venerdì 8 novembre 2019


Marcel Proust. 
DALLA PARTE DI SWANN. 

(Primo volume de "Alla ricerca del tempo perduto"). 
Copyright 1983 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano. 

Tomo 1. 
Edizione diretta da Luciano De Maria e annotata da Alberto Beretta Anguissola e Daria Galateria. Traduzione di Giovanni Raboni. 
Prefazione di Carlo Bo. 
Copyright 1983 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano. 
Titolo dell'opera originale: "A la recherche du temps perdu". 
Prima edizione I Meridiani giugno 1983. 
Su concessione Arnoldo Mondadori Editore. 
SOMMARIO. 
Prefazione, di Carlo Bo: pagina 3. 
Cronologia, a cura di Alberto Beretta Anguissola e Daria Galateria: pagina 40. 
DALLA PARTE DI SWANN. 
Combray: pagina 85. 
NOTE, a cura di Alberto Beretta Anguissola e Daria Galateria: pagina 389. 


PREFAZIONE, di Carlo Bo. 

E' la prima volta che un tutto Proust (beninteso, quello della "Recherche") viene tradotto da uno scrittore italiano: un'impresa da ricordare per parecchi motivi. 
Intanto va sottolineato il fatto che uno scrittore dedichi diversi anni della sua vita a un lavoro che nel nostro caso esige grande responsabilità e partecipazione, e su questo direi che il Raboni ha dimostrato di avere le qualità necessarie per tentare una speculazione del genere. Subito dopo va notato che la traduzione costituisce un'occasione particolare per il lettore, meglio per la famiglia dei lettori italiani di Proust che è antica e numerosa. 
Il che equivale a fare un bilancio, più che della fortuna italiana, di ciò che potremmo chiamare la nozione Proust, di quello che lo scrittore ha significato nella storia delle idee del nostro Paese. 
Come si vede, le soluzioni proposte sono molte e per conto nostro cercheremo di individuarne alcune, non diremo tutte per non precludere la strada agli altri, soprattutto a chi per la prima volta si dispone ad affrontare l'opera che a distanza di tanti anni dalla sua apparizione non ha certo esaurito la sua carica di luce. 
Probabilmente il lettore ingenuo dovrà superare, come del resto hanno fatto un po' tutti gli altri, un tempo di disorientamento e di sorpresa; chi ha in mente un tipo di romanzo, soprattutto chi si è educato su un'immagine tradizionale di romanzo, non può far altro in un primo momento che registrare questo profondo distacco, diciamo pure questa eresia. Non una trama visibile ma una mappa piuttosto intricata di soggetti che si accavallano e si sovrappongono, mai una situazione capitale da cui far derivare le ragioni particolari, soprattutto una diversa rappresentazione del tempo che resta alla fine la grande chiave di lettura della "Recherche". Proust meglio di altri - forse dello stesso Joyce - ha ribaltato la condizione del romanziere, a suo modo è stato, più che un innovatore, un rivoluzionario ma, aggiungiamo subito, uno di quei rivoluzionari che non nascono per volontà, per un disegno di testa, ma lo diventano nel corso dell'opera. 
Partito per raccontare le esperienze della propria vita, si è trovato a poco a poco a investire altri domini e trasformare la realtà in una filosofia dell'esistenza. 
Non c'è dubbio che la terra da cui si è mosso per il lungo viaggio aveva dei connotati ben precisi; pazienti e scrupolosi indagatori della realtà ne avevano delimitato i confini, aggiungendovi delle intenzioni scientifiche, in modo da avvicinare, se non addirittura confondere, racconto e vita, realtà e interpretazione storica di questa realtà. Proust aveva fatto le sue letture, quelle che segnano sin da principio la giovinezza, secondo le leggi e le abitudini del tempo epperò aveva corso il mare naturalista ed era entrato in contatto con quelle che possiamo chiamare la filosofia e la scienza di quei romanzieri. 
Cose che non ha dimenticato al momento della sua nuova e apparentemente opposta ricognizione, nel senso che ha sostituito strumenti che nel frattempo si erano consumati con nuovi schemi di interpretazione critica. 
C'era così in lui un'ambizione naturale che lo portava a mettersi di fronte alla realtà del suo mondo con la memoria delle altre imprese, di quanto i suoi predecessori avevano cercato di attuare. Quasi si trattasse di un abito. Quando i suoi immediati predecessori - diciamo i romanzieri che si muovevano intorno a France e a Bourget - riconobbero onestamente che Proust era riuscito a fare ciò che loro avrebbero voluto fare e per cui avevano lavorato con grande lena, indirettamente accennavano a questo retroterra comune. Il dato ci serve per capire meglio l'origine complessa dell'opera proustiana e per sfatare la leggenda di qualcosa che nasce improvvisamente, spontaneamente. 
Se così fosse stato, non avremmo modo di leggere il suo lungo e faticoso itinerario, non potremmo parlare dell'idea di scuola che sia pure da spirito libero e indipendente ha disegnato. E qui per capire attraverso quale rete di soluzioni sia arrivato alla "Recherche" bisogna puntare subito, oltre che sulle facoltà prime dello scrittore, sull'importanza dello spirito di imitazione: Proust, così come avrebbe fatto con i suoi personaggi, era portato a fondersi nell'immagine degli scrittori che più lo interessavano. Era apparentemente un modo di cedere, di abbandonare il confronto con gli altri alle prime difficoltà, mentre nella sostanza era una finta, quel tempo che riservava all'abbandono in effetti lo sfruttava ai fini dell'analisi e lo tratteneva per un esercizio critico di grande qualità. 
La parte delle sue insinuazioni e delle sue perplessità costituiva alla fine il presupposto del suo riscatto: quello spirito fragile che giocava alla rinuncia e all'abbandono era piuttosto un'intelligenza vigile che cercava di andare al di là dei vari modelli e si riservava l'ultima parola. 
Tale regola Proust non soltanto l'ha rispettata con i suoi scrittori e poi con i suoi personaggi, ma anche e soprattutto con se stesso. Ne abbiamo l'esempio splendente nella "Recherche", in un'opera che non ha confini perché sono contrari alla sua natura. 
Era quasi un modo di gettare continuamente la rete o, se si vuole, di sviluppare all'infinito ciò che per il romanziere tradizionale costituiva la somma definitiva, il risultato dell'indagine. Proust ha trovato un'altra dimensione psicologica, facendo dei suoi personaggi non delle statue, degli esemplari o - secondo la scuola naturalista - dei tipi, ma dei mondi suscettibili di infinite aggiunte, correzioni e riduzioni. La stessa struttura del suo libro contraddice la linea del grande romanzo ottocentesco che pure lo ha nutrito, rispecchiando questa condizione di perenne trasformazione; e ne abbiamo la conferma nel suo modo di comporre tutt'altro che lineare, anzi sottoposto a unassalto di precisazioni e di apparenti contraddizioni.Da questo punto di vista Proust ha corretto o meglio ha ribaltato il concetto di stabilità della verità, nel senso che là dove fino allo stesso France, che pure era un maestro del dubbio, ci si era fondati sull'unità, ha giocato al tavolo delle dilatazioni indicando la nuova strada delle verità minime e particolari. 
Il lavoro del romanziere tradizionale era per questo molto più facile, bastava legare la risposta alla domanda, la soluzione al problema in modo da soddisfare il desiderio di tranquillità del lettore. Di conseguenza il romanzo proustiano non è mai una rappresentazione e, qualora se ne dovesse operare una vera riduzione teatrale o cinematografica, sarebbe ben difficile trovare il punto di passaggio superando quelli che restano i limiti stessi del teatro. 
Il lettore era stato abituato (e lo è tuttora) per prima cosa a tracciare i confini dello scenario; una volta assolto questo compito, doveva procedere alla definizione del tempo (l'epoca, il quadro storico, insomma l'ambiente secondo il vocabolario naturalista e verista) e arrivare finalmente all'identificazione dei personaggi. 
Da questi tre punti fissi sarebbe partita la trama. Ecco dove il romanzo ripeteva senza dirlo il teatro: i dialoghi erano legati alle varie situazioni e avevano la funzione di ridurre al minimo gli spazi, i vuoti del non detto o del superfluo. Sia pure in maniera e misura diverse Stendhal e Balzac operavano in tal senso, insomma la loro macchina era funzionale. Con Proust tutti questi criteri saltano o per lo meno vengono trasformati, specialmente nei risultati visibili, e questo perché al romanziere interessava arrivare alle sue verità dando per scontati i preliminari e le ragioni ufficiali. 
Da questo punto di vista il suo tempo è maiuscolo, privo com'è di riferimenti visibili, la trama è moltiplicata all'infinito, così come gli ambienti prendono il posto dell'ambiente. E' uno sminuzzamento, una sorta di triturazione della realtà che peraltro resta sempre a mezz'aria, fra il concreto e il sogno, fra la grande luce e un'ombra ancora più grande e profonda. Il romanziere tradizionale disponeva (e dispone) del fatto e quindi della realtà che lo ingloba a suo piacimento, e questo lo poteva fare perché alla fine si trattava di una finzione. Lo scrittore inventava la sua favola, il lettore non doveva far altro che accettarla o rifiutarla, ma una volta stabilito questo patto niente più sarebbe valso a contestarne la veridicità. Il falso non rientrava in questo giuoco della finzione. 
Per Proust le parti cambiano, lo scrittore non si sente più padrone di nulla e là dove gli altri mettevano dei punti ben fermi e insostituibili non chiude mai, anzi fa di tutto per lasciare in sospeso l'accertamento delle sue verità parziali. Ciò lo ha portato a trasferire al personaggio i poteri e le virtù del narratore, lasciando però ben visibile questa lotta fra chi racconta e chi è raccontato, fra il narratore in crisi, in dubbio, e il personaggio che continua a sfuggire o si disvela col tempo, anche lui a piccoli passi e non per opera della sua volontà. 
Gli eredi diretti degli Stendhal, dei Balzac e anche dei Flaubert erano assillati e tormentati dal bisogno di fare vero, il più possibile vero, talché il lettore doveva soltanto prendere atto del risultato e ripetere: sì, è così nella realtà. 
Proust non crede più a queste cose e il suo essere e sentirsi erede dei grandi narratori dell'Ottocento va letto in direzione opposta, per cui il vero non è mai assoluto, fisso, insuperabile ma è labile, sf uggente, non catturabile. 
Il tragico, che pure è uno degli elementi finali ma sostanziali della "Recherche", non è mai deducibile dalle situazioni ma dalla condizione umana e da questa situazione generale di instabilità: così l'amore non dura, l'amicizia è un'illusione, l'arte è soltanto una frazione della nostra memoria interiore, mentre il tempo maiuscolo è un dio spietato e beffardo che cancella le nostre ambizioni e le stesse passioni. 
Se si dovesse riassumere in un'immagine il senso della "Recherche", bisognerebbe ricorrere a quella della catastrofe, sia pure silenziosa, priva di gesti, con un Dio attutito e irriconoscibile che la presiede. Come si vede, tutto dipende dalla dilatazione e dalla frantumazione delle scene, perché Proust non si accontenta di rifiutare questi schemi d'opportunità ma fa in modo che esulino dalle nostre possibilità intellettuali e si diverte a farli a pezzi, dimostrandone il fondo di irrealtà. 
Le realtà proustiane non rientrano nel gran libro della realtà su cui si sono affannati i narratori tradizionali. Mettere a confronto, anzi anteporre queste realtà minime e sorde alla realtà intesa come arbitro della nostra vita, è stata la sua grande scoperta che dipende dalla rivoluzione prima del suo modo di essere narratore, mettendosi cioè dietro i suoi personaggi. Non più davanti, secondo punto della sua teoria critica: è stare dietro, spiare, essere pronto a registrare i più piccoli sommovimenti del cuore, è tutto un lungo catalogo di diversificazioni e di correzioni che gli ha consentito di porre il romanzo in un'altra costellazione letteraria che da allora porta il suo nome. Eppure - ci si obietterà - nessuno è stato mai così scrupoloso nel rispettare le forme, le immagini, i riflessi del passato. Ma bisogna stare attenti. Mentre i naturalisti lavoravano con gli schedari, avendo catalogato tutti gli aspetti della realtà del tempo che intendevano raccontare, Proust ha creduto opportuno confrontare dentro di sé le reminiscenze, i ricordi, ciò che restava a galla nella sua memoria, con quanto avrebbe voluto raccontare: il rapporto era così interiorizzato e il passato avrebbe dovuto nutrire un nuovo passato, il sentito di ieri con il risentito di oggi. 
In ultima analisi la sua era un'operazione globale, una cosa ben diversa da quelle tentate dai suoi predecessori che credevano di arrivare a una legge generale attraverso un esempio unico, carico però di grandi simboli. 
Di conseguenza, il romanziere tradizionale giocava su due tavoli, quello della finzione credibile e quello dei dati accertati, mentre in Proust la realtà accertata, studiata, interpretata restava comunque una finzione, una finzione che aveva dei compiti limitati ai fini di una dimostrazione. 
Questo Proust così letterario, così permeato di intenzioni letterarie, non ha nessuna fiducia nei poteri primi della letteratura; o, per essere più precisi, a un certo punto della sua speculazione si è accorto che sotto un regime di dissoluzione non esistono categorie resistenti oltre l'illusione e che la funzione dell'arte è proprio questa di convincere l'uomo della sua sostanziale miseria e del suo navigare in un mare imperscrutabile. 
Si ha l'impressione che spinga sempre la sua barca verso il mare aperto epperò quando sta per toccare la terra - sia pure una terra immaginaria - ricomincia da capo. Se fosse vissuto, non avrebbe potuto far altro che continuare a scrivere la "Recherche". 
Ecco dove cade inevitabile la grande domanda: che cosa era per Proust scrivere? La risposta è scritta nel libro, anzi dovremmo dire in ciò che ha preparato l'approdo della "Recherche" e nel suo libro maggiore. In partenza è uno scrittore che adotta il sistema dell'imitazione - anche se si trattava di emulazione - e poi si adatta alle forme tradizionali (si pensi al "Jean Santeuil"). Il punto d'arrivo o, se si preferisce, di sbarco è rappresentato provvisoriamente dalla terza tappa, perché fino alla fine Proust continuerà a modificare il disegno originale, lavorando di innesti, di prolungamenti e ritorni. Fino a quel momento il romanzo aveva rispettato l'ordine della linea generale, nel senso che lo scrittore, pur concedendosi soste e divagazioni, obbediva pur sempre a un'idea, 
soprattutto a un quadro di composizione. Proust sovverte questa legge e tenta di crearsene una sua, del tutto nuova, che rispetta piuttosto il criterio dell'ispirazione, se per ispirazione si intende la tentazione dell'inseguimento senza fine e dell'approfondimento. Gli accadeva così di approdare a risultati e conquiste che egli stesso non aveva immaginato. Ma se si guarda meglio, se cerchiamo di coglierlo nell'arco intero del suo lavoro, ci accorgiamo che anche qui rispettava quella che era stata la legge prima della sua vita, diciamo pure l'abnegazione che aveva sempre messo nella ricerca della misteriosa persona umana. 
In un primo tempo si butta nel giuoco, a costo di commettere degli abusi nei confronti della "privacy" altrui: le cronache e i ricordi ci offrono un ricco campionario di questo suo modo di non rispettare le regole mondane; eppure già in questo squilibrio iniziale c'era, inconscia, la certezza che per arrivare, se non al fondo, quanto meno nelle prossimità delle singole verità, era necessario perdersi negli atteggiamenti, perfino nei "tics" dei suoi personaggi potenziali. Il giuoco dell'imitazione è stato il primo gradino per entrare nella casa misteriosa degli animi, dei cuori. 
Proust riteneva che un giudizio dato dal di fuori non sarebbe stato sufficiente, anzi sarebbe stato addirittura controproducente; e questo perché un romanziere, se veramente insegue nella molteplicità dei casi umani l'idea di una linea di tenuta, un senso generale, con il giudizio si preclude qualsiasi progresso. 
Giudicare - se mai sia possibile farlo - è l'ultimo momento della ricerca; ma nell'attimo stesso che uno avverte di tenere in mano qualcosa di certo, viene travolto da una nuova inquietudine e il meccanismo della curiosità si rimette in moto. Che è stata poi una delle altre scoperte e invenzioni di Proust: il libro che ripete esattamente il ritmo e il senso dell'esistenza. 
Invece si è per molto tempo pensato che il suo fosse un lavoro da moralista, da descrittore di una società. 
Probabilmente ha voluto trarre in inganno il suo ipotetico lettore, riallacciandosi alla grande tradizione della sua letteratura: abbiamo già accennato al suo debito con il romanzo dell'Ottocento, un capitolo che poi la critica ha - superando epoche e generi - sviluppato e ingigantito fino a chiamare in causa SaintSimon. 
Si voleva cioè trovare un punto d'intesa con il passato illustre di una civiltà letteraria ben composta, meglio custodita negli archivi della memoria, e da un certo punto di vista tale preoccupazione era giustificata, serviva a rimettere in ordine un'impresa che scardinava proprio quest'ordine. 
Se in un primo tempo gli si è rimproverato di non saper scrivere perché non rispettava l'economia tradizionale fondata su equilibri e compensazioni, è perché non si riusciva a intravvedere né il suo vero proposito né l'autentica novità della sua proposta. 
Inoltre bisognava ricostituire il quadro della sua personalità, riassestare l'opera dello scrittore nella vita dell'uomo. 
Ora, per la prima e più lunga parte, la sua vita è stata per l'appunto la vita di un mondano; di qui si doveva trarre la conseguenza che un mondano non poteva far altro che illustrare gli usi e i costumi di una particolare società. 
Era questa saldatura che veniva a mancare al momento della verifica: sì, gli abiti esteriori era facile ritrovarli, ma che cosa si nascondesse dentro quelle figure, quei personaggi che molti avevano conosciuto e alcuni dei quali erano ancora in vita, questo non era possibile scoprirlo.In tal senso vanno intese le riserve, gli equivoci, le accuse con cui il suo libro è stato accolto. 
Tutti ricordano la gaffe di Gide che in nome della mondanità e degli esercizi letterari del primo Proust aveva rifiutato perfino la sua partecipazione, anticipando la sentenza fondata sull'equivoco. 
Ma l'errore pregiudiziale di Gide ci lascia capire qualcosa di più importante, prima di tutto sposta le parti, e così lo sperimentatore Gide diventa rispetto a Proust un rigido conservatore, un difensore della norma letteraria, e quel Proust che si era mosso all'ombra dei grandi romanzieri alla moda (si pensi al materiale con cui costruisce il suo modello ideale, Bergotte) in effetti è un isolato innovatore, uno che salta dal libro delle leggi, dal codice della letteratura più rigida, all'abnorme e alla rottura degli argini. Gide commetteva un arbitrio perché anticipava il giudizio in base all'impressione e all'opinione comune e da questo punto di vista si escludeva da quel minimo di intelligenza e di pazienza che pure aveva regolato l'approssimazione del mondo di Proust. 
Nessuno potrebbe supporre che Proust già al momento delle sue navigazioni nei salotti, e nella speculazione di quelle miserie mondane, fosse succube dello spettacolo che lo affascinava o lasciava dire che lo affascinasse. E' chiaro che non c'era bisogno di un confronto: no, pur sapendo che lo spettacolo era ciò che era, preferiva ricorrere alla finzione, all'imitazione, non tanto per individuare i meccanismi psicologici di quella povera famiglia umana quanto per vedere se e che cosa resisteva sul fondo di quelle maschere. Proust aveva capito che oltre la recita e il giuoco delle parti ci dovevano essere dei cuori, delle passioni, e anzi da questo tessuto di finzioni, di accomodamenti richiesti dalla rappresentazione generale sarebbe stato possibile estrarre qualcosa di essenziale e irriducibile qualcosa che ogni uomo conserva spesso tradito e sempre nascosto dentro di sé, nel proprio foro interiore. 
Qui vediamo meglio la sua contrapposizione a Zola: per lo storico in veste di narratore dei "Rougon-Macquart" l'approdo finale non doveva essere altro che una conferma. Dati certi presupposti, passati poi nel fiume della vita, si poteva arrivare a delle leggi: 
l'ereditarietà, l'ambiente. 
Proust, senza mai dirlo esplicitamente, si muove per dimostrare la gratuità e la leggerezza di questi teoremi. 


Anche lui spoglia i suoi personaggi, ne cataloga gli abiti e le abitudini, ma nel momento che se li trova nudi davanti fa una scoperta e, cioè, che essi non corrispondono affatto all'immagine che loro stessi e le cose della vita avevano voluto. 
Il disvelamento non lo riporta a un giudizio avanzato prima, in base a dei pregiudizi di classe o morali, al contrario lo porta a vedere quel teatro trasformato, popolato di altri uomini che, pur avendoli conosciuti da vicino, erano rimasti nel mistero. 
Arriva alla dissacrazione per eccesso di amore ma questa dissacrazione non lo appaga, caso mai gli permette di misurare meglio le difficoltà del romanziere, se non l'impossibilità di arrivare a una sponda di verità. 
Il suo mondo nuovo è mosso, agitato come il mare epperò il suo tentativo romanzesco si trasforma nel corso dell'opera in qualcosa che assomiglia piuttosto a una infinita ricognizione poetica, nel senso della poesia come perenne trasformazione della realtà. 
Ci si potrebbe rivolgere ora al tentativo di Joyce, e per certi aspetti le due imprese collimano, ma si tratta di pure impressioni: Joyce, nonostante tutto, ha dei limiti, se li è posti, a cominciare dall'omaggio a Omero, pensando di scrivere l'odissea dell'uomo moderno. Proust non cade in trappole del genere, a mano a mano che procede nell'opera i possibili riferimenti letterari si fanno sempre più pallidi e inconsistenti, e questo non solo perché si accorge che la sua navigazione diventa più lunga ma anche perché non trova più nessun porto raggiungibile segnato sulla sua carta, che peraltro gli appare sempre più confusa e insicura. 
Ecco perché Joyce è stato costretto a fermarsi, a imporsi prima dei vincoli e poi a inventare, a giocare di testa con le sperimentazioni astratte, con quell'immenso crittogramma della sua fantasia. 
Proust non parte dalla letteratura per arrivare a un'altra isola della letteratura, e tanto meno ha inteso raccontare una società che si diverte o è costretta a rappresentare una parte ormai screditata e perduta; no, Proust è partito dalla letteratura sognando di diventare Bergotte, ma verso la fine che non si è conclusa si è trovato a navigare senza bussola in un mare per gran parte ignoto. 
Il codice dell'animo umano che la sua letteratura gli aveva insegnato a un certo punto gli si è rivelato inerte, insufficiente, di qui il suo ripiegamento verso il nuovo continente freudiano: al proposito un grande critico dei suoi ultimi anni, Jacques Rivière, aveva già saputo trovare gli agganci naturali fra queste due ragioni di individuazione. 
Proust ha chiuso in un certo senso con la lezione del cuore secondo la tradizione francese, l'ha chiusa assai più di Gide e di Valéry che pure in quel periodo del primo dopoguerra passavano per essere i veri distruttori di un'accezione letteraria. 
Proust ha chiuso in un certo senso con la lezione del cuore secondo la tradizione francese, l'ha chiusa assai più di Gide e di Valéry che pure in quel periodo del primo dopoguerra passavano per essere i veri distruttori di un'accezione letteraria. 
Gide e Valéry hanno sempre cercato di sapere bene dove si trovavano, erano dei navigatori assicurati; perfino Valéry, il Valéry dei "Cahiers" che scruta la notte che cede il passo alla luce dell'alba dal suo piccolo studio, divideva sapientemente le sue ore, la speculazione pura dal rispetto delle consuetudini, dalla lettura del breviario letterario. 
Allo stesso modo Gide, che pure si batte per la pulizia e il coraggio dei sentimenti e la rivendicazione di certi diritti, non rinuncia a controllare il funzionamento di certe leggi e nonostante le sue molteplici professioni di fede non se la sente di alterare la composizione del mondo in cui vive. 
Gide è stato un correttore del gusto in tutti i sensi, e anche quando combatte le sue battaglie d'ordine morale non perde di vista un tipo di uomo legato a certe tradizioni e a una società di cui in fondo non rifiuta la paternità.Si pensi, per esempio, al suo grande tentativo di romanzo, "Les fauxmonnayeurs", e si avrà esattamente l'idea di questo suo criterio di correzione; soprattutto si pensi al "Journal" del romanzo, dove si vuol mettere in rapporto lo scrittore con la sua opera: il risultato è freddo, l'operazione è stata condotta dall'esterno e lo stesso motivo della complicità sa di artificioso. 
Insomma, per Gide il romanziere non è mai uno che si perde come fa Proust e fonde naturalmente le due immagini. 
Per Gide "e tutti quanti" il romanzo ha da essere un'opera finita, per Proust è non finita, non finibile. Per un'altra conferma di questa sua diversità di fondo, si pensi ai modi diversi nell'usare esempi e letture: Gide e Dostoevskij, Proust e Dostoevskij, il primo ne fa una lettura interessata, il secondo globale e sempre nel sangue della propria opera. Ma per maggiore sicurezza è opportuno citare il dato più im portante, il "Contre Sainte-Beuve". 
Che cosa rimproverava al critico? Di partire dalla vita intesa come qualcosa di consumato per arrivare al giudizio dell'opera, non separando però i due campi. 
Per Proust valeva la regola crociana dell'assoluto dell'opera: non esiste - come a prima vista si potrebbe immaginare - una contraddizione fra l'ostilità a Sainte-Beuve e la puntuale ricognizione che Proust fa dei suoi personaggi. 
Solo un lettore superficiale potrebbe essere indotto a credere che la grande copia di informazioni avesse come corrispettivo un giudizio anticipato, uno "status" che ha come conseguenza una sentenza. 
Nel sistema proustiano occorre scindere queste due accumulazioni e dissoluzioni: lo scrittore accumula notizie che si arrestano al limite del marginale e che poi si rivelano o inutili o contraddittorie; il premio è altrove, quasi sempre è nell'interrogazione. Si dirà che anche Gide è maestro di interrogazioni, ed è vero; ma sono interrogazioni interessate, non tanto per concludere un processo che in lui è eterno quanto per inficiare il quadro dei giudizi offerti dalla legge tradizionale In Proust non ci sono processi nel senso che intendesse acquisire dei precisi punti di riferimento, c'è un processo continuo e che anch'esso non può finire. 
Come si vede, tutti i discorsi ci riportano alla nozione centrale di tempo. 
Anche da questo punto di vista Proust ha introdotto nella teoria e nella prassi del romanzo una diversa idea e un nuovo modo di applicazione del tempo. 
Fino a Flaubert e poi giù giù fino ai Bourget e ai France il tempo del romanzo obbediva a dei confini ben circoscritti; per lo stesso Zola, che pure aveva prefigurato una dilatazione, non è pensabile una dimensione che non sia storica. 
Proust inventa il tempo interiore, che è il contrario o, comunque, qualcosa di non associabile al tempo storico e al tempo sociale: qualcosa che si stende al di sotto delle nostre figure esteriori e trasforma i dati che l'esistenza singola e comune gli trasmette. 
Proust scopre questo sottofondo che è prima filtro e poi una sorta di musica, dove vanno a spegnersi le passioni lasciando apparire nel buio le luci minuscole di qualche segnale. 
Un po' come se i suoi personaggi, uscendo di scena, rimandassero su quel fondo poche cose indispensabili, sentite o soltanto percepite nel corso delle azioni di cui sono stati spettatori o attori, in modo da costituire un patrimonio, un tesoro di cose da manifestare e che il tempo provvederà a individuare e svelare. 
E' così che il tempo ritrovato diventa non solo la chiave di quello che abbiamo creduto di vivere in un certo senso e in realtà ignoravamo, ma anche l'unico e vero tempo concesso alla memoria. E' importante questo nuovo passo avanti nella sua tecnica di dissoluzione positiva: Proust tende a dimostrarci che l'illusione combacia con ciò che chiamiamo realtà e il vero sta soltanto nell'interpretazione postuma, che viene fatta a cose compiute e non per nostro merito. 
I suoi personaggi in un primo tempo sono degli automi, degli attori che credono di inventare un testo o correggerlo, e molto più tardi si accorgono che erano comandati, erano delle vittime, il mondo li aveva plagiati. 
L'ambiente, la società, tutti i sistemi di convivenza che ci diamo, per Proust non hanno valore, contribuiscono soltanto ad accrescere il buio e la confusione in cui ci muoviamo: di qui l'inutilità di prenderli di petto, di farne oggetto di contestazione (come facevano Gide e lo stesso Valéry), e di conseguenza la necessità di aspettare che il tempo intervenga con i suoi poteri di spiegazione e di disvelamento. 
Secondo Proust, la fragilità dei nostri sentimenti è strettamente legata alla nostra impossibilità di demistificarli, di misurarli, di valutarli. 
I sentimenti, le passioni tutt'al più sono un avvertimento, un segnale, una diffida contro le imposizioni e le mistificazioni del mondo, un moto d'insofferenza ma che resta tale, dato che noi per primi cadiamo nell'inganno e diventiamo vittime dei nostri stessi movimenti. 
Soltanto il tempo ha questa forza miracolosa di dipanare la matassa; curioso che il dipanamento avvenga contemporaneamente al processo di ritorno, nel senso che Proust non crede a nessuno strumento di divinazione e la verità ha gli occhi dietro la nuca, la verità guarda indietro, mai avanti. 
Questo ci spiega la sua diffidenza verso ogni regola religiosa: infatti ci si unisce nel futuro, nella speranza, mentre per Proust conta solo ciò che è avvenuto e non siamo stati in grado di comprendere. 
A mano a mano che ritorna alla superficie della realtà già consumata e bruciata, piccolo pugno di cenere, Proust nota dove sono avvenuti gli errori e la loro consistenza, ma anche qui senza nessun intendimento pedagogico. 
Per Proust il giuoco del fato, del destino, è assoluto e vincitore; ciò che lo interessa è mostrare la fragilità delle nostre reazioni, l'abisso che separa il sogno dal risultato, l'inganno e l'illusione dell'immaginazione. 
Zola, profeta della realtà, alla fine era passato al sogno e all'esaltazione delle cose immaginate; Proust, che non crede al verbo della realtà, ottiene come risultato di mostrarci la realtà com'era. 
Che è cosa ben diversa dalla surrealtà che i grandi eretici del Novecento avrebbero inseguito e esaltato, semmai nel caso di Proust sembra più giusto parlare di una sub-realtà, di una realtà sommersa che solo a tratti riemerge dalla coscienza della memoria. 
In tal senso egli scrive la storia non più come credono di vederla e quindi la interpretano gli uomini, ma come una realtà più completa, più libera, che nasce dal perenne confronto fra ciò che crediamo di decidere e ciò che viene deciso altrove. 
Se pensiamo ad altre imprese più o meno contemporanee o tentate dopo l'apparizione di Proust, vediamo subito come l'autore della "Recherche" fosse in grande anticipo sui Roger Martin du Gard, sui Jules Romains e naturalmente sugli Aragon: tutt'e tre ripetitori dello schema naturalista, nel senso che ai presupposti zoliani si erano limitati a sostituire degli aggiornamenti. 
Per capire meglio il rapporto differenziale ci possiamo servire ancora una volta dei modi di preparazione adottati dai rappresentanti delle due famiglie. 
E' sì vero che in Proust c'è stata questa preoccupazione del documento, ma si trattava di verifiche: quando chiede a certe amiche di tirar fuori dai loro guardaroba gli abiti che portavano al tempo della storia, non fa altro che verificare le sue impressioni, mentre si guarda bene dallo sfiorare i margini della sua memoria che per conto suo sono già definitivamente sistemati. E' un procedimento di natura poetica nell'ambito dei ricordi. 
Quando invece Roger Martin du Gard va in biblioteca e prende a sfogliare le annate dei giornali della prima guerra mondiale per metterla in romanzo, inserisce altre notizie, non si cura di vedere quale fosse la piattaforma della sua memoria, che del resto risulta o inerte o spiazzata. 
Il primo non commette nessuna infrazione al suo codice interiore, il secondo si rimette alla storia scritta per ottenere un quadro credibile. 
A Proust non interessa affatto la credibilità e bene lo dovevano aver compreso i suoi diretti interlocutori: il Proust delle lettere è un personaggio insospettato per i suoi amici, è già uno che ha travolto nel suo racconto i riflessi, le allusioni e soprattutto le trasformazioni operate dalla sua nozione di realtà. 
Diciamo allora che ha convogliato tutto il patrimonio della sua vita in un altro ordine, senza attendere che le figure di partenza potessero intervenire a correggere la sua lettura. 
Una operazione che il Proust anteriore alla "Recherche" aveva già iniziato per conto suo: le giornate di lettura sono una prefigurazione di quello che sarebbe stato il suo modo di raccontare l'atmosfera, il clima che si creavano dentro di lui, separatamente dal corso apparente delle cose e degli avvenimenti, lo hanno abituato a un genere nuovo di speculazione, a qualcosa che non era fino a quel momento oggetto d'attenzione per i narratori normali. 
Lo ripetiamo, Proust arriva alla sua letteratura dall'altra lettura, dopo aver avvertito dentro di sé qualcosa che fino allora era stato saltato e che lui sentiva mancare perfino nei risultati più sicuri. 
Ma bisogna fare attenzione: quando si dice che il suo è stato un lavoro poetico, non dobbiamo credere che abbia ceduto alla tentazione di crearsi un mondo suo, di ritagliarsi una sede tutta personale e privilegiata. 
E' il contrario: Proust non rifiuta a priori il mondo come ci appare e come generalmente lo viviamo, in lui non c'è alcuna soggezione per le evasioni di "A rebours", non c'è condanna, soprattutto una condanna dipendente dall'esame e dalla valutazione del mondo esteriore; c'è caso mai un trasferimento da una zona all'altra, e allora i riferimenti alla realtà non hanno più peso e non consentono giudizi né separazioni. 
Si perdono i nomi, le azioni, tutto quanto perdiamo nella routine e nella ripetizione dei giorni, per salvare le essenze, non già per istruire un processo così come, più o meno, avevano fatto tutti i suoi predecessori. 
Qui sta la sua grande ambizione scientifica, intravvedere nel tempo che ci è stato destinato una lezione di carattere generale che fosse valida per l'uomo, una sorta di antropologia non legata a delle leggi ma affidata esclusivamente a dei secondi numeri nascosti epperò assai più attendibili. 
Sono cose che il lettore avverte per conto suo, nel senso che gliene deriva una sorpresa, la prima e la più inquietante che lo scrittore era mosso da una diversa preoccupazione, accrescere il capitale della memoria umana. 
Quindi non è possibile parlare, per Proust, di una nuova commedia umana e neppure di una rappresentazione dove volta per volta prendono la parola degli attori e delle comparse. Non lo tocca il desiderio di fare concorrenza allo stato civile né quello di fornirci un'altra Bibbia, una chiave miracolosa per leggere la società francese fra la fine dell'Ottocento e gli inizi del secolo. 
Dal momento che ha deciso di allargare e approfondire un tempo, un'epoca, non obbedisce al criterio di fare vero: il suo intento è di arrivare, attraverso la restituzione delle sue impressioni e, più, delle sue intuizioni, all'arricchimento e per quanto possibile all'approfondimento di certe nozioni trascurate o, nel migliore dei casi, soltanto percepite casualmente. 
E' chiaro che con questo disegno la sua partecipazione avrebbe dovuto essere attiva, quindi non escludersi ma farsi personaggio fra gli altri personaggi.Questo significa la formula del personaggio che dice io: apparentemente un declassamento della parte e della funzione del narratore, in effetti un ulteriore potenziamento di confronto. 
Certo con Proust si perde la figura del romanziere che comanda, che interviene per correggere o spostare o addirittura per imporre una sua personale visione della realtà: anche qui tutto viene rimesso nelle mani di quel tempo che nel suo libro tiene il posto di Dio, escludendolo. 
La tentazione mallarmeiana di sostituirsi a Dio non ha mai sfiorato Proust, e questo va tenuto presente quando si parla della religione o dell'assenza di una fede nella concezione proustiana. 
Ciò che noi diciamo indifferenza (che è uno stato più grave dell'assenza) in realtà è una misura di rispetto, è un tratto di pulizia morale, non avendo egli ceduto all'idea di poter offrire una lettura di quanto per lui era di per sé imperscrutabile, almeno con i nostri strumenti. 
Non ci sono drammi del genere, quei drammi che avevano costituito per i suoi immediati predecessori (basterà fare il nome di Bourget) straordinarie occasioni di indagini appassionate e di divagazioni più o meno appropriate. 
Eppure gli sarà accaduto di incontrare sulla sua strada persone inquiete e tormentate, ma il fatto che abbia preferito rimettere tutto, anche questo, nella grande corrente del fiume della vita ci dimostra ancora una volta la sua prudenza e la conoscenza dei suoi limiti. Proust si misura con i fatti che ritiene di poter leggere con i suoi strumenti, e non dimentica che il suo romanzo non sarebbe stato né avrebbe potuto diventare un trattato. Racconta soltanto ciò che ha visto con la sua lente d'ingrandimento, racconta i meccanismi delle passioni, anzi mette a disposizione del lettore tutto ciò che ha saputo individuare e illuminare; ma subito dopo si ritira, insomma non stravolge la sua realtà integrata dalla memoria. 
E neppure adopera mezzi indiretti: non gli sarebbe stato difficile sforzare, insistere interessatamente su questi aspetti, anche perché aveva davanti esempi del genere, ma sono cose che avrebbero snaturato la sua coscienza scientifica. Trasformare il mondo di quella realtà in commedia gli ripugnava come farne una tragedia: alla fine sarebbero stati due criteri uguali di infestazione intellettuale e di adulterazione psicologica. Così, quando ci capita di notare il suono sordo e inerte di questo mondo proustiano, è meglio pensare che egli si sia mantenuto fedele al solo che era riuscito ad accertare. 
Comunque, anche da questo punto di vista il suo insegnamento rientra nell'ordine della pulizia. 
Ha sfrondato quanto non gli sembrava pertinente, modificando una tendenza, una tradizione abusiva, e ha ottenuto che dopo di lui si procedesse con maggiore cautela. 
L'affermazione di Mauriac sulla separazione netta che esiste fra Dio e il romanziere (ripresa dall'intelligenza-piovra di Charles du Bos) non ci sarebbe stata senza la lezione di Proust, e neppure avremmo avuto l'indagine - sia pure più complessa ma ugualmente discreta - di un Julien Green. 
Facendo questo, Proust non piegava ai suoi possibili interessi motivi suscettibili di amplificazioni e distorsioni, ma non per ciò rendeva astratta e asettica la sua lettura. 
Quando si guarda alla sua eredità, alla trasformazione che è avvenuta dopo di lui nel romanzo, ci si imbatte, a grande distanza dalla "Recherche", nella scuola dell'antiromanzo, nell'"école du regard", e per un momento accade di pensare che questi scrittori abbiano applicato alla lettera l'insegnamento di Proust, nel senso di aver fatto del mondo reale un pianeta disumano, un pianeta costituito soltanto da oggetti. 
Si tratta di un inganno che non richiede molto per essere smentito. La realtà dei nuovi romanzieri degli anni Sessanta era una realtà inerte, casuale, negata all'idea stessa dei sentimenti, rifiutata a qualsiasi intervento psicologico: il contrario del mondo proustiano, che è legato in profondità a una rete estremamente viva e attiva di ragioni psicologiche. 
Caso mai, il riferimento ci consente di vedere meglio in che senso e in quali proporzioni la lezione di Proust si è svolta. 
Quando si dice che con Proust è cambiata la nozione di romanzo, si pensa quasi sempre al passato, a quanto era stato fatto prima di lui dimenticando che a distanza di sessant'anni si può affrontare anche il dopo Proust. 
E forse sarebbe meglio aggiungere subito che Proust è stato un accidente non ancora risolto nel quadro della letteratura, e così ci spieghiamo come mai dopo di lui anche gli scrittori più refrattari alla sua scoperta abbiano dimostrato indirettamente di tenere presente quel fatto: a volte lo ignoravano intenzionalmente ma non riuscivano a nascondere il loro disagio. 
In effetti, se noi consideriamo la "Recherche" come un punto di arrivo, tutto - o quasi - quanto è stato fatto dopo suona marginale, una serie di tentativi per superare l'"impasse". 
Interpretazione avallata dal fatto che Proust non ha lasciato eredi diretti, o che non sia nata una scuola proustiana; ma se ci attenessimo a questo limite, dimenticheremmo di valutare il peso della sua eredità. 
Diciamo allora che la sua importanza è meglio visibile, è più chiara quando si prendono in esame la situazione e la condizione del romanziere che è venuto dopo la "Recherche": 
Proust non ha mai perso questo peso specifico indiretto, soprattutto ha reso molto difficile la parte delle illusioni, ha messo il romanziere di fronte a una mappa molto più complicata dal momento che aveva dimostrato l'impossibilità di adeguarsi alla lettera della realtà. Dopo di lui il mondo non poteva più o non sapeva più parlare per sole luci, il peso dell'ignoto determinava uno scarto, uno sbilanciamento negli strumenti tradizionali, e impediva la baldanzosità di certi atteggiamenti di conquista e di dominio. 
E ancora: per fare questo aveva esaurito - Proust - l'idea di unica composizione, il mondo non appariva più un tutto, un solo esempio di decifrazione. 
Tant'è vero che i maggiori venuti dopo di lui hanno registrato questo spirito di incapacità e di inutilità: Céline ha dovuto - per tentare il romanzo - fare a pezzi un mondo che fino a Proust aveva rispettato certe leggi e aveva tenuto. 
La catastrofe cantata da Proust nel nome del Tempo è stata adattata ad altri fini, e intanto si è dovuto cambiare il registro della dissoluzione. 
Proust studia questa dissoluzione, questa dispersione delle figure e dei loro abiti dal di dentro, si affida al tempo per separare il salvabile dal perduto, soprattutto per proteggere la nozione di sentimento. Con Céline è il mondo che va alla deriva e non c'è più nulla - nessun intervento divino o umano - che ci aiuti a capire la nuova legge del disordine, del caos. 
Di qui il ricorso all'irrisione, alla degradazione morale, alla grande bestemmia: se per gli eroi proustiani - anche i più dannati - non si arrivava a mettere in discussione un certo ordine apparente, sia pure immaginario, per gli uomini di Céline non ci sarebbe più stato nessun argine né intellettuale né spirituale né - tanto meno - morale. 
Con Céline si consuma la navigazione guidata da Zola e un po' da tutti gli altri; il narratore non cerca mai di capire che cosa accade, che cosa gli butta in capo il destino, anzi forse neppure la nozione di destino esiste. 
Céline oggi appare in una posizione più forte rispetto a Proust, e non alludo alla possibile contrapposizione delle due fortune: la biblioteca critica dell'uno equivale a quella dell'altro. 
Alludo a un fenomeno più vasto, meglio all'atteggiamento che un secolo per troppi momenti tragici ha autorizzato, per cui la storia di Proust risulta poetica, quella di Céline tragica, più pertinente alla realtà quotidiana. 
Ma è proprio su questa realtà quotidiana che dobbiamo tornare in forze a Proust perché, se Céline è un fotografo scomposto di un mondo in decomposizione, Proust obbedisce a un'ambizione più alta e salta l'approdo all'uomo storico. 
Trockij predilige Céline e non ha alcun interesse per Proust. 
Giudizi - come si vede - sempre improntati al criterio immediato della storia intesa come lotta di interessi, quindi una storia che elimina dalla sua specola il senso generale dell'evoluzione psicologica. 
E' la contrapposizione fra lettura di fatti e lettura di sentimenti, fra uomo che abdica di fronte alla realtà, o almeno la condanna a parole, e uomo che intende comprendere, spiegare, al fine di trovare un senso alla vita. 
Non c'è stato dopo Proust un altro romanziere che abbia creduto in questa funzione del romanziere, e cioè del disvelatore e dell'interprete dei sentimenti. 
Lo stesso Kafka, che pure conduce un'impresa analoga alla sua, trasforma l'indagine in una serie di immagini e prefigura un tempo storico fondato sui fatti del mistero ma ci lascia con un forte sentimento di tragedia insuperabile. Proust non rinuncia, non ha paura: chiuso nella sua stanza, è deciso ad andare a fondo, a intravvedere dei segni e, più, a dare un senso all'esistenza. 
C'è - lo ripetiamo - un'umiltà che chi è venuto dopo non avrà più. 
Anche quando scortica impietosamente i suoi personaggi, anche quando li riduce a fantocci, si sente che non intacca mai la sostanza umana, una materia che sussiste dentro di noi, nonostante le rovine e le dissacrazioni che abbiamo provocato. 
Céline, e dietro di lui una grande famiglia di echeggiatori, bestemmia, infama, degrada l'uomo: tutte cose che Proust non fa, almeno questa religione l'ha rispettata e - se ci è consentito aggiungerlo - nutrita, non privandola di un ultimo barlume di speranza. 
Insomma, il suo discorso tiene, non si perde in vaneggiamenti, in invettive. in anticipazioni del futuro: non fa il profeta, su questo punto ha una solidità di storico, non volendo occupare spazi e territori che non erano suoi, e infine non muta mai il suo canto fermo in oltraggio. 
Per quanto lavori sui suoi personaggi, il lettore non avverte mai un sospetto di dissacrazione riassumendo tutto - anche gli atteggiamenti più suscettibili di condanna - in una attenzione più alta. Naturalmente non c'è pietà, essendo la sua partecipazione di natura scientifica e il suo scopo capire e trovare i meccanismi che mettiamo in moto per eludere o ritardare la scadenza con la morte. 
La sua filosofia ha ancora una struttura solida, non è rinunciataria e così Proust non la adatta mai al contingente epperò accusarlo di insensibilità per quelli che sono stati i grandi temi sociali del nostro tempo significa tradire le sue intenzioni. 
Gli uomini vengono scrutati per ciò che sono sul fondo e non per le origini, le idee politiche, la fortuna, la ricchezza: sono abiti che al suo fine non hanno importanza, rientrano nel libro delle azioni che per lui hanno un'incidenza meccanica, utile all'ultima ricognizione. 
Ma facciamoci un'ultima domanda con virtù generali: perché non è stato possibile ripetere Proust e quando qualcuno ci si è provato ha fallito? Si ritorna sempre al punto di partenza, l'impresa proustiana ha spostato l'investigazione romanzesca e ne ha fatto un continente particolare. 
Che sono poi le cose che hanno scompensato e messo in crisi la critica, anche se sin dai primi anni non gli sono mancate attenzioni e partecipazioni. 
Intanto Proust con l'evitare il riferimento obbligato con il protagonista ha fatto della sua storia qualcosa che andava molto al di là delle regole e delle norme di questa particolare retorica. 
Se noi pensiamo ai grandi protagonisti europei che hanno lavorato nel suo tempo (basterà citare Mann), ci accorgiamo che non c'è possibilità di rapporto fra le due concezioni, soprattutto fra le due interpretazioni del tempo. 
Là dove Proust rimette costantemente in moto passato e presente, gli altri narratori procedono in maniera lineare e non hanno ambizioni che esulino dai confini ben precisi di un quadro. 
Indirettamente nell'ambito della stessa letteratura francese ci viene una conferma se guardiamo al lavoro della generazione fra le due guerre: di solito si procede per accenni, per riflessi, per echi. 
