais arriver à voir. Je me disais que si elle mourait, ou si je ne l'aimais plus, tous ceux qui eussent pu me rapprocher d'elle tomberaient à mes pieds. En attendant, j'essayais en vain d'agir sur eux, n'étant pas guéri par l'expérience, qui aurait dû m'apprendre – si elle apprenait jamais rien – qu'aimer est un mauvais sort comme ceux qu'il y a dans les contes contre quoi on ne peut rien jusqu'à ce que l'enchantement ait cessé. 
– Justement, reprit Gilberte, le livre que je tiens parle de ces choses. C'est un vieux Balzac que je pioche pour me mettre à la hauteur de mes oncles, la Fille aux yeux d'Or. Mais c'est absurde, invraisemblable, un beau cauchemar. D'ailleurs, une femme peut, peut-être, être surveillée ainsi par une autre femme, jamais par un homme. – Vous vous trompez, j'ai connu une femme qu'un homme qui l'aimait était arrivé véritablement à séquestrer ; elle ne pouvait jamais voir personne et sortait seulement avec des serviteurs dévoués. – Hé bien, cela devrait vous faire horreur à vous qui êtes si bon. Justement nous disions avec Robert que vous devriez vous marier. Votre femme vous guérirait et vous feriez son bonheur. – Non, parce que j'ai trop mauvais caractère. – Quelle idée ! – Je vous assure ! J'ai, du reste, été fiancé, mais je n'ai pas pu. 
Je ne voulus pas emprunter à Gilberte la Fille aux yeux d'Or puisqu'elle le lisait. Mais elle me prêta, le dernier soir que je passai chez elle, un livre qui me produisit une impression assez vive et mêlée. C'était un volume du journal inédit des Goncourt. 
J'étais triste, ce dernier soir, en remontant dans ma chambre, de penser que je n'avais pas été une seule fois revoir l'église de Combray qui semblait m'attendre au milieu des verdures dans une fenêtre toute violacée. Je me disais : « Tant pis, ce sera pour une autre année si je ne meurs pas d'ici là », ne voyant pas d'autre obstacle que ma mort et n'imaginant pas celle de l'église qui me semblait devoir durer longtemps après ma mort comme elle avait duré longtemps avant ma naissance. 
Quand, avant d'éteindre ma bougie, je lus le passage que je transcris plus bas, mon absence de disposition pour les lettres, pressentie jadis du côté de Guermantes, confirmée durant ce séjour dont c'était le dernier soir – ce soir des veilles de départ où, l'engourdissement des habitudes qui vont finir cessant, on essaie de se juger – me parut quelque chose de moins regrettable, comme si la littérature ne révélait pas de vérité profonde, et en même temps il me semblait triste que la littérature ne fût pas ce que j'avais cru. D'autre part, moins regrettable me semblait l'état maladif qui allait me confiner dans une maison de santé, si les belles choses dont parlent les livres n'étaient pas plus belles que ce que j'avais vu. Mais par une contradiction bizarre, maintenant que ce livre en parlait, j'avais envie de les voir. Voici les pages que je lus jusqu'à ce que la fatigue me fermât les yeux : 
« Avant-hier tombe ici, pour m'emmener dîner chez lui, Verdurin, l'ancien critique de la Revue, l'auteur de ce livre sur Whistler où vraiment le faire, le coloriage artiste de l'original Américain est souvent rendu avec une grande délicatesse par l'amoureux de tous les raffinements, de toutes les joliesses de la chose peinte qu'est Verdurin. Et tandis que je m'habille pour le suivre, c'est, de sa part, tout un récit où il y a, par moments, comme l'épellement apeuré d'une confession sur le renoncement à écrire aussitôt après son mariage avec la « Madeleine » de Fromentin, renoncement qui serait dû à l'habitude de la morphine et aurait eu cet effet, au dire de Verdurin, que la plupart des habitués du salon de sa femme, ne sachant même pas que le mari eût jamais écrit, lui parlaient de Charles Blanc, de Saint-Victor, de Sainte-Beuve, de Burty, comme d'individus auxquels ils le croyaient, lui, tout à fait inférieur. « Voyons, vous Goncourt, vous savez bien, et Gautier le savait aussi, que mes salons étaient autre chose que ces piteux Maîtres d'autrefois crus un chef-d'œuvre dans la famille de ma femme. » Puis, par un crépuscule où il y a près des tours du Trocadéro comme le dernier allumement d'une lueur qui en fait des tours absolument pareilles aux tours enduites de gelée de groseille des anciens pâtissiers, la causerie continue dans la voiture qui doit nous conduire quai Conti où est leur hôtel, que son possesseur prétend être l'ancien hôtel des Ambassadeurs de Venise et où il y aurait un fumoir dont Verdurin me parle comme d'une salle transportée telle quelle, à la façon des Mille et une Nuits, d'un célèbre palazzo, dont j'oublie le nom, palazzo à la margelle du puits représentant un couronnement de la Vierge que Verdurin soutient être absolument du plus beau Sansovino et qui servirait, pour leurs invités, à jeter la cendre de leurs cigares. Et ma foi, quand nous arrivons, dans le glauque et le diffus d'un clair de lune vraiment semblable à ceux dont la peinture classique abrite Venise, et sur lequel la coupole silhouettée de l'Institut fait penser à la Salute dans les tableaux de Guardi, j'ai un peu l'illusion d'être au bord du Grand Canal. L'illusion est entretenue par la construction de l'hôtel où du premier étage on ne voit pas le quai et par le dire évocateur du maître de maison affirmant que le nom de la rue du Bac – du diable si j'y avais jamais pensé – viendrait du bac sur lequel des religieuses d'autrefois, les Miramiones, se rendaient aux offices de Notre-Dame. Tout un quartier où a flâné mon enfance quand ma tante de Courmont l'habitait, et que je me prends à « raimer » en retrouvant, presque contiguë à l'hôtel des Verdurin, l'enseigne du « Petit Dunkerque », une des rares boutiques survivant ailleurs que vignettées dans le crayonnage et les frottis de Gabriel de SaintAubin, où le XVIIIe siècle curieux venait asseoir ses moments d'oisiveté pour le marchandage des jolités françaises et étrangères et « tout ce que les arts produisent de plus nouveau », comme dit une facture de ce Petit Dunkerque, facture dont nous sommes seuls, je crois, Verdurin et moi, à posséder une épreuve et qui est bien un des volants chefsd'œuvre de papier ornementé sur lequel le règne de Louis XV faisait ses comptes, avec son en-tête représentant une mer toute vagueuse, chargée de vaisseaux, une mer aux vagues ayant l'air d'une illustration de l'Édition des Fermiers Généraux de l'Huître et des Plaideurs. La maîtresse de la maison, qui va me placer à côté d'elle, me dit aimablement avoir fleuri sa table rien qu'avec des chrysanthèmes japonais, mais des chrysanthèmes disposés en des vases qui seraient de rarissimes chefs-d'œuvre, l'un entre autres, fait de bronze, sur lequel des pétales en cuivre rougeâtre sembleraient être la vivante effeuillaison de la fleur. Il y a là Cottard, le docteur et sa femme, le sculpteur polonais Viradobetski, Swann le collectionneur, une grande dame russe, une princesse au nom en or qui m'échappe, et Cottard me souffle à l'oreille que c'est elle qui aurait tiré à bout portant sur l'archiduc Rodolphe et d'après qui j'aurais en Galicie et dans tout le nord de la Pologne une situation absolument exceptionnelle, une jeune fille ne consentant jamais à promettre sa main sans savoir si son fiancé est un admirateur de la Faustin. 
« Vous ne pouvez pas comprendre cela, vous autres Occidentaux – jette en manière de conclusion la princesse, qui me fait l'effet, ma foi, d'une intelligence tout à fait supérieure  – cette pénétration par un écrivain de l'intimité de la femme. » Un homme au menton et aux lèvres rasés, aux favoris de maître d'hôtel, débitant sur un ton de condescendance des plaisanteries de professeur de seconde qui fraye avec les premiers de sa classe pour la SaintCharlemagne, et c'est Brichot, l'universitaire. À mon nom prononcé par Verdurin, il n'a pas une parole qui marque qu'il connaisse nos livres, et c'est en moi un découragement colère éveillé par cette conspiration qu'organise contre nous la Sorbonne, apportant, jusque dans l'aimable logis où je suis fêté, la contradiction, l'hostilité d'un silence voulu. Nous passons à table et c'est alors un extraordinaire défilé d'assiettes qui sont tout bonnement des chefs-d'œuvre de l'art du porcelainier, celui dont, pendant un repas délicat, l'attention chatouillée d'un amateur écoute le plus complaisamment le bavardage artiste – des assiettes de Yung-Tsching à la couleur capucine de leurs rebords, au bleuâtre, à l'effeuillé turgide de leurs iris d'eau, à la traversée, vraiment décoratoire, par l'aurore d'un vol de martinspêcheurs et de grues, aurore ayant tout à fait ces tons matutinaux qu'entre-regarde quotidiennement, boulevard Montmorency, mon réveil – des assiettes de Saxe plus mièvres dans le gracieux de leur faire, à l'endormement, à l'anémie de leurs roses tournées au violet, au déchiquetage lie-de-vin d'une tulipe, au rococo d'un œillet ou d'un myosotis – des assiettes de Sèvres engrillagées par le fin guillochis de leurs cannelures blanches, verticillées d'or, ou que noue, sur l'à-plat crémeux de la pâte, le galant relief d'un ruban d'or – enfin toute une argenterie où courent ces myrtes de Luciennes que reconnaîtrait la Dubarry. Et ce qui est peut-être aussi rare, c'est la qualité vraiment tout à fait remarquable des choses qui sont servies là dedans, un manger finement mijoté, tout un fricoté comme les   Parisiens, il faut le dire bien haut, n'en ont jamais dans les plus grands dîners, et qui me rappelle certains cordons bleus de Jean d'Heurs. Même le foie gras n'a aucun rapport avec la fade mousse qu'on sert habituellement sous ce nom, et je ne sais pas beaucoup d'endroits où la simple salade de pommes de terre est faite ainsi de pommes de terre ayant la fermeté de boutons d'ivoire japonais, le patiné de ces petites cuillers d'ivoire avec lesquelles les Chinoises versent l'eau sur le poisson qu'elles viennent de pêcher. Dans le verre de Venise que j'ai devant moi, une riche bijouterie de rouges est mise par un extraordinaire Léoville acheté à la vente de M. Montalivet et c'est un amusement pour l'imagination de l'œil et aussi, je ne crains pas de le dire, pour l'imagination de ce qu'on appelait autrefois la gueule, de voir apporter une barbue qui n'a rien des barbues pas fraîches qu'on sert sur les tables les plus luxueuses et qui ont pris dans les retards du voyage le modelage sur leur dos de leurs arêtes ; une barbue qu'on sert non avec la colle à pâte que préparent, sous le nom de sauce blanche, tant de chefs de grande maison, mais avec de la véritable sauce blanche, faite avec du beurre à cinq francs la livre ; de voir apporter cette barbue dans un merveilleux plat Tching-Hon traversé par les pourpres rayages d'un coucher de soleil sur une mer où passe la navigation drolatique d'une bande de langoustes, au pointillis grumeleux si extraordinairement rendu qu'elles semblent avoir été moulées sur des carapaces vivantes, plat dont le marli est fait de la pêche à la ligne par un petit Chinois d'un poisson qui est un enchantement de nacreuse couleur par l'argentement azuré de son ventre. Comme je dis à Verdurin le délicat plaisir que ce doit être pour lui que cette raffinée mangeaille dans cette collection comme aucun prince n'en possède à l'heure actuelle derrière ses vitrines : « On voit bien que vous ne le connaissez pas », me jette mélancoliquement la maîtresse de maison, et elle me parle de son mari comme d'un original maniaque, indifférent à toutes ces jolités, « un maniaque, répète-t-elle, oui, absolument cela, un maniaque qui aurait plutôt l'appétit d'une bouteille de cidre, bue dans la fraîcheur un peu encanaillée d'une ferme normande ». Et la charmante femme à la parole vraiment amoureuse des colorations d'une contrée nous parle avec un enthousiasme débordant de cette Normandie qu'ils ont habitée, une Normandie qui serait un immense parc anglais, à la fragrance de ses hautes futaies à la Lawrence, au velours cryptomeria, dans leur bordure porcelainée d'hortensias roses, de ses pelouses naturelles, au chiffonnage de roses soufre dont la retombée sur une porte de paysans, où l'incrustation de deux poiriers enlacés simule une enseigne tout à fait ornementale, fait penser à la libre retombée d'une branche fleurie dans le bronze d'une applique de Gouthière, une Normandie qui serait absolument insoupçonnée des Parisiens en vacances et que protège la barrière de chacun de ses clos, barrières que les Verdurin me confessent ne pas s'être fait faute de lever toutes. À la fin du jour, dans un éteignement sommeilleux de toutes les couleurs où la lumière ne serait plus donnée que par une mer presque caillée ayant le bleuâtre du petit lait – mais non, rien de la mer que vous connaissez, proteste ma voisine frénétiquement, en réponse à mon dire que Flaubert nous avait menés, mon frère et moi, à Trouville, rien, absolument rien, il faudra venir avec moi, sans cela vous ne saurez jamais – ils rentraient, à travers les vraies forêts en fleurs de tulle rose que faisaient les rhododendrons, tout à fait grisés par l'odeur des jardineries qui donnaient au mari d'abominables crises d'asthme – oui,  insista-t-elle, c'est cela, de vraies crises d'asthme. » 
« Là-dessus, l'été suivant, ils revenaient, logeant toute une colonie d'artistes dans une admirable habitation moyenâgeuse que leur faisait un cloître ancien loué par eux, pour rien. Et, ma foi, en entendant cette femme qui, en passant par tant de milieux vraiment distingués, a gardé pourtant dans sa parole un peu de la verdeur de la parole d'une femme du peuple, une parole qui vous montre les choses avec la couleur que votre imagination y voit, l'eau me vient à la bouche de la vie qu'elle me confesse avoir menée là-bas, chacun travaillant dans sa cellule, et où, dans le salon, si vaste qu'il possédait deux cheminées, tout le monde venait avant le déjeuner pour des causeries tout à fait supérieures, mêlées de petits jeux, me refaisant penser à celles qu'évoque ce chef-d'œuvre de Diderot, les lettres à Mademoiselle Volland. Puis, après le déjeuner, tout le monde sortait, même les jours de grains dans le coup de soleil, le rayonnement d'une ondée lignant de son filtrage lumineux les nodosités d'un magnifique départ de hêtres centenaires qui mettaient devant la grille le beau végétal affectionné par le XVIIIe siècle, et d'arbustes ayant pour boutons fleurissants dans la suspension de leurs rameaux des gouttes de pluie. On s'arrêtait pour écouter le délicat barbotis, énamouré de fraîcheur, d'un bouvreuil se baignant dans la mignonne baignoire minuscule de nymphembourg qu'est la corolle d'une rose blanche. Et comme je parle à Mme Verdurin des paysages et des fleurs de là-bas délicatement pastellisés par Elstir : « Mais c'est moi qui lui ai fait connaître tout cela, jettet-elle avec un redressement colère de la tête, tout vous entendez bien, tout, les coins curieux, tous les motifs, je le lui ai jeté à la face quand il nous a quittés, n'est-ce pas, Auguste ? tous les motifs qu'il a peints. Les objets, il les a toujours connus, cela il faut être juste, il faut le reconnaître. Mais les fleurs, il n'en avait jamais vu, il ne savait pas distinguer un althéa d'une passe-rose. C'est moi qui lui ai appris à reconnaître, vous n'allez pas me croire, à reconnaître le jasmin. » Et il faut avouer qu'il y a quelque chose de curieux à penser que le peintre des fleurs que les amateurs d'art nous citent aujourd'hui comme le premier, comme supérieur même à Fantin-Latour, n'aurait peut-être jamais, sans la femme qui est là, su peindre un jasmin. « Oui, ma parole, le jasmin ; toutes les roses qu'il a faites, c'est chez moi ou bien c'est moi qui les lui apportais. On ne l'appelait chez nous que Monsieur Tiche. Demandez à Cottard, à Brichot, à tous les autres, si on le traitait ici en grand homme. Luimême en aurait ri. Je lui apprenais à disposer ses fleurs ; au commencement il ne pouvait pas en venir à bout. Il n'a jamais su faire un bouquet. Il n'avait pas de goût naturel pour choisir, il fallait que je lui dise : « Non, ne peignez pas cela, cela n'en vaut pas la peine, peignez ceci. » Ah ! s'il nous avait écoutés aussi pour l'arrangement de sa vie comme pour l'arrangement de ses fleurs et s'il n'avait pas fait ce sale mariage ! » Et brusquement, les yeux enfiévrés par l'absorption d'une rêverie tournée vers le passé, avec le nerveux taquinage, dans l'allongement maniaque de ses phalanges, du floche des manches de son corsage, c'est, dans le contournement de sa pose endolorie, comme un admirable tableau qui n'a, je crois, jamais été peint, et où se liraient toute la révolte contenue, toutes les susceptibilités rageuses d'une amie outragée dans les délicatesses, dans la pudeur de la femme. Là-dessus elle nous parle de l'admirable portrait qu'Elstir a fait pour elle, le portrait de la famille Collard, portrait donné par elle au Luxembourg au moment de sa brouille avec le peintre, confessant que c'est elle qui a donné au peintre l'idée de faire l'homme en habit pour obtenir tout ce beau bouillonnement du linge et qui a choisi la robe de velours de la femme, robe faisant un appui au milieu de tout le papillotage des nuances claires des tapis, des fleurs, des fruits, des robes de gaze des fillettes pareilles à des tutus de danseuses. Ce serait elle aussi qui aurait donné l'idée de ce coiffage, idée dont on a fait ensuite honneur à l'artiste, idée qui consistait, en somme, à peindre la femme, non pas en représentation mais surprise dans l'intime de sa vie de tous les jours. « Je lui disais : Mais dans la femme qui se coiffe, qui s'essuie la figure, qui se chauffe les pieds, quand elle ne croit pas être vue, il y a un tas de mouvements intéressants, des mouvements d'une grâce tout à fait léonardesque ! » Mais sur un signe de Verdurin indiquant le réveil de ces indignations comme malsain pour la grande nerveuse que serait au fond sa femme, Swann me fait admirer le collier de perles noires porté par la maîtresse de la maison et achetées par elle, toutes blanches, à la vente d'un descendant de Mme de La Fayette à qui elles auraient été données par Henriette d'Angleterre, perles devenues noires à la suite d'un incendie qui détruisit une partie de la maison que les Verdurin habitaient dans une rue dont je ne me rappelle plus le nom, incendie après lequel fut retrouvé le coffret où étaient ces perles, mais devenues entièrement noires. « Et je connais le portrait de ces perles, aux épaules mêmes de Mme de La Fayette, oui, parfaitement, leur portrait, insista Swann devant les exclamations des convives un brin ébahis, leur portrait authentique, dans la collection du duc de Guermantes. » Une collection qui n'a pas son égale au monde, proclame-t-il, et que je devrais aller voir, une collection héritée par le célèbre duc, qui était son neveu préféré, de Mme de Beausergent sa tante, de Mme de Beausergent depuis Mme d'Hayfeld, la sœur de la marquise de Villeparisis et de la princesse de Hanovre. Mon frère et moi nous l'avons tant aimé autrefois sous les traits du charmant bambin appelé Basin, qui est bien en effet le prénom du duc. Là-dessus, le docteur Cottard, avec une finesse qui décèle chez lui l'homme tout à fait distingué, ressaute à l'histoire des perles et nous apprend que des catastrophes de ce genre produisent dans le cerveau des gens des altérations tout à fait pareilles à celles qu'on remarque dans la matière inanimée et cite d'une façon vraiment plus philosophique que ne feraient bien des médecins le propre valet de chambre de Mme Verdurin qui, dans l'épouvante de cet incendie où il avait failli périr, était devenu un autre homme, ayant une écriture tellement changée qu'à la première lettre que ses maîtres, alors en Normandie, reçurent de lui leur annonçant l'événement, ils crurent à la mystification d'un farceur. Et pas seulement une autre écriture, selon Cottard, qui prétend que de sobre cet homme était devenu si abominablement pochard que Mme Verdurin avait été obligée de le renvoyer. Et la suggestive dissertation passa, sur un signe gracieux de la maîtresse de maison, de la salle à manger au fumoir vénitien dans lequel Cottard me dit avoir assisté à de véritables dédoublements de la personnalité, nous citant le cas d'un de ses malades, qu'il s'offre aimablement à m'amener chez moi et à qui il suffisait qu'il touchât les tempes pour l'éveiller à une seconde vie, vie pendant laquelle il ne se rappelait rien de la première, si bien que, très honnête homme dans celle-là, il y aurait été plusieurs fois arrêté pour des vols commis dans l'autre où il serait tout simplement un abominable gredin. Sur quoi Mme Verdurin remarque finement que la médecine pourrait fournir des sujets plus vrais à un théâtre où la cocasserie de l'imbroglio reposerait sur des méprises pathologiques, ce qui, de fil en aiguille, amène Mme Cottard à narrer qu'une donnée toute semblable a été mise en œuvre par un amateur qui est le favori des soirées de ses enfants, l'Écossais Stevenson, un nom qui met dans la bouche de Swann cette affirmation péremptoire : « Mais c'est tout à fait un grand écrivain, Stevenson, je vous assure, M. de Goncourt, un très grand, l'égal des plus grands. » Et comme, sur mon émerveillement des plafonds à caissons écussonnés provenant de l'ancien palazzo Barberini, de la salle où nous fumons, je laisse percer mon regret du noircissement progressif d'une certaine vasque par la cendre de nos « londrès », Swann, ayant raconté que des taches pareilles attestent sur les livres ayant appartenu à Napoléon Ier, livres possédés, malgré ses opinions antibonapartistes, par le duc de Guermantes, que l'empereur chiquait, Cottard, qui se révèle un curieux vraiment pénétrant en toutes choses, déclare que ces taches ne viennent pas du tout de cela – mais là, pas du tout, insiste-t-il avec autorité – mais de l'habitude qu'il avait d'avoir toujours dans la main, même sur les champs de bataille, des pastilles de réglisse, pour calmer ses douleurs de foie. « Car il avait une maladie de foie et c'est de cela qu'il est mort, conclut le docteur. » 
Je m'arrêtai là, car je partais le lendemain et, d'ailleurs, c'était l'heure où me réclamait l'autre maître au service de qui nous sommes chaque jour, pour une moitié de notre temps. La tâche à laquelle il nous astreint, nous l'accomplissons les yeux fermés. Tous les matins il nous rend à notre autre maître, sachant que sans cela nous nous livrerions mal à la sienne. Curieux, quand notre esprit a rouvert ses yeux, de savoir ce que nous avons bien pu faire chez le maître qui étend ses esclaves avant de les mettre à une besogne précipitée, les plus malins, à peine la tâche finie, tâchent de subrepticement regarder. Mais le sommeil lutte avec eux de vitesse pour faire disparaître les traces de ce qu'ils voudraient voir. Et depuis tant de siècles, nous ne savons pas grand'chose là-dessus. – Je fermai donc le journal des Goncourt. Prestige de la littérature ! J'aurais voulu revoir les Cottard, leur demander tant de détails sur Elstir, aller voir la boutique du Petit Dunkerque si elle existait encore, demander la permission de visiter cet hôtel des Verdurin où j'avais dîné. Mais j'éprouvais un vague trouble. Certes, je ne m'étais jamais dissimulé que je ne savais pas écouter ni, dès que je n'étais plus seul, regarder ; une vieille femme ne montrait à mes yeux aucune espèce de collier de perles et ce qu'on en disait n'entrait pas dans mes oreilles. Tout de même, ces êtres-là, je les avais connus dans la vie quotidienne, j'avais souvent dîné avec eux, c'étaient les Verdurin, c'était le duc de Guermantes, c'étaient les Cottard, chacun d'eux m'avait paru aussi commun qu'à ma grand'mère ce Basin dont elle ne se doutait guère qu'il était le neveu chéri, le jeune héros délicieux, de Mme de Beausergent, chacun d'eux m'avait semblé insipide ; je me rappelais les vulgarités sans nombre dont chacun était composé... « Et que tout cela fît un astre dans la nuit ! ! ! » 
Je résolus de laisser provisoirement de côté les objections qu'avaient pu faire naître en moi contre la littérature ces pages des Goncourt. Même en mettant de côté l'indice individuel de naïveté qui est frappant chez le mémorialiste, je pouvais d'ailleurs me rassurer à divers points de vue. D'abord, en ce qui me concernait personnellement, mon incapacité de regarder et d'écouter, que le journal cité avait si péniblement illustrée pour moi, n'était pourtant pas totale. Il y avait en moi un personnage qui savait plus ou moins bien regarder, mais c'était un personnage intermittent, ne reprenant vie que quand se manifestait quelque essence générale, commune à plusieurs choses, qui faisait sa nourriture et sa joie. Alors le personnage regardait et écoutait, mais à une certaine profondeur seulement, de sorte que l'observation n'en profitait pas. Comme un géomètre qui, dépouillant les choses de leurs qualités sensibles, ne voit que leur substratum linéaire, ce que racontaient les gens m'échappait, car ce qui m'intéressait, c'était non ce qu'ils voulaient dire, mais la manière dont ils le disaient, en tant qu'elle était révélatrice de leur caractère ou de leurs ridicules ; ou plutôt c'était un objet qui avait toujours été plus particulièrement le but de ma recherche parce qu'il me donnait un plaisir spécifique, le point qui était commun à un être et à un autre. Ce n'était que quand je l'apercevais que mon esprit – jusque-là sommeillant, même derrière l'activité apparente de ma conversation, dont l'animation masquait pour les autres un total engourdissement spirituel – se mettait tout à coup joyeusement en chasse, mais ce qu'il poursuivait alors – par exemple l'identité du salon Verdurin dans divers lieux et divers temps – était situé à miprofondeur, au delà de l'apparence elle-même, dans une zone un peu plus en retrait. Aussi le charme apparent, copiable, des êtres m'échappait parce que je n'avais plus la faculté de m'arrêter à lui, comme le chirurgien qui, sous le poli d'un ventre de femme, verrait le mal interne qui le ronge. J'avais beau dîner en ville, je ne voyais pas les convives, parce que quand je croyais les regarder je les radiographiais. Il en résultait qu'en réunissant toutes les remarques que j'avais pu faire dans un dîner sur les convives, le dessin des lignes tracées par moi figurait un ensemble de lois psychologiques où l'intérêt propre qu'avait eu dans ses discours le convive ne tenait presque aucune place. Mais cela enlevait-il tout mérite à mes portraits puisque je ne les donnais pas pour tels ? Si l'un de ces portraits, dans le domaine de la peinture, met en évidence certaines vérités relatives au volume, à la lumière, au mouvement, cela fait-il qu'il soit nécessairement inférieur à tel portrait ne lui ressemblant aucunement de la même personne, dans lequel mille détails qui sont omis dans le premier seront minutieusement relatés, deuxième portrait d'où l'on pourra conclure que le modèle étaitravissant tandis qu'on l'eût cru laid dans le premier, ce qui peut avoir une importance documentaire et même historique, mais n'est pas nécessairement une vérité d'art. Puis ma frivolité, dès que je n'étais pas seul, me faisait désirer de plaire, plus désireux d'amuser en bavardant que de m'instruire en écoutant, à moins que je ne fusse allé dans le monde pour interroger sur quelque point d'art, ou quelque soupçon jaloux qui m'avait occupé l'esprit avant ! Mais j'étais incapable de voir ce dont le désir n'avait pas été éveillé en moi par quelque lecture, ce dont je n'avais pas d'avance désiré moi-même le croquis que je désirais ensuite confronter avec la réalité. Que de fois, je le savais bien, même si cette page de Goncourt ne me l'eût pas appris, je suis resté incapable d'accorder mon attention à des choses ou à des gens qu'ensuite, une fois que leur image m'avait été présentée dans la solitude par un artiste, j'aurais fait des lieues, risqué la mort pour retrouver. Alors mon imagination était partie, avait commencé à peindre. Et ce devant quoi j'avais bâillé l'année d'avant, je me disais avec angoisse, le contemplant d'avance, le désirant : « Sera-t-il vraiment impossible de le voir ? Que ne donnerais-je pas pour cela ! » Quand on lit des articles sur des gens, même simplement des gens du monde, qualifiés de « derniers représentants d'une société dont il n'existe plus aucun témoin », sans doute on peut s'écrier : « Dire que c'est d'un être si insignifiant qu'on parle avec tant d'abondance et d'éloges ! c'est cela que j'aurais déploré de ne pas avoir connu si je n'avais fait que lire les journaux et les revues, et si je n'avais pas vu « l'homme », mais j'étais plutôt tenté en lisant de telles pages dans les journaux de penser : « Quel malheur – alors que j'étais seulement préoccupé de retrouver Gilberte ou Albertine – que je n'aie pas fait plus attention à ce monsieur, je l'avais pris pour un raseur du monde, pour un simple figurant, c'était une figure ! » Cette disposition-là, les pages de Goncourt que je lus me la firent regretter. Car peutêtre j'aurais pu conclure d'elles que la vie apprend à rabaisser le prix de la lecture, et nous montre que ce que l'écrivain nous vante ne valait pas grand'chose ; mais je pouvais tout aussi bien en conclure que la lecture, au contraire, nous apprend à relever la valeur de la vie, valeur que nous n'avons pas su apprécier et dont nous nous rendons compte seulement par le livre combien elle était grande. À la rigueur, nous pouvons nous consoler de nous être peu plu dans la société d'un Vinteuil, d'un Bergotte, puisque le bourgeoisisme pudibond de l'un, les défauts insupportables de l'autre ne prouvent rien contre eux, puisque leur génie est manifesté par leurs œuvres ; de même la prétentieuse vulgarité d'un Elstir à ses débuts. Ainsi le journal des Goncourt m'avait fait découvrir qu'Elstir n'était autre que le « Monsieur Tiche » qui avait tenu jadis de si exaspérants discours à Swann, chez les Verdurin. Mais quel est l'homme de génie qui n'a pas adopté les irritantes façons de parler des artistes de sa bande, avant d'arriver (comme c'était venu pour Elstir et comme cela arrive rarement) à un bon goût supérieur. Les lettres de Balzac, par exemple, ne sont-elles pas semées de termes vulgaires que Swann eût souffert mille morts d'employer ? Et cependant il est probable que Swann, si fin, si purgé de tout ridicule haïssable, eût été incapable d'écrire la Cousine Bette et le Curé de Tours. Que ce soit donc les Mémoires qui aient tort de donner du charme à leur société alors qu'elle nous a déplu est un problème de peu d'importance, puisque, même si c'est l'écrivain de Mémoires qui se trompe, cela ne prouve rien contre la valeur de la vie qui produit de tels génies et qui n'existait pas moins dans les œuvres de Vinteuil, d'Elstir et de Bergotte.   
Tout à l'autre extrémité de l'expérience, quand je voyais que les plus curieuses anecdotes, qui font la matière inépuisable, divertissement des soirées solitaires pour le lecteur, du journal des Goncourt, lui avaient été contées par ces convives que nous eussions à travers ces pages envié de connaître et qui ne m'avaient pas laissé à moi trace d'un souvenir intéressant, cela n'était pas trop inexplicable encore. Malgré la naïveté de Goncourt, qui concluait de l'intérêt de ces anecdotes à la distinction probable de l'homme qui les contait, il pouvait très bien se faire que des hommes médiocres eussent eu dans leur vie, ou entendu raconter, des choses curieuses et les contassent à leur tour. Goncourt savait écouter, comme il savait voir ; je ne le savais pas. D'ailleurs, tous ces faits auraient eu besoin d'être jugés un à un M. de Guermantes ne m'avait certes pas donné l'impression de cet adorable modèle des grâces juvéniles que ma grand'mère eût tant voulu connaître et me proposait comme modèle inimitable d'après les Mémoires de Mme de Beausergent. Mais il faut songer que Basin avait alors sept ans, que l'écrivain était sa tante, et que même les maris qui doivent divorcer quelques mois après vous font un grand éloge de leur femme. Une des plus jolies poésies de SainteBeuve est consacrée à l'apparition devant une fontaine d'une jeune enfant couronnée de tous les dons et de toutes les grâces, la jeune Mlle de Champlâtreux, qui ne devait pas avoir alors dix ans. Malgré toute la tendre vénération que le poète de génie qu'est la comtesse de Noailles portait à sa belle-mère, la duchesse de Noailles, née Champlâtreux, il est possible, si elle avait eu à en faire le portrait, que celui-ci eût contrasté assez vivement avec celui que Sainte-Beuve en traçait cinquante ans plus tôt.   
Ce qui eût peut-être été plus troublant, c'était l'entre-deux, c'étaient ces gens desquels ce qu'on dit implique, chez eux, plus que la mémoire qui a su retenir une anecdote curieuse, sans que pourtant on ait, comme pour les Vinteuil, les Bergotte, le recours de les juger sur leur œuvre ; ils n'en ont pas créé, ils en ont seulement – à notre grand étonnement à nous qui les trouvions si médiocres – inspiré. Passe encore que le salon qui, dans les musées, donnera la plus grande impression d'élégance, depuis les grandes peintures de la Renaissance, soit celui de la petite bourgeoise ridicule que j'eusse, si je ne l'avais pas connue, rêvé devant le tableau de pouvoir approcher dans la réalité, espérant apprendre d'elle les secrets les plus précieux que l'art du peintre, que sa toile ne me donnaient pas et de qui la pompeuse traîne de velours et de dentelles est un morceau de peinture comparable aux plus beaux du Titien. Si j'avais compris jadis que ce n'est pas le plus spirituel, le plus instruit, le mieux relationné des hommes, mais celui qui sait devenir miroir et peut refléter ainsi sa vie, fût-elle médiocre, qui devient un Bergotte (les contemporains le tinssent-ils pour moins homme d'esprit que Swann et moins savant que Brichot), on peut souvent à plus forte raison en dire autant des modèles de l'artiste. Dans l'éveil de l'amour de la beauté, chez l'artiste, qui peut tout peindre, de l'élégance où il pourra trouver de si beaux motifs, le modèle lui sera fourni par des gens un peu plus riches que lui, chez qui il trouvera ce qu'il n'a pas d'habitude dans son atelier d'homme de génie méconnu qui vend ses toiles cinquante francs, un salon avec des meubles recouverts de vieille soie, beaucoup de lampes, de belles fleurs, de beaux fruits, de belles robes – gens modestes relativement, ou qui le paraîtraient à des gens vraiment brillants (qui ne connaissent même pas leur existence), mais qui, à cause de cela, sont plus à portée de connaître l'artiste obscur, de l'apprécier, de l'inviter, de lui acheter ses toiles, que les gens de l'aristocratie qui se font peindre, comme le Pape et les chefs d'État, par les peintres académiciens. La poésie d'un élégant foyer et des belles toilettes de notre temps ne se trouvera-t-elle pas plutôt, pour la postérité, dans le salon de l'éditeur Charpentier par Renoir que dans le portrait de la princesse de Sagan ou de la comtesse de la Rochefoucauld par Cotte ou Chaplin ? Les artistes qui nous ont donné les plus grandes visions d'élégance en ont recueilli les éléments chez des gens qui étaient rarement les grands élégants de leur époque, lesquels se font rarement peindre par l'inconnu porteur d'une beauté qu'ils ne peuvent pas distinguer sur ses toiles, dissimulée qu'elle est par l'interposition d'un poncif de grâce surannée qui flotte dans l'œil du public comme ces visions subjectives que le malade croit effectivement posées devant lui. Mais que ces modèles médiocres que j'avais connus eussent en outre inspiré, conseillé certains arrangements qui m'avaient enchanté, que la présence de tel d'entre eux dans les tableaux fût plus que celle d'un modèle, mais d'un ami qu'on veut faire figurer dans ses toiles, c'était à se demander si tous les gens que nous regrettons de ne pas avoir connus parce que Balzac les peignait dans ses livres ou les leur dédiait en hommage d'admiration, sur lesquels Sainte-Beuve ou 
Baudelaire firent leurs plus jolis vers, si, à plus forte raison, toutes les Récamier, toutes les Pompadour ne m'eussent pas paru d'insignifiantes personnes, soit par une infirmité de ma nature, ce qui me faisait alors enrager d'être malade et de ne pouvoir retourner voir tous les gens que j'avais méconnus, soit qu'elles ne dussent leur prestige qu'à une magie illusoire de la littérature, ce qui forçait à changer de dictionnaire pour lire et me consolait de devoir d'un jour à l'autre, à cause des progrès que faisait mon état maladif, rompre avec la société, renoncer au voyage, aux musées, pour aller me soigner dans une maison de santé. Peutêtre, pourtant, ce côté mensonger, ce faux-jour n'existet-il dans les Mémoires que quand ils sont trop récents, trop près des réputations, qui plus tard s'anéantiront si vite, aussi bien intellectuelles que mondaines. (Et si l'érudition essaye alors de réagir contre cet ensevelissement, parvient-elle à détruire un sur mille de ces oublis qui vont s'entassant ?)   
Ces idées, tendant, les unes à diminuer, les autres à accroître mon regret de ne pas avoir de dons pour la littérature, ne se présentèrent plus à ma pensée pendant les longues années que je passai à me soigner, loin de Paris, dans une maison de santé où, d'ailleurs, j'avais tout à fait renoncé au projet d'écrire, jusqu'à ce que celle-ci ne pût plus trouver de personnel médical, au commencement de 1916. Je rentrai alors dans un Paris bien différent de celui où j'étais déjà revenu une première fois, comme on le verra tout à l'heure, en août 1914, pour subir une visite médicale, après quoi j'avais rejoint ma maison de santé.       
Chapitre II   
M. de Charlus pendant la guerre ; ses opinions, ses plaisirs    
Un des premiers soirs dès mon nouveau retour à Paris en 1916, ayant envie d'entendre parler de la seule chose qui m'intéressait alors, la guerre, je sortis, après le dîner, pour aller voir Mme Verdurin, car elle était, avec Mme Bontemps, une des reines de ce Paris de la guerre qui faisait penser au Directoire. Comme par l'ensemencement d'une petite quantité de levure, en apparence de génération spontanée, des jeunes femmes allaient tout le jour coiffées de hauts turbans cylindriques comme aurait pu l'être une contemporaine de Mme Tallien. Par civisme, ayant des tuniques égyptiennes droites, sombres, très « guerre », sur des jupes très courtes, elles chaussaient des lanières rappelant le cothurne selon Talma, ou de hautes guêtres rappelant celles de nos chers combattants ; c'est, disaient-elles, parce qu'elles n'oubliaient pas qu'elles devaient réjouir les yeux de ces combattants qu'elles se paraient encore, non seulement de toilettes « floues », mais encore de bijoux évoquant les armées par leur thème décoratif, si même leur matière ne venait pas des armées, n'avait pas été travaillée aux armées ; au lieu d'ornements égyptiens rappelant la campagne d'Égypte, c'étaient des bagues ou des bracelets faits avec des fragments d'obus ou des ceintures de 75, des allumecigarettes composés de deux sous anglais, auxquels un militaire était arrivé à donner, dans sa cagna, une patine si belle que le profil de la reine Victoria y avait l'air tracé par Pisanello ; c'est encore parce qu'elles y pensaient sans cesse, disaient-elles, qu'elles portaient à peine le deuil quand l'un des leurs tombait, sous le prétexte qu'il était « mêlé de fierté », ce qui permettait un bonnet de crêpe anglais blanc (du plus gracieux effet et autorisant tous les espoirs), dans l'invincible certitude du triomphe définitif, et permettait ainsi de remplacer le cachemire d'autrefois par le satin et la mousseline de soie, et même de garder ses perles, « tout en observant le tact et la correction qu'il est inutile de rappeler à des Françaises ».   
Le Louvre, tous les musées étaient fermés, et quand on lisait en tête d'un article de journal : « Une exposition sensationnelle », on pouvait être sûr qu'il s'agissait d'une exposition non de tableaux, mais de robes, de robes destinées, d'ailleurs, à éveiller « ces délicates joies d'art dont les Parisiennes étaient depuis trop longtemps sevrées ». C'est ainsi que l'élégance et le plaisir avaient repris ; l'élégance, à défaut des arts, cherchait à s'excuser comme ceux-ci en 1793, année où les artistes exposant au Salon révolutionnaire proclamaient que ce serait à tort qu'il paraîtrait « étrange à d'austères républicains que nous nous occupions des arts quand l'Europe coalisée assiège le territoire de la liberté ». Ainsi faisaient en 1916 les couturiers qui, d'ailleurs, avec une orgueilleuse conscience d'artistes, avouaient que « chercher du nouveau, s'écarter de la banalité, préparer la victoire, dégager pour les générations d'après la guerre une formule nouvelle du beau, telle était l'ambition qui les tourmentait, la chimère qu'ils poursuivaient, ainsi qu'on pouvait s'en rendre compte en venant visiter leurs salons délicieusement installés rue de la..., où effacer par une note lumineuse et gaie les lourdes tristesses de l'heure semble être le mot d'ordre, avec la discrétion toutefois qu'imposent les circonstances. Les tristesses de l'heure, il est vrai, pourraient avoir raison des énergies féminines si nous n'avions tant de hauts exemples de courage et d'endurance à méditer. Aussi en pensant à nos combattants qui au fond de leur tranchée rêvent de plus de confort et de coquetterie pour la chère absente laissée au foyer, ne cesserons-nous pas d'apporter toujours plus de recherche dans la création de robes répondant aux nécessités du moment. La vogue, cela se conçoit, est surtout aux maisons anglaises, donc alliées, et on raffole cette année de la robe-tonneau dont le joli abandon nous donne à toutes un amusant petit cachet de rare distinction. Ce sera même une des plus heureuses conséquences de cette triste guerre, ajoutait le charmant chroniqueur (en attendant la reprise des provinces perdues, le réveil du sentiment national), ce sera même une des plus heureuses conséquences de cette guerre que d'avoir obtenu de jolis résultats en fait de toilette, sans luxe inconsidéré et de mauvais aloi, avec très peu de chose, d'avoir créé de la coquetterie avec des riens. À la robe du grand couturier éditée à plusieurs exemplaires on préfère en ce moment les robes faites chez soi, parce qu'affirmant l'esprit, le goût et les tendances indiscutables de chacun. » Quant à la charité, en pensant à toutes les misères nées de l'invasion, à tant de mutilés, il était bien naturel qu'elle fût obligée de se faire « plus ingénieuse encore », ce qui obligeait les dames à hauts turbans à passer la fin de l'après-midi dans les thés autour d'une table de bridge, en commentant les nouvelles du « front », tandis qu'à la porte les attendaient leurs automobiles ayant sur le siège un beau militaire qui bavardait avec le chasseur. Ce n'était pas, du reste, seulement les coiffures surmontant les visages de leur étrange cylindre qui étaient nouvelles. Les visages l'étaient aussi. Les dames à nouveaux chapeaux étaient des jeunes femmes venues on ne savait trop d'où et qui étaient la fleur de l'élégance, les unes depuis six mois, les autres depuis deux ans, les autres depuis quatre. Ces différences avaient, d'ailleurs, pour elles autant d'importance qu'au temps où j'avais débuté dans le monde en avaient entre deux familles comme les Guermantes et les La Rochefoucauld trois ou quatre siècles d'ancienneté prouvée. La dame qui connaissait les Guermantes depuis 1914 regardait comme une parvenue celle qu'on présentait chez eux en 1916, lui faisait un bonjour de douairière, la dévisageait de son face-à-main et avouait dans une moue qu'on ne savait même pas au juste si cette dame était ou non mariée. « Tout cela est assez nauséabond », concluait la dame de 1914, qui eût voulu que le cycle des nouvelles admissions s'arrêtât après elle. Ces personnes nouvelles, que les jeunes gens trouvaient fort anciennes, et que d'ailleurs certains vieillards qui n'avaient pas été que dans le grand monde croyaient bien reconnaître pour ne pas être si nouvelles que cela, n'offraient pas seulement à la société les divertissements de conversation politique et de musique dans l'intimité qui lui convenaient ; il fallait encore que ce fussent elles qui les offrissent, car pour que les choses paraissent nouvelles, même si elles sont anciennes, et même si elles sont nouvelles, il faut en art, comme en médecine, comme en mondanité, des noms nouveaux (ils étaient d'ailleurs nouveaux en certaines choses). Ainsi Mme Verdurin était allée à Venise pendant la guerre, mais comme ces gens qui veulent éviter de parler chagrin et sentiment, quand elle disait que c'était épatant, ce qu'elle admirait ce n'était ni Venise, ni Saint-Marc, ni les palais, tout ce qui m'avait tant plu et dont elle faisait bon marché, mais l'effet des projecteurs dans le ciel, des projecteurs sur lesquels elle donnait des renseignements appuyés de chiffres. (Ainsi d'âge en âge renaît un certain réalisme en réaction contre l'art admiré jusque-là.) Le salon Sainte-Euverte était une étiquette défraîchie, sous laquelle la présence des plus grands artistes, des ministres les plus influents, n'eût attiré personne. On courait, au contraire, pour écouter un mot prononcé par le secrétaire des uns ou le souschef de cabinet des autres, chez les nouvelles dames à turban, dont l'invasion ailée et jacassante emplissait Paris. Les dames du Premier Directoire avaient une reine qui était jeune et belle et s'appelait Madame Tallien. Celles du second en avaient deux qui étaient vieilles et laides et qui s'appelaient Mme Verdurin et Mme Bontemps. Qui eût pu tenir rigueur à Mme Bontemps que son mari eût joué un rôle, âprement critiqué par l'Écho de Paris, dans l'affaire Dreyfus ? Toute la Chambre étant à un certain moment devenue révisionniste, c'était forcément parmi d'anciens révisionnistes, comme parmi d'anciens socialistes, qu'on avait été obligé de recruter le parti de l'Ordre social, de la Tolérance religieuse, de la Préparation militaire. On aurait détesté autrefois M. Bontemps parce que les antipatriotes avaient alors le nom de dreyfusards. Mais bientôt ce nom avait été oublié et remplacé par celui d'adversaire de la loi de trois ans. M. Bontemps était, au contraire, un des auteurs de cette loi, c'était donc un patriote. Dans le monde (et ce phénomène social n'est, d'ailleurs, qu'une application d'une loi psychologique bien plus générale), les nouveautés coupables ou non n'excitent l'horreur que tant qu'elles ne sont pas assimilées et entourées d'éléments rassurants. Il en était du dreyfusisme comme du mariage de Saint-Loup avec la fille d'Odette, mariage qui avait d'abord fait crier. Maintenant qu'on voyait chez les Saint-Loup tous les gens « qu'on connaissait », Gilberte aurait pu avoir les mœurs d'Odette ellemême que, malgré cela, on y serait « allé » et qu'on eût approuvé Gilberte de blâmer comme une douairière des nouveautés morales non assimilées. Le dreyfusisme était maintenant intégré dans une série de choses respectables et habituelles. Quant à se demander ce qu'il valait en soi, personne n'y songeait, pas plus pour l'admettre maintenant qu'autrefois pour le condamner. Il n'était plus « shocking ». C'était tout ce qu'il fallait. À peine se rappelait-on qu'il l'avait été, comme on ne sait plus au bout de quelque temps si le père d'une jeune fille fut un voleur ou non. Au besoin, on peut dire : « Non, c'est du beau-frère, ou d'un homonyme que vous parlez, mais contre celui-là il n'y a jamais eu rien à dire. » De même il y avait certainement eu dreyfusisme et dreyfusisme, et celui qui allait chez la duchesse de Montmorency et faisait passer la loi de trois ans ne pouvait être mauvais. En tout cas, à tout péché miséricorde. Cet oubli qui était octroyé au dreyfusisme l'était a fortiori aux dreyfusards. Il n'y avait plus qu'eux, du reste, dans la politique, puisque tous à un moment l'avaient été s'il voulaient être du  
Gouvernement, même ceux qui représentaient le contraire de ce que le dreyfusisme, dans sa choquante nouveauté, avait incarné (au temps où Saint-Loup était sur une mauvaise pente) : l'antipatriotisme, l'irréligion, l'anarchie, etc. Ainsi le dreyfusisme de M. Bontemps, invisible et contemplatif comme celui de tous les hommes politiques, ne se voyait pas plus que les os sous la peau. Personne ne se fût rappelé qu'il avait été dreyfusard, car les gens du monde sont distraits et oublieux, parce qu'aussi il y avait de cela un temps fort long, et qu'ils affectaient de croire plus long, car c'était une des idées les plus à la mode de dire que l'avant-guerre était séparé de la guerre par quelque chose d'aussi profond, simulant autant de durée qu'une période géologique, et Brichot lui-même, ce nationaliste, quand il faisait allusion à l'affaire Dreyfus disait : « Dans ces temps préhistoriques ». À vrai dire, ce changement profond opéré par la guerre était en raison inverse de la valeur des esprits touchés, du moins à partir d'un certain degré, car, tout en bas, les purs sots, les purs gens de plaisir ne s'occupaient pas qu'il y eût la guerre. Mais tout en haut, ceux qui se sont fait une vie intérieure ambiante ont peu d'égard à l'importance des événements. Ce qui modifie profondément pour eux l'ordre des pensées, c'est bien plutôt quelque chose qui semble en soi n'avoir aucune importance et qui renverse pour eux l'ordre du temps en les faisant contemporains d'un autre temps de leur vie. Un chant d'oiseau dans le parc de Montboissier, ou une brise chargée de l'odeur de réséda, sont évidemment des événements de moindre conséquence que les plus grandes dates de la Révolution et de l'Empire. Ils ont cependant inspiré à Chateaubriand, dans les Mémoires d'Outre-tombe, des pages d'une valeur infiniment plus grande.   
M. Bontemps ne voulait pas entendre parler de paix avant que l'Allemagne eût été réduite au même morcellement qu'au moyen âge, la déchéance de la maison de Hohenzollern prononcée, Guillaume ayant reçu douze balles dans la peau. En un mot, il était ce que Brichot appelait un «   
Jusquauboutiste », c'était le meilleur brevet de civisme qu'on pouvait lui donner. Sans doute, les trois premiers jours, Mme Bontemps avait été un peu dépaysée au milieu des personnes qui avaient demandé à Mme Verdurin à la connaître, et ce fut d'un ton légèrement aigre que Mme Verdurin répondit : « Le comte, ma chère », à Mme Bontemps qui lui disait : « C'est bien le duc d'Haussonville que vous venez de me présenter », soit par entière ignorance et absence de toute association entre le nom Haussonville et un titre quelconque, soit, au contraire, par excessive instruction et association d'idées avec le « Parti des Ducs », dont on lui avait dit que M. d'Haussonville était un des membres à l'Académie. À partir du quatrième jour elle avait commencé d'être solidement installée dans le faubourg Saint-Germain. Quelquefois encore on voyait autour d'elle les fragments inconnus d'un monde qu'on ne connaissait pas et qui n'étonnaient pas plus que des débris de coquille autour du poussin, ceux qui savaient l'œuf d'où Mme Bontemps était sortie. Mais dès le quinzième jour, elle les avait secoués, et avant la fin du premier mois, quand elle disait : « Je vais chez les Lévi », tout le monde comprenait, sans qu'elle eût besoin de préciser, qu'il s'agissait des Lévis-Mirepoix, et pas une duchesse ne se serait couchée sans avoir appris de Mme Bontemps ou de Mme Verdurin, au moins par téléphone, ce qu'il y avait dans le communiqué du soir, ce qu'on y avait omis, où on en était avec la Grèce, quelle offensive on préparait, en un mot tout ce que le public ne saurait que le lendemain ou plus tard, et dont on avait ainsi comme une sorte de répétition des couturières. Dans la conversation, Mme Verdurin, pour communiquer les nouvelles, disait : « nous » en parlant de la France. « Hé bien, voici : nous exigeons du roi de Grèce qu'il se retire du Péloponèse, etc. ; nous lui envoyons, etc. » Et dans tous ses récits revenait tout le temps le G.Q.G. (j'ai téléphoné au G.Q.G.), abréviation qu'elle avait à prononcer le même plaisir qu'avaient naguère les femmes qui ne connaissaient pas le prince d'Agrigente à demander en souriant, quand on parlait de lui et pour montrer qu'elles étaient au courant : « Grigri ? », un plaisir qui dans les époques peu troublées n'est connu que par les mondains, mais que dans ces grandes crises le peuple même connaît. Notre maître d'hôtel, par exemple, si on parlait du roi de Grèce, était capable, grâce aux journaux, de dire comme Guillaume II : « Tino », tandis que jusque-là sa familiarité avec les rois était restée plus vulgaire, ayant été inventée par lui, comme quand jadis, pour parler du Roi d'Espagne, il disait : « Fonfonse ». On peut remarquer, d'ailleurs, qu'au fur et à mesure qu'augmenta le nombre des gens brillants qui firent des avances à Mme Verdurin, le nombre de ceux qu'elle appelait les « ennuyeux » diminua. Par une sorte de transformation magique, tout ennuyeux qui était venu lui faire une visite et avait sollicité une invitation devenait subitement quelqu'un d'agréable, d'intelligent. Bref, au bout d'un an le nombre des ennuyeux était réduit dans une proportion tellement forte, que la « peur et l'impossibilité de s'ennuyer », qui avait tenu une si grande place dans la conversation et joué un si grand rôle dans la vie de Mme Verdurin, avait presque entièrement disparu. On eût dit que sur le tard cette impossibilité de s'ennuyer (qu'autrefois, d'ailleurs, elle assurait ne pas avoir éprouvée dans sa prime jeunesse) la faisait moins souffrir, comme certaines migraines, certains asthmes nerveux qui perdent de leur force quand on vieillit. Et l'effroi de s'ennuyer eût sans doute entièrement abandonné Mme Verdurin, faute d'ennuyeux, si elle n'avait, dans une faible mesure, remplacé ceux qui ne l'étaient plus par d'autres recrutés parmi les anciens fidèles. Du reste, pour en finir avec les duchesses qui fréquentaient maintenant chez Mme Verdurin, elles venaient y chercher, sans qu'elles s'en doutassent, exactement la même chose que les dreyfusards autrefois, c'est-à-dire un plaisir mondain composé de telle manière que sa dégustation assouvît les curiosités politiques et rassasiât le besoin de commenter entre soi les incidents lus dans les journaux. Mme Verdurin disait : « Vous viendrez à 5 heures parler de la guerre », comme autrefois « parler de l'affaire », et dans l'intervalle : « Vous viendrez entendre Morel ». Or Morel n'aurait pas dû être là, pour la raison qu'il n'était nullement réformé. Simplement il n'avait pas rejoint et était déserteur, mais personne ne le savait. Une autre étoile du salon était « dans les choux », qui malgré ses goûts sportifs s'était fait réformer. Il était devenu tellement pour moi l'auteur d'une œuvre admirable à laquelle je pensais constamment que ce n'est que par hasard, quand j'établissais un courant transversal entre deux séries de souvenirs, que je songeais qu'il était celui qui avait amené le départ d'Albertine de chez moi. Et encore ce courant transversal aboutissait, en ce qui concernait ces reliques de souvenirs d'Albertine, à une voie s'arrêtant en pleine friche à plusieurs années de distance. Car je ne pensais plus jamais à elle. C'était une voie non fréquentée de souvenirs, une ligne que je n'empruntais plus. Tandis que les œuvres de « dans les choux » étaient récentes et cette ligne de souvenirs perpétuellement fréquentée et utilisée par mon esprit.   
Je dois, du reste, dire que la connaissance du mari d'Andrée n'était ni très facile ni très agréable à faire, et que l'amitié qu'on lui vouait était promise à bien des déceptions. Il était, en effet, à ce moment déjà fort malade et s'épargnait les fatigues autres que celles qui lui paraissaient devoir peutêtre lui donner du plaisir. Or il ne classait parmi celles-là que les rendez-vous avec des gens qu'il ne connaissait pas encore et que son ardente imagination lui représentait sans doute comme ayant une chance d'être différents des autres. Mais pour ceux qu'il connaissait déjà, il savait trop bien comment ils étaient, comment ils seraient, ils ne lui paraissaient plus valoir la peine d'une fatigue dangereuse pour lui et peut-être mortelle. C'était, en somme, un très mauvais ami. Et peutêtre dans son goût pour des gens nouveaux se retrouvait-il quelque chose de l'audace frénétique qu'il portait jadis, à Balbec, aux sports, au jeu, à tous les excès de table. Quant à Mme Verdurin, elle voulait à chaque fois me faire faire la connaissance d'Andrée, ne pouvant admettre que je l'eusse connue depuis longtemps. D'ailleurs Andrée venait rarement avec son mari, mais elle était pour moi une amie admirable et sincère. Fidèle à l'esthétique de son mari, qui était en réaction contre les Ballets russes, elle disait du marquis de Polignac : « Il a sa maison décorée par Bakst ; comment peut-on dormir là dedans, j'aimerais mieux Dubufe. »   
D'ailleurs les Verdurin, par le progrès fatal de l'esthétisme, qui finit par se manger la queue, disaient ne pas pouvoir supporter le modern style (de plus c'était munichois) ni les appartements blancs et n'aimaient plus que les vieux meubles français dans un décor sombre.   
On fut très étonné à cette époque, où Mme Verdurin pouvait avoir chez elle qui elle voulait, de lui voir faire indirectement des avances à une personne qu'elle avait complètement perdue de vue, Odette. On trouvait qu'elle ne pourrait rien ajouter au brillant milieu qu'était devenu le petit groupe. Mais une séparation prolongée, en même temps qu'elle apaise les rancunes, réveille quelquefois l'amitié. Et puis le phénomène qui amène non seulement les mourants à ne prononcer que des noms autrefois familiers, mais les vieillards à se complaire dans leurs souvenirs d'enfance, ce phénomène a son équivalent social. Pour réussir dans l'entreprise de faire revenir Odette chez elle, Mme Verdurin n'employa pas, bien entendu, les « ultras », mais les habitués moins fidèles qui avaient gardé un pied dans l'un et l'autre salon. Elle leur disait : « Je ne sais pas pourquoi on ne la voit plus ici. Elle est peutêtre brouillée, moi pas. En somme, qu'est-ce que je lui ai fait ? C'est chez moi qu'elle a connu ses deux maris. Si elle veut revenir, qu'elle sache que les portes lui sont ouvertes. » Ces paroles, qui auraient dû coûter à la fierté de la Patronne si elles ne lui avaient pas été dictées par son imagination, furent redites, mais sans succès. Mme Verdurin attendit Odette sans la voir venir, jusqu'à ce que des événements qu'on verra plus loin amenassent pour de tout autres raisons ce que n'avait pu l'ambassade pourtant zélée des lâcheurs. Tant il est peu de réussites faciles, et d'échecs définitifs.   
Les choses étaient tellement les mêmes, tout en paraissant différentes, qu'on retrouvait tout naturellement les mots d'autrefois : « bien pensants, mal pensants ». Et de même que les anciens communards avaient été antirévisionnistes, les plus grands dreyfusards voulaient faire fusiller tout le monde et avaient l'appui des généraux, comme ceux-ci au temps de l'affaire avaient été contre Galliffet. À ces réunions, Mme Verdurin invitait quelques dames un peu récentes, connues par les œuvres et qui les premières fois venaient avec des toilettes éclatantes, de grands colliers de perles qu'Odette, qui en avait un aussi beau, de l'exhibition duquel elle-même avait abusé, regardait, maintenant qu'elle était en « tenue de guerre » à l'imitation des dames du faubourg, avec sévérité. Mais les femmes savent s'adapter. Au bout de trois ou quatre fois elles se rendaient compte que les toilettes qu'elles avaient crues chic étaient précisément proscrites par les personnes qui l'étaient, elles mettaient de côté leurs robes d'or et se résignaient à la simplicité.   
Mme Verdurin disait : « C'est désolant, je vais téléphoner à Bontemps de faire le nécessaire pour demain, on a encore « caviardé » toute la fin de l'article de Norpois et simplement parce qu'il laissait entendre qu'on avait « limogé » Percin. » Car la bêtise courante faisait que chacun tirait sa gloire d'user des expressions courantes, et croyait montrer qu'elle était ainsi à la mode comme faisait une bourgeoise en disant, quand on parlait de M. de Bréauté ou de Charlus : « Qui ? Bebel de Bréauté, Mémé de Charlus ? » Les duchesses font de même, d'ailleurs, et avaient le même plaisir à dire « limoger » car, chez les duchesses, c'est, pour les roturiers un peu poètes, le nom qui diffère, mais elles s'expriment selon la catégorie d'esprit à laquelle elles appartiennent et où il y a aussi énormément de bourgeois. Les classes d'esprit n'ont pas égard à la naissance.   
Tous ces téléphonages de Mme Verdurin n'étaient pas, d'ailleurs, sans inconvénient. Quoique nous ayons oublié de le dire, le « salon » Verdurin, s'il continuait en esprit et en vérité, s'était transporté momentanément dans un des plus grands hôtels de Paris, le manque de charbon et de lumière rendant plus difficiles les réceptions des Verdurin dans l'ancien logis, fort humide, des Ambassadeurs de Venise. Le nouveau salon ne manquait pas, du reste, d'agrément. Comme à Venise la place, comptée à cause de l'eau, commande la forme des palais, comme un bout de jardin dans Paris ravit plus qu'un parc en province, l'étroite salle à manger qu'avait Mme Verdurin à l'hôtel faisait d'une sorte de losange aux murs éclatants de blancheur comme un écran sur lequel se détachaient à chaque mercredi, et presque tous les jours, tous les gens les plus intéressants, les plus variés, les femmes les plus élégantes de Paris, ravis de profiter du luxe des Verdurin qui, grâce à leur fortune, allait croissant à une époque où les plus riches se restreignaient faute de toucher leurs revenus. La forme donnée aux réceptions se trouvait modifiée sans qu'elles cessassent d'enchanter Brichot, qui, au fur et à mesure que les relations des Verdurin allaient s'étendant, y trouvait des plaisirs nouveaux et accumulés dans un petit espace comme des surprises dans un chausson de Noël. Enfin, certains jours, les dîneurs étaient si nombreux que la salle à manger de l'appartement privé était trop petite, on donnait le dîner dans la salle à manger immense d'en bas, où les fidèles, tout en feignant hypocritement de déplorer l'intimité d'en haut, étaient ravis au fond – en faisant bande à part comme jadis dans le petit chemin de fer – d'être un objet de spectacle et d'envie pour les tables voisines. Sans doute dans les temps habituels de la paix une note mondaine subrepticement envoyée au Figaro ou au Gaulois aurait fait savoir à plus de monde que n'en pouvait tenir la salle à manger du Majestic que Brichot avait dîné avec la duchesse de Duras. Mais depuis la guerre, les courriéristes mondains ayant supprimé ce genre d'informations (ils se rattrapaient sur les enterrements, les citations et les banquets franco-américains), la publicité ne pouvait plus exister que par ce moyen enfantin et restreint, digne des premiers âges, et antérieur à la découverte de Gutenberg, être vu à la table de Mme Verdurin. Après le dîner on montait dans les salons de la Patronne, puis les téléphonages commençaient. Mais beaucoup de grands hôtels étaient, à cette époque, peuplés d'espions qui notaient les nouvelles téléphonées par Bontemps avec une indiscrétion que corrigeait seulement par bonheur le manque de sûreté de ses informations, toujours démenties par l'événement.   
Avant l'heure où les thés d'après-midi finissaient, à la tombée du jour, dans le ciel encore clair, on voyait de loin de petites taches brunes qu'on eût pu prendre, dans le soir bleu, pour des moucherons ou pour des oiseaux. Ainsi quand on voit de très loin une montagne on pourrait croire que c'est un nuage. Mais on est ému parce qu'on sait que ce nuage est immense, à l'état solide, et résistant. Ainsi étais-je ému parce que la tache brune dans le ciel d'été n'était ni un moucheron, ni un oiseau, mais un aéroplane monté par des hommes qui veillaient sur Paris. Le souvenir des aéroplanes que j'avais vus avec Albertine dans notre dernière promenade, près de Versailles, n'entrait pour rien dans cette émotion, car le souvenir de cette promenade m'était devenu indifférent.   