Giraudoux, Morand, lo stesso Mauriac non se la sentono più di affrontare un mondo intero, in senso superiore sono dei dilettanti, mentre Proust rappresenta una nuova immagine di scrittore intero. Eppure erano ammiratori di Proust, lo avevano amato e letto e ne avevano compreso la forza. 
Lo stesso discorso vale per le altre letterature europee, a cominciare dalla nostra. 
Se lasciamo da parte Svevo, che peraltro è un caso anomalo, i romanzieri e i narratori fra il '20 e il '40 non si sono mai posti il problema della rivoluzione proustiana (con delle eccezioni, naturalmente: Debenedetti, Emanuelli, Ferrata, specialmente Bonsanti, Piovene, tutti però volti piuttosto a impiegare strumenti che appartenevano a una mappa più complessa di interessi). 
C'era vale notarlo - alla base di questa impossibilità di allacciamento la natura prima della nostra società: non dimentichiamo da dove si è mosso Proust e come fosse ricco il contesto in cui si è formato. 
Secondo punto la fragilità della nostra tradizione non ha certo consentito un tipo di operazione come quello suggerito da Proust. 
Proprio negli anni fra il '20 e il '30 in Italia si discuteva sull'opportunità o meno di tornare al romanzo, evitando le insidie del genere allora prediletto, che era quello della prosa d'arte. 
Ultima notazione, nel '29 Moravia pubblica "Gli indifferenti", che è pur sempre un'opera di segno diverso. 
Tutto ciò e altro che si potrebbe aggiungere (per esempio, il peso assoluto della poesia in quel periodo) ha fatto sì che i giovani scrittori italiani vedessero in Proust, più che un modello suscettibile di sviluppi, una cosa a sé stante, irripetibile e frutto di un altro clima letterario. 
Ma se guardiamo ai corsi letterari degli altri paesi, vediamo che di solito ci si tiene sempre alla lezione naturalista: abbiamo citato Mann, ora possiamo ricordare per la Spagna Ramón Pérez de Ayala e, ancora spostandoci su un altro continente, gli americani. 
In un tempo di soggezione a quella letteratura (da parte della stessa Francia) il mondo raccontato da Proust o rientrava nella categoria dell'assolto e del compiuto o contrastava con la generale nozione del reale. 
Come si vede i termini del problema permangono gli stessi: fare del romanzo una fotografia della realtà o saltare la realtà per l'assoluto della poesia. 
Alla fine degli anni Trenta appare sulla scena Sartre che, partendo anche lui dalla ragione naturalista, tenta però una deviazione filosofica e soltanto verso la fine della sua carriera, con "Les mots", presenterà un'altra immagine di autobiografia. 
In un arco così ampio di tempo è più facile vedere come la suggestione proustiana sia stata radicalmente corretta e spostata verso le rive del saggio. 
Sartre metteva in quello che pure doveva essere un libro di rievocazione un sistema d'interpretazione molto lontano dall'ipotesi globale e indiretta di Proust, e d'altra parte proprio nell'opera di Sartre il fenomeno della dilatazione, della rottura con il passato istituzionale, appariva in tutta la sua forza. 
Che è poi una diretta conseguenza del ribaltamento iniziale di Proust: non più generi, non più confini rispettati, ma l'ambizione di coinvolgere tutto in un'unica aspirazione. Ne consegue che nel nome di Proust si è combattuta una lunga guerra, anche quando non lo si nominava o si faceva finta di non vedere come stessero le cose. 
Era entrato nella coscienza stessa del secolo e restava sul fondo delle intenzioni e dei progetti. 
Ma quanto non era stato possibile nell'ambito del raccontare, diventava un obbligo della critica. 
La biblioteca che gli è stata dedicata, e che ogni anno continua ad arricchirsi di molte voci, è sterminata, quasi si volesse aggredire per particolari ciò che conserva intatto il suo vigore e la sua luce. 
Si direbbe che con questo sistema di approssimazioni per particolari, spesso apparentemente marginali, la letteratura intenda rimuovere un'opera che non ha perso nulla della sua intensità e dell'originale ricchezza delle sue proposte. 
Ecco perché il continente Proust, mantenendo questo dato costante della sua integrità, non solo continuerà a suscitare la curiosità degli indagatori critici ma costituirà una tentazione. Beninteso, perché ciò avvenga occorre che si torni a una composizione dell'intero quadro letterario, e con questo non si intende soltanto un ritorno ma piuttosto una forma di rammemorazione e di rinnovata fiducia nell'opera del romanziere. 
Il secolo - specialmente nella sua seconda metà - non sembra per ora disposto a una simile presa di coscienza nella generale confusione e nel clima di sospetto che un po' tutti nutrono nei confronti della letteratura stessa. 
Si è detto che per un certo aspetto proprio Proust ha iniziato questo tempo di sospensione. 
Quando si pensa e alla vastità dell'opera e alla carica di rivoluzione che essa rappresenta, si è portati a far partire dall'impresa proustiana questa sorta di paralisi. 
Noi stessi l'abbiamo detto, ma occorre aggiungere una distinzione: il vuoto che Proust ha lasciato dietro di sé, e nei suoi immediati dintorni, offre col suo peso specifico di rinnovamento un altro dato, quello dell'opportunità di una continuazione sia pure sotto altri climi. 
Sono passati da allora moltissimi anni e nessuno oserebbe sostenere che tale suggestione non sia più valida: il curioso di questa situazione è che ben pochi abbiano raccolto l'invito. 
E' stato per insufficienza di mezzi o piuttosto ci si è lasciati accecare di fronte a un esempio che per tranquillizzare le coscienze è stato dato per improponibile? Chi legga o rilegga Proust potrà in un primo tempo convenire sulle ragioni di questa lunga sospensione di attività del romanzo; ma appena metta in moto i meccanismi segreti della memoria e tenti di riassumere dentro di sé l'indicazione proustiana, dovrà convenire che là è stato aperto un nuovo mondo della psicologia, che sarebbe errato ritenere esaurito o peggio ancora datato. Qui sta, dunque, la grandezza della "Recherche", nel senso che Proust ha chiuso e rifiutato la parte morta della letteratura e le ha fornito una nuova mappa e nuovi strumenti di penetrazione e di ricognizione. 
Ha ucciso un tipo di romanzo che, del resto, stava boccheggiando da tempo e ha prospettato un altro romanzo che potesse contenere lo studio del cuore umano nella sua integrità e nel rispetto della libertà. 
Il che equivale a mettere sullo stesso piano e con uguali diritti la facoltà d'invenzione e la qualità critica: un premio per la sopravvivenza di un genere troppo spesso sottoposto ai richiami del tempo immediato e alle insidie del consumo. 
Nel chiudere uno scaffale, Proust si è preoccupato di aprirne un altro, lasciandoci uno dei documenti più concreti e importanti della nostra storia nascosta, temuta e il più delle volte rimossa e cancellata. 
La memoria non è stata soltanto il suo punto di partenza, lo strumento magico; per noi, per chi verrà dopo è anche, è soprattutto uno stimolo e il modo di ricordarci che non c'è letteratura là dove si cerca di diminuire o alterare le ragioni dell'intelligenza. 
Carlo Bo. 
CRONOLOGIA, a cura di Alberto Beretta Anguissola e Daria Galateria. 
1870. 
3 settembre: un medico affermato, Adrien Proust (1831-1903), sposa Jeanne Weil (1849-1905). 
Adrien è figlio di Louis-Franois Proust (1801-55), uno speziale di Illiers, cittadina non lontana da Chartres, e di Virginie Torcheux (1808-89). 
A differenza del marito Adrien che trae origine dalla piccola borghesia provinciale, Jeanne discende da due ricche famiglie di ebrei da tempo insediatisi nella società parigina. Suo padre, Nathé Weil (1814-90), è un facoltoso agente di cambio; la madre, Adèle Berncastel (1821-90), annovera tra i suoi parenti uno zio illustre, Adolphe Crémieux (1796- 1880), ed è stata educata in uno stimolante ambiente intellettuale. 
Sarà lei a ispirare il personaggio della nonna in "A la recherche du temps perdu". 
Proprio nei giorni in cui si celebra il matrimonio tra i genitori di Marcel Proust, la Francia subisce a Sedan una dura sconfitta da parte dei Prussiani. Crolla il Secondo Impero; il 4 settembre viene proclamata la Terza Repubblica, ma l'avanzata prussiana prosegue. A partire dal 19 settembre Parigi è circondata e assediata. 
1871. 
18 gennaio: capitolazione di Parigi. Per la Francia è la disfatta. 
Scoppia un'insurrezione popolare (la Comune), stroncata dopo aspre battaglie dal governo di Versailles. 
Mentre si susseguono questi drammatici avvenimenti, la giovane Madame Proust attende un figlio. 
I disagi materiali e i pericoli della guerra civile (una mattina Adrien fu quasi colpito da una fucilata mentre si recava al lavoro in ospedale) inducono Jeanne a trasferirsi a Auteuil, che era allora un piccolo sobborgo alla periferia di Parigi, al margine del Bois de Boulogne. 
Il 10 luglio, a Auteuil, nella casa del prozio materno Louis Weil al numero 96 di rue La Fontaine, nasce Marcel Proust. 
La sua salute malferma comincia presto a mettere in apprensione la madre, che vi scorge un effetto delle ansie e delle ristrettezze patite in quei mesi terribili. 
1873. 
24 maggio: Adolphe Thiers, che ha guidato il paese nel difficile periodo della disfatta militare, della guerra civile e della trasformazione istituzionale, si dimette. 
Il maresciallo Mac-Mahon diventa il secondo presidente della Terza Repubblica. 
Lo stesso giorno nasce il secondo figlio di Adrien Proust, Robert (1873-1935) che seguirà le orme del padre esercitando anch'egli con successo la professione di medico.Primo agosto: i Proust si stabiliscono al numero 9 di boulevard Malesherbes, in un quartiere borghese sorto dagli sventramenti del barone Haussmann. 
Degni esponenti dell'alta borghesia parigina, godranno sempre di un notevole benessere; al dottor Adrien, che si specializza negli studi di igiene, verranno tributati i maggiori riconoscimenti nazionali e internazionali per la sua intelligente attività di prevenzione e circoscrizione delle epidemie. 
Questo lavoro lo porterà a compiere numerosi viaggi all'estero per individuare il percorso seguito dal colera e dalle altre malattie infettive dall'Asia al Medio Oriente e all'Europa. 
I Proust erano soliti trascorrere periodi di vacanza e di riposo sia a Auteuil, sia nella cittadina paterna, Illiers. 
La casa dei Weil a Auteuil, più tardi demolita per far posto all'attuale avenue Mozart, era circondata da un ampio giardino con folti alberi. 
All'interno si stipavano i mobili burberi, pesanti, tozzi, carichi di balze di seta, cupi, ai quali Marcel resterà sempre affezionato. 
A Illiers la famiglia Proust era ospitata nella casa della zia Elisabeth (1823-86), moglie di un agiato commerciante di stoffe, Jules Amiot (1816-1912). 
Pochi anni dopo la zia avrebbe rifiutato di lasciare la sua stanza e come la zia Léonie del romanzo - sarebbe infine morta di un male cui nessuno aveva creduto. 
Oltre che dalla casa e dal giardino il piccolo Marcel è colpito dal fascino severo della chiesa e del campanile di Saint-Jacques, le cui parti più antiche risalgono all'undicesimo secolo. 
1877. 
Il 16 maggio il presidente Mac-Mahon, andando oltre i poteri assegnatigli dalla Costituzione, costringe alle dimissioni il primo ministro Jules Simon, e un mese più tardi scioglie la Camera. 
Inizia un periodo di contrasti tra il potere legislativo e quello esecutivo, che si conclude con le dimissioni di Mac-Mahon (30 gennaio 1879). Gli succede Jules Grévy (1879-87). 
1881. 
Tornando alla casa di Auteuil dopo una passeggiata nel Bois de Boulogne, Marcel ha un forte attacco di asma, malattia da cui non guarirà mai e che finirà col trasformare tutta la sua vita in una specie di perenne convalescenza interrotta da ripetute crisi. 
1882.Marcel s'iscrive al liceo Condorcet, vicino alla sua abitazione. 
Il clima della scuola, immune dal rigore dei maggiori licei parigini, era ricco di fermenti culturali. 
Nonostante le numerose assenze per motivi di salute, il ragazzo meriterà frequenti menzioni d'onore. 1885. 
Il dottor Proust, prodigatosi durante l'epidemia di colera a Tolone e autore di un importante scritto sull'argomento, ottiene la cattedra di Igiene alla Facoltà di Medicina. 1886.In marzo Marcel scrive un racconto sull'ultimo viaggio di Cristoforo Colombo. All'inizio di giugno muore la zia Elisabeth. 1887. 
Durante l'estate Proust conosce Marie de Benardaky, che definirà uno dei due grandi amori della mia vita. 
La incontra nei giardini dei Champs-Elysées, dove si reca a giocare dopo le lezioni. 
Marie, figlia di un nobile polacco, non ricambia l'intenso sentimento di Marcel, che se ne allontana anche dietro pressione dei genitori, preoccupati per le conseguenze emotive della sua precoce passione. 
In ottobre il critico letterario della Revue Bleue, Maxime Gaucher, che è professore di retorica al Condorcet, mostra di apprezzare i componimenti di Marcel, i cui autori preferiti sono la Sand, Thierry e Musset. 
Intanto, tra il 1880 e il 1890 la famiglia Proust trascorre le vacanze sulla costa normanna, in località come Dieppe, Cabourg e Trouville, che saranno alla base dell'immaginaria Balbec della "Recherche". 
2 dicembre: al presidente Grévy, costretto a dimettersi in seguito a uno scandalo in cui risulta coinvolto il genero, subentra MarieFranois Sadi-Carnot (1887-94). 
1888. 
Le prime amicizie con i compagni di scuola tendono ad acquistare un'estrema intensità, che mette a disagio Daniel Halévy e Jacques Bizet, figlio orfano del compositore. 
Marcel trascorre le vacanze a Auteuil. 
Scrive all'amico Robert Dreyfus di aver avuto un "flirt" con una ragazza viennese e di nutrire una passione platonica per una celebre cortigiana, Leonie Clomesnil, che ammira nelle sue apparizioni in carrozza al Bois de Boulogne: è forse il primo modello di Odette Swann. 
Alla ripresa scolastica autunnale, i corsi di filosofia sono condotti dal professor Alphonse Darlu, che esercita un profondo influsso sul suo allievo. 
Da lui Proust impara a disprezzare il materialismo e il positivismo e a rivalutare uno spiritualismo idealista temperato di razionalismo. 
Nascono alcune riviste scolastiche, tra cui la Revue Verte e la Revue Lilas, vergate su carta del colore corrispondente. 
Marcel vi pubblica delle interessanti pagine sulla metamorfosi degli arredi usuali, sbiaditi dall'abitudine in sacre immagini vestite con la mia anima. 
Il suo prestigio intellettuale non attenua il disagio destato nei compagni dalla sua scoperta sensibilità e dalla eccessiva gentilezza, che viene scambiata per adulazione e ipocrisia. 
Le sue prime frequentazioni mondane irritano i collaboratori della Revue Lilas, che lo tacciano di snobismo. 
I salotti che accolgono il giovane sono innanzitutto quelli delle madri di due suoi compagni di scuola, Madame Baignères e Madame Straus, vedova di Bizet, sposata ad uno dei modelli di Swann, il ricco avvocato ebreo Emile Straus, ironico, elegante e, senza motivo, gelosissimo. 
Sempre in quest'autunno, Proust conosce Laure Hayman, cortigiana d'alto bordo, colta e stimata dai suoi illustri amanti (un altro modello di Odette). 
Al centro di un aristocratico salotto, la Hayman era stata legata allo zio di Marcel, Louis Weil, ed era rimasta in cordiali rapporti con i Proust. 
Pare che la bionda e intelligente Laure, sommersa dai fiori e dai complimenti del giovane ammiratore, abbia finito col cedere alla sua corte. 
In dicembre ella gli regala, riccamente rilegata con la seta a fiori di una sua sottoveste, una copia di un libro del suo amico Paul Bourget, "Pastels". 
Di uno dei racconti del volume, intitolato "Gladys Harvey", è protagonista un'etera settecentesca che, per la sua grazia delicata, ricorda la stessa Hayman. 
1889. 
27 gennaio: è il punto culminante della crisi boulangista che per tre anni ha turbato la vita politica della Terza Repubblica. 
Il generale Georges Boulanger, che gode di grande prestigio e popolarità sia nell'esercito, sia in vasti strati dell'opinione pubblica, è eletto trionfalmente nella circoscrizione di Parigi. 
Tutti si attendono che egli approfitti dell'occasione per impadronirsi del potere, ma deludendo i suoi sostenitori Boulanger esita, poi fugge; e due anni dopo si suiciderà a Bruxelles sulla tomba della sua amante. 
Pur riconoscendo la grossolanità del personaggio, Proust confessa di essersi lasciato suggestionare dall'entusiasmo collettivo per Boulanger. 
19 marzo: muore la nonna paterna. 
In maggio Marcel scrive ad Anatole France una lettera piena di commossa ammirazione per lo scrittore (uno dei modelli di Bergotte), che era stato attaccato da un articolo del Journal des Débats. 
Il giovane viene accolto nel salotto di Madame de Caillavet. 
Brillante e imperiosa, la gentildonna presenta alcuni tratti di Madame Verdurin: un intransigente snobismo intellettuale la induceva a escludere dalle sue riunioni mondane gli aristocratici. 
Dominatore del salotto era Anatole France, suo amante, da lei spinto con grande energia alla creazione letteraria. 
Per abbreviare il periodo di servizio militare, Marcel chiede di essere arruolato come volontario (un solo anno di ferma, anziché tre) nel settantaseiesimo reggimento fanteria, di stanza a Orléans. 
L'esperienza militare è per lui fonte di un'intensa felicità. 
Il nuovo ritmo di vita attiva e regolamentata giova alla sua salute. 
A Orléans incontra uno dei modelli di Saint-Loup: Robert de Billy. 
Stringe amicizia col figlio di Madame de Caillavet, Gaston, futuro autore teatrale, e con la sua fidanzata Jeanne Pouquet, di cui vanamente si innamora; alcuni tratti di Jeanne si ritroveranno nel personaggio di Gilberte. 
Vorrebbe prolungare di alcuni mesi il servizio militare, quando questo volge al termine, ma la sua domanda viene respinta: il soldato di seconda classe Marcel Proust viene congedato. 
1890. 
29 gennaio: muore la nonna materna, spesso ricordata nell'opera proustiana per la sua intelligente bontà e la dignità morale. 
20 novembre: Marcel si iscrive, contemporaneamente, alla Facoltà di Legge e a quella di Scienze Politiche. 
1891. 
In settembre si reca a Cabourg dove sente, viva, la memoria della nonna scomparsa. Soggiorna anche a Trouville, nella villa di Madame Baignères. 
Qui frequenta il pittore Jacques-Emile Blanche, amico di artisti e intellettuali inglesi, assidui visitarori delle località balneari normanne: tra essi Wilde, Beardsley e Whistler. Squisito pittore e acuto scrittore, Blanche esegue uno schizzo a matita di Proust chino, spettinato, con i grandi occhi spalancati. 
E' il bozzetto del futuro, ben diverso ritratto di Marcel, che sarà esposto nel 1892 al "Salon des Artistes Franais": vi scorgiamo il Proust degli anni '90, una camelia all'occhiello, il volto fiero incorniciato dalla cravatta color tortora, consigliatagli - pare - da Wilde, che egli aveva incontrato in quello stesso autunno. 
Nel salotto di Madame Straus Proust conosce scrittori come PortoRiche, Hervieu e molti altri. 
Tra gli aristocratici nota l'affascinante contessa Greffulhe e la spiritosa contessa di Chevigné. 
Resta particolarmente colpito dall'estrema eleganza di un ricco e mondano agente di cambio, Charles Haas, l'unico ebreo che fosse riuscito a entrare nel prestigioso ed esclusivo Jockey Club. 
Come lo Swann della "Recherche", Haas aveva capelli rossicci, coltivava amicizie altolocate, si interessava di pittura italiana e poteva vantare un'intensa vita amorosa. 
Proust frequenta anche il salotto della piccola e tozza principessa Mathilde Bonaparte, nipote di Napoleone Primo e cugina di Napoleone Terzo, dove conosce il nipote di lei, conte Gégé Primoli, abile fotografo dilettante, il galante dottor Pozzi, Paul Bourget e alcuni aristocratici come Louis de Turenne, i Rohan e i Gramont. 
1892. 
Diventa parente di Henri Bergson, che il 7 gennaio sposa Louise Neuburger, una nipote di Madame Proust. 
Tra Marcel e il grande filosofo intercorrerà sempre un'amicizia nutrita di reciproca stima. 
Nasce la rivista mensile Le Banquet, fondata da alcuni ex-compagni di scuola di Proust, tra cui Daniel Halévy, Robert Dreyfus e Fernand Gregh, che ne sarà il direttore. 
Ma questi amici mantengono nei suoi confronti un atteggiamento complesso, nel quale una certa stima per le sue doti letterarie si mescola a insofferenza per quello che appare loro come un fastidioso snobismo. Collaborano alla rivista Jacques Bizet, Henri Barbusse, Louis de la Salle, Gaston de Caillavet, Robert de Flers e Léon Blum. 
Proust vi pubblica un racconto, "Violante ou la Mondanité", dedicato ad Anatole France. 
Gli si schiude anche il salotto di Madame Lydie Aubernon de Nerville, altro modello di Madame Verdurin. 
Piccola, arguta, organizzava due ricevimenti settimanali, nel corso dei quali si doveva discutere un argomento prefissato. 
Tra i membri più fedeli c'erano il dottor Pozzi (modello di Cottard), il pedante professor Brochard (modello di Brichot) e il barone Doasan, famoso omosessuale (uno dei modelli di Charlus). 
Un altro salotto frequentato da Proust fu quello di Madeleine Lemaire, modesta pittrice di soggetti floreali, ma grande animatrice mondana. 
Gli ospiti che si raccoglievano nel suo vasto studio a vetri erano prevalentemente degli artisti come Puvis de Chavannes, Detaille, Clairin e Béraud, cui si aggiunsero in seguito molti aristocratici come i La Rochefoucauld e i Gramont. Nel mese di marzo Proust si innamora dell'avvenente e spiritosa contessa Laure de Chevigné, aspettandola più volte in rue de Marigny, finché non viene respinto da una gelida replica della nobildonna. La contessa, discendente della Laure de Sade amata dal Petrarca, è tra i modelli della duchessa di Guermantes. In giugno Marcel supera con esito lusinghiero alcuni esami. In settembre Anatole France gli dedica il racconto "Madame de Luzy", inserito nella raccolta "Etui de Nacre". 
Parte per un soggiorno in Normandia presso i Finaly, banchieri ebrei. 
Giunge a Trouville ben equipaggiato di cravatte liberty dalle più svariate sfumature. 
Si innamora di Marie Finaly, una ragazza dotata di un fascino malinconico; e, per la prima volta, i suoi sentimenti sono ricambiati Alcuni tratti di Marie confluiranno nel personaggio di Albertine. 
Negli ultimi mesi dell'anno, compilando un questionario contenuto in un album, Marcel definisce i propri gusti e la propria visione della vita. Come sua caratteristica fondamentale indica il bisogno di essere amato e, per la precisione, il bisogno di essere accarezzato e viziato, più che ammirato. 
Il suo principale difetto consiste, secondo questo "Marcel Proust par lui-mme" (titolo vergato dallo stesso Proust sulla pagina dell'album), nel non sapere, non riuscire a volere. 
1892-1893. 
Scandalo del canale di Panama: la Compagnie du canal interocéanique, presieduta da Ferdinand de Lesseps, fa bancarotta dopo che sono state sottoscritte azioni per un miliardo e mezzo di franchi. 
Numerosi deputati e senatori risultano coinvolti per aver accettato denaro dalla compagnia. 
1893. 
Proust viene colpito dal fascino discreto di un giovane inglese, Willie Heath, con cui allaccia una fervida amicizia. 
Ma nell'ottobre di quello stesso anno Heath muore di tifo. 
Tre anni dopo Proust renderà omaggio all'amico scomparso dedicandogli "Les Plaisirs et les Jours". 
Nel salotto di Madame Lemaire conosce il conte Robert de Montesquiou-Fezensac, discendente di d'Artagnao e di Blaise de Montluc, imparentato con la più alta aristocrazia europea. 
Celebre dandy, ma anche interessante poeta, il conte aveva ispirato con le sue stravaganze giovanili il personaggio di Des Esseintes in "A rebours" di J.-K. 
Huysmans, e sarebbe stato il principale modello di Charlus. 
Avvolto nei suoi famosi abiti grigi, illuminati da cravatte pastello, Montesquiou possedeva una singolare eloquenza, ora ironica ora sferzante, e questa prerogativa, unita alle sue illustri parentele, ne faceva l'arbitro dell'eleganza nella società aristocratica francese. 
In lui Proust vide probabilmente quella conciliazione tra l'arte e la mondanità che gli era parsa fino allora irraggiungibile. 
La loro amicizia, nutrita da un fitto scambio epistolare, fu resa spesso burrascosa dal carattere imprevedibile e altezzoso di Montesquiou, ma durò a fasi alterne fino alla morte del conte. 
Proust pubblica sulla Revue Blanche alcuni studi e un racconto, "Mélancolique villégiature de Madame de Breyres". 
Trascorre l'estate tra Trouville e Saint-Moritz. 
Qui conosce Anne de Brancovan, poi contessa di Noailles, autrice di poesie molto apprezzate da Marcel. 
In ottobre, terminati gli studi di diritto, viene a trovarsi nella spiacevole necessità di scegliere una professione. 
Dopo un'esperienza negativa di appena quindici giorni presso un avvocato, opta per il lavoro di bibliotecario, sperando di poter così disporre di molto tempo libero. Comincia quindi a prepararsi per l'indispensabile "licence" in lettere. 
1894. 
Per ingraziarsi Montesquiou, Marcel gli presenta un valente pianista diciannovenne, il bellissimo e gelido Léon Delafosse, con il quale il conte intreccia una relazione che durerà tre anni. 
Proust incontra Pierre Louys e Henri de Régnier alle riunioni indette ogni sabato dal poeta parnassiano J.-M. de Heredia. 
In aprile cena con Oscar Wilde, allora al vertice della sua fama, in casa di Madame de Caillavet. 
Invitato a casa di Proust, Wilde ne critica l'arredamento e rifiuta di fermarsi a cena con i suoi genitori. 
In maggio il giovane ha occasione di conoscere meglio la contessa Greffulhe: la bellissima dama si offre alla sua ammirazione durante una delle sontuose feste organizzate da Montesquiou a Versailles. 
In un resoconto scritto per un giornale conservatore, Le Gaulois, la descrive avvolta in una seta di lillà rosato cosparsa di orchidee, con il cappello anch'esso fiorito di orchidee. 
Molto importante, per la vita affettiva e per la cultura musicale di Proust, è la nuova amicizia con Reynaldo Hahn. 
Marcel trascorre l'estate nel seicentesco castello di Réveillon, proprietà di Madame Lemaire, in compagnia di questo giovane musicista di origine venezuelana. Benché appena diciannovenne, Reynaldo aveva già allora una discreta notorietà come pianista, compositore e cantante. 
La sua relazione con Proust durerà per tutta la vita dello scrittore. 
A una prima fase di grande affetto reciproco, incrinato da gelosie e sospetti, segue una crisi, dopo la quale si consolida un rapporto più sereno e disinteressato. 
Le lettere di Proust a Reynaldo sono forse le più belle e interessanti della sua corrispondenza. 
I due amici inventano una sorta di nuovo linguaggio, in cui la regressione linguistica (uso di parole arcaiche, con deformazioni medievaleggianti) contribuisce a manifestare una tenerezza quasi infantile. 
Dalle lettere a Reynaldo si possono ricavare le predilezioni musicali di Marcel. 
Tra i due esisteva in questo campo un netto dissenso: Hahn era un convinto fautore della tradizione francese e, anche come compositore, seguiva una poetica neoclassica, ostile alle novità più audaci; i suoi maestri erano stati soprattutto Massenet e Saint-Sans. 
Proust, invece, amava nella musica la capacità di esprimere ciò che per la letteratura è inesprimibile, e si appassionava quindi soprattutto alle composizioni in cui il linguaggio musicale è teso fino al superamento dei suoi limiti. 
Di qui l'entusiasmo per le opere più nuove: l'ultimo Beethoven, Wagner, Debussy, Stravinskij. 
24 giugno: il presidente Carnot è pugnalato da un anarchico. 
Al suo posto viene eletto Jean Casimir-Perier, che si dimetterà nel gennaio dell'anno successivo. 
Il 15 ottobre prende l'avvio il più clamoroso caso politicogiudiziario della Terza Repubblica. 
Il capitano ebreo Alfred Dreyfus, addetto allo stato maggiore dell'esercito, è arrestato e condannato (22 dicembre) sotto l'imputazione di alto tradimento e spionaggio a favore della Germania. 
L'ufficiale viene degradato e deportato all'Isola del Diavolo nella Guyana francese. 
Ma le prove a suo carico (un "bordereau" scritto con calligrafia simile alla sua, contenente l'elenco dei documenti segreti trasmessi da qualche membro dello stato maggiore francese all'"attachè" militare tedesco) non appaiono del tutto convincenti. 
Il presunto tradimento commesso da un alto ufficiale ebreo alimenta un'ondata di antisemitismo, particolarmente violenta negli ambienti socialisti, ostili al potere dell'alta finanza in 
  gran parte controllata da israeliti: il partito socialista protesta perché Dreyfus non è stato condannato a morte. 1895. 
Ha inizio la presidenza di Félix Faure (1895-99). 
Conseguita la licenza in lettere, Proust ottiene in marzo un posto non remunerato di bibliotecario aggiunto alla Bibliothèque Mazarine. 
Ma subito chiede un'aspettativa di alcuni mesi che, in seguito, rinnoverà più volte. 
Nella Revue Hebdomadaire del 29 ottobre pubblica il racconto "La Mort de Baldassarre Siltande", dedicato a Reynaldo Hahn. 
In settembre, durante un soggiorno a Trouville con la madre, aveva cominciato a scrivere "Jean Santeuil", un vasto romanzo autobiografico che lascerà incompiuto. Diventa amico di Lucien Daudet, figlio del noto scrittore Alphonse e fratello di Léon, intellettuale e uomo politico di estrema destra, monarchico e antisemita, scrittore e memorialista di talento. 
Bello, capriccioso e intelligente, Lucien rimarrà sempre un estroso dilettante, un vivace conversatore. 
1896. 
Primo marzo: sulla rivista La Vie contemporaine appare il racconto "L'Indifférent", scritto da Proust tre anni prima. 
A lungo dimenticato, è stato ritrovato recentemente e ristampato a cura di Philip Kolb nel 1978. 
13 giugno: l'editore Calmann-Lévy pubblica "Les Plaisirs et les Jours", illustrato da Madeleine Lemaire e accompagnato da una benevola prefazione di Anatole France, che si conclude con questa suggestiva definizione del giovane scrittore: C'è in lui del Bernardin de SaintPierre depravato e del Petronio ingenuo. 
L'elevato prezzo di copertina e l'apparente evanescenza della tematica non incoraggiano le recensioni, che saranno scarse, come le vendite. "Les Plaisirs et les Jours" è un libro costituito da scritti eterogenei in gran parte già pubblicati su riviste e giornali: sei racconti ("La Mort de Baldassarre Silvande, vicomte de Sylvanie"; "Violante ou la Mondanité"; "Mélancolique villégiature de Madame de Breyves"; "La confession d'une jeune fille"; "Un diner en ville"; "La fin de la jalousie"); quattordici "Fragments de comédie italienne" 
(brevi "flashes" intrisi di elegante moralismo, con una punta di estenuazione alla Watteau); trenta poemetti in prosa: "Les Regrets, rveries couleur du temps"; otto poesie ispirate ai 
"Phares" di Baudelaire: "Portraits de peintres et de musiciens", le prime quattro con accompagnamento musicale di Reynaldo Hahn; due "pastiches" di Flaubert: "Mondanité et mélomanie de Bouvard et Pécuchet". 
Il 10 maggio muore il prozio Louis Weil, e il 30 giugno si spegne il nonno materno Nathé Weil. 
Il 15 luglio la Revue Blanche ospita il saggio "Contre l'obscurité", in cui Proust, con una buona dose di anticonformismo, prende posizione contro la scuola simbolista, accusandola di oscurità superficiale e artificiosa: Se il poeta percorre la notte vi si legge, ch'egli sia come l'Angelo delle tenebre, per portarvi la luce. 
Durante l'estate, dopo un soggiorno con la madre al Mont-Dore, nasce un'intensa amicizia tra Proust e una giovane e graziosa cugina di Reynaldo Hahn, l'inglese Marie Nordlinger. Nuovo episodio dell'affare Dreyfus. 
Il colonnello Picquart, che ha da poco assunto la direzione del controspionaggio, entra in possesso di un secondo documento relativo a informazioni militari passate ai Tedeschi da membri dello stato maggiore francese, e scopre che questo "petit bleu" è scritto con una grafia identica a quella del maggiore conte Walsin-Esterhazy, sul quale cadono i suoisospetti. 
Picquart vorrebbe che il caso fosse riaperto, ma ne è dissuaso da pressioni superiori e viene trasferito in Tunisia. 
1897. Il 3 febbraio esce sul Journal un articolo dello scrittore omosessuale Jean Lorrain, con maliziose allusioni al legame esistente tra Proust e Lucien Daudet. Proust sfida a duello Lorrain e dimostra fermezza e coraggio durante lo scontro alla pistola, concluso per altro senza spargimento di sangue. 
Terzo episodio del caso Dreyfus. 
Il fratello del capitano ebreo Mathieu Dreyfus, chiede l'apertura di un'inchiesta contro Esterhazy. 
A questo punto la Francia si divide tra coloro che auspicano la revisione del processo e quelli che vi si oppongono in nome dell'onore dell'esercito. 
Del primo schieramento fanno parte, oltre agli ambienti ebraici, numerosi intellettuali e, gradualmente, i gruppi politici orientati a sinistra. 
Sono invece antidreyfusardi i circoli militari, le grandi famiglie aristocratiche, una parte del mondo cattolico e la destra politica. 
Proust si schiera subito tra gli assertori dell'innocenza di Dreyfus, benché molti dei suoi amici e conoscenti siano accaniti antidreyfusardi. 
1898. 
13 gennaio: pochi giorni dopo l'assoluzione di Esterhazy da parte di un tribunale militare, sul quotidiano radicale L'Aurore Emile Zola pubblica il celebre articolo" J'accuse", lettera aperta al presidente della Repubblica: le alte gerarchie dell'esercito sono accusate di aver deviato il corso della giustizia. 
Insieme agli amici Robert de Flers, Jacques Bizet e Louis de la Salle, Proust promuove una raccolta di firme a favore di Dreyfus, destinata a sfociare nel manifesto dei centoquattro, cui aderirono, tra gli altri, Alphonse Darlu, il suo ex-professore di filosofia, Analole France, Gallet e Monet. 
Il 23 febbraio comincia il processo contro Zola, che Proust segue con passione, senza perdere una sola udienza. 
Zola è condannato a un anno di reclusione. 
Ma uno dei principali fondamenti dell'accusa contro Dreyfus viene a cadere. 
Si scopre che un documento a suo carico è stato falsificato dal colonnello Henry, che ha preso il posto di Picquart al comando del controspionaggio. Henry confessa; arrestato, si suicida. 
Lo scandalo spinge alle dimissioni il capo di stato maggiore, generale de Boisdeffre. 
L'"affaire" è ormai diventata il cuore della politica francese. 
Nonostante l'acceso dreyfusismo, Proust, grazie alle sue doti di amabilità e diplomazia, riesce a mantenere buoni rapporti anche con gli ambienti aristocratici più ostili a Dreyfus. 1899. 
Muore il presidente Faure; lo sostituisce, al vertice dello Stato, Emile Loubet (1899-1906). 
La Corte di Cassazione annulla la precedente condanna di Dreyfus, ma a Rennes la corte marziale ribadisce che l'ex-capitano è colpevole di tradimento. 
Il presidente Loubet concede a Dreyfus l'amnistia ma i dreyfusardi continuano la loro battaglia per l'accertamento della verità e rifiutano una conclusione dell'"affaire" mediante atto di clemenza. 
Proust, profondamente deluso, finisce col disinteressarsi del caso. 
Si intensifica, invece il suo interesse per le opere di John Ruskin, ispirato soprattutto dalla lettura del libro di Robert de La Sizeranne "Ruskin et la religion de la beauté". 
Comincia a tradurre uno dei volumi ruskiniani incentrati sull'arte medievale francese, "The Bible of Amiens", avvalendosi della collaborazione di Marie Nordlinger. Ruskin spinge Proust alla riscoperta del medioevo cristiano, educandolo all'amore per la pittura italiana del primo Rinascimento e per le città d'arte italiane, in primo luogo Venezia.Lo avvia inoltre verso una concezione meno elitaria e dandystica dell'arte e della letteratura, verso una più meditata e universale visione dell'uomo. 
1900. 
E' dedicato a Ruskin il primo degli articoli pubblicati da Proust sul Figaro: "Pèlerinages ruskiniens en France" (13 febbraio), scritto per commemorare lo scrittore inglese appena scomparso (20 gennaio). 
In aprile esce sul Mercure de France il saggio "Ruskin à Notre-Dame d'Amiens", che sarà poi incorporato nell'Introduzione alla traduzione della "Bible of Amiens". 
In primavera Proust si reca con la madre a Venezia, dove lo raggiungono Reynaldo Hahn e Marie Nordlinger. 
Questo soggiorno veneziano è tutto sotto il segno di Ruskin, così come la visita alla Cappella degli Scrovegni di Padova, dove Proust resta particolarmente colpito dalle figure allegoriche dei Vizi e delle Virtù affrescate da Giotto. 
Dopo una breve sosta a Evian con la madre, ritorna da solo a Venezia. 
In ottobre i Proust si trasferiscono al numero 45 dell'elegante rue de Courcelles, nei pressi del Parc Monceau. 
Marcel diventa intimo amico dei principi di origine rumena Antoine e Emmanuel Bibesco. 
Lo attrae specialmente il ventitreenne Antoine, bello e intelligente. 
Tramite i Bibesco entra in contatto con un loro cugino, l'affascinante conte Bertrand de Salignac-Fénelon, coetaneo di Antoine. 
Fénelon è il principale modello di Saint-Loup, di cui possiede gli occhi azzurri, la spontanea eleganza dei modi, i vasti interessi intellettuali e il tragico destino. 
Sulla scia dell'ondata radicale suscitata in Francia dalle scandalose vicende dell'affare Dreyfus, il governo vara le prime leggi contro le congregazioni religiose. 
1902. 
Il nuovo presidente del Consiglio, Emile Combes, accentua la politica anticlericale del suo predecessore Waldeck-Rousseau: vengono chiuse tremila scuole gestite da religiosi. Proust e i suoi amici Bibesco e Fénelon compiono numerosi pellegrinaggi per visitare le più belle cattedrali francesi, indirizzati anche dai suggerimenti del grande storico dell'arte medievale Emile Male, di cui Proust aveva molto apprezzato il libro "L'Art religieux du treizième siècle en France". 
In giugno porta a termine la traduzione della "Bible of Amiens", e alterna lunghi periodi di isolamento claustrale nella sua stanza, assediato dall'asma, a brevi intervalli di vita mondana e di intenso sodalizio con gli amici. 
In autunno parte per visitare l'Olanda e il Belgio insieme al carissimo amico Fénelon: rimane folgorato dai dipinti di Jan Vermeer, di cui in particolare ammira, all'Aia, la "Veduta di Delft", da lui definita il quadro più bello del mondo. 
Si fanno più aspri, in questi anni, gli attriti con i genitori, sempre più preoccupati per il suo stato di salute e per l'ostinata riluttanza a esercitate una qualsiasi professione. 
La madre è irritata dal ritmo notturno della sua vita: Marcel legge o scrive per tutta la notte, si addormenta al mattino e si sveglia nel tardo pomeriggio. 
Una dolente lettera del 6 settembre rivela la profondità delle ferite intime di Marcel, che non esita a denunciare il suo difficile rapporto con una madre che lo ama soltanto quando è malato: ma è triste non poter avere contemporaneamente la salute e l'affetto. 
1903. 
In febbraio il fratello Robert sposa Marthe Dubois-Amiot. 
Partecipare al matrimonio costa a Marcel, già sofferente, diversi giorni di degenza. 
Tre giovani aristocratici entrano nel giro delle sue conoscenze: il duca di Guiche, il principe Léon Radziwill e il marchese Louis d'Albufera. 
Marcel si interessa anche a una giovane attrice amante di Albufera, Louise de Mornand, che cerca di aiutare nella sua carriera; l'affascinante Louise resterà per molti anni legata allo scrittore. 
Appaiono sul Figaro alcuni resoconti di serate mondane scritti da Marcel Proust, tra cui le descrizioni del salotto storico della principessa Mathilde e di quello di Madame Lemaire: verranno poi raccolte nel volume "Chroniques". 
Il 26 novembre muore il professor Adrien Proust. 
1904. 
Dedicata al padre, esce presso il Mercure de France "La Bible d'Amiens", traduzione dell'opera di Ruskin. 
Oltre alla ricca introduzione, possiede un accurato corredo di note che attesta la conoscenza, da parte di Proust, dell'intera produzione ruskiniana. 
La politica anticlericale di Combes, proseguita da Aristide Briand, culmina nella legge di separazione tra Chiesa e Stato, che abolisce il concordato napoleonico del 1801. 
D'ora in poi lo Stato cesserà di contribuire economicamente all'esercizio del culto cattolico e si asterrà dall'interferire nella designazione degli ecclesiastici. 
In un articolo sul Figaro, "La Mort des cathédrales", Proust esprime il timore che tali misure possano determinare la trasformazione delle chiese in vacui musei privi di vita e di spiritualità, e manifesta un netto dissenso nei confronti del clima anticlericale dominante in Francia. 
Pone mano alla traduzione di un altro libro di Ruskin, "Sesame and Lilies", due conferenze dello scrittore inglese sul tema della lettura. 
Il 28 maggio Henri Bergson tiene all'Accademia delle Scienze morali e politiche una relazione sulla traduzione proustiana della "Bible of Amiens". 
1905. 
Il 15 giugno esce su La Renaissance latine il saggio "Sur la lecture", che diventerà poi la prefazione alla traduzione di "Sesame and Lilies" e verrà infine ripreso in "Pastiches et Mélanges" col titolo "Journées de lecture". 
E' il testo più importante, e forse più bello, finora scritto da Proust; esprime una concezione della letteratura già molto vicina a quella della "Recherche". 
Il valore della lettura è collegato al tema della memoria. 
Vengono evocate le letture dell'infanzia a Illiers con accenti che già preannunciano Combray, e si insiste sul carattere personale dell'esperienza estetica: la lettura può sterilizzare la vita dello spirito anziché stimolarla, se non apre la via a una nuova creazione interiore. 
Sulla rivista Les Arts de la Vie appare intanto, a puntate, la traduzione della prima conferenza di Ruskin: "Les Trésors des rois". Nella prima settimana di settembre Madame Proust, che si trova a Evian con Marcel, ha un attacco di uremia. 
Robert accorre e la fa trasportate d'urgenza a Parigi. 
Il 26 settembre la madre di Proust muore. 
Marcel è disperato, sente che la sua vita è spezzata, cresce in lui il senso di colpa per aver contribuito alle sofferenze della madre con la vita sregolata, la salute cagionevole e le poco ortodosse abitudini sentimentali di cui sospetta che ella fosse a conoscenza. 
Dopo un periodo di grave prostrazione decide di mantenere la promessa, fatta alla madre, di affidarsi a una clinica specializzata per curare l'asma, l'insonnia e il perenne esaurimento nervoso. 
Indugia a lungo, incerto sulla scelta del medico al quale consegnarsi; infine, il 6 dicembre, entra nella clinica diretta dal dottor Sollier, a Boulogne-sur-Seine, per un ricovero di sei settimane basato sull'isolamento come metodo terapeutico. 
1906. 
17 gennaio: viene eletto alla presidenza della Repubblica Armand Faillères (1906-13). 
Il 20 gennaio, trascorso il periodo previsto per la cura, Proust torna a casa, incredibilmente malato. 
Il tentativo di rientrare nella normalità, liberandosi dal tormento dell'asma, dallo sconvolgimento del ritmo di vita tra notte e giorno, e anche dalla mancanza di volontà, è fallito. Il primo giugno esce la traduzione da Ruskin, "Sésame et les lis", presso l'editore Mercure de France. 
12 luglio: arriva finalmente l'epilogo del caso Dreyfus. 
La Corte di Cassazione annulla la sentenza di Rennes, riconoscendo l'innocenza di Dreyfus, che viene riabilitato dal Parlamento insieme a Picquart. 
Dreyfus è decorato e promosso al grado di maggiore; Picquart diventerà ministro della Guerra. 
Il 6 agosto Proust si trasferisce nel settecentesco "Htel des Réservoirs" di Versailles, dove trascorre cinque mesi in una solitudine quasi completa. 
E' un periodo misterioso della sua vita, nel quale forse comincia lentamente a maturare l'ispirazione per una nuova opera creativa di ampio respiro. 
Riceve le visite di alcuni amici intimi, tra cui René Peter, giovane autore teatrale e futuro biografo di Debussy insieme al quale progetta di scrivere un dramma che ha per tema la perversione sessuale. 
Da Versailles dirige per corrispondenza, mobilitando numerosi amici e amiche, tutte le complesse operazioni necessarie per un trasloco. 
Va ad abitare al primo piano del numero 102 di boulevard Haussmann, in una casa di proprietà della vedova dello zio materno Georges Weil. La sceglie perché, come spiega in una lettera, non avrebbe mai avuto il coraggio di vivere in una casa che la mamma non avesse mai visto. 
1907. 
Il primo febbraio pubblica sul Figaro l'articolo "Sentiments filiaux d'un parricide", commossa e drammatica rievocazione di un fatto di cronaca. 
Alla fine di gennaio il giovane Henri van Blanderbergbe aveva ucciso la madre, suicidandosi subito dopo. 
Proust lo aveva conosciuto e, pochi giorni prima che si verificasse il matricidio, aveva ricevuto una lettera nella quale Henri esprimeva un tenerissimo affetto per sua madre. 
Accostando il mito alla cronaca, Proust scrive che l'amore per la madre è tanto più omicida quanto più è profondo. 
Ha inizio una breve amicizia con il giovane e bellissimo marchese Illan de Casa Fuerte, cui d'Annunzio si ispirò per il personaggio di Aldo in "Forse che sì forse che no". In agosto torna a Cabourg, da dove si sposta per frequenti gite in automobile, accompagnato dall'autista Alfred Agostinelli, col quale a poco a poco stabilirà un'intensa relazione sentimentale. 
1908. 
Comincia a scrivere "A la recherche du temps perdu", come testimonia un "Carnet" ritrovato tra i suoi manoscritti, sicuramente databile a quest'anno, nel quale sono annotati progetti relativi a episodi e personaggi ed è sommariamente abbozzato qualche brano del libro. 
Proust accenna a un certo numero di pagine già scritte, con temi del futuro romanzo, che potrebbero quindi risalire a prima di quest'anno, come sostengono alcuni biografi (secondo G. Painter vi sarebbe stato un romanzo intermedio, cominciato nel 1905, tra il "Jean Santeuil" e la "Recherche"). 
In questo stesso "Carnet" del 1908 avvia la stesura di un saggio di teoria della letteratura, dedicato alla critica della concezione realistica e materialistica dell'arte, cioè del metodo critico psicologico-biografico di Sainte-Beuve e di quello scientifico-naturalistico di Taine. 
Proust si dichiara incerto se usare la forma tradizionale del saggio oppure una forma mista, in cui la critica a Sainte-Beuve sia introdotta e inframmezzata da squarci narrativi. 
Per qualche tempo la "Recherche" e il saggio su SainteBeuve coincisero con un solo progetto letterario: scrivendo agli amici, Proust parla del suo romanzo su Sainte-Beuve. Divertito dalla clamorosa truffa di un falso fabbricante di diamanti, un certo Lemoine, Proust ne trae ispirazione per scrivere dei "pastiches" in cui riprende e imita lo stile di autori famosi (Balzac, Faguet, Michelet, i Goncourt, Flaubert, Sainte-Beuve, Renan): li pubblica sul Supplément littéraire del Figaro. 
Trascorre l'estate all'"Htel des Réservoirs" di Versailles. 
Si fa accompagnare da Agostinelli; ma, non avendone più bisogno, lo licenzia. 
1909. 
In marzo pubblica un altro "pastiche" sull'affaire Lemoine, imitando Henri de Régnier. 
Prosegue la composizione del romanzo-saggio contro Sainte-Beuve. 
La parte narrativa si sviluppa sempre di più, fino a diventare autonoma, mentre il progetto di saggio metodologico-estetico viene abbandonato. 
Proust chiede all'amico Lauris se la famiglia dei Guermantes si è estinta e se può quindi usare questo nome per i suoi personaggi aristocratici. 
Si illude di essere ormai vicino alla conclusione del suo lavoro e pensa già a cercare un editore. 
A Vallette, direttore del Mercure de France, descrive la sua opera come estremamente impudica; ne riceve un primo rifiuto. 
Dal 4 al 6 luglio, per sessanta ore consecutive, Proust scrive ininterrottamente, come travolto dall'ispirazione. 
In estate torna a Cabourg, seguito dal suo segretario Ulrich. 
Frequenta con piacere i figli degli amici, e in una lettera accenna a un legame con una fanciulla misteriosa con la quale è tentato di giungere al matrimonio. Tornato a Parigi, in novembre, legge a Reynaldo Hahn la prima parte di "Du cté de chez Swann": l'amico se ne dichiara entusiasta. 
1910. 
Propone a Calmette, direttore del Figaro, di pubblicare il capitolo introduttivo di "Swann", ma in giugno si vede restituito il dattiloscritto. 
Si esalta per gli spettacoli dei balletti russi, in particolare per "Shéhérazade" (la compagnia era diretta da Djagilev, Bakst era il costumista e Nijinskij il primo ballerino). 
Durante l'ormai consueto soggiorno estivo a Cabourg, fa tappezzare di sughero la sua stanza di Parigi, per proteggersi dai rumori. Procede nella composizione del romanzo, ma ammette che l'impresa si sta sempre più allungando. 
1911. 
La crescente passione per la musica e le precarie condizioni di salute, che spesso gli impediscono di recarsi all'Opéra o ai concerti, inducono Proust ad abbonarsi al "théatrophone", una recente invenzione che consentiva di ascoltare per telefono e in diretta, restando comodamente a casa propria, le rappresentazioni teatrali. 
Nonostante la modesta resa acustica, si entusiasma per il "Pelléas et Mélisande" di Debussy. 
In maggio assiste, con Montesquiou, al "Martyre de SaintSébastien", sempre di Debussy, su testo di d'Annunzio; ma esprime alcune riserve sull'opera, mentre è impressionato dalla bellezza androgina della ballerina Ida Rubinstein. 
In seguito a una speculazione sbagliata in Borsa, si dichiara rovinato. 
In realtà il suo patrimonio è più che soddisfacente e, accanto a quelli avventati, non mancherà di realizzare investimenti assai redditizi. La conclusione del suo libro continua ad allontanarsi. 
1912. 
Calmette accetta di pubblicare sul Figaro alcuni brani del romanzo ancora inedito. 
Tra marzo e settembre ne escono tre: "Au seuil du printemps", "Un rayon de soleil sur le balcon" e "L'église de village". Proust, tuttavia, stenta a trovare un editore per il libro, anche a causa dell'ingente mole: due grossi dattiloscritti. 
Sollecita l'intervento di Calmette presso l'editore Fasquelle, che aveva pubblicato Flaubert e Zola. 
Contemporaneamente, tramite i Bibesco, cerca di avvicinare il gruppo di giovani intellettuali che dirigevano il settore editoriale della Nouvelle Revue Franaise, il cui amministratore era Gallimard. 
Durante un pranzo offerto dai Bibesco a Copeau, Gide e Schlumberger, il dattiloscritto viene affidato a Gide che dovrà esprimere il suo giudizio. 
L'impressione di Gide è negativa: egli resta sfavorevolmente colpito dallo stile fiorito e analitico. 
Secondo Céleste Albaret, la giovane moglie del suo cameriere Odilon, alla quale già allora Proust ricorreva saltuariamente per faccende e commissioni, i lacci del pacchetto da lei confezionato erano rimasti intatti: Gide non avrebbe nemmeno sfogliato il libro. 
Nuoce a Proust la nomea di scrittore decadente, mondano, frivolo. 
In dicembre sia la N.R.F. sia Fasquelle rifiutano di pubblicare la sua opera. 
1913. 
Raymond Poincaré succede a Faillères come presidente della Repubblica (1913-20). 
Proust assume di nuovo alle proprie dipendenze Agostinelli, che si installa in casa sua, insieme alla presunta moglie, con funzioni di autista, segretario e dattilografo. In questa seconda fase, la loro amicizia si trasforma in autentica passione da parte di Proust, con crisi di gelosia e angoscia, tanto da ispirare alcuni episodi della vicenda amorosa tra Albertine e il Narratore nella "Prisonnière" e nella "Fugitive". 
Si rinnovano i tentativi di trovare un editore. 
Tramite Louis de Robert, Proust si rivolge alla casa editrice Ollendorf, da cui riceve un nuovo rifiuto. 
Finalmente, grazie alla mediazione di René Blum, fratello di un suo compagno di liceo e futuro leader socialista, Proust riesce a stipulare un contratto con l'editore Grasset. 
Il libro dovrebbe essere pubblicato in tre volumi ("Du cté de chez Swann", "Le Cté de Guermantes", "Le Temps retrouvé") a spese dell'autore. 
Grasset racconterà poi di aver accettato la proposta senza neanche leggere il dattiloscritto. 
In marzo il Figaro pubblica un nuovo estratto: "Vacances de Pques". 
In novembre, nonostante tutti gli sforzi di Proust per impedirglielo, Agostinelli, che sogna di diventare un pilota, si trasferisce sulla Costa Azzurra per seguire un corso di aviazione. 
Alcune delle lettere scambiate con il fuggiasco sono riprese, con poche varianti, nella "Fugitive". 
Il 12 novembre, per lanciare il suo libro, Proust rilascia a ElieJoseph Bois, per il giornale Le Temps, un'intervista nella quale spiega la complessa struttura di "A la recherche du temps perdu". 
Due giorni dopo escono le prime copie di "Du cté de chez Swann". 
Il romanzo è dedicato a Calmette. 
Le prime recensioni, per lo più firmate da amici di Proust, sono molto favorevoli. 
1914. 
Il relativo successo di "Du cté de chez Swann" induce il gruppo della N.R.F. a rivedere il proprio giudizio negativo. 
In gennaio Gide, che ora sta leggendo il romanzo con attenzione, scrive a Proust di esserne deliziato: Aver rifiutato questo libro resterà il più grave errore della N.R.F. - e, poiché ho la vergogna di esserne stato il principale responsabile, uno dei rimpianti, dei rimorsi anzi, più cocenti della mia vita. 
Ma Proust, per lealtà verso Grasset, respinge momentaneamente le offerte tardive della N.R.F. di riscattare dal primo editore i diritti di "Swann" e di pubblicare il seguito del romanzo. 
Il 16 marzo un delitto turba la Francia. 
Calmette, il direttore del Figaro, è assassinato a colpi di pistola dalla moglie del ministro delle Finanze, Joseph Caillaux contro il quale quel quotidiano aveva scatenato una violenta campagna scandalistica diretta - sembra - a contrastare il tentativo di introdurre l'imposta progressiva sul reddito. 
Il 30 maggio Agostinelli muore in un incidente aereo. 
Si era iscritto alla scuola di aviazione di Antibes con lo pseudonimo di Marcel Swann. 
Il suo aereo precipita in mare, e il cadavere viene ritrovato solo dopo qualche giorno. 
La Nouvelle Revue Franaise pubblica, nei numeri di giugno e luglio, alcuni estratti delle parti ancora inedite della "Recherche". 
Il 28 giugno, a Sarajevo, periscono in un attentato l'arciduca Francesco Ferdinando, che avrebbe dovuto succedere all'imperatore Francesco Giuseppe, e sua moglie. 
Il 3 agosto la Germania dichiara guerra alla Francia. 
Robert Proust viene subito richiamato e parte per il fronte, come diversi amici di Marcel, il quale è invece esonerato dal servizio militare per motivi di salute. 
Arruolato anche Grasset, la sua casa editrice deve sospendere le pubblicazioni. 
Nonostante la rapida avanzata dei Tedeschi, che spinge molti parigini ad allontanarsi dalla città, Proust vi si trattiene fino all'inizio di settembre, quando decide di partire per Cabourg, accompagnato dalla nuova cameriera, Céleste Albaret, e da un giovane svedese, Ernest Forssgren, che aveva assunto al posto di Nicolas Cottin, anch'egli richiamato. Tra il 6 e il 9 settembre, nella battaglia della Marna, l'esercito germanico viene fermato: le sorti della guerra cominciano a mutare. In ottobre Proust torna a Parigi, dove è colpito da un fortissimo attacco di asma. 
In dicembre muore al fronte Bertrand de Fénelon. 
1915-1918. 
La prima guerra mondiale sconvolge il ritmo della vita di Proust e indirettamente incide anche sulla sua opera. 
Addolorato per la morte di Agostinelli e degli amici caduti in combattimento, preoccupato per il fratello, sempre più solo in una Parigi incupita dal coprifuoco notturno, lo scrittore si immerge in un massiccio lavoro di arricchimento del tessuto narrativo della "Recherche" che dai tre tomi previsti nel 1913 passa a sette volumi. 
Frequenta assiduamente il ristorante dell'"Htel Ritz", che si sostituisce. per lui, alle cene nei salotti mondani ormai vuoti. 
Nel frattempo la casa editrice della N.R.F. rinnova le sue sollecitazioni: Proust e Grasset finiscono con l'accettare. 
Nel novembre del 1916, dopo aver assistito a un'esecuzione del quartetto Poullet, Proust invita i musicisti a suonare a casa sua. 
Questi concerti domestici e notturni per un solo spettatore si ripetono più volte. 
Proust si fa eseguire il quartetto di Franck, il quartetto di Debussy, quello in sol minore di Fauré, i quartetti di Mozart, Ravel e Schumann, e gli ultimi quartetti di Beethoven. 
Nell'agosto del 1917 è molto scosso dal suicidio di Emmanuel Bibesco, che da tempo soffriva di emiplegia e di gravi disturbi nervosi. 
Assiste sbigottito e affascinato ai bombardamenti aerei su Parigi, dove si trattiene anche quando, in una nuova avanzata, i Tedeschi arrivano a 25 chilometri dalla città. Sempre nel 1917 la N.R.F. 
pubblica una nuova edizione di "Swann". 
Nella primavera del 1918 Proust regala una parte dei mobili di famiglia ad Albert Le Cuziat, che li utilizza per arredare un bordello per omosessuali, l'"Htel Marigny", in rue de l'Arcade. 
Secondo alcune dubbie testimonianze raccolte dai biografi, Proust ne sarebbe stato un frequentatore assiduo, abbandonandosi a strane forme di perversione sessuale. 
L'11 novembre del 1918 viene firmato l'armistizio tra Francia e Germania. 
Il fratello di Proust, che ha riportato una ferita, torna al suo lavoro di medico dopo essere stato promosso per il valore dimostrato al fronte. 
1919. 
Proust è costretto a traslocare: all'inizio dell'anno la zia Emilie Weil gli comunica di aver venduto a una banca la casa di boulevard Haussmann. 
Alla fine di maggio si trasferisce al numero 8 bis di rue Laurent-Pichat, in un appartamento di proprietà dell'attrice Réjane. 
Subito si accorge dei difetti di questa abitazione, troppo rumorosa e vicina ai fiori e ai pollini del Bois de Boulogne, nocivi alla sua asma. 
In giugno compaiono in libreria: una nuova edizione N.R.F. di "Du cté de chez Swann", "A l'ombre des jeunes filles en fleurs" (finito di stampare: 30 novembre dell'anno precedente) e i "Pastiches et Mélanges". 
In quest'ultimo volume Proust ha raccolto i "pastiches" sull'"affaire" Lemoine, le introduzioni alle traduzioni da Ruskin e gli articoli "La Mort des cathédrales", "Sentiments filiaux d'un parricide", "Journées en automobile". 
Il libro è dedicato a Walter Berry, che negli Stati Uniti aveva perorato la causa dell'intervento americano a fianco di Francia e Inghilterra. 
Il 28 giugno si firma a Versailles il trattato di pace. 
All'inizio di ottobre ancora un trasloco: la nuova residenza è al numero 44 di rue Hamelin, non lontano dal Trocadéro. 
Il 10 dicembre viene assegnato a Proust il premio Goncourt, grazie al sostegno dei suoi amici e, in particolare, di Léon Daudet. 
Dei dieci membri della giuria, sei hanno votato per "A l'ombre des jeunes filles en fleurs", quattro per "Les Croix de bois" di R. Dorgelès. Il premio contribuisce a diffondere in Francia e all'estero la fama di Proust. 
Piovono le recensioni; concede molte interviste. 
1920. 
In gennaio la N.R.F. pubblica uno dei testi più interessanti per comprendere la concezione proustiana della critica letteraria: "A propos du style de Flaubert". Approda in libreria "Le Cté de Guermantes" (prima parte). 
Il 25 settembre viene conferita a Proust la Legion d'onore. 
Il nuovo presidente Paul Deschanel, eletto in febbraio si dimette in settembre. 
Gli subentra alla massima carica dello Stato Alexandre Millerand (1920-24). 
1921. 
Escono in maggio la seconda parte dei "Guermantes" e la prima di "Sodome et Gomorrhe". 
Il 24 di quel mese Proust si reca con il critico d'arte J.-L. 
Vaudoyer a visitare una mostra di pittori olandesi al museo del Jeu de paume, dove era esposta anche la "Veduta di Delft" di Vermeer. 
Proust ha una crisi di vertigini, crede di morire. 
La sua salute peggiora a tal punto che comincia a temere veramente di non poter completare la "Recherche". 
La N.R.F. ospita in giugno un suo saggio critico, "A propos de Baudelaire", sotto forma di lettera aperta a J. Rivière. L'11 dicembre muore Montesquiou. 
1922. 
Ai primi di maggio appare la seconda parte di "Sodome et Gomorrhe". 
Il 18 maggio Proust partecipa, insieme a Joyce, Picasso e Stravinskij, a un pranzo in casa Schiff. 
Ai primi di ottobre esce in una sera di nebbia per recarsi a in ricevimento in casa della contessa Beaumont. 
Si manifestano sintomi di bronchite. 
Il 19 ottobre, benché già ammalato, sembra sia uscito nuovamente per incontrare il suo ex-segretario, lo svedese Ernest Forssgren. 
Secondo la testimonianza di quest'ultimo, Proust lo avrebbe atteso invano per tre ore nella gelida hall di un albergo. 
Il 10 novembre gli viene diagnosticata una polmonite. 
Il suo medico, il dottor Bize, è allarmato e fa avvertire il fratello Robert. 
Proust rifiuta di seguire le prescrizioni dei medici. 
Muore il 18 novembre, alle 17.30. 
I funerali si svolgono il 21 novembre. Viene sepolto nel cimitero del Père-Lachaise. 
1923. 
Esce postuma la "Prisonnière". 
1925. 
Pubblicazione di "Albertine disparue" (in un primo momento Proust aveva pensato di intitolare questa sezione del romanzo "La fugitive", ma prima di morire manifestò l'intenzione di mutare il titolo, già utilizzato per una traduzione in francese delle liriche di Rabindranath Tagore). 
1927. 
Pubblicazione dell'ultimo volume della "Recherche": "Le Temps retrouvé". 1949. 
Esce nei Supercoralli di Einaudi, nella versione di Natalia Ginzhurg, il primo volume della traduzione integrale della "Recherche" ("La strada di Swann": gli altri traduttori saranno: Franco Calamandrei e Nicoletta Neri, Mario Bonfantini, Elena Giolitti, Paolo Serini, Franco Fortini, Giorgio Caproni). 
1952. 
Bernard de Fallois pubblica presso Gallimard, in tre volumi, "Jean Santeuil", l'incompiuto romanzo giovanile di Proust, di cui ha ritrovato i manoscritti in casa della nipote dello scrittore, Suzy Mante-Proust. 
1954. 
Lo stesso Fallois cura la pubblicazione del "Contre Sainte-Beuve", accompagnato dai "Nouveaux mélanges" (Gallimard). 
Nella Bibliothèque de la Pléiade esce, in tre volumi, una nuova edizione di "A la recherche du temps perdu", a cura di P. Clarac e A. Ferré, che hanno attentamente riveduto il testo corredandolo di un apparato di note e varianti. 
1971. 
Nuova edizione del "Jean Santeuil", preceduto da "Les plaisirs et les jours", a cura di P. Clarac e Y. Sandre. 
Quasi tutti gli altri scritti di Proust (a eccezione della corrispondenza e delle due traduzioni ruskiniane con note) sono raccolti in un altro volume della Pléiade: "Contre Sainte- Beuve, précédé de Pastiches et mélanges et suivi de Essais et articles", a cura di Clarac e Sandre. 
La presente edizione di "Alla ricerca del tempo perduto è condotta sul testo francese a cura di P. Clarac e A. Ferré (M. Proust, "A la recherche du temps perdu", Bibliothèque de la Pléiade, Paris, Gallimard, 1954), del quale rispetta, in particolare, l'impostazione dei dialoghi. 
Questa traduzione si è valsa della collaborazione redazionale, linguistica e letteraria di Marco Beck, assistito da Giorgio Corapi e Jean-Louis Provoyeur. 
DALLA PARTE DI SWANN. 
"A Gaston Calmette (a) 
Come testimonianza di profonda e affettuosa gratitudine". 
Marcel Proust. 
Parte prima. 
COMBRAY. 
1. 
A lungo, mi sono coricato di buonora. 
Qualche volta, appena spenta la candela, gli occhi mi si chiudevano così in fretta che non avevo il tempo di dire a me stesso: Mi addormento. 
E, mezz'ora più tardi, il pensiero che era tempo di cercar sonno mi svegliava; volevo posare il libro che credevo di avere ancora fra le mani, e soffiare sul lume; mentre dormivo non avevo smesso di riflettere sulle cose che poco prima stavo leggendo, ma le riflessioni avevano preso una piega un po' particolare; mi sembrava d'essere io stesso quello di cui il libro si occupava: una chiesa, un quartetto, la rivalità di Francesco Primo e Carlo Quinto. 
Questa convinzione sopravviveva per qualche secondo al mio risveglio; non scombussolava la mia ragione, ma premeva come un guscio sopra i miei occhi impedendogli di rendersi conto che la candela non era più accesa. 
Poi cominciava a diventarmi incomprensibile, come i pensieri di un'esistenza anteriore dopo la metempsicosi; l'argomento del libro si staccava da me, ero libero di pensarci o non pensarci; immediatamente recuperavo la vista e mi sbalordiva trovarmi circondato da un'oscurità che era dolce e riposante per i miei occhi ma più ancora, forse, per la mia mente, alla quale essa appariva come una cosa immotivata, inspiegabile, come qualcosa di veramente oscuro. 
Mi chiedevo che ora potesse essere; sentivo il fischio dei treni che, più o meno da lontano, come il canto d'un uccello in una foresta, dava risalto alle distanze, descrivendomi la distesa della campagna deserta dove il viaggiatore si affretta verso la stazione più vicina, e il sentiero che percorre è destinato ad essere impresso nel suo ricordo dall'eccitazione che gli viene da luoghi nuovi e gesti non abituali, dai discorsi e dagli addii scambiati poco fa sotto una lampada straniera e che ancora lo seguono nel silenzio della notte, dalla dolcezza che si approssima del ritorno. 
Appoggiavo con tenerezza le mie gote a quelle incantevoli del guanciale che sembrano, così piene e fresche, le gote della nostra fanciullezza. Accendevo un fiammifero per guardare l'orologio. 
Quasi mezzanotte. 
E' il momento in cui il malato che è stato costretto a mettersi in viaggio e ha dovuto fermarsi a dormire in un albergo sconosciuto, svegliandosi per una crisi, vede con gioia scivolare sotto la porta una striscia di luce. 
Che felicità, è già mattino! Fra un momento i domestici si alzeranno e lui potrà suonare, verranno a portargli aiuto. 
La speranza del soccorso gli dà nuovo coraggio per soffrire. 
Ecco, gli sembra d'aver sentito dei passi; i passi si avvicinano, poi si allontanano. 
E la striscia di luce che era sotto la porta è scomparsa. 
E' mezzanotte; hanno spento il gas; l'ultimo domestico se n'è andato, e bisognerà restare tutta la notte a soffrire senza rimedio. 
Mi riaddormentavo e a volte non mi svegliavo più che per brevi istanti, il tempo di sentire gli scricchiolii organici dei legni, d'aprire gli occhi per fissare il caleidoscopio del buio, di assaporare grazie a un momentaneo barlume di coscienza il sonno nel quale erano immersi i mobili, la stanza, quel tutto di cui io non ero che una piccola parte e alla cui insensibilità tornavo subito ad unirmi. 
Oppure, dormendo, avevo raggiunto senza sforzo un'età compiuta per sempre della mia vita primitiva, ritrovato l'uno o l'altro dei miei terrori infantili, per esempio quello che il mio prozio mi tirasse per i boccoli, terrore svanito il giorno - inizio per me di una nuova era - in cui me li avevano tagliati. 
Il ricordo di questo avvenimento m'era sfuggito durante il sonno, lo ritrovavo non appena riuscivo a svegliarmi per scappare dalle mani del mio prozio, ma per precauzione mi circondavo completamente la testa con il guanciale prima di sprofondare di nuovo nel mondo dei sogni. 
Certe volte, come Eva da una costola d'Adamo, una donna nasceva nel mio sonno da una falsa positura della mia coscia. 
Formata dal piacere che ero sul punto di gustare, m'immaginavo che fosse lei ad offrirmelo. 
Il mio corpo, sentendo nel suo il mio proprio calore, voleva ricongiungersi ad esso; mi svegliavo. 
Gli altri esseri umani mi apparivano molto lontani se li confrontavo con questa donna lasciata da pochi attimi appena; la mia guancia era ancora calda del suo bacio, il mio corpo indolenzito dal peso del suo corpo. 
Se, come a volte succedeva, il suo volto era quello di una donna che avevo conosciuta nella vita, ero certo che mi sarei consacrato a un unico scopo: ritrovarla, come chi intraprende un viaggio per vedere con i suoi occhi una città di cui ha desiderio, e s'immagina di poter godere in una cosa reale il fascino di una cosa sognata. 
A poco a poco il suo ricordo svaniva, avevo dimenticato la fanciulla del mio sogno. 
Un uomo che dorme tiene in cerchio intorno a sé il filo delle ore, l'ordine degli anni e dei mondi (1). 
Svegliandosi li consulta d'istinto e vi legge in un attimo il punto che occupa sulla terra, il tempo che è trascorso fino al suo risveglio; ma i loro ranghi possono spezzarsi, confondersi. 
Mettiamo che il sonno l'abbia colto verso il mattino, dopo un'insonnia, mentre stava leggendo, in una positura troppo diversa da quella in cui dorme abitualmente. 
Basterà il suo braccio sollevato per fermare e far indietreggiare il sole, e nel primo istante del risveglio egli non saprà più che ora sia, sarà convinto di essersi appena coricato. O che si sia assopito in una posizione ancora più irregolare e divergente, per esempio seduto dopo pranzo in una poltrona, e allora il disorientamento sarà completo in quei mondi usciti dalla propria orbita. 
La poltrona magica lo farà viaggiare a tutta velocità nel tempo e nello spazio, e al momento d'aprire gli occhi egli crederà di trovarsi a letto alcuni mesi prima e in un altro paese. Ma era sufficiente che, nel mio stesso letto, il mio sonno fosse profondo e tale da distendere completamente il mio spirito, ed ecco che questo abbandonava la mappa del luogo dove mi ero addormentato e, svegliandomi nel pieno della notte, io non sapevo più dove mi trovassi e, in un primissimo momento, nemmeno chi fossi; avevo nella sua semplicità primaria soltanto il sentimento dell'esistenza così come può fremere nella profondità di un animale; ero più privo di tutto dell'uomo delle caverne; ma a quel punto il ricordo - non ancora del luogo dove mi trovavo, ma di alcuni dei luoghi dove avevo abitato e avrei potuto essere - veniva a me come un soccorso dall'alto per strapparmi dal nulla al quale da solo non sarei riuscito a sfuggire; in un secondo scavalcavo secoli di civiltà e le immagini, confusamente intraviste, di qualche lampada a petrolio, poi di alcune camicie col collo piegato, ricomponevano a poco a poco i tratti originali del mio io. 
Forse l'immobilità delle cose che ci circondano è imposta loro dalla nostra certezza che si tratta proprio di quelle cose e non di altre, dall'immobilità del nostro pensiero nei loro confronti. 
Quel che è certo è che quando, svegliandomi in quel modo, il mio spirito s'agitava per cercare, senza riuscirci, di sapere dove fossi, tutto, oggetti, paesi, anni, vorticava intorno a me nel buio. 
Il mio corpo, troppo intorpidito per muoversi, cercava di individuare, in base alla forma della sua stanchezza, la posizione delle sue membra per dedurne l'andamento della parete, la disposizione dei mobili, per ricostruire e dare un nome alla casa in cui si trovava. 
La sua memoria, la memoria delle sue costole, dei suoi ginocchi, delle sue spalle, gli presentava una dopo l'altra parecchie delle camere in cui aveva dormito, mentre tutt'intorno le pareti invisibili, mutando posizione secondo la forma della stanza immaginata, turbinavano nelle tenebre. 
E prima ancora che il mio pensiero, esitante sulla soglia dei tempi e delle forme, identificasse la casa mettendo una accanto all'altra le circostanze, lui - il mio corpo - ricordava per ciascuna di esse il tipo di letto, la collocazione delle porte, l'esposizione delle finestre, l'esistenza di un corridoio, e in più le cose che avevo pensate addormentandomi e ritrovate al risveglio. 
Il mio fianco anchilosato, cercando di indovinare il proprio orientamento, immaginava per esempio d'essere disteso verso il muro in un grande letto a baldacchino, e subito mi dicevo: Guarda, ho finito per addormentarmi anche se la mamma non è venuta a dirmi buonanotte, ero in campagna a casa del nonno, morto parecchi anni fa; e il mio corpo, il fianco sul quale ero appoggiato, custodi fedeli di un passato che il mio spirito non avrebbe mai dovuto dimenticare, mi ricordavano la fiamma della "veilleuse" di vetro di Boemia, a forma d'urna, sospesa al soffitto con delle catenelle, e il camino in marmo di Siena della mia camera da letto di Combray, (2) nella casa dei nonni, durante giorni lontani che in quel momento mi figuravo attuali senza rappresentarmeli esattamente, e che avrei rivisto meglio quando, pochi istanti dopo, fossi stato sveglio del tutto. 
Poi rinasceva il ricordo d'un nuovo stato; il muro correva in un'altra direzione; ero nella mia stanza a casa di Madame de Saint-Loup, in campagna; Dio mio, sono almeno le dieci, devono aver finito di pranzare. 
Avrò prolungato oltre misura la siesta che faccio ogni pomeriggio tornando dalla passeggiata con Madame de Saint-Loup, prima di indossare l'abito da sera. 
Infatti sono passati molti anni dai tempi di Combray, quando anche nei ritorni più tardivi erano i riflessi rossi del tramonto ad apparirmi sui vetri della finestra. 
E' un altro genere di vita quello che si conduce a Tansonville, in casa di Madame de Saint-Loup, un altro genere di piacere quello che provo a non uscire che di notte, a percorrere al chiaro di luna le strade dove, in altri tempi, giocavo al sole; e la camera nella quale mi sarò addormentato invece di vestirmi per il pranzo, la vedo da lontano, quando torniamo a casa, attraversata dalla luce della lampada, unico faro nella notte. 
Queste evocazioni turbinanti e confuse non duravano mai che qualche secondo; spesso, la mia breve incertezza circa il luogo in cui mi trovavo non staccava l'una dall'altra le diverse supposizioni di cui essa era fatta meglio di quanto, vedendo correre un cavallo, non riusciamo ad isolare le posizioni successive mostrateci dal cinetoscopio. 
Ma avendo rivisto un po' l'una, un po' l'altra delle camere dove avevo abitato nella mia vita, finivo per ricordarmele tutte durante le lunghe fantasticherie che seguivano il risveglio: camere d'inverno dove, quando si è coricati, si ficca la testa in un nido messo insieme con le cose più disparate, un angolo del guanciale, l'estremità delle coperte, il capo d'uno scialle, il bordo del letto e un numero dei "Débats roses", (3) cementati infine tra loro con la tecnica degli uccelli, cioè posandovisi sopra un numero infinito di volte; dove, quando il tempo è glaciale, il piacere che si assapora è quello di sentirsi separati dall'esterno (come la rondine di mare che ha fatto il nido in fondo a un sotterraneo, nel calore della terra) e, poiché il fuoco è rimasto acceso tutta la notte nel camino, si dorme dentro un grande mantello d'aria calda e fumosa, attraversata dai bagliori dei tizzoni che si riaccendono, sorta d'impalpabile alcova, di calda caverna scavata all'interno della camera stessa, zona ardente e mobile nei suoi contorni termici, ventilata da soffi che ci rinfrescano il volto e vengono dagli angoli, dalle parti della stanza che, vicine alla finestra o lontane dal fuoco, si sono raffreddate; camere d'estate dove è bello essere uniti alla notte tiepida, dove il chiaro di luna che si posa sulle imposte socchiuse getta fino ai piedi del letto la sua scala incantata, dove si dorme quasi all'aria aperta, come la cincia cullata dalla brezza sulla cima d'un raggio; - a volte la camera Luigi Sedicesimo, (4) così allegra che nemmeno la prima sera mi ci ero sentito troppo infelice, e dove le colonnine che sostenevano con leggerezza il soffitto s'allargavano con tanta grazia per mostrare e difendere lo spazio del letto; - a volte, invece, quella - piccola e col soffitto così alto, scavata in forma di piramide nello spessore di due piani e rivestita in parte di mogano - dove, fin dal primo istante, ero stato moralmente intossicato dall'odore sconosciuto della vetiveria, certissimo dell'ostilità delle cortine viola e dell'indifferenza insolente della pendola che schiamazzava a tutto spiano come se io non ci fossi stato; dove una strana e impietosa specchiera quadrangolare, sbarrando obliquamente uno degli angoli della stanza, si scavava a vivo nella dolce pienezza del mio assuefatto campo visivo un posto non previsto; dove il mio pensiero, sforzandosi per ore di slogarsi, di stirarsi in altezza per prendere esattamente la forma della camera e riempire così fino in cima il suo imbuto gigantesco, aveva sofferto molte dure nottate, mentre giacevo nel letto con gli occhi alzati, l'orecchio ansioso, la narice aggricciata, il cuore in subbuglio, aspettando il momento in cui l'abitudine avrebbe mutato il colore delle tende, azzittito la pendola, insegnato la pietà allo specchio obliquo e crudele, dissimulato, se non proprio dissolto, l'odore della vetiveria, e alquanto alleggerito lo spessore apparente del 
soffitto. 
L'abitudine! arredatrice esperta, ma terribilmente lenta, che comincia con il lasciar soffrire il nostro spirito per settimane e settimane in una sistemazione provvisoria, ma che questo, nonostante tutto, è ben felice di trovare, giacché senza l'aiuto dell'abitudine, con i suoi soli mezzi, sarebbe del tutto incapace di renderci abitabile una casa. 
Certo, adesso ero ben sveglio, il mio corpo aveva compiuto un'ultima giravolta e il buon angelo della certezza aveva fermato ogni cosa intorno a me, mi aveva sistemato sotto le mie coperte, nella mia camera, e aveva messo più o meno al loro posto, nell'oscurità, il mio cassettone, il mio scrittoio, il mio caminetto, la finestra verso strada e le due porte. Ma non bastava ch'io sapessi di non trovarmi affatto nelle case di cui l'ignoranza del risveglio m'aveva in un istante, se non presentato l'immagine precisa, almeno fatto credere possibile la presenza; ormai la mia memoria s'era messa in moto; generalmente non cercavo di riaddormentarmi subito, e passavo la maggior parte della notte a ricordare la nostra vita d'un tempo a Combray, in casa della prozia, oppure a Balbec, a Parigi, a Doncières, a Venezia, in altri luoghi ancora, a ricordare i posti, le persone che vi avevo conosciute, quel che di loro avevo visto, quello che me ne avevano raccontato. 
A Combray ogni giorno, a cominciare dalla fine del pomeriggio, molto prima del momento in cui avrei dovuto essere messo a letto e restarmene lì senza dormire, lontano dalla mamma e dalla nonna, la mia camera da letto ridiventava il punto fisso e dolente delle mie preoccupazioni. 
Avevano sì escogitato, per distrarmi le sere in cui trovavano che avessi un'aria troppo infelice, di darmi una lanterna magica con la quale, aspettando l'ora di pranzo, veniva attrezzata la mia lampada; e che, nello stile dei primi architetti e maestri vetrai dell'età gotica, sostituiva all'opacità delle pareti iridescenze impalpabili, soprannaturali apparizioni multicolori dove alcune leggende erano dipinte come su una vetrata vacillante e momentanea. 
Ma la mia tristezza non ne era che accresciuta, giacché bastava la diversa illuminazione a distruggere l'abitudine che avevo della mia camera e grazie alla quale, escluso il supplizio dell'andare a dormire, essa mi era diventata sopportabile. 
Adesso non la riconoscevo più e ci stavo con inquietudine, come in una camera d'albergo o di "chalet" nella quale fossi arrivato per la prima volta scendendo dal treno. Al passo sussultante del suo cavallo, Golo, il cuore pieno d'un tremendo disegno, usciva dalla piccola foresta triangolare che vellutava di verde cupo il pendio d'una collina e avanzava a scatti verso il castello della povera Genoveffa di Brabante. (5) Il castello era smussato secondo una linea curva che altro non era se non il bordo di uno degli ovali di vetro, sistemati in un telaio, che s'infilavano tra le apposite guide della lanterna. 
Era soltanto un lembo di castello, davanti al quale si stendeva una landa: lì stava Genoveffa, pensierosa e con una cintura azzurra. 
Il castello e la landa erano gialli, e io non avevo dovuto vederli per conoscere il loro colore perché, prima dei vetrini della lanterna, me l'aveva mostrato con evidenza la sonorità "mordorée" (6) del nome di Brabante. 
Golo si fermava brevemente ad ascoltare con tristezza la dicitura letta ad alta voce dalla mia prozia e ch'egli aveva l'aria di capire alla perfezione, conformando il suo atteggiamento, con una docilità che non escludeva una certa regalità, alle indicazioni del testo; dopo di che s'allontanava con la stessa andatura a scatti. 
E non c'era niente che potesse arrestare la sua lenta cavalcata. 
Se si spostava la lanterna, vedevo il cavallo di Golo continuare la sua avanzata sulle tende della finestra, gonfiandosi delle loro pieghe, sprofondando nelle loro fessure. Il corpo dello stesso Golo, che era di un'essenza non meno soprannaturale di quello della sua cavalcatura, s'adattava a qualsiasi ostacolo materiale, a qualsiasi oggetto ingombrante che gli capitasse di incontrare, assumendolo come ossatura e rendendoselo interno, si trattasse anche della maniglia della porta alla quale si affrettava ad aderire e sulla quale galleggiavano invincibilmente la sua veste rossa e il suo volto pallido, di cui restavano inalterate la nobiltà e la malinconia, ma che non lasciava apparire il minimo turbamento per quella trasvertebrazione. 
Certo, trovavo affascinanti quelle brillanti proiezioni che sembravano emanare da un passato merovingio (7) e che facevano girare intorno a me così antichi riflessi di storia. E tuttavia non so dire quale disagio provocasse in me una simile intrusione del mistero e della bellezza in una camera che avevo, alla fine, così riempito del mio io da rendere l'una e l'altro oggetto di un'uguale attenzione. 
Venuto meno l'effetto anestetizzante dell'abitudine, mi mettevo a pensare, a sentire, cose talmente tristi! Quella maniglia della porta della mia camera, che differiva per me dalle maniglie di tutte le altre porte del mondo per il fatto che sembrava girare da sola, senza ch'io dovessi toccarla, tanto la manovra me n'era divenuta inconsapevole, ecco che, a un tratto, fungeva da corpo astrale di Golo. 
E, appena suonavano per il pranzo, raggiungevo di corsa la sala, dove la grossa lampada appesa, ignara di Golo e di Barbablù ma che sapeva tutto dei miei parenti e del manzo in casseruola, spandeva la sua luce d'ogni sera, e mi rifugiavo tra le braccia della mamma che le sventure di Genoveffa di Brabante mi rendevano più cara, così come i misfatti di Golo mi spingevano ad esaminare con maggiori scrupoli la mia propria coscienza. 
Dopo pranzo, ahimè, ero ben presto costretto a lasciare la mamma che restava a conversare con gli altri, in giardino se il tempo era bello o nel salottino dove tutti si ritiravano quando era brutto. 
Tutti tranne la nonna, la quale trovava che era un peccato restarsene al chiuso in campagna e aveva continue discussioni con mio padre, i giorni in cui pioveva troppo, perché mi mandava a leggere in camera invece di permettere che stessi fuori. 
Non è così che lo farete diventare energico e robusto, diceva tristemente, e proprio questo bambino, poi, che ha tanto bisogno di farsi un po' di forze e di volontà. 
Mio padre alzava le spalle e scrutava il barometro, perché amava la meteorologia, mentre mia madre, cercando di non far rumore per non disturbarlo, lo guardava con un rispetto intenerito, ma non troppo fissamente per non cercar di penetrare il mistero delle sue superiorità. 
Ma la nonna, qualsiasi tempo facesse, anche quando la pioggia imperversava e Franoise aveva ritirato a precipizio le preziose poltrone di vimini perché non si inzuppassero, la si vedeva, lei, nel giardino deserto e sferzato dall'acquazzone, scostare le sue ciocche disordinate e grigie perché la fronte potesse accogliere più liberamente la salubrità del vento e della pioggia. 
Finalmente si respira! diceva, e percorreva i fradici viali - troppo simmetricamente allineati, per i suoi gusti, dal nuovo giardiniere, sprovvisto del sentimento della natura e al quale mio padre aveva chiesto sin dal mattino se il tempo si sarebbe aggiustato - con il suo breve passo entusiasta e scattante, regolato sui differenti moti che eccitavano nel suo animo l'ebbrezza del temporale, la potenza dell'igiene, la stupidità della mia educazione e la simmetria del giardino, piuttosto che sul desiderio, a lei sconosciuto, di evitare alla sua gonna color prugna le macchie di fango sotto le quali finiva con lo scomparire fino a un'altezza che non mancava mai di rappresentare per la sua cameriera un dispiacere e un problema. Se questi giri in giardino della nonna avvenivano dopo pranzo, una cosa aveva il potere di farla rientrare: era - in uno di quei momenti nei quali la rivoluzione della sua passeggiata la riportava periodicamente, come un insetto, di fronte alle luci del salottino dove i liquori venivano serviti sul tavolo da gioco - quando la mia prozia le gridava: Bathilde! (8) vieni a dire a tuo marito che lasci stare il cognac!. 
In effetti, per stuzzicarla (lo spirito che lei aveva portato nella famiglia di mio padre era così diverso che tutti la prendevano in giro e la tormentavano ), la prozia induceva mio nonno, al quale i liquori erano proibiti, a berne qualche goccia. 
La nonna, poverina, correva dentro, pregava con ardore suo marito di non toccare il cognac; lui si seccava, beveva lo stesso il suo sorso, e la nonna se ne andava di nuovo, triste, scoraggiata e tuttavia sorridente, perché era così umile di cuore e così dolce che la sua tenerezza per gli altri e il poco conto che faceva della propria persona e delle proprie sofferenze si conciliavano nel suo sguardo in un sorriso nel quale, al contrario di quel che si vede sul volto di tanti esseri umani, non c'era ironia che per lei stessa, e per tutti noi qualcosa come un bacio dei suoi occhi che non potevano scorgere le persone a cui voleva bene senza accarezzarle appassionatamente con lo sguardo. 
Quel supplizio che le infliggeva la prozia, lo spettacolo delle vane preghiere della nonna e della debolezza, sconfitta in partenza, con cui cercava inutilmente di strappare al nonno il bicchierino del liquore, era una di quelle cose alle quali in seguito ci abituiamo fino a considerarle ridendo e a prendere le parti del persecutore in modo sufficientemente allegro e risoluto da renderci persuasi che non si tratta nemmeno di persecuzione; allora, esse mi ispiravano un tale orrore che avrei voluto picchiare la mia prozia. 
Ma appena sentivo: Bathilde, vieni a dire a tuo marito che lasci stare il cognac!, già uomo per viltà io facevo ciò che tutti, una volta diventati grandi, facciamo quando sofferenze e ingiustizie sono davanti a noi: mi rifiutavo di vederle; salivo a singhiozzare in alto in alto, accanto al locale dove studiavo, sotto il tetto, in una stanzetta che sentiva di giaggiolo e alla quale donava il suo profumo anche un ribes selvatico cresciuto all'esterno tra le pietre del muro e che insinuava un ramo fiorito attraverso la finestra socchiusa. 
Destinata a un uso più specifico e più volgare, quella stanza, dalla quale la vista spaziava di giorno fino al torrione di Roussainvillele-Pin, mi servì a lungo da rifugio, senza dubbio perché era l'unica che mi fosse consentito di chiudere a chiave, per tutte quelle tra le mie occupazioni che esigevano un'inviolabile solitudine: la lettura, le fantasticherie, le lacrime e il piacere. (9) Ahimè! ignoravo che assai più tristemente dei piccoli attentati del marito alla propria dieta, erano la mia mancanza di volontà, la mia salute delicata, l'incertezza che l'una e l'altra proiettavano sul mio futuro ad angustiare la nonna nel corso di quelle incessanti deambulazioni del pomeriggio e della sera, quando si vedeva passare e ripassare, obliquamente alzato verso il cielo, il suo bel volto dalle gote scure e segnate, fattesi col volgere degli anni d'un colore quasi malva come i campi arati in autunno, attraversate, quando usciva, da una veletta sollevata a metà, e sulle quali, condotto là dal freddo o da qualche triste pensiero, era sempre sul punto d'asciugarsi un pianto involontario. 
La mia unica consolazione, quando salivo a coricarmi, era che la mamma sarebbe venuta a darmi un bacio una volta che io fossi a letto. 
Ma quella buonanotte durava così poco, lei ridiscendeva così presto, che il momento in cui la sentivo salire, e poi nel corridoio a doppia porta trascorreva il lieve fruscio della sua veste da giardino in mussola azzurra dalla quale pendevano dei cordoncini di paglia intrecciata, era per me un momento doloroso. 
Esso era il preannuncio di quello che sarebbe seguito e nel quale lei mi avrebbe lasciato, sarebbe ridiscesa. 
E così, quella buonanotte che amavo tanto, mi spingevo sino ad augurarmi che arrivasse il più tardi possibile, perché si prolungasse il tempo di tregua durante il quale la mamma non era ancora venuta. 
A volte, quando dopo avermi baciato apriva la porta per uscire, io desideravo richiamarla, dirle dammi un altro bacio, ma sapevo che subito avrebbe avuto la sua espressione di disappunto, perché la concessione che faceva alla mia tristezza e alla mia agitazione salendo a darmi quel bacio, a portarmi quel bacio di pace, irritava mio padre che giudicava simili riti delle assurdità, e lei avrebbe voluto tentare di farmene perdere il bisogno, l'abitudine: altro che lasciarmi prendere quella di chiederle, quando già stava per oltrepassare la soglia, un nuovo bacio. 
Ora, vederla indispettita distruggeva tutta la calma di cui mi aveva riempito un istante prima chinando sul mio letto il suo viso amoroso, protendendolo verso di me come un'ostia per una comunione di pace dalla quale le mie labbra avrebbero attinto la sua presenza reale e il potere di addormentarmi. 
Ma quelle sere durante le quali la mamma, tutto sommato, restava così poco nella mia camera, erano ancora dolci in confronto a quelle in cui c'era gente a pranzo e lei, per questa ragione, non saliva a darmi la buonanotte. 
La gente, di solito, non era altri che il signor Swann, il quale, tolti alcuni estranei di passaggio, era più o meno l'unica persona che venisse a casa nostra a Combray, a volte per un pranzo tra vicini (più raramente da quando aveva fatto quel cattivo matrimonio, perché i miei parenti non volevano ricevere sua moglie), a volte dopo pranzo, senza preavviso. Le sere in cui, seduti davanti a casa sotto il grande castagno, intorno al tavolino di ferro, sentivamo dal fondo del giardino, non il sonaglio abbondante e chiassoso che sommergeva, che stordiva al passaggio, con il suo rumore gelido, implacabile e metallico, tutte le persone di casa che lo scatenavano entrando "senza suonare", ma il doppio tintinnio timido, ovale e dorato del campanello per gli estranei, tutti si affrettavano a chiedersi: Una visita, chi può essere?, ma si sapeva benissimo che non poteva essere che il signor Swann; la prozia, parlando a voce alta per essere d'esempio, in un tono che si sforzava di rendere naturale, diceva di non bisbigliare in quel modo; che niente è meno cortese nei confronti di una persona in arrivo e alla quale, così, si fa credere che stiamo parlando di qualcosa ch'essa non deve ascoltare; e si mandava in avanscoperta la nonna, sempre felice d'avere un pretesto per fare un altro giro del giardino, e che ne approfittava per strappare furtivamente, passando, qualche sostegno dei rosai per restituire alle rose un po' di naturalezza, come una madre che, per renderli più ariosi, passa una mano tra i capelli di suo figlio che il parrucchiere ha troppo appiattiti. 
Restavamo tutti sospesi alle notizie che la nonna ci avrebbe portate del nemico, come se si potesse esitare fra un gran numero di possibili assalitori, e subito dopo il nonno diceva: 
Riconosco la voce di Swann. 