À l'heure du dîner les restaurants étaient pleins et si, passant dans la rue, je voyais un pauvre permissionnaire, échappé pour six jours au risque permanent de la mort, et prêt à repartir pour les tranchées, arrêter un instant ses yeux devant les vitrines illuminées, je souffrais comme à l'hôtel de Balbec quand les pêcheurs nous regardaient dîner, mais je souffrais davantage parce que je savais que la misère du soldat est plus grande que celle du pauvre, les réunissant toutes, et plus touchante encore parce qu'elle est plus résignée, plus noble, et que c'est d'un hochement de tête philosophe, sans haine, que, prêt à repartir pour la guerre, il disait en voyant se bousculer les embusqués retenant leurs tables : « On ne dirait pas que c'est la guerre ici. » Puis à 9 h. ½, alors que personne n'avait encore eu le temps de finir de dîner, à cause des ordonnances de police on éteignait brusquement toutes les lumières et la nouvelle bousculade des embusqués arrachant leurs pardessus aux chasseurs du restaurant où j'avais dîné avec Saint-Loup un soir de perme avait lieu à 9 h. 35 dans une mystérieuse pénombre de chambre où l'on montre la lanterne magique, ou de salle de spectacle servant à exhiber les films d'un de ces cinémas vers lesquels allaient se précipiter dîneurs et dîneuses. Mais après cette heure-là, pour ceux qui, comme moi, le soir dont je parle, étaient restés à dîner chez eux, et sortaient pour aller voir des amis, Paris était, au moins dans certains quartiers, encore plus noir que n'était le Combray de mon enfance ; les visites qu'on se faisait prenaient un air de visites de voisins de campagne. Ah ! si Albertine avait vécu, qu'il eût été doux, les soirs où j'aurais dîné en ville, de lui donner rendez-vous dehors, sous les arcades. D'abord, je n'aurais rien vu, j'aurais eu l'émotion de croire qu'elle avait manqué au rendez-vous, quand tout à coup j'eusse vu se détacher du mur noir une de ses chères robes grises, ses yeux souriants qui m'auraient aperçu, et nous aurions pu nous promener enlacés sans que personne nous distinguât, nous dérangeât et rentrer ensuite à la maison. 
Hélas, j'étais seul et je me faisais l'effet d'aller faire une visite de voisin à la campagne, de ces visites comme Swann venait nous en faire après le dîner, sans rencontrer plus de passants dans l'obscurité de Tansonville, par ce petit chemin de halage, jusqu'à la rue du Saint-Esprit, que je n'en rencontrais maintenant dans les rues devenues de sinueux chemins rustiques de la rue Clotilde à la rue Bonaparte. D'ailleurs, comme ces fragments de paysage, que le temps qu'il fait modifie, n'étaient plus contrariés par un cadre devenu nuisible, les soirs où le vent chassait un grain glacial je me croyais bien plus au bord de la mer furieuse, dont j'avais jadis tant rêvé, que je ne m'y étais senti à Balbec ; et même d'autres éléments de nature qui n'existaient pas jusque-là à Paris faisaient croire qu'on venait, descendant du train, d'arriver pour les vacances, en pleine campagne : par exemple le contraste de lumière et d'ombre qu'on avait à côté de soi par terre les soirs de clair de lune. Celui-ci donnait de ces effets que les villes ne connaissent pas, même en plein hiver ; ses rayons s'étalaient sur la neige qu'aucun travailleur ne déblayait plus, boulevard Haussmann, comme ils eussent fait sur un glacier des Alpes. Les silhouettes des arbres se reflétaient nettes et pures sur cette neige d'or bleuté, avec la délicatesse qu'elles ont dans certaines peintures japonaises ou dans certains fonds de Raphaël ; elles étaient allongées à terre au pied de l'arbre lui-même, comme on les voit souvent dans la nature au soleil couchant, quand celui-ci inonde et rend réfléchissantes les prairies où des arbres s'élèvent à intervalles réguliers. Mais, par un raffinement d'une délicatesse délicieuse, la prairie sur laquelle se développaient ces ombres d'arbres, légères comme des âmes, était une prairie paradisiaque, non pas verte mais d'un blanc si éclatant, à cause du clair de lune qui rayonnait sur la neige de jade, qu'on aurait dit que cette prairie était tissée seulement avec des pétales de poiriers en fleurs. Et sur les places, les divinités des fontaines publiques tenant en main un jet de glace avaient l'air de statues d'une matière double pour l'exécution desquelles l'artiste avait voulu marier exclusivement le bronze au cristal. Par ces jours exceptionnels, toutes les maisons étaient noires. Mais au printemps, au contraire, parfois de temps à autre, bravant les règlements de la police, un hôtel particulier, ou seulement un étage d'un hôtel, ou même seulement une chambre d'un étage, n'ayant pas fermé ses volets apparaissait, ayant l'air de se soutenir toute seule sur d'impalpables ténèbres, comme une projection purement lumineuse, comme une apparition sans consistance. Et la femme qu'en levant les yeux bien haut on distinguait dans cette pénombre dorée prenait, dans cette nuit où l'on était perdu et où elle-même semblait recluse, le charme mystérieux et voilé d'une vision d'Orient. Puis on passait et rien n'interrompait plus l'hygiénique et monotone piétinement rythmique dans l'obscurité.   
Je songeais que je n'avais revu depuis bien longtemps aucune des personnes dont il a été question dans cet ouvrage. En 1914, pendant les deux mois que j'avais passés à Paris, j'avais aperçu M. de Charlus et vu Bloch et Saint-Loup, ce dernier seulement deux fois. La seconde fois était certainement celle où il s'était le plus montré lui-même ; il avait effacé toutes les impressions peu agréables de manque de sincérité qu'il m'avait produites pendant le séjour à Tansonville que je viens de rapporter et j'avais reconnu en lui toutes les belles qualités d'autrefois. La première fois que je l'avais vu après la déclaration de guerre, c'est-à-dire au début de la semaine qui suivit, tandis que Bloch faisait montre des sentiments les plus chauvins, Saint-Loup n'avait pas assez d'ironie pour lui-même qui nwne reprenait pas de service et j'avais été presque choqué de la violence de son ton. Saint-Loup revenait de Balbec. « Non, s'écria-t-il avec force et gaîté, tous ceux qui ne se battent pas, quelque raison qu'ils donnent, c'est qu'ils n'ont pas envie d'être tués, c'est par peur. » Et avec le même geste d'affirmation plus énergique encore que celui avec lequel il avait souligné la peur des autres, il ajouta : « Et moi, si je ne reprends pas de service, c'est tout bonnement par peur, na. » J'avais déjà remarqué chez différentes personnes que l'affectation des sentiments louablesn'est pas la seule couverture des mauvais, mais qu'une plus nouvelle est l'exhibition de ces mauvais, de sorte qu'on n'ait pas l'air au moins de s'en cacher. De plus, chez Saint-Loup cette tendance était fortifiée par son habitude, quand il avait commis une indiscrétion, fait une gaffe, et qu'on aurait pu les lui reprocher, de les proclamer en disant que c'était exprès. Habitude qui, je crois bien, devait lui venir de quelque professeur à l'École de Guerre dans l'intimité de qui il avait vécu et pour qui il professait une grande admiration. Je n'eus donc aucun embarras pour interpréter cette boutade comme la ratification verbale d'un sentiment que Saint-Loup aimait mieux proclamer, puisqu'il avait dicté sa conduite et son abstention dans la guerre qui commençait. « Est-ce que tu as entendu dire, demanda-t-il en me quittant, que ma tante Oriane divorcerait ? Personnellement je n'en sais absolument rien. On dit cela de temps en temps et je l'ai entendu annoncer si souvent que j'attendrai que ce soit fait pour le croire. J'ajoute que ce serait très compréhensible ; mon oncle est un homme charmant, non seulement dans le monde, mais pour ses amis, pour ses parents. Même, d'une façon, il a beaucoup plus de cœur que ma tante qui est une sainte, mais qui le lui fait terriblement sentir. Seulement c'est un mari terrible, qui n'a jamais cessé de tromper sa femme, de l'insulter, de la brutaliser, de la priver d'argent. Ce serait si naturel qu'elle le quitte que c'est une raison pour que ce soit vrai, mais aussi pour que cela ne le soit pas parce que c'en est une pour qu'on en ait l'idée et qu'on le dise. Et puis du moment qu'elle l'a supporté si longtemps... Maintenant je sais bien qu'il y a tant de choses qu'on annonce à tort, qu'on dément, et puis qui plus tard deviennent vraies. » Cela me fit penser à lui demander s'il avait jamais été question, avant son mariage avec Gilberte, qu'il épousât Mlle de Guermantes. Il sursauta et m'assura que non, que ce n'était qu'un de ces bruits du monde, qui naissent de temps à autre on ne sait pourquoi, s'évanouissent de même et dont la fausseté ne rend pas ceux qui ont cru en eux plus prudents, dès que naît un bruit nouveau de fiançailles, de divorce, ou un bruit politique, pour y ajouter foi et le colporter. Quarantehuit heures n'étaient pas passées que certains faits que j'appris me prouvèrent que je m'étais absolument trompé dans l'interprétation des paroles de Robert : « Tous ceux qui ne sont pas au front, c'est qu'ils ont peur. » Saint-Loup avait dit cela pour briller dans la conversation, pour faire de l'originalité psychologique, tant qu'il n'était pas sûr que son engagement serait accepté. Mais il faisait pendant ce temps-là des pieds et des mains pour qu'il le fût, étant en cela moins original, au sens qu'il croyait qu'il fallait donner à ce mot, mais plus profondément français de Saint-André-desChamps, plus en conformité avec tout ce qu'il y avait à ce moment-là de meilleur chez les Français de Saint-André-desChamps, seigneurs, bourgeois et serfs respectueux des seigneurs ou révoltés contre les seigneurs, deux divisions également françaises de la même famille, sousembranchement Françoise et sous-embranchement Sauton, d'où deux flèches se dirigeaient à nouveau dans une même direction, qui était la frontière. Bloch avait été enchanté d'entendre l'aveu de la lâcheté d'un nationaliste (qui l'était d'ailleurs si peu) et, comme Saint-Loup avait demandé si luimême devait partir, avait pris une figure de grand-prêtre pour répondre : « Myope. » Mais Bloch avait complètement changé d'avis sur la guerre quelques jours après où il vint me voir affolé. Quoique « myope », il avait été reconnu bon pour le service. Je le ramenais chez lui quand nous rencontrâmes Saint-Loup qui avait rendez-vous, pour être présenté au Ministère de la Guerre à un colonel, avec un ancien officier, « M. de Cambremer », me dit-il. « Ah ! c'est vrai, mais c'est d'une ancienne connaissance que je te parle. Tu connais aussi bien que moi Cancan. » Je lui répondis que je le connaissais en effet et sa femme aussi, que je ne les appréciais qu'à demi. Mais j'étais tellement habitué, depuis que je les avais vus pour la première fois, à considérer la femme comme une personne malgré tout remarquable, connaissant à fond Schopenhauer et ayant accès, en somme, dans un milieu intellectuel qui était fermé à son grossier époux, que je fus d'abord étonné d'entendre Saint-Loup répondre : « Sa femme est idiote, je te l'abandonne. Mais lui est un excellent homme qui était doué et qui est resté fort agréable. » Par l'« idiotie » de la femme, Saint-Loup entendait sans doute le désir éperdu de celle-ci de fréquenter le grand monde, ce que le grand monde juge le plus sévèrement. Par les qualités du mari, sans doute quelque chose de celles que lui reconnaissait sa nièce quand elle le trouvait le mieux de la famille. Lui, du moins, ne se souciait pas de duchesses, mais à vrai dire c'est là une « intelligence » qui diffère autant de celle qui caractérise les penseurs, que « l'intelligence » reconnue par le public à tel homme riche « d'avoir su faire sa fortune ». Mais les paroles de Saint-Loup ne me déplaisaient pas en ce qu'elles rappelaient que la prétention avoisine la bêtise et que la simplicité a un goût un peu caché mais agréable. Je n'avais pas eu, il est vrai, l'occasion de savourer celle de M. de Cambremer. Mais c'est justement ce qui fait qu'un être est tant d'êtres différents selon les personnes qui le jugent, en dehors même des différences de jugement. De Cambremer je n'avais connu que l'écorce. Et sa saveur, qui m'était attestée par d'autres, m'était inconnue. Bloch nous quitta devant sa porte, débordant d'amertume contre SaintLoup, lui disant qu'eux autres, « beaux fils galonnés », paradant dans les États-Majors, ne risquaient rien, et que lui, simple soldat de 2e classe, n'avait pas envie de se faire « trouer la peau » pour Guillaume. « Il paraît qu'il est gravement malade, l'Empereur Guillaume », répondit SaintLoup. Bloch qui, comme tous les gens qui tiennent de près à la Bourse, accueillait avec une facilité particulière les nouvelles sensationnelles, ajouta : « On dit même beaucoup qu'il est mort. » À la Bourse tout souverain malade, que ce soit Edouard VII ou Guillaume II, est mort, toute ville sur le point d'être assiégée est prise. « On ne le cache, ajouta Bloch, que pour ne pas déprimer l'opinion chez les Boches. Mais il est mort dans la nuit d'hier. Mon père le tient d'une source de tout premier ordre. » Les sources de tout premier ordre étaient les seules dont tînt compte M. Bloch le père, alors que, par la chance qu'il avait, grâce à de « hautes relations », d'être en communication avec elles, il en recevait la nouvelle encore secrète que l'Extérieure allait monter ou la de Beers fléchir. D'ailleurs, si à ce moment précis se produisait une hausse sur la de Beers, ou des « offres » sur l'Extérieure, si le marché de la première était « ferme » et « actif », celui de la seconde « hésitant », « faible », et qu'on s'y tînt « sur la réserve », la source de premier ordre n'en restait pas moins une source de premier ordre. Aussi Bloch nous annonça-t-il la mort du Kaiser d'un air mystérieux et important, mais aussi rageur. Il était surtout particulièrement exaspéré d'entendre Robert dire : « l'Empereur Guillaume ». Je crois que sous le couperet de la guillotine Saint-Loup et M. de Guermantes n'auraient pas pu dire autrement. Deux hommes du monde restant seuls vivants dans une île déserte, où ils n'auraient à faire preuve de bonnes façons pour personne, se reconnaîtraient à ces traces d'éducation, comme deux latinistes citeraient correctement du Virgile. Saint-Loup n'eût jamais pu, même torturé par les Allemands, dire autrement que « l'Empereur Guillaume ». Et ce savoir-vivre est malgré tout l'indice de grandes entraves pour l'esprit. Celui qui ne sait pas les rejeter reste un homme du monde. Cette élégante médiocrité est d'ailleurs délicieuse – surtout avec tout ce qui s'y allie de générosité cachée et d'héroïsme inexprimé – à côté de la vulgarité de Bloch, à la fois pleutre et fanfaron, qui criait à Saint-Loup : « Tu ne pourrais pas dire « Guillaume » tout court ? C'est ça, tu as la frousse, déjà ici tu te mets à plat ventre devant lui ! Ah ! ça nous fera de beaux soldats à la frontière, ils lécheront les bottes des Boches. Vous êtes des galonnés qui savez parader dans un carrousel. Un point, c'est tout. » « Ce pauvre Bloch veut absolument que je ne fasse que parader », me dit SaintLoup en souriant, quand nous eûmes quitté notre camarade. Et je sentais bien que parader n'était pas du tout ce que désirait Robert, bien que je ne me rendisse pas compte alors de ses intentions aussi exactement que je le fis plus tard quand, la cavalerie restant inactive, il obtint de servir comme officier d'infanterie, puis de chasseurs à pied, et enfin quand vint la suite qu'on lira plus loin. Mais du patriotisme de Robert, Bloch ne se rendit pas compte, simplement parce que Robert ne l'exprimait nullement. Si Bloch nous avait fait des professions de foi méchamment antimilitaristes une fois qu'il avait été reconnu « bon », il avait eu préalablement les déclarations les plus chauvines quand il se croyait réformé pour myopie. Mais ces déclarations, Saint-Loup eût été incapable de les faire ; d'abord par une espèce de délicatesse morale qui empêche d'exprimer les sentiments trop profonds et qu'on trouve tout naturels. Ma mère autrefois non seulement n'eût pas hésité une seconde à mourir pour ma grand'mère, mais aurait horriblement souffert si on l'avait empêchée de le faire. Néanmoins, il m'est impossible d'imaginer rétrospectivement dans sa bouche une phrase telle que : « Je donnerais ma vie pour ma mère. » Aussi tacite était, dans son amour de la France, Robert qu'en ce moment je trouvais beaucoup plus Saint-Loup (autant que je pouvais me représenter son père) que Guermantes. Il eût été préservé aussi d'exprimer ces sentiments-là par la qualité en quelque sorte morale de son intelligence. Il y a chez les travailleurs intelligents et vraiment sérieux une certaine aversion pour ceux qui mettent en littérature ce qu'ils font, le font valoir. Nous n'avions été ensemble ni au lycée, ni à la Sorbonne, mais nous avions séparément suivi certains cours des mêmes maîtres, et je me rappelle le sourire de SaintLoup en parlant de ceux qui, tout en faisant un cours remarquable, voulaient se faire passer pour des hommes de génie en donnant un nom ambitieux à leurs théories. Pour peu que nous en parlions, Robert riait de bon cœur. Naturellement notre prédilection n'allait pas d'instinct aux Cottard ou aux Brichot, mais enfin nous avions une certaine considération pour les gens qui savaient à fond le grec ou la médecine et ne se croyaient pas autorisés pour cela à faire les charlatans. De même que toutes les actions de maman reposaient jadis sur le sentiment qu'elle eût donné sa vie pour sa mère, comme elle ne s'était jamais formulé ce sentiment à elle-même, en tout cas elle eût trouvé non pas seulement inutile et ridicule, mais choquant et honteux de l'exprimer aux autres ; de même il m'était impossible d'imaginer Saint-Loup (me parlant de son équipement, des courses qu'il avait à faire, de nos chances de victoire, du peu de valeur de l'armée russe, de ce que ferait l'Angleterre) prononçant une des phrases les plus éloquentes que peut dire le Ministre le plus sympathique aux députés debout et enthousiastes. Je ne peux cependant pas dire que, dans ce côté négatif qui l'empêchait d'exprimer les beaux sentiments qu'il ressentait, il n'y avait pas un effet de l'« esprit des Guermantes », comme on en a vu tant d'exemples chez Swann. Car si je le trouvais Saint-Loup surtout, il restait Guermantes aussi et par là, parmi les nombreux mobiles qui excitaient son courage, il y en avait qui n'étaient pas les mêmes que ceux de ses amis de Doncières, ces jeunes gens épris de leur métier avec qui j'avais dîné chaque soir et dont tant se firent tuer à la bataille de la Marne ou ailleurs en entraînant leurs hommes. Les jeunes socialistes qu'il pouvait y avoir à Doncières quand j'y étais, mais que je ne connaissais pas parce qu'ils ne fréquentaient pas le milieu de Saint-Loup, purent se rendre compte que les officiers de ce milieu n'étaient nullement des « aristos » dans l'acception hautainement fière et bassement jouisseuse que le « populo », les officiers sortis des rangs, les francs-maçons donnaient à ce surnom. Et pareillement d'ailleurs, ce même patriotisme, les officiers nobles le rencontrèrent pleinement chez les socialistes que je les avais entendu accuser, pendant que j'étais à Doncières, en pleine affaire Dreyfus, d'être des sanspatrie. Le patriotisme des militaires, aussi sincère, aussi profond, avait pris une forme définie qu'ils croyaient intangible et sur laquelle ils s'indignaient de voir jeter « l'opprobre », tandis que les patriotes en quelque sorte inconscients, indépendants, sans religion patriotique définie, qu'étaient les radicaux-socialistes, n'avaient pas su comprendre quelle réalité profonde vivait dans ce qu'ils croyaient de vaines et haineuses formules. Sans doute SaintLoup comme eux s'était habitué à développer en lui, comme la partie la plus vraie de lui-même, la recherche et la conception des meilleures manœuvres en vue des plus grands succès stratégiques et tactiques, de sorte que, pour lui comme pour eux, la vie de son corps était quelque chose de relativement peu important qui pouvait être facilement sacrifié à cette partie intérieure, véritable noyau vital chez eux, autour duquel l'existence personnelle n'avait de valeur que comme un épiderme protecteur. Je parlai à Saint-Loup de son ami le directeur du Grand Hôtel de Balbec qui, paraît-il, avait prétendu qu'il y avait eu au début de la guerre dans certains régiments français des défections, qu'il appelait des « défectuosités », et avait accusé de les avoir provoquée ce qu'il appelait le « militariste prussien », disant d'ailleurs en riant à propos de son frère : « Il est dans les tranchées, ils sont à trente mètres des Boches ! » jusqu'à ce qu'ayant appris qu'il l'était luimême on l'eût mis dans un camp de concentration. « À propos de Balbec, te rappelles-tu l'ancien liftier de l'hôtel ? » me dit en me quittant Saint-Loup sur le ton de quelqu'un qui n'avait pas trop l'air de savoir qui c'était et qui comptait sur moi pour l'éclairer. « Il s'engage et m'a écrit pour le faire entrer dans l'aviation. » Sans doute le liftier était-il las de monter dans la cage captive de l'ascenseur, et les hauteurs de l'escalier du Grand Hôtel ne lui suffisaient plus. Il allait « prendre ses galons » autrement que comme concierge, car notre destin n'est pas toujours ce que nous avions cru. « Je vais sûrement appuyer sa demande, me dit Saint-Loup. Je le disais encore à Gilberte ce matin, jamais nous n'aurons assez d'avions. C'est avec cela qu'on verra ce que prépare l'adversaire. C'est cela qui lui enlèvera le bénéfice le plus grand d'une attaque, celui de la surprise, l'armée la meilleure sera peut-être celle qui aura les meilleurs yeux. Eh bien, et la pauvre Françoise a-t-elle réussi à faire réformer son neveu ? » Mais Françoise, qui avait fait depuis longtemps tous ses efforts pour que son neveu fût réformé et qui, quand on lui avait proposé une recommandation, par la voie des Guermantes, pour le général de Saint-Joseph, avait répondu d'un ton désespéré : « Oh ! non, ça ne servirait à rien, il n'y a rien à faire avec ce vieux bonhomme-là, c'est tout ce qu'il y a de pis, il est patriotique », Françoise, dès qu'il avait été question de la guerre, et quelque douleur qu'elle en éprouvât, trouvait qu'on ne devait pas abandonner les « pauvres Russes », puisqu'on était « alliancé ». Le maître d'hôtel, persuadé d'ailleurs que la guerre ne durerait que dix jours et se terminerait par la victoire éclatante de la France, n'aurait pas osé, par peur d'être démenti par les événements, et n'aurait même pas eu assez d'imagination pour prédire une guerre longue et indécise. Mais cette victoire complète et immédiate, il tâchait au moins d'en extraire d'avance tout ce qui pouvait faire souffrir Françoise. « Ça pourrait bien faire du vilain, parce qu'il paraît qu'il y en a beaucoup qui ne veulent pas marcher, des gars de seize ans qui pleurent. » Il tâchait aussi pour la « vexer » de lui dire des choses désagréables, c'est ce qu'il appelait « lui jeter un pépin, lui lancer une apostrophe, lui envoyer un calembour ». « De seize ans, Vierge Marie », disait Françoise, et un instant méfiante : « On disait pourtant qu'on ne les prenait qu'après vingt ans, c'est encore des enfants. – Naturellement les journaux ont ordre de ne pas dire cela. Du reste, c'est toute la jeunesse qui sera en avant, il n'en reviendra pas lourd. D'un côté, ça fera du bon, une bonne saignée, là, c'est utile de temps en temps, ça fera marcher le commerce. Ah ! dame, s'il y a des gosses trop tendres qui ont une hésitation, on les fusille immédiatement, douze balles dans la peau, vlan ! D'un côté, il faut ça. Et puis, les officiers, qu'est-ce que ça peut leur faire ?  Ils touchent leurs pesetas, c'est tout ce qu'ils demandent. » Françoise pâlissait tellement pendant chacune de ces conversations qu'on craignait que le maître d'hôtel ne la fît mourir d'une maladie de cœur. Elle ne perdait pas ses défauts pour cela. Quand une jeune fille venait me voir, si mal aux jambes qu'eût la vieille servante, m'arrivait-il de sortir un instant de ma chambre, je la voyais au haut d'une échelle, dans la penderie, en train, disait-elle, de chercher quelque paletot à moi pour voir si les mites ne s'y mettaient pas, en réalité pour nous écouter. Elle gardait malgré toutes mes critiques sa manière insidieuse de poser des questions d'une façon indirecte pour laquelle elle avait utilisé depuis quelque temps un certain « parce que sans doute ». N'osant pas me dire : « Est-ce que cette dame a un hôtel ? » elle me disait, les yeux timidement levés comme ceux d'un bon chien : « Parce que sans doute cette dame a un hôtel particulier... », évitant l'interrogation flagrante, moins pour être polie que pour ne pas sembler curieuse. Enfin, comme les domestiques que nous aimons le plus – surtout s'ils ne nous rendent presque plus les services et les égards de leur emploi – restent, hélas, des domestiques et marquent plus nettement les limites (que nous voudrions effacer) de leur caste au fur et à mesure qu'ils croient le plus pénétrer la nôtre, Françoise avait souvent à mon endroit (pour me piquer, eût dit le maître d'hôtel) de ces propos étranges qu'une personne du monde n'aurait pas ; avec une joie aussi dissimulée mais aussi profonde que si c'eût été une maladie grave, si j'avais chaud et que la sueur – je n'y prenais pas garde – perlât à mon front : « Mais vous êtes en nage », me disait-elle, étonnée comme devant un phénomène étrange, souriant un peu avec le mépris que cause quelque chose d'indécent, « vous sortez, mais vous avez oublié de mettre votre cravate », prenant pourtant la voix préoccupée qui est chargée d'inquiéter quelqu'un sur son état. On aurait dit que moi seul dans l'univers avais jamais été en nage. Car dans son humilité, dans sa tendre admiration pour des êtres qui lui étaient infiniment inférieurs, elle adoptait leur vilain tour de langage. Sa fille s'étant plaint d'elle à moi et m'ayant dit (je ne sais de qui elle l'avait appris) : « Elle a toujours quelque chose à dire, que je ferme mal les portes, et patati patali et patata patala », Françoise crut sans doute que son incomplète éducation seule l'avait privée jusqu'ici de ce bel usage. Et sur ses lèvres où j'avais vu fleurir jadis le français le plus pur, j'entendis plusieurs fois par jour : « Et patati patali et patata patala ». Il est du reste curieux combien non seulement les expressions mais les pensées varient peu chez une même personne. Le maître d'hôtel ayant pris l'habitude de déclarer que M. Poincaré était mal intentionné, pas pour l'argent, mais parce qu'il avait voulu absolument la guerre, il redisait cela sept à huit fois par jour devant le même auditoire habituel et toujours aussi intéressé. Pas un mot n'était modifié, pas un geste, une intonation. Bien que cela ne durât que deux minutes, c'était invariable, comme une représentation. Ses fautes de français corrompaient le langage de Françoise tout autant que les fautes de sa fille. 
Elle ne dormait plus, ne mangeait plus, se faisait lire les communiqués, auxquels elle ne comprenait rien, par le maître d'hôtel qui n'y comprenait guère davantage, et chez qui le désir de tourmenter Françoise était souvent dominé par une allégresse patriotique ; il disait avec un rire sympathique, en parlant des Allemands : « Ça doit chauffer, notre vieux Joffre est en train de leur tirer des plans sur la comète. » Françoise ne comprenait pas trop de quelle comète il s'agissait, mais n'en sentait pas moins que cette phrase faisait partie des aimables et originales extravagances auxquelles une personne bien élevée doit répondre avec bonne humeur, par urbanité, et haussant gaiement les épaules d'un air de dire : « Il est bien toujours le même », elle tempérait ses larmes d'un sourire. Au moins était-elle heureuse que son nouveau garçon boucher qui, malgré son métier, était assez craintif (il avait cependant commencé dans les abattoirs) ne fût pas d'âge à partir. Sans quoi elle eût été capable d'aller trouver le Ministre de la Guerre. 
Le maître d'hôtel n'eût pu imaginer que les communiqués ne fussent pas excellents et qu'on ne se rapprochât pas de Berlin, puisqu'il lisait : « Nous avons repoussé, avec de fortes pertes pour l'ennemi, etc. », actions qu'il célébrait comme de nouvelles victoires. J'étais cependant effrayé de la rapidité avec laquelle le théâtre de ces victoires se rapprochait de Paris, et je fus même étonné que le maître d'hôtel, ayant vu dans un communiqué qu'une action avait eu lieu près de Lens, n'eût pas été inquiet en voyant dans le journal du lendemain que ses suites avaient tourné à notre avantage à Jouy-le-Vicomte, dont nous tenions solidement les abords. Le maître d'hôtel savait, connaissait pourtant bien le nom, Jouy-le-Vicomte, qui n'était pas tellement éloigné de Combray. Mais on lit les journaux comme on aime, un bandeau sur les yeux. On ne cherche pas à comprendre les faits. On écoute les douces paroles du rédacteur en chef, comme on écoute les paroles de sa maîtresse. On est battu et content parce qu'on ne se croit pas battu, mais vainqueur. 
Je n'étais pas, du reste, demeuré longtemps à Paris et j'avais regagné assez vite ma maison de santé. Bien qu'en principe le docteur nous traitât par l'isolement, on m'y avait remis à deux époques différentes une lettre de Gilberte et une lettre de Robert. Gilberte m'écrivait (c'était à peu près en septembre 1914) que, quelque désir qu'elle eût de rester à Paris pour avoir plus facilement des nouvelles de Robert, les raids perpétuels de taubes au-dessus de Paris lui avaient causé une telle épouvante, surtout pour sa petite fille, qu'elle s'était enfuie de Paris par le dernier train qui partait encore pour Combray, que le train n'était même pas allé à Combray et que ce n'était que grâce à la charrette d'un paysan sur laquelle elle avait fait dix heures d'un trajet atroce, qu'elle avait pu gagner Tansonville ! « Et là, imaginez-vous ce qui attendait votre vieille amie, m'écrivait en finissant Gilberte. J'étais partie de Paris pour fuir les avions allemands, me figurant qu'à Tansonville je serais à l'abri de tout. Je n'y étais pas depuis deux jours que vous n'imaginerez jamais ce qui arrivait : les Allemands qui envahissaient la région après avoir battu nos troupes près de La Fère, et un état-major allemand suivi d'un régiment qui se présentait à la porte de Tansonville, et que j'étais obligée d'héberger, et pas moyen de fuir, plus un train, rien. » L'étatmajor allemand s'était-il bien conduit, ou fallait-il voir dans la lettre de Gilberte un effet par contagion de l'esprit des Guermantes, lesquels étaient de souche bavaroise, apparentée à la plus haute aristocratie d'Allemagne, mais Gilberte ne tarissait pas sur la parfaite éducation de l'état-major, et même des soldats qui lui avaient seulement demandé « la permission de cueillir un des ne-m'oubliez-pas qui poussaient auprès de l'étang », bonne éducation qu'elle opposait à la violence désordonnée des fuyards français, qui avaient traversé la propriété en saccageant tout, avant l'arrivée des généraux allemands. En tout cas, si la lettre de Gilberte était par certains côtés imprégnée de l'esprit des Guermantes – d'autres diraient de l'internationalisme juif, ce qui n'aurait probablement pas été juste, comme on verra – la lettre que je reçus pas mal de mois plus tard de Robert était, elle, beaucoup plus SaintLoup que Guermantes, reflétant de plus toute la culture libérale qu'il avait acquise, et, en somme, entièrement sympathique. Malheureusement il ne me parlait pas de stratégie comme dans ses conversations de Doncières et ne me disait pas dans quelle mesure il estimait que la guerre confirmât ou infirmât les principes qu'il m'avait alors exposés. Tout au plus me dit-il que depuis 1914 s'étaient en réalité succédé plusieurs guerres, les enseignements de chacune influant sur la conduite de la suivante. Et, par exemple, la théorie de la « percée » avait été complétée par cette thèse qu'il fallait avant de percer bouleverser entièrement par l'artillerie le terrain occupé par l'adversaire. Mais ensuite on avait constaté qu'au contraire ce bouleversement rendait impossible l'avance de l'infanterie et de l'artillerie dans des terrains dont des milliers de trous d'obus avaient fait autant d'obstacles. « La guerre, disait-il, n'échappe pas aux lois de notre vieil Hegel. Elle est en état de perpétuel devenir. » C'était peu auprès de ce que j'aurais voulu savoir. Mais ce qui me fâchait davantage encore c'est qu'il n'avait plus le droit de me citer de noms de généraux. Et d'ailleurs, par le peu que me disait le journal, ce n'était pas ceux dont j'étais à Doncières si préoccupé de savoir lesquels montreraient le plus de valeur dans une guerre, qui conduisaient celle-ci. Geslin de Bourgogne, Galliffet, Négrier étaient morts. Pau avait quitté le service actif presque au début de la guerre. De Joffre, de Foch, de Castelnau, de Pétain, nous n'avions jamais parlé. « Mon petit, m'écrivait Robert, si tu voyais tout ce monde, surtout les gens du peuple, les ouvriers, les petits commerçants, qui ne se doutaient pas de ce qu'ils recelaient en eux d'héroïsme et seraient morts dans leur lit sans l'avoir soupçonné, courir sous les balles pour secourir un camarade, pour emporter un chef blessé, et, frappés eux-mêmes, sourire au moment où ils vont mourir parce que le médecin-chef leur apprend que la tranchée a été reprise aux Allemands, je t'assure, mon cher petit, que cela donne une belle idée du Français et que ça fait comprendre les époques historiques qui nous paraissaient un peu extraordinaires dans nos classes. L'époque est tellement belle que tu trouverais comme moi que les mots ne sont plus rien. Au contact d'une telle grandeur, le mot « poilu » est devenu pour moi quelque chose dont je ne sens pas plus s'il a pu contenir d'abord une allusion ou une plaisanterie que quand nous lisons « chouans » par exemple. Mais je sais « poilu » déjà prêt pour de grands poètes, comme les mots déluge, ou Christ, ou barbares qui étaient déjà pétris de grandeur avant que s'en fussent servis Hugo, Vigny, ou les autres. Je dis que le peuple est ce qu'il y a de mieux, mais tout le monde est bien. Le pauvre Vaugoubert, le fils de l'ambassadeur, a été sept fois blessé avant d'être tué, et chaque fois qu'il revenait d'une expédition sans avoir écopé, il avait l'air de s'excuser et de dire que ce n'était pas sa faute. C'était un être charmant. Nous nous étions beaucoup liés, les pauvres parents ont eu la permission de venir à l'enterrement, à condition de ne pas être en deuil et de ne rester que cinq minutes à cause du bombardement. La mère, un grand cheval que tu connais peut-être, pouvait avoir beaucoup de chagrin, on ne distinguait rien. Mais le pauvre père était dans un tel état que je t'assure que moi, qui ai fini par devenir tout à fait insensible à force de prendre l'habitude de voir la tête du camarade, qui est en train de me parler, subitement labourée par une torpille ou même détachée du tronc, je ne pouvais pas me contenir en voyant l'effondrement du pauvre Vaugoubert qui n'était plus qu'une espèce de loque. Le Général avait beau lui dire que c'était pour la France, que son fils s'était conduit en héros, cela ne faisait que redoubler les sanglots du pauvre homme qui ne pouvait pas se détacher du corps de son fils. Enfin, et c'est pour cela qu'il faut se dire qu'« ils ne passeront pas », tous ces gens-là, comme mon pauvre valet de chambre, comme Vaugoubert, ont empêché les Allemands de passer. Tu trouves peut-être que nous n'avançons pas beaucoup, mais il ne faut pas raisonner, une armée se sent victorieuse par une impression intime, comme un mourant se sent foutu. Or nous savons que nous aurons la victoire et nous la voulons pour dicter la paix juste, je ne veux pas dire seulement pour nous, vraiment juste, juste pour les Français, juste pour les Allemands. » 
De même que les héros d'un esprit médiocre et banal écrivant des poèmes pendant leur convalescence se plaçaient pour décrire la guerre non au niveau des événements, qui en eux-mêmes ne sont rien, mais de la banale esthétique, dont ils avaient suivi les règles jusque-là, parlant, comme ils eussent fait dix ans plus tôt, de la « sanglante aurore », du « vol frémissant de la victoire », etc., Saint-Loup, lui, beaucoup plus intelligent et artiste, restait intelligent et artiste, et notait avec goût pour moi des paysages pendant qu'il était immobilisé à la lisière d'une forêt marécageuse, mais comme si ç'avait été pour une chasse au canard. Pour me faire comprendre certaines oppositions d'ombre et de lumière qui avaient été « l'enchantement de sa matinée », il me citait certains tableaux que nous aimions l'un et l'autre et ne craignait pas de faire allusion à une page de Romain Rolland, voire de Nietzsche, avec cette indépendance des gens du front qui n'avaient pas la même peur de prononcer un nom allemand que ceux de l'arrière, et même avec cette pointe de coquetterie à citer un ennemi que mettait, par exemple, le colonel du Paty de Clam, dans la salle des témoins de l'affaire Zola, à réciter en passant devant Pierre Quillard, poète dreyfusard de la plus extrême violence et que, d'ailleurs, il ne connaissait pas, des vers de son drame symboliste : La Fille aux mains coupées. Saint-Loup me parlait-il d'une mélodie de Schumann, il n'en donnait le titre qu'en allemand et ne prenait aucune circonlocution pour me dire que quand, à l'aube, il avait entendu un premier gazouillement à la lisière d'une forêt, il avait été enivré comme si lui avait parlé l'oiseau de ce « sublime Siegfried » qu'il espérait bien entendre après la guerre. 
Et maintenant, à mon second retour à Paris, j'avais reçu dès le lendemain de mon arrivée, une nouvelle lettre de Gilberte, qui sans doute avait oublié celle, ou du moins le sens de celle que j'ai rapportée, car son départ de Paris à la fin de 1914 y était représenté rétrospectivement d'une manière assez différente. « Vous ne savez peut-être pas, mon cher ami, me disait-elle, que voilà bientôt deux ans que je suis à Tansonville. 
J'y suis arrivée en même temps que les Allemands. Tout le monde avait voulu m'empêcher de partir. On me traitait de folle. – Comment, me disait-on, vous êtes en sûreté à Paris et vous partez pour ces régions envahies, juste au moment où tout le monde cherche à s'en échapper. – Je ne méconnaissais pas tout ce que ce raisonnement avait de juste. Mais, que voulez-vous, je n'ai qu'une seule qualité, je ne suis pas lâche, ou, si vous aimez mieux, je suis fidèle, et quand j'ai su mon cher Tansonville menacé, je n'ai pas voulu que notre vieux régisseur restât seul à le défendre. Il m'a semblé que ma place était à ses côtés. Et c'est, du reste, grâce à cette résolution que j'ai pu sauver à peu près le château – quand tous les autres dans le voisinage, abandonnés par leurs propriétaires affolés, ont été presque tous détruits de fond en comble – et non seulement le château, mais les précieuses collections auxquelles mon cher Papa tenait tant. » En un mot, Gilberte était persuadée maintenant qu'elle n'était pas allée à Tansonville, comme elle me l'avait écrit en 1914, pour fuir les Allemands et pour être à l'abri, mais au contraire pour les rencontrer et défendre contre eux son château. Ils n'étaient pas restés à Tansonville, d'ailleurs, mais elle n'avait plus cessé d'avoir chez elle un va-et-vient constant de militaires qui dépassait de beaucoup celui qui tirait les larmes à Françoise dans la rue de Combray, et de mener, comme elle disait cette fois en toute vérité, la vie du front. Aussi parlait-on dans les journaux avec les plus grands éloges de son admirable conduite et il était question de la décorer. La fin de sa lettre était entièrement exacte. « Vous n'avez pas idée de ce que c'est que cette guerre, mon cher ami, et de l'importance qu'y prend une route, un pont, une hauteur. Que de fois j'ai pensé à vous, aux promenades, grâce à vous rendues délicieuses, que nous faisions ensemble dans tout ce pays aujourd'hui ravagé, alors que d'immenses combats se livrent pour la possession de tel chemin, de tel coteau que vous aimiez, où nous sommes allés si souvent ensemble. Probablement vous comme moi, vous ne vous imaginiez pas que l'obscur Roussainville et l'assommant Méséglise, d'où on nous portait nos lettres, et où on était allé chercher le docteur quand vous avez été souffrant, seraient jamais des endroits célèbres. Eh bien, mon cher ami, ils sont à jamais entrés dans la gloire au même titre qu'Austerlitz ou Valmy. La bataille de Méséglise a duré plus de huit mois, les Allemands y ont perdu plus de cent mille hommes, ils ont détruit Méséglise, mais ils ne l'ont pas pris. Le petit chemin que vous aimiez tant, que nous appelions le raidillon aux aubépines et où vous prétendez que vous êtes tombé dans votre enfance amoureux de moi, alors que je vous assure en toute vérité que c'était moi qui étais amoureuse de vous, je ne peux pas vous dire l'importance qu'il a prise. L'immense champ de blé auquel il aboutit, c'est la fameuse cote 307 dont vous avez dû voir le nom revenir si souvent dans les communiqués. Les Français ont fait sauter le petit pont sur la Vivonne qui, disiez-vous, ne vous rappelait pas votre enfance autant que vous l'auriez voulu, les Allemands en ont jeté d'autres ; pendant un an et demi ils ont eu une moitié de 
Combray et les Français l'autre moitié. » 
Le lendemain du jour où j'avais reçu cette lettre, c'est-àdire l'avant-veille de celui où, cheminant dans l'obscurité, j'entendais sonner le bruit de mes pas, tout en remâchant tous ces souvenirs, Saint-Loup venu du front, sur le point d'y retourner, m'avait fait une visite de quelques secondes seulement, dont l'annonce seule m'avait violemment ému. Françoise avait d'abord voulu se précipiter sur lui, espérant qu'il pourrait faire réformer le timide garçon boucher, dont, dans un an, la classe allait partir. Mais elle fut arrêtée ellemême en pensant à l'inutilité de cette démarche, car depuis longtemps le timide tueur d'animaux avait changé de boucherie, et soit que la patronne de la nôtre craignît de perdre notre clientèle, soit qu'elle fût de bonne foi, elle avait déclaré à Françoise qu'elle ignorait où ce garçon, « qui, d'ailleurs, ne ferait jamais un bon boucher », était employé. Françoise avait bien cherché partout, mais Paris est grand, les boucheries nombreuses, et elle avait eu beau entrer dans un grand nombre, elle n'avait pu retrouver le jeune homme timide et sanglant. 
Quand Saint-Loup était entré dans ma chambre, je l'avais approché avec ce sentiment de timidité, avec cette impression de surnaturel que donnaient au fond tous les permissionnaires et qu'on éprouve quand on est introduit auprès d'une personne atteinte d'un mal mortel et qui cependant se lève, s'habille, se promène encore. Il semblait (il avait surtout semblé au début, car pour qui n'avait pas vécu comme moi loin de Paris, l'habitude était venue qui retranche aux choses que nous avons vues plusieurs fois la racine d'impression profonde et de pensée qui leur donne leur sens réel), il semblait presque qu'il y eût quelque chose de cruel dans ces permissions données aux combattants. Aux premières, on se disait : « Ils ne voudront pas repartir, ils déserteront. » Et en effet, ils ne venaient pas seulement de lieux qui nous semblaient irréels parce que nous n'en avions entendu parler que par les journaux et que nous ne pouvions nous figurer qu'on eût pris part à ces combats titaniques et revenir seulement avec une contusion à l'épaule ; c'était des rivages de la mort, vers lesquels ils allaient retourner, qu'ils venaient un instant parmi nous, incompréhensibles pour nous, nous remplissant de tendresse, d'effroi, et d'un sentiment de mystère, comme ces morts que nous évoquons, qui nous apparaissent une seconde, que nous n'osons pas interroger et qui, du reste, pourraient tout au plus nous répondre : « Vous ne pourriez pas vous figurer. » Car il est extraordinaire à quel point chez les rescapés du front que sont les permissionnaires parmi les vivants, ou chez les morts qu'un médium hypnotise ou évoque, le seul effet d'un contact avec le mystère soit d'accroître s'il est possible l'insignifiance des propos. Tel j'abordai Robert qui avait encore au front une cicatrice plus auguste et plus mystérieuse pour moi que l'empreinte laissée sur la terre par le pied d'un géant. Et je n'avais pas osé lui poser de question et il ne m'avait dit que de simples paroles. Encore étaient-elles fort peu différentes de ce qu'elles eussent été avant la guerre, comme si les gens, malgré elle, continuaient à être ce qu'ils étaient ; le ton des entretiens était le même, la matière seule différait, et encore ! 
Je crus comprendre que Robert avait trouvé aux armées des ressources qui lui avaient fait peu à peu oublier que Morel s'était aussi mal conduit avec lui qu'avec son oncle. Pourtant il lui gardait une grande amitié et était pris de brusques désirs de le revoir, qu'il ajournait sans cesse. Je crus plus délicat envers Gilberte de ne pas indiquer à Robert que pour retrouver Morel il n'avait qu'à aller chez Mme Verdurin. 
Je dis avec humilité à Robert combien on sentait peu la guerre à Paris, il me dit que même à Paris c'était quelquefois « assez inouï ». Il faisait allusion à un raid de zeppelins qu'il y avait eu la veille et il me demanda si j'avais bien vu, mais comme il m'eût parlé autrefois de quelque spectacle d'une grande beauté esthétique. Encore au front comprend-on qu'il y ait une sorte de coquetterie à dire : « C'est merveilleux, quel rose ! et ce vert pâle ! », au moment où on peut à tout instant être tué, mais ceci n'existait pas chez Saint-Loup, à Paris, à propos d'un raid insignifiant. Je lui parlai de la beauté des avions qui montaient dans la nuit. « Et peut-être encore plus de ceux qui descendent, me dit-il. Je reconnais que c'est très beau le moment où ils montent, où ils vont faire constellation et obéissent en cela à des lois tout aussi précises que celles qui régissent les constellations, car ce qui te semble un spectacle est le ralliement des escadrilles, les commandements qu'on leur donne, leur départ en chasse, etc. Mais est-ce que tu n'aimes pas mieux le moment où, définitivement assimilés aux étoiles, ils s'en détachent pour partir en chasse ou rentrer après la berloque, le moment où ils « font apocalypse », même les étoiles ne gardant plus leur place. Et ces sirènes, était-ce assez wagnérien, ce qui, du reste, était bien naturel pour saluer l'arrivée des Allemands, ça faisait très hymne national, très Wacht am Rhein, avec le Kronprinz et les princesses dans la loge impériale ; c'était à se demander si c'était bien des aviateurs et pas plutôt des Walkyries qui montaient. » Il semblait avoir plaisir à cette assimilation des aviateurs et des Walkyries et l'expliquait, d'ailleurs, par des raisons purement musicales : « Dame, c'est que la musique des sirènes était d'une Chevauchée. Il faut décidément l'arrivée des Allemands pour qu'on puisse entendre du Wagner à Paris. » À certains points de vue la comparaison n'était pas fausse. La ville semblait une masse informe et noire qui tout d'un coup passait des profondeurs de la nuit dans la lumière et dans le ciel où un à un les aviateurs s'élevaient à l'appel déchirant des sirènes, cependant que d'un mouvement plus lent, mais plus insidieux, plus alarmant, car ce regard faisait penser à l'objet invisible encore et peut-être déjà proche qu'il cherchait, les projecteurs se remuaient sans cesse, flairaient l'ennemi, le cernaient dans leurs lumières jusqu'au moment où les avions aiguillés bondiraient en chasse pour le saisir. Et escadrille après escadrille chaque aviateur s'élançait ainsi de la ville, transporté maintenant dans le ciel, pareil à une Walkyrie. Pourtant des coins de la terre, au ras des maisons, s'éclairaient et je dis à Saint-Loup que s'il avait été à la maison la veille, il aurait pu, tout en contemplant l'apocalypse dans le ciel, voir sur la terre, comme dans l'enterrement du comte d'Orgaz du Greco où ces différents plans sont parallèles, un vrai vaudeville joué par des personnages en chemise de nuit, lesquels, à cause de leurs noms célèbres, eussent mérité d'être envoyés à quelque successeur de ce Ferrari dont les notes mondaines nous avaient si souvent amusés, Saint-Loup et moi, que nous nous amusions pour nous-mêmes à en inventer. Et c'est ce que nous aurions fait encore ce jour-là comme s'il n'y avait pas la guerre, bien que sur un sujet fort « guerre » : la peur des Zeppelins – reconnu : la duchesse de Guermantes superbe en chemise de nuit, le duc de Guermantes inénarrable en pyjama rose et peignoir de bain, etc., etc. « Je suis sûr, me dit-il, que dans tous les grands hôtels on a dû voir les juives américaines en chemise, serrant sur leur sein décati le collier de perles qui leur permettra d'épouser un duc décavé. L'hôtel Ritz, ces soirslà, doit ressembler à l'Hôtel du libre échange. » 
Je demandai à Saint-Loup si cette guerre avait confirmé ce que nous disions des guerres passées à Doncières. Je lui rappelai des propos que lui-même avait oubliés, par exemple sur les pastiches des batailles par les généraux à venir. « La feinte, lui disais-je, n'est plus guère possible dans ces opérations qu'on prépare d'avance avec de telles accumulations d'artillerie. Et ce que tu m'as dit depuis sur les reconnaissances par les avions, qu'évidemment tu ne pouvais pas prévoir, empêche l'emploi des ruses napoléoniennes. – Comme tu te trompes, me répondit-il, cette guerre, évidemment, est nouvelle par rapport aux autres et se compose elle-même de guerres successives, dont la dernière est une innovation par rapport à celle qui l'a précédée. Il faut s'adapter à une formule nouvelle de l'ennemi pour se défendre contre elle, et alors lui-même recommence à innover, mais, comme en toute chose humaine, les vieux trucs prennent toujours. Pas plus tard qu'hier au soir, le plus intelligent des critiques militaires écrivait : « Quand les Allemands ont voulu délivrer la Prusse orientale, ils ont commencé l'opération par une puissante démonstration fort au sud contre Varsovie, sacrifiant dix mille hommes pour tromper l'ennemi. Quand ils ont créé, au début de 1915, la masse de manœuvre de l'archiduc Eugène pour dégager la Hongrie menacée, ils ont répandu le bruit que cette masse était destinée à une opération contre la Serbie. C'est ainsi qu'en 1800 l'armée qui allait opérer contre l'Italie était essentiellement qualifiée d'armée de réserve et semblait destinée non à passer les Alpes, mais à appuyer les armées engagées sur les théâtres septentrionaux. La ruse d'Hindenburg attaquant Varsovie pour masquer l'attaque véritable sur les lacs de Mazurie est imitée d'un plan de Napoléon de 1812. » Tu vois que M. Bidou reproduit presque les paroles que tu me rappelles et que j'avais oubliées. Et comme la guerre n'est pas finie, ces ruses-là se reproduiront encore et réussiront, car on ne perce rien à jour, ce qui a pris une fois a pris parce que c'était bon et prendra toujours. » Et en effet, bien longtemps après cette conversation avec SaintLoup, pendant que les regards des Alliés étaient fixés sur Pétrograd, contre laquelle capitale on croyait que les Allemands commençaient leur marche, ils préparaient la plus puissante offensive contre l'Italie. SaintLoup me cita bien d'autres exemples de pastiches militaires, ou, si l'on croit qu'il n'y a pas un art mais une science militaire, d'application de lois permanentes. « Je ne veux pas dire, il y aurait contradiction dans les mots, ajouta SaintLoup, que l'art de la guerre soit une science. Et s'il y a une science de la guerre, il y a diversité, dispute et contradiction entre les savants. Diversité projetée pour une part dans la catégorie du temps. Ceci est assez rassurant, car, pour autant que cela est, cela n'indique pas forcément erreur mais vérité qui évolue. » Il devait me dire plus tard : « Vois dans cette guerre l'évolution des idées sur la possibilité de la percée, par exemple. On y croit d'abord, puis on vient à la doctrine de l'invulnérabilité des fronts, puis à celle de la percée possible, mais dangereuse, de la nécessité de ne pas faire un pas en avant sans que l'objectif soit d'abord détruit (un journaliste péremptoire écrira que prétendre le contraire est la plus grande sottise qu'on puisse dire), puis, au contraire, à celle d'avancer avec une très faible préparation d'artillerie, puis on en vient à faire remonter l'invulnérabilité des fronts à la guerre de 1870 et à prétendre que c'est une idée fausse pour la guerre actuelle, donc une idée d'une vérité relative. Fausse dans la guerre actuelle à cause de l'accroissement des masses et du perfectionnement des engins (voir Bidou du 2 juillet 1918), accroissement qui d'abord avait fait croire que la prochaine guerre serait très courte, puis très longue, et enfin a fait croire de nouveau à la possibilité des décisions victorieuses. Bidou cite les Alliés sur la Somme, les Allemands vers Paris en 1918. De même à chaque conquête des 
Allemands on dit : le terrain n'est rien, les villes ne sont rien, ce qu'il faut c'est détruire la force militaire de l'adversaire. Puis les Allemands à leur tour adoptent cette théorie en 1918 et alors Bidou explique curieusement (2 juillet 1918) comment certains points vitaux, certains espaces essentiels s'ils sont conquis décident de la victoire. C'est, d'ailleurs, une tournure de son esprit. Il a montré comment si la Russie était bouchée sur mer elle serait défaite et qu'une armée enfermée dans une sorte de camp d'emprisonnement est destinée à périr. » 
Il faut dire pourtant que si la guerre n'avait pas modifié le caractère de Saint-Loup, son intelligence, conduite par une évolution où l'hérédité entrait pour une grande part, avait pris un brillant que je ne lui avais jamais vu. Quelle distance entre le jeune blondin qui jadis était courtisé par les femmes chic ou aspirait à le devenir, et le discoureur, le doctrinaire qui ne cessait de jouer avec les mots ! À une autre génération, sur une autre tige, comme un acteur qui reprend le rôle joué jadis par Bressant ou Delaunay, il était comme un successeur – rose, blond et doré, alors que l'autre était mi-partie très noir et tout blanc – de M. de Charlus. Il avait beau ne pas s'entendre avec son oncle sur la guerre, s'étant rangé dans cette fraction de l'aristocratie qui faisait passer la France avant tout tandis que M. de Charlus était au fond défaitiste, il pouvait montrer à celui qui n'avait pas vu le « créateur du rôle » comment on pouvait exceller dans l'emploi de raisonneur. « Il paraît que Hindenbourg c'est une révélation, lui dis-je. – Une vieille révélation, me répondit-il du « tac au tac », ou une future révélation. » Il aurait fallu, au lieu de ménager l'ennemi, laisser faire Mangin, abattre l'Autriche et l'Allemagne et européaniser la Turquie au lieu de montégriniser la France. « Mais nous aurons l'aide des États-Unis, lui dis-je. – En attendant, je ne vois ici que le spectacle des États désunis. Pourquoi ne pas faire des concessions plus larges à l'Italie par la peur de déchristianiser la France ? – Si ton oncle Charlus t'entendait ! lui dis-je. Au fond tu ne serais pas fâché qu'on offense encore un peu plus le Pape, et lui pense avec désespoir au mal qu'on peut faire au trône de François-Joseph. Il se dit, d'ailleurs, en cela dans la tradition de Talleyrand et du Congrès de Vienne. – L'ère du Congrès de Vienne est révolue, me répondit-il ; à la diplomatie secrète il faut opposer la diplomatie concrète. Mon oncle est au fond un monarchiste impénitent à qui on ferait avaler des carpes comme Mme Molé ou des escarpes comme Arthur Meyer, pourvu que carpes et escarpes fussent à la Chambord. Par haine du drapeau tricolore, je crois qu'il se rangerait plutôt sous le torchon du Bonnet rouge, qu'il prendrait de bonne foi pour le Drapeau blanc. » Certes, ce n'était que des mots et Saint-Loup était loin d'avoir l'originalité quelquefois profonde de son oncle. Mais il était aussi affable et charmant de caractère que l'autre était soupçonneux et jaloux. Et il était resté charmant et rose comme à Balbec, sous tous ses cheveux d'or. La seule chose où son oncle ne l'eût pas dépassé était cet état d'esprit du faubourg Saint-Germain dont sont empreints ceux qui croient s'en être le plus détachés et qui leur donne à la fois ce respect des hommes intelligents pas nés (qui ne fleurit vraiment que dans la noblesse et rend les révolutions si injustes) et cette niaise satisfaction de soi. De par ce mélange d'humilité et d'orgueil, de curiosité d'esprit acquise et d'autorité innée, M. de Charlus et Saint-Loup, par des chemins différents et avec des opinions opposées, étaient devenus, à une génération d'intervalle, des intellectuels que toute idée nouvelle intéresse et des causeurs de qui aucun interrupteur ne peut obtenir le silence. De sorte qu'une personne un peu médiocre pouvait les trouver l'un et l'autre, selon la disposition où elle se trouvait, éblouissants ou raseurs. 
Tout en me rappelant la visite de Saint-Loup j'avais marché, puis, pour aller chez Mme Verdurin, fait un long crochet ; j'étais presque au pont des Invalides. Les lumières, assez peu nombreuses (à cause des gothas), étaient allumées un peu trop tôt, car le changement d'heure avait été fait un peu trop tôt, quand la nuit venait encore assez vite, mais stabilisé pour toute la belle saison (comme les calorifères sont allumés et éteints à partir d'une certaine date), et audessus de la ville nocturnement éclairée, dans toute une partie du ciel – du ciel ignorant de l'heure d'été et de l'heure d'hiver, et qui ne daignait pas savoir que 8 h. ½ était devenu 9 h. ½ – dans toute une partie du ciel bleuâtre il continuait à faire un peu jour. Dans toute la partie de la ville que dominent les tours du Trocadéro, le ciel avait l'air d'une immense mer nuance de turquoise qui se retire, laissant déjà émerger toute une ligne légère de rochers noirs, peut-être même de simples filets de pêcheurs alignés les uns auprès des autres, et qui étaient de petits nuages. Mer en ce moment couleur turquoise et qui emporte avec elle, sans qu'ils s'en aperçoivent, les hommes entraînés dans l'immense révolution de la terre, de la terre sur laquelle ils sont assez fous pour continuer leurs révolutions à eux, et leurs vaines guerres, comme celle qui ensanglantait en ce moment la France. Du reste, à force de regarder le ciel paresseux et trop beau, qui ne trouvait pas digne de lui de changer son horaire et au-dessus de la ville allumée prolongeait mollement, en ces tons bleuâtres, sa journée qui s'attardait, le vertige prenait : ce n'était plus une mer étendue, mais une gradation verticale de bleus glaciers. Et les tours du Trocadéro qui semblaient si proches des degrés de turquoise devaient en être extrêmement éloignées, comme ces deux tours de certaines villes de Suisse qu'on croirait dans le lointain voisines avec la pente des cimes. 