In effetti lo si riconosceva soltanto dalla voce; il suo viso dal naso aquilino, dagli occhi verdi sotto l'alta fronte circondata di capelli biondi, quasi rossi, pettinati alla Bressant, (10) era molto difficile distinguerlo, dal momento che tenevamo il meno possibile di luce in giardino per non attirare le zanzare, e io, senza averne l'aria, andavo a dire che portassero gli sciroppi; la nonna attribuiva grande importanza, perché lo trovava più cortese, al fatto che questi non sembrassero qualcosa d'eccezionale, di riservato alle visite. Il signor Swann, pur essendo assai più giovane di lui, era molto legato a mio nonno, che era stato uno dei migliori amici di suo padre, uomo eccellente ma singolare nel quale, sembra, bastava a volte un niente per interrompere gli slanci del cuore, mutare il corso dei pensieri. 
Parecchie volte sentivo il nonno raccontare a tavola degli aneddoti, sempre gli stessi, sul comportamento tenuto dal signor Swann padre alla morte di sua moglie, ch'egli aveva vegliato giorno e notte. 
Il nonno, che non lo vedeva da molto tempo, era accorso da lui nella proprietà che gli Swann possedevano nei dintorni di Combray, ed era riuscito, per evitare che assistesse alla chiusura della bara, a fargli abbandonare per un istante, in lacrime, la camera mortuaria. 
Avevano fatto due passi nel parco, dove c'era un po' di sole. 
Tutt'a un tratto il signor Swann, stringendo il braccio di mio nonno, aveva esclamato: Ah, mio vecchio amico, che felicità passeggiare insieme con questo bel tempo! Non li trovate una delizia, tutti questi alberi, questi biancospini, e il mio stagno per il quale non mi avete ancora fatto i complimenti? Mi sembrate un tantino sbattuto. 
Lo sentite questo venticello? Ah, si ha un bel dire, ma nella vita c'è comunque del buono, mio caro Amédée!. 
Bruscamente il ricordo della moglie morta lo riassalì, e trovando senza dubbio troppo complicato indagare come in un simile momento avesse potuto cedere a un moto di gioia, egli si accontentò, con un gesto che gli era familiare ogni volta che una questione difficile si presentava alla sua mente, di passarsi la mano sulla fronte e di asciugarsi gli occhi e le lenti del "pincenez". 
E tuttavia non seppe consolarsi della morte della moglie, ma durante i due anni che le sopravvisse confidava a mio nonno: E' strano, penso molto spesso alla mia povera moglie, ma non riesco a pensarci più d'un tanto alla volta. 
Spesso ma poco alla volta, come il povero Swann padre era diventata una delle frasi favorite di mio nonno, che la pronunciava nelle occasioni più disparate. 
Avrei pensato che questo Swann padre fosse un mostro se il nonno, che consideravo il migliore dei giudici e le cui sentenze, che per me facevano giurisprudenza, mi hanno spesso aiutato, in seguito, ad assolvere colpe che sarei stato incline a condannare, non avesse protestato: Ma cosa dici? aveva un cuore d'oro!. 
Benché per parecchi anni, soprattutto prima del suo matrimonio, il signor Swann figlio venisse spesso a far loro visita a Combray, la mia prozia e i miei nonni non sospettarono mai ch'egli non viveva più nella società frequentata un tempo dalla sua famiglia, e che, sotto la sorta d'incognito assicuratagli in casa nostra dal nome di Swann, essi offrivano la loro ospitalità - con l'assoluta innocenza di onesti locandieri che danno alloggio, senza saperlo, a un famoso brigante - a uno dei più eleganti membri del Jockey-Club, (11) amico prediletto del conte di Parigi e del principe di Galles, (12) uno degli uomini più vezzeggiati nell'alta società del faubourg Saint-Germain. (13) L'ignoranza nella quale ci trovavamo 
circa la brillante vita mondana condotta da Swann dipendeva evidentemente, in parte, dalla riservatezza e dalla discrezione del suo carattere, ma anche dal fatto che i borghesi d'allora avevano della società un'idea un po' induista, nel senso che la consideravano composta di caste chiuse dove ciascuno si trovava collocato sin dalla nascita nello stesso rango occupato dai suoi genitori e al quale nulla, tranne gli imprevisti di una carriera straordinaria o di un matrimonio insperato, avrebbe potuto sottrarlo per farlo penetrare in una casta superiore. 
Il signor Swann padre era agente di cambio; "Swann figlio" si trovava dunque a far parte per tutta la vita di una casta all'interno della quale le fortune, come in una categoria di contribuenti, variavano da un minimo a un massimo di reddito. 
Si sapeva quali erano state le frequentazioni di suo padre, dunque si sapeva quali erano le sue, con quali persone era "in grado" di avere rapporti. 
Se ne conosceva di diverse, erano relazioni "da scapolo", sulle quali dei vecchi amici di famiglia, come erano i miei parenti, chiudevano gli occhi con maggiore indulgenza in considerazione del fatto che, da quando era rimasto orfano, egli aveva continuato molto fedelmente a farci visita; ma c'era da scommettere a colpo sicuro che le persone a noi sconosciute ch'egli frequentava erano di quelle che non avrebbe osato salutare se, trovandosi in nostra compagnia, gli fosse capitato d'incontrarle. 
Volendo a tutti i costi applicare a Swann un coefficiente sociale che lo distinguesse fra tutti i figli di agenti di cambio economicamente equivalenti ai suoi genitori, tale coefficiente sarebbe stato per lui leggermente inferiore dal momento che, molto semplice di modi e da sempre affetto da una "cotta" per gli oggetti antichi e la pittura, egli abitava allora in una vecchia palazzina dove stipava le sue collezioni e che mia nonna sognava di visitare, ma che si affacciava sul quai d'Orléans, (14) quartiere dove la mia prozia trovava indecente aver casa. 
Ve ne intendete davvero, poi? Ve lo chiedo nel vostro interesse, dovete farvi rifilare delle tali croste dai mercanti gli diceva la prozia; in effetti, non gli attribuiva la minima competenza, e non aveva certo una grande opinione, nemmeno dal punto di vista intellettuale, di un uomo che in conversazione evitava gli argomenti seri e sfoggiava una precisione assai prosaica, non soltanto quando ci forniva, entrando nei dettagli più minuti, delle ricette di cucina, ma persino quando le sorelle della nonna parlavano di argomenti artistici. Provocato da loro a dare il suo parere, a esprimere la sua ammirazione per un quadro, egli manteneva un silenzio quasi scortese, prendendosi la rivincita se poteva fornire sul museo dove il quadro si trovava, o sulla data in cui era stato dipinto, qualche informazione materiale. 
Ma perlopiù si limitava a cercare di divertirci raccontandoci ogni volta una nuova storia che gli era appena capitata con persone scelte tra quelle che conoscevamo, il farmacista di Combray, la nostra cuoca, il nostro cocchiere. 
Certo erano racconti che facevano ridere la mia prozia, ma senza che lei si rendesse ben conto se era per la parte ridicola che Swann immancabilmente vi si attribuiva o per lo spirito con cui sapeva raccontare: Si può dire che siete proprio un bel tipo, signor Swann!. 
Poiché era la sola persona un po' volgare della nostra famiglia, non mancava mai di far notare agli estranei, quando si parlava di Swann, che, se avesse voluto, avrebbe potuto abitare in boulevard Haussmann (15) o in avenue de l'Opéra, che il signor Swann suo padre doveva avergli lasciato quattro o cinque milioni e che, insomma, si trattava di una sua "fantasia". 
Fantasia che lei, del resto, stimava dover essere per gli altri così divertente che a Parigi, quando Swann veniva il giorno di capodanno a portarle il suo sacchetto di "marrons glacés", non tralasciava, se c'era gente, di dirgli: Ebbene, signor Swann, abitate sempre vicino al Deposito dei vini, per esser sicuro di non perdere il treno quando dovete andare a Lione?. 
E sbirciava di traverso, al di sopra dell'occhialetto, gli altri visitatori. 
Ma se qualcuno avesse detto alla mia prozia che quello Swann che, in quanto Swann figlio, era perfettamente "qualificato" per essere ricevuto da tutta la "buona borghesia", dai notai o procuratori più in vista di Parigi (privilegio ch'egli sembrava alquanto trascurare), aveva come di nascosto una vita affatto diversa, e quando usciva da casa nostra, a Parigi, dicendoci che andava a dormire, invertiva la direzione appena voltato l'angolo e si recava in un tale salotto che mai occhio d'agente o di socio d'agente poté contemplare, questo le sarebbe parso tanto straordinario quanto a una dama più letterata il pensiero d'essere in rapporti personali con Aristeo (16) sapendo che, dopo aver chiacchierato con lei, corre a sprofondarsi in seno ai reami di Teti, (17) in un impero sottratto alla vista dei mortali, dove Virgilio ce lo descrive ricevuto a braccia aperte; o, per stare a un'immagine che aveva più probabilità di venirle in mente, giacché l'aveva vista dipinta a Combray sui nostri piattini da dolci, quanto aver avuto a pranzo Alì Babà, il quale, appena sarà certo d'essere solo, s'infilerà nella sua caverna abbagliante di tesori insospettati. 
Una volta che era venuto a trovarci a Parigi, dopo pranzo, scusandosi d'essere in abito da sera, e Franoise, dopo che lui se n'era andato, aveva detto di aver sentito dal cocchiere che aveva pranzato da una principessa, - Sì, una principessa del "demi-monde"! aveva risposto la zia alzando le spalle, senza sollevare gli occhi dal suo lavoro a maglia, con serena ironia. 
C'era persino, nel suo modo di trattarlo, una familiarità un po' sprezzante. 
Poiché era convinta ch'egli dovesse sentirsi lusingato dai nostri inviti, le pareva del tutto naturale che non venisse mai a trovarci, d'estate, senza avere in mano un cestino di pesche o di lamponi del suo giardino, e che da ciascuno dei suoi viaggi in Italia m'avesse portato delle fotografie di capolavori. 
Non ci si faceva il minimo scrupolo di mandargli a chiedere, in caso di bisogno, una ricetta di salsa "gribiche" (18) o di insalata all'ananas per qualche pranzo importante al quale non lo si invitava, non riconoscendogli un prestigio sufficiente per poterlo ammannire ad estranei che venivano per la prima volta. 
Se la conversazione cadeva sui principi della Casa di Francia: gente che né voi né io conosceremo mai, e ne facciamo benissimo a meno, non è vero?, diceva la mia prozia a Swann che magari aveva in tasca una lettera da Twickenham; (19) gli faceva spostare il pianoforte e voltare le pagine dello spartito le sere in cui la sorella della nonna cantava, usando, nel maneggiare quella creatura altrove così ricercata, la rozzezza ingenua di un bambino che gioca con un ninnolo da collezione senza precauzioni maggiori che con un oggetto da pochi soldi. 
Non c'è dubbio che lo Swann conosciuto negli stessi anni da tanti frequentatori del Jockey era assai diverso da quello al quale dava vita la mia prozia quando di sera, nel piccolo giardino di Combray, dopo ch'erano risuonati i due esitanti rintocchi del campanello, iniettava e irrobustiva con tutto ciò che sapeva della famiglia Swann l'oscuro e incerto personaggio che si disegnava, seguito dalla nonna, su uno sfondo di tenebre, e veniva riconosciuto dalla voce. 
Ma anche al livello delle cose più insignificanti della vita, noi non siamo un tutto materialmente costituito, identico per tutti e di cui ciascuno non deve far altro che prendere conoscenza come di un capitolato d'appalto o di un testamento; la nostra personalità sociale è una creazione del pensiero degli altri. 
Persino l'atto così elementare che chiamiamo "vedere una persona conosciuta" è in parte un atto intellettuale. 
Noi riempiamo l'apparenza fisica dell'individuo che vediamo con tutte le nozioni che possediamo sul suo conto, e nell'immagine totale che di lui ci rappresentiamo queste nozioni hanno senza alcun dubbio la parte più considerevole. 
Esse finiscono per gonfiare con tanta perfezione le sue guance, per seguire con tale esatta aderenza la linea del suo naso, si incaricano così efficacemente di sfumare la sonorità della sua voce, come se si trattasse soltanto di un involucro trasparente, che ogni volta che vediamo quel viso e sentiamo quella voce sono loro, le nozioni, a presentarsi al nostro sguardo, a offrirsi al nostro ascolto. 
Certo, nello Swann costruito dai miei parenti essi avevano omesso per ignoranza di far entrare una quantità di dettagli della sua vita mondana, che erano poi quelli in virtù dei quali altre persone, trovandosi di fronte a lui, vedevano ogni sorta di eleganza regnare sul suo volto e arrestarsi al suo naso aquilino come a un naturale confine; ma è anche vero che in quel volto sconsacrato del suo prestigio, vacante e spazioso, in fondo a quegli occhi deprezzati, erano riusciti a stipare il vago e dolce residuo - metà memoria, metà oblio - delle pigre ore passate insieme dopo i nostri pranzi settimanali, intorno al tavolo da gioco o in giardino, durante la nostra vita di buon vicinato campagnolo. 
L'involucro corporeo del nostro amico ne era stato così ben imbottito, con l'aggiunta di qualche ricordo relativo ai suoi genitori, che quello Swann era diventato un essere completo e vivente, e io ho l'impressione di abbandonare qualcuno per andare verso un'altra e ben distinta persona quando dallo Swann che ho conosciuto più tardi con esattezza passo nella mia memoria a quel primo Swann - a quel primo Swann nel quale ritrovo gli incantevoli errori della mia giovinezza e che d'altronde assomiglia meno all'altro, al secondo, che non alle persone da me conosciute nello stesso periodo, come se succedesse nella nostra vita quel che succede in un museo dove tutti i ritratti d'una stessa epoca hanno un'aria di famiglia, una tonalità comune - a quel primo Swann riempito di buon ozio, profumato dell'odore del grande castagno, dei cestini di lamponi e d'un sentore di dragoncello. (20) Tuttavia, un giorno che la nonna era andata a chiedere un favore a una signora che aveva conosciuta al Sacré-Coeur (21) (e con la quale, a causa della nostra concezione delle caste, non aveva voluto restare in relazione nonostante una reciproca simpatia), la marchesa di Villeparisis, della celebre famiglia di Bouillon, questa le aveva detto: Credo che voi conosciate bene il signor Swann, che è molto amico dei miei nipoti des Laumes. 
La nonna era tornata da quella visita piena di entusiasmo per la casa che guardava su dei giardini e dove Madame de Villeparisis le consigliava di prendere in affitto un appartamento, e anche per un sarto di panciotti e sua figlia che avevano bottega nel cortile e dai quali era entrata per chiedere di dare un punto alla sua gonna, strappatasi lungo la scala. 
La nonna li aveva trovati perfetti, affermava che la ragazza era una perla e che il sarto era il più distinto e il migliore degli uomini. 
Per lei, infatti, la distinzione era qualcosa di assolutamente indipendente dal rango sociale. 
Si estasiava ripensando a una risposta datale dal sarto, e diceva alla mamma: Sévigné (22) non avrebbe trovato di meglio! e viceversa, di un nipote di Madame de Villeparisis (23) incontrato in casa di quest'ultima: Ah, figlia mia, com'è ordinario!. 
Ebbene, quel discorso ebbe nell'immaginazione della mia prozia non già l'effetto di innalzare Swann, ma quello di abbassare Madame de Villeparisis. 
Era come se la considerazione che noi, sulla parola della nonna, accordavamo a Madame de Villeparisis le imponesse il dovere di non far nulla che la rendesse meno degna di esserne l'oggetto, dovere al quale lei era venuta meno accorgendosi dell'esistenza di Swann e permettendo a dei suoi parenti di frequentarlo. 
Ma come! conosce Swann? E sarebbe, come tu sostieni, una parente del maresciallo di Mac-Mahon? (24) Questa opinione dei miei parenti sulle relazioni di Swann parve, ai loro occhi, ricevere conferma dal suo matrimonio con una donna della peggiore società, quasi una "cocotte", che lui, d'altronde, non cercò mai di presentarci, continuando a venire a casa nostra da solo, anche se sempre più di rado, ma dalla quale essi credettero di poter giudicare - supponendo che fosse lì che l'aveva presa - l'ambiente, a loro sconosciuto, ch'egli frequentava abitualmente. 
Una volta, però, mio nonno lesse in un giornale che Swann era uno dei più fedeli "habitués" delle colazioni domenicali in casa del duca di X..., il cui padre e il cui zio erano stati gli uomini politici più in vista del regno di Luigi Filippo. 
Ora, il nonno era curioso di tutti i piccoli fatti che potessero aiutarlo a penetrare idealmente nella vita privata di uomini come Molé, come il duca Pasquier, come il duca di Broglie. 
(25) Fu deliziato di sapere che Swann frequentava qualcuno che li aveva conosciuti. 
La prozia, al contrario, interpretò la notizia in senso sfavorevole a Swann: uno che sceglieva di frequentare persone al di fuori della casta in cui era nato, al di fuori della sua "classe" sociale, subiva ai suoi occhi un increscioso declassamento. 
Le sembrava che in tal modo si rinunciasse in un colpo solo al profitto di tutte le buone relazioni con gente "a posto" onorevolmente intrattenute e accumulate per i figli dalle 
famiglie previdenti (aveva persino smesso di vedere un nostro amico, figlio d'un notaio, perché aveva sposato una principessa ed era così precipitato, per lei, dal rispettabile rango di figlio di notaio al livello di uno di quegli avventurieri, ex-camerieri o garzoni di scuderia, ai quali si dice che le regine, di tanto in tanto, concedessero qualche favore). 
La prozia biasimò il progetto del nonno di interrogare Swann, che sarebbe venuto a pranzo da noi la sera successiva, sugli amici che gli avevamo appena scoperti. 
Dal canto loro le due sorelle della nonna, anziane signorine che avevano la sua stessa nobiltà d'animo ma non la sua intelligenza, dichiararono di non capire quale piacere il cognato potesse trarre dal discorrere di simili sciocchezze. 
Erano persone di elevate aspirazioni e proprio per questo incapaci di interessarsi a un pettegolezzo, fosse pure di interesse storico, e in generale a tutto quanto non avesse direttamente a che fare con un oggetto estetico o virtuoso. 
Il loro disinteresse nei confronti di tutto ciò che sembrava più o meno vagamente riferirsi alla vita mondana era tale che il loro senso dell'udito - avendo finito con il rendersi conto della propria momentanea inutilità ogni volta che a tavola la conversazione assumeva un tono frivolo o semplicemente terra terra ad onta dei tentativi delle due zitelle di riportarla agli argomenti da loro preferiti metteva a riposo gli organi di ricezione, lasciando che subissero un vero e proprio principio di atrofia. 
Se, in quei casi, il nonno aveva bisogno di attirare l'attenzione delle due sorelle, gli toccava far ricorso a quei segnali fisici di cui si servono i medici alienisti con certi maniaci della distrazione: colpi battuti a più riprese su un bicchiere con la lama di un coltello, accompagnati da un brusco richiamo della voce e dello sguardo - mezzi violenti che gli psichiatri trasferiscono non di rado nei loro normali rapporti con persone sane, sia per abitudine professionale, sia perché sono convinti che tutti quanti siamo un po' matti. Le due manifestarono maggior interesse quando, la vigilia di un giorno in cui Swann doveva venire a pranzo e aveva mandato personalmente a loro una cassa di vino d'Asti, la zia, con in mano un numero del "Figaro" sul quale, a fianco del titolo d'un quadro esposto a una mostra di Corot, c'erano queste parole: "collezione del signor Charles Swann", ci disse: Avete visto che Swann è "assurto agli onori" del "Figaro"? - Ma ve l'ho sempre detto che ha molto gusto, disse la nonna. - Eh già, naturale, a te basta avere un parere diverso dal nostro, replicò la prozia che, sapendo che la nonna non era mai del suo stesso parere e non essendo ben sicura che noi, a nostra volta, fossimo sempre d'accordo con lei, voleva strapparci una condanna in blocco delle opinioni della nonna contro le quali tentava di farci solidarizzare per forza con le sue. 
Ma noi restammo in silenzio. 
Le sorelle della nonna avevano manifestato l'intenzione di parlare a Swann di quell'accenno del "Figaro", ma la prozia le sconsigliò. 
Ogni volta che scorgeva negli altri un privilegio, per quanto minuscolo, che lei non aveva, si persuadeva che non era un privilegio, ma un fastidio, e li compiangeva per non essere costretta ad invidiarli. 
Credo che non gli fareste piacere; io sono sicura che mi riuscirebbe molto sgradevole vedere il mio nome spiattellato così sul giornale. e non sarei affatto lusingata se qualcuno me ne parlasse. 
Tuttavia non si ostinò a voler convincere le sorelle della nonna, dal momento che queste, per orrore della volgarità, portavano a tali vertici l'arte di dissimulare sotto perifrasi ingegnose qualsiasi allusione personale, che l'allusione stessa passava molte volte inosservata anche da parte di colui al quale era rivolta. 
Quanto a mia madre, pensava solo a cercar di ottenere da mio padre che parlasse a Swann non della moglie, ma della figlia che Swann adorava e a causa della quale, si diceva, aveva finito col fare quel matrimonio. 
Potresti dirgli appena una parola, chiedergli come sta. 
Dev'essere talmente crudele, per lui. 
Ma mio padre si seccava: Ma no! che idee assurde. 
Sarebbe ridicolo. 
Tuttavia, il solo tra noi per il quale una visita di Swann divenisse oggetto di una preoccupazione dolorosa ero io. 
Le sere in cui c'erano degli estranei, o semplicemente Swann, la mamma, infatti, non saliva nella mia camera. 
Pranzavo prima di tutti gli altri, e più tardi potevo sedermi a tavola ma soltanto fino alle otto, ora in cui era convenuto che salissi; quel bacio prezioso e fragile che di solito la mamma mi affidava mentre ero nel mio letto e sul punto di addormentarmi, mi toccava trasportarlo dalla sala da pranzo alla mia camera e tenerlo in serbo per tutto il tempo che impiegavo a spogliarmi, senza che la sua dolcezza si incrinasse, senza che si versasse o evaporasse il suo volatile potere, e proprio quelle sere in cui avrei avuto bisogno di riceverlo con maggior precauzione ero costretto ad afferrarlo, a portarlo via bruscamente, pubblicamente, senza nemmeno avere il tempo e la libertà di spirito necessari per mettere in quel che facevo la speciale attenzione dei maniaci che si sforzano di non pensare a nient'altro mentre chiudono una porta, per poter poi opporre al ritorno della loro incertezza morbosa il vittorioso ricordo del momento nel quale l'hanno chiusa. 
Eravamo tutti in giardino quando risuonarono i due esitanti squilli del campanello. 
Sapevamo che era Swann; nondimeno tutti si guardarono con aria interrogativa e la nonna fu mandata in ricognizione. 
Cercate di ringraziarlo per il vino in un modo comprensibile, sapete che è delizioso e che la cassa è enorme, raccomandò mio nonno alle due cognate. 
Non cominciate a bisbigliare, disse la prozia. 
E' un vero divertimento arrivare in una casa dove tutti parlano sottovoce! - Ah, ecco il signor Swann. 
Gli chiederemo se domani, secondo lui, ci sarà bel tempo, disse mio padre. 
Mia madre pensava che con una parola avrebbe potuto cancellare tutta la pena che la nostra famiglia doveva aver causato a Swann dopo il suo matrimonio. Trovò il modo di condurlo un po' in disparte. 
Ma io la seguii; non potevo decidermi ad abbandonarla d'un solo passo, pensando che prestissimo avrei dovuto lasciarla nella sala da pranzo e salire nella mia camera senza avere come le altre sere la consolazione che sarebbe venuta a baciarmi. 
A proposito, signor Swann, gli disse la mamma, parlatemi un po' di vostra figlia; sono sicura che avrà già il gusto delle cose belle come il suo papà. - Coraggio, venite a sedervi con noi sotto la veranda, disse il nonno avvicinandosi. 
Mia madre dovette interrompersi, ma persino da questa costrizione riuscì a trarre un pensiero delicato in più, come un buon poeta obbligato dalla tirannia della rima a escogitare le sue maggiori bellezze: Riparleremo di lei quando saremo soli, disse a Swann abbassando la voce. 
Solo una mamma è degna di capirvi. 
Sono sicura che la sua sarebbe del mio stesso parere. 
Ci mettemmo tutti a sedere intorno al tavolino di ferro. 
Avrei voluto non pensare alle ore d'angoscia che mi aspettavano quella sera, solo nella mia camera e incapace di addormentarmi; cercavo di persuadermi che esse non avevano alcuna importanza perché domattina le avrei dimenticate, di attaccarmi a delle idee di futuro che avrebbero dovuto condurmi, come su un ponte, al di là dell'abisso imminente che mi terrorizzava. 
Ma il mio spirito teso dalla preoccupazione, reso convesso come lo sguardo che lanciavo di continuo a mia madre, era impenetrabile a qualsiasi impressione esterna. 
I pensieri vi entravano sì, ma a patto di lasciar fuori tutti gli elementi belli o semplicemente buffi che avrebbero potuto colpirmi o distrarmi. 
Simile a un malato che grazie a un anestetico assiste in piena lucidità, ma senza sentire nulla, a un'operazione eseguita sul suo corpo, potevo recitarmi dei versi che amavo o osservare gli sforzi che faceva il nonno per parlare a Swann del duca d'Audiffret-Pasquier, (26) senza che i primi mi ispirassero alcuna emozione o i secondi alcuna allegria. 
Furono, comunque, sforzi infruttuosi. 
Non appena il nonno ebbe posto a Swann una domanda relativa a quell'oratore, una delle sorelle della nonna, alle cui orecchie la domanda era risuonata come un silenzio tanto profondo quanto intempestivo che la buona educazione imponeva di infrangere, interpellò l'altra: Figurati, Céline, che ho fatto la conoscenza di una giovane istitutrice svedese dalla quale ho saputo dei particolari incredibilmente interessanti sulle cooperative nei paesi scandinavi. 
Bisognerà che venga a pranzo da noi, una sera. 
Lo credo bene! ribatté sua sorella Flora, ma anch'io non ho perso il mio tempo. 
A casa del signor Vinteuil ho incontrato un vecchio scienziato che conosce molto bene Maubant (27) e al quale Maubant ha spiegato in ogni dettaglio come fa a preparare una parte. 
E' incredibilmente interessante. 
E' un vicino del signor Vinteuil, io non ne sapevo nulla; ed è molto, molto gentile. - Il signor Vinteuil non è il solo ad avere dei vicini gentili, esclamò zia Céline con una voce resa acuta dalla timidezza e artificiosa dalla premeditazione, rivolgendo intanto a Swann quello che lei chiamava uno sguardo significativo. 
Nel frattempo zia Flora, resasi conto che quella frase era il ringraziamento di Céline per il vino d'Asti, guardava a sua volta Swann con un'aria insieme di congratulazione e di ironia, o per sottolineare semplicemente la battuta della sorella, o perché invidiava a Swann d'esserne stato l'ispiratore, o perché, credendolo al centro dell'attenzione generale, non poteva fare a meno di burlarsi un poco di lui. 
Credo che potremmo riuscire ad avere quel signore a pranzo, continuò Flora; quando si porta il discorso su Maubant o sulla Materna (28) parla per ore senza fermarsi. - Dev'essere delizioso, sospirò il nonno, nella cui testa la natura aveva sfortunatamente omesso di inserire la possibilità di un appassionato interesse per le cooperative svedesi o per la preparazione delle parti di Maubant in modo non meno radicale di come s'era scordata di dotare quelle delle sorelle della nonna del granellino di sale che bisogna aggiungere da sé, per trovarci un qualche sapore, a un racconto sulla vita intima di Molé o del conte di Parigi. 
Ecco, disse Swann a mio nonno, quel che vi dirò ha a che vedere più di quanto non sembri con l'argomento di cui mi chiedevate, visto che sotto certi aspetti le cose non sono poi molto cambiate. 
Rileggevo stamattina in Saint-Simon qualcosa che vi avrebbe divertito. 
E' nel volume sulla sua ambasceria in Spagna; non è dei migliori, in sostanza non è che un giornale, ma perlomeno un giornale scritto stupendamente, il che già lo distingue dagli spaventosi giornali che ci crediamo tenuti a leggere mattina e sera. 
Non sono del vostro parere, certe volte la lettura dei giornali mi sembra molto gradevole..., interruppe zia Flora per far capire che aveva letto nel "Figaro" la frase sul Corot di Swann. 
Quando parlano di cose o di persone che ci interessano! incalzò zia Céline. 
Non dico di no, replicò Swann meravigliato. 
Quel che io rimprovero ai giornali è di farci prestare attenzione ogni giorno a cose insignificanti, mentre non leggiamo che tre o quattro volte in tutta la vita i libri dove ci sono cose essenziali. 
E poiché ogni mattina strappiamo febbrilmente la fascetta del giornale, allora bisognerebbe invertire le cose e mettere nel giornale, che so, i... "Pensieri" di Pascal! (egli isolò queste ultime parole sottolineandole con enfasi ironica per non avere l'aria pedante). 
Mentre è in uno di quei volumi col taglio dorato che apriamo una volta ogni dieci anni, aggiunse dando prova dell'affettato disdegno per le cose mondane tipico di certi uomini di mondo, che dovremmo leggere che la regina di Grecia è andata a Cannes o che la principessa di Léon ha dato un ballo in costume. 
Così le giuste proporzioni sarebbero ristabilite. 
Ma, pentito d'essersi lasciato andare a parlare sia pure in tono leggero di cose serie: Stiamo facendo proprio dei bei discorsi, aggiunse con ironia, non so davvero perché abbiamo affrontato simili "vertici"; e volgendosi verso il nonno: Dunque, racconta Saint-Simon che Maulévrier (29) aveva avuto l'audacia di tendere la mano ai suoi figli. 
E', sapete, quel Maulévrier di cui dice: "Mai altro ho visto in quella spessa bottiglia che malevolenza, zoticaggine e stupidità". 
Spesse o no, conosco bottiglie che contengono ben altro, disse vivacemente Flora, che ci teneva a ringraziare a sua volta Swann poiché l'omaggio del vino d'Asti era indirizzato ad entrambe. 
Céline si mise a ridere. 
Swann, interdetto, riprese: Non so se per ignoranza o raggiro, scrive Saint-Simon, egli volle dar la mano ai miei figli. 
Me ne avvidi in tempo per impedirglielo. (30) Il nonno si stava estasiando per "ignoranza o raggiro", ma già Mademoiselle Céline, nella quale il nome di Saint-Simon - un letterato - aveva impedito l'anestesia totale delle facoltà auditive, si stava indignando: Come! e voi ammirate un comportamento simile? Ma bene! davvero grazioso! Che cosa vorrebbe dire, poi: forse che un uomo non vale quanto un altro? Che importanza può avere che sia duca o cocchiere, se è intelligente e generoso? Aveva proprio un bel modo di educare i suoi figli, il vostro Saint-Simon, se non gli diceva di stringere la mano a tutte le persone oneste. 
E' abominevole, semplicemente abominevole. 
E avete il coraggio di raccontarlo?. 
E il nonno, desolato, conscio dell'impossibilità, di fronte a un simile ostruzionismo, di ottenere che Swann gli raccontasse le storie che lo avrebbero deliziato, diceva alla mamma a bassa voce: Ti prego, ricordami quel verso che mi hai insegnato e che mi dà tanto sollievo in questi momenti. 
Ah sì: "Quante virtù, Signore, tu ci fai detestare!". (31) Ah, com'è giusto!. 
Con gli occhi non lasciavo mia madre, sapevo che, una volta a tavola, non mi sarebbe stato permesso di restare per tutta la durata del pranzo e che, per non contrariare mio padre, la mamma non si sarebbe lasciata baciare a più riprese davanti agli altri come se fossimo stati in camera mia. 
Così mi ripromettevo, in sala da pranzo, quando si fosse cominciato a mangiare e io avessi sentito avvicinarsi l'ora, di fare in anticipo, riguardo a quel bacio che sarebbe stato così breve e furtivo, tutto ciò che potevo fare da solo, di scegliere con lo sguardo il punto della guancia che avrei baciato, di preparare il mio pensiero in modo da riuscire, grazie a quel mentale inizio di bacio, a consacrare per intero il minuto accordatomi dalla mamma a sentire il suo viso contro le mie labbra, simile a un pittore che, potendo contare solo su brevi sedute di posa, prepara la sua tavolozza e fa in anticipo a memoria, basandosi sugli appunti, tutto ciò per cui può a stretto rigore fare a meno della presenza del modello. 
Ma ecco che prima che il pranzo fosse servito il nonno ebbe la ferocia incosciente di dire: Il piccolo ha l'aria stanca, dovrebbe andare a letto. 
Stasera, del resto, si pranza tardi. 
E mio padre, che non teneva così scrupolosamente fede ai trattati come la nonna e la mamma, disse: Sì, andiamo, vai a letto. 
Feci per baciare mia madre, proprio in quell'istante risuonò la campanella del pranzo. 
Ma no, via, lascia stare tua madre, vi siete già detti buonanotte a sufficienza, queste manifestazioni sono ridicole. 
Coraggio, sali! E mi toccò andare senza viatico; mi toccò salire gradino dopo gradino la scala, come dice l'espressione popolare, di "controcuore", letteralmente contro il mio cuore che voleva tornare accanto a mia madre, la quale non gli aveva concesso, con il suo bacio, licenza di venire con me. 
Quella scala odiatissima che imboccavo sempre con tanta tristezza esalava un odore di vernice che aveva in qualche modo assorbito, fissato il particolare tipo di sofferenza che io provavo ogni sera, e la rendeva forse ancora più crudele per la mia sensibilità perché, in quella forma olfattiva, la mia intelligenza non poteva più prendervi parte. Quando dormiamo e non percepiamo ancora un mal di denti se non come una ragazza che tentiamo duecento volte di fila di salvare dall'acqua o come un verso di Molière che continuiamo a ripeterci senza sosta, è un vero sollievo svegliarci e liberare con l'intelligenza il mal di denti da ogni camuffamento eroico o cadenzato. 
Era l'esatto rovescio di tale sollievo ciò che io provavo quando il dispiacere di salire in camera mia entrava dentro di me in un modo infinitamente più rapido, quasi istantaneo, insidioso e brusco al tempo stesso, attraverso l'inalazione - molto più tossica di un'infiltrazione morale dell'odore di vernice tipico di quella scala. 
Una volta in camera, mi toccò bloccare tutte le uscite, chiudere le imposte, scavarmi da me la mia tomba sistemando le coperte, indossare il sudario della camicia da notte. Ma prima di seppellirmi nel letto di ferro che avevano aggiunto nella camera perché d'estate avevo troppo caldo sotto le cortine di "reps" (32) del lettone, ebbi un moto di rivolta, volli tentare un espediente da condannato. 
Scrissi a mia madre supplicandola di salire per una cosa grave che non potevo dirle per lettera. 
Il mio terrore era che Franoise, la cuoca della zia, che era incaricata di occuparsi di me quando mi trovavo a Combray, si rifiutasse di consegnare il biglietto. 
Supponevo che fare una commissione destinata a mia madre quando c'erano degli invitati dovesse sembrarle tanto impossibile quanto al portiere d'un teatro recapitare una lettera a un attore mentre questi è in scena. 
Sulle cose che si possono o non si possono fare il codice al quale lei si atteneva era ferreo e circostanziato, sottile e intransigente riguardo a distinzioni oziose o inafferrabili (ciò che gli conferiva l'aspetto di quelle leggi antiche dove accanto a prescrizioni feroci, per esempio di massacrare i fanciulli al seno delle madri, si proibisce con delicatezza esagerata di far bollire il capretto nel latte materno o di mangiare il nervo della coscia di un determinato animale). 
Era un codice che, a giudicare dall'improvvisa ostinazione con la quale lei si rifiutava di eseguire certe commissioni che le venivano affidate, aveva previsto, si sarebbe detto, complessità sociali e ricercatezze mondane che nulla, nell'ambiente di Franoise e nella sua vita di domestica di paese, poteva averle suggerito; e si era costretti a concludere che in lei era vivo un passato francese antichissimo, nobile e incompreso, come in certe città manifatturiere dove qualche vecchio palazzo testimonia la remota esistenza di una vita di corte e dove gli operai di una fabbrica di prodotti chimici lavorano in mezzo a fini sculture che rappresentano il miracolo di san Teofilo (33) o i quattro figli di Aimone. (34) Nel caso specifico, l'articolo del codice in base al quale era poco probabile che, salvo il caso di incendio, Franoise andasse a disturbare la mamma in presenza del signor Swann per un personaggio di scarso rilievo come me, non aveva altro contenuto che il rispetto da lei professato non solo per i genitori - così come per i morti, i preti e i re - ma anche per lo straniero al quale si sia data ospitalità, rispetto che mi avrebbe forse impressionato in un libro ma che in bocca a lei mi irritava sempre a causa del tono grave e commosso con il quale ne parlava, tanto più quella sera in cui il carattere sacro rivestito ai suoi occhi dal pranzo l'avrebbe spinta al rifiuto di turbare la cerimonia. 
Ma per assicurarmi almeno qualche possibilità, non esitai a mentirle, dicendole che non ero assolutamente io a voler scrivere alla mamma ma era stata lei che, lasciandomi, mi aveva raccomandato di non dimenticare di farle avere una risposta a proposito di qualcosa che m'aveva pregato di cercarle; e si sarebbe certo molto arrabbiata se non le fosse stato consegnato il biglietto in questione. 
Io penso che Franoise non mi abbia creduto, giacché, come gli uomini primitivi i cui sensi erano molto più acuti dei nostri, era capace di discernere immediatamente, da segni per noi impercettibili, qualsiasi verità le volessimo nascondere; per cinque minuti fissò la busta, come se l'esame della carta e l'aspetto della scrittura dovessero informarla circa la natura del contenuto o indicarle a quale articolo del suo codice far riferimento. 
Poi se ne andò con un'aria rassegnata che sembrava significare: Che disgrazia, per dei genitori, avere un figlio così!. 
Tornò dopo un istante a dirmi che erano solo al gelato, che il maggiordomo non poteva certo consegnare la lettera in quel momento davanti a tutti, ma che quando avessero portato i "rince-bouches" (35) avrebbe trovato il modo di farla arrivare alla mamma. 
Subito la mia ansia cadde; adesso non era più fino a domani, come un attimo prima, che avevo lasciato mia madre, giacché il mio biglietto, non potendo non irritarla (e a maggior ragione in quanto quel maneggio rischiava di rendermi ridicolo agli occhi di Swann), mi avrebbe fatto entrare estasiato e invisibile nella sua stessa stanza, le avrebbe parlato di me all'orecchio; e quella sala da pranzo proibita, ostile, dove, ancora un istante prima, lo stesso gelato - la "granita" -, gli stessi "rince-bouches" mi sembravano racchiudere voluttà malefiche e mortalmente malinconiche perché la mamma le assaporava lontano da me, mi si apriva simile a un frutto che, divenuto dolce, fa scoppiare il suo involucro, sul punto di sprizzare, di proiettare fino al mio cuore inebriato l'attenzione della mamma nel momento in cui avrebbe letto le mie parole. Adesso non ero più separato da lei; le barriere erano cadute, un filo delizioso ci univa. 
E non era tutto: la mamma, certo, sarebbe venuta! L'angoscia che avevo appena finito di provare, pensavo che Swann se ne sarebbe senz'altro beffato se avesse letto la mia missiva e ne avesse indovinato lo scopo; e invece, come ho appreso in seguito, un'angoscia simile fu per lunghi anni il tormento della sua vita, e nessuno, forse, avrebbe potuto capirmi meglio di lui; a lui, quell'angoscia che si prova sentendo l'essere al quale si vuol bene in un luogo di piacere dove noi non siamo, dove non possiamo raggiungerlo, è l'amore che l'ha fatta conoscere, l'amore cui è in qualche modo predestinata, da cui sarà accaparrata, specializzata; ma quando, come nel mio caso, essa è entrata dentro di noi prima ancora che quello abbia fatto la sua apparizione nella nostra vita, allora, aspettandolo, fluttua libera e vaga, priva di una destinazione precisa, al servizio un giorno di un sentimento, l'indomani di un altro, ora della tenerezza filiale, ora dell'amicizia per un compagno. 
E la gioia della quale io feci il primo apprendistato quando Franoise tornò a dirmi che la mia lettera sarebbe stata consegnata, Swann l'aveva conosciuta bene anche lui, quella gioia ingannevole che ci dà qualche amico, qualche parente della donna che amiamo quando, arrivando al palazzo o al teatro in cui lei si trova per qualche ballo o ricevimento o "première" dove l'incontrerà a momenti, ci vede, questo amico, che vaghiamo fuori, in disperata attesa di un'occasione qualsiasi di comunicare con lei. 
Ci riconosce, ci abborda familiarmente, ci chiede che cosa facciamo in quel luogo. 
E siccome inventiamo di avere qualcosa di urgente da dire alla sua parente o amica, lui ci assicura che non c'è niente di più semplice, ci fa entrare nel vestibolo e ci promette che ce la manderà entro cinque minuti. 
Come l'amiamo - esattamente come io in quel momento amavo Franoise - quell'intermediario bene intenzionato che con una parola ci ha reso sopportabile, umana e quasi propizia la festa inimmaginabile, infernale, nelle cui spire credevamo che turbini ostili, perversi e deliziosi trascinassero lontano da noi, facendola ridere di noi, colei che amiamo! A giudicare da lui, dal parente che ci è venuto vicino e che è a sua volta un iniziato di quei crudeli misteri, gli altri invitati della festa non devono avere niente di così demoniaco. 
Quelle ore inaccessibili e torturanti durante le quali lei avrebbe gustato piaceri sconosciuti, ecco che, per una breccia insperata, anche noi vi penetriamo; ecco che uno dei momenti la cui successione le avrebbe composte, un momento non meno reale degli altri, forse addirittura più importante per noi dal momento che la nostra diletta vi è più implicata, siamo in grado di rappresentarcelo, lo possediamo, vi interveniamo, l'abbiamo - quasi - creato: il momento in cui le diranno che noi siamo lì, lì giù. 
E senza dubbio gli altri momenti della festa non dovevano essere di un'essenza così diversa da questo, non dovevano avere niente di più delizioso o tale da farci tanto soffrire, visto che il benevolo amico ci ha detto: Ma sarà felice di scendere! Le farà molto più piacere parlare con voi che annoiarsi lassù. 
Ahimè, Swann ne aveva fatto esperienza, le buone intenzioni d'un terzo non hanno alcun potere su una donna che si irrita sentendosi inseguita anche a una festa da qualcuno che non ama. 
Spesso, l'amico torna da solo. 
Mia madre non venne, e senza riguardi per il mio amor proprio (impegnato a evitare la sconfessione della favola della ricerca di cui avevo preteso che lei mi avesse pregato di riferirle il risultato) mi fece dire da Franoise quelle parole: Non c'è risposta che così spesso, poi, ho sentito ripetere da portieri di grandi alberghi o da lacchè di case da gioco a qualche povera ragazza che si stupisce: Ma come, non ha detto niente, non è possibile! Eppure gliel'avete consegnata, la mia lettera. 
Va bene, aspetterò ancora. 
E - così come quella assicura invariabilmente di non aver bisogno della lampada supplementare che il portiere vuole accendere per lei, e se ne resta là, non sentendo più che le rare battute sul tempo che il portiere scambia con un fattorino al quale, accorgendosi a un tratto dell'ora, ordina di mettere in ghiaccio la bevanda di un cliente - io declinai l'offerta di Franoise di farmi una tisana o di restare accanto a me, la lasciai tornare nell'"office", mi misi a letto e chiusi gli occhi cercando di non sentire le voci dei miei parenti che prendevano il caffè in giardino. 
Ma nel giro di pochi secondi capii che scrivendo quel biglietto alla mamma e arrivando, a rischio di farla arrabbiare, così vicino a lei che m'ero creduto ormai sul punto di rivederla, mi ero precluso la possibilità di addormentarmi senza averla rivista, e i battiti del mio cuore si facevano di minuto in minuto più dolorosi perché io stesso accrescevo la mia agitazione predicandomi una calma che equivaleva all'accettazione della mia sventura. 
All'improvviso la mia ansia cadde, una felicità m'invase come quando un farmaco potente comincia ad agire e ci toglie un dolore: avevo preso la risoluzione di non cercare più di addormentarmi senza aver rivisto la mamma, di baciarla a qualsiasi costo - benché fossi certo che questo avrebbe significato sopportare a lungo le conseguenze della sua irritazione quando fosse salita a coricarsi. 
La calma che risultava dalla fine delle mie angosce mi metteva in uno straordinario stato di allegrezza, non meno di quanto avviene per l'attesa, la sete e la paura del pericolo. 
Aprii la finestra senza rumore e mi sedetti in fondo al letto; non facevo quasi nessun movimento perché da giù non mi sentissero. 
Fuori, le cose sembravano anch'esse rapprese in una muta attenzione a non turbare il chiaro di luna, che raddoppiando e facendo indietreggiare ogni cosa per il fatto di stenderle davanti il suo riflesso, più denso e concreto della cosa stessa, aveva ad un tempo rimpicciolito e ingrandito il paesaggio come una mappa che, ripiegata fino a quel momento, venga distesa per intero. 
Ciò che aveva bisogno di muoversi, il fogliame d'un castagno, si muoveva. 
Ma il suo fremito minuzioso e totale, eseguito fin nelle minime sfumature e nelle più estreme delicatezze, non stingeva sul resto ne vi si fondeva, restava circoscritto. Esposti al di sopra di questo silenzio che non ne assorbiva un'oncia, i rumori più distanti, quelli che dovevano venire da giardini situati all'altro capo della città, si percepivano in dettaglio con una tale finitezza che sembravano dovere un simile effetto di lontananza unicamente al loro "pianissimo", come certi motivi in sordina eseguiti dall'orchestra del Conservatorio così bene che l'ascoltatore, pur non perdendone una sola nota, ha l'impressione di sentirli risuonare dal di fuori della sala, e tutti i vecchi abbonati - comprese le sorelle della nonna se Swann aveva ceduto loro i suoi posti - tendevano l'orecchio come se stessero ascoltando il remoto clamore di un esercito che, avanzando nella sua marcia, non avesse ancora svoltato per rue de Trévise. (36) Sapevo che la situazione nella quale mi mettevo era fra tutte quella che poteva avere per me, da parte dei miei genitori, le conseguenze più gravi, molto più gravi di quanto un estraneo non potesse supporre, tali in verità ch'egli avrebbe creduto che solo qualche colpa davvero vergognosa fosse in grado di provocarle. 
Ma nell'educazione che mi veniva impartita la gerarchia delle colpe non era la stessa che nell'educazione degli altri ragazzi, e davanti a tutte le altre (certamente perché non ce n'era alcuna dalla quale io avessi bisogno d'essere più attentamente preservato) ero stato abituato a collocare quelle di cui capisco ora che possedevano la caratteristica comune di essere commesse per cedimento a un impulso nervoso. 
Ma allora questa espressione non veniva pronunciata, nessuno denunciava, di quelle colpe, un'origine che avrebbe potuto farmi credere di essere scusabile se vi cedevo o forse addirittura incapace di resistervi. 
Io però le riconoscevo bene dall'angoscia che le precedeva non meno che dalla severità del castigo che le seguiva; e sapevo che quella di cui mi ero appena macchiato apparteneva, benché infinitamente più grave, alla stessa famiglia di altre per le quali ero stato punito con rigore. 