Je revins sur mes pas, mais une fois quitté le pont des Invalides, il ne faisait plus jour dans le ciel, il n'y avait même guère de lumières dans la ville, et butant çà et là contre des poubelles, prenant un chemin pour un autre, je me trouvai sans m'en douter, en suivant machinalement un dédale de rues obscures, arrivé sur les boulevards. Là, l'impression d'Orient que je venais d'avoir se renouvela et, d'autre part, à l'évocation du Paris du Directoire succéda celle du Paris de 1815. Comme en 1815 c'était le défilé le plus disparate des uniformes des troupes alliées ; et, parmi elles, des Africains en jupe-culotte rouge, des Hindous enturbannés de blanc suffisaient pour que de ce Paris où je me promenais je fisse toute une imaginaire cité exotique, dans un Orient à la fois minutieusement exact en ce qui concernait les costumes et la couleur des visages, arbitrairement chimérique en ce qui concernait le décor, comme de la ville où il vivait, Carpaccio fit une Jérusalem ou une Constantinople en y assemblant une foule dont la merveilleuse bigarrure n'était pas plus colorée que celle-ci. Marchant derrière deux zouaves qui ne semblaient guère se préoccuper de lui, j'aperçus un homme gras et gros, en feutre mou, en longue houppelande et sur la figure mauve duquel j'hésitai si je devais mettre le nom d'un acteur ou d'un peintre également connus pour d'innombrables scandales sodomistes. J'étais certain en tout cas que je ne connaissais pas le promeneur, aussi fus-je bien surpris, quand ses regards rencontrèrent les miens, de voir qu'il avait l'air gêné et fit exprès de s'arrêter et de venir à moi comme un homme qui veut montrer que vous ne le surprenez nullement en train de se livrer à une occupation qu'il eût préféré laisser secrète. Une seconde je me demandai qui me disait bonjour : c'était M. de Charlus. On peut dire que pour lui l'évolution de son mal ou la révolution de son vice était à ce point extrême où la petite personnalité primitive de l'individu, ses qualités ancestrales, sont entièrement interceptées par le passage en face d'elles du défaut ou du mal générique dont ils sont accompagnés. M. de Charlus était arrivé aussi loin qu'il était possible de soi-même, ou plutôt il était lui-même si parfaitement masqué par ce qu'il était devenu et qui n'appartenait pas à lui seul, mais à beaucoup d'autres invertis, qu'à la première minute je l'avais pris pour un autre d'entre eux, derrière ces zouaves, en plein boulevard, pour un autre d'entre eux qui n'était pas M. de Charlus, qui n'était pas un grand seigneur, qui n'était pas un homme d'imagination et d'esprit et qui n'avait pour toute ressemblance avec le baron que cet air commun à eux tous, et qui maintenant chez lui, au moins avant qu'on se fût appliqué à bien regarder, couvrait tout. C'est ainsi qu'ayant voulu aller chez Mme Verdurin j'avais rencontré M. de Charlus. Et certes, je ne l'eusse pas comme autrefois trouvé chez elle ; leur brouille n'avait fait que s'aggraver et Mme Verdurin se servait même des événements présents pour le discréditer davantage. Ayant dit depuis longtemps qu'elle le trouvait usé, fini, plus démodé dans ses prétendues audaces que les plus pompiers, elle résumait maintenant cette condamnation et dégoûtait de lui toutes les imaginations en disant qu'il était « avant-guerre ». La guerre avait mis entre lui et le présent, selon le petit clan, une coupure qui le reculait dans le passé le plus mort. D'ailleurs – et ceci s'adressait plutôt au monde politique, qui était moins informé – elle le représentait comme aussi « toc », aussi « à côté » comme situation mondaine que comme valeur intellectuelle. « Il ne voit personne, personne ne le reçoit », disait-elle à M. Bontemps, qu'elle persuadait aisément. Il y avait d'ailleurs du vrai dans ces paroles. La situation de M. de Charlus avait changé. Se souciant de moins en moins du monde, s'étant brouillé par caractère quinteux et ayant, par conscience de sa valeur sociale, dédaigné de se réconcilier avec la plupart des personnes qui étaient la fleur de la société, il vivait dans un isolement relatif qui n'avait pas, comme celui où était morte Mme de 
Villeparisis, l'ostracisme de l'aristocratie pour cause, mais qui aux yeux du public paraissait pire pour deux raisons. La mauvaise réputation, maintenant connue, de M. de Charlus faisait croire aux gens peu renseignés que c'était pour cela que ne le fréquentaient point les gens que de son propre chef il refusait de fréquenter. De sorte que ce qui était l'effet de son humeur atrabilaire semblait celui du mépris des personnes à l'égard de qui elle s'exerçait. D'autre part, Mme de Villeparisis avait eu un grand rempart : la famille. Mais M. de Charlus avait multiplié entre elle et lui les brouilles. Elle lui avait, d'ailleurs – surtout côté vieux faubourg, côté Courvoisier – semblé inintéressante. Et il ne se doutait guère, lui qui avait fait vers l'art, par opposition aux Courvoisier, des pointes si hardies, que ce qui eût intéressé le plus en lui un Bergotte, par exemple, c'était sa parenté avec tout ce vieux faubourg, c'eût été le pouvoir de décrire la vie quasi provinciale menée par ses cousines de la rue de la Chaise, à la place du Palais-Bourbon et à la rue Garancière. Point de vue moins transcendant et plus pratique, Mme Verdurin affectait de croire qu'il n'était pas Français. « Quelle est sa nationalité exacte, est-ce qu'il n'est pas Autrichien ? demandait innocemment M. Verdurin. – Mais non, pas du tout, répondait la comtesse Molé, dont le premier mouvement obéissait plutôt au bon sens qu'à la rancune. – Mais non, il est Prussien, disait la Patronne, mais je vous le dis, je le sais, il nous l'a assez répété qu'il était membre héréditaire de la Chambre des Seigneurs de Prusse et Durchlaucht. – Pourtant la reine de Naples m'avait dit... – Vous savez que c'est une affreuse espionne, s'écriait Mme Verdurin qui n'avait pas oublié l'attitude que la souveraine déchue avait eue un soir chez elle. Je le sais et d'une façon précise, elle ne vivait que de ça. Si nous avions un gouvernement plus énergique, tout ça devrait être dans un camp de concentration. Et allez donc ! En tout cas, vous ferez bien de ne pas recevoir ce joli monde, parce que je sais que le Ministre de l'Intérieur a l'œil sur eux, votre hôtel serait surveillé. Rien ne m'enlèvera de l'idée que pendant deux ans Charlus n'a pas cessé d'espionner chez moi. » Et pensant probablement qu'on pouvait avoir un doute sur l'intérêt que pouvaient présenter pour le gouvernement allemand les rapports les plus circonstanciés sur l'organisation du petit clan, Mme Verdurin, d'un air doux et perspicace, en personne qui sait que la valeur de ce qu'elle dit ne paraîtra que plus précieuse si elle n'enfle pas la voix pour le dire : « Je vous dirai que dès le premier jour j'ai dit à mon mari : Ça ne me va pas, la façon dont cet homme s'est introduit chez moi. Ça a quelque chose de louche. Nous avions une propriété au fond d'une baie, sur un point très élevé. Il était sûrement chargé par les Allemands de préparer là une base pour leurs sous-marins. Il y avait des choses qui m'étonnaient et que maintenant je comprends. Ainsi au début il ne pouvait pas venir par le train avec les autres habitués. Moi je lui avais très gentiment proposé une chambre dans le château. Hé bien, non, il avait préféré habiter Doncières où il y avait énormément de troupe. Tout ça sentait l'espionnage à plein nez. » Pour la première des accusations dirigées contre le baron de Charlus, celle d'être passé de mode, les gens du monde ne donnaient que trop aisément raison à Mme 
Verdurin. En fait, ils étaient ingrats, car M. de Charlus était en quelque sorte leur poète, celui qui avait su dégager dans la mondanité ambiante une sorte de poésie où il entrait de l'histoire, de la beauté, du pittoresque, du comique, de la frivole élégance. Mais les gens du monde, incapables de comprendre cette poésie, n'en voyant aucune dans leur vie, la cherchaient ailleurs et mettaient à mille pieds au-dessus de M. de Charlus des hommes qui lui étaient infiniment inférieurs, mais qui prétendaient mépriser le monde et, en revanche, professaient des théories de sociologie et d'économie politique. M. de Charlus s'enchantait à raconter des mots involontairement lyriques, et à décrire les toilettes savamment gracieuses de la duchesse de X..., la traitant de femme sublime, ce qui le faisait considérer comme une espèce d'imbécile par des femmes du monde qui trouvaient la duchesse de X... une sotte sans intérêt, que les robes sont faites pour être portées mais sans qu'on ait l'air d'y faire aucune attention, et qui, elles, plus intelligentes, couraient à la Sorbonne ou à la Chambre, si Deschanel devait parler. Bref, les gens du monde s'étaient désengoués de M. de Charlus, non pas pour avoir trop pénétré, mais sans avoir pénétré jamais sa rare valeur intellectuelle. On le trouvait « avant-guerre », démodé, car ceux-là mêmes qui sont le plus incapables de juger les mérites sont ceux qui pour les classer adoptent le plus l'ordre de la mode ; ils n'ont pas épuisé, pas même effleuré les hommes de mérite qu'il y avait dans une génération, et maintenant il faut les condamner tous en bloc car voici l'étiquette d'une génération nouvelle, qu'on ne comprendra pas davantage. Quant à la deuxième accusation, celle de germanisme, l'esprit juste-milieu des gens du monde la leur faisait repousser, mais elle avait trouvé un interprète inlassable et particulièrement cruel en Morel qui, ayant su garder dans les journaux, et même dans le monde, la place que M. de Charlus avait, en prenant, les deux fois, autant de peine, réussi à lui faire obtenir, mais non pas ensuite à lui faire retirer, poursuivait le baron d'une haine implacable ; c'était non seulement cruel de la part de 
Morel, mais doublement coupable, car quelles qu'eussent été ses relations exactes avec le baron, il avait connu de lui ce qu'il cachait à tant de gens, sa profonde bonté. M. de Charlus avait été avec le violoniste d'une telle générosité, d'une telle délicatesse, lui avait montré de tels scrupules de ne pas manquer à sa parole, qu'en le quittant l'idée que Charlie avait emportée de lui n'était nullement l'idée d'un homme vicieux (tout au plus considérait-il le vice du baron comme une maladie) mais de l'homme ayant le plus d'idées élevées qu'il eût jamais connu, un homme d'une sensibilité extraordinaire, une manière de saint. Il le niait si peu que, même brouillé avec lui, il disait sincèrement à des parents : « Vous pouvez lui confier votre fils, il ne peut avoir sur lui que la meilleure influence. » Aussi quand il cherchait par ses articles à le faire souffrir, dans sa pensée ce qu'il bafouait en lui ce n'était pas le vice, c'était la vertu. Un peu avant la guerre, de petites chroniques, transparentes pour ce qu'on appelait les initiés, avaient commencé à faire le plus grand tort à M. de Charlus. De l'une intitulée : « Les mésaventures d'une douairière en us, les vieux jours de la Baronne », Mme Verdurin avait acheté cinquante exemplaires pour pouvoir la prêter à ses connaissances, et M. Verdurin, déclarant que Voltaire même n'écrivait pas mieux, en donnait lecture à haute voix. Depuis la guerre le ton avait changé. L'inversion du baron n'était pas seule dénoncée, mais aussi sa prétendue nationalité germanique : « Frau Bosch », « Frau von den Bosch » étaient les surnoms habituels de M. de Charlus. Un morceau d'un caractère poétique avait ce titre emprunté à certains airs de danse dans Beethoven : « Une Allemande ». Enfin deux nouvelles : « Oncle d'Amérique et Tante de Francfort » et « Gaillard d'arrière » lues en épreuves dans le petit clan, avaient fait la joie de Brichot lui-même qui s'était écrié : « Pourvu que très haute et très puissante Anastasie ne nous caviarde pas ! » Les articles eux-mêmes étaient plus fins que ces titres ridicules. Leur style dérivait de Bergotte mais d'une façon à laquelle seul peut-être j'étais sensible, et voici pourquoi. Les écrits de Bergotte n'avaient nullement influé sur Morel. La fécondation s'était faite d'une façon toute particulière et si rare que c'est à cause de cela seulement que je la rapporte ici. J'ai indiqué en son temps la manière si spéciale que Bergotte avait, quand il parlait, de choisir ses mots, de les prononcer. Morel, qui l'avait longtemps rencontré, avait fait de lui alors des « imitations », où il contrefaisait parfaitement sa voix, usant des mêmes mots qu'il eût pris. Or maintenant, Morel pour écrire transcrivait des conversations à la Bergotte, mais sans leur faire subir cette transposition qui en eût fait du Bergotte écrit. Peu de personnes ayant causé avec Bergotte, on ne reconnaissait pas le ton, qui différait du style. Cette fécondation orale est si rare que j'ai voulu la citer ici. Elle ne produit, d'ailleurs, que des fleurs stériles. 
Morel qui était au bureau de la presse et dont personne ne connaissait la situation irrégulière affectait de trouver, son sang français bouillant dans ses veines comme le jus des raisins de Combray, que c'était peu de chose que d'être dans un bureau pendant la guerre et feignait de vouloir s'engager (alors qu'il n'avait qu'à rejoindre) pendant que Mme Verdurin faisait tout ce qu'elle pouvait pour lui persuader de rester à Paris. 
Certes, elle était indignée que M. de Cambremer, à son âge, fût dans un état-major, et de tout homme qui n'allait pas chez elle elle disait : « Où est-ce qu'il a encore trouvé le moyen de se cacher celui-là ? », et si on affirmait que celui-là était en première ligne depuis le premier jour, répondait sans scrupule de mentir ou peut-être par habitude de se tromper : « Mais pas du tout, il n'a pas bougé de Paris, il fait quelque chose d'à peu près aussi dangereux que de promener un ministre, c'est moi qui vous le dis, je vous en réponds, je le sais par quelqu'un qui l'a vu » ; mais pour les fidèles ce n'était pas la même chose, elle ne voulait pas les laisser partir, considérant la guerre comme une grande « ennuyeuse » qui les faisait la lâcher ; aussi faisaitelle toutes les démarches pour qu'ils restassent, ce qui lui donnerait le double plaisir de les avoir à dîner et, quand ils n'étaient pas encore arrivés ou déjà partis, de flétrir leur inaction. Encore fallait-il que le fidèle se prêtât à cet embusquage, et elle était désolée de voir Morel feindre de vouloir s'y montrer récalcitrant ; aussi lui disait-elle : « Mais si, vous servez dans ce bureau, et plus qu'au front. Ce qu'il faut, c'est d'être utile, faire vraiment partie de la guerre, en être. Il y a ceux qui en sont et les embusqués. Eh bien, vous, vous en êtes, et, soyez tranquille, tout le monde le sait, personne ne vous jette la pierre. » Telle dans des circonstances différentes, quand pourtant les hommes n'étaient pas aussi rares et qu'elle n'était pas obligée comme maintenant d'avoir surtout des femmes, si l'un d'eux perdait sa mère, elle n'hésitait pas à lui persuader qu'il pouvait sans inconvénient continuer à venir à ses réceptions. « Le chagrin se porte dans le cœur. Vous voudriez aller au bal (elle n'en donnait pas), je serais la première à vous le déconseiller, mais ici, à mes petits mercredis ou dans une baignoire, personne ne s'en étonnera. On sait bien que vous avez du chagrin... » Maintenant les hommes étaient plus rares, les deuils plus fréquents, inutiles même à les empêcher d'aller dans le monde, la guerre suffisait. Elle voulait leur persuader qu'ils étaient plus utiles à la France en restant à Paris, comme elle leur eût assuré autrefois que le défunt eût été plus heureux de les voir se distraire. Malgré tout elle avait peu d'hommes, peut-être regrettait-elle parfois d'avoir consommé avec M. de Charlus une rupture sur laquelle il n'y avait plus à revenir. 
Mais si M. de Charlus et Mme Verdurin ne se fréquentaient plus, chacun – avec quelques petites différences sans grande importance – continuait, comme si rien n'avait changé, Mme Verdurin à recevoir, M. de Charlus à aller à ses plaisirs : par exemple, chez Mme Verdurin, Cottard assistait maintenant aux réceptions dans un uniforme de colonel de « l'île du Rêve », assez semblable à celui d'un amiral haïtien et sur le drap duquel un large ruban bleu ciel rappelait celui des « Enfants de Marie » ; quant à M. de Charlus, se trouvant dans une ville d'où les hommes déjà faits, qui avaient été jusqu'ici son goût, avaient disparu, il faisait comme certains Français, amateurs de femmes en France et vivant aux colonies : il avait, par nécessité d'abord, pris l'habitude et ensuite le goût des petits garçons. 
Encore le premier de ces traits caractéristiques du salon Verdurin s'effaça-t-il assez vite, car Cottard mourut bientôt « face à l'ennemi », dirent les journaux, bien qu'il n'eût pas quitté Paris, mais se fût, en effet, surmené pour son âge, suivi bientôt par M. Verdurin, dont la mort chagrina une seule personne qui fut, le croirait-on, Elstir. J'avais pu étudier son œuvre à un point de vue en quelque sorte absolu. Mais lui, surtout au fur et à mesure qu'il vieillissait, la reliait superstitieusement à la société qui lui avait fourni ses modèles et, après s'être ainsi, par l'alchimie des impressions, transformée chez lui en œuvres d'art, lui avait donné son public, ses spectateurs. De plus en plus enclin à croire matériellement qu'une part notable de la beauté réside dans les choses, ainsi que, pour commencer, il avait adoré en Mme Elstir le type de beauté un peu lourde qu'il avait poursuivie, caressé dans des peintures, des tapisseries, il voyait disparaître avec M. Verdurin un des derniers vestiges du cadre social, du cadre périssable – aussi vite caduc que les modes vestimentaires elles-mêmes qui en font partie – qui soutient un art, certifie son authenticité, comme la Révolution en détruisant les élégances du XVIIIe aurait pu désoler un peintre de Fêtes galantes ou affliger Renoir la disparition de Montmartre et du Moulin de la Galette ; mais surtout en M. Verdurin il voyait disparaître les yeux, le cerveau, qui avaient eu de sa peinture la vision la plus juste, où cette peinture, à l'état de souvenir aimé, résidait en quelque sorte. Sans doute des jeunes gens avaient surgi qui aimaient aussi la peinture, mais une autre peinture, et qui n'avaient pas comme Swann, comme M. Verdurin, reçu des leçons de goût de Whistler, des leçons de vérité de Monet, leur permettant de juger Elstir avec justice. Aussi celui-ci se sentait-il plus seul à la mort de M. Verdurin avec lequel il était pourtant brouillé depuis tant d'années, et ce fut pour lui comme un peu de la beauté de son œuvre qui s'éclipsait avec un peu de ce qui existait dans l'univers de conscience de cette beauté. 
Quant au changement qui avait affecté les plaisirs de M. de Charlus, il resta intermittent. Entretenant une nombreuse correspondance avec « le front » il ne manquait pas de permissionnaires assez mûrs. En somme, d'une manière générale, Mme Verdurin continua à recevoir et M. de Charlus à aller à ses plaisirs comme si rien n'avait changé. Et pourtant depuis deux ans l'immense être humain appelé France et dont, même au point de vue purement matériel, on ne ressent la beauté colossale que si on aperçoit la cohésion des millions d'individus qui comme des cellules aux formes variées le remplissent, comme autant de petits polygones intérieurs, jusqu'au bord extrême de son périmètre, et si on le voit à l'échelle où un infusoire, une cellule, verrait un corps humain, c'est-à-dire grand comme le Mont Blanc, s'était affronté en une gigantesque querelle collective avec cet autre immense conglomérat d'individus qu'est l'Allemagne. Au temps où je croyais ce qu'on disait, j'aurais été tenté, en entendant l'Allemagne, puis la Bulgarie, puis la Grèce protester de leurs intentions pacifiques, d'y ajouter foi. Mais depuis que la vie avec Albertine et avec Françoise m'avait habitué à soupçonner chez elles des pensées, des projets qu'elles n'exprimaient pas, je ne laissais aucune parole juste en apparence de Guillaume II, de Ferdinand de Bulgarie, de Constantin de Grèce, tromper mon instinct qui devinait ce que machinait chacun d'eux. Et sans doute mes querelles avec Françoise, avec Albertine, n'avaient été que des querelles particulières, n'intéressant que la vie de cette petite cellule spirituelle qu'est un être. Mais de même qu'il est des corps d'animaux, des corps humains, c'estàdire des assemblages de cellules dont chacun par rapport à une seule est grand comme une montagne, de même il existe d'énormes entassements organisés d'individus qu'on appelle nations ; leur vie ne fait que répéter en les amplifiant la vie des cellules composantes ; et qui n'est pas capable de comprendre le mystère, les réactions, les lois de celles-ci, ne prononcera que des mots vides quand il parlera des luttes entre nations. Mais s'il est maître de la psychologie des individus, alors ces masses colossales d'individus conglomérés s'affrontant l'une l'autre prendront à ses yeux une beauté plus puissante que la lutte naissant seulement du conflit de deux caractères ; et il les verra à l'échelle où verraient le corps d'un homme de haute taille des infusoires dont il faudrait plus de dix mille pour remplir un cube d'un millimètre de côté. Telles depuis quelque temps, la grande figure France remplie jusqu'à son périmètre de millions de petits polygones aux formes variées, et la figure remplie d'encore plus de polygones Allemagne, avaient entre elles deux une de ces querelles, comme en ont, dans une certaine mesure, des individus. 
Mais les coups qu'elles échangeaient étaient réglés par cette boxe innombrable dont Saint-Loup m'avait exposé les principes ; et parce que même en les considérant du point de vue des individus elles en étaient de géants assemblages, la querelle prenait des formes immenses et magnifiques, comme le soulèvement d'un océan aux millions de vagues qui essaye de rompre une ligne séculaire de falaises, comme des glaciers gigantesques qui tentent dans leurs oscillations lentes et destructrices de briser le cadre de montagne où ils sont circonscrits. Malgré cela, la vie continuait presque semblable pour bien des personnes qui ont figuré dans ce récit, et notamment pour M. de Charlus et pour les Verdurin, comme si les Allemands n'avaient pas été aussi près d'eux, la permanence menaçante bien qu'actuellement enrayée d'un péril nous laissant entièrement indifférents si nous ne nous le représentons pas. Les gens vont d'habitude à leurs plaisirs sans penser jamais que, si les influences étiolantes et modératrices venaient à cesser, la prolifération des infusoires atteindrait son maximum, c'est-à-dire, faisant en quelques jours un bond de plusieurs millions de lieues, passerait d'un millimètre cube à une masse un million de fois plus grande que le soleil, ayant en même temps détruit tout l'oxygène, toutes les substances dont nous vivons, et qu'il n'y aurait plus ni humanité, ni animaux, ni terre, ou, sans songer qu'une irrémédiable et fort vraisemblable catastrophe pourrait être déterminée dans l'éther par l'activité incessante et frénétique que cache l'apparente immutabilité du soleil, ils s'occupent de leurs affaires sans penser à ces deux mondes, l'un trop petit, l'autre trop grand pour qu'ils aperçoivent les menaces cosmiques qu'ils font planer autour de nous. Tels les Verdurin donnaient des dîners (puis bientôt Mme Verdurin seule, après la mort de  M. Verdurin) et M. de Charlus allait à ses plaisirs sans guère songer que les Allemands fussent – immobilisés, il est vrai, par une sanglante barrière toujours renouvelée – à une heure d'automobile de Paris. Les Verdurin y pensaient pourtant, dira-t-on, puisqu'ils avaient un salon politique où on discutait chaque soir de la situation, non seulement des armées, mais des flottes. Ils pensaient, en effet, à ces hécatombes de régiments anéantis, de passagers engloutis, mais une opération inverse multiplie à tel point ce qui concerne notre bien être et divise par un chiffre tellement formidable ce qui ne le concerne pas, que la mort de millions d'inconnus nous chatouille à peine et presque moins désagréablement qu'un courant d'air. Mme Verdurin, souffrant pour ses migraines de ne plus avoir de croissant à tremper dans son café au lait, avait obtenu de Cottard une ordonnance qui lui permettait de s'en faire faire dans certain restaurant dont nous avons parlé. Cela avait été presque aussi difficile à obtenir des pouvoirs publics que la nomination d'un général. Elle reprit son premier croissant le matin où les journaux narraient le naufrage du Lusitania. Tout en trempant le croissant dans le café au lait et donnant des pichenettes à son journal pour qu'il pût se tenir grand ouvert sans qu'elle eût besoin de détourner son autre main des trempettes, elle disait : « Quelle horreur ! Cela dépasse en horreur les plus affreuses tragédies. » Mais la mort de tous ces noyés ne devait lui apparaître que réduite au milliardième, car tout en faisant, la bouche pleine, ces réflexions désolées, l'air qui surnageait sur sa figure, amené probablement là par la saveur du croissant, si précieux contre la migraine, était plutôt celui d'une douce satisfaction. 
* * * 
M. de Charlus allait plus loin que ne pas souhaiter passionnément la victoire de la France ; il souhaitait sans se l'avouer sinon que l'Allemagne triomphât, du moins qu'elle ne fût pas écrasée comme tout le monde le souhaitait. La cause en était que dans ces querelles les grands ensembles d'individus appelés nations se comportent eux-mêmes, dans une certaine mesure, comme des individus. La logique qui les conduit est tout intérieure et perpétuellement refondue par la passion, comme celle de gens affrontés dans une querelle amoureuse ou domestique, comme la querelle d'un fils avec son père, d'une cuisinière avec sa patronne, d'une femme avec son mari. Celle qui a tort croit cependant avoir raison – comme c'était le cas pour l'Allemagne – et celle qui a raison donne parfois de son bon droit des arguments qui ne lui paraissent irréfutables que parce qu'ils répondent à sa passion.
Dans ces querelles d'individus, pour être convaincu du bon droit de n'importe laquelle des parties, le plus sûr est d'être cette partie-là, un spectateur ne l'approuvera jamais aussi complètement. Or, dans les nations, l'individu, s'il fait vraiment partie de la nation, n'est qu'une cellule de l'individu : nation. Le bourrage de crâne est un mot vide de sens. Eûton dit aux Français qu'ils allaient être battus qu'aucun Français ne se fût moins désespéré que si on lui avait dit qu'il allait être tué par les berthas. Le véritable bourrage de crâne on se le fait à soi-même par l'espérance qui est un genre de l'instinct de conservation d'une nation si l'on est vraiment membre vivant de cette nation. Pour rester aveugle sur ce qu'a d'injuste la cause de l'individu Allemagne, pour reconnaître à tout instant ce qu'a de juste la cause de l'individu France, le plus sûr n'était pas pour un Allemand de n'avoir pas de jugement, pour un Français d'en avoir, le plus sûr pour l'un ou pour l'autre c'était d'avoir du patriotisme. M. de Charlus, qui avait de rares qualités morales, qui était accessible à la pitié, généreux, capable d'affection, de dévouement, en revanche, pour des raisons diverses – parmi lesquelles celle d'avoir eu une mère duchesse de Bavière pouvait jouer un rôle – n'avait pas de patriotisme. Il était, par conséquent, du corps France comme du corps Allemagne. Si j'avais été moi-même dénué de patriotisme, au lieu de me sentir une des cellules du corps France, il me semble que ma façon de juger la querelle n'eût pas été la même qu'elle eût pu être autrefois. Dans mon adolescence, où je croyais exactement ce qu'on me disait, j'aurais sans doute, en entendant le gouvernement allemand protester de sa bonne foi, été tenté de ne pas la mettre en doute, mais depuis longtemps je savais que nos pensées ne s'accordent pas toujours avec nos paroles. 
Mais enfin, je ne peux que supposer ce que j'aurais fait si je n'avais pas été acteur, si je n'avais pas été une partie de l'acteur France, comme dans mes querelles avec Albertine, où mon regard triste et ma gorge oppressée étaient une partie de mon individu passionnément intéressé à ma cause, je ne pouvais arriver au détachement. Celui de M. de Charlus était complet. Or, dès lors qu'il n'était plus qu'un spectateur, tout devait le porter à être germanophile, du moment que, n'étant pas véritablement français, il vivait en France. Il était très fin, les sots sont en tous pays les plus nombreux ; nul doute que, vivant en Allemagne, les sots d'Allemagne défendant avec sottise et passion une cause injuste ne l'eussent irrité ; mais vivant en France, les sots français défendant avec sottise et passion une cause juste ne l'irritaient pas moins. La logique de la passion, fût-elle au service du meilleur droit, n'est jamais irréfutable pour celui qui n'est pas passionné. M. de Charlus relevait avec finesse chaque faux raisonnement des patriotes. La satisfaction que cause à un imbécile son bon droit et la certitude du succès vous laissent particulièrement irrité. M. de Charlus l'était par l'optimisme triomphant de gens qui ne connaissaient pas comme lui l'Allemagne et sa force, qui croyaient chaque mois à un écrasement pour le mois suivant, et au bout d'un an n'étaient pas moins assurés dans un nouveau pronostic, comme s'ils n'en avaient pas porté, avec tout autant d'assurance, d'aussi faux, mais qu'ils avaient oubliés disant, si on le leur rappelait, que « ce n'était pas la même chose ». Or, M. de Charlus, qui avait certaines profondeurs dans l'esprit, n'eût peut-être pas compris en Art que le « ce n'est pas la même chose » opposé par les détracteurs de Monet à ceux qui leur disent « on a dit la même chose pour Delacroix », répondait à la même tournure d'esprit. Enfin M. de Charlus était pitoyable, l'idée d'un vaincu lui faisait mal, il était toujours pour le faible, il ne lisait pas les chroniques judiciaires pour ne pas avoir à souffrir dans sa chair des angoisses du condamné et de l'impossibilité d'assassiner le juge, le bourreau, et la foule ravie de voir que « justice est faite ». Il était certain, en tout cas, que la France ne pouvait plus être vaincue, et, en revanche, il savait que les Allemands souffraient de la famine, seraient obligés un jour ou l'autre de se rendre à merci. Cette idée elle aussi lui était rendue plus désagréable par ce fait qu'il vivait en France. Ses souvenirs de l'Allemagne étaient malgré tout lointains, tandis que les Français qui parlaient de l'écrasement de l'Allemagne avec une joie qui lui déplaisait, c'étaient des gens dont les défauts lui étaient connus, la figure antipathique. Dans ces cas-là on plaint plus ceux qu'on ne connaît pas, ceux qu'on imagine, que ceux qui sont tout près de nous dans la vulgarité de la vie quotidienne, à moins alors d'être tout à fait ceux-là, de ne faire qu'une chair avec eux ; le patriotisme fait ce miracle, on est pour son pays comme on est pour soi-même dans une querelle amoureuse. Aussi la guerre était-elle pour M. de Charlus une culture extraordinairement féconde de ces haines qui chez lui naissaient en un instant, avaient une durée très courte mais pendant laquelle il se fût livré à toutes les violences. En lisant les journaux, l'air de triomphe des chroniqueurs présentant chaque jour l'Allemagne à bas : « La Bête aux abois, réduite à l'impuissance », alors que le contraire n'était que trop vrai, l'enivrait de rage par leur sottise allègre et féroce. Les journaux étaient en partie rédigés à ce moment-là par des gens connus qui trouvaient là une manière de « reprendre du service », par des Brichot, par des Norpois, par des Legrandin. M. de Charlus rêvait de les rencontrer, de les accabler des plus amers sarcasmes. Toujours particulièrement instruit des tares sexuelles, il les connaissait chez quelques-uns qui, pensant qu'elles étaient ignorées chez eux, se complaisaient à les dénoncer chez les souverains des « Empires de proie », chez Wagner, etc. Il brûlait de se trouver face à face avec eux, de leur mettre le nez dans leur propre vice devant tout le monde et de laisser ces insulteurs d'un vaincu, déshonorés et pantelants. M. de Charlus enfin avait encore des raisons plus particulières d'être ce germanophile. L'une était qu'homme du monde, il avait beaucoup vécu parmi les gens du monde, parmi les gens honorables, parmi les hommes d'honneur, de ces gens qui ne serreront pas la main à une fripouille, il connaissait leur délicatesse et leur dureté ; il les savait insensibles aux larmes d'un homme qu'ils font chasser d'un cercle ou avec qui ils refusent de se battre, dût leur acte de « propreté morale » amener la mort de la mère de la brebis galeuse. Malgré lui, quelque admiration qu'il eût pour l'Angleterre, cette Angleterre impeccable, incapable de mensonge, empêchant le blé et le lait d'entrer en Allemagne, c'était un peu cette nation d'hommes d'honneur, de témoins patentés, d'arbitres en affaires d'honneur ; tandis qu'il savait que des gens tarés, des fripouilles comme certains personnages de Dostoïewski peuvent être meilleurs, et je n'ai jamais pu comprendre pourquoi il leur identifiait les Allemands, le mensonge et la ruse ne leur suffisant pas pour faire préjuger un bon cœur qu'il ne semble pas que les Allemands aient montré. Enfin, un dernier trait complétera cette germanophilie deà son « charlisme ». Il trouvait les Allemands fort laids, peutêtre parce qu'ils étaient un peu trop près de son sang ; il était fou des Marocains, mais surtout des Anglo-Saxons en qui il voyait comme des statues vivantes de Phidias. Or, chez lui, le plaisir n'allait pas sans une certaine idée cruelle dont je ne savais pas encore à ce moment-là toute la force ; l'homme qu'il aimait lui apparaissait comme un délicieux bourreau. Il eût cru, en prenant parti contre les Allemands, agir comme il n'agissait que dans les heures de volupté, c'est-à-dire en sens contraire de sa nature pitoyable, c'est-à-dire enflammée pour le mal séduisant et écrasant la vertueuse laideur. Il en fut encore ainsi au moment du meurtre de Raspoutine, meurtre auquel on fut surpris, d'ailleurs, de trouver un si fort cachet de couleur russe, dans un souper à la Dostoïewski (impression qui eût été encore bien plus forte si le public n'avait pas ignoré de tout cela ce que savait parfaitement M. de Charlus), parce que la vie nous déçoit tellement que nous finissons par croire que la littérature n'a aucun rapport avec elle et que nous sommes stupéfaits de voir que les précieuses idées que les livres nous ont montrées s'étalent, sans peur de s'abîmer, gratuitement, naturellement, en pleine vie quotidienne et, par exemple, qu'un souper, un meurtre, événement russe, ont quelque chose de russe. 
La guerre se prolongeait indéfiniment et ceux qui avaient annoncé de source sûre, il y avait déjà plusieurs années, que les pourparlers de paix étaient commencés, spécifiant les clauses du traité, ne prenaient pas la peine, quand ils causaient avec vous, de s'excuser de leurs fausses nouvelles. 
Ils les avaient oubliées et étaient prêts à en propager sincèrement d'autres, qu'ils oublieraient aussi vite. C'était l'époque où il y avait continuellement des raids de gothas ; l'air grésillait perpétuellement d'une vibration vigilante et sonore d'aéroplanes français. Mais parfois retentissait la sirène comme un appel déchirant de Walkyrie – seule musique allemande qu'on eût entendue depuis la guerre – jusqu'à l'heure où les pompiers annonçaient que l'alerte était finie tandis qu'à côté d'eux la berloque, comme un invisible gamin, commentait à intervalles réguliers la bonne nouvelle et jetait en l'air son cri de joie. 
M. de Charlus était étonné de voir que même des gens comme Brichot qui avant la guerre avaient été militaristes, reprochant surtout à la France de ne pas l'être assez, ne se contentaient pas de reprocher les excès de son militarisme à l'Allemagne, mais même son admiration de l'armée. Sans doute ils changeaient d'avis dès qu'il s'agissait de ralentir la guerre contre l'Allemagne et dénonçaient avec raison les pacifistes. Mais, par exemple, Brichot, ayant accepté, malgré ses yeux, de rendre compte dans des conférences de certains ouvrages parus chez les neutres, exaltait le roman d'un Suisse où sont raillés comme semence de militarisme deux enfants tombant d'une admiration symbolique à la vue d'un dragon. Cette raillerie avait de quoi déplaire pour d'autres raisons à M. de Charlus, lequel estimait qu'un dragon peut être quelque chose de fort beau. Mais surtout il ne comprenait pas l'admiration de Brichot, sinon pour le livre, que le baron n'avait pas lu, du moins pour son esprit, si différent de celui qui animait Brichot avant la guerre. Alors tout ce que faisait un militaire était bien, fût-ce les irrégularités du général de Boisdeffre, les travestissements et machinations du colonel du Paty de Clam, le faux du colonel Henry. Par quelle volteface extraordinaire (et qui n'était en réalité qu'une autre face de la même passion fort noble, la passion patriotique, obligée, de militariste qu'elle était quand elle luttait contre le dreyfusisme, lequel était de tendances antimilitaristes, à se faire presque antimilitariste puisque c'était maintenant contre la Germanie sur-militariste qu'elle luttait) Brichot s'écriait-il : « Oh ! le spectacle bien mirifique et digne d'attirer la jeunesse d'un siècle tout de brutalité, ne connaissant que le culte de la force : un dragon ! On peut juger de ce que sera la vile soldatesque d'une génération élevée dans le culte de ces manifestations de force brutale ! » « Voyons, me dit M. de Charlus, vous connaissez Brichot et Cambremer. Chaque fois que je les vois ils me parlent de l'extraordinaire manque de psychologie de l'Allemagne. Entre nous, croyez-vous que jusqu'ici ils avaient eu grand souci de la psychologie, et que même maintenant ils soient capables d'en faire preuve ? Mais croyez bien que je n'exagère pas. Qu'il s'agisse du plus grand Allemand, de Nietzsche, de Gœthe, vous entendrez Brichot dire : « Avec l'habituel manque de psychologie qui caractérise la race teutonne ». Il y a évidemment dans la guerre des choses qui me font plus de peine. Mais avouez que c'est énervant. Norpois est plus fin, je le reconnais, bien qu'il n'ait pas cessé de se tromper depuis le commencement. Mais qu'est-ce que ça veut dire que ces articles qui excitent l'enthousiasme universel ? Mon cher Monsieur, vous savez aussi bien que moi ce que vaut Brichot, que j'aime beaucoup, même depuis le schisme qui m'a séparé de sa petite église, à cause de quoi je le vois beaucoup moins. Mais enfin j'ai une certaine considération pour ce régent de collège, beau parleur et fort instruit, et j'avoue que c'est fort touchant qu'à son âge, et diminué comme il est, car il l'est très sensiblement depuis quelques années, il se soit remis, comme il dit, à servir. Mais enfin la bonne intention est une chose, le talent en est une autre, et Brichot n'a jamais eu de talent. J'avoue que je partage son admiration pour certaines grandeurs de la guerre actuelle. Tout au plus est-il étrange qu'un partisan aveugle de l'Antiquité comme Brichot, qui n'avait pas assez de sarcasmes pour Zola trouvant plus de poésie dans un ménage d'ouvriers, dans la mine, que dans les palais historiques, ou pour Goncourt mettant Diderot audessus d'Homère et Watteau audessus de Raphaël, ne cesse de nous répéter que les Thermopyles, qu'Austerlitz même, ce n'était rien à côté de Vauquois. Cette fois, du reste, le public, qui avait résisté aux modernistes de la littérature et de l'art, suit ceux de la guerre, parce que c'est une mode adoptée de penser ainsi et puis que les petits esprits sont écrasés non par la beauté, mais par l'énormité de l'action. On n'écrit plus Kolossal qu'avec un K, mais, au fond, ce devant quoi on s'agenouille c'est bien du colossal. 
« C'est, du reste, une étrange chose, ajouta M. de Charlus de la petite voix pointue qu'il prenait par moments. J'entends des gens qui ont l'air très heureux toute la journée, qui prennent d'excellents cocktails, déclarer qu'ils ne pourront aller jusqu'au bout de la guerre, que leur cœur n'aura pas la force, qu'ils ne peuvent pas penser à autre chose, qu'ils mourront tout d'un coup, et le plus extraordinaire, c'est que cela arrive en effet. Comme c'est curieux ! Est-ce une question d'alimentation, parce qu'ils n'ingéreront plus que des choses mal préparées, ou parce que pour prouver leur zèle ils s'attellent à des besognes vaines mais qui détruisent le régime qui les conservait ? Mais enfin j'enregistre un nombre étonnant de ces étranges morts prématurées, prématurées au moins au gré du défunt. Je ne sais plus ce que je vous disais, que Brichot et Norpois admiraient cette guerre, mais quelle singulière manière d'en parler ! D'abord avez-vous remarqué ce pullulement d'expressions nouvelles qu'emploie Norpois qui, quand elles ont fini par s'user à force d'être employées tous les jours – car vraiment il est infatigable, et je crois que c'est la mort de ma tante Villeparisis qui lui a donné une seconde jeunesse, – sont immédiatement remplacées par d'autres lieux communs ? Autrefois je me rappelle que vous vous amusiez à noter ces modes de langage qui apparaissaient, se maintenaient, puis disparaissaient : celui qui sème le vent récolte la tempête ; les chiens aboient, la caravane passe ; faites-moi de bonne politique et je vous ferai de bonnes finances, disait le baron Louis ; il y a des symptômes qu'il serait exagéré de prendre au tragique mais qu'il convient de prendre au sérieux ; travailler pour le roi de Prusse (celle-là a d'ailleurs ressuscité, ce qui était infaillible). Hé bien, depuis, hélas, que j'en ai vu mourir ! Nous avons eu : le chiffon de papier, les empires de proie, la fameuse kultur qui consiste à assassiner des femmes et des enfants sans défense, la victoire appartient, comme disent les Japonais, à celui qui sait souffrir un quart d'heure de plus que l'autre, les Germano-Touraniens, la barbarie scientifique – si nous voulons gagner la guerre, selon la forte expression de M. Lloyd George – enfin ça ne se compte plus, et le mordant des troupes, et le cran des troupes. Même la syntaxe de l'excellent Norpois subit du fait de la guerre une altération aussi profonde que la fabrication du pain ou la rapidité des transports. Avezvous remarqué que l'excellent homme, tenant à proclamer ses désirs comme une vérité sur le point d'être réalisée, n'ose pas tout de même employer le futur pur et simple, qui risquerait d'être contredit par les événements, mais a adopté comme signe de ce temps le verbe savoir ? » J'avouai à M. de Charlus que je ne comprenais pas bien ce qu'il voulait dire. Il me faut noter ici que le duc de Guermantes ne partageait nullement le pessimisme de son frère. Il était, de plus, aussi anglophile que
M. de Charlus était anglophobe. Enfin il tenait M. Caillaux pour un traître qui méritait mille fois d'être fusillé. Quand son frère lui demandait des preuves de cette trahison, M. de Guermantes répondait que s'il ne fallait condamner que les gens qui signent un papier où ils déclarent « j'ai trahi » on ne punirait jamais le crime de trahison. Mais pour le cas où je n'aurais pas l'occasion d'y revenir, je noterai aussi que, deux ans plus tard, le duc de Guermantes, animé du plus pur anticaillautisme, rencontra un attaché militaire anglais et sa femme, couple remarquablement lettré avec lequel il se lia, comme au temps de l'affaire Dreyfus avec les trois dames charmantes ; que dès le premier jour il eut la stupéfaction, parlant de Caillaux dont il estimait la condamnation certaine et le crime patent, d'entendre le couple charmant et lettré dire : « Mais il sera probablement acquitté, il n'y a absolument rien contre lui. » M. de Guermantes essaya d'alléguer que M. de Norpois, dans sa déposition, avait dit en regardant Caillaux atterré : « Monsieur Caillaux, vous êtes le Giolitti de la France. » Mais le couple charmant avait souri, tourné M. de Norpois en ridicule, cité des preuves de son gâtisme et conclu qu'il avait dit cela devant M. Caillaux atterré, disait le Figaro, mais probablement, en réalité, devant M. Caillaux narquois. Les opinions du duc de Guermantes n'avaient pas tardé à changer. Attribuer ce changement à l'influence d'une Anglaise n'est pas aussi extraordinaire que cela eût pu paraître si on l'eût prophétisé même en 1919, où les Anglais n'appelaient les Allemands que les Huns et réclamaient une féroce condamnation contre les coupables. Leur opinion à eux aussi devait changer et toute décision être approuvée par eux qui pouvait contrister la France et venir en aide à l'Allemagne. Pour revenir à M. de Charlus : « Mais si, répondit-il à l'aveu que je ne le comprenais pas : « savoir », dans les articles de Norpois, est le signe du futur, c'est-à-dire le signe des désirs de Norpois et des désirs de nous tous d'ailleurs, ajouta-t-il, peut-être sans une complète sincérité, vous comprenez bien que si « savoir » n'était pas devenu le simple signe du futur, on comprendrait à la rigueur que le sujet de ce verbe pût être un pays, par exemple chaque fois que Norpois dit : « L'Amérique ne saurait rester indifférente à ces violations répétées du droit », « La monarchie bicéphale ne saurait manquer de venir à résipiscence ». Il est clair que de telles phrases expriment les désirs de Norpois (comme les miens, comme les vôtres), mais enfin, là le verbe peut encore garder malgré tout son sens ancien, car un pays peut « savoir », l'Amérique peut « savoir », la monarchie « bicéphale » elle-même peut « savoir » (malgré l'éternel manque de psychologie), mais le doute n'est plus possible quand Norpois écrit : « Ces dévastations systématiques ne sauraient persuader aux neutres », « La région des lacs ne saurait manquer de tomber à bref délai aux mains des alliés », « Les résultats de ces élections neutralistes ne sauraient refléter l'opinion de la grande majorité du pays. » Or il est certain que ces dévastations, ces régions et ces résultats de votes sont des choses inanimées qui ne peuvent pas « savoir ». Par cette formule Norpois adresse simplement aux neutres l'injonction (à laquelle j'ai le regret de constater qu'ils ne semblent pas obéir) de sortir de la neutralité ou aux régions des lacs de ne plus appartenir aux « Boches » (M. de Charlus mettait à prononcer le mot « boche » le même genre de hardiesse que jadis dans le train de Balbec à parler des hommes dont le goût n'est pas pour les femmes). D'ailleurs, avez-vous remarqué avec quelles ruses Norpois a toujours commencé, dès 1914, ses articles aux neutres ? Il commence par déclarer que, certes, la France n'a pas à s'immiscer dans la politique de l'Italie ou de la Roumanie ou de la Bulgarie, etc. C'est à ces puissances seules qu'il convient de décider en toute indépendance et en ne consultant que l'intérêt national si elles doivent ou non sortir de la neutralité. Mais si ces premières déclarations de l'article (ce qu'on eût appelé autrefois l'exorde) sont si remarquables et désintéressées, le morceau suivant l'est généralement beaucoup moins. Toutefois, en continuant, dit en substance Norpois, « il est bien clair que seules tireront un bénéfice matériel de la lutte les nations qui se seront rangées du côté du Droit et de la Justice. On ne peut attendre que les alliés récompensent, en leur octroyant leurs territoires d'où s'élève depuis des siècles la plainte de leurs frères opprimés, les peuples qui, suivant la politique de moindre effort, n'auront pas mis leur épée au service des alliés ». Ce premier pas fait vers un conseil d'intervention, rien n'arrête plus Norpois, ce n'est plus seulement le principe mais l'époque de l'intervention sur lesquels il donne des conseils de moins en moins déguisés. « Certes, dit-il en faisant ce qu'il appellerait lui-même le bon apôtre, c'est à l'Italie, à la Roumanie seules de décider de l'heure opportune et de la forme sous laquelle il leur conviendra d'intervenir. Elles ne peuvent pourtant ignorer qu'à trop tergiverser elles risquent de laisser passer l'heure. Déjà les sabots des cavaliers russes font frémir la Germanie traquée d'une indicible épouvante. Il est bien évident que les peuples qui n'auront fait que voler au secours de la victoire, dont on voit déjà l'aube resplendissante, n'auront nullement droit à cette même récompense qu'ils peuvent encore en se hâtant, etc. » C'est comme au théâtre quand on dit : « Les dernières places qui restent ne tarderont pas à être enlevées. Avis aux retardataires. » Raisonnement d'autant plus stupide que Norpois le refait tous les six mois, et dit périodiquement à la Roumanie : « L'heure est venue pour la Roumanie de savoir si elle veut ou non réaliser ses aspirations nationales. Qu'elle attende encore, il risque d'être trop tard. » Or, depuis deux ans qu'il le dit, non seulement le « trop tard » n'est pas encore venu, mais on ne cesse de grossir les offres qu'on fait à la Roumanie. De même il invite la France, etc., à intervenir en Grèce en tant que puissance protectrice parce que le traité qui liait la Grèce à la Serbie n'a pas été tenu. Or, de bonne foi, si la France n'était pas en guerre et ne souhaitait pas le concours ou la neutralité bienveillante de la Grèce, aurait-elle l'idée d'intervenir en tant que puissance protectrice, et le sentiment moral qui la pousse à se révolter parce que la Grèce n'a pas tenu ses engagements avec la Serbie ne se tait-il pas aussi dès qu'il s'agit de violation tout aussi flagrante de la Roumanie et de l'Italie qui, avec raison, je le crois, comme la Grèce aussi, n'ont pas rempli leurs devoirs, moins impératifs et étendus qu'on ne dit, d'alliés de l'Allemagne. La vérité c'est que les gens voient tout par leur journal, et comment pourraient-ils faire autrement puisqu'ils ne connaissent pas personnellement les gens ni les événements dont il s'agit ? Au temps de l'affaire qui passionnait si bizarrement à une époque dont il est convenu de dire que nous sommes séparés par des siècles, car les philosophes de la guerre ont accrédité que tout lien est rompu avec le passé, j'étais choqué de voir des gens de ma famille accorder toute leur estime à des anticléricaux, anciens communards que leur journal leur avait présentés comme antidreyfusards, et honnir un général bien né et catholique mais révisionniste. Je ne le suis pas moins de voir tous les Français exécrer l'Empereur FrançoisJoseph qu'ils vénéraient, avec raison, je peux vous le dire, moi qui l'ai beaucoup connu et qu'il veut bien traiter en cousin. Ah ! je ne lui ai pas écrit depuis la guerre, ajouta-t-il comme avouant hardiment une faute qu'il savait très bien qu'on ne pouvait blâmer. Si, la première année, et une seule fois. Mais qu'est-ce que vous voulez, cela ne change rien à mon respect pour lui, mais j'ai ici beaucoup de jeunes parents qui se battent dans nos lignes et qui trouveraient, je le sais, fort mauvais que j'entretienne une correspondance suivie avec le chef d'une nation en guerre avec nous. Que voulez-vous ? me critique qui voudra, ajouta-t-il, comme s'exposant hardiment à mes reproches, je n'ai pas voulu qu'une lettre signée Charlus arrivât en ce moment à Vienne. La plus grande critique que j'adresserais au vieux souverain, c'est qu'un seigneur de son rang, chef d'une des maisons les plus anciennes et les plus illustres d'Europe, se soit laissé mener par ce petit hobereau, fort intelligent d'ailleurs, mais enfin par un simple parvenu comme Guillaume de Hohenzollern. Ce n'est pas une des anomalies les moins choquantes de cette guerre. » Et comme, dès qu'il se replaçait au point de vue nobiliaire, qui pour lui au fond dominait tout, M. de Charlus arrivait à d'extraordinaires enfantillages, il me dit du même ton qu'il m'eût parlé de la Marne ou de Verdun qu'il y avait des choses capitales et fort curieuses que ne devrait pas omettre celui qui écrirait l'histoire de cette guerre. « Ainsi, me dit-il, par exemple, tout le monde est si ignorant que personne n'a fait remarquer cette chose si marquante : le grand maître de l'ordre de Malte, qui est un pur boche, n'en continue pas moins de vivre à Rome où il jouit, en tant que grand maître de notre ordre, du privilège de l'exterritorialité. C'est intéressant », ajouta-t-il d'un air de me dire : « Vous voyez que vous n'avez pas perdu votre soirée en me rencontrant. » Je le remerciai et il prit l'air modeste de quelqu'un qui n'exige pas de salaire. « Qu'est-ce que j'étais donc en train de vous dire ? Ah ! oui, que les gens haïssaient maintenant François-Joseph, d'après leur journal. Pour le roi Constantin de Grèce et le tzar de Bulgarie, le public a oscillé, à diverses reprises, entre l'aversion et la sympathie, parce qu'on disait tour à tour qu'ils se mettaient du côté de l'Entente ou de ce que Norpois appelle les Empires centraux. C'est comme quand il nous répète à tout moment que « l'heure de Venizelos va sonner ». Je ne doute pas que M. Venizelos soit un homme d'État plein de capacité, mais qui nous dit que les Grecs désirent tant que cela Venizelos ? Il voulait, nous diton, que la Grèce tînt ses engagements envers la Serbie. Encore faudraitil savoir quels étaient ces engagements et s'ils étaient plus étendus que ceux que l'Italie et la Roumanie ont cru pouvoir violer. Nous avons de la façon dont la Grèce exécute ses traités et respecte sa constitution un souci que nous n'aurions certainement pas si ce n'était pas notre intérêt.  Qu'il n'y ait pas eu la guerre, croyez-vous que les puissances « garantes » auraient même fait attention à la dissolution des Chambres ? Je vois simplement qu'on retire un à un ses appuis au Roi de Grèce pour pouvoir le jeter dehors ou l'enfermer le jour où il n'aura plus d'armée pour le défendre. Je vous disais que le public ne juge le Roi de Grèce et le Roi des Bulgares que d'après les journaux. Et comment pourraient-ils penser sur eux autrement que par le journal puisqu'ils ne les connaissent pas ? Moi je les ai vus énormément, j'ai beaucoup connu, quand il était diadoque, Constantin de Grèce, qui était une pure merveille. J'ai toujours pensé que l'Empereur Nicolas avait eu un énorme sentiment pour lui. En tout bien tout honneur, bien entendu. La princesse Christian en parlait ouvertement, mais c'est une gale. Quant au tzar des Bulgares, c'est une fine coquine, une vraie affiche, mais très intelligent, un homme remarquable. Il m'aime beaucoup. » 
M. de Charlus, qui pouvait être si agréable, devenait odieux quand il abordait ces sujets. Il y apportait la satisfaction qui agace déjà chez un malade qui vous fait tout le temps valoir sa bonne santé. J'ai souvent pensé que, dans le tortillard de Balbec, les fidèles qui souhaitaient tant les aveux devant lesquels il se dérobait n'auraient peut-être pas pu supporter cette espèce d'ostentation d'une manie et, mal à l'aise, respirant mal comme dans une chambre de malade ou devant un morphinomane qui tirerait devant vous sa seringue, ce fussent eux qui eussent mis fin aux confidences qu'ils croyaient désirer. De plus, on était agacé d'entendre accuser tout le monde, et probablement bien souvent sans aucune espèce de preuve, par quelqu'un qui s'omettait luimême de la catégorie spéciale à laquelle on savait pourtant qu'il appartenait et où il rangeait si volontiers les autres. Enfin, lui si intelligent, s'était fait à cet égard une petite philosophie étroite (à la base de laquelle il y avait peut-être un rien des curiosités que Swann trouvait dans « la vie ») expliquant tout par ces causes spéciales et où, comme chaque fois qu'on verse dans son défaut, il était non seulement au-dessous de lui-même mais
exceptionnellement satisfait de lui. C'est ainsi que lui si grave, si noble, eut le sourire le plus niais pour achever la phrase que voici : « Comme il y a de fortes présomptions du même genre que pour Ferdinand de Cobourg à l'égard de l'Empereur Guillaume, cela pourrait être la cause pour laquelle le tzar Ferdinand s'est mis du côté des « Empires de proie ». Dame, au fond, c'est très compréhensible, on est indulgent pour une sœur, on ne lui refuse rien. Je trouve que ce serait très joli comme explication de l'alliance de la Bulgarie avec l'Allemagne. » Et de cette explication stupide M. de Charlus rit longuement comme s'il l'avait vraiment trouvée très ingénieuse alors que, même si elle avait reposé sur des faits vrais, elle était aussi puérile que les réflexions que M. de Charlus faisait sur la guerre quand il la jugeait en tant que féodal ou que chevalier de Saint-Jean de Jérusalem. Il finit par une remarque juste : « Ce qui est étonnant, dit-il, c'est que ce public qui ne juge ainsi des hommes et des choses de la guerre que par les journaux est persuadé qu'il juge par luimême. » En cela M. de Charlus avait raison. On m'a raconté qu'il fallait voir les moments de silence et d'hésitation qu'avait Mme de Forcheville, pareils à ceux qui sont nécessaires, non pas même seulement à l'énonciation, mais à la formation d'une opinion personnelle, avant de dire, sur le ton d'un sentiment intime : « Non, je ne crois pas qu'ils prendront Varsovie » ; « Je n'ai pas l'impression qu'on puisse passer un second hiver » ; « Ce que je ne voudrais pas, c'est une paix boiteuse » ; « Ce qui me fait peur, si vous voulez que je vous le dise, c'est la Chambre » ; « Si, j'estime tout de même qu'on pourrait percer. » Et pour dire cela Odette prenait un air mièvre qu'elle poussait à l'extrême quand elle disait : « Je ne dis pas que les armées allemandes ne se battent pas bien, mais il leur manque ce qu'on appelle le cran. » Pour prononcer « le cran » (et même simplement pour le « mordant ») elle faisait avec sa main le geste de pétrissage et avec ses yeux le clignement des rapins employant un terme d'atelier. Son langage à elle était pourtant plus encore qu'autrefois la trace de son admiration pour les Anglais, qu'elle n'était plus obligée de se contenter d'appeler comme autrefois nos voisins d'outre-Manche, ou tout au plus nos amis les Anglais, mais nos loyaux alliés ! Inutile de dire qu'elle ne se faisait pas faute de citer à tout propos l'expression de « fair play » pour montrer les Anglais trouvant les Allemands des joueurs incorrects, et « ce qu'il faut c'est gagner la guerre », comme disent nos braves alliés. Tout au plus associait-elle assez maladroitement le nom de son gendre à tout ce qui touchait les soldats anglais et au plaisir qu'il trouvait à vivre dans l'intimité des Australiens aussi bien que des Écossais, des Néo-Zélandais et des Canadiens. « Mon gendre Saint-Loup connaît maintenant l'argot de tous les braves « tommies », il sait se faire entendre de ceux des plus lointains « dominions » et, aussi bien qu'avec le général commandant la base, fraternise avec le plus humble « private ». 
Que cette parenthèse sur Mme de Forcheville m'autorise, tandis que je descends les boulevards côte à côte avec M. de  Charlus, à une autre plus longue encore, mais utile pour décrire cette époque, sur les rapports de Mme Verdurin avec Brichot. En effet, si le pauvre Brichot était, ainsi que Norpois, jugé sans indulgence par M. de Charlus (parce que celui-ci était à la fois très fin et plus ou moins inconsciemment germanophile), il était encore bien plus maltraité par les Verdurin. Sans doute ceux-ci étaient chauvins, ce qui eût dû les faire se plaire aux articles de Brichot, lesquels d'autre part n'étaient pas inférieurs à bien des écrits où se délectait Mme Verdurin. Mais d'abord on se rappelle peut-être que, déjà à la Raspelière, Brichot était devenu pour les Verdurin du grand homme qu'il leur avait paru être autrefois, sinon une tête de Turc comme Saniette, du moins l'objet de leurs railleries à peine déguisées. Du moins restait-il, à ce moment-là, un fidèle entre les fidèles, ce qui lui assurait une part des avantages prévus tacitement par les statuts à tous les membres fondateurs associés du petit groupe. Mais au fur et à mesure que, à la faveur de la guerre peut-être, ou par la rapide cristallisation d'une élégance si longtemps retardée, mais dont tous les éléments nécessaires et restés invisibles saturaient depuis longtemps le salon des Verdurin, celui-ci s'était ouvert à un monde nouveau et que les fidèles, appâts d'abord de ce monde nouveau, avaient fini par être de moins en moins invités, un phénomène parallèle se produisait pour Brichot. Malgré la Sorbonne, malgré l'Institut, sa notoriété n'avait pas jusqu'à la guerre dépassé les limites du salon Verdurin. Mais quand il se mit à écrire, presque quotidiennement, des articles parés de ce faux brillant qu'on l'a vu si souvent dépenser sans compter pour les fidèles, riches, d'autre part, d'une érudition fort réelle, et qu'en vrai sorbonien il ne cherchait pas à dissimuler de quelques formes plaisantes qu'il l'entourât, le « grand monde » fut littéralement ébloui. Pour une fois, d'ailleurs, il donnait sa faveur à quelqu'un qui était loin d'être une nullité et qui pouvait retenir l'attention par la fertilité de son intelligence et les ressources de sa mémoire. Et pendant que trois duchesses allaient passer la soirée chez Mme Verdurin, trois autres se disputaient l'honneur d'avoir chez elles à dîner le grand homme, lequel acceptait chez l'une, se sentant d'autant plus libre que Mme Verdurin, exaspérée du succès que ses articles rencontraient auprès du faubourg SaintGermain, avait soin de ne jamais avoir Brichot chez elle quand il devait s'y trouver quelque personne brillante qu'il ne connaissait pas encore et qui se hâterait de l'attirer. Ce fut ainsi que le journalisme, dans lequel Brichot se contentait, en somme, de donner tardivement, avec honneur et en échange d'émoluments superbes, ce qu'il avait gaspillé toute sa vie gratis et incognito dans le salon des Verdurin (car ses articles ne lui coûtaient pas plus de peine, tant il était disert et savant, que ses causeries) eût conduit, et parut même un moment conduire Brichot à une gloire incontestée, s'il n'y avait pas eu Mme Verdurin. Certes, les articles de Brichot étaient loin d'être aussi remarquables que le croyaient les gens du monde. La vulgarité de l'homme apparaissait à tout instant sous le pédantisme du lettré. Et à côté d'images qui ne voulaient rien dire du tout (les Allemands ne pourront plus regarder en face la statue de Beethoven ; Schiller a dû frémir dans son tombeau  ; l'encre qui avait paraphé la neutralité de la Belgique était à peine séchée ; Lénine parle, mais autant en emporte le vent de la steppe), c'étaient des trivialités telles que : « Vingt mille prisonniers, c'est un chiffre » ; « Notre commandement saura ouvrir l'œil et le bon » ; « Nous voulons vaincre, un point c'est tout. » Mais, mêlés à tout cela, tant de savoir, tant d'intelligence, de si justes raisonnements. Or, Mme Verdurin ne commençait jamais un article de Brichot sans la satisfaction préalable de penser qu'elle allait y trouver des choses ridicules, et le lisait avec l'attention la plus soutenue pour être certaine de ne les pas laisser échapper. Or, il était malheureusement certain qu'il y en avait quelques-unes. On n'attendait même pas de les avoir trouvées. La citation la plus heureuse d'un auteur vraiment peu connu, au moins dans l'œuvre à laquelle Brichot se reportait, était incriminée comme preuve du pédantisme le plus insoutenable et Mme Verdurin attendait avec impatience l'heure du dîner pour déchaîner les éclats de rire de ses convives. « Hé bien, qu'est-ce que vous avez dit du Brichot de ce soir ? J'ai pensé à vous en lisant la citation de Cuvier. Ma parole, je crois qu'il devient fou. – Je ne l'ai pas encore lu, disait un fidèle. – Comment, vous ne l'avez pas encore lu ? Mais vous ne savez pas les délices que vous vous refusez. C'est-à-dire que c'est d'un ridicule à mourir. » Et contente au fond que quelqu'un n'eût pas encore lu le Brichot pour avoir l'occasion d'en mettre elle-même en lumière les ridicules, Mme Verdurin disait au maître d'hôtel d'apporter le Temps et faisait ellemême la lecture à haute voix, en faisant sonner avec emphase les phrases les plus simples. Après le dîner, pendant toute la soirée ; cette campagne anti-brichotiste continuait, mais avec de fausses réserves. « Je ne le dis pas trop haut parce que j'ai peur que là-bas, disait-elle en montrant la comtesse Molé, on n'admire assez cela. Les gens du monde sont plus naïfs qu'on ne croit. » Mme Molé, à qui on tâchait de faire entendre, en parlant assez fort, qu'on parlait d'elle, tout en s'efforçant de lui montrer par des baissements de voix, qu'on n'aurait pas voulu être entendu d'elle, reniait lâchement Brichot qu'elle égalait en réalité à Michelet. Elle donnait raison à Mme Verdurin, et pour terminer pourtant par quelque chose qui lui paraissait incontestable, disait : « Ce qu'on ne peut pas lui retirer, c'est que c'est bien écrit. – Vous trouvez ça bien écrit, vous ? disait Mme Verdurin, moi je trouve ça écrit comme par un cochon », audace qui faisait rire les gens du monde, d'autant plus que Mme Verdurin, effarouchée ellemême par le mot de cochon, l'avait prononcé en le chuchotant la main rabattue sur les lèvres. Sa rage contre Brichot croissait d'autant plus que celuici étalait naïvement la satisfaction de son succès, malgré les accès de mauvaise humeur que provoquait chez lui la censure, chaque fois que, comme il le disait avec son habitude d'employer les mots nouveaux pour montrer qu'il n'était pas trop universitaire, elle avait « caviardé » une partie de son article. Devant lui Mme Verdurin ne laissait pas trop voir, sauf par une maussaderie qui eût averti un homme plus perspicace, le peu de cas qu'elle faisait de ce qu'il écrivait. Elle lui reprocha seulement une fois d'écrire si souvent « je ». Et il avait, en effet, l'habitude de l'écrire continuellement, d'abord parce que, par habitude de professeur, il se servait constamment d'expressions comme « j'accorde que », « je veux bien que l'énorme développement des fronts nécessite », etc., mais surtout parce que, ancien antidreyfusard militant qui flairait la préparation germanique bien longtemps avant la guerre, il s'était trouvé écrire très souvent : « J'ai dénoncé dès 1897 » ; « j'ai signalé en 1901 » ; « j'ai averti dans ma petite brochure aujourd'hui rarissime (habent sua fata libelli) », et ensuite l'habitude lui était restée. Il rougit fortement de l'observation de Mme Verdurin, qui lui fut faite d'un ton aigre. « Vous avez raison, Madame, quelqu'un qui n'aimait pas plus les jésuites que M. Combes, encore qu'il n'ait pas eu de préface de notre doux maître en scepticisme délicieux, Anatole France, qui fut si je ne me trompe mon adversaire... avant le Déluge, a dit que le moi est toujours haïssable. » À partir de ce moment Brichot remplaça je par on, mais on n'empêchait pas le lecteur de voir que l'auteur parlait de lui et permit à l'auteur de ne plus cesser de parler de lui, de commenter la moindre de ses phrases, de faire un article sur une seule négation, toujours à l'abri de on.
Par exemple, Brichot avaitil dit, fût-ce dans un autre article, que les armées allemandes avaient perdu de leur valeur, il commençait ainsi : « On ne camoufle pas ici la vérité. On a dit que les armées allemandes avaient perdu de leur valeur. On n'a pas dit qu'elles n'avaient plus une grande valeur. Encore moins écrira-t-on qu'elles n'ont plus aucune valeur. On ne dira pas non plus que le terrain gagné, s'il n'est pas, etc. » Bref, rien qu'à énoncer tout ce qu'il ne dirait pas, à rappeler tout ce qu'il avait dit il y avait quelques années, et ce que Clausewitz, Ovide, Apollonius de Tyane avaient dit il y avait plus ou moins de siècles, Brichot aurait pu constituer aisément la matière d'un fort volume. Il est à regretter qu'il n'en ait pas publié, car ces articles si nourris sont maintenant difficiles à retrouver. Le faubourg Saint-Germain, chapitré par Mme Verdurin, commença par rire de Brichot chez elle, mais continua, une fois sorti du petit clan, à admirer Brichot. Puis se moquer de lui devint une mode comme ç'avait été de l'admirer, et celles mêmes qu'il continuait d'intéresser en secret, dès le temps qu'elles lisaient son article, s'arrêtaient et riaient dès qu'elles n'étaient plus seules, pour ne pas avoir l'air moins fines que les autres. Jamais on ne parla tant de Brichot qu'à cette époque dans le petit clan, mais par dérision. On prenait comme critérium de l'intelligence de tout nouveau ce qu'il pensait des articles de Brichot ; s'il répondait mal la première fois, on ne se faisait pas faute de lui apprendre à quoi l'on reconnaît que les gens sont intelligents. 