Una volta che mi fossi fatto incontro a mia madre mentre saliva a coricarsi, e lei si fosse resa conto che ero rimasto alzato per dirle ancora buonanotte nel corridoio, non mi avrebbero più tenuto a casa, mi avrebbero messo in collegio sin dall'indomani, era sicuro. 
Ebbene, avessi anche dovuto gettarmi dalla finestra cinque minuti dopo, preferivo agire così. 
Quel che volevo, adesso, era la mamma, dirle buonanotte, ero andato troppo in là sulla via verso la realizzazione di questo desiderio per poter tornare indietro. 
Sentii i passi dei miei parenti che accompagnavano Swann, e quando il sonaglio della porta mi avvertì che se n'era andato, mi affacciai alla finestra. 
La mamma chiedeva a mio padre se l'aragosta gli era sembrata buona e se il signor Swann aveva preso dell'altro gelato di caffè e pistacchio. 
A me è parso un po' banale, disse mia madre; credo che la prossima volta bisognerà provare un altro gusto. - Non saprei dire quanto Swann mi è parso cambiato, disse la prozia, ha un aspetto talmente vecchio! La prozia aveva una così radicata abitudine di vedere sempre in Swann il medesimo adolescente, che si meravigliava di trovarlo tutt'a un tratto meno giovane dell'età che continuava ad attribuirgli. 
E tutti i miei parenti, del resto, cominciavano a vedere in lui la vecchiezza anormale, eccessiva, vergognosa e meritata degli scapoli, di tutti coloro per i quali si ha l'impressione che il gran giorno che non ha domani sia più lungo che per gli altri, perché il loro è vuoto e i momenti vi si sommano sin dal mattino senza poi dividersi tra un certo numero di figli. 
Credo che abbia molti dispiaceri con quel bel tipetto di sua moglie, tutta Combray sa che vive con un certo signor di Charlus. 
E la favola della città. 
Mia madre fece notare che da qualche tempo, tuttavia, lui aveva l'aria molto meno triste. 
Fa anche molto meno spesso quel gesto, che ha sempre fatto come suo padre, di asciugarsi gli occhi e di passarsi la mano sulla fronte. Io penso che in fondo non la ami più, quella donna. 
- Ma naturale che non l'ama più, replicò mio nonno. 
E già parecchio che ho ricevuto da lui una lettera su questo argomento, alla quale mi sono affrettato a non conformarmi, e che non lascia alcun dubbio circa i suoi sentimenti nei confronti della moglie, perlomeno per quanto riguarda l'amore. 
Ecco, vedete?, non l'avete ringraziato per l'Asti soggiunse il nonno voltandosi verso le due cognate Come non l'abbiamo ringraziato? Credo anzi, sia detto fra noi, di essere riuscita a porgergli la cosa con una certa delicatezza obiettò zia Flora. 
Sì, te la sei cavata molto bene: ti ho ammirata, disse zia Céline. - Ma anche tu sei stata bravissima. - Sì, ero piuttosto fiera della mia frase sui vicini gentili. - Come! è questo che chiamate ringraziare! proruppe il nonno. 
Ho sentito anch'io, ma mi prenda un accidente se ho pensato che fosse per Swann. 
Potete star certe che non ha capito niente. - Ma andiamo, Swann non è uno sciocco, sono sicura che ha apprezzato. 
Non potevo mica dirgli il numero delle bottiglie e il prezzo del vino! Mio padre e mia madre rimasero soli, e si sedettero un istante; poi mio padre disse: Bene, se vuoi, possiamo salire a coricarci. - Se vuoi tu, amico mio, anche se io non ho nemmeno un'ombra di sonno; eppure non può essere stato quel gelato di caffè così innocuo a tenermi sveglia; ma vedo della luce nell'"office", e dal momento che la povera Franoise mi ha aspettata, le chiederò di slacciarmi il corpetto mentre tu ti spogli. 
E mia madre aprì la porta traforata che dal vestibolo immetteva sulle scale. 
Subito la sentii che saliva a chiudere la sua finestra. 
Andai senza rumore nel corridoio; il cuore mi batteva così forte che facevo fatica a camminare, ma almeno non batteva più d'ansia, ma di spavento e di gioia. Vidi nella tromba delle scale la luce proiettata dalla candela della mamma. 
Poi la vidi, lei stessa, e mi slanciai. 
In un primo momento lei mi guardò sbalordita, senza capire cosa fosse successo. 
Poi il suo viso assunse un'espressione di collera, non diceva neppure una parola, e in effetti per molto meno di questo non mi veniva rivolto il discorso per parecchi giorni. Se la mamma mi avesse detto qualcosa, sarebbe stato come ammettere che era possibile riparlare con me e d'altra parte la circostanza mi sarebbe forse sembrata ancora più terribile, il segno che di fronte alla gravità del castigo che si preparava il silenzio, il corruccio erano puerili.Una parola sarebbe stata la calma con la quale si risponde a un domestico una volta che si sia deciso di licenziarlo; il bacio che si dà a un figlio quando lo si spedisce ad arruolarsi, mentre non si esiterebbe a negarglielo se ci si dovesse accontentare di tenergli il broncio per due giorni. 
Ma lei sentì mio padre che saliva dalla stanza da bagno dov'era andato a spogliarsi e, per evitare la scenata che lui mi avrebbe fatta, mi disse con voce soffocata dalla collera: 
Scappa, scappa, che almeno tuo padre non ti veda qui che aspetti come un folle!. 
Ma io le ripetevo: Vieni a darmi la buonanotte, terrorizzato alla vista del riflesso della candela di mio padre che s'alzava ormai lungo la parete, ma sfruttando anche il suo avvicinarsi come strumento di ricatto e sperando che la mamma, per evitare che mio padre mi trovasse ancora lì se lei continuava a non cedere, mi dicesse: Torna in camera tua, vengo subito. 
Troppo tardi, mio padre era davanti a noi. 
Senza volerlo, mormorai queste parole che nessuno sentì: Sono perduto!. Non fu così. 
Mio padre mi rifiutava di continuo dei permessi che mi erano stati riconosciuti nei più larghi patti concessi da mia madre e da mia nonna, perché non si curava dei princìpi e non era questione, con lui, di "diritto delle genti". 
Per una ragione affatto contingente, o addirittura senza ragione, mi sopprimeva all'ultimo momento una passeggiata così abituale, così consacrata che era impossibile privarmene senza spergiuro, oppure, come aveva fatto proprio quella sera, molto prima dell'ora rituale mi diceva: Coraggio, sali a coricarti, nessuna spiegazione!. Ma allo stesso modo, poiché non aveva princìpi (nel senso della nonna), non aveva propriamente parlando - alcuna intransigenza. 
Mi guardò un istante con aria sorpresa e irritata, poi, quando la mamma gli ebbe spiegato l'accaduto con poche parole imbarazzate, le disse: Vai con lui dunque, visto che dicevi appunto di non aver voglia di dormire, rimani un po' in camera sua, io non ho bisogno di niente - Ma, amico mio, si oppose timidamente mia madre, che io abbia voglia o no di dormire non cambia niente, non si può abituare il ragazzo... - Ma non si tratta di abituare, disse mio padre scrollando le spalle, lo vedi bene che il piccolo soffre, ha un'aria disperata, povero ragazzo; insomma, non siamo mica dei carnefici! Quando sarai riuscita a farlo ammalare, bel progresso avrai fatto! Visto che in camera sua ci sono due letti, di' a Franoise di prepararti il letto grande e dormi accanto a lui, per stanotte. 
Su, buonanotte, io che non sono nervoso come voi me ne vado a dormire. 
Non si poteva ringraziare mio padre; lo si sarebbe soltanto infastidito con quelle "morboserie", come le chiamava lui. 
Me ne stetti là senza azzardare un movimento; lui era ancora davanti a noi, alto, nella sua camicia da notte bianca sotto lo scialle indiano viola e rosa che da quando soffriva di nevralgie s'annodava intorno alla testa con il gesto di Abramo che, nella stampa da Benozzo Gozzoli regalatami da Swann, dice a Sara che deve separarsi da Isacco. (37) Sono passati parecchi anni da allora. 
La parete delle scale lungo la quale vidi salire il riflesso della candela non esiste più da molto tempo. (38) Anche dentro di me tante cose sono andate distrutte che credevo dovessero durare per sempre, e altre nuove ne sono sorte facendo nascere nuove pene e gioie che quella sera non avrei potuto prevedere, così come quelle d'allora mi è ormai difficile capirle. 
E da molto tempo a mio padre non è più possibile dire alla mamma: Vai col piccolo. 
Quelle ore mi sono ormai inaccessibili. 
Ma da un po' di tempo ho ricominciato a sentire molto bene, se mi concentro, i singhiozzi che ebbi la forza di trattenere davanti a mio padre e che scoppiarono quando, più tardi, mi ritrovai solo con la mamma. 
In realtà, essi non sono mai cessati; ed è soltanto perché la vita si è fatta adesso più silenziosa intorno a me che li sento di nuovo, come quelle campane di conventi che il clamore della città copre tanto bene durante il giorno da far pensare che siano state messe a tacere e invece si rimettono a suonare nel silenzio della sera. 
La mamma passò quella notte nella mia camera; proprio quando avevo commesso una colpa così grave da farmi credere che avrei dovuto andarmene via da casa, i miei genitori mi concedevano più di quanto avessi mai ottenuto da loro come ricompensa di una buona azione. 
Persino nel momento in cui si estrinsecava in questa grazia, il comportamento di mio padre nei miei confronti conservava quel tanto di arbitrario e di immeritato che era la sua caratteristica e che si poteva riassumere nel fatto che a determinarlo erano piuttosto delle convenienze fortuite che non un piano premeditato. 
Può anche darsi che quella che io chiamavo la sua severità, quando mi mandava a letto, meritasse tale definizione meno di quella di mia madre o di mia nonna, giacché la sua natura, per alcuni aspetti più divergente dalla mia di quanto non fosse la loro, probabilmente non aveva ancora intuito, fino a quel momento, la mia infelicità d'ogni sera, di cui mia madre e mia nonna erano invece ben consapevoli; ma loro due mi amavano tanto da non volermi risparmiare la sofferenza, da volermi insegnare a dominarla per attenuare la mia sensibilità nervosa e rafforzare la mia volontà. 
Quanto a mio padre, che nutriva per me un altro genere d'affetto, non so se avrebbe avuto un simile coraggio: la prima volta che si era accorto che soffrivo, aveva detto a mia madre: Su, vai a consolarlo. 
La mamma restò quella notte nella mia camera e, come se non volesse guastare con il minimo rimorso delle ore così diverse da quelle cui avrei potuto legittimamente aspirare, quando Franoise, resasi conto che succedeva qualcosa di straordinario vedendo la mamma che, seduta accanto a me, mi teneva la mano e mi lasciava piangere senza sgridarmi, le chiese: Ma signora, cos'ha il signorino da piangere tanto?, le rispose: Non lo sa neanche lui, Franoise, ha una crisi di nervi; preparatemi subito il letto grande e andate a dormire. Così, per la prima volta, la mia tristezza non era più considerata una mancanza da punire, ma un male involontario al quale era toccato un riconoscimento ufficiale, uno stato nervoso di cui io non ero responsabile; provavo il sollievo di non dover più mescolare degli scrupoli all'amarezza delle mie lacrime, potevo piangere senza peccato. (39) E non ero certo poco fiero, di fronte a Franoise, di questo rivolgimento del destino che, a distanza di un'ora da quando la mamma s'era rifiutata di salire in camera mia e mi aveva sdegnosamente fatto rispondere che dovevo dormire, mi innalzava alla dignità di persona adulta, facendomi raggiungere di colpo una sorta di pubertà della sofferenza, di emancipazione delle lacrime. Avrei dovuto essere felice: non lo ero. 
Mi sembrava che mia madre mi avesse fatto una prima concessione che doveva essere stata dolorosa, che si trattasse da parte sua di una prima abdicazione a quell'ideale che aveva immaginato per me, che per la prima volta lei, così coraggiosa, si confessasse vinta. 
Mi sembrava di aver riportato sì una vittoria, ma contro di lei, di essere riuscito a piegare la sua volontà, a far cedere la sua ragione così come avrebbero potuto riuscirci la malattia, i dispiaceri o l'età, e che quella notte inaugurasse un'era e fosse destinata a restare come una data, ma una data triste. 
Se ne avessi avuto il coraggio, adesso avrei voluto dirle: Non voglio, non dormire qui. 
Ma conoscevo la saggezza pratica, realistica si direbbe oggi, che mitigava in lei la natura ardentemente idealista della nonna, e sapevo che, ora che il male era fatto, avrebbe preferito lasciarmene almeno gustare il pacificante piacere e non disturbare mio padre. 
Certo, il bel viso di mia madre brillava ancora di giovinezza quella sera, mentre mi stringeva teneramente le mani e cercava di frenare le mie lacrime; ma mi sembrava, ecco, che fosse qualcosa che non avrebbe dovuto essere, e la sua collera sarebbe stata meno triste per me di quella dolcezza nuova che la mia infanzia non aveva mai conosciuta; mi sembrava di aver tracciato nella sua anima, con mano empia e segreta, una prima ruga, di averle fatto spuntare un primo capello bianco. 
Questo pensiero fece raddoppiare i miei singhiozzi, e vidi allora che la mamma, che con me non si lasciava mai andare alla minima commozione, veniva di colpo conquistata dalla mia e si sforzava di trattenere una voglia di pianto. 
Avvertì che me n'ero accorto, e ridendo mi disse: Guardatelo il mio stupidello, il mio uccellino, finirà col far diventare la mamma sciocca come lui se non la smettiamo tutt'e due. Su, visto che non hai sonno e la mamma neppure, invece di stare qui a struggerci, facciamo qualcosa, prendiamo uno dei tuoi libri. 
Ma non ne avevo, in camera. 
Non ci resterai male, dopo, se tiro fuori adesso i libri che la nonna deve regalarti per la tua festa? Pensaci bene: non sarai deluso, dopodomani, di non ricevere niente? Al contrario, ero felice, e la mamma andò a cercare un pacco di libri dei quali non mi fu possibile indovinare, attraverso la carta che li avvolgeva, che il formato basso e largo, ma che già sotto questo aspetto così sommario e velato eclissavano ai miei occhi la scatola di colori di capodanno e i bachi da seta dell'anno precedente. 
Erano "La Mare au Diable", "Franois le Champi", "La Petite Fadette e "Les Matres Sonneurs". 
La nonna, venni a saperlo in seguito, aveva scelto dapprima le poesie di Musset, un volume di Rousseau e "Indiana"; (40) infatti, così come giudicava le letture futili altrettanto malsane quanto le caramelle e i pasticcini, era convinta che i grandi soffi del genio non potessero avere sullo spirito, anche sullo spirito di un bambino, un influsso più pericoloso e meno vivificante di quello esercitato sul corpo dall'aria aperta e dal vento di mare. (41) Ma poiché mio padre l'aveva quasi trattata come una pazza quando aveva saputo che libri intendeva regalarmi, lei era tornata di persona dal libraio a Jouy-le-Vicomte perché io non rischiassi di restare senza regalo (era un giorno di caldo cocente e rientrando a casa aveva avuto un malore, tanto che il medico aveva avvertito mia madre di non lasciare che si stancasse a quel modo) e aveva ripiegato sui quattro romanzi campestri di George Sand. 
Figlia mia, diceva alla mamma, non potrei mai regalare al ragazzo qualcosa di mal scritto. 
In realtà, non si sarebbe mai rassegnata a comprare qualcosa da cui non si potesse trarre un profitto intellettuale, in particolare quello che ci procurano le cose belle insegnandoci a cercare il nostro piacere lontano dalle soddisfazioni del benessere e della vanità. 
Persino quando doveva fare a qualcuno un regalo cosiddetto utile, quando doveva regalare una poltrona, delle posate, un bastone, li cercava "vecchi", come se, cancellato ormai dalla lunga desuetudine il loro carattere utilitario, apparissero disposti a raccontarci la vita di uomini d'altri tempi più che a soddisfare i bisogni della nostra. 
Avrebbe voluto che io tenessi in camera mia le fotografie dei monumenti o dei paesaggi più belli. 
Ma al momento di acquistarle, e benché l'oggetto rappresentato avesse un valore estetico, le sembrava che la volgarità, l'utilità riprendessero troppo presto il sopravvento nel modo meccanico della rappresentazione, la fotografia. 
Cercava di giocare d'astuzia e, se non di eliminare del tutto la banalità commerciale, almeno di ridurla, sostituendola il più possibile con altra arte, inserendovi, per così dire, svariati "spessori" d'arte: invece delle fotografie della cattedrale di Chartres, dei giochi d'acqua di Saint-Cloud, del Vesuvio, si informava da Swann se qualche grande pittore li avesse effigiati, e preferiva regalarmi le fotografie della cattedrale di Chartres dipinta da Corot, dei giochi d'acqua di Saint-Cloud dipinti da Hubert Robert, del Vesuvio dipinto da Turner, il che rappresentava un grado d'arte in più. (42) Ma il fotografo, escluso dalla rappresentazione del capolavoro o della natura e sostituito con un grande artista, riacquistava i suoi diritti nel riprodurre quell'interpretazione. 
Di fronte all'imminente scadenza della volgarità, la nonna tentava di rimandarla ancora. 
Chiedeva a Swann se dell'opera non fosse stata fatta qualche incisione, preferendo, quand'era possibile, incisioni antiche e che presentassero qualche interesse supplementare, per esempio quelle che raffigurano un capolavoro in uno stato nel quale oggi non possiamo più vederlo (come la stampa della Cena di Leonardo eseguita da Morghen (43) prima della degradazione dell'affresco). 
Bisogna dire che i risultati di questo modo di interpretare l'arte del regalo non furono sempre brillantissimi. 
L'idea che mi feci di Venezia da un disegno di Tiziano che si suppone abbia per sfondo la laguna, era certamente molto meno esatta di quella che avrebbero potuto fornirmi delle semplici fotografie. 
In casa, quando la prozia decideva di pronunciare una requisitoria contro la nonna, non si riusciva più a tenere il conto delle poltrone da lei offerte a giovani fidanzati o a vecchi sposi che, al primo tentativo di servirsene, erano istantaneamente crollate sotto il peso di uno dei destinatari. 
Ma alla nonna sarebbe parso meschino occuparsi più di tanto della solidità di un mobile nel quale si distinguevano ancora un garbo, un sorriso, a volte una bella immaginazione del passato. 
Anche ciò che in quei mobili, rispondendo a un determinato bisogno, aveva una foggia alla quale non siamo più abituati, l'affascinava, come quei vecchi modi di dire nei quali scorgiamo una metafora cancellata, nel nostro linguaggio moderno, dall'usura della consuetudine. 
Ora, i romanzi campestri di George Sand che la nonna mi regalava per la mia festa erano appunto pieni, al pari di un antico mobilio, di espressioni cadute in disuso e ridiventate immagini, come non se ne trovano più che in campagna. 
E la nonna li aveva comprati preferendoli ad altri così come avrebbe preso in affitto più volentieri una proprietà dove ci fosse stata una piccionaia gotica o qualcun'altra di quelle vecchie cose che esercitano sullo spirito un benefico influsso regalandogli la nostalgia di impossibili viaggi nel tempo. 
La mamma si sedette accanto al mio letto; aveva preso "Franois le Champi", (44) cui la copertina rossastra e il titolo incomprensibile conferivano ai miei occhi una personalità spiccata e un fascino misterioso. 
Non avevo ancora letto nessun vero romanzo. 
Avevo sentito dire che George Sand era l'archetipo del romanziere. 
Questo mi disponeva, a priori, a immaginate in "Franois le Champi" qualcosa d'indefinibile e di delizioso. 
I procedimenti narrativi destinati a eccitare la curiosità o la commozione, certi modi di dire che destano l'inquietudine e la malinconia, e che un lettore un po' istruito riconosce comuni a molti romanzi, mi apparivano semplicemente - a me che consideravo un libro nuovo non come qualcosa che ha molti omologhi, ma come una persona unica che ha in se stessa la sua sola ragione d'esistere - una sconvolgente emanazione dell'essenza propria di "Franois le Champi". 
Sotto quegli eventi così quotidiani, quegli oggetti così comuni, quelle espressioni così correnti, io avvertivo come un'intonazione, un'accentazione strana. 
L'azione prese avvio; e mi parve tanto più oscura in quanto allora, leggendo, io mi perdevo spesso, per pagine intere, dietro tutt'altro. 
E alle lacune che questa distrazione apriva nel racconto si aggiungeva il fatto che la mamma, se era lei a leggermi ad alta voce, saltava tutte le scene d'amore. 
(45) Così, tutti i bizzarri mutamenti che si producono nell'atteggiamento reciproco della mugnaia e del ragazzo, e che non trovano spiegazione se non nei progressi di un amore nascente, mi apparivano improntati a un profondo mistero la cui scaturigine io mi figuravo volentieri dovesse trovarsi in quel nome sconosciuto e così dolce, "Champi", che gettava, sul fanciullo che lo portava senza che io ne sapessi la ragione, il suo colore vivo, imporporato e incantevole. 
Se mia madre era una lettrice infedele, era d'altra parte, per le opere nelle quali ritrovava l'accento d'un sentimento vero, una lettrice mirabile per il rispetto e la semplicità dell'interpretazione, per la bellezza e la dolcezza del suono. 
Anche nella vita, quando erano creature e non opere d'arte a suscitare così la sua commozione o la sua ammirazione, faceva tenerezza vedere con quanto riguardo scartava dalla sua voce, dai suoi gesti, dalle sue parole quello scoppio d'allegria che avrebbe potuto ferire la madre alla quale tempo prima era morto un bambino, quell'accenno a una festa, a un anniversario, che avrebbe potuto indurre la persona anziana a riflettere sul peso dei propri anni, quel dettaglio di vita domestica che sarebbe riuscito molesto al giovane studioso. Analogamente, quando leggeva la prosa di George Sand, che respira sempre la bontà, la distinzione morale che la mamma aveva imparato dalla nonna a considerare superiori a tutto nella vita, e che solo molto più tardi io le avrei insegnato a non considerare superiori a tutto anche nei libri, attenta a bandire dalla propria voce ogni leziosità, ogni affettazione che avrebbe potuto impedirle di riceverne il flusso potente, infondeva a quelle frasi, che sembravano scritte per lei e che rientravano per così dire senza residui nel registro della sua sensibilità, tutta la tenerezza naturale, tutta l'ampia dolcezza con le quali esse reclamavano di essere pronunciate. 
Per affrontarle nel tono giusto, ritrovava l'accento cordiale che ad esse preesiste e che le ha dettate, ma di cui le parole non danno alcuna indicazione; grazie a questo, smorzava di passaggio qualsiasi crudezza nei tempi dei verbi, dava all'imperfetto e al passato remoto la dolcezza che c'è nella bontà, la malinconia che c'è nella tenerezza, indirizzava la frase che finiva verso quella che stava per cominciare, ora accelerando, ora rallentando la marcia delle sillabe per inserirle, benché le loro quantità fossero diverse, in un ritmo uniforme, insufflava in quella prosa così comune una sorta di vita sentimentale e ininterrotta. 
I miei rimorsi erano placati, mi lasciavo andare alla dolcezza di quella notte in cui avevo mia madre accanto a me. 
Sapevo che una notte simile non si sarebbe mai ripetuta; che il desiderio più grande che io avessi al mondo, tenere mia madre con me, nella mia camera, durante le tristi ore notturne, contrastava troppo con le necessità della vita e con il volere di tutti perché l'esaudimento che gli era stato concesso quella sera potesse essere altro che eccezionale e artificioso. 
Domani la mia angoscia sarebbe ricominciata e la mamma non sarebbe rimasta. 
Ma quando le mie angosce si calmavano, io non le capivo più; e poi la sera del giorno dopo era ancora lontana; dicevo a me stesso che avrei avuto il tempo di trovare un rimedio, anche se quel breve tempo non mi avrebbe certo dotato di nuovi poteri, trattandosi oltretutto di cose che non dipendevano dalla mia volontà e che solo per l'intervallo che le separava ancora da me potevano apparirmi più evitabili. 
E così, ogni volta che svegliandomi di notte mi ricordavo di Combray, per molto tempo non ne rividi che quella sorta di lembo luminoso ritagliato nel mezzo di tenebre indistinte, simile a quelli che l'accensione di un bengala o un fascio di luce elettrica rischiarano e isolano in un edificio che resta per le altre parti sprofondato nel buio: abbastanza largo alla base, il salottino, la sala da pranzo, l'imbocco del viale non illuminato dal quale sarebbe comparso il signor Swann, l'ignaro responsabile delle mie tristezze, il vestibolo nel quale mi sarei avviato verso il primo gradino della scala, che era così crudele salire e che costituiva da sola il tronco fortemente assottigliato di questa piramide irregolare; e, al vertice, la mia camera da letto con annesso il piccolo corridoio dalla porta a vetri per l'ingresso della mamma; in breve, visto sempre alla stessa ora, isolato da tutto ciò che poteva esistere intorno, si stagliava, unica presenza nell'oscurità, lo scenario strettamente indispensabile (come quelli che figurano in testa ai vecchi copioni teatrali per le rappresentazioni in provincia) al dramma della mia svestizione; come se Combray non fosse consistita che di due piani collegati fra loro da un'esile scala e come se non fossero mai state là, altro che le sette di sera. 
Per dire la verità, a chi m'avesse interrogato avrei potuto rispondere che Combray comprendeva altre cose ancora ed esisteva anche in altre ore. 
Ma poiché quello che avrei ricordato sarebbe affiorato soltanto dalla memoria volontaria, dalla memoria dell'intelligenza, e poiché le informazioni che questa fornisce sul passato non ne trattengono nulla di reale, io non avrei mai avuto voglia di pensare a quel resto di Combray. 
Per me, in effetti, era morto. 
Morto per sempre? Poteva darsi. 
Il caso ha gran parte in tutto ciò, e spesso un secondo caso, quello della nostra morte, non ci permette di aspettare troppo a lungo i favori del primo. 
Trovo del tutto ragionevole la credenza celtica secondo la quale le anime di coloro che abbiamo perduti sono imprigionate in qualche essere inferiore, un animale, un vegetale, un oggetto inanimato, perdute davvero per noi fino al giorno, che per molti non arriva mai, nel quale ci troviamo a passare accanto all'albero o a entrare in possesso dell'oggetto che ne costituisce la prigione. 
Allora esse sussultano, ci chiamano, e non appena le abbiamo riconosciute, l'incantesimo si spezza. 
Liberate da noi, hanno vinto la morte, e tornano a vivere con noi. 
Così per il nostro passato. 
E' uno sforzo vano cercare di evocarlo, inutili tutti i tentativi della nostra intelligenza. 
Se ne sta nascosto al di là del suo dominio e della sua portata, in qualche insospettato oggetto materiale (nella sensazione che questo ci darebbe). 
Questo oggetto, dipende dal caso che noi lo incontriamo prima di morire, oppure che non lo incontriamo mai. 
Erano già parecchi anni che tutto quanto di Combray non costituiva il teatro e il dramma del mio andare a letto aveva smesso di esistere per me, quando, un giorno d'inverno, al mio ritorno a casa, mia madre, vedendomi infreddolito, mi propose di bere, contrariamente alla mia abitudine, una tazza di tè. 
Dapprima rifiutai poi, non so perché, cambiai idea. 
Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti che chiamano "petites madeleines" e che sembrano modellati dentro la valva scanalata di una "cappasanta". (46) E subito, meccanicamente, oppresso dalla giornata uggiosa e dalla prospettiva di un domani malinconico, mi portai alle labbra un cucchiaino di tè nel quale avevo lasciato che s'ammorbidisse un pezzetto di "madeleine". 
Ma nello stesso istante in cui il liquido al quale erano mischiate le briciole del dolce raggiunse il mio palato, io trasalii, attratto da qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me. 
Una deliziosa voluttà mi aveva invaso, isolata, staccata da qualsiasi nozione della sua causa. 
Di colpo mi aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la sua brevità, agendo nello stesso modo dell'amore, colmandomi di un'essenza preziosa: o meglio, quell'essenza non era dentro di me, io ero quell'essenza. 
Avevo smesso di sentirmi mediocre, contingente, mortale. 
Da dove era potuta giungermi una gioia così potente? Sentivo che era legata al sapore del tè e del dolce, ma lo superava infinitamente, non doveva condividerne la natura. 
Da dove veniva? Cosa significava? Dove afferrarla? Bevo una seconda sorsata nella quale non trovo nulla di più che nella prima, una terza che mi dà un po' meno della seconda. E' tempo che mi fermi, la virtù del filtro sembra diminuire. 
E' chiaro che la verità che cerco non è lì dentro, ma in me. 
La bevanda l'ha risvegliata, ma non la conosce, e non può che ripetere indefinitamente, ma con sempre minor forza, la stessa testimonianza che io non riesco a interpretare e che vorrei almeno poterle chiedere di nuovo ritrovandola subito intatta, a mia disposizione, per un chiarimento decisivo. 
Poso la tazza e mi volgo verso il mio spirito. 
Trovare la verità è compito suo. 
Ma in che modo? Grave incertezza, ogni volta che lo spirito si sente inferiore a se stesso; quando il cercatore fa tutt'uno con il paese ignoto dove la ricerca deve aver luogo e dove tutto il suo bagaglio non gli servirà a nulla. 
Cercare? Di più: creare. 
Eccolo faccia a faccia con qualcosa che non esiste ancora e che lui solo può realizzare e far entrare, poi, nel raggio della sua luce. 
Ricomincio a domandarmi che cosa poteva essere questa condizione ignota, che non adduceva alcuna prova logica, bensì l'evidenza della sua felicità, della sua realtà davanti alla quale le altre svanivano. 
Cercherò di farla riapparire. 
Retrocedo col pensiero al momento in cui ho sorbito il primo cucchiaino di tè. 
Ritrovo lo stesso stato senza una chiarezza nuova. 
Chiedo al mio spirito di fare un ulteriore sforzo, di richiamare ancora una volta la sensazione che sfugge. 
E perché niente possa spezzare lo slancio con il quale cercherà di riafferrarla, tolgo di mezzo ogni ostacolo, ogni idea estranea, metto al riparo le mie orecchie e la mia attenzione dai rumori della stanza accanto. 
Ma quando m'accorgo che il mio spirito s'affatica senza successo, lo induco invece a prendersi quella distrazione che gli negavo, a pensare a qualcos'altro, a ritemprarsi prima di un tentativo supremo. 
Per la seconda volta gli faccio il vuoto davanti, lo rimetto di fronte al sapore ancora recente di quella prima sorsata e dentro di me sento tremare qualcosa che si sposta, che vorrebbe venir su, come se fosse stato disancorato a una grande profondità; non so cosa sia, ma sale lentamente; avverto la resistenza, percepisco il rumore delle distanze attraversate. 
A palpitare così in fondo al mio essere sarà, certo, l'immagine, il ricordo visivo che, legato a quel sapore, si sforza di seguirlo fino a me. 
Ma troppo lontano, troppo confusamente si dibatte; colgo a stento il riflesso neutro in cui si confonde l'inafferrabile vortice dei colori rimescolati; ma non arrivo a distinguere la forma, unico interprete al quale potrei chiedere di tradurmi la testimonianza del suo contemporaneo, del suo inseparabile compagno, il sapore, di spiegarmi di quale circostanza particolare, di quale epoca del passato si tratta. 
Giungerà mai alla superficie della mia coscienza lucida quel ricordo, quell'istante remoto che l'attrazione di un identico istante è venuta così da lontano a sollecitare, a scuotere, a sollevare nel mio io più profondo? Non lo so. 
Adesso non sento più niente, si è fermato, forse è ridisceso; chi può dire se risalirà mai dalla sua notte? Dieci volte devo ricominciare, sporgermi verso di lui. 
E ogni volta la viltà che ci distoglie da ogni compito difficile, da ogni impresa importante, mi ha indotto a lasciar perdere, a bere il mio tè pensando semplicemente ai miei fastidi di oggi, ai miei desideri di domani che si lasciano rimasticare senza troppa fatica. 
E tutt'a un tratto il ricordo è apparso davanti a me. 
Il sapore, era quello del pezzetto di "madeleine" che la domenica mattina a Combray (perché nei giorni di festa non uscivo di casa prima dell'ora della messa), quando andavo a dirle buongiorno nella sua camera da letto, zia Léonie mi offriva dopo averlo intinto nel suo infuso di tè o di tiglio. 
La vista della piccola "madeleine" non m'aveva ricordato nulla prima che ne sentissi il sapore; forse perché spesso dopo di allora ne avevo viste altre, senza mai mangiarle, sui ripiani dei pasticceri, e la loro immagine s'era staccata da quei giorni di Combray per legarsi ad altri più recenti; forse perché, di ricordi abbandonati per così lungo tempo al di fuori della memoria, niente sopravviveva, tutto s'era disgregato; le forme - compresa quella della piccola conchiglia di pasticceria, così grassamente sensuale sotto la sua pieghettatura severa e devota - erano scomparse, oppure, addormentate, avevano perduto la forza d'espansione che avrebbe permesso loro di raggiungere la coscienza. 
Ma quando di un lontano passato non rimane più nulla, dopo la morte delle creature, dopo la distruzione delle cose, soli e più fragili ma più vivaci, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l'odore e il sapore permangono ancora a lungo, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto, a sorreggere senza tremare - loro, goccioline quasi impalpabili l'immenso edificio del ricordo. 
E quando ebbi riconosciuto il gusto del pezzetto di "madeleine" che la zia inzuppava per me nel tiglio, subito (benché non sapessi ancora - e dovessi rimandare a ben più tardi il momento della scoperta - perché quel ricordo mi rendesse tanto felice) la vecchia casa grigia verso strada, di cui faceva parte la sua camera, venne come uno scenario di teatro a saldarsi al piccolo padiglione prospiciente il giardino e costruito sul retro per miei genitori (cioè all'unico isolato lembo da me rivisto fino a quel momento); e, insieme alla casa, la città, da mattina a sera e con ogni sorta di tempo, la piazza dove mi mandavano prima di pranzo, le vie dove facevo qualche commissione, le strade percorse quando il tempo era bello. 
E come in quel gioco, che piace ai giapponesi, di buttare in una ciotola di porcellana piena d'acqua dei pezzettini di carta a tutta prima indefinibili che, non appena immersi, si stirano, assumono contorni e colori, si differenziano diventando fiori, case, figure consistenti e riconoscibili, così, ora, tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di casa Swann, e le ninfee della Vivonne, e la brava gente del villaggio e le loro piccole abitazioni e la chiesa e tutta Combray e la campagna circostante, tutto questo che sta prendendo forma e solidità è uscito, città e giardini, dalla mia tazza di tè. 
2. 
Vista da lontano, dal treno, quando ci arrivavamo la settimana prima di Pasqua, Combray era, in un cerchio di dieci leghe, soltanto una chiesa che riassumeva la città, la rappresentava, parlava di lei e per lei ai lontani orizzonti e poi, quando ci si avvicinava, teneva stretti intorno al suo alto manto scuro, in aperta campagna, contro vento, come una pastora le sue pecore, i dorsi grigi e lanosi delle case raccolte, contornate a tratti da un resto di bastioni medievali con un disegno così perfettamente circolare da far venire in mente certe piccole città nei quadri dei primitivi. 
Ad abitarla Combray era un po' triste, come le sue strade dove le case, costruite con la pietra nerastra del luogo, precedute da scale esterne e incappucciate da frontoni appuntiti che proiettavano sul davanti la propria ombra, erano tanto scure che quando il giorno cominciava a declinare bisognava subito rialzare le tende nelle stanze "buone"; strade dai severi nomi di santi (parecchi dei quali si ricollegavano alla storia dei primi signori di Combray): rue Saint-Hilaire, rue Saint-Jacques dov'era la casa della zia, rue Sainte-Hildegarde sulla quale dava il cancello, e rue du Saint-Esprit in cui s'apriva la porticina laterale del giardino; e stanno, queste vie di Combray, in un recesso così appartato della mia memoria, dove i colori sono così diversi da quelli che ora rivestono il mondo per me, che in verità mi appaiono, loro e la chiesa che le dominava dalla Piazza, ancora più irreali delle proiezioni della lanterna magica, e, in certi momenti, mi sembra che poter attraversare ancora la rue Saint-Hilaire, poter prendere una stanza in rue de l'Oiseau - alla vecchia "Htellerie de l'Oiseau flesché", (47) dagli scantinati della quale saliva attraverso le prese d'aria un odore di cucina che m'arriva ancora, a tratti, con la stessa intermittenza e lo stesso calore - sarebbe un mettersi in contatto con l'Aldilà più meravigliosamente soprannaturale che non fare la conoscenza di Golo o chiacchierare con Genoveffa di Brabante. 
La cugina del nonno - la mia prozia - in casa della quale abitavamo, era la madre di quella zia Léonie che dopo la morte di suo marito, lo zio Octave, non aveva più voluto lasciare, dapprima Combray, poi la sua casa di Combray, poi la sua camera, infine il suo letto, e non "scendeva" più, sempre coricata in un vago stato di afflizione, di abbattimento fisico, di malattia, di idea fissa e di devozione. 
Le sue stanze si affacciavano sulla rue Saint-Jacques che sfociava, molto più in là, nel Prato grande (così chiamato in contrapposizione al Prato piccolo che verdeggiava nel centro della città, all'incrocio di tre strade) e che uniforme, grigiastra, con i tre alti scalini di arenaria davanti a quasi tutte le porte, faceva pensare a un camminamento scavato da un intagliatore di immagini gotiche direttamente nella pietra dalla quale avesse tratto le sculture di un presepio o di un calvario. 
Mia zia non occupava più, in realtà, che due stanze contigue, in una delle quali si tratteneva durante il pomeriggio mentre cambiavano aria all'altra. 
Erano di quelle stanze di provincia che - così come in certi paesi intere porzioni dell'aria o del mare sono illuminate o profumate da miriadi di protozoi che non possiamo vedere - ci affascinano con i mille odori in esse depositati dalle virtù, dalla saggezza, dalle abitudini, da tutta una vita segreta, invisibile, sovrabbondante e morale tenuta in sospensione dall'atmosfera; odori ancora naturali, certo, e color del tempo come quelli della vicina campagna, ma già casalinghi, umani e claustrali, gelatina squisita, industriosa e limpida di tutta la frutta dell'anno che ha lasciato l'orto per la dispensa; stagionali, ma mobili e domestici, capaci di correggere il piccante della brina con la dolcezza del pane caldo, pigri e puntuali come un orologio di villaggio, bighelloni e costumati, incuranti e previdenti, lingeristi, mattinieri, devoti, felici d'una pace dalla quale non può provenire che un po' più di ansia e d'una prosaicità che funge da inesauribile serbatoio di poesia per chi li attraversa senza aver vissuto con loro. 
L'aria, lì, era satura della quintessenza di un silenzio così sostanzioso, così succulento, che non m'addentravo in esso senza una sorta di golosità, soprattutto in quei primi mattini ancora freddi della settimana di Pasqua in cui lo gustavo di più perché ero appena arrivato a Combray: prima di lasciarmi entrare ad augurare il buongiorno alla zia, mi facevano attendere un istante nella prima stanza dove il sole, ancora invernale, era venuto a scaldarsi davanti al fuoco che, già acceso tra i due mattoni, avvolgeva tutta la camera in un odore di fuliggine, facendone qualcosa come uno di quei grandi "antiforni" di campagna o una di quelle cappe di camino dei castelli sotto le quali ci si augura che fuori rompano gli indugi la pioggia, la neve, magari qualche catastrofe diluviesca per aggiungere al conforto del riparo la poesia della reclusione invernale; muovevo qualche passo dall'inginocchiatoio alle poltrone di velluto arabescato, sempre ricoperte con un poggiatesta all'uncinetto; e il fuoco, che cuoceva come una pasta gli odori appetitosi di cui l'aria della camera era tutta grumosa e già "lavorati" e fatti lievitare dalla freschezza umida e soleggiata del mattino, li tirava a sfoglia, li dorava, li gonfiava, li faceva bombare, trasformandoli in un'invisibile e palpabile leccornia provinciale, un immenso "calzone" nel quale, assaggiati appena gli aromi più stuzzicanti, più fini, più pregiati, ma anche più secchi, dell'armadio a muro, del cassettone, della tappezzeria a "ramages", tornavo sempre con inconfessata ingordigia a invischiarmi nell'odore medio, appiccicoso, scipito, indigesto e fruttato del copriletto a fiori. 
Nella stanza vicina, sentivo la zia parlare da sola a mezza voce. 
Parlava sempre così perché era convinta di avere nella testa qualcosa di rotto e di oscillante che avrebbe spostato parlando troppo forte, tuttavia non restava mai a lungo, anche quand'era sola, senza dire qualcosa, perché credeva che fosse salutare per la sua gola e che, impedendo al sangue di ristagnarvi, rendesse meno frequenti i soffocamenti e gli affanni di cui soffriva; inoltre, nell'inerzia assoluta in cui viveva, annetteva anche alle minime fra le proprie sensazioni una straordinaria importanza; conferiva loro una motilità per cui le riusciva difficile tenerle per se stessa, e in mancanza di confidenti a cui comunicarle se le annunciava da sola, in un monologo perpetuo che costituiva la sua unica forma d'attività. 
Purtroppo, radicatasi in lei l'abitudine di pensare a voce alta, non sempre si accertava che non ci fosse nessuno nella stanza accanto, e spesso io la sentivo dire a se stessa: Devo ricordarmi che non ho dormito (quella di non dormire mai era infatti la sua grande pretesa, di cui noi tutti recavamo una rispettosa traccia nel nostro linguaggio: al mattino, Franoise non andava mai a "svegliarla", ma "entrava" in camera sua; quando la zia voleva fare un sonnellino durante la giornata, si diceva che desiderava "riflettere" o "riposare"; e se le capitava, conversando, di dimenticarsene fino al punto di dire: ciò che mi ha svegliata oppure ho sognato che, arrossiva, e si correggeva il più rapidamente possibile). Dopo un momento, entravo a baciarla; Franoise preparava il suo tè; oppure, se la zia si sentiva agitata chiedeva invece una tisana, e spettava a me il compito di far cadere dal sacchetto della farmacia in un piatto la quantità di tiglio da versare poi nell'acqua bollente Seccandosi, gli steli si erano curvati in un intreccio capriccioso dalle cui volute spuntavano i pallidi fiori come se un pittore li avesse sistemati mettendoli in posa nel modo più ornamentale. 
Le foglie avevano perduto o mutato il loro aspetto assumendo quello delle cose più disparate, un'ala trasparente di mosca, il rovescio bianco di un'etichetta, un petalo di rosa, ma impilate, ridotte in frantumi o intrecciate come per la confezione di un nido. 
Mille piccoli dettagli inutili - fascinosa prodigalità del farmacista - che sarebbero stati soppressi in una preparazione artificiale, mi offrivano, come un libro dove ci si imbatta con stupore nel nome di una persona conosciuta, il piacere di capire che si trattava davvero degli steli di autentici tigli, come quelli che vedevo in avenue de la Gare, trasformati proprio perché non erano delle copie ma loro stessi, invecchiati. 
E poiché ogni nuovo carattere non era in essi che la metamorfosi di un carattere antico, ecco che in certe palline grigie riconoscevo delle gemme verdi non fiorite; ma soprattutto la luminosità lunare, rosea e mite che faceva spiccare i fiori nella fragile foresta dei gambi dove stavano sospesi come piccole rose d'oro - segno, come il chiarore che ancora rivela su un muro la sede di un affresco cancellato, della differenza tra le parti dell'albero che erano state "in colore" e quelle che non lo erano state - mi dimostrava che quei petali erano proprio gli stessi che prima di ornare il sacchetto della farmacia avevano profumato le sere di primavera. 
Quel bagliore di rosa di cera, pur essendo ancora la loro tinta, appariva semispento e assopito in quella vita ridotta che era adesso la loro, sorta di crepuscolo dei fiori. 
Ben presto la zia poteva inzuppare nell'infuso bollente, di cui assaporava il gusto di foglia morta o di fiore appassito, una "petite madeleine", e porgermene un pezzetto quando fosse ammorbidito a sufficienza. 
A fianco del suo letto c'erano, da un lato, un grande cassettone giallo in legno di limone e un tavolo che aveva al tempo stesso qualcosa del banco d'officina e dell'altare maggiore e sul quale, sotto una statuetta della Vergine e una bottiglia di Vichy-Célestins, si trovavano libri da messa e ricette di medicine, tutto quello che le occorreva per seguire dal letto le funzioni e la dieta, per non perdere l'ora né della pepsina, né dei vespri. 
Dall'altro lato si apriva la finestra, lei aveva la strada sotto gli occhi e da mattina a sera, per vincere la noia, vi leggeva, come i principi persiani, la cronaca quotidiana ma immemorabile di Combray, che commentava poi con Franoise. 
Non ero rimasto neppure cinque minuti con la zia che già lei mi congedava, per paura che la stancassi. 
Porgeva alle mie labbra la sua triste fronte pallida e scialba sulla quale, a quell'ora del mattino, non aveva ancora sistemato i capelli posticci, e dove le vertebre (48) trasparivano come punte d'una corona di spine o grani d'un rosario, e mi diceva: Su, bambino mio, è ora di andare, vai a prepararti per la messa; e se da basso incontri Franoise, dille di non stare troppo a divertirsi con voi, di salire presto a vedere se ho bisogno di qualcosa. 
In effetti Franoise, da anni al suo servizio e più che certa che un giorno sarebbe venuta in pianta stabile a casa nostra, trascurava un po' la zia durante i mesi nei quali c'eravamo 
  noi. 
Nella mia infanzia, prima che cominciassimo ad andare a Combray, quando zia Léonie passava ancora l'inverno a Parigi da sua madre, c'era stato un periodo in cui conoscevo così poco Franoise che il primo gennaio, prima di entrare in casa della prozia, la mamma mi metteva in mano una moneta da cinque franchi e mi diceva: Soprattutto non sbagliare persona. 
Prima di darla, aspetta di sentirmi dire: "Buongiorno Franoise"; intanto ti sfiorerò il braccio. 
Avevamo appena messo piede nella buia anticamera della zia e già scorgevamo nell'ombra, sotto le pieghe d'una cuffia abbagliante, rigida e fragile come fosse di zucchero filato, i mulinelli concentrici di un anticipato sorriso di riconoscenza. 
Era Franoise, immobile ed eretta nel vano della piccola porta del corridoio come una statua di santa nella sua nicchia. 
Poi, abituatici un poco a quelle tenebre da cappella, distinguevamo nel suo viso l'amore disinteressato per il genere umano, il rispetto commosso per le classi elevate che la speranza delle mance esaltava nelle più nobili regioni del suo cuore. 
La mamma mi pizzicava con forza il braccio e diceva ad alta voce: Buongiorno, Franoise. 
A quel segnale le mie dita s'aprivano e sganciavano la moneta che trovava a riceverla una mano imbarazzata, ma tesa. 
Da quando andavamo a Combray, invece, non c'era persona che io conoscessi meglio di Franoise; eravamo i suoi prediletti, aveva per noi - almeno i primi anni - la stessa considerazione che riservava alla zia, ma accompagnata da un'inclinazione più viva, giacché al prestigio di far parte della famiglia (verso i legami invisibili che la circolazione di un medesimo sangue crea tra i diversi membri d'una famiglia lei nutriva il rispetto d'un tragico greco) aggiungevamo il fascino di non essere i suoi padroni abituali. 
E così, con che gioia ci accoglieva, compiangendoci perché non c'era ancora un tempo migliore, il giorno del nostro arrivo, la vigilia di Pasqua, quando spesso soffiava un vento glaciale, mentre la mamma le chiedeva notizie della figlia e dei nipoti, e se il nipotino era grazioso, che cosa pensavano di fargli fare, se assomigliava a sua nonna. 
E quando tutti se n'erano andati, la mamma, sapendo che Franoise piangeva ancora i suoi genitori morti da anni, le parlava di loro con dolcezza, chiedendole mille dettagli su quella ch'era stata la loro vita. 
Aveva intuito che Franoise non amava il genero, la cui presenza le rovinava il piacere di stare con sua figlia impedendo alle due donne di chiacchierare con la stessa libertà di 
quando erano sole. 
Così, quando Franoise andava a trovarli, a qualche lega da Combray, la mamma le diceva sorridendo: Vero, Franoise, che se Julien è dovuto andar via e se avrete Marguerite tutta per voi per tutto il giorno, ci resterete malissimo, ma saprete consolarvi?. 
E Franoise, ridendo, rispondeva: La signora sa tutto; la signora è peggio dei raggi X (pronunciava la x con difficoltà affettata e con un sorriso, per burlarsi da se stessa del fatto di usare, lei ignorante, quel termine dotto) che hanno fatto arrivare per Madame Octave e che vedono quel che avete nel cuore, e spariva, confusa che ci si occupasse di lei, forse perché non la vedessimo piangere; la mamma era la prima persona a darle la dolce emozione di sentire che la sua vita, le sue gioie, i suoi dispiaceri di contadina potevano presentare un interesse, costituire motivo di compiacimento o di tristezza per qualcuna che non fosse lei stessa. 
La zia si rassegnava a privarsene un poco durante la nostra permanenza, sapendo quanto mia madre apprezzasse il servizio di quella donna così intelligente e attiva, non meno bella alle cinque del mattino nella sua cucina, sotto la sua cuffia la cui pieghettatura fissa e splendente sembrava di "biscuit", che quando si recava alla messa grande; capace di far tutto bene, di lavorare come un cavallo, stesse o non stesse bene, ma zitta zitta, con l'aria di non far nulla, unica fra le donne della zia, quando la mamma chiedeva dell'acqua calda o del caffè, a portarglieli davvero bollenti; una di quelle persone di servizio che, in una casa, appaiono di primo acchito le meno gradevoli all'estraneo, forse perché non si preoccupano di ingraziarselo né gli prestano particolari premure, sapendo benissimo di non averne alcun bisogno e che si smetterebbe di invitarlo pur di non privarsi del loro servizio; e alle quali, in compenso, i padroni tengono di più, avendo sperimentato le loro reali capacità e non dando alcun peso a quella gradevolezza superficiale, a quel chiacchiericcio servile che fa buona impressione a un visitatore, ma che nasconde spesso un'ineducabile nullità. 
Quando Franoise, dopo essersi assicurata che i miei genitori avessero tutto ciò di cui potevano aver bisogno, saliva una prima volta dalla zia per darle la sua pepsina e chiederle cosa volesse a colazione, era molto raro che non le toccasse già esprimere il suo parere o fornire spiegazioni su qualche avvenimento di rilievo: - Franoise, ci pensate? Madame Goupil è passata con più di un quarto d'ora di ritardo per andare a prendere sua sorella; per poco che si attardi lungo la strada, non mi stupirebbe se arrivasse dopo l'elevazione. 
- Eh! non ci sarebbe da meravigliarsi, rispondeva Franoise. 
- Franoise, se foste arrivata cinque minuti prima, avreste visto passare Madame Imbert con degli asparagi due volte più grossi di quelli della vecchia Callot; cercate di sapere dalla sua donna dove li ha trovati. 
Voi che quest'anno ci servite asparagi in tutte le salse, avreste potuto prenderne un po' per i nostri viaggiatori. - Non ci sarebbe da meravigliarsi se venissero dall'orto del signor Curato, diceva Franoise - Ma cosa mi andate raccontando, mia povera Franoise, replicava la zia alzando le spalle, dall'orto del signor Curato! Sapete bene che gli crescono solo degli asparagetti da nulla. 
Vi dico che erano grossi come un braccio. 
Non come il vostro, si capisce, ma come questo mio povero braccio che s'è tanto smagrito, da un anno in qua.. 
L'avete sentito, Franoise, quello scampanìo che m'ha fracassato i timpani? - No, Madame Octave. 
- Ah, figlia mia, dovete averle ben foderate, le orecchie, potete ringraziare il buon Dio. 
Era la Maguelone che è venuta a chiamare il dottor Piperaud. 
E uscito subito con lei, e hanno svoltato in rue de l'Oiseau. 
Ci sarà qualche bambino malato. 
- Oh, mio Dio, sospirava Franoise, che non poteva sentir parlare d'una disgrazia capitata a uno sconosciuto, foss'anche in un angolo remoto del mondo, senza mettersi a gemere. 
- Franoise, per chi avrà suonato la campana a morto? Ah sì, certo, per Madame Rousseau. Povera me, non ricordavo più che se n'è andata l'altra notte. 
Eh, è tempo che il buon Dio mi chiami a sé, non so più dove ho la testa da quando è morto il mio povero Octave. 
Ma vi sto facendo perdere tempo, figlia mia. 
- Ma no, Madame Octave, il mio tempo non è poi così prezioso; chi l'ha fatto non ce l'ha mica venduto. 
Vado solo a vedere che non si spenga il fuoco. 
Così Franoise e mia zia valutavano insieme, nel corso di quell'udienza mattutina, i primi avvenimenti della giornata. 
Ma a volte essi rivestivano un carattere così misterioso e così grave che la zia sentiva di non poter aspettare che Franoise salisse, e quattro formidabili colpi di campanello risuonavano per tutta la casa. 
- Ma, Madame Octave, è ancora presto per la pepsina, diceva Franoise. 
Vi siete sentita mancare? - Ma no, Franoise, diceva la zia, cioè sì, sapete bene che i momenti in cui non mi sento mancare ormai sono pochissimi; un giorno o l'altro me ne andrò come Madame Rousseau senza neanche accorgermene; ma non è per questo che ho suonato. 
Ci credereste che ho appena visto, così come vedo voi, Madame Goupil con una bambina che non conosco? Su, andate a prendere due soldi di sale da Camus. 
E' difficile che Théodore non vi sappia dire chi è. 
- Sarà la figlia del signor Pupin, diceva Franoise che, andata già due volte, quel mattino, da Camus, preferiva attenersi a una spiegazione immediata. 
- La figlia del signor Pupin! Ma cosa mi venite a raccontare, mia povera Franoise! Vi sembra che non l'avrei riconosciuta? - Non dicevo la grande, Madame Octave: la piccina, quella che è in collegio a Jouy. 
Mi sembra d'averla già vista, stamattina. 
- Ah! ecco, diceva la zia. 
Potrebbe essere venuta per le feste. 
Ma certo, è così! Non c'è bisogno di chiedere, sarà venuta per le feste. 
Ma allora, da un momento all'altro, potremmo vedere Madame Sazerat suonare alla porta di sua sorella per la colazione. 
Sicuro! Ho visto il ragazzo di Galopin passare con una crostata! Vedrete che sarà stata per Madame Goupil. 
- Dal momento che Madame Goupil ha visite, Madame Octave, non tarderete a vedere tutti i suoi che tornano per colazione: comincia a non essere più tanto presto, diceva Franoise alla quale, ansiosa com'era di tornar giù a cucinare, non dispiaceva affatto lasciare mia zia con la prospettiva di quella distrazione. 
- Oh! non prima di mezzogiorno, replicava la zia con tono rassegnato, gettando verso la pendola un'occhiata inquieta ma furtiva per non far vedere che lei pur avendo rinunciato a tutto, provava tuttavia, nello scoprire chi Madame Goupil avesse invitato a colazione, un piacere tanto intenso e dal quale, purtroppo, la separava ancora un'ora abbondante E quel che è peggio è che coinciderà con la mia colazione aggiunse sottovoce, tra sé e sé. Era, quella, una distrazione sufficiente per non doverne desiderare un'altra nello stesso tempo. 
Non vi scorderete, almeno, di mettermi le uova alla crema in un piatto piano? I piatti piani erano i soli decorati con figure, e ad ogni pasto la zia si divertiva a leggere la scritta di quello che le avevano portato quella volta. 
Si metteva gli occhiali decifrava: Alì Babà e i quaranta ladroni, Aladino e la lampada magica, e diceva sorridendo: Benissimo, benissimo. 
- Ci potevo andare, da Camus..., diceva Franoise vedendo che la zia non l'avrebbe più mandata. 
- Ma no, non vale più la pena, è sicuramente la piccola Pupin. 
Povera Franoise, mi dispiace, vi ho fatta salire per niente. 
Ma, la zia lo sapeva bene, non era affatto "per niente" che aveva chiamato Franoise: a Combray, una persona "che nessuno aveva mai vista" era un essere non meno incredibile di un dio della mitologia, e di fatto, a memoria d'uomo, non era mai successo che, in rue du SaintEsprit o sulla piazza essendosi verificata una di tali stupefacenti apparizioni, ricerche ben condotte non avessero finito ogni volta col ridurre il personaggio favoloso alle proporzioni di una "persona conosciuta", o fisicamente o in astratto, nella sua realtà anagrafica, in quanto titolare d'un determinato grado di parentela con questo o quell'abitante di Combray. 
Era il figlio di Madame Sauton che tornava dal servizio militare, la nipote di don Perdreau che usciva di convento, il fratello del curato, esattore a Chteaudun, che era andato in pensione o s'era preso un periodo di ferie. 
Se, vedendoli, si era provata l'emozione di credere che ci fosse a Combray qualcuno mai visto o conosciuto, era stato semplicemente perché non lo si era riconosciuto o identificato 
  a colpo d'occhio. 
E dire che Madame Sauton e il curato avevano fatto sapere con largo anticipo che aspettavano i loro "viaggiatori". 
Quando la sera, appena tornato a casa, salivo a raccontare alla zia la nostra passeggiata e commettevo l'imprudenza di dirle che dalle parti del Ponte Vecchio avevamo incontrato un uomo che il nonno non conosceva: Un uomo che tuo nonno non conosce! esclamava lei. 
Ah! questa è bella!. 
Un po' emozionata, tuttavia, dalla notizia, voleva mettersi a posto la coscienza, il nonno veniva convocato. 
E allora, zio, chi avete incontrato dalle parti del Ponte Vecchio? un uomo che non conoscevate? - Ma come no, rispondeva il nonno, era Prosper, il fratello del giardiniere di Madame Bouilleboeuf. - Ah, bene, diceva la zia, tranquillizzata e un poco rossa; e, alzando le spalle con un sorriso ironico, aggiungeva: A dar retta a lui, avevate incontrato un uomo che non conoscevate!. 
E mi si raccomandava di essere più cauto, un'altra volta, e di non agitare la zia con discorsi avventati. 
Si conoscevano tutti così bene, a Combray, animali e persone, che se per caso mia zia aveva visto passare un cane "che non conosceva" non smetteva più di pensarci, e consacrava a quel fatto incomprensibile tutte le sue capacità induttive e le sue ore di libertà. 
- Sarà il cane di Madame Sazerat, diceva Franoise senza troppa convinzione, nel tentativo di rassicurare la zia e perché "non stesse a rompersi la testa". 
- Come se non conoscessi il cane di Madame Sazerat! replicava la zia, il cui spirito critico non ammetteva tanto facilmente un fatto. 
- Ah! sarà il nuovo cane che il signor Galopin ha portato da Lisieux. 
- Ah! che sia quello? - Dicono che è una bestia molto socievole, aggiungeva Franoise che era debitrice di questa informazione a Théodore, intelligente come un cristiano, sempre di buonumore, sempre affettuoso, un simpaticone. 
E' raro che una bestia, a quell'età, sia già di così buona compagnia. 
Madame Octave, bisognerà che vi lasci, non ho tempo di stare a divertirmi; sono quasi le dieci, non ho neanche acceso i fornelli e devo ancora pulire gli asparagi. 
- Come, Franoise, ancora asparagi! ma è una vera fissazione che vi ha preso quest'anno con gli asparagi, finirete con lo stancare i nostri parigini! - Ma no, Madame Octave, a loro piacciono. 
Torneranno dalla chiesa con un bell'appetito, e vedrete che non si faranno pregare. 
- Ma in chiesa saranno già arrivati, a quest'ora; farete bene a non perdere tempo. 
Andate, andate a sorvegliare la vostra colazione. 
Intanto che la zia conversava così con Franoise, io accompagnavo i miei genitori a messa. 
Come l'amavo, e con quanta chiarezza la rivedo, la nostra Chiesa! Il vecchio portico dal quale entravamo, nero, butterato come un colabrodo, aveva gli angoli deviati e profondamente smangiati (non diversamente dall'acquasantiera verso la quale ci conduceva) come se il dolce sfioramento dei mantelli dei contadini che entravano in chiesa e attingevano con timide dita l'acqua benedetta avesse acquistato, ripetendosi nei secoli, una forza distruttiva, capace di curvare la pietra e di incidervi dei solchi simili a quelli che la ruota d'un carretto traccia sul cippo di confine andandovi a urtare giorno dopo giorno. 
Anche le sue pietre tombali, (49) sotto le quali la nobile polvere degli abati di Combray, colà sepolti, faceva da pavimento spirituale al coro, non erano più materia inerte e dura, giacché il tempo le aveva rese tenere e fatte colare come miele al di fuori del loro tracciato ortogonale con un fiotto biondo e sbordante che aveva trascinato alla deriva una maiuscola gotica fiorita o annegato le bianche violette di marmo; altrove, invece, esse si erano come riassorbite al di qua dei propri limiti contraendo ancora di più l'ellittica iscrizione latina, introducendo un altro capriccio nella disposizione dei suoi caratteri abbreviati, avvicinando due lettere di una parola nella quale le altre erano state smisuratamente distanziate. 
Le vetrate non erano mai tanto cangianti come nei giorni in cui il sole non si faceva quasi vedere, di modo che, quando fuori era grigio, si era sicuri che in chiesa ci sarebbe stato il bel tempo; (50) una era riempita in tutta la sua grandezza da un solo personaggio, simile a un re delle carte da gioco, che viveva lassù, sotto un baldacchino di pietra, fra cielo e terra (e nel cui riflesso obliquo e azzurro, durante la settimana, a mezzogiorno, quando non c'è funzione - uno di quei rari momenti in cui la chiesa vuota e arieggiata, più umana, lussuosa, con raggi di sole sul suo ricco mobilio, aveva un aspetto quasi abitabile, come la "hall", di pietra scolpita e vetro dipinto, d'un albergo in stile medievale - si vedeva a volte Madame Sazerat inginocchiarsi un attimo, posando sull'inginocchiatoio vicino un pacchetto ben confezionato di pasticcini appena acquistati nel negozio di fronte, da portare a casa per colazione); da un'altra parte, una montagna di neve rosa, ai cui piedi era in corso una battaglia, sembrava aver spruzzato direttamente la vetrata alla quale dava corpo con il suo torbido nevischio, rendendola simile a una finestra sulla quale fossero rimasti dei fiocchi di neve, ma come rischiarati da un'aurora (la stessa, senza dubbio, che imporporava il retablo dell'altare con toni così freschi da far pensare che fossero stati posati là per un istante da qualche chiarore esterno ed effimero più che da colori fissati per sempre alla pietra); e così antiche erano tutte, che qua e là si vedeva la loro età venerabile e argentata scintillare della polvere dei secoli e mostrare, brillante e logora fino alla corda, la trama del loro dolce arazzo vetroso. 
Una era una specie di alto casellario formato da un centinaio di piccoli pannelli rettangolari il cui colore dominante era l'azzurro, simile a quei giochi di carte che dovevano svagare il re Carlo Sesto; (51) ma bastava che un raggio brillasse, oppure che il mio sguardo, muovendosi, facesse scorrere attraverso la vetrata, via via spenta e riaccesa, un prezioso incendio mobile, perché un istante dopo essa assumesse lo splendore cangiante dello strascico d'un pavone, per poi tremare e ondeggiare in una pioggia fiammeggiante e fantastica che colava dall'alto della volta oscura e rocciosa lungo le pareti umide, come se al seguito dei miei genitori che portavano in mano i loro messali io fossi penetrato nella navata di qualche grotta iridata di sinuose stalattiti, ancora un istante, e le piccole vetrate a losanga acquistavano una trasparenza profonda, un'infrangibile durezza come di zaffiri giustapposti su un immenso pettorale dietro i quali si sentisse tuttavia, più amato di queste ricchezze, un sorriso brevissimo di sole, riconoscibile tanto nel fiotto azzurro e dolce in cui immergeva i gioielli quanto sul selciato della piazza o sulla paglia del mercato, anche nelle nostre prime domeniche, quando s'arrivava prima di Pasqua, esso mi consolava del fatto che la terra fosse ancora nuda e nera facendo sbocciare, come in una primavera storica che risaliva ai successori di san Luigi, (52) quell'arazzo abbagliante e dorato di miosotidi di vetro. Nei due arazzi ad alti licci che rappresentavano l'incoronazione di Ester (53) (secondo la tradizione, Assuero vi era stato raffigurato con le fattezze di un re di Francia, e Ester con quelle di una dama di Guermantes da lui amata) i colori, fondendosi, avevano accentuato l'espressività, il rilievo, la luce: un po' di rosa s'era sparso intorno alle labbra di Ester, oltre il loro contorno; il giallo della sua veste si spiegava così untuosamente, così grassamente da conferirle una sorta di spessore, facendola risaltare vivamente su uno sfondo attenuato; e il verde degli alberi, rimasto vivo sulle parti inferiori del quadro di seta e lana, ma appassito più in alto, faceva sì che spiccassero in chiaro, al di sopra dei tronchi scuri, gli alti rami biondeggianti, dorati e come cancellati dai bruschi, obliqui raggi d'un sole invisibile. 
Tutto questo, e più ancora gli oggetti preziosi che la chiesa aveva ricevuto da personaggi che per me erano quasi di leggenda (la croce d'oro lavorata, dicevano, da sant'Eligio e donata da Dagoberto, (54) la tomba dei figli di Luigi il Germanico, (55) in porfido e rame smaltato), a motivo dei quali io m'inoltravo nella chiesa, quando andavamo a occupare le nostre sedie, come in una valle frequentata dalle fate, dove il contadino stupisce di scorgere in una roccia, in un albero, in uno stagno la traccia palpabile del loro passaggio sovrannaturale (56) - tutto questo ne faceva, per me, qualcosa di completamente diverso dal resto della città: un edificio che occupava, per così dire, uno spazio a quattro dimensioni (la quarta era quella del Tempo) e che, dispiegando attraverso i secoli la sua navata, sembrava aver varcato e sconfitto, di campata in campata, di cappella in cappella, non solo qualche metro, ma epoche successive, dalle quali usciva in trionfo; nascondendo il rude e selvatico Undicesimo secolo nello spessore dei muri e non permettendogli di emergerne, con i suoi grevi sesti riempiti e accecati da grosse pietre, se non attraverso la profonda fessura scavata accanto al portico dalla scala del campanile, anche là tuttavia dissimulandolo con le graziose arcate gotiche che gli si accalcavano davanti, civettuole come sorelle più grandi che si mettano sorridendo, perché altri non lo vedano, davanti a un fratello minore zotico, brontolone e malvestito; alzando verso il cielo, al di sopra della Piazza, la sua torre che aveva visto san Luigi e sembrava fissarlo ancora; e sprofondando con la sua cripta in una notte merovingia dove, guidandoci a tentoni sotto la volta buia e potentemente nervata come la membrana d'un immenso pipistrello di pietra, Théodore e sua sorella ci illuminavano con una candela la tomba della figlioletta di Sigeberto, sulla quale una profonda valva, (57) simile all'impronta di un fossile, era stata scavata, a quanto si diceva, "da una lampada di cristallo che, la sera dell'uccisione della principessa franca, s'era staccata da sola dalle catene d'oro che la sostenevano nel luogo dove adesso c'è l'abside, e senza che il cristallo si spezzasse, senza che la fiamma si spegnesse, era penetrata nella pietra che aveva mollemente ceduto sotto il suo peso". (58) L'abside della chiesa di Combray; si può parlarne veramente? Era così grossolana, così sprovvista di bellezza artistica e persino di slancio religioso. 
All'esterno, poiché l'incrocio di strade sul quale sorgeva era a un livello inferiore, le sue rozze mura s'alzavano da un basamento di grosse pietre non levigate, irte di ciottoli, che non aveva nulla di particolarmente ecclesiastico; le vetrate sembravano aprirsi a un'altezza eccessiva, e l'insieme aveva l'aria di una muraglia di prigione più che di chiesa. 
E certo, più tardi, ricordando tutte le gloriose absidi che mi è capitato di vedere, non mi sarebbe mai venuto in mente di accostare ad esse l'abside di Combray. 
Soltanto, un giorno, girando un angolo di strada in una cittadina di provincia, di fronte all'incrocio di tre viuzze ho visto un muro consunto e sopraelevato, con vetrate che s'aprivano in alto e lo stesso aspetto asimmetrico dell'abside di Combray. 
E allora non mi sono chiesto, come a Chartres o a Reims, con quale potenza vi fosse espresso il sentimento religioso, ma ho esclamato senza volerlo: La Chiesa!. 
La chiesa! Familiare; contigua, in rue Saint-Hilaire dove s'apriva la porta nord, alle sue due vicine, la farmacia del signor Rapin e la casa di Madame Loiseau che l'affiancavano senza alcuna separazione; semplice cittadina di Combray, che avrebbe potuto avere il suo numero civico se le case di Combray avessero avuto un numero civico, e dove sembrava che il postino avrebbe dovuto fermarsi il mattino, durante la distribuzione, prima di entrare da Madame Loiseau e subito dopo essere uscito dal negozio del signor Rapin; e tuttavia, tra la chiesa e ciò che non era la chiesa, passava un confine che il mio spirito non è mai riuscito a varcare. 
Non bastava che dalla finestra di Madame Loiseau le fucsie avessero la cattiva abitudine di lasciar correre dappertutto i rami, sempre a testa bassa, e che i loro fiori non trovassero nulla di più urgente da fare, quando erano abbastanza cresciuti, che andare a rinfrescare le loro gote viola e congestionate contro la cupa facciata della chiesa: le fucsie non diventavano per questo sacre ai miei occhi, e se tra i fiori e la pietra annerita alla quale i fiori s'appoggiavano lo sguardo non registrava alcun intervallo il mio spirito continuava a percepire un abisso. 
Il campanile di Saint-Hilaire lo si riconosceva da molto lontano, vedendo la sua indimenticabile figura iscriversi all'orizzonte dove Combray non era ancora comparsa; quando, dal treno che la settimana di Pasqua ci portava là da Parigi, mio padre lo vedeva sfilare via via su tutti i solchi del cielo, facendo correre in ogni senso il suo piccolo gallo di ferro, ci diceva: Su, raccogliete le coperte, siamo arrivati. 
E durante una delle più lunghe passeggiate che facevamo da Combray c'era un punto in cui la strada incassata sbucava tutt'a un tratto in un'immensa piana chiusa all'orizzonte da foreste frastagliate che solo la punta sottile del campanile di Saint-Hilaire sormontava, ma così esigua, così rosea da sembrare appena graffiata nel cielo da un'unghia che avesse voluto aggiungere a quel paesaggio, a quel quadro fatto di nient'altro che di natura, questa piccola impronta d'arte, quest'unica indicazione umana. 
Quando, avvicinandosi, si poteva scorgere l'avanzo di torre quadrata e semidiroccata che, meno alto, resisteva accanto al campanile, si rimaneva colpiti soprattutto dalla tonalità cupa e rossastra delle pietre; e in un mattino brumoso d'autunno si sarebbe detto che a innalzarsi al di sopra del viola temporalesco dei vigneti fosse un rudere di porpora, del colore, quasi, della vite vergine. 
Spesso, tornando a casa, arrivati nella piazza la nonna mi faceva sostare per guardarlo. 
Dalle finestre della sua torre, collocate a due a due le une sopra le altre con quella giusta e originale proporzione nelle distanze che non solo nei volti umani s'accompagna alla dignità e alla bellezza, liberava, lasciava cadere a intervalli regolari dei voli di corvi che per qualche istante roteavano stridendo, come se le vecchie pietre che li lasciavano giocare fingendo di non vederli fossero divenute all'improvviso inabitabili, portatrici d'un principio di agitazione infinita, e li avessero colpiti e scacciati. 
Poi, dopo aver scalfito in tutti i sensi il velluto viola dell'aria serale, bruscamente calmandosi tornavano ad immergersi nella torre, ridivenuta da nefasta propizia, alcuni posandosi qua e là, immobili all'apparenza, ma intenti forse a ghermire qualche insetto, sulla punta d'una guglia, come un gabbiano sospeso con l'immobilità d'un pescatore sulla cresta di un'onda. 
Senza afferrarne del tutto la ragione, la nonna vedeva nel campanile di Saint-Hilaire quell'assenza di volgarità, di piccineria, di presunzione che le rendeva adorabili e le faceva credere ricche d'un influsso benefico sia la natura, a patto che la mano dell'uomo non l'avesse immeschinita come faceva il giardiniere della prozia, sia le opere di genio. E non c'era dubbio che se la chiesa si distingueva in ogni sua parte visibile da qualsiasi altro edificio per una sorta di pensiero che vi era infuso, nel campanile sembrava prendere coscienza di sé, affermare una propria esistenza individuale e responsabile. 
Era il campanile a parlare per conto di tutta la chiesa. 
Più che altro credo che, confusamente, la nonna vedesse nel campanile di Combray tutto ciò che al mondo aveva per lei il massimo pregio, la naturalezza e la distinzione. Sprovveduta in fatto d'architettura, diceva: Figli miei, prendetemi in giro quanto volete, non sarà bello secondo le regole, ma la sua vecchia faccia bizzarra mi piace. 
Sono sicura che se suonasse il piano, non suonerebbe duro. 
E guardandolo, seguendo con gli occhi la dolce tensione, l'inclinazione fervente dei suoi pendii di pietra che s'avvicinavano innalzandosi come mani giunte nella preghiera, si immedesimava a tal punto nell'effusione della cuspide, che il suo sguardo sembrava slanciarsi nella stessa direzione; e intanto sorrideva con amicizia alle vecchie pietre consumate che il sole al tramonto rischiarava ormai soltanto sulla cima e che, dal momento in cui entravano in quella zona lambita dai raggi, apparivano di colpo, così addolcite dalla luce, molto più alte e lontane, come un canto ripreso in falsetto un'ottava sopra. 
Era il campanile di Saint-Hilaire che dava a tutte le occupazioni, a tutte le ore, a tutte le vedute della città il loro volto, il loro coronamento, la loro consacrazione. 
Dalla mia stanza ne vedevo soltanto la base, che era stata ricoperta di lastre d'ardesia; ma quando, la domenica, nel caldo mattino d'estate, le vedevo fiammeggiare come un sole nero, mi dicevo: Dio mio! le nove! devo prepararmi per andare alla messa grande se voglio avere il tempo, prima, d'andare a salutare zia Léonie, e conoscevo con esattezza il colore del sole sulla piazza, il caldo e la polvere del mercato, l'ombra disegnata dalla tenda del negozio nel quale la mamma sarebbe forse entrata prima della messa, in un odore di tela greggia, a comperare qualche fazzoletto che le avrebbe fatto vedere, mentre si raddrizzava ossequioso, il proprietario, appena sbucato dal retrobottega dove, ormai in procinto di chiudere, era andato a infilarsi la giacca della domenica e a darsi una sciacquata alle mani che aveva l'abitudine, anche nelle circostanze più malinconiche, di stropicciarsi ogni cinque minuti con aria intraprendente, soddisfatta e galante. 
Quando, finita la messa, passavamo da Théodore per dirgli di portare una "brioche" più grossa del solito perché i nostri cugini avevano approfittato del bel tempo per venire da Thiberzy a mangiare con noi, avevamo di fronte il campanile che, dorato e cotto esso stesso come una "brioche" gigantesca e benedetta, con scaglie e sgocciolature gommose di sole, spingeva la sua punta aguzza nell'azzurro del cielo. 
E la sera, quando tornando dalla passeggiata pensavo al momento in cui, ben presto, avrei dovuto dare la buonanotte a mia madre e non vederla più, appariva invece così dolce, nel morire del giorno, da sembrare posato e sprofondato come un cuscino di velluto scuro contro il cielo impallidito che, cedendo alla sua pressione e incavandosi leggermente per fargli posto, rifluiva poi lungo i suoi bordi; e gli stridi degli uccelli che gli volteggiavano intorno parevano aumentare il suo silenzio, rendere ancor più slanciata la sua guglia e dargli un che di ineffabile. 
Anche quando si andava a fare acquisti dietro la chiesa, da dove era impossibile vederlo, tutto sembrava regolato in rapporto al campanile che spuntava ogni tanto tra le case, ancor più commovente, forse, quando appariva così, solo, senza la chiesa. 
Certo ce ne sono molti altri che risultano più belli visti in questo modo, e nella mia memoria serbo immagini di campanili che sovrastano i tetti con un carattere d'arte ben diverso da quello composto dalle malinconiche strade di Combray. 
Non dimenticherò mai, in una curiosa città della Normandia non lontana da Balbec, due incantevoli palazzi del Diciottesimo secolo, che mi sono per molti aspetti cari e venerabili e in mezzo ai quali, guardando dal bel giardino che dalle scalinate scende verso il fiume, la guglia gotica d'una chiesa ch'essi nascondono si slancia quasi a completare, a sormontare le loro facciate, ma in una maniera così diversa, così preziosa e anellata, scintillante, rosea, che si vede benissimo che non appartiene a loro più di quanto la cuspide crenata e porporina d'una conchiglia rastremata a torretta e candita di smalto non appartenga ai due graziosi sassi gemelli tra i quali, sulla spiaggia, si trova prigioniera. Persino a Parigi, in uno dei quartieri più squallidi della città, conosco una finestra dalla quale, dopo un primo, un secondo e addirittura un terzo piano formato dai tetti ammonticchiati di parecchie strade, si scorge una campana viola, a volte rossastra, a volte, nelle più pregiate "prove d'artista" tirate dall'atmosfera, d'un decantato nero cenere, che altro non è se non la cupola di SaintAugustin e che assimila quella veduta di Parigi a certe vedute romane di Piranesi. (59) Ma poiché in nessuna di queste piccole incisioni, per quanto gusto abbia messo nell'eseguirle, la mia memoria ha potuto inserire ciò che da molto tempo avevo perduto, vale a dire il sentimento per il quale, anziché guardare a una cosa come a uno spettacolo, noi vi crediamo come in un essere incomparabile, ecco che nessuna tiene sotto il suo dominio una parte intera e profonda della mia vita così come il ricordo di quelle apparizioni del campanile di Combray nelle stradine dietro la chiesa. 
Lo si vedesse alle cinque, quando s'andava a cercare lettere alla posta, a poche case di distanza, sulla sinistra, rialzare bruscamente con la sua punta isolata la linea degli apici dei tetti; o, volendo invece passare a chiedere notizie di Madame Sazerat, si seguisse con gli occhi quella linea, riabbassatasi al di là dell'opposto spiovente, sapendo di dover svoltare nella seconda strada dopo il campanile; o, ancora, spingendosi più lontano, sulla strada per la stazione, lo si vedesse mostrare obliquamente, di profilo, superfici e spigoli nuovi, come un solido sorpreso in un momento sconosciuto della sua rotazione; o, stando in riva alla Vivonne, l'abside, muscolosamente raccolta e rialzata dalla prospettiva, desse l'impressione di balzar fuori dallo sforzo che faceva il campanile per lanciare la sua cuspide nel cuore del cielo; era sempre a lui che bisognava tornare, era sempre lui a dominare tutto, coronando le case con un pinnacolo inatteso che s'elevava davanti ai miei occhi come il dito di Dio, nascosto col corpo dentro la folla degli umani senza che per questo io potessi confonderlo con loro. 
E anche oggi, se in una grande città di provincia o in un quartiere di Parigi che non conosco bene un passante che mi ha "messo sulla strada" mi mostra là in fondo, come punto di riferimento, una torretta d'ospedale o un campanile di convento che fa capolino con la sommità del suo zucchetto ecclesiastico all'angolo della via in cui dovrò inoltrarmi, basta che la mia memoria riesca oscuramente a trovargli qualche tenue somiglianza con l'amata e scomparsa fisionomia perché il passante, se si volta per assicurarsi che non mi stia smarrendo, possa vedermi, con sua grande sorpresa, restare là per delle ore, immobile, davanti al campanile, dimentico della passeggiata intrapresa o della commissione da fare, cercando di ricordare, sentendo in fondo a me stesso rassodarsi, riassestarsi le terre riconquistate all'oblio; e allora, certo, e più ansiosamente di quando, poco fa, lo pregavo di indicarmela, io cerco la strada, svolto in una via... ma... soltanto nel mio cuore... 
Tornando dalla messa, incontravamo spesso il signor Legrandin che, trattenuto a Parigi dalla sua professione di ingegnere, poteva raggiungere la sua proprietà di Combray, a parte il periodo delle vacanze estive, solo dal sabato sera al lunedì mattina. 
Era uno di quegli uomini che, al di fuori di una carriera scientifica nella quale si sono per altro brillantemente affermati, possiedono una cultura affatto diversa, letteraria, artistica che la loro specializzazione professionale non mette a profitto ma di cui si giova la loro conversazione. 
Più letterati di molti letterati (noi ignoravamo, allora, che il signor Legrandin avesse una certa reputazione come scrittore, e fummo assai sorpresi di constatare che un celebre musicista aveva composto una melodia su alcuni suoi versi), dotati di una vena più "facile" di quella di molti pittori, uomini come lui credono che la vita che fanno non sia quella che sarebbe stata per loro la più congeniale e portano nelle loro occupazioni concrete vuoi un misto di noncuranza e fantasia, vuoi un'applicazione sostenuta e altera, sprezzante, amara e coscienziosa. 
Alto, di bell'aspetto, con un volto fine e pensoso dai lunghi baffi biondi e dallo sguardo azzurro e disincantato, di modi raffinati, conversatore come mai ne avevamo sentiti, impersonava agli occhi della mia famiglia, che lo portava sempre ad esempio, il tipo dell'uomo eccezionale, che affronta la vita nel modo più nobile e delicato. 
La nonna gli rimproverava soltanto di parlare un po' troppo bene, un po' troppo come un libro stampato, di non avere nell'eloquio la naturalezza delle sue cravatte alla "lavallière" (60) sempre svolazzanti, della sua giacca dritta quasi da studente. 
Si stupiva anche delle accese requisitorie, alle quali s'abbandonava sovente, contro l'aristocrazia, la vita mondana, lo snobismo, certamente il peccato al quale pensa san Paolo quando parla del peccato per cui non c'è remissione (61). 
L'ambizione mondana era un sentimento che la nonna era così incapace di provare e quasi di capire, che le sembrava del tutto inutile biasimarla con tanto ardore. Inoltre non trovava molto di buon gusto che il signor Legrandin, la cui sorella era sposata, dalle parti di Balbec, con un gentiluomo della bassa Normandia, attaccasse così violentemente i nobili, fino a imputare alla Rivoluzione di non averli ghigliottinati tutti. 
- Salve, amici! diceva Legrandin venendoci incontro. 
Beati voi che potete restare qui così a lungo; io domani devo tornare a Parigi, nella mia nicchia. 
Oh! aggiungeva, con quel sorriso dolcemente ironico e deluso, un po' distratto, che gli era peculiare, non mancano certo, là nella mia casa, tutte le cose inutili. 
Quello che manca è solo il necessario, un gran lembo di cielo come qui. 
Cercate di conservare sempre un lembo di cielo sopra la vostra vita, fanciullo mio, aggiungeva voltandosi verso di me. 
Voi avete un'anima bella, d'una qualità rara, una natura d'artista, non lasciatele mancare ciò di cui ha bisogno. 
Quando, al nostro ritorno, la zia ci faceva chiedere se Madame Goupil era arrivata in ritardo alla messa, eravamo incapaci di risponderle. 
In compenso accrescevamo la sua agitazione dicendole che in chiesa un pittore stava copiando la vetrata di Gilberto il Malvagio. (62) Franoise, spedita senza indugio dal droghiere, era tornata a mani vuote per colpa dell'assenza di Théodore, al quale la doppia professione di cantore corresponsabile della manutenzione della chiesa e di commesso della drogheria conferiva, con le sue relazioni in tutti gli ambienti, una sorta di sapere universale. 
- Ah! sospirava la zia, vorrei che fosse già l'ora di Eulalie. 
Decisamente non c'è che lei che possa dirmi qualcosa. 
Eulalie era una ragazza zoppa, energica e sorda che si era "ritirata" dopo la morte di Madame de la Bretonnerie, presso la quale era stata a servizio sin da bambina, e aveva preso in affitto, a fianco della chiesa, una stanza dalla quale scendeva di continuo sia per le funzioni sia, in orari diversi, per recitare una breve preghiera o per dare una mano a Théodore; il resto del tempo lo impiegava in visite a persone malate come zia Léonie, alle quali raccontava quello ch'era successo a messa o ai vespri. 
Non disdegnava d'aggiungere qualche extra alla piccola rendita che le passava la famiglia dei suoi antichi padroni andando di tanto in tanto a ispezionare la biancheria del curato o di qualche altra personalità di spicco del mondo clericale di Combray. 
Portava, su un mantello di panno nero, una piccola cuffia bianca, quasi da religiosa, e una malattia della pelle dava a una parte delle sue guance e al suo naso ricurvo i toni rosa acceso della balsamina. 
Le sue visite erano la grande distrazione di zia Léonie, che non riceveva quasi più nessuno all'infuori del signor Curato. 
A poco a poco la zia aveva allontanato tutti gli altri visitatori perché avevano, ai suoi occhi, il torto di rientrare nell'una o nell'altra delle due categorie che lei detestava. 
Alcuni - i peggiori, i primi dei quali si era sbarazzata - erano quelli che le consigliavano di non stare ad "auscultarsi" e professavano, magari solo in negativo, attraverso certi silenzi di disapprovazione o certi sorrisi di perplessità, la dottrina sovversiva che una passeggiatina al sole e una buona bistecca al sangue (proprio a lei, che era capace di sentirsi sullo stomaco per quattordici ore due infelici sorsate d'acqua di Vichy!) le avrebbero giovato più del letto e delle medicine. 
L'altra categoria era composta dalle persone che avevano l'aria di credere che la sua malattia fosse più grave di quanto lei non pensasse, grave come lei sosteneva. 
Così, quelli che aveva lasciato salire dopo qualche esitazione e dietro le pressioni ufficiose di Franoise e che, durante la visita, avevano dimostrato quanto poco fossero degni del favore di cui li si era gratificati azzardando timidamente un: Non credete che se vi muoveste un po' quando c'è bel tempo, oppure, al contrario, alla sua dichiarazione: Sono giù, molto giù, è la fine, poveri amici miei avevano replicato: Ah, quando non c'è la salute! Ma fatevi coraggio, potete tirare avanti ancora, c'era da star sicuri che quelli, sia gli uni che gli altri, non li avrebbe ricevuti mai più. 
E se Franoise sorrideva divertita dell'espressione di terrore della zia quando dal suo letto vedeva in rue du Saint-Esprit una di quelle persone intenzionata, le sembrava, a venire da lei, o quando sentiva una scampanellata, molto più rideva, come a uno scherzo ben riuscito, degli stratagemmi sempre vincenti della zia per sbarazzarsene e della loro aria di sconfitta quando s'allontanavano senza essere riusciti a vederla, e in fondo ammirava la padrona, che giudicava superiore a tutte quelle persone per il fatto stesso che non voleva vederle. 
Insomma, mia zia esigeva allo stesso tempo che si approvasse il suo regime, si compiangessero le sue sofferenze e la si rassicurasse sul suo avvenire. 
Era in questo che Eulalie eccelleva. 
Mia zia avrebbe potuto dirle: E' la fine, mia povera Eulalie venti volte in un minuto e lei, venti volte, avrebbe risposto: Conoscendo la vostra malattia come la conoscete, Madame Octave, arriverete a cent'anni, come mi diceva ancora ieri Madame Sazerin. (Una delle più ferme convinzioni di Eulalie, una convinzione che l'imponente numero delle smentite ricevute dall'esperienza non aveva nemmeno scalfito, era che Madame Sazerat si chiamasse Madame Sazerin.) - Non pretendo di arrivare a cent'anni, rispondeva la zia, che preferiva non veder assegnato ai suoi giorni un termine preciso. 
E dato che Eulalie, in questo modo, riusciva come nessun altro a distrarre la zia senza affaticarla, le sue visite, che si svolgevano tutte le domeniche salvo impedimenti imprevisti, costituivano per mia zia un piacere la cui prospettiva le procurava, in quei giorni, uno stato d'animo dapprima gradevole, ma ben presto doloroso come una fame eccessiva se appena Eulalie tardava anche di poco. 
Protraendosi troppo a lungo, la voluttà dell'attendere Eulalie si trasformava in supplizio, la zia continuava a sbirciare l'ora, sbadigliava, aveva dei mancamenti. 
Se arrivava alla fine della giornata, quando lei non ci sperava più, la scampanellata di Eulalie la faceva quasi star male. 
In realtà, la domenica non pensava che a quella visita e appena finito di servire la colazione, Franoise aveva fretta che noi lasciassimo la sala per poter salire a "occuparsi" della zia. 
Ma (soprattutto quando le belle giornate s'impadronivano di Combray) l'altero mezzogiorno, sceso dalla torre di Saint-Hilaire che aveva fregiata dei dodici fioroni momentanei della sua corona sonora, era già echeggiato intorno al nostro desco, accompagnato dal pane benedetto giunto anch'esso in tutta semplicità direttamente dalla chiesa, e ancora noi sedevamo davanti ai piatti delle Mille e una Notte, appesantiti dalla calura e più ancora dal cibo. 
Alla base consueta di uova, costolette, patate, marmellate, biscotti, che ormai nemmeno ci annunciava, Franoise aggiungeva infatti - seguendo i cicli dei campi e degli orti, gli effetti della marea, le vicende del commercio, le cortesie dei vicini e il suo proprio genio, in modo che il nostro menu, simile a certi quadrilobi scolpiti nel Tredicesimo secolo sul portale delle cattedrali, rifletteva un poco il ritmo delle stagioni e dei fatti della vita -: un rombo perché la pescivendola gliene aveva garantito la freschezza, una tacchina perché l'aveva vista bella al mercato di Roussainville-le-Pin, dei cardi al midollo perché in quel modo non ce li aveva ancora fatti, un cosciotto arrosto perché stare all'aria aperta stimola l'appetito e fino alle sette c'era tutto il tempo per digerirlo, degli spinaci tanto per cambiare, delle albicocche perché erano ancora una primizia, del ribes perché entro quindici giorni sarebbe finito, dei lamponi che il signor Swann aveva portato di persona, delle ciliegie, le prime cresciute sul ciliegio del giardino dopo due anni che non dava più frutti, del formaggio alla crema che una volta mi piaceva tanto, un dolce alle mandorle perché l'aveva ordinato il giorno prima, una "brioche" perché toccava a noi offrirla. 
Quando tutto questo era finito, creata appositamente per noi, ma dedicata più specialmente a quell'intenditore che era mio padre, una crema al cioccolato, ispirazione, attenzione personale di Franoise, ci veniva offerta, fuggitiva e lieve come un'opera di circostanza nella quale lei aveva profuso tutto il suo talento. 
Chi avesse rifiutato di assaggiarla dicendo: Basta, non ho più fame, sarebbe immediatamente retrocesso al rango di quegli zotici che persino di fronte a un'opera donata loro da un artista badano al peso e alla materia, mentre il valore risiede tutto nell'intenzione e nella firma. 
Lasciarne anche una sola goccia nel piatto avrebbe testimoniato di una villania simile a quella di chi s'alza in piedi prima della fine dell'esecuzione sotto gli occhi del compositore. Alla fine mia madre diceva: Su, non vorrai restare seduto all'infinito, sali in camera tua se fuori fa troppo caldo, ma prima vai a prendere una boccata d'aria per non metterti a leggere appena alzato da tavola. 
Andavo a sedermi sulla panchina senza spalliera, all'ombra d'un lillà, accanto alla pompa dell'acqua e alla relativa vasca, spesso decorata, come un battesimale gotico, da una salamandra, il cui corpo allegorico e affusolato si scolpiva come un rilievo mobile sulla pietra consunta, in quell'angolo del giardino che dava, attraverso una porta di servizio, su rue du Saint-Esprit e sul cui terreno poco curato sorgeva, sopraelevato di due gradini e sporgente rispetto alla casa, come una costruzione autonoma, il retro della cucina. 
Se ne scorgeva il pavimento di mattoni, rosso e lucido come porfido. 
Più che l'antro di Franoise, sembrava un tempietto di Venere. 
Rigurgitava delle offerte del lattaio, del fruttivendolo, della venditrice di legumi, venuti a volte da paesini piuttosto lontani per dedicarle le primizie dei loro campi. 
E il suo fastigio era immancabilmente coronato dal tubare d'una colomba. 
Altre volte, invece di indugiare nel bosco sacro che lo circondava, entravo, prima di salire a leggere, nello studiolo a pianterreno dove mio zio Adolphe, un fratello del nonno, exmilitare andato in pensione col grado di maggiore, si ritirava a riposare, e che persino quando le finestre aperte lasciavano entrare il caldo, se non proprio i raggi del sole che raramente giungevano fin là, emanava inesauribilmente quell'odore oscuro e fresco, al tempo stesso di bosco e di "ancien régime", che fa sognare a lungo il nostro olfatto quando penetriamo in certi padiglioni di caccia abbandonati. Ma da parecchi anni non entravo nello studiolo di zio Adolphe, che non veniva più a Combray a causa d'un litigio intercorso fra lui e la mia famiglia, per colpa mia, nelle seguenti circostanze: Una o due volte al mese, a Parigi, mi spedivano a fargli visita, subito dopo la colazione che lui consumava in giacca da camera, servito dal suo domestico in giubba da fatica di rigatino bianco e viola. 
Si lamentava, brontolando, che non venivo da un pezzo, che tutti lo abbandonavano; mi offriva un marzapane o un mandarino, attraversavamo una sala dove non ci si fermava mai, dove il fuoco non veniva mai acceso, con modanature dorate alle pareti, i soffitti dipinti d'un azzurro che pretendeva di imitare il cielo e mobili "capitonnés" (63) di raso come in casa dei nonni, ma qui il raso era giallo; poi entravamo in quella che lui chiamava la sua stanza "da lavoro", alle cui pareti erano appese alcune di quelle stampe raffiguranti su fondo nero una dea rosea e carnosa in atto di guidare un carro, o in piedi sopra un globo, o con una stella in fronte, che piacevano tanto negli anni del Secondo Impero perché si riteneva avessero un'aria pompeiana, che furono poi detestate e che tornano oggi a piacere per una sola e analoga ragione, a dispetto delle altre che si vogliono addurre, e cioè che hanno un'aria Secondo Impero. 