« Enfin, mon pauvre ami, continua M. de Charlus, tout cela est épouvantable et nous avons plus que d'ennuyeux articles à déplorer. On parle de vandalisme, de statues détruites. Mais est-ce que la destruction de tant de merveilleux jeunes gens, qui étaient des statues polychromes incomparables, n'est pas du vandalisme aussi ? Est-ce qu'une ville qui n'aura plus de beaux hommes ne sera pas comme une ville dont toute la statuaire aurait été brisée ? Quel plaisir puis-je avoir à aller dîner au restaurant quand j'y suis servi par de vieux bouffons moussus qui ressemblent au Père Didon, si ce n'est pas par des femmes en cornette qui me font croire que je suis entré au bouillon Duval. Parfaitement, mon cher, et je crois que j'ai le droit de parler ainsi parce que le Beau est tout de même le Beau dans une matière vivante. Le grand plaisir d'être servi par des êtres rachitiques, portant binocle, dont le cas d'exemption se lit sur le visage ! Contrairement à ce qui arrivait toujours jadis, si l'on veut reposer ses yeux sur quelqu'un de bien dans un restaurant, il ne faut plus regarder parmi les garçons qui servent mais parmi les clients qui consomment. Mais on pouvait revoir un servant, bien qu'ils changeassent souvent, mais allez donc savoir qui est et quand reviendra ce lieutenant anglais qui vient pour la première fois et sera peut-être tué demain. Quand Auguste de Pologne, comme raconte le charmant Morand, l'auteur délicieux de Clarisse, échangea un de ses régiments contre une collection de potiches chinoises, il fit à mon avis une mauvaise affaire. Pensez que tous ces grands valets de pied qui avaient deux mètres de haut et qui ornaient les escaliers monumentaux de nos plus belles amies ont tous été tués, engagés pour la plupart parce qu'on leur répétait que la guerre durerait deux mois. Ah ! ils ne savaient pas comme moi la force de l'Allemagne, la vertu de la race prussienne, dit-il en s'oubliant – et puis, remarquant qu'il avait trop laissé voir son point de vue – ce n'est pas tant l'Allemagne que je crains pour la France que la guerre ellemême. Les gens de l'arrière s'imaginent que la guerre est seulement un gigantesque match de boxe auquel ils assistent de loin, grâce aux journaux. Mais cela n'a aucun rapport. C'est une maladie qui quand elle semble conjurée sur un point reprend sur un autre. Aujourd'hui Noyon sera délivré, demain on n'aura plus ni pain ni chocolat, après-demain celui qui se croyait tranquille et accepterait au besoin une balle qu'il n'imagine pas s'affolera parce qu'il lira dans les journaux que sa classe est rappelée. Quant aux monuments, un chefd'œuvre unique comme Reims par la qualité n'est pas tellement ce dont la disparition m'épouvante, c'est surtout de voir anéantis une telle quantité d'ensembles qui rendaient le moindre village de France instructif et charmant. » Je pensai aussitôt à Combray et qu'autrefois j'aurais cru me diminuer aux yeux de Mme de Guermantes en avouant la petite situation que ma famille occupait à Combray. Je me demandai si elle n'avait pas été révélée aux Guermantes et à M. de Charlus, soit par Legrandin, ou Swann, ou Saint-Loup, ou Morel. Mais cette prétérition même était moins pénible pour moi que des explications rétrospectives. Je souhaitai seulement que M. de Charlus ne parlât pas de Combray. « Je ne veux pas dire de mal des
Américains, Monsieur, continuat-il, il paraît qu'ils sont inépuisablement généreux, et comme il n'y a pas eu de chef d'orchestre dans cette guerre, que chacun est entré dans la danse longtemps après l'autre, et que les Américains ont commencé quand nous étions quasiment finis, ils peuvent avoir une ardeur que quatre ans de guerre ont pu calmer chez nous. Même avant la guerre ils aimaient notre pays, notre art, ils payaient fort cher nos chefs-d'œuvre. Beaucoup sont chez eux maintenant. Mais précisément cet art déraciné, comme dirait M. Barrès, est tout le contraire de ce qui faisait l'agrément délicieux de la France. Le château expliquait l'église qui, ellemême, parce qu'elle avait été un lieu de pèlerinage, expliquait la chanson de geste. Je n'ai pas à surfaire l'illustration de mes origines et de mes alliances, et d'ailleurs ce n'est pas de cela qu'il s'agit. Mais dernièrement j'ai eu à régler une question d'intérêts, et, malgré un certain refroidissement qu'il y a entre le ménage et moi, à aller faire une visite à ma nièce Saint-Loup qui habite à Combray. Combray n'était qu'une toute petite ville comme il y en a tant. Mais nos ancêtres étaient représentés en donateurs dans certains vitraux, dans d'autres étaient inscrites nos armoiries. Nous y avions notre chapelle, nos tombeaux. Cette église a été détruite par les Français et par les Anglais parce qu'elle servait d'observatoire aux Allemands. Tout ce mélange d'histoire survivante et d'art, qui était la France, se détruit, et ce n'est pas fini. Et, bien entendu, je n'ai pas le ridicule de comparer, pour des raisons de famille, la destruction de l'église de Combray à celle de la cathédrale de Reims, qui était comme le miracle d'une cathédrale gothique retrouvant naturellement la pureté de la statuaire antique, ou de celle d'Amiens. Je ne sais si le bras levé de Saint Firmin est aujourd'hui brisé. Dans ce cas la plus haute affirmation de la foi et de l'énergie a disparu de ce monde. – Son symbole, Monsieur, lui répondis-je. Et j'adore autant que vous certains symboles. Mais il serait absurde de sacrifier au symbole la réalité qu'il symbolise. Les cathédrales doivent être adorées jusqu'au jour où, pour les préserver, il faudrait renier les vérités qu'elles enseignent. Le bras levé de Saint Firmin dans un geste de commandement presque militaire disait : Que nous soyons brisés si l'honneur l'exige. Ne sacrifiez pas des hommes à des pierres dont la beauté vient justement d'avoir un moment fixé des vérités humaines. – Je comprends ce que vous voulez dire, me répondit M. de Charlus, et M. Barrès, qui nous a fait, hélas, trop faire de pèlerinages à la statue de Strasbourg et au tombeau de M. Déroulède, a été touchant et gracieux quand il a écrit que la cathédrale de Reims elle-même nous était moins chère que la vie de nos fantassins. Assertion qui rend assez ridicule la colère de nos journaux contre le général allemand qui commandait là-bas et qui disait que la cathédrale de Reims lui était moins précieuse que celle d'un soldat allemand. C'est, du reste, ce qui est exaspérant et navrant, c'est que chaque pays dit la même chose. Les raisons pour lesquelles les associations industrielles de l'Allemagne déclarent la possession de Belfort indispensable à préserver leur nation contre nos idées de revanche sont les mêmes que celles de Barrès exigeant Mayence pour nous protéger contre les velléités d'invasion des Boches. Pourquoi la restitution de l'Alsace-Lorraine a-t-elle paru à la France un motif insuffisant pour faire la guerre, un motif suffisant pour la continuer, pour la redéclarer à nouveau chaque année ? Vous avez l'air de croire que la victoire est désormais promise à la France, je le souhaite de tout mon cœur, vous n'en doutez pas, mais enfin, depuis qu'à tort ou à raison les Alliés se croient sûrs de vaincre (pour ma part je serais naturellement enchanté de cette solution, mais je vois surtout beaucoup de victoires sur le papier, de victoires à la Pyrrhus, avec un coût qui ne nous est pas dit) et que les Boches ne se croient plus sûrs de vaincre, on voit l'Allemagne chercher à hâter la paix, la France à prolonger la guerre, la 
France qui est la France juste et a raison de faire entendre des paroles de justice, mais est aussi la douce France et devrait faire entendre des paroles de pitié, fût-ce seulement pour ses propres enfants et pour qu'à chaque printemps les fleurs qui renaîtront aient autre chose à éclairer que des tombes. Soyez franc, mon cher ami, vous-même m'aviez fait une théorie sur les choses qui n'existent que grâce à une création perpétuellement recommencée. La création du monde n'a pas eu lieu une fois pour toutes, me disiez-vous, elle a nécessairement lieu tous les jours. Hé bien, si vous êtes de bonne foi, vous ne pouvez pas excepter la guerre de cette théorie. Notre excellent Norpois a beau écrire – en sortant un des accessoires de rhétorique qui lui sont aussi chers que « l'aube de la victoire » et le « Général Hiver » : – « Maintenant que l'Allemagne a voulu la guerre », « Les dés en sont jetés », la vérité c'est que chaque matin on déclare à nouveau la guerre. Donc celui qui veut la continuer est aussi coupable que celui qui l'a commencée, plus peutêtre car ce premier n'en prévoyait peut-être pas toutes les horreurs. Or rien ne dit qu'une guerre aussi prolongée, même si elle doit avoir une issue victorieuse, ne soit pas sans péril. Il est difficile de parler de choses qui n'ont point de précédent et des répercussions sur l'organisme d'une opération qu'on tente pour la première fois. Généralement, il est vrai, ces nouveautés dont on s'alarme se passent fort bien. Les républicains les plus sages pensaient qu'il était fou de faire la séparation de l'Église. Elle a passé comme une lettre à la poste. Dreyfus a été réhabilité, Picquart ministre de la guerre, sans qu'on crie ouf. Pourtant que ne peut-on pas craindre d'un surmenage pareil à celui d'une guerre ininterrompue pendant plusieurs années ! Que feront les hommes au retour ? seront-ils las ? la fatigue les aura-t-elle rompus ou affolés ? Tout cela pourrait mal tourner, sinon pour la France, au moins pour le gouvernement, peut-être même pour la forme du gouvernement. Vous m'avez fait lire autrefois l'admirable Aimée de Coigny de Maurras. Je serais fort surpris que quelque Aimée de Coigny n'attendît pas du développement de la guerre que fait la République ce qu'en 1812 Aimée de Coigny attendit de la guerre que faisait l'Empire. Si l'Aimée actuelle existe, ses espérances se réaliseront-elles ? Je ne le désire pas. Pour en revenir à la guerre elle-même, le premier qui l'a commencée est-il l'empereur Guillaume ? J'en doute fort. Et si c'est lui, qu'a-t-il fait autre chose que Napoléon par exemple, chose que moi je trouve abominable mais que je m'étonne de voir inspirer tant d'horreurs aux thuriféraires de Napoléon, aux gens qui, le jour de la déclaration de guerre, se sont écriés comme le général X. : « J'attendais ce jour-là depuis quarante ans. C'est le plus beau jour de ma vie. » Dieu sait si personne a protesté avec plus de force que moi quand on a fait dans la société une place disproportionnée aux nationalistes, aux militaires, quand tout ami des arts était accusé de s'occuper de choses funestes à la patrie, toute civilisation qui n'était pas belliqueuse étant délétère. C'est à peine si un homme du monde authentique comptait auprès d'un général. Une folle faillit me présenter à M. Syveton. Vous me direz que ce que je m'efforçais de maintenir n'était que les règles mondaines. Mais, malgré leur frivolité apparente, elles eussent peut-être empêché bien des excès. J'ai toujours honoré ceux qui défendent la grammaire, ou la logique. On se rend compte cinquante ans après qu'ils ont conjuré de grands périls. Or nos nationalistes sont les plus germanophobes, les plus jusqu'auboutistes des hommes... Mais après quinze ans leur philosophie a changé entièrement. En fait, ils poussent bien à la continuation de la guerre. Mais ce n'est que pour exterminer une race belliqueuse et par amour de la paix. Car une civilisation guerrière, ce qu'ils trouvaient si beau il y a quinze ans, leur fait horreur ; non seulement ils reprochent à la Prusse d'avoir fait prédominer chez elle l'élément militaire, mais en tout temps ils pensent que les civilisations militaires furent destructrices de tout ce qu'ils trouvent maintenant précieux, non seulement les arts, mais même la galanterie. Il suffit qu'un de leurs critiques se soit converti au nationalisme pour qu'il soit devenu du même coup un ami de la paix... Il est persuadé que, dans toutes les civilisations guerrières, la femme avait un rôle humilié et bas.
On n'ose lui répondre que les « Dames » des chevaliers au moyen âge et la Béatrice de Dante étaient peut-être placées sur un trône aussi élevé que les héroïnes de M. Becque. Je m'attends un de ces jours à me voir placé à table après un révolutionnaire russe ou simplement après un de nos généraux faisant la guerre par horreur de la guerre et pour punir un peuple de cultiver un idéal qu'eux-mêmes jugeaient le seul tonifiant il y a quinze ans. Le malheureux Tzar était encore honoré il y a quelques mois parce qu'il avait réuni la conférence de La Haye. Mais maintenant qu'on salue la Russie libre, on oublie le titre qui permettait de la glorifier. Ainsi tourne la Roue du Monde. Et pourtant l'Allemagne emploie tellement les mêmes expressions que la France que c'est à croire qu'elle la cite, elle ne se lasse pas de dire qu'elle « lutte pour l'existence ». Quand je lis : « nous luttons contre un ennemi implacable et cruel jusqu'à ce que nous ayons obtenu une paix qui nous garantisse l'avenir de toute agression et pour que le sang de nos braves soldats n'ait pas coulé en vain », ou bien : « qui n'est pas pour nous est contre nous », je ne sais pas si cette phrase est de l'Empereur Guillaume ou de M. Poincaré, car ils l'ont, à quelques variantes près, prononcée vingt fois l'un et l'autre, bien qu'à vrai dire je doive confesser que l'Empereur ait été en ce cas l'imitateur du Président de la République. La France n'aurait peut-être pas tenu tant à prolonger la guerre si elle était restée faible, mais surtout l'Allemagne n'aurait peut-être pas été si pressée de la finir si elle n'avait pas cessé d'être forte. D'être aussi forte, car forte, vous verrez qu'elle l'est encore. » Il avait pris l'habitude de crier très fort en parlant, par nervosité, par recherche d'issue pour des impressions dont il fallait – n'ayant jamais cultivé aucun art – qu'il se débarrassât, comme un aviateur de ses bombes, fût-ce en plein champ, là où ses paroles n'atteignaient personne, et surtout dans le monde où elles tombaient au hasard et où il était écouté par snobisme, de confiance et, tant il tyrannisait les auditeurs, on peut dire de force et même par crainte. Sur les boulevards cette harangue était de plus une marque de mépris à l'égard des passants pour qui il ne baissait pas plus la voix qu'il n'eût dévié son chemin. Mais elle y détonnait, y étonnait et surtout rendait intelligibles à des gens qui se retournaient des propos qui eussent pu nous faire prendre pour des défaitistes. Je le fis remarquer à M. de Charlus sans réussir qu'à exciter son hilarité. « Avouez que ce serait bien drôle, dit-il. Après tout, ajouta-t-il, on ne sait jamais, chacun de nous risque chaque soir d'être le fait divers du lendemain. En somme, pourquoi ne serais-je pas fusillé dans les fossés de Vincennes ? La même chose est bien arrivée à mon grand-oncle le duc d'Enghien. La soif du sang noble affole une certaine populace qui en cela se montre plus raffinée que les lions. Vous savez que pour ces animaux il suffirait pour qu'ils se jetassent sur elle que Mme Verdurin eût une écorchure sur son nez. Sur ce que dans ma jeunesse on eût appelé son pif ! » Et il se mit à rire à gorge déployée comme si nous avions été seuls dans un salon. Par moments, voyant des individus assez louches extraits de l'ombre par le passage de M. de Charlus se conglomérer à quelque distance de lui, je me demandais si je lui serais plus agréable en le laissant seul ou en ne le quittant pas. Tel celui qui a rencontré un vieillard sujet à de fréquentes crises épileptiformes et qui voit, par l'incohérence de la démarche, l'imminence probable d'un accès se demande si sa compagnie est plutôt désirée comme celle d'un soutien, ou redoutée comme celle d'un témoin à qui on voudrait cacher la crise et dont la présence seule peutêtre, quand le calme absolu réussirait à l'écarter, suffira à la hâter. Mais la possibilité de l'événement duquel on ne sait si l'on doit s'écarter ou non est révélée, chez le malade, par les circuits qu'il fait comme un homme ivre. Tandis que pour M. de Charlus les diverses positions divergentes, signe d'un incident possible dont je n'étais pas bien sûr s'il souhaitait ou redoutait que ma présence l'empêchât de se produire, étaient, par une ingénieuse mise en scène, occupées non par le baron luimême, qui marchait fort droit, mais par tout un cercle de figurants. Tout de même, je crois qu'il préférait éviter la rencontre, car il m'entraîna dans une rue de traverse, plus obscure que le boulevard et où celui-ci ne cessait de déverser des soldats de toute arme et de toute nation, influx juvénile, compensateur et consolant, pour M. de Charlus, de ce reflux de tous les hommes à la frontière qui avait fait frénétiquement le vide dans Paris aux premiers temps de la mobilisation. M. de Charlus ne cessait pas d'admirer les brillants uniformes qui passaient devant nous et qui faisaient de Paris une ville aussi cosmopolite qu'un port, aussi irréelle qu'un décor de peintre qui n'a dressé quelques architectures que pour avoir un prétexte à grouper les costumes les plus variés et les plus chatoyants. Il gardait tout son respect et toute son affection à de grandes dames accusées de défaitisme, comme jadis à celles qui avaient été accusées de dreyfusisme. Il regrettait seulement qu'en s'abaissant à faire de la politique elles eussent donné prise « aux polémiques des journalistes ». Pour lui, à leur égard, rien n'était changé. Car sa frivolité était si systématique, que la naissance unie à la beauté et à d'autres prestiges était la chose durable – et la guerre, comme l'affaire Dreyfus, des modes vulgaires et fugitives. Eût-on fusillé la duchesse de Guermantes pour essai de paix séparée avec l'Autriche qu'il l'eût considérée comme toujours aussi noble et pas plus dégradée que ne nous apparaît aujourd'hui Marie-Antoinette d'avoir été condamnée à la décapitation. En parlant à ce moment-là, M. de Charlus, noble comme une espèce de SaintVallier ou de Saint-Mégrin, était droit, rigide, solennel, parlait gravement, ne faisait pour un moment aucune des manières où se révèlent ceux de sa sorte. Et pourtant, pourquoi ne peutil y en avoir aucun dont la voix soit jamais absolument juste ?... Même en ce moment où elle approchait le plus du grave, elle était fausse encore et aurait eu besoin de l'accordeur. D'ailleurs, M. de Charlus ne savait littéralement où donner de la tête et il la levait souvent avec le regret de ne pas avoir une jumelle qui, d'ailleurs, ne lui eût pas servi à grand'chose, car en plus grand nombre que d'habitude, à cause du raid de zeppelins de l'avant-veille qui avait réveillé la vigilance des pouvoirs publics, il y avait des militaires jusque dans le ciel. Les aéroplanes que j'avais vus quelques heures plus tôt faire, comme des insectes, des taches brunes sur le soir bleu passaient maintenant dans la nuit qu'approfondissait encore l'extinction partielle des réverbères comme de lumineux brûlots. La plus grande impression de beauté que nous faisaient éprouver ces étoiles humaines et filantes était peutêtre surtout de faire regarder le ciel vers lequel on lève peu les yeux d'habitude dans ce Paris dont, en 1914, j'avais vu la beauté presque sans défense attendre la menace de l'ennemi qui se rapprochait. Il y avait certes, maintenant comme alors, la splendeur antique inchangée d'une lune cruellement, mystérieusement sereine, qui versait aux monuments encore intacts l'inutile beauté de sa lumière, mais comme en 1914, et plus qu'en 1914, il y avait aussi autre chose, des lumières différentes et des feux intermittents, que soit de ces aéroplanes, soit des projecteurs de la Tour Eiffel on savait dirigés par une volonté intelligente, par une vigilance amie qui donnait ce même genre d'émotion, inspirait cette même sorte de reconnaissance et de calme que j'avais éprouvés dans la chambre de Saint-Loup, dans la cellule de ce cloître militaire où s'exerçaient, avant qu'ils consommassent un jour, sans une hésitation, en pleine jeunesse, leur sacrifice, tant de cœurs fervents et disciplinés. 
Après le raid de l'avant-veille, où le ciel avait été plus mouvementé que la terre, il s'était calmé comme la mer après une tempête. Mais comme la mer après une tempête il n'avait pas encore repris son apaisement absolu. Des aéroplanes montaient encore comme des fusées rejoindre les étoiles et des projecteurs promenaient lentement, dans le ciel sectionné, comme une pâle poussière d'astres, d'errantes voies lactées.
Cependant les aéroplanes venaient s'insérer au milieu des constellations et on aurait pu se croire dans un autre hémisphère en effet, en voyant ces « étoiles nouvelles ». M. de Charlus me dit son admiration pour ces aviateurs, et comme il ne pouvait pas plus s'empêcher de donner libre cours à sa germanophilie qu'à ses autres penchants tout en niant l'une comme les autres : « D'ailleurs j'ajoute que j'admire autant les Allemands qui montent dans des gothas. Et sur des zeppelins, pensez le courage qu'il faut. Mais ce sont des héros tout simplement. Qu'est-ce que ça peut faire que ce soit sur des civils qu'ils lancent leurs bombes puisque ces batteries tirent sur eux ? Est-ce que vous avez peur des gothas et du canon ? » J'avouai que non et peut-être je me trompais. Sans doute ma paresse m'ayant donné l'habitude, pour mon travail, de le remettre jour par jour au lendemain, je me figurais qu'il pouvait en être de même pour la mort. Comment aurait-on peur d'un canon dont on est persuadé qu'il ne vous frappera pas ce jour-là ? D'ailleurs formées isolément, ces idées de bombes lancées, de mort possible n'ajoutèrent pour moi rien de tragique à l'image que je me faisais du passage des aéronefs allemands jusqu'à ce que j'eusse vu de l'un d'eux ballotté, segmenté à mes regards par les flots de brume d'un ciel agité, d'un aéroplane que, bien que je le susse meurtrier, je n'imaginais que stellaire et céleste, j'eusse vu un soir le geste de la bombe lancée vers nous. Car la réalité originale d'un danger n'est perçue que de cette chose nouvelle, irréductible à ce qu'on sait déjà, qui s'appelle une impression et qui est souvent, comme ce fut le cas là, résumée par une ligne, une ligne qui découvrait une intention, une ligne où il y avait la puissance latente d'un accomplissement qui la déformait, tandis que sur le pont de la Concorde, autour de l'aéroplane menaçant et tragique, et comme si s'étaient reflétées dans les nuages les fontaines des Champs-Élysées, de la place de la Concorde et des Tuileries, les jets d'eau lumineux des projecteurs s'infléchissaient dans le ciel, lignes pleines d'intentions aussi, d'intentions prévoyantes et protectrices, d'hommes puissants et sages auxquels, comme la nuit au quartier de Doncières, j'étais reconnaissant que leur force daignât prendre, avec cette précision si belle, la peine de veiller sur nous. 
La nuit était aussi belle qu'en 1914, comme Paris était aussi menacé. Le clair de lune semblait comme un doux magnésium continu permettant de prendre une dernière fois des images nocturnes de ces beaux ensembles comme la place Vendôme, la place de la Concorde, auxquels l'effroi que j'avais des obus qui allaient peut-être les détruire donnait, par contraste, dans leur beauté encore intacte, une sorte de plénitude, comme si elles se tendaient en avant, offrant aux coups leurs architectures sans défense. « Vous n'avez pas peur, répéta M. de Charlus. Les Parisiens ne se rendent pas compte. On me dit que Mme Verdurin donne des réunions tous les jours. Je ne le sais que par les on-dit, moi je ne sais absolument rien d'eux, j'ai entièrement rompu », ajouta-t-il en baissant non seulement les yeux comme si avait passé un télégraphiste, mais aussi la tête, les épaules, et en levant le bras avec le geste qui signifie sinon « je m'en lave les mains », du moins « je ne peux rien vous dire » (bien que je ne lui demandasse rien). « Je sais que Morel y va toujours beaucoup », me dit-il (c'était la première fois qu'il m'en reparlait). « On prétend qu'il regrette beaucoup le passé, qu'il désire se rapprocher de moi », ajoutatil, faisant preuve à la fois de cette même crédulité d'homme du faubourg qui dit : « On dit beaucoup que la France cause plus que jamais avec l'Allemagne et que les pourparlers sont même engagés » et de l'amoureux que les pires rebuffades n'ont pas persuadé. « En tout cas, s'il le veut il n'a qu'à le dire, je suis plus vieux que lui, ce n'est pas à moi à faire les premiers pas. » Et sans doute il était bien inutile de le dire tant c'était évident. Mais, de plus, ce n'était même pas sincère, et c'est pour cela qu'on était si gêné pour M. de Charlus, car on sentait qu'en disant que ce n'était pas à lui de faire les premiers pas, il en faisait au contraire un et attendait que j'offrisse de me charger du rapprochement. Certes, je connaissais cette naïve ou feinte crédulité des gens qui aiment quelqu'un, ou simplement ne sont pas reçus chez quelqu'un, et imputent à ce quelqu'un un désir qu'il n'a pourtant pas manifesté, malgré des sollicitations fastidieuses. 
Malheureusement, dès le lendemain, disons-le tout de suite, M. de Charlus se trouva dans la rue face à face avec Morel ; celui-ci, pour exciter sa jalousie, le prit par le bras, lui raconta des histoires plus ou moins vraies et quand M. de Charlus éperdu, ayant besoin que Morel restât cette soirée auprès de lui, le supplia de ne pas aller ailleurs, l'autre, apercevant un camarade, dit adieu à M. de Charlus qui, de colère, espérant que cette menace que, bien entendu, il semblait ne devoir exécuter jamais, ferait rester Morel, lui dit : « Prends garde, je me vengerai », et Morel, riant, partit en tapotant sur le cou et en enlaçant par la taille son camarade étonné. 
À l'accent soudain tremblant avec lequel M. de Charlus avait, en me parlant de Morel, scandé ses paroles, au regard trouble qui vacillait au fond de ses yeux, j'eus l'impression qu'il y avait autre chose qu'une banale insistance. Je ne me trompais pas et je dirai tout de suite les deux faits qui me le prouvèrent rétrospectivement (j'anticipe de beaucoup d'années pour le second de ces faits, postérieur à la mort de M. de Charlus. Or elle ne devait se produire que bien plus tard, et nous aurons l'occasion de le revoir plusieurs fois, bien différent de ce que nous l'avons connu, et en particulier la dernière fois, à une époque où il avait entièrement oublié Morel). Quant au premier de ces faits, il se produisit deux ans seulement après le soir où je descendais ainsi les boulevards avec M. de Charlus. Donc environ deux ans après cette soirée, je rencontrai Morel. Je pensai aussitôt à M. de Charlus, au plaisir qu'il aurait à revoir le violoniste, et j'insistai auprès de lui pour qu'il allât le voir, fût-ce une fois. « Il a été bon pour vous, disje à Morel. Il est déjà vieux, il peut mourir, il faut liquider les vieilles querelles et effacer les traces de la brouille. » Morel parut entièrement de mon avis quant à un apaisement désirable, mais il n'en refusa pas moins catégoriquement de faire même une seule visite à M. de Charlus. « Vous avez tort, lui dis-je. Est-ce par entêtement, par paresse, par méchanceté, par amour-propre mal placé, par vertu (soyez sûr qu'elle ne sera pas attaquée), par coquetterie ? » Alors le violoniste, tordant son visage pour un aveu qui lui coûtait sans doute extrêmement, me répondit en frissonnant : « Non, ce n'est pour rien de tout cela, la vertu je m'en fous ; la méchanceté, au contraire je commence à le plaindre ; ce n'est pas par coquetterie, elle serait inutile ; ce n'est pas par paresse, il y a des journées entières où je reste à me tourner les pouces, non, ce n'est à cause de rien de tout cela ; c'est, ne le dites jamais à personne et je suis fou de vous le dire, c'est, c'est... c'est... par peur ! » Il se mit à trembler de tous ses membres. Je lui avouai que je ne le comprenais pas. « Non, ne me demandez pas, n'en parlons plus, vous ne le connaissez pas comme moi, je peux dire que vous ne le connaissez pas du tout. – Mais quel tort peut-il vous faire ? il cherchera, d'ailleurs, d'autant moins à vous en faire qu'il n'y aura plus de rancune entre vous. Et puis, au fond, vous savez qu'il est très bon. – Parbleu si, je le sais qu'il est bon ! Et la délicatesse et la droiture. Mais laissez-moi, ne m'en parlez plus, je vous en supplie, c'est honteux à dire, j'ai peur ! » Le second fait date d'après la mort de M. de Charlus. On m'apporta quelques souvenirs qu'il m'avait laissés et une lettre à triple enveloppe, écrite au moins dix ans avant sa mort. Mais il avait été gravement malade, avait pris ses dispositions, puis s'était rétabli avant de tomber plus tard dans l'état où nous le verrons le jour d'une matinée chez la princesse de Guermantes – et la lettre, restée dans un coffre avec les objets qu'il léguait à quelques amis, était restée là sept ans, sept ans pendant lesquels il avait entièrement oublié Morel. La lettre, tracée d'une écriture fine et ferme, était ainsi conçue : « Mon cher ami, les voies de la Providence sont inconnues. Parfois c'est du défaut d'un être médiocre qu'elle use pour empêcher de faillir la suréminence d'un juste. Vous connaissez Morel, d'où il est sorti, à quel faîte j'ai voulu l'élever, autant dire à mon niveau. Vous savez qu'il a préféré retourner non pas à la poussière et à la cendre d'où tout homme, c'est-à-dire le véritable phœnix, peut renaître, mais à la boue où rampe la vipère. Il s'est laissé choir, ce qui m'a préservé de déchoir. Vous savez que mes armes contiennent la devise même de Notre-Seigneur : « Inculcabis super leonem et aspidem » avec un homme représenté comme ayant à la plante de ses pieds, comme support héraldique, un lion et un serpent. Or si j'ai pu fouler ainsi le propre lion que je suis, c'est grâce au serpent et à sa prudence, qu'on appelle trop légèrement parfois un défaut, car la profonde sagesse de l'Évangile en fait une vertu, au moins une vertu pour les autres. Notre serpent aux sifflements jadis harmonieusement modulés, quand il avait un charmeur – fort charmé, du reste – n'était pas seulement musical et reptile, il avait jusqu'à la lâcheté cette vertu que je tiens maintenant pour divine, la Prudence. C'est cette divine prudence qui l'a fait résister aux appels que je lui ai fait transmettre de revenir me voir, et je n'aurai de paix en ce monde et d'espoir de pardon dans l'autre que si je vous en fais l'aveu. C'est lui qui a été en cela l'instrument de la Sagesse divine, car, je l'avais résolu, il ne serait pas sorti de chez moi vivant. Il fallait que l'un de nous deux disparût. J'étais décidé à le tuer. Dieu lui a conseillé la prudence pour me préserver d'un crime. Je ne doute pas que l'intercession de l'Archange Michel, mon saint patron, n'ait joué là un grand rôle et je le prie de me pardonner de l'avoir tant négligé pendant plusieurs années et d'avoir si mal répondu aux innombrables bontés qu'il m'a témoignées, tout spécialement dans ma lutte contre le mal. Je dois à ce serviteur, je le dis dans la plénitude de ma foi et de mon intelligence, que le Père céleste ait inspiré à Morel de ne pas venir. Aussi, c'est moi maintenant qui me meurs. Votre fidèlement dévoué, Semper idem, P. G. Charlus. » Alors je compris la peur de Morel ; certes il y avait dans cette lettre bien de l'orgueil et de la littérature. Mais l'aveu était vrai. Et Morel savait mieux que moi que le « côté presque fou » que 
Mme de Guermantes trouvait chez son beau-frère ne se bornait pas, comme je l'avais cru jusque-là, à ces dehors momentanés de rage superficielle et inopérante. 