E restavo lì con lo zio finché il suo cameriere non veniva a chiedergli, da parte del cocchiere, a che ora doveva essere pronta la carrozza. 
Mio zio sprofondava allora in una meditazione di cui lo stupefatto cameriere, il quale non avrebbe mai osato turbarla con il minimo movimento, aspettava con curiosità il risultato, sempre il medesimo. 
Alla fine, dopo un'estrema esitazione, lo zio pronunciava infallibilmente queste parole: Alle due e un quarto, che il cameriere ripeteva con stupore, ma senza discutere: Le due e un quarto? Bene... riferirò.... 
A quei tempi ero divorato dall'amore per il teatro, un amore platonico, giacché i miei genitori non mi avevano ancora permesso di andarci e io mi raffiguravo in modo così poco esatto i piaceri che vi si gustavano da essere quasi incline a credere che ogni spettatore guardasse come dentro uno stereoscopio una scena rappresentata solo per lui, benché simile a migliaia d'altre osservate, ciascuno per proprio conto, dagli altri spettatori. 
Ogni mattina correvo fino alla colonna Morris (64) per vedere quali spettacoli annunciasse. 
Niente era più disinteressato e più felice dei sogni che ciascuna delle "pièces" annunciate offriva alla mia immaginazione, e sui quali influivano contemporaneamente le immagini inseparabili dalle parole che ne componevano il titolo e dal colore stesso dei manifesti ancora umidi e rigonfi di colla su cui questo spiccava. 
A parte qualche opera strana, come il "Testamento di César Girodot" e l'"Edipo re", (65) che non si iscriveva sul manifesto verde dell'"Opéra-Comique" ma su quello color vinaccia della "ComédieFranaise", niente mi appariva più diverso dall'"aigrette" (66) scintillante e bianca dei "Diamanti della corona" del raso liscio e misterioso del "Domino nero", (67) e poiché i miei genitori m'avevano detto che quando fossi andato per la prima volta a teatro avrei dovuto scegliere fra queste due "pièces", a forza di approfondire successivamente il titolo dell'una e dell'altra, dal momento che era tutto ciò che ne conoscevo, per cercare di cogliere in ciascuno di essi il piacere che mi prometteva e di paragonarlo con quello che l'altro custodiva dentro di sé, ero arrivato a rappresentarmi con tanta evidenza, da una parte una "pièce" abbagliante e fiera, dall'altra una "pièce" dolce e vellutata, che mi ritrovavo del tutto incapace di decidere a quale delle due accordare la mia preferenza, esattamente come se per "dessert" mi avessero proposto di scegliere fra riso all'Imperatrice (68) e crema al cioccolato. 
Tutte le conversazioni con i miei compagni vertevano sugli attori, la cui arte, pur essendomi ancora sconosciuta, costituiva la prima forma, fra tutte quelle che assume, sotto la quale l'Arte mi si lasciava presagire. 
Nel modo, caratteristico dell'uno o dell'altro, di sottolineare o sfumare una tirata, le minime differenze mi sembravano d'un'importanza incalcolabile. 
E, sulla base di ciò che di loro avevo sentito dire, li classificavo secondo il talento in elenchi che mi recitavo per tutto il giorno e che avevano finito con l'indurirsi dentro il mio cervello ingombrandolo con la loro inamovibilità. 
In seguito, al ginnasio, ogni volta che durante le lezioni, non appena il professore aveva girato la testa, rivolgevo la parola a qualche nuovo amico, la mia prima domanda era sempre per chiedergli se era già stato a teatro e se pensava anche lui che l'attore più grande fosse Got, il secondo Delaunay, eccetera. E se, a suo parere, Febvre veniva solo dopo Thiron, o Delaunay dopo Coquelin, (69) la repentina motilità che Coquelin, abbandonando la rigidità della pietra, assumeva nella mia mente per passarvi al secondo posto, e l'agilità miracolosa, la fertile animazione di cui Delaunay appariva di colpo dotato per indietreggiare fino al quarto, restituivano il senso della fioritura e della vita al mio cervello ammorbidito e fecondato. 
Ma se tanto mi assorbivano gli attori, se la vista di Maubant che usciva un pomeriggio dal "Thétre-Franais" mi aveva provocato l'emozione improvvisa e le sofferenze dell'amore, a qual punto il nome di una stella fiammeggiante sulla porta d'un teatro, a qual punto, intravista al finestrino di un "coupé" (70) di passaggio nella via con i suoi cavalli dal frontale fiorito di rose, l'immagine di una donna che pensavo potesse essere un'attrice lasciavano dentro di me un turbamento più prolungato, uno sforzo impotente e doloroso per rappresentarmene la vita! Classificavo in ordine di talento le più illustri: Sarah Bernhardt, la Berma, Bartet, Madeleine Brohan, Jeanne Samary, (71) ma a interessarmi erano tutte. 
Ora mio zio ne conosceva parecchie, e anche delle "cocottes", che io non distinguevo molto bene dalle attrici. 
Le riceveva in casa sua. 
E se noi andavamo a fargli visita solo in determinati giorni era perché, gli altri giorni, ci andavano delle donne con le quali la famiglia non avrebbe potuto incontrarsi, almeno a suo modo di vedere; quanto allo zio, al contrario, la sua eccessiva facilità nell'usare a graziose vedove che forse non erano mai state sposate, a contesse dal nome altisonante, che altro non era se non un nome di battaglia, la cortesia di presentarle a mia nonna, o addirittura nell'elargire loro qualche gioiello di famiglia, l'aveva già messo più d'una volta in urto con mio nonno. 
Spesso, se un nome d'attrice affiorava nella conversazione, sentivo mio padre dire a mia madre, sorridendo: Un'amica di tuo zio; e io, pensando all'attesa cui uomini importanti inutilmente si riducevano, magari per anni, alla porta di questa o quella donna che non rispondeva alle loro lettere e li faceva cacciar via dal portiere, mi dicevo che mio zio avrebbe potuto evitarla a un ragazzino come me presentandolo in casa sua all'attrice che, inavvicinabile per tanti altri, era per lui un'intima amica. 
Così - con il pretesto di una lezione che, essendo stata spostata, cadeva ora così inopportunamente da avermi impedito diverse volte e da minacciare d'impedirmi anche in futuro di vedere lo zio - un giorno, un giorno diverso da quello riservato alle nostre visite, approfittando del fatto che i miei avevano mangiato di buonora, uscii di casa e invece di correre a scrutare la colonna dei manifesti, cosa per la quale mi lasciavano andar fuori da solo, corsi fin da lui. 
Davanti alla sua porta notai una carrozza alla quale erano attaccati due cavalli con un garofano rosso al paraocchi, mentre il cocchiere ne aveva uno all'occhiello. 
Dalla scala sentii una risata e una voce di donna, poi, quand'ebbi suonato, un silenzio e un rumore di porte che si chiudevano. 
Il cameriere venne ad aprire e vedendomi parve imbarazzato, mi disse che lo zio era molto occupato, certamente non avrebbe potuto ricevermi, e mentre lui andava comunque ad avvertirlo la voce che avevo già sentita disse: Oh sì, lascialo entrare; un minutino appena, mi farebbe tanto piacere. 
Nella fotografia che hai sullo scrittoio assomiglia tanto a sua madre, tua nipote - è lei, non è vero, nella fotografia accanto? Vorrei proprio vederlo, un istante solo, quel ragazzino. 
Sentii lo zio brontolare, seccarsi; alla fine, il cameriere mi fece entrare. 
Sul tavolo c'era il consueto piatto di marzapane; lo zio indossava la sua giacca da camera di tutti i giorni, ma di fronte a lui, con un vestito di seta rosa e una gran collana di perle al collo, era seduta una giovane donna che stava finendo di mangiare un mandarino. 
L'incertezza nella quale mi trovavo, se dovessi dirle signora o signorina, mi fece arrossire, e non osando rivolgere lo sguardo nella sua direzione per paura d'essere costretto a parlarle, andai a baciare lo zio. 
Lei mi guardava sorridendo e lo zio le disse: Mio nipote, senza dirle il mio nome, né dire a me il suo, certamente perché, dopo le difficoltà che aveva avute col nonno, cercava di evitare il più possibile qualsiasi contatto tra la sua famiglia e le sue relazioni di quel genere. 
- Come assomiglia a sua madre, disse lei. 
- Ma se avete visto mia nipote soltanto in fotografia, disse bruscamente e con tono burbero lo zio. 
- Vi chiedo scusa, mio caro, l'ho incrociata sulle scale l'anno scorso, quando siete stato tanto malato. 
E' vero che l'ho appena intravista come in un lampo e che le vostre scale sono molto buie, ma mi è stato sufficiente per ammirarla. 
Il giovanotto ha i suoi begli occhi, e anche "questo", e mentre parlava tracciò col dito una linea lungo la parte bassa della mia fronte. 
La signora, vostra nipote, porta il vostro stesso nome, amico mio? chiese poi allo zio. 
- Assomiglia soprattutto a suo padre, borbottò lo zio che non era disposto a fare delle presentazioni a distanza, pronunciando il nome della mamma, più che a farne di presenza. 
E' tutto suo padre, e anche la mia povera mamma. 
- Non conosco suo padre, disse la signora in rosa chinando leggermente la testa, e non ho mai conosciuto la vostra povera mamma, amico mio. 
Ricordate, è stato poco dopo il vostro grave lutto che ci siamo conosciuti. 
Provavo una lieve delusione, perché quella giovane signora non era diversa dalle altre belle donne che avevo viste a volte nell'ambito della mia famiglia, in particolare dalla figlia di un nostro cugino a casa del quale mi recavo puntualmente ogni capodanno. 
Soltanto meglio vestita, l'amica dello zio aveva lo stesso sguardo vivo e buono, l'atteggiamento altrettanto schietto e affettuoso. 
In lei non trovavo niente dell'aspetto teatrale che ammiravo nelle fotografie delle attrici, né dell'espressione diabolica corrispondente al genere di vita che doveva condurre. Stentavo a credere che fosse una "cocotte", e soprattutto non avrei mai creduto che fosse una "cocotte" di gran classe se non avessi visto la carrozza con i due cavalli, il vestito rosa, la collana di perle, e se non avessi saputo che mio zio ne conosceva solo del più alto bordo. 
Ma mi chiedevo come il milionario che le assicurava vettura, palazzo e gioielli potesse provar piacere a mangiarsi la propria fortuna per una persona che aveva l'aria così semplice e per bene. 
E tuttavia, pensando alla vita che doveva condurre, l'immoralità mi turbava forse di più che se si fosse concretizzata davanti a me in qualche straordinaria apparenza - quel suo essere così invisibile come il segreto d'un romanzo, d'uno scandalo che aveva scacciato da una casa di genitori borghesi e destinato a tutti, facendola sbocciare in bellezza ed elevandola sino al "demi-monde" e alla notorietà, costei che in base ai giochi della sua fisionomia, alle intonazioni della sua voce, simili a tanti altri che già conoscevo, continuavo mio malgrado a considerare come una giovane di buona famiglia che non appartenesse più ad alcuna famiglia. 
Eravamo passati nello studio, e lo zio, con gesto un poco imbarazzato dalla mia presenza, le offrì delle sigarette. 
- No, mio caro, disse lei, sapete che sono abituata a quelle che mi manda il Granduca. 
Gli ho detto che ne eravate geloso. 
E da un astuccio estrasse delle sigarette dorate, coperte di iscrizioni straniere. 
E invece sì, riprese tutt'a un tratto, devo averlo incontrato a casa vostra, il padre di questo giovanotto. 
Non è forse vostro nipote? Come ho potuto dimenticarlo? E' stato così buono, così squisito con me, aggiunse con un'aria modesta e sensibile. 
Ma pensando a quella che poteva essere stata l'accoglienza ruvida, che lei diceva d'aver trovato squisita, di mio padre, io che ne conoscevo il riserbo e la freddezza, mi sentii imbarazzato, come di un'indelicatezza ch'egli avesse commesso, per quella disparità tra la riconoscenza eccessiva che gli veniva tributata e la sua insufficiente cortesia. Più tardi, mi è parso di individuare uno degli aspetti commoventi del ruolo di queste donne oziose e alacri nel loro ricorrere alla propria generosità, al proprio talento, a un sogno disponibile di bellezza sentimentale - che, come gli artisti, esse non realizzano, non inseriscono nella cornice dell'esistenza comune - e a mezzi finanziari che per loro hanno un costo minimo, e consacrarli ad arricchire d'una montatura fine e preziosa la vita grezza e mal dirozzata degli uomini. 
Costei, così come, nel "fumoir" dove mio zio la riceveva in giacca da camera, elargiva la dolcezza del suo corpo, il suo vestito di seta rosa, le sue perle, l'eleganza che emana dall'amicizia di un granduca, allo stesso modo aveva preso qualche insignificante parola di mio padre, l'aveva lavorata con delicatezza, le aveva dato un taglio, una denominazione preziosa, e incastonandovi uno dei suoi sguardi della più bell'acqua, sfumato d'umiltà e di gratitudine, la restituiva mutata in un artistico gioiello, in qualcosa di "assolutamente squisito". 
- Su, coraggio, è ora che tu te ne vada, mi disse lo zio. 
Mi alzai, provavo un desiderio irresistibile di baciare la mano della signora in rosa, ma mi sembrava che sarebbe stata una mossa troppo audace, una specie di rapimento. 
Il cuore mi batteva mentre mi dicevo: Lo devo, non lo devo fare, poi smisi di chiedermi cosa dovessi fare per poter fare qualcosa. 
E con un gesto cieco e insensato, del tutto spoglio delle ragioni a suo favore che avevo trovato un momento prima, portai alle labbra la mano che lei mi tendeva. 
- Che caro! è già galante, ci sa fare con le donne: ha preso dallo zio. 
Sarà un perfetto "gentleman", aggiunse serrando i denti per imprimere alla frase un accento leggermente britannico. 
Non potrebbe venire una volta a prendere "a cup of tea", (72) come dicono i nostri vicini inglesi? Basterà che mi mandi un "bleu" (73) la mattina. 
Non sapevo cosa fosse un " bleu". 
Non capivo la metà delle parole che la signora diceva, ma il timore che vi si celasse qualche domanda alla quale sarebbe stato scortese non rispondere, mi costringeva a non smettere d'ascoltarle con attenzione, e ne ero spossato. 
- Ma no, è impossibile, disse lo zio alzando le spalle, non lo lasciano mai, lavora molto. 
A scuola vince tutti i primi premi, aggiunse sottovoce perché non sentissi quella menzogna e non potessi confutarla. 
Chissà? forse diventerà un piccolo Victor Hugo, una specie di Vaulabelle, (74) sapete. 
- Adoro gli artisti, riprese la signora in rosa, solo loro capiscono le donne... loro e le persone eccezionali come voi. 
Perdonate la mia ignoranza, amico mio. 
Chi è Vaulabelle? Sono forse quei volumi dorati nella piccola libreria a vetri del vostro salottino? Ricordate che avete promesso di prestarmeli, li terrò con molta cura. 
Mio zio, che detestava prestare i propri libri, non rispose e mi condusse fino all'anticamera. 
Folle d'amore per la signora in rosa, coprii di baci appassionati le guance piene di tabacco del mio vecchio zio, e mentre lui, alquanto imbarazzato, mi lasciava capire senza osare dirmelo apertamente che gli avrei fatto un piacere se avessi taciuto di quella visita ai miei parenti, io gli dicevo con le lacrime agli occhi che il ricordo della sua bontà era così fortemente impresso dentro di me che un giorno avrei certo trovato il modo di testimoniargli la mia riconoscenza. 
Era, in effetti, così impresso che un paio d'ore più tardi, dopo alcune frasi misteriose e secondo me inadeguate a dare ai miei parenti un'idea abbastanza precisa della nuova importanza che avevo acquisita, mi parve più efficace raccontare loro nei minimi dettagli la recente visita allo zio. 
Non pensavo, con questo, di procurargli delle noie. 
Come avrei potuto pensarlo, dal momento che non lo desideravo? Né potevo supporre che i miei parenti trovassero da ridire su una visita nella quale io non vedevo niente di male. Non succede tutti i giorni che un amico ci chieda di non dimenticare di scusarlo con una donna alla quale gli è stato impossibile scrivere, e che noi trascuriamo di farlo, giudicando che quella persona non possa attribuire importanza a un silenzio che non ne ha alcuna per noi? Immaginavo, come tutti, che il cervello degli altri fosse un ricettacolo inerte e docile, incapace di reazioni specifiche a ciò che vi veniva introdotto; e non ero neppure sfiorato dal dubbio che, depositando in quello dei miei parenti la notizia della conoscenza fatta grazie allo zio, non avessi trasmesso loro, contemporaneamente e secondo la mia intenzione, il giudizio positivo che io davo di tale presentazione. 
Disgraziatamente, i miei parenti si riferirono, quando vollero valutare il comportamento dello zio, a princìpi totalmente diversi da quelli che io avevo suggerito loro di adottare. 
Mio padre e mio nonno ebbero con lui delle spiegazioni burrascose; io ne fui indirettamente informato. 
Alcuni giorni dopo, incrociando fuori casa lo zio che transitava in vettura scoperta, sentii tutto il dolore, la riconoscenza, il rimorso che avrei voluto esprimergli. 
Rispetto alla loro immensità, mi parve che una scappellata sarebbe stata meschina, e avrebbe potuto far supporre allo zio che io mi sentissi tenuto nei suoi confronti a nient'altro che a una banale cortesia. 
Decisi di astenermi da un gesto così inadeguato, e voltai la testa. 
Lo zio pensò che io seguissi in questo gli ordini dei miei parenti, non riuscì a perdonarglielo, e morì parecchi anni dopo senza che nessuno di noi l'avesse più rivisto. 
E così non entravo più nello studiolo, sempre chiuso ormai, dove zio Adolphe era solito riposare, e dopo aver indugiato nei dintorni del retrocucina, quando Franoise, comparendo sulla soglia, mi diceva: Darò incarico alla sguattera di servire il caffè e di portar su l'acqua calda, io devo correre da Madame Octave, mi decidevo a rientrare e salivo direttamente a leggere in camera mia. 
La sguattera era un ente morale, un'istituzione permanente alla quale alcuni invariabili attributi assicuravano una sorta di continuità e di identità attraverso il succedersi delle forme passeggere in cui via via si incarnava, dato che non fu mai la stessa per due anni di seguito. 
L'anno in cui mangiammo tutti quegli asparagi, la sguattera abitualmente incaricata di pulirli era una povera creatura malaticcia, in uno stato di gravidanza già abbastanza avanzato quando arrivammo a Pasqua, e c'era persino da stupirsi che Franoise le lasciasse fare tanti mestieri e tante commissioni, visto che cominciava a portare con difficoltà davanti a sé il misterioso canestro, ogni giorno più greve, di cui s'indovinava la forma doviziosa sotto gli ampi grembiuli. 
Questi somigliavano alle guarnacche (75) che rivestono certe figure simboliche di Giotto di cui il signor Swann mi aveva regalato le fotografie. 
Era stato proprio lui a farcelo notare, e quando ci chiedeva notizie della sguattera diceva: Come sta la Carità di Giotto?. 
Lei stessa, d'altronde, povera ragazza, ingrassata dalla gravidanza fin nel viso, fin nelle guance che spiovevano dritte e quadrate, era in effetti abbastanza somigliante a quelle vergini forti e mascoline, alquanto matronali, in cui, all'Arena, sono personificate le virtù. 
E mi rendo conto adesso che quelle Virtù e quei Vizi di Padova (76) le assomigliavano anche in un altro senso. 
Come l'immagine di lei era accresciuta dal simbolo aggiunto che portava sul ventre senza aver l'aria di capirne il significato, senza che nulla nel suo viso ne traducesse la bellezza e lo spirito, alla stregua di un semplice e pesante fardello, così è senza mostrare di dubitarne che la poderosa massaia raffigurata all'Arena con la designazione di "Caritas", e la cui riproduzione era appesa alla parete della mia stanza di studio a Combray, incarna la virtù in questione, e senza che il minimo pensiero di carità abbia mai potuto essere espresso, si direbbe, dal suo volto energico e volgare. 
Grazie a una bella invenzione del pittore, essa calpesta i tesori della terra, ma esattamente come se pigiasse dell'uva per estrarne il succo o, meglio, come se fosse salita in piedi su un cumulo di sacchi per stare più in alto; e tende a Dio il suo cuore infiammato o, per essere più precisi, glielo "passa" così come una cuoca passa un cavatappi attraverso la finestrella del suo seminterrato a qualcuno che gliel'ha chiesto dal pianterreno. L'Invidia, magari, una certa espressione d'invidia l'avrebbe effettivamente avuta. 
Ma, anche in quell'affresco, il simbolo occupa tanto spazio ed è rappresentato così realisticamente, il serpente che soffia sulle labbra dell'Invidia è così grosso e riempie così completamente la cavità della sua bocca spalancata, che i muscoli del volto sono tesi per riuscire a contenerlo, come quelli di un bimbo che gonfia col suo fiato un palloncino, e l'attenzione dell'Invidia - non diversamente dalla nostra - non ha certo molto tempo, tutta concentrata com'è sull'azione delle labbra, da dedicare a pensieri invidiosi. 
Nonostante l'ammirazione che il signor Swann professava per quelle figure di Giotto, per diverso tempo non provai alcun piacere a osservare nella nostra stanza di studio, dove le copie ch'egli me ne aveva portate erano state appese, quella Carità senza carità, quell'Invidia simile più che altro alla tavola di un libro di medicina illustrante la compressione della glottide o dell'ugola per effetto di un tumore della lingua o di uno strumento introdotto dall'operatore, una Giustizia il cui volto grigiastro e meschinamente regolare era lo stesso che, a Combray, caratterizzava certe graziose borghesi secche e devote che vedevo alla messa e che in buona parte erano già arruolate nelle truppe di riserva dell'Ingiustizia. Ma poi ho capito che la soggiogante stranezza, la singolare beltà di quegli affreschi dipendeva dal vasto spazio occupatovi dal simbolo, e che il fatto ch'esso fosse rappresentato non come simbolo, giacché il pensiero simbolico non vi trova espressione, ma come una realtà, effettivamente subita o materialmente maneggiata, dava al significato dell'opera un che di più letterale e preciso, al suo insegnamento un che di più sorprendente e concreto. 
Anche nel caso della povera sguattera, l'attenzione non era forse incessantemente ricondotta al suo ventre dal peso che lo tendeva? E, sempre nello stesso modo, molto spesso il pensiero degli agonizzanti si volge verso il lato effettivo, doloroso, oscuro, viscerale, verso quel rovescio della morte che è appunto il lato ch'essa presenta loro, facendoglielo duramente sentire, e che assomiglia assai più a un fardello che li schiaccia, a una difficoltà di respirare, a un bisogno di bere, che non alla cosiddetta idea della morte. Bisognava che quelle Virtù e quei Vizi di Padova contenessero una bella dose di realtà se mi apparivano altrettanto vivi quanto la serva incinta e se quest'ultima, a sua volta, non mi sembrava molto meno allegorica. 
E forse questa non-partecipazione (almeno apparente) dell'anima d'una creatura alla virtù che agisce per suo tramite ha anche, a parte il valore estetico, una realtà, se non psicologica, perlomeno - come si suol dire - fisiognomonica. 
Quando, più tardi, nel corso della mia vita ho avuto occasione d'incontrare, per esempio in qualche convento, delle incarnazioni veramente sante della carità attiva, avevano generalmente l'aspetto allegro, positivo, indifferente e brusco del chirurgo indaffarato, quel volto nel quale non si legge nessuna commiserazione, nessuna commozione di fronte alla sofferenza umana, nessun timore di urtarla, che è il volto senza dolcezza, il volto antipatico e sublime della vera bontà. 
Mentre la sguattera - facendo involontariamente brillare la superiorità di Franoise, così come l'Errore rende più clamoroso, per contrasto, il trionfo della Verità - serviva un caffè che, secondo la mamma, era semplice acqua calda, e portava poi nelle nostre camere dell'acqua calda che era appena tiepida, io m'ero steso sul mio letto con un libro in mano, nella mia camera che, tremando, proteggeva dal sole del pomeriggio la sua freschezza fragile e trasparente dietro le imposte semichiuse dalle quali un riflesso del giorno era tuttavia riuscito a far filtrare le sue ali gialle che giacevano immobili tra legno e vetro, in un angolo, come una farfalla posata. 
Ci si vedeva appena a sufficienza per leggere, e la sensazione dello splendore della luce mi veniva trasmessa solo dai colpi che Camus (avvertito da Franoise che la zia "non riposava" e che si poteva fare rumore) batteva in rue de la Cure contro alcune casse polverose e che, riecheggiando nell'atmosfera sonora caratteristica delle giornate calde, sembravano far volare lontano degli astri scarlatti; e anche dalle mosche che eseguivano davanti a me un loro piccolo concerto una sorta di musica da camera dell'estate: evocando quest'ultima non come un motivo di musica umana che, ascoltato per caso durante la bella stagione, ve la rammenterà in seguito, ma come qualcosa di collegato all'estate da un vincolo più necessario: nata dai giorni sereni, destinata a rinascere solo con essi, impregnata di un po' della loro essenza, non si limita a ridestarne l'immagine nella nostra memoria, ma ne certifica il ritorno, la presenza effettiva, diffusa, immediatamente accessibile. 
Quella oscura freschezza della mia camera stava al pieno sole della strada come l'ombra al raggio, era, cioè, non meno luminosa del sole, e offriva alla mia immaginazione lo spettacolo totale dell'estate di cui i miei sensi, se io fossi stato fuori a passeggiare, non avrebbero potuto godere che per frammenti; e s'accordava bene, così, al mio riposo che, grazie alle avventure raccontate dai miei libri e capaci di scuoterlo, poteva sopportare l'urto e l'animazione di un torrente di attività, come il riposo d'una mano immobile immersa nel flusso di una corrente. 
Ma la nonna, anche se il tempo troppo caldo s'era guastato e s'era scatenato un temporale o semplicemente un acquazzone, veniva a supplicarmi di uscire. 
E poiché non volevo rinunciare alla mia lettura, andavo se non altro a continuarla in giardino, sotto l'ippocastano, in una piccola baracca di stuoia e tela; seduto là in fondo, mi credevo invisibile agli occhi delle persone che sarebbero potute venire a far visita ai miei parenti. 
E il mio pensiero non era forse anch'esso una sorta di nido nel quale sentivo d'essere sprofondato, magari per guardare quello che stava succedendo fuori? Quando vedevo un oggetto esterno, la coscienza di vederlo restava fra me e lui, lo circondava d'una sottile bordatura spirituale che mi impediva di raggiungere direttamente la sua materia; questa in qualche modo si volatilizzava prima che la toccassi, così come un corpo incandescente, se lo si avvicina a un corpo bagnato, non entra mai in contatto con la sua umidità perché è sempre preceduto da una zona di evaporazione. 
In quella specie di iridescente schermo di stati diversi che la mia coscienza, mentre leggevo, dispiegava simultaneamente, e che spaziava dalle aspirazioni più profondamente nascoste dentro di me sino alla visione affatto esteriore dell'orizzonte che si offriva ai miei occhi dal fondo del giardino, quel che c'era innanzitutto e più intimamente dentro di me, la leva in continuo movimento che governava tutto il resto, era la mia fede nella ricchezza filosofica, nella bellezza del libro che leggevo e il mio desiderio di appropriarmele, indipendentemente dall'identità del libro stesso. 
Infatti, anche se l'avevo comprato a Combray dopo averlo avvistato davanti a Borange - una drogheria troppo distante da casa perché Franoise potesse andare a farvi la spesa come da Camus, ma meglio fornita come cartoleria e libreria -, fissato per mezzo di cordicelle nel mosaico di fascicoli e brossure che rivestiva i due battenti della porta del negozio, più misteriosa e disseminata di pensieri della porta d'una cattedrale, se l'avevo riconosciuto è perché mi era stato citato come un'opera notevole dal professore o dal compagno che in quel determinato periodo mi appariva come il depositario del segreto della verità e della bellezza, a metà intuite, a metà incomprensibili, la cui conoscenza rappresentava lo scopo vago ma permanente del mio pensiero. 
Dopo questa fede centrale che, durante la lettura, eseguiva incessanti movimenti dall'interno all'esterno verso la scoperta della verità, venivano le emozioni suscitate in me dall'azione alla quale prendevo parte: quei pomeriggi, infatti, contenevano più avvenimenti drammatici di quanti non ne contenga, spesso, un'intera vita. Erano gli avvenimenti che si susseguivano nel libro che stavo leggendo; è vero che i personaggi in essi coinvolti non erano "reali", come diceva Franoise. 
Ma tutti i sentimenti che la gioia o la sventura di un personaggio reale ci fanno provare non si producono in noi che per il tramite di un'immagine di tale gioia o di tale sventura; il colpo di genio del primo romanziere fu proprio quello di comprendere che nel meccanismo delle nostre emozioni l'immagine è l'unico elemento essenziale, e che la semplificazione consistente nella pura e semplice soppressione dei personaggi reali avrebbe dunque costituito un perfezionamento decisivo. 
Un individuo reale, per quanto profondamente possiamo simpatizzare con lui, è percepito in gran parte dai nostri sensi, il che significa che resta opaco per noi, che la nostra sensibilità non riuscirà mai a sollevare il suo peso morto. 
Se una disgrazia lo colpisce, potremo esserne turbati solo in una piccola parte della nozione totale che abbiamo di lui. 
Di più: lui stesso potrà essere turbato solo in una parte della nozione totale che ha di sé. 
La trovata del romanziere è consistita nel sostituire quelle parti impenetrabili all'anima con una uguale quantità di parti immateriali, tali cioè che la nostra anima possa assimilarle. Che importa allora se le azioni, le emozioni di questi individui d'un genere nuovo ci appaiono come vere, dal momento che le abbiamo fatte nostre, dal momento che è in noi che esse si producono e che è da loro che dipendono, mentre voltiamo febbrilmente le pagine del libro, la rapidità del nostro respiro e l'intensità del nostro sguardo? E una volta che il romanziere ci ha messi in questo stato nel quale, come in tutti gli stati puramente interiori, ogni emozione è decuplicata, e il turbamento che il suo libro ci darà risulterà simile a quello di un sogno, ma di un sogno più nitido di quelli che facciamo dormendo e destinato a durare di più nel ricordo, ecco che egli scatena dentro di noi nello spazio di un'ora tutte le possibili gioie e sventure che, nella vita, impiegheremmo anni interi a conoscere in minima parte, e di cui le più intense non ci verrebbero mai rivelate giacché la lentezza con la quale si producono ce ne impedisce la percezione (così, nella vita, il nostro cuore cambia, ed è il dolore più grande; ma noi non lo conosciamo che nella lettura, con 
l'immaginazione: nella realtà esso cambia - secondo il ritmo con cui si determinano certi fenomeni della natura - abbastanza lentamente perché, pur potendo constatare successivamente ciascuno dei suoi diversi stati, la sensazione del cambiamento ci sia, in sé, risparmiata). 
Già meno interno al mio corpo della vita dei personaggi, veniva poi, per metà proiettato davanti a me il paesaggio nel quale si svolgeva la vicenda e che esercitava sul mio pensiero un influsso ben maggiore dell'altro che avevo sotto gli occhi quando li sollevavo dal libro. 
Così, per due anni, nel calore del giardino di Combray, provai, a causa del libro che stavo leggendo allora, la nostalgia d'un paese di monti e di fiumi, dove i miei occhi potessero posarsi su innumerevoli segherie e pezzi di tronco marcissero in fondo a un'acqua trasparente, sotto ciuffi di crescione; non lontano, grappoli di fiori violetti e rossastri s'arrampicavano lungo muri bassi. (77) E poiché il sogno di una donna che mi amasse era sempre presente al mio pensiero, durante quelle estati fu impregnato di una freschezza d'acque correnti; e chiunque fosse la donna che evocavo, grappoli di fiori violetti e rossastri sorgevano di colpo tutt'intorno a lei come colori complementari. 
Non era soltanto perché un'immagine sognata porta per sempre l'impronta, di cui s'abbellisce e s'avvantaggia, del riflesso dei colori stranieri che casualmente la circondano nel nostro sogno; per me, infatti, quei paesaggi dei libri che leggevo non si limitavano a essere dei paesaggi più vivamente rappresentati alla mia immaginazione di quelli che Combray mi metteva sotto gli occhi, ma in qualche modo analoghi. 
Grazie alla scelta che ne aveva fatta l'autore, grazie alla fede che il mio pensiero nutriva nella sua parola come in una rivelazione, essi mi apparivano - ed era un'impressione che il paese nel quale mi trovavo, e tanto meno il nostro giardino, prodotto senza prestigio della corretta fantasia del giardiniere disprezzato da mia nonna, non mi davano quasi per nulla - come una vera e propria parte della Natura stessa, degna d'essere studiata e approfondita. 
Se i miei genitori m'avessero permesso, quando leggevo un libro, di andare a visitare la regione che vi era descritta, avrei pensato di compiere un progresso inestimabile nella conquista della verità. 
Perché se si ha la sensazione d'essere sempre circondati dalla propria anima, non è come se si trattasse di una prigione immobile: piuttosto, si è per così dire trasportati insieme a lei in un perpetuo slancio teso a superarla, a raggiungere l'esterno, con una sorta di scoraggiamento nel sentire sempre intorno a sé quella sonorità identica che non è un'eco da fuori, ma la risonanza di una vibrazione interna. 
Si cerca di ritrovare nelle cose, che se ne impreziosiscono, il riflesso che su di esse ha proiettato la nostra anima; si rimane delusi constatando che sembrano sprovviste, in natura, del fascino che secondo il nostro pensiero derivava loro dalla vicinanza di certe idee; a volte, si investono tutte le forze dell'anima stessa in abilità, in splendore per agire su esseri di cui ci rendiamo ben conto che sono situati al di fuori di noi e che non li raggiungeremo mai. 
Così, se immaginavo intorno alla donna che amavo i luoghi dei quali avevo allora più desiderio, se avrei voluto che fosse lei a farmeli visitare, ad aprirmi le porte d'un mondo sconosciuto, non era per una semplice e casuale associazione di idee; no, era perché i miei sogni di viaggio e d'amore si riducevano solo a momenti - che io oggi separo artificialmente, come se sezionassi a diverse altezze un getto d'acqua iridato e apparentemente immobile - di un unico, inarrestabile zampillare di tutte le forze della mia vita. Infine, continuando a seguire dall'interno all'esterno gli stati simultaneamente giustapposti della mia coscienza, e prima di arrivare all'orizzonte reale che li racchiudeva tutti, mi imbatto in una serie di piaceri d'altro genere, quelli d'essere seduto comodamente, di sentire il buon odore dell'aria, di non essere disturbato da una visita e, quando suonava l'ora dal campanile di Saint-Hilaire, di veder cadere pezzo per pezzo quel che del pomeriggio era già consumato, fino all'ultimo rintocco che mi consentiva di tirare le somme e dopo il quale il lungo silenzio che sopraggiungeva sembrava segnare nell'azzurro del cielo l'inizio di tutta la parte che mi era ancora concessa per leggere fino al buon pranzo che Franoise stava preparando e che mi avrebbe ristorato delle fatiche affrontate durante la lettura del libro per tenere dietro al suo eroe. 
E ogni volta che l'ora suonava, mi sembrava che solo pochi istanti fossero trascorsi da quando era suonata la precedente; la più recente si inscriveva vicinissimo all'altra nel cielo e io non riuscivo a credere che quel piccolo arco azzurro compreso fra i loro due segnali dorati potesse contenere sessanta minuti. 
A volte, quell'ora prematura suonava addirittura due rintocchi più dell'ultima; ce n'era dunque una che non avevo sentita, qualcosa che aveva avuto luogo non l'aveva avuto per me; l'interesse della lettura, magico come un sonno profondo, aveva dato il cambio alle mie orecchie allucinate e cancellato l'oro della campana dalla superficie azzurrata del silenzio. Deliziosi pomeriggi domenicali sotto l'ippocastano del giardino di Combray, da me accuratamente ripuliti dei mediocri incidenti della mia esistenza personale che avevo rimpiazzati con una vita di strane avventure e aspirazioni in un paese irrorato d'acque vive! Voi mi evocate ancora quella vita quando penso a voi, e in effetti la contenete per averla a poco a poco circoscritta e racchiusa - mentre io proseguivo nella lettura e svaniva il calore del giorno - nel cristallo successivo, lentamente cangiante e intorbidato di foglie, delle vostre ore silenziose, sonore, limpide e odorose. 
Qualche volta ero strappato alla lettura, dopo l'acme del pomeriggio, dalla figlia del giardiniere, che correva come una pazza rovesciando sul suo cammino un alberello d'arancio, tagliandosi un dito, rompendosi un dente e gridando: Eccoli, eccoli! perché Franoise e io accorressimo e non perdessimo nulla dello spettacolo. 
Erano i giorni in cui, per manovre di guarnigione, i soldati attraversavano Combray, percorrendo di solito rue Sainte-Hildegarde. 
Mentre i nostri domestici, seduti in fila su sedie disposte davanti al cancello, guardavano il passeggio domenicale degli abitanti di Combray e si facevano vedere da loro, la figlia del giardiniere, attraverso uno spiraglio tra due case lontane dell'avenue de la Gare, aveva scorto il luccichio degli elmi. 
I domestici avevano precipitosamente ritirato le sedie, perché quando i corazzieri sfilavano lungo rue SainteHildegarde la riempivano in tutta la sua larghezza, e il galoppo dei cavalli rasentava le case e copriva i marciapiedi, sommersi come argini che offrano un alveo troppo esiguo a un torrente in piena. 
- Poveri ragazzi, diceva Franoise, appena arrivata al cancello e già in lacrime; povera gioventù che sarà falciata come un prato; solo a pensarci mi sento tutta sconvolta, aggiungeva premendosi una mano sul cuore, là dove si era verificato lo sconvolgimento. 
- E' bello, non è vero, Madame Franoise, vedere dei giovani che non tengono alla vita? diceva il giardiniere per farla "andare su di giri". 
Le sue parole non erano cadute nel vuoto: - Non tenere alla vita? Ma a cosa bisogna tenere, dunque, se non alla vita, il solo regalo che il buon Dio non fa mai due volte? Ah, poveri noi! Ma bisogna pur dirlo che non ci tengono! Li ho visti nel Settanta; non hanno più paura della morte, in quelle maledette guerre; diventano dei pazzi, né più né meno; e poi non valgono più la corda per impiccarli, non sono più degli uomini, sono dei leoni. (Per Franoise, paragonare un uomo a un leone, che lei pronunciava "leone", non implicava nulla di lusinghiero.) Rue Sainte-Hildegarde disegnava una curva troppo stretta perché si potesse vedere in lontananza, ed era attraverso quello spiraglio tra due case dell'avenue de la Gare che si scorgevano sempre nuovi elmi scorrere luccicando al sole. 
Il giardiniere avrebbe voluto sapere se dovevano passarne ancora molti, e aveva sete, perché il sole picchiava. 
Allora, tutt'a un tratto, sua figlia si slanciava come da una fortezza assediata, faceva una sortita, raggiungeva l'angolo della strada, e dopo aver sfidato cento volte la morte veniva a portarci, insieme a una caraffa di liquirizia e limone, la notizia che erano almeno un migliaio ad arrivare senza sosta dalla parte di Thiberzy e di Méséglise. 
Franoise e il giardiniere, riconciliati, discutevano sul comportamento da adottare in caso di guerra: - Vedete, Franoise, diceva il giardiniere, sarebbe meglio la rivoluzione, perché quando è proclamata ci vanno solo quelli che ci vogliono andare. 
- Ah sì, questo almeno lo capisco, è più leale. 
Il giardiniere era convinto che una volta dichiarata la guerra si fermassero tutti i treni. 
- Diamine, perché non si possa scappare, diceva Franoise. 
E il giardiniere: Eh, sono furbi, perché si rifiutava di credere che la guerra fosse qualcosa di diverso da una specie di brutto tiro che lo Stato tentava di giocare al popolo, e che esistesse una sola persona che non se la sarebbe battuta se appena ci fosse stato il modo di farlo. 
Ma Franoise si affrettava a raggiungere la zia, io tornavo al mio libro, i domestici si risistemavano davanti alla porta e guardavano ricadere la polvere e l'emozione sollevate dai soldati. 
Molto tempo dopo che le acque s'erano calmate, le strade di Combray nereggiavano ancora di un'insolita fiumana di gente a passeggio. 
E davanti a ogni casa, comprese quelle dove non vigeva questa abitudine, i domestici o gli stessi padroni stavano seduti a guardare, formando lungo le soglie un festone, un bordo scuro e capriccioso come quello delle alghe e delle conchiglie di cui una forte marea lascia sulla spiaggia, ritirandosi, il crespo e il ricamo. 
A parte quei giorni potevo invece, di solito, leggere tranquillamente. 
Ma l'interruzione e il commento che una visita di Swann impose una volta alla lettura, a cui ero intento, del libro di un autore del tutto nuovo per me, Bergotte, ebbero come conseguenza che per parecchio tempo, ormai, non fu più su un muro decorato di fiori viola a forma di conocchia, ma su uno sfondo affatto diverso, dinanzi al portale d'una cattedrale gotica, che si stagliò l'immagine di una delle donne da me sognate. 
Avevo sentito parlare per la prima volta di Bergotte da un mio compagno più grande di me e per il quale nutrivo una grande ammirazione, Bloch. 
Quando gli avevo confessato la mia ammirazione per la "Nuit d'Octobre", era scoppiato in una risata fragorosa come uno squillo di tromba e mi aveva detto: Diffida della tua alquanto bassa dilezione per il signore di Musset. E' un tipo dei più nefasti e un alquanto sinistro animale. 
Devo ammettere, d'altronde, che sia lui che il nominato Racine hanno fatto nella loro vita un verso alquanto ben ritmato, e che ha dalla sua, ciò che a mio avviso è il merito supremo, di non significare assolutamente nulla. 
Si tratta di "La blanche Oloossone et la blanche Camyre" (78) e di "La fille de Minos et de Pasiphaé". (79) Me li ha segnalati, a discarico di quei due malandrini, un articolo del mio maestro amatissimo, il vecchio Leconte, (80) caro agli Dei immortali. 
A proposito, ecco qua un libro che non ho il tempo di leggere per ora e che è raccomandato, a quanto pare, da quell'uomo eccelso. 
Egli, mi si dice, ne considera l'autore, messer Bergotte, un tipo dei più sottili; e benché manifesti, a volte, mansuetudini alquanto inesplicabili, la sua parola è per me oracolo delfico. 
Leggi dunque queste prose liriche, e se il gigantesco raccoglitor di ritmi che ha scritto "Bhagavat" (81) e "Le lévrier de Magnus" (82) ha detto il vero, per Apollo!, tu gusterai, mio illustre confratello, le nettaree gioie dell'Olimpo. 
Era stato con un tono sarcastico che m'aveva chiesto di chiamarlo "illustre confratello" e che, a sua volta, mi chiamava così. 
Ma in realtà trovavamo un certo piacere in questo gioco, vicini come eravamo, ancora, all'età in cui si è convinti di creare ciò che si nomina. 
Disgraziatamente non mi fu possibile placare, conversando con Bloch e chiedendogli spiegazioni, il turbamento nel quale mi aveva gettato dicendomi che i bei versi (a me che da questi non m'aspettavo niente di meno della rivelazione della verità) erano tanto più belli in quanto non significavano nulla. (83) Bloch, infatti, non fu più invitato a casa nostra. 
Dapprima vi era stato ben accolto. 
E' vero che mio nonno, ogni volta che facevo amicizia con uno dei miei compagni più che con gli altri e lo portavo a casa, sosteneva che si trattasse sempre di un ebreo, (84) cosa che in linea di massima non gli avrebbe dato fastidio - anche il suo amico Swann era di origine ebrea - se non gli fosse parso che mai me li andavo a scegliere fra i migliori. Così, quando arrivavo con un nuovo amico, accadeva di rado che non si mettesse a canticchiare: O Dio dei nostri Padri, da "La Juive", (85) oppure Israele, spezza la tua catena, (86) limitandosi a cantare l'aria, si capisce (Ti la lam talam, talim), ma io temevo che il mio compagno la conoscesse e reintegrasse le parole. 
Prima ancora di averli visti, semplicemente sentendo il loro nome che, molto spesso, non aveva niente di particolarmente israelita, indovinava non soltanto l'origine ebrea dei miei amici che in effetti lo erano, ma anche quel che di dubbio poteva esserci, a volte, nella loro famiglia. - E il tuo amico che viene stasera, come si chiama? - Dumont, nonno. 
- Dumont... 
Eh, non c'è da fidarsi! E cantava: 
"Arcieri, fate buona guardia! Vegliate senza tregua né rumore". 
E dopo averci posto con destrezza qualche domanda più precisa, esclamava: In guardia! In guardia! oppure - quando lo stesso paziente, già arrivato e costretto a sua insaputa da un interrogatorio dissimulato, aveva confessato le proprie origini - si accontentava per farci capire che non aveva più alcun dubbio, di guardarci canticchiando impercettibilmente: 
"E come? Di quel timido israelita fin qui guidaste i passi?" o: 
"Campi paterni, Ebron, dolce vallata" (87) o ancora: 
"Sì, della razza eletta io sono." (88) 
Queste piccole manie del nonno non implicavano alcun sentimento malevolo nei confronti dei miei compagni. 
Ma Bloch era spiaciuto ai miei parenti per altre ragioni. 
Aveva cominciato con l'indisporre mio padre che, vedendolo bagnato, gli aveva chiesto con interesse: - Ma, signor Bloch, che tempo fa in conclusione? Ha piovuto? Non ci capisco niente, il barometro era stupendo. 
Non ne aveva ottenuto che questa risposta: - Signore, non posso assolutamente dirvi se ha piovuto. 
Vivo così risolutamente al di fuori delle contingenze fisiche che i miei sensi non si prendono la briga di notificarmele. 
- Ma, ragazzo mio, è un idiota quel tuo amico, mi aveva detto mio padre quando Bloch se n'era andato. 
Come! Non sa neanche dirmi che tempo fa! Ma se non c'è niente di più interessante! E' un imbecille. 
Successivamente Bloch aveva irritato la nonna perché, dopo colazione, mentre lei parlava di qualche disturbo che l'affliggeva, lui aveva soffocato un singhiozzo e si era asciugato qualche lacrima. 
- Non è possibile che sia sincero, mi aveva detto la nonna, dal momento che non mi conosce; a meno che non sia pazzo. 
E, infine, aveva disgustato tutti quanti perché, arrivando a colazione con un'ora e mezzo di ritardo e coperto di fango, invece di scusarsi aveva dichiarato: - Non mi lascio mai influenzare dalle perturbazioni dell'atmosfera né dalle divisioni convenzionali del tempo. 
Ripristinerei volentieri l'uso della pipa d'oppio e del kriss malese, ma ignoro quegli strumenti infinitamente più perniciosi e d'altronde piattamente borghesi che sono l'ombrello e l'orologio. 
Nonostante tutto, avrebbe fatto la sua ricomparsa a Combray. 
Ma, in ogni caso, non era l'amico che i miei parenti avrebbero voluto per me; avevano finito col convincersi che le lacrime ispirategli dall'indisposizione della nonna non fossero finte, ma sapevano per esperienza o d'istinto che gli slanci della sensibilità hanno poca padronanza sulla serie delle nostre azioni e sulla nostra condotta di vita, e che il rispetto degli obblighi morali, la fedeltà agli amici, l'adempimento di un'opera, l'osservanza d'un regime hanno un fondamento più sicuro nelle cieche abitudini che non in quei trasporti momentanei, ardenti e sterili. 