Mais il faut revenir en arrière. Je descends les boulevards à côté de M. de Charlus, lequel vient de me prendre comme vague intermédiaire pour des ouvertures de paix entre lui et Morel. Voyant que je ne lui répondais pas, il continua ainsi : « Je ne sais pas, du reste, pourquoi il ne joue pas, on ne fait plus de musique sous prétexte que c'est la guerre, mais on danse, on dîne en ville. Les fêtes remplissent ce qui sera peut-être, si les Allemands avancent encore, les derniers jours de notre Pompéi. Pour peu que la lave de quelque Vésuve allemand (leurs pièces de marine ne sont pas moins terribles qu'un volcan) vienne les surprendre à leur toilette et éternise leur geste en l'interrompant, les enfants s'instruiront plus tard en regardant dans les livres de classes illustrés Mme Molé qui allait mettre une dernière couche de fard avant d'aller dîner chez une belle-sœur, ou Sosthène de Guermantes finissant de peindre ses faux sourcils ; ce sera matière à cours pour les Brichot de l'avenir ; la frivolité d'une époque quand dix siècles ont passé sur elle est digne de la plus grave érudition, surtout si elle a été conservée intacte par une éruption volcanique ou des matières analogues à la lave projetées par bombardement. Quels documents pour l'histoire future, quand les gaz asphyxiants analogues à ceux qu'émettait le Vésuve et des écroulements comme ceux qui ensevelirent Pompéi garderont intactes toutes les dernières imprudentes qui n'ont pas fait encore filer pour Bayonne leurs tableaux et leurs statues. D'ailleurs, n'est-ce pas déjà, depuis un an, Pompéi par fragments, chaque soir, que ces gens se sauvant dans les caves, non pas pour en rapporter quelque vieille bouteille de Mouton Rothschild ou de SaintÉmilion, mais pour cacher avec eux ce qu'ils ont de plus précieux, comme les prêtres d'Herculanum surpris par la mort au moment où ils emportaient les vases sacrés. C'est toujours l'attachement à l'objet qui amène la mort du possesseur. Paris, lui, ne fut pas, comme Herculanum, fondé par Hercule. Mais que de ressemblances s'imposent ! et cette lucidité qui nous est donnée n'est pas que de notre époque, chacune l'a possédée. Si je pense que nous pouvons avoir demain le sort des villes du Vésuve, celles-ci sentaient qu'elles étaient menacées du sort des villes maudites de la Bible. On a retrouvé sur les murs d'une des maisons de Pompéi cette inscription révélatrice : « Sodoma, Gomora. » Je ne sais si ce fut ce nom de Sodome et les idées qu'il éveilla en lui, soit celle du bombardement, qui firent que M. de Charlus leva un instant les yeux au ciel, mais il les ramena bientôt sur la terre. « J'admire tous les héros de cette guerre, dit-il. Tenez, mon cher, les soldats anglais que j'ai un peu légèrement considérés au début de la guerre comme de simples joueurs de football assez présomptueux pour se mesurer avec des professionnels – et quels professionnels ! – hé bien, rien qu'esthétiquement ce sont des athlètes de la Grèce, vous entendez bien, de la Grèce, mon cher, ce sont les jeunes gens de Platon, ou plutôt des Spartiates. J'ai un ami qui est allé à Rouen où ils ont leur camp, il a vu des merveilles, de pures merveilles dont on n'a pas idée. Ce n'est plus Rouen, c'est une autre ville. Évidemment il y a aussi l'ancien Rouen, avec les Saints émaciés de la cathédrale. Bien entendu, c'est beau aussi, mais c'est autre chose. Et nos poilus ! je ne peux pas vous dire quelle saveur je trouve en nos poilus, aux petits Parigots, tenez, comme celui qui passe là, avec son air dessalé, sa mine éveillée et drôle. Il m'arrive souvent de les arrêter, de faire un brin de causette avec eux, quelle finesse, quel bon sens ! et les gars de province, comme ils sont amusants et gentils avec leur roulement d'r et leur jargon patoiseur !... Moi, j'ai toujours beaucoup vécu à la campagne, couché dans les fermes, je sais leur parler, mais notre admiration pour les Français ne doit pas nous faire déprécier nos ennemis, ce serait nous diminuer nous-mêmes. Et vous ne savez pas quel soldat est le soldat allemand, vous ne l'avez pas vu comme moi défiler au pas de parade, au pas de l'oie, « unter den Linden ». En revenant à l'idéal de virilité qu'il m'avait esquissé à Balbec et qui avec le temps avait pris chez lui une forme philosophique, usant, d'ailleurs, de raisonnements absurdes, qui par moments, même quand il venait d'être supérieur, laissaient voir la trame trop mince du simple homme du monde, bien qu'homme du monde intelligent : « Voyez-vous, me dit-il, le superbe gaillard qu'est le soldat boche est un être fort, sain, ne pensant qu'à la grandeur de son pays, « Deutschland über alles », ce qui n'est pas si bête, et tandis qu'ils se préparaient virilement, nous nous sommes abîmés dans le dilettantisme. » Ce mot signifiait probablement pour M. de Charlus quelque chose d'analogue à la littérature, car aussitôt se rappelant sans doute que j'aimais les lettres et avais eu un moment l'intention de m'y adonner, il me tapa sur l'épaule (profitant du geste pour s'y appuyer jusqu'à me faire aussi mal qu'autrefois, quand je faisais mon service militaire, le recul contre l'omoplate du « 76 »), il me dit comme pour adoucir le reproche : « Oui, nous nous sommes abîmés dans le dilettantisme, nous tous, vous aussi, rappelezvous, vous pouvez faire comme moi votre mea culpa, nous avons été trop dilettantes. » Par surprise du reproche, manque d'esprit de repartie, déférence envers mon interlocuteur et attendrissement pour son amicale bonté, je répondis comme si, ainsi qu'il m'y invitait, j'avais aussi à me frapper la poitrine, ce qui était parfaitement stupide car je n'avais pas l'ombre de dilettantisme à me reprocher. « Allons, me dit-il, je vous quitte (le groupe qui l'avait escorté de loin ayant fini par nous abandonner). Je m'en vais me coucher comme un très vieux Monsieur, d'autant plus qu'il paraît que la guerre a changé toutes nos habitudes, un de ces aphorismes qu'affectionne Norpois. » Je savais, du reste, qu'en rentrant chez lui M. de Charlus ne cessait pas pour cela d'être au milieu des soldats, car il avait transformé son hôtel en hôpital militaire, cédant du reste, je le crois, aux besoins bien moins de son imagination que de son bon cœur. 
Il faisait une nuit transparente et sans un souffle. J'imaginais que la Seine coulant entre ses ponts circulaires, faits de leur plateau et de son reflet, devait ressembler au Bosphore. Et symbole soit de cette invasion que prédisait le défaitisme de M. de Charlus, soit de la coopération de nos frères musulmans avec les armées de la France, la lune étroite et recourbée comme un sequin semblait mettre le ciel parisien sous le signe oriental du croissant. Pour un instant encore il resta en arrêt devant un Sénégalais en me disant adieu et en me serrant la main à me la broyer, ce qui est une particularité allemande chez les gens qui sentent comme le baron, et en continuant pendant quelque temps à me la malaxer, eût dit jadis Cottard, comme si M. de Charlus avait voulu rendre à mes articulations une souplesse qu'elles n'avaient point perdue. Chez certains aveugles, le toucher supplée dans une certaine mesure à la vue. Je ne sais trop de quel sens il prenait la place ici. Il croyait peutêtre seulement me serrer la main comme il crut sans doute ne faire que voir le Sénégalais qui passait dans l'ombre et ne daigna pas s'apercevoir qu'il était admiré. Mais, dans ces deux cas, le baron se trompait, il péchait par excès de contact et de regards. « Est-ce que tout l'Orient de Decamps, de Fromentin, d'Ingres, de Delacroix n'est pas là dedans ? me dit-il, encore immobilisé par le passage du Sénégalais. Vous savez, moi, je ne m'intéresse jamais aux choses et aux êtres qu'en peintre, en philosophe. D'ailleurs je suis trop vieux. Mais quel malheur, pour compléter le tableau, que l'un de nous deux ne soit pas une odalisque. » 
Ce ne fut pas l'Orient de Decamps, ni même de Delacroix qui commença de hanter mon imagination quand le baron m'eut quitté, mais le vieil Orient de ces Mille et une Nuits que j'avais tant aimées, et, me perdant peu à peu dans le lacis de ces rues noires, je pensais au calife Haroun Al Raschid en quête d'aventures dans les quartiers perdus de Bagdad. D'autre part, la chaleur du temps et de la marche m'avait donné soif, mais depuis longtemps tous les bars étaient fermés, et à cause de la pénurie d'essence les rares taxis que je rencontrais, conduits par des Levantins ou des Nègres, ne prenaient même pas la peine de répondre à mes signes. Le seul endroit où j'aurais pu me faire servir à boire et reprendre des forces pour rentrer chez moi eût été un hôtel. Mais dans la rue assez éloignée du centre où j'étais parvenu, tous, depuis que sur Paris les gothas lançaient leurs bombes, avaient fermé. Il en était de même de presque toutes les boutiques de commerçants, lesquels, faute d'employés ou eux-mêmes pris de peur, avaient fui à la campagne et laissé sur la porte un avertissement habituel écrit à la main et annonçant leur réouverture pour une époque éloignée et, d'ailleurs, problématique. Les autres établissements qui avaient pu survivre encore annonçaient de la même manière qu'ils n'ouvraient que deux fois par semaine. On sentait que la misère, l'abandon, la peur habitaient tout ce quartier. Je n'en fus que plus surpris de voir qu'entre ces maisons délaissées il y en avait une où la vie au contraire semblait avoir vaincu l'effroi, la faillite, et entretenait l'activité et la richesse. Derrière les volets clos de chaque fenêtre la lumière, tamisée à cause des ordonnances de police, décelait pourtant un insouci complet de l'économie. Et à tout instant la porte s'ouvrait pour laisser entrer ou sortir quelque visiteur nouveau. C'était un hôtel par qui la jalousie de tous les commerçants voisins (à cause de l'argent que ses propriétaires devaient gagner) devait être excitée ; et ma curiosité le fut aussi quand je vis sortir rapidement, à une quinzaine de mètres de moi, c'est-à-dire trop loin pour que dans l'obscurité profonde je pusse le reconnaître, un officier. 
Quelque chose pourtant me frappa qui n'était pas sa figure que je ne voyais pas, ni son uniforme dissimulé dans une grande houppelande, mais la disproportion extraordinaire entre le nombre de points différents par où passa son corps et le petit nombre de secondes pendant lesquelles cette sortie, qui avait l'air de la sortie tentée par un assiégé, s'exécuta. De sorte que je pensai, si je ne le reconnus pas formellement – je ne dirai pas même à la tournure ni à la sveltesse, ni à l'allure, ni à la vélocité de Saint-Loup – mais à l'espèce d'ubiquité qui lui était si spéciale. Le militaire capable d'occuper en si peu de temps tant de positions différentes dans l'espace avait disparu, sans m'avoir aperçu, dans une rue de traverse, et je restais à me demander si je devais ou non entrer dans cet hôtel dont l'apparence modeste me fit fortement douter que ce fût
SaintLoup qui en fût sorti. Je me rappelai involontairement que Saint-Loup avait été injustement mêlé à une affaire d'espionnage parce qu'on avait trouvé son nom dans les lettres saisies sur un officier allemand. Pleine justice lui avait d'ailleurs été rendue par l'autorité militaire. Mais malgré moi je rapprochai ce fait de ce que je voyais. Cet hôtel servait-il de lieu de rendezvous à des espions ? L'officier avait depuis un moment disparu quand je vis entrer de simples soldats de plusieurs armes, ce qui ajouta encore à la force de ma supposition. J'avais, d'autre part, extrêmement soif. « Il est probable que je pourrai trouver à boire ici », me dis-je, et j'en profitai pour tâcher d'assouvir, malgré l'inquiétude qui s'y mêlait, ma curiosité. Je ne pense donc pas que ce fut la curiosité de cette rencontre qui me décida à monter le petit escalier de quelques marches au bout duquel la porte d'une espèce de vestibule était ouverte, sans doute à cause de la chaleur. Je crus d'abord que, cette curiosité, je ne pourrais la satisfaire, car je vis plusieurs personnes venir demander une chambre, à qui on répondit qu'il n'y en avait plus une seule. Mais je compris ensuite qu'elles n'avaient évidemment contre elles que de ne pas faire partie du nid d'espionnage, car un simple marin s'étant présenté un moment après on se hâta de lui donner le n° 28. Je pus apercevoir sans être vu, grâce à l'obscurité, quelques militaires et deux ouvriers qui causaient tranquillement dans une petite pièce étouffée, prétentieusement ornée de portraits en couleurs de femmes découpés dans des magazines et des revues illustrées. Ces gens causaient tranquillement, en train d'exposer des idées patriotiques : « Qu'est-ce que tu veux, on fera comme les camarades », disait l'un. « Ah ! pour sûr que je pense bien ne pas être tué », répondait à un vœu que je n'avais pas entendu, un autre qui, à ce que je compris, repartait le lendemain pour un poste dangereux. « Par exemple, à vingt-deux ans, en n'ayant encore fait que six mois, ce serait fort », criait-il avec un ton où perçait encore plus que le désir de vivre longtemps la conscience de raisonner juste, et comme si le fait de n'avoir que vingt-deux ans devait lui donner plus de chances de ne pas être tué, et que ce dût être une chose impossible qu'il le fût. « À Paris c'est épatant, disait un autre ; on ne dirait pas qu'il y a la guerre. Et toi, Julot, tu t'engages toujours ? – Pour sûr que je m'engage, j'ai envie d'aller y taper un peu dans le tas à tous ces sales Boches. – Mais Joffre, c'est un homme qui couche avec les femmes des Ministres, c'est pas un homme qui a fait quelque chose. – C'est malheureux d'entendre des choses pareilles, dit un aviateur un peu plus âgé en se tournant vers l'ouvrier qui venait de faire entendre cette proposition ; je vous conseillerais pas de causer comme ça en première ligne, les poilus vous auraient vite expédié. » La banalité de ces conversations ne me donnait pas grande envie d'en entendre davantage, et j'allais entrer ou redescendre quand je fus tiré de mon indifférence en entendant ces phrases qui me firent frémir : « C'est épatant, le patron qui ne revient pas, dame, à cette heure-ci je ne sais pas trop où il trouvera des chaînes. – Mais puisque l'autre est déjà attaché. – Il est attaché bien sûr, il est attaché et il ne l'est pas, moi je serais attaché comme ça que je pourrais me détacher. – Mais le cadenas est fermé. –
C'est entendu qu'il est fermé, mais ça peut s'ouvrir à la rigueur.
Ce qu'il y a, c'est que les chaînes ne sont pas assez longues. Tu vas pas m'expliquer à moi ce que c'est, j'y ai tapé dessus hier pendant toute la nuit que le sang m'en coulait sur les mains. – C'est toi qui taperas ce soir. – Non, c'est pas moi, c'est Maurice. Mais ça sera moi dimanche, le patron me l'a promis. » Je compris maintenant pourquoi on avait eu besoin des bras solides du marin. Si on avait éloigné de paisibles bourgeois, ce n'était donc pas qu'un nid d'espions que cet hôtel. Un crime atroce allait y être consommé, si on n'arrivait pas à temps pour le découvrir et faire arrêter les coupables. Tout cela pourtant, dans cette nuit paisible et menacée, gardait une apparence de rêve, de conte, et c'est à la fois avec une fierté de justicier et une volupté de poète que j'entrai délibérément dans l'hôtel. Je touchai légèrement mon chapeau et les personnes présentes, sans se déranger, répondirent plus ou moins poliment à mon salut. « Est-ce que vous pourriez me dire à qui il faut m'adresser ? Je voudrais avoir une chambre et qu'on m'y monte à boire. – Attendez une minute, le patron est sorti. – Mais il y a le chef là-haut, insinua un des causeurs. – Mais tu sais bien qu'on ne peut pas le déranger. – Croyez-vous qu'on me donnera une chambre ? – J'crois. – Le 43 doit être libre », dit le jeune homme qui était sûr de ne pas être tué parce qu'il avait vingtdeux ans. Et il se poussa légèrement sur le sofa pour me faire place. « Si on ouvrait un peu la fenêtre, il y a une fumée ici », dit l'aviateur ; et en effet chacun avait sa pipe ou sa cigarette. « Oui, mais alors, fermez d'abord les volets, vous savez bien qu'il est défendu d'avoir de la lumière à cause des Zeppelins. – Il n'en viendra plus de Zeppelins. Les journaux ont même fait allusion sur ce qu'ils avaient été tous descendus. – Il n'en viendra plus, il n'en viendra plus, qu'est-ce que tu en sais ? Quand tu auras comme moi quinze mois de front et que tu auras abattu ton cinquième avion boche, tu pourras en causer. Faut pas croire les journaux. Ils sont allés hier sur Compiègne, ils ont tué une mère de famille avec ses deux enfants. – Une mère de famille avec ses deux enfants », dit avec des yeux ardents et un air de profonde pitié le jeune homme qui espérait bien ne pas être tué et qui avait, du reste, une figure énergique, ouverte et des plus sympathiques. « On n'a pas de nouvelles du grand Julot. Sa marraine n'a pas reçu de lettre de lui depuis huit jours et c'est la première fois qu'il reste si longtemps sans lui en donner. – Qui est sa marraine ? – C'est la dame qui tient le chalet de nécessité un peu plus bas que l'Olympia. – Ils couchent ensemble ? – Qu'est-ce que tu dis là ; c'est une femme mariée, tout ce qu'il y a de sérieuse. Elle lui envoie de l'argent toutes les semaines parce qu'elle a bon cœur. Ah ! c'est une chic femme. – Alors tu le connais, le grand Julot ? – Si je le connais ! reprit avec chaleur le jeune homme de vingt-deux ans. C'est un de mes meilleurs amis intimes. Il n'y en a pas beaucoup que j'estime comme lui, et bon camarade, toujours prêt à rendre service, ah ! tu parles que ce serait un rude malheur s'il lui était arrivé quelque chose. » Quelqu'un proposa une partie de dés et à la hâte fébrile avec laquelle le jeune homme de vingt-deux ans retournait les dés et criait les résultats, les yeux hors de la tête, il était aisé de voir qu'il avait un tempérament de joueur. Je ne saisis pas bien ce que quelqu'un lui dit ensuite, mais il s'écria d'un ton de profonde pitié : « Julot, un maquereau ! C'est-à-dire qu'il dit qu'il est un maquereau. Mais il n'est pas foutu de l'être. Moi je l'ai vu payer sa femme, oui, la payer. C'est-à-dire que je ne dis pas que Jeanne l'Algérienne ne lui donnait pas quelque chose, mais elle ne lui donnait pas plus de cinq francs, une femme qui était en maison, qui gagnait plus de cinquante francs par jour. Se faire donner que cinq francs ! il faut qu'un homme soit trop bête. Et maintenant qu'elle est sur le front, elle a une vie dure, je veux bien, mais elle gagne ce qu'elle veut ; eh bien, elle ne lui envoie rien. Ah ! un maquereau, Julot ? Il y en a beaucoup qui pourraient se dire maquereaux à ce compte-là. Non seulement ce n'est pas un maquereau, mais à mon avis c'est même un imbécile. » Le plus vieux de la bande, et que le patron avait sans doute, à cause de son âge, chargé de lui faire garder une certaine tenue, n'entendit, étant allé un moment jusqu'aux cabinets, que la fin de la conversation. Mais il ne put s'empêcher de me regarder et parut visiblement contrarié de l'effet qu'elle avait dû produire sur moi. Sans s'adresser spécialement au jeune homme de vingt-deux ans qui venait pourtant d'exposer cette théorie de l'amour vénal, il dit, d'une façon générale : « Vous causez trop et trop fort, la fenêtre est ouverte, il y a des gens qui dorment à cette heure-ci. Vous savez que si le patron rentrait et vous entendait causer comme ça, il ne serait pas content. » Précisément en ce moment on entendit la porte s'ouvrir et tout le monde se tut croyant que c'était le patron, mais ce n'était qu'un chauffeur d'auto étranger auquel tout le monde fit grand accueil. Mais en voyant une chaîne de montre superbe qui s'étalait sur la veste du chauffeur, le jeune homme de vingt-deux ans lui lança un coup d'œil interrogatif et rieur, suivi d'un froncement de sourcil et d'un clignement d'œil sévère dirigé de mon côté. Et je compris que le premier regard voulait dire : « Qu'est-ce que ça ? tu l'as volée ? Toutes mes félicitations. » Et le second : « Ne dis rien à cause de ce type que nous ne connaissons pas. » Tout à coup le patron entra, chargé de plusieurs mètres de grosses chaînes capables d'attacher plusieurs forçats, suant, et dit : « J'en ai une charge, si vous tous vous n'étiez pas si fainéants, je ne devrais pas être obligé d'y aller moi-même. » Je lui dis que je demandais une chambre. « Pour quelques heures seulement, je n'ai pas trouvé de voiture et je suis un peu malade. Mais je voudrais qu'on me monte à boire. – Pierrot, va à la cave chercher du cassis et dis qu'on mette en état le numéro 43. Voilà le 7 qui sonne. Ils disent qu'ils sont malades. Malades, je t'en fiche, c'est des gens à prendre de la coco, ils ont l'air à moitié piqués, il faut les foutre dehors. At-on mis une paire de draps au 22 ? Bon ! voilà le 7 qui sonne encore, cours-y voir. Allons, Maurice, qu'est-ce que tu fais là, tu sais bien qu'on t'attend, monte au 14 bis. Et plus vite que ça. » Et Maurice sortit rapidement, suivant le patron qui, un peu ennuyé que j'eusse vu ses chaînes, disparut en les emportant. « Comment que tu viens si tard ? » demanda le jeune homme de vingt-deux ans au chauffeur. « Comment, si tard, je suis d'une heure en avance. Mais il fait trop chaud marcher. J'ai rendez-vous qu'à minuit. – Pour qui donc est-ce que tu viens ? – Pour Pamela la charmeuse », dit le chauffeur oriental dont le rire découvrit les belles dents blanches. « Ah ! » dit le jeune homme de vingtdeux ans. Bientôt on me fit monter dans la chambre 43, mais l'atmosphère était si désagréable et ma curiosité si grande que, mon « cassis » bu, je redescendis l'escalier, puis, pris d'une autre idée, je remontai et dépassai l'étage de la chambre 43, allai jusqu'en haut. Tout à coup, d'une chambre qui était isolée au bout d'un couloir me semblèrent venir des plaintes étouffées. Je marchai vivement dans cette direction et appliquai mon oreille à la porte. « Je vous en supplie, grâce, grâce, pitié, détachez-moi, ne me frappez pas si fort, disait une voix. Je vous baise les pieds, je m'humilie, je ne recommencerai pas. Ayez pitié. – Non, crapule, répondit une autre voix, et puisque tu gueules et que tu te traînes à genoux, on va t'attacher sur le lit, pas de pitié », et j'entendis le bruit du claquement d'un martinet, probablement aiguisé de clous car il fut suivi de cris de douleur. Alors je m'aperçus qu'il y avait dans cette chambre un œil-de-bœuf latéral dont on avait oublié de tirer le rideau ; cheminant à pas de loup dans l'ombre, je me glissai jusqu'à cet œil-de-bœuf, et là, enchaîné sur un lit comme Prométhée sur son rocher, recevant les coups d'un martinet en effet planté de clous que lui infligeait Maurice, je vis, déjà tout en sang, et couvert d'ecchymoses qui prouvaient que le supplice n'avait pas lieu pour la première fois, je vis devant moi M. de Charlus. Tout à coup la porte s'ouvrit et quelqu'un entra qui heureusement ne me vit pas, c'était Jupien. Il s'approcha du baron avec un air de respect et un sourire d'intelligence : « Hé bien, vous n'avez pas besoin de moi ? » Le baron pria Jupien de faire sortir un moment Maurice. Jupien le mit dehors avec la plus grande désinvolture. « On ne peut pas nous entendre ? » dit le baron à Jupien, qui lui affirma que non. Le baron savait que Jupien, intelligent comme un homme de lettres, n'avait nullement l'esprit pratique, parlait toujours, devant les intéressés, avec des sousentendus qui ne trompaient personne et des surnoms que tout le monde connaissait. « Une seconde », interrompit Jupien qui avait entendu une sonnette retentir à la chambre n° 3. C'était un député de l'Action Libérale qui sortait. Jupien n'avait pas besoin de voir le tableau car il connaissait son coup de sonnette, le député venant, en effet, tous les jours après déjeuner. Il avait été obligé ce jourlà de changer ses heures, car il avait marié sa fille à midi à SaintPierre de Chaillot. Il était donc venu le soir, mais tenait à partir de bonne heure à cause de sa femme, vite inquiète quand il rentrait tard, surtout par ces temps de bombardement. Jupien tenait à accompagner sa sortie pour témoigner de la déférence qu'il portait à la qualité d'honorable, sans aucun intérêt personnel d'ailleurs. Car bien que ce député, répudiant les exagérations de l'Action Française (il eût, d'ailleurs, été incapable de comprendre une ligne de Charles Maurras ou de Léon Daudet), fût bien avec les ministres, flattés d'être invités à ses chasses, Jupien n'aurait pas osé lui demander le moindre appui dans ses démêlés avec la police. Il savait que, s'il s'était risqué à parler de cela au législateur fortuné et froussard, il n'aurait pas évité la plus inoffensive des « descentes » mais eût instantanément perdu le plus généreux de ses clients. Après avoir reconduit jusqu'à la porte le député, qui avait rabattu son chapeau sur ses yeux, relevé son col et, glissant rapidement comme il faisait dans ses programmes électoraux, croyait cacher son visage, Jupien remonta près de M. de Charlus à qui il dit : « C'était Monsieur Eugène. » Chez Jupien, comme dans les maisons de santé, on n'appelait les gens que par leur prénom tout en ayant soin d'ajouter à l'oreille, pour satisfaire la curiosité des habitués ou augmenter le prestige de la maison, leur nom véritable. Quelquefois cependant Jupien ignorait la personnalité vraie de ses clients, s'imaginait et disait que c'était tel boursier, tel noble, tel artiste, erreurs passagères et charmantes pour ceux qu'on nommait à tort, et finissait par se résigner à ignorer toujours qui était Monsieur Victor. Jupien avait aussi l'habitude, pour plaire au baron, de faire l'inverse de ce qui est de mise dans certaines réunions. « Je vais vous présenter Monsieur Lebrun » (à l'oreille : « Il se fait appeler M. Lebrun mais en réalité c'est le grand-duc de Russie »). Inversement, Jupien sentait que ce n'était pas encore assez de présenter à M. de Charlus un garçon laitier. Il lui murmurait en clignant de l'œil : « Il est garçon laitier, mais, au fond, c'est surtout un des plus dangereux apaches de Belleville » (il fallait voir le ton grivois dont Jupien disait « apache »). Et comme si ces références ne suffisaient pas, il tâchait d'ajouter quelques « citations ». « Il a été condamné plusieurs fois pour vol et cambriolage de villas, il a été à Fresnes pour s'être battu (même air grivois) avec des passants qu'il a à moitié estropiés et il a été au bat' d'Af. Il a tué son sergent. » 
Le baron en voulait même légèrement à Jupien, car il savait que dans cette maison, qu'il avait chargé son factotum d'acheter pour lui et de faire gérer par un sous-ordre, tout le monde, par les maladresses de l'oncle de Mlle d'Oloron, feu Mme de Cambremer, connaissait plus ou moins sa personnalité et son nom (beaucoup seulement croyaient que c'était un surnom et, le prononçant mal, l'avaient déformé, de sorte que la sauvegarde du baron avait été leur propre bêtise et non la discrétion de Jupien). Mais il trouvait plus simple de se laisser rassurer par ses assurances, et tranquillisé de savoir qu'on ne pouvait les entendre, le baron lui dit : « Je ne voulais pas parler devant ce petit, qui est très gentil et fait de son mieux. Mais je ne le trouve pas assez brutal. Sa figure me plaît, mais il m'appelle « crapule » comme si c'était une leçon apprise. – Oh ! non, personne ne lui a rien dit, répondit Jupien sans s'apercevoir de l'invraisemblance de cette assertion. Il a, du reste, été compromis dans le meurtre d'une concierge de la Villette. – Ah ! cela c'est assez intéressant, dit le baron avec un sourire. – Mais j'ai justement là le tueur de bœufs, l'homme des abattoirs qui lui ressemble ; il a passé par hasard. Voulezvous en essayer ? – Ah ! oui, volontiers. » Je vis entrer l'homme des abattoirs, il ressemblait, en effet, un peu à « Maurice », mais, chose plus curieuse, tous deux avaient quelque chose d'un type que personnellement je n'avais jamais dégagé, mais qu'à ce moment je me rendis très bien compte exister dans la figure de Morel, sinon dans la figure de Morel telle que je l'avais toujours vue, du moins dans un certain visage que des yeux aimants voyant Morel autrement que moi auraient pu composer avec ses traits. Dès que je me fus fait intérieurement, avec des traits empruntés à mes souvenirs de
Morel, cette maquette de ce qu'il pouvait représenter à un autre, je me rendis compte que ces deux jeunes gens, dont l'un était un garçon bijoutier et l'autre un employé d'hôtel, étaient de vagues succédanés de Morel. Fallait-il en conclure que M. de Charlus, au moins en une certaine forme de ses amours, était toujours fidèle à un même type et que le désir qui lui avait fait choisir l'un après l'autre ces deux jeunes gens était le même que celui qui lui avait fait arrêter Morel sur le quai de la gare de Doncières ; que tous trois ressemblaient un peu à l'éphèbe dont la forme, intaillée dans le saphir qu'étaient les yeux de M. de Charlus, donnait à son regard ce quelque chose de si particulier qui m'avait effrayé le premier jour à Balbec ? Ou que son amour pour Morel ayant modifié le type qu'il cherchait, pour se consoler de son absence il cherchait des hommes qui lui ressemblassent ? Une supposition que je fis aussi fut que peut-être il n'avait jamais existé entre Morel et lui, malgré les apparences, que des relations d'amitié, et que M. de Charlus faisait venir chez Jupien des jeunes gens qui ressemblassent assez à Morel pour qu'il pût avoir auprès d'eux l'illusion de prendre du plaisir avec lui. Il est vrai qu'en songeant à tout ce que M. de Charlus a fait pour Morel, cette supposition eût semblé peu probable si l'on ne savait que l'amour nous pousse non seulement aux plus grands sacrifices pour l'être que nous aimons, mais parfois jusqu'au sacrifice de notre désir luimême qui, d'ailleurs, est d'autant moins facilement exaucé que l'être que nous aimons sent que nous aimons davantage. Ce qui enlève aussi à une telle supposition l'invraisemblance qu'elle semble avoir au premier abord (bien qu'elle ne corresponde sans doute pas à la réalité) est dans le tempérament nerveux, dans le caractère profondément passionné de M. de Charlus, pareil en cela à celui de SaintLoup, et qui avait pu jouer au début de ses relations avec Morel le même rôle, et plus décent, et négatif, qu'au début des relations de son neveu avec Rachel. Les relations avec une femme qu'on aime (et cela peut s'étendre à l'amour pour un jeune homme) peuvent rester platoniques pour une autre raison que la vertu de la femme ou que la nature peu sensuelle de l'amour qu'elle inspire. Cette raison peut être que l'amoureux, trop impatient par l'excès même de son amour, ne sait pas attendre avec une feinte suffisante d'indifférence le moment où il obtiendra ce qu'il désire. Tout le temps il revient à la charge, il ne cesse d'écrire à celle qu'il aime, il cherche tout le temps à la voir, elle le lui refuse, il est désespéré. Dès lors elle a compris que si elle lui accorde sa compagnie, son amitié, ces biens paraîtront déjà tellement considérables à celui qui a cru en être privé qu'elle peut se dispenser de donner davantage et profiter d'un moment où il ne peut plus supporter de ne pas la voir, où i M. de Charlus : il la devait, et par une réaction très bizarre,