A Bloch avrebbero preferito, per me, dei compagni che non mi dessero nulla più di quel che è buona norma concedere agli amici in base alle regole della morale borghese; che non mi mandassero inopinatamente un cestino di frutta perché, quel giorno, avevano pensato a me con tenerezza, e che d'altronde, incapaci di far pendere a mio favore la giusta bilancia dei doveri e delle esigenze dell'amicizia con un semplice moto dell'immaginazione e della sensibilità, non la falsassero nemmeno a mio danno. 
Persino i nostri torti non hanno, se non raramente, il potere di distogliere da quel che ci devono queste indoli di cui la mia prozia era il modello - lei che, da anni in pessimi rapporti con una nipote alla quale non rivolgeva mai la parola, non modificò per questo il testamento con il quale le lasciava tutto il suo patrimonio, poiché era la sua parente più prossima ed è così che "si deve fare". 
Ma a me Bloch piaceva, i miei parenti volevano accontentarmi, i problemi insolubili che mi ponevo a proposito della bellezza spoglia di significato della "fille de Minos et de Pasiphaé" mi affaticavano e mi angustiavano più di quanto non avrebbero fatto ulteriori conversazioni con lui, benché mia madre le giudicasse perniciose. 
E lo avrebbero accolto ancora nella nostra casa di Combray se, dopo quella sera, avendomi appena spiegato - annuncio che in seguito ebbe una grande influenza sulla mia vita, rendendola dapprima più felice, poi più infelice - che tutte le donne pensavano esclusivamente all'amore e che non ce n'era nessuna la cui resistenza fosse invincibile, lui non mi avesse assicurato d'aver sentito dire con assoluta certezza che la mia prozia aveva avuto una giovinezza burrascosa ed era stata pubblicamente mantenuta. 
Non potei trattenermi dal riferire questi discorsi ai miei parenti, lo si mise alla porta quando si ripresentò, e quando, in seguito, lo avvicinai per la strada, mi trattò con estrema freddezza. 
Ma riguardo a Bergotte aveva detto il vero. 
I primi giorni, come un'aria musicale per la quale si impazzirà, ma che non si riesce ancora a distinguere, non mi apparve evidente ciò che poi, nel suo stile, mi sarebbe tanto piaciuto. 
Non potevo staccarmi dal suo romanzo che stavo leggendo, ma credevo che a interessarmi fosse solo il soggetto, come quando, nei primi momenti dell'amore, si va ogni giorno a cercare una donna a qualche riunione, a qualche intrattenimento dai cui piaceri ci si crede attratti. 
Poi mi accorsi delle espressioni rare, quasi arcaiche che egli amava impiegare in particolari momenti nei quali un fiotto segreto d'armonia, un preludio interiore giungeva a sollevare il suo stile; ed era proprio in quei momenti che egli si metteva a parlare del "vano sogno della vita", del "torrente inesauribile delle leggiadre apparenze", del "tormento sterile e delizioso di comprendere e d'amare", delle "toccanti effigi che impreziosiscono senza fine la facciata venerabile e affascinante delle cattedrali", ed esprimeva tutta una filosofia, per me nuova, mediante immagini meravigliose delle quali si sarebbe detto che erano state loro a suscitare la melodia d'arpe che risuonava in quel punto e nel cui accompagnamento esse infondevano qualcosa di sublime. 
Uno di quei passi di Bergotte, il terzo o il quarto che mi capitava di isolare dal resto, mi diede una gioia incomparabilmente più intensa di quella datami dal primo, una gioia che sentii di provare in una regione più profonda di me stesso, più unita, più vasta, e dalla quale ogni ostacolo, ogni separazione sembravano essere stati aboliti. 
Era perché, riconoscendovi quello stesso gusto per le espressioni rare, quella stessa effusione musicale, quello stesso idealismo filosofico che già le altre volte, senza che me ne rendessi conto, erano stati la fonte dei mio piacere, avevo provato l'impressione d'essere in presenza, non più di un brano particolare di un determinato libro di Bergotte, tale da tracciare sulla superficie del mio pensiero una figura puramente lineare, ma del "brano ideale" di Bergotte, comune a tutti i suoi libri e che da tutti i passi analoghi con i quali poteva confondersi traeva una sorta di spessore, di volume di cui la mia intelligenza sembrava ampliarsi. 
Non ero certo il solo ad ammirare Bergotte; era anche lo scrittore preferito di un'amica, molto letterata. di mia madre; per leggere il suo ultimo libro appena pubblicato, il dottor du Boulbon faceva attendere i suoi pazienti, e fu dallo studio dove egli visitava, e da un parco vicino a Combray, che presero il vento alcuni dei primi semi di quella predilezione per Bergotte - specie allora così rara, oggi universalmente diffusa di cui si ritrova ovunque in Europa, in America, fin nel più piccolo villaggio, il fiore ideale e comune. Ciò che l'amica di mia madre e, credo, il dottor du Boulbon amavano sopra ogni altra cosa, come me, nei libri di Bergotte, era quel flusso melodico, erano quelle espressioni antiche, a volte anche semplicissime e conosciute ma disposte e lumeggiate in un modo che sembrava rivelare in lui un gusto affatto particolare; infine, nei brani tristi, una certa rudezza, un accento quasi rauco. 
Lui stesso, senza dubbio, doveva sentire che erano quelli i suoi maggiori incantesimi. 
Infatti, nei libri che vennero dopo, ogni volta che si imbatteva in qualche grande verità, o nel nome di una celebre cattedrale egli interrompeva il racconto e in un'invocazione, in un'apostrofe, in una lunga preghiera dava libero corso a quegli effluvi che nelle prime opere restavano interni alla sua prosa, rivelati soltanto, allora, dalle ondulazioni della superficie, ancora più dolci, forse, più armoniosi quando erano così velati e risultava impossibile indicare con precisione da dove nascesse, dove spirasse il loro murmure. 
Quei brani dei quali egli si dilettava erano i nostri brani preferiti. 
Personalmente, li conoscevo a memoria. 
Mi sentivo deluso quando lui riprendeva il filo del racconto. 
Ogni volta che parlava di qualcosa la cui bellezza mi era rimasta fino a quel momento nascosta, delle foreste di pini, della grandine, di Notre-Dame a Parigi, di "Athalie" o di "Phèdre", (89) con un'immagine faceva in modo che tale bellezza esplodesse fino a me. 
Così, intuendo quante parti dell'universo sarebbero rimaste ignote alla mia debole percezione se lui non me le avesse avvicinate, avrei voluto possedere una sua opinione, una sua metafora su ogni cosa, soprattutto su quelle che avessi anch'io l'occasione di vedere e, fra quelle, particolarmente sugli antichi monumenti francesi e su certi paesaggi marini, poiché l'insistenza con cui li citava nei suoi libri provava che erano ricchi, ai suoi occhi, di significato e di bellezza. 
Disgraziatamente, su quasi tutto ignoravo la sua opinione. 
Ero certo che fosse completamente diversa dalle mie, giacché scendeva da un mondo sconosciuto verso il quale io cercavo di innalzarmi: persuaso che i miei pensieri sarebbero parsi una pura inezia a quello spirito perfetto, ne avevo fatto "tabula rasa" a tal punto che quando, per caso, mi capitava di incontrarne, in qualche suo libro, uno che anch'io avevo avuto, il mio cuore si gonfiava come se un dio, nella sua bontà, me l'avesse restituito dichiarandolo legittimo e bello. 
Succedeva a volte che una sua pagina dicesse le stesse cose che spesso scrivevo di notte alla nonna e alla mamma quando non mi riusciva di dormire, così che quella pagina di Bergotte si configurava come una raccolta di epigrafi da mettere in testa alle mie lettere. 
Anche più tardi, quando cominciai a comporre un libro, di certe frasi la cui qualità non fu sufficiente perché mi decidessi a continuarlo ritrovai l'equivalente in Bergotte. 
Ma era soltanto allora, quando le leggevo nella sua opera, che potevo gioirne; se ero io a costruirle, preoccupato che riflettessero esattamente quello che scorgevo nel mio pensiero, timoroso di non riuscire a cogliere la "somiglianza", non avevo certo il tempo di chiedermi se quello che scrivevo era gradevole! Ma, in realtà, non c'era che quel genere di frasi, quel genere di idee che io amassi veramente. 
I miei sforzi inquieti e scontenti erano essi stessi un segno d'amore, amore senza piacere ma profondo. 
Così quando, d'improvviso, m'imbattevo in frasi siffatte nell'opera di un altro, senza più avere, cioè, scrupoli o severità, senza dovermi tormentare, mi abbandonavo finalmente con delizia alla passione che mi ispiravano, come un cuoco che quelle rare volte che non deve cucinare trova finalmente il tempo per essere goloso. 
Un giorno che avevo notato in un libro di Bergotte, a proposito di una vecchia domestica, una battuta scherzosa che il linguaggio magnifico e solenne dello scrittore rendeva ancora più ironica, ma che era la stessa che io avevo sovente rivolto a mia madre parlando di Franoise, un'altra volta che avevo visto come egli giudicasse non indegna di figurare in uno di quegli specchi della verità che erano i suoi libri un'osservazione analoga a quella che io avevo avuto occasione di fare a proposito del nostro amico Legrandin (osservazioni su Franoise e su Legrandin che erano certo fra quelle che avrei sacrificato con la massima determinazione a Bergotte, persuaso com'ero che le avrebbe trovate prive d'interesse), mi parve tutt'a un tratto che la mia umile vita e i reami del vero non fossero così separati come avevo creduto, che coincidessero persino in alcuni punti, e sparsi lacrime di fiducia e di gioia sulle pagine dello scrittore come tra le braccia di un padre ritrovato. 
Basandomi sui suoi libri mi figuravo Bergotte come un vecchio debole e deluso che avesse perduto dei figli e non se ne fosse mai consolato. 
Così leggevo, cantavo dentro di me la sua prosa più "dolce", più "lento", (90) forse, di come era stata scritta, e anche la più semplice delle frasi giungeva a me con un tono di tenerezza. 
Amavo soprattutto la sua filosofia, alla quale mi ero consacrato per sempre. 
Mi rendeva impaziente d'avere l'età per andare al ginnasio, dove avrei frequentato il corso di filosofia. 
Ma avrei voluto che non vi si facesse nient'altro che vivere di un unico pensiero, quello di Bergotte, e se qualcuno mi avesse detto che i metafisici ai quali allora mi sarei appassionato non avrebbero avuto nulla in comune con lui, avrei provato la disperazione di chi amando una donna e non volendo amare che lei per tutta la vita è costretto a sentir parlare delle altre amanti che avrà in futuro. 
Una domenica, durante la mia lettura in giardino, fui disturbato da Swann che veniva a far visita ai miei parenti. 
- Cosa state leggendo, si può vedere? Ma guarda, un Bergotte... 
Chi ve ne ha parlato, dei suoi libri? Gli dissi che era stato Bloch.- Ah sì, quel ragazzo che ho visto qui una volta, e che assomiglia tanto a Maometto Secondo nel ritratto del Bellini. (91) Oh! è impressionante, ha le stesse sopracciglia circonflesse, lo stesso naso aquilino, gli stessi zigomi sporgenti. 
Quando avrà una barbetta sarà la stessa persona. 
In ogni caso ha gusto, perché Bergotte è un ingegno affascinante. 
E vedendo quanto avessi l'aria di ammirare Bergotte, Swann, che non parlava mai delle persone che conosceva, fece per bontà un'eccezione e mi disse: - Lo conosco bene, se vi piacesse avere una sua dedica sul libro, glielo potrei chiedere. 
Non osai accettare, ma rivolsi a Swann qualche domanda su Bergotte. 
Potreste dirmi qual è il suo attore preferito? - L'attore, non so. 
Ma so che per lui nessun artista uomo uguaglia la Berma, e che la mette al di sopra di tutto L'avete mai sentita recitare? - No, signore, i miei genitori non mi permettono di andare a teatro. 
- E' un peccato. 
Dovreste chiederglielo. 
La Berma in "Phèdre", nel "Cid", non è che un'attrice se volete, ma, sia detto fra noi, io non credo poi troppo alla "gerarchia!" delle arti (e notai, poiché il particolare mi aveva spesso colpito nelle sue conversazioni con le sorelle della nonna, che quando parlava di cose serie, quando usava un'espressione che sembrava implicare un punto di vista su un argomento importante, Swann aveva cura di isolarla con un'intonazione speciale, meccanica e ironica, come se l'avesse posta tra virgolette, dando l'impressione di non volerla prendere a suo carico, di intendere: la gerarchia, sapete, come dicono le persone ridicole. 
Ma allora, se era ridicolo, perché lo diceva?). 
Dopo un attimo aggiunse: Vi offrirà una visione altrettanto nobile quanto qualsiasi capolavoro, che so, quanto le... - e si mise a ridere le "Regine di Chartres!" (92). 
Fino allora, quell'orrore di esprimere seriamente la propria opinione mi era parso qualcosa che doveva essere elegante e parigino e che si contrapponeva al dogmatismo provinciale delle sorelle della nonna; e sospettavo anche che fosse uno dei modi di dimostrarsi intelligenti nell'ambiente in cui Swann viveva e dove, per reazione al lirismo delle generazioni precedenti, si riabilitavano all'eccesso i piccoli fatti precisi, un tempo ritenuti volgari, e si proscrivevano le "frasi". 
Ma adesso mi sembrava di vedere qualcosa di inquietante in questo atteggiamento di Swann nei confronti delle cose. 
Era come se non osasse avere un'opinione, e si sentisse tranquillo solo quando poteva fornire minuziosamente dei ragguagli precisi. 
Possibile che non si rendesse conto che questo equivaleva a professare l'opinione, a postulare che l'esattezza di tali dettagli fosse importante? Ripensai a quel pranzo in cui io ero così triste perché la mamma non sarebbe salita nella mia stanza e lui aveva detto che i balli dalla principessa di Léon non avevano alcuna importanza. 
Eppure era a quel genere di piaceri che egli dedicava la vita. 
Tutto ciò mi sembrava contraddittorio. 
Per quale altra vita si riservava di dire finalmente con serietà quel che pensava delle cose, di formulare dei giudizi da non mettere tra virgolette, di non abbandonarsi più con puntigliosa cortesia a occupazioni che nello stesso tempo sosteneva essere ridicole? Nel modo in cui Swann mi parlò di Bergotte, d'altra parte, mi colpì anche qualcosa che non gli era peculiare ma, al contrario, era comune allora a tutti gli ammiratori dello scrittore, all'amica di mia madre, al dottor du Boulbon. 
Anche loro, come Swann, dicevano di Bergotte: E' un ingegno affascinante, così particolare, ha un modo tutto suo di dire le cose, un po' ricercato ma talmente gradevole. Non c'è bisogno di vedere la firma, si capisce subito che è la sua penna. 
Ma nessuno si sarebbe azzardato a dire: E' un grande scrittore, ha un grande talento. 
Non dicevano nemmeno che aveva del talento. 
Non lo dicevano perché non lo sapevano. 
Impieghiamo molto tempo a riconoscere nella fisionomia particolare di un nuovo scrittore il modello che reca l'etichetta "grande talento" nel nostro museo delle idee generali. 
Proprio perché si tratta di una fisionomia nuova, non riusciamo a scorgervi una completa somiglianza con ciò che chiamiamo talento. 
Diciamo piuttosto originalità, fascino, delicatezza, forza; e poi, un giorno, ci rendiamo conto che il talento è appunto tutte queste cose. 
- C'è qualche libro in cui Bergotte abbia parlato della Berma? chiesi a Swann. 
- Mi sembra nella sua "plaquette" su Racine, (93) ma dev'essere esaurita. 
Ma forse ne hanno fatto una ristampa. 
Mi informerò. 
D'altronde posso chiedere a Bergotte tutto quello che volete, non c'è settimana che non pranzi a casa nostra. 
E' il grande amico di mia figlia. 
Vanno insieme a visitare le vecchie città, le cattedrali, i castelli. 
Poiché non possedevo alcuna nozione sulla gerarchia sociale, il fatto che mio padre ritenesse impossibile da parte nostra la frequentazione di Madame e Mademoiselle Swann aveva avuto piuttosto come effetto e da tempo, di accrescere ai miei occhi il loro prestigio, facendomi immaginare che grandi distanze le separassero da noi. 
Mi dispiaceva che mia madre non si tingesse i capelli e non si mettesse il rossetto sulle labbra come faceva Madame Swann per piacere, come avevo sentito dire dalla nostra vicina 
Madame Sazerat, non a suo marito, ma al signor di Charlus, e pensavo che dovessimo essere per lei oggetto di disprezzo, cosa che mi affliggeva soprattutto a causa di Mademoiselle Swann, della quale mi avevano parlato come di una così graziosa ragazzina e che tornava spesso nelle mie fantasticherie dove le prestavo ogni volta uno stesso viso arbitrario e incantevole. 
Ma quando, quel giorno, venni a sapere che Mademoiselle Swann era un essere di una condizione così rara, immersa come nel suo elemento naturale nel mezzo di tanti privilegi, che domandando ai suoi genitori se ci fosse qualcuno a pranzo questi le rispondevano con quelle sillabe piene di luce con il nome di quell'aureo convitato che ai suoi occhi era semplicemente un vecchio amico di famiglia: Bergotte, e che per lei la conversazione intima a tavola, corrispondente a quella che era per me la conversazione della mia prozia, era fatta di parole di Bergotte su tutti gli argomenti che non aveva potuto affrontare nei suoi libri e sui quali avrei voluto ascoltarlo mentre proferiva i suoi oracoli, e che infine, quando andava a visitare una città, lui le camminava accanto, sconosciuto e glorioso come gli dei che scendevano tra i mortali, io compresi allora, non solo tutto l'inestimabile valore di un essere come lei, ma anche quanto le sarei parso grossolano e ignorante, e sentii con tale vivezza come sarebbe stato dolce e impossibile per me essere suo amico, che fui colmato al tempo stesso di desiderio e di disperazione. 
Adesso, quando pensavo a lei, la vedevo perlopiù davanti al portico di una cattedrale mentre mi spiegava il significato delle statue e, con un sorriso di benevola intercessione, mi presentava come suo amico a Bergotte. 
E ogni volta il fascino di tutte le idee che le cattedrali facevano nascere in me, il fascino delle colline dell'Ile-de-France e delle pianure di Normandia si riverberava sull'immagine che io mi rappresentavo di Mademoiselle Swann: voleva dire, questo, essere sul punto di amarla. 
Fra tutti i presupposti che l'amore esige per nascere, ciò a cui tiene di più, e che gli fa chiudere un occhio sul resto, è la nostra convinzione che una persona partecipi a una vita sconosciuta nella quale il suo amore ci farebbe penetrare. 
Anche le donne che pretendono di giudicare un uomo soltanto dal suo fisico vedono in questo fisico l'emanazione di una vita speciale. 
E per questo che si innamorano dei militari, dei pompieri; l'uniforme le rende meno esigenti quanto al viso; sotto la corazza sono convinte di baciare un cuore diverso, avventuroso e dolce: e un giovane sovrano, un principe ereditario non ha bisogno, per fare le più lusinghiere conquiste nei paesi stranieri dove si reca, del profilo regolare che sarebbe forse indispensabile a un viaggiatore di commercio. 
Mentre io leggevo in giardino, cosa che la mia prozia non avrebbe ammesso che facessi se non di domenica, cioè nel giorno in cui è proibito occuparsi di cose serie e in cui lei non cuciva (durante la settimana mi avrebbe detto come fai a "divertirti" ancora coi libri, e sì che non è domenica!, dando alla parola divertimento il significato di puerilità e di perdita di tempo) zia Léonie conversava con Franoise aspettando l'ora di Eulalie. 
Annunciava di aver visto passare Madame Goupil senza ombrello, col vestito di seta che si è fatta fare a Chteaudun. 
Se deve andare lontano prima dei vespri, fa tempo a inzupparselo ben bene. 
- Può darsi, può darsi (che voleva dire: può darsi di no), ribatteva Franoise per non scartare definitivamente la possibilità di un'alternativa più favorevole. 
- To', diceva la zia battendosi la fronte, questo mi fa venire in mente che non ho poi saputo se era arrivata in chiesa prima dell'elevazione. 
Bisogna che mi ricordi di chiederlo a Eulalie... 
Ecco, Franoise, guardate un po' quel nuvolone nero dietro il campanile e quel brutto sole sulle tegole, la giornata non finirà di sicuro senza pioggia. 
Non era possibile che continuasse così, faceva troppo caldo. 
E più presto sarà meglio sarà, perché fin che il temporale non sarà scoppiato la mia acqua di Vichy non si deciderà a scendere, aggiungeva la zia, nella cui mente il desiderio di accelerare la discesa dell'acqua di Vichy aveva di gran lunga il sopravvento sul timore di vedere Madame Goupil con il vestito rovinato. 
- Può darsi, può darsi.- E poi, quando piove sulla piazza, non c'è modo di ripararsi. 
Ma come, già le tre? esclamava tutt'a un tratto la zia facendosi pallida, ma allora i vespri sono cominciati, ho scordato la mia pepsina! Adesso capisco perché l'acqua di Vichy mi restava sullo stomaco. 
E precipitandosi su un libro da messa rilegato in velluto viola con fregi in oro dal quale, per la fretta lasciava sfuggire alcune di quelle immagini, bordate d'un pizzo di carta giallognola, che segnano le pagine delle festività, la zia, inghiottendo frattanto le sue gocce, cominciava a leggere velocemente i testi sacri la cui comprensione le era lievemente oscurata dall'incertezza di sapere se, presa a così lunga distanza dall'acqua di Vichy, la pepsina sarebbe stata ancora capace di riacciuffarla e di farla scendere. 
Le tre, è incredibile come passa il tempo! Un piccolo colpo sui vetri, come se qualcosa li avesse urtati, seguito da un'ampia caduta leggera come di granelli di sabbia che qualcuno avesse gettato da una finestra del piano di sopra, poi la caduta che s'estende, si normalizza. trova un ritmo, diviene fluida, sonora, musicale, innumerevole, universale: era la pioggia. 
- Ecco, Franoise, cosa vi dicevo? Come viene! Ma mi sembra d'aver sentito la campanella della porta sul giardino, andate un po' a vedere chi può essere là fuori con un tempo simile. 
Franoise ricompariva: - E' Madame Amédée (mia nonna), ha detto che andava a fare un giro. 
E sì che piove forte. 
- Non mi stupisce davvero, diceva la zia alzando gli occhi al cielo. 
L'ho sempre detto che ha la testa fatta in un modo diverso da tutti gli altri. 
Meglio che sia fuori lei, comunque, e non io, in questo momento. 
- Madame Amédée è sempre all'opposto degli altri, diceva Franoise con dolcezza, riservandosi per quando sarebbe stata sola con gli altri domestici di dire che secondo lei la nonna era un po' "tocca". 
- Ecco, è finita la benedizione! Eulalie non verrà più, sospirava la zia; si sarà spaventata per il tempo. 
- Ma non sono le cinque, Madame Octave, sono solo le quattro e mezzo. 
- Solo le quattro e mezzo? e sono costretta a scostare le tendine per avere un filo di luce. 
Alle quattro e mezzo! E mancano ancora otto giorni alle Rogazioni! (94) Ah, mia povera Franoise, il buon Dio dev'essere proprio in collera con noi. Eh già, la gente ne combina troppe, al giorno d'oggi! Come diceva il mio povero Octave, ci si è dimenticati del Signore e lui si vendica. 
Un vivo rossore accendeva le gote della zia, arrivava Eulalie. 
Malauguratamente, era appena entrata che già ricompariva Franoise e con un sorriso grazie al quale intendeva mettersi all'unisono con la gioia di cui era certa d'essere portatrice con le sue parole, articolando le sillabe per mostrare che, malgrado l'uso dello stile indiretto, stava riportando, da fedele domestica, le medesime parole di cui s'era degnato servirsi il visitatore: - Il signor Curato sarebbe lieto, felice, se Madame Octave non riposasse e potesse riceverlo. 
Il signor Curato non vuole disturbare. 
Il signor Curato è giù, gli ho detto di accomodarsi in salotto. 
In realtà, le visite del curato non facevano a mia zia tutto quel piacere che s'immaginava Franoise, e l'espressione di giubilo che lei credeva di dover inalberare sulla faccia ogni volta che le toccava di annunciarlo non rispondeva esattamente al sentimento della malata. 
Il curato (uomo eccellente con il quale mi rammarico di non aver parlato più a lungo, perché, se non capiva niente d'arte, era un buon conoscitore di etimologie), abituato a dare ai visitatori di riguardo informazioni sulla chiesa (aveva addirittura l'intenzione di scrivere un libro sulla parrocchia di Combray (95)), l'affaticava con spiegazioni interminabili e d'altra parte sempre identiche. 
Quando poi capitava, come stavolta proprio in coincidenza con quella di Eulalie, la sua visita diventava per mia zia francamente sgradevole. 
Avrebbe di gran lunga preferito approfittare con agio di Eulalie e non avere tutti quanti insieme. 
Ma non osava rifiutare di ricevere il curato e si limitava a far segno a Eulalie di non andarsene con lui, che l'avrebbe trattenuta un po' da sola quando quello se ne fosse andato. - Cosa mi dicevano, signor Curato, che c'è un artista che ha piazzato il cavalletto nella vostra chiesa per copiare una vetrata? Posso dire di essere arrivata alla mia età senza aver mai sentito niente di simile! Cosa va mai a cercare la gente al giorno d'oggi! E proprio quel che c'è di più brutto in tutta la chiesa! - Non arriverei a dire che sia proprio quel che c'è di più brutto, perché se a Saint-Hilaire (96) alcune parti meritano d'essere visitate, ce ne sono altre proprio decrepite nella mia povera basilica, la sola, in tutta la diocesi, che non sia stata nemmeno restaurata! Dio mio, il portico è sporco e vetusto ma, in fin dei conti, ha un aspetto maestoso; passi, ancora, per gli arazzi di Ester, che io personalmente non pagherei due soldi, ma che per gli intenditori vengono subito dopo quelli di Sens. (97) Riconosco, d'altronde, che accanto a certi dettagli un po' troppo realistici ne presentano altri che testimoniano d'un autentico spirito d'osservazione. 
Ma non mi vengano a parlare delle vetrate! Che buon senso c'è a lasciare delle finestre che non fanno luce e confondono addirittura la vista con quei riflessi d'un colore che non saprei neanche definire, e questo in una chiesa dove non ci sono due lastre allo stesso livello e mi si rifiuta di sostituirle col pretesto che si tratta delle tombe degli abati di Combray e dei signori di Guermantes, già conti di Brabante? Già, gli antenati diretti dell'attuale duca di Guermantes, e anche della duchessa visto che è una Guermantes che ha sposato suo cugino. (La nonna, che a furia di disinteressarsi delle persone finiva col confondere tutti i nomi, ogni volta che si pronunciava quello della duchessa di Guermantes sosteneva che dovesse essere parente di Madame de Villeparisis. 
Tutti scoppiavano a ridere; lei tentava di difendersi appellandosi a una certa lettera d'invito: Mi sembrava di ricordare che ci fosse dentro un po' di Guermantes. 
E, per una volta, io ero con gli altri contro di lei, non potendo ammettere che ci fosse una connessione fra la sua amica di collegio e la discendente di Genoveffa di Brabante.) Prendete Roussainville, oggi non è più che una parrocchia di fittavoli, benché anticamente questa località abbia avuto un grande sviluppo grazie al commercio del cappelli di feltro e delle pendole. (Ho qualche dubbio sull'etimologia di Roussainville. 
Sarei portato a credere che il nome primitivo fosse Rouville, "Radulfi villa", come Chteauroux "Castrum Radulfi"... 
Ma ve ne parlerò un'altra volta.) Ebbene! la chiesa ha delle vetrate superbe, quasi tutte moderne, e quell'imponente "Entrata di Luigi Filippo a Combray" che starebbe meglio qui, a Combray appunto, e che vale, dicono, la famosa vetrata di Chartres. 
Proprio ieri parlavo con il fratello del dottor Percepied, che è un intenditore e la considera un capolavoro. 
Ma, come facevo osservare a quell'artista che, del resto, sembra molto compìto ed è, a quanto pare, un autentico virtuoso del pennello, che cosa ci trovate di straordinario in questa vetrata, che è anche un po' più buia delle altre? - Sono sicura che se lo chiedeste a Monsignore, disse mollemente mia zia, la quale cominciava a pensare che si sarebbe sentita stanca, non vi rifiuterebbe una vetrata nuova. - Ci può contare, Madame Octave, replicava il curato. 
Ma è per l'appunto Monsignore che ha messo sugli scudi quell'infelice vetrata dimostrando che rappresenta Gilberto il Malvagio, sire di Guermantes, discendente diretto di Genoveffa di Brabante che nasceva a sua volta Guermantes, mentre riceve l'assoluzione da sant'Ilario. (98) - Ma dove sarebbe, poi, sant'Ilario? - Ma come, nell'angolo della vetrata, non avete mai notato una signora con un mantello giallo? Ebbene! è sant'Ilario, che in certe province, sapete, chiamano anche sant'Illiers, sant'Hélier e persino, nel Giura, sant'Ylie. 
Queste diverse corruzioni di "sanctus Hilarius" non sono del resto le più bizzarre fra quelle che hanno subìto i nomi dei beati. 
La vostra patrona, per esempio, mia buona Eulalie, "sancta Eulalia", sapete cos'è diventata in Borgogna? "Saint Eloi", molto semplicemente: è diventata un santo. (99) Pensate un po', Eulalie, e se dopo la morte vi trasformassero in uomo? - Il signor Curato ha sempre voglia di scherzare. - Il fratello di Gilberto, Carlo il Balbuziente, (100) principe pio ma che, avendo perduto in giovane età il padre, Pipino l'Insensato, morto in seguito a una malattia mentale, esercitava il potere supremo con tutta la presunzione d'una giovinezza alla quale è mancata la disciplina, (101) se in una determinata città non gli andava a genio la faccia di qualcuno vi faceva massacrare fino all'ultimo abitante. (102) Per vendicarsi di Carlo, Gilberto fece bruciare la chiesa di Combray - la chiesa primitiva, si capisce, quella che Teodeberto, (103) lasciando con la sua corte la residenza di campagna che aveva da queste parti, a Thiberzy ("Theodeberciacus"), per andare a combattere i Burgundi, aveva promesso di edificare sopra la tomba di sant'Ilario se il Beato gli avesse procurato la vittoria. 
Non ne rimane che la cripta nella quale Théodore vi avrà fatta scendere poiché Gilberto bruciò tutto il resto. 
In seguito egli sconfisse lo sventurato Carlo con l'aiuto di Guglielmo il Conquistatore (il curato pronunciava "Gulielmo"), ed è per questo che tanti inglesi vengono in visita qui. Ma, a quanto pare, non seppe conciliarsi la simpatia degli abitanti di Combray, visto che s'avventarono su di lui mentre usciva dalla messa e gli tagliarono la testa. (104) Théodore, del resto, dà in prestito un libretto che spiega tutto quanto. 
Ma la cosa incontestabilmente più singolare della nostra chiesa è la vista grandiosa che si gode dal campanile. 
Certo, a voi che non siete molto robusta non consiglierei di salire i nostri novantasette gradini, esattamente la metà di quelli del celebre duomo di Milano. 
C'è di che stancare una persona in buona salute, tanto più che si sale piegati in due se non ci si vuole rompere la testa, e con i vestiti si raccolgono tutte le ragnatele della scala. E in ogni caso dovreste coprirvi bene, aggiungeva (senza avvertire l'indignazione della zia all'idea che la si ritenesse capace di salire sul campanile), perché tira una di quelle correnti d'aria, una volta arrivati lassù! Qualcuno asserisce di avervi sentito il freddo della morte. 
Ciononostante, la domenica ci sono sempre dei gruppi che vengono magari da molto lontano per ammirare la bellezza del panorama e ripartono estasiati. 
Per esempio, domenica mattina, se il tempo non si guasta, ci trovereste di sicuro gente, perché sono le Rogazioni. 
Del resto bisogna confessare che vi si gode un colpo d'occhio fiabesco, con certi scorci sulla pianura che sono qualcosa di veramente particolare. 
Se l'aria è limpida si riesce a spingere lo sguardo fino a Verneuil. 
E il bello è che si abbracciano insieme delle cose che di solito si possono vedere solo isolatamente, come il corso della Vivonne e i fossi di SaintAssise-lès-Combray, che una cortina di grandi alberi separa dal fiume, o come i vari canali di Jouy-le-Vicomte ("Gaudiacus vice comitis", come sapete). 
Ogni volta che ci sono andato, a Jouy-le-Vicomte, ho visto sì un tratto di canale, poi, girato un angolo di strada, ne vedevo un altro, ma a quel punto non vedevo più il precedente. 
Avevo un bel cercare di metterli insieme col pensiero, non mi faceva una grande impressione. 
Dal campanile di Saint-Hilaire è tutt'altra cosa, è un'intera rete ad avvolgere l'abitato. 
Solo che non si distingue l'acqua, si direbbero grandi spaccature che dividono così bene la città in spicchi, da farla assomigliare a una "brioche" le cui fette stanno ancora insieme pur essendo già tagliate. 
L'ideale sarebbe trovarsi contemporaneamente sul campanile di Saint-Hilaire e a Jouyle-Vicomte. 
Il curato aveva a tal punto affaticato la zia, che non appena se ne era andato lei si vedeva costretta a congedare Eulalie. 
- Tenete, mia povera Eulalie, diceva con un filo di voce tirando fuori una moneta da un borsellino che aveva a portata di mano, ecco, perché non mi dimentichiate nelle vostre preghiere. 
- Ah, Madame Octave, non so se devo, sapete bene che non è per questo che vengo, diceva Eulalie, ogni volta con la stessa esitazione e lo stesso imbarazzo che se fosse la prima, e con un'apparenza di rammarico che divertiva mia zia ma non le dispiaceva, tanto che se un giorno Eulalie, prendendo la moneta, aveva un'aria un po' meno contrariata del solito, la zia diceva: - Chissà cosa aveva Eulalie; le ho dato il solito, come sempre, ma non sembrava contenta. 
- Eppure direi che non ha da lamentarsi, sospirava Franoise, la quale tendeva a considerare degli spiccioli tutto quello che mia zia le dava per lei o per i suoi figli, e dei tesori follemente dissipati per un'ingrata le monetine deposte ogni domenica nella mano di Eulalie, ma con tale discrezione che Franoise non riusciva mai a vederle. 
Non che il denaro che la zia dava a Eulalie lo desiderasse invece per sé. 
Franoise si rallegrava già abbastanza di quel che mia zia possedeva, sapendo che le ricchezze della padrona elevano e abbelliscono agli occhi di tutti anche la sua domestica, e che lei stessa, Franoise, era insigne e glorificata a Combray, Jouy-le-Vicomte e dintorni in forza delle numerose tenute di mia zia, delle visite frequenti e prolungate del curato, del numero singolare delle bottiglie d'acqua di Vichy consumate. 
Se era avara, lo era soltanto per mia zia; se avesse amministrato lei quel patrimonio, cosa che sarebbe stata il suo sogno, lo avrebbe preservato dalle iniziative altrui con ferocia materna. 
Tuttavia non avrebbe visto un gran male nel fatto che mia zia, di cui conosceva l'inguaribile generosità, si desse alle elargizioni, a patto però che a beneficiarne fossero dei ricchi. 
Forse pensava che costoro, non avendo bisogno dei regali di mia zia, non potevano essere sospettati di volerle bene per questo. 
D'altra parte, offerti a persone facoltose, a Madame Sazerat, al signor Swann, al signor Legrandin, a Madame Goupil, a persone "dello stesso rango" di mia zia e che "stavano bene insieme", i regali le sembravano far parte degli usi d'una vita strana e brillante come è quella della gente ricca che va a caccia, che dà dei balli, che si scambia delle visite, e che lei ammirava con un sorriso. 
Ma le cose cambiavano se a beneficiare della generosità della zia erano coloro che Franoise chiamava "persone come me, persone che non sono niente più di me", coloro che lei disprezzava di più, a meno che la chiamassero "Madame Franoise" e si considerassero "meno di lei". 
E quando si rese conto che, malgrado i suoi consigli, mia zia faceva di testa propria e sperperava il denaro - così almeno credeva Franoise - per delle creature indegne, cominciò a trovare piccolissimi i regali che le faceva la zia, a paragone delle somme immaginarie prodigate a Eulalie. 
Non c'era, nei dintorni di Combray, una tenuta abbastanza grossa perché Franoise non pensasse che Eulalie avrebbe potuto acquistarla facilmente, con tutto quello che le rendevano le sue visite. 
E' vero che Eulalie faceva un'analoga stima delle ricchezze immense e occulte di Franoise. 
D'abitudine, dopo che Eulalie se n'era andata, Franoise profetizzava senza alcuna benevolenza sul suo conto. 
La odiava, ma la temeva e si credeva obbligata, quando l'altra era presente, a farle "buon viso". 
Si rifaceva dopo la sua uscita, senza mai nominarla per la verità, ma emettendo oracoli sibillini o sentenze di carattere non meno generale di quelle dell'Ecclesiaste, ma la cui applicazione non poteva sfuggire a mia zia. 
Dopo aver guardato da dietro la tendina se Eulalie avesse richiuso la porta: Le persone che sanno lusingare sanno anche come far quattrini; ma pazienza, un bel giorno il buon Dio le punisce tutt'in una volta, diceva, con lo sguardo obliquo e il tono insinuante di Joas che non pensa ad altri che ad Athalie quando dice: 
"La felicità dei malvagi fugge come un torrente." (105) 
Ma quando era venuto anche il curato e la sua visita interminabile aveva spossato la zia, Franoise usciva dalla stanza subito dopo Eulalie e diceva: - Madame Octave, vi lascio riposare, avete l'aria così stanca. 
Mia zia non rispondeva nemmeno, ma a occhi chiusi, come morta, esalava un sospiro che sembrava dover essere l'ultimo. 
Ma, appena scesa Franoise, quattro colpi suonati con estrema violenza echeggiavano nella casa e la zia, ritta sul letto, gridava: - Eulalie è già uscita? Ci credereste che mi sono dimenticata di chiederle se Madame Goupil era arrivata alla messa prima dell'elevazione? Presto, corretele dietro! Ma Franoise tornava senza essere riuscita a raggiungere Eulalie. 
- E' seccante, diceva la zia scuotendo la testa. 
L'unica cosa importante che le dovevo chiedere! Così passava la vita per mia zia Léonie, sempre identica, nella dolce uniformità di quello che lei chiamava, con disdegno affettato e tenerezza profonda, il suo "piccolo tran tran". 
Rispettato da tutti, non soltanto in casa dove ciascuno, sperimentata l'inutilità di consigliarle una migliore igiene, si era a poco a poco rassegnato a non discuterlo, ma anche in paese dove, a tre strade di distanza, l'imballatore, prima di inchiodare le sue casse, faceva chiedere a Franoise se la zia "non stava riposando", questo tran tran subì tuttavia quell'anno un attentato. 
Come un frutto nascosto pervenuto, senza che nessuno se ne accorgesse, a maturare e a staccarsi da solo, sopraggiunsero una notte le doglie della sguattera. 
I suoi dolori erano insopportabili, e dato che a Combray non c'erano levatrici Franoise dovette andare prima di giorno a cercarne una a Thiberzy. 
La zia, a causa delle urla della sguattera, non riuscì a riposare, e Franoise, che era tornata tardi benché la distanza fosse breve, le era molto mancata. 
E così, la mattina, mia madre mi disse: Va' un po' a vedere se la zia ha bisogno di qualcosa. 
Entrai nella prima stanza e attraverso la porta aperta vidi la zia che, coricata sul fianco, dormiva; la sentii russare lievemente. 
Stavo per andarmene piano piano ma, evidentemente il rumore che avevo fatto si era insinuato nel suo sonno e ne aveva "cambiato la marcia", come si dice per le automobili, perché la musica del suo russare s'interruppe un secondo e riprese su un tono più basso, poi lei si svegliò e voltò a mezzo la faccia che in quel momento mi fu possibile vedere: esprimeva una sorta di terrore; evidentemente, aveva fatto un sogno spaventoso; nella posizione in cui si trovava non poteva scorgermi, e io me ne stavo là incerto se farmi avanti o andarmene; ma già lei sembrava aver riacquistato il senso della realtà e aveva riconosciuto la falsità delle visioni che l'avevano atterrita; un sorriso di gioia, di pia riconoscenza verso il Signore il quale permette che la vita sia meno crudele dei sogni, illuminò debolmente il suo volto, e seguendo l'inveterata abitudine di parlare sottovoce a se stessa quando si credeva sola, mormorò: Dio sia lodato! l'unico fastidio che abbiamo è la sguattera che partorisce. E io vado a sognarmi che il povero Octave era resuscitato e voleva farmi fare una passeggiata tutti i giorni!. 
La sua mano si sporse verso il rosario posato sul tavolino, ma il sonno che stava tornando non le lasciò la forza di raggiungerlo: si riaddormentò, tranquillizzata, e io uscii dalla camera a passi felpati senza che lei né nessun altro abbiano mai saputo quel che avevo sentito. 
Quando dico che, a parte avvenimenti rarissimi come quel parto, il tran tran di mia zia non subiva mai variazioni, non tengo conto di quelle che, ripetendosi sempre identiche a intervalli regolari, non facevano che introdurre nell'ambito dell'uniformità una sorta di uniformità secondaria. 
Così, tutti i sabati, siccome nel pomeriggio Franoise andava al mercato di Roussainville-le-Pin, la colazione veniva anticipata per tutti di un'ora. 
E la zia aveva assimilato così bene l'abitudine di questa deroga settimanale alle sue abitudini, che teneva ad essa esattamente come alle altre. 
Vi si era così ben "abitudinata", come diceva Franoise, che se un sabato le fosse toccato di aspettare, per la colazione, l'ora degli altri giorni, la cosa l'avrebbe non meno "disturbata" che se, un qualsiasi altro giorno, avesse dovuto anticiparla all'ora del sabato. 
D'altronde quell'anticipo della colazione conferiva al sabato, per noi tutti, una fisionomia particolare, indulgente e piuttosto simpatica. 
Nel momento in cui, di solito, si ha ancora da vivere un'ora prima della distensione del pasto, noi sapevamo che di lì a qualche minuto avremmo visto arrivare una precoce insalata, un'omelette di favore, una bistecca immeritata. 
Il ricorrere di quel sabato asimmetrico era uno di quei piccoli avvenimenti interni, locali, quasi civici che nelle vite tranquille e nelle società chiuse creano una sorta di legame nazionale e divengono tema favorito delle conversazioni, delle battute, dei racconti esagerati ad arbitrio: sarebbe stato il nucleo bell'e pronto di un ciclo di leggende, se qualcuno di noi avesse avuto la vocazione epica. (106) Sin dal mattino, prima di vestirci, senza ragione, giusto per il piacere di sperimentare la forza della solidarietà, ci dicevamo l'un l'altro con buonumore, con cordialità, con patriottismo: Non c'è tempo da perdere, non dimentichiamoci che è sabato! mentre la zia, conferendo con Franoise e pensando che la giornata sarebbe stata più lunga del solito, diceva: Se gli faceste un bel pezzo di vitello, visto che è sabato. 
Se alle dieci e mezzo un distratto, dopo un'occhiata all'orologio, diceva: Coraggio, manca ancora un'ora e mezzo alla colazione, ciascuno si sentiva deliziato di dover replicare: Ma via, cosa avete per la testa, dimenticate che è sabato!; un quarto d'ora dopo se ne stava ancora ridendo, e ci si riprometteva di salire a raccontare quella dimenticanza alla zia per farla divertire. 
Lo stesso volto del cielo sembrava mutato. 
Dopo colazione il sole, conscio del fatto che era sabato, si trastullava un'ora più del solito nella parte alta del cielo, e se qualcuno, pensando che si fosse in ritardo per la passeggiata, diceva: Ma come, soltanto le due? nel veder passare i due rintocchi del campanile di Saint-Hilaire (che di norma non incontrano nessuno per le strade ancora deserte a causa del pasto di mezzogiorno o della siesta, lungo il fiume vivo e bianco che persino il pescatore ha abbandonato, e trascorrono solitari nel cielo vuoto dove non resiste che qualche nuvola indolente), tutti gli rispondevano in coro: Ma no, non lasciatevi ingannare, è che abbiamo mangiato un'ora prima, lo sapete bene che è sabato!. 
La sorpresa di un barbaro (chiamavamo così tutte le persone all'oscuro di quel che di particolare aveva il sabato) il quale, arrivando alle undici per parlare a mio padre, ci aveva trovati a tavola, era una delle cose che avevano più rallegrato Franoise in tutta la sua vita. 
Ma se trovava divertente che il visitatore sconcertato non sapesse che il sabato facevamo colazione prima, trovava ancora più comico (e simpatizzava dal profondo del cuore con quello sciovinismo di stretta osservanza ) che mio padre, senza nemmeno sospettare che quel barbaro potesse ignorarlo, come unica spiegazione al suo stupore di vederci già in sala da pranzo gli avesse risposto: Ma si capisce, è sabato!. 
Arrivata a questo punto del racconto, Franoise si asciugava lacrime di ilarità e per accrescere il piacere che già provava dava un seguito al dialogo, inventando la replica del 
  visitatore al quale quel "sabato" non spiegava nulla. 
E noi, ben lungi dal dolerci di queste aggiunte, non ne avevamo ancora abbastanza e dicevamo: A me però sembrava che avesse detto qualche altra cosa. 
Era più lunga la prima volta che l'avete raccontata. 
Persino la mia prozia sospendeva il lavoro, alzava la testa e guardava da sopra gli occhialetti a stringinaso. 
Il sabato aveva qualcos'altro di particolare: quel giorno, durante il mese di maggio, si usciva dopo pranzo per andare al "mese di Maria". 
Poiché a volte vi si incontrava il signor Vinteuil, che era molto severo con la "deplorevole razza dei giovani trasandati, secondo le idee d'oggigiorno", mia madre si accertava che niente stonasse nel mio abbigliamento, poi ci si incamminava verso la chiesa. 
E' nel mese di Maria che ricordo di aver cominciato ad amare i biancospini. 
Presenti non solo nella chiesa - così santa, ma nella quale avevamo il diritto di entrare -, posati persino sull'altare, inseparabili dai misteri alla cui celebrazione prendevano parte, essi insinuavano tra candelieri e vasi consacrati i loro rami che si tendevano, ciascuno connesso orizzontalmente all'altro, in un assetto festoso, resi ancor più sontuosi dai festoni del loro fogliame sul quale erano sparsi a profusione, come su uno strascico nuziale, mazzolini di boccioli d'un candore abbagliante. 
Senza osare guardarli se non di sfuggita, io avevo tuttavia la sensazione che quegli arredi sfarzosi fossero vivi e che la natura stessa, frastagliando in quel modo le foglie e aggiungendovi l'ornamento supremo di quei boccioli bianchi, avesse reso la decorazione degna di quella che era ad un tempo una festa popolare e una solennità mistica. Più in alto, qua e là, s'aprivano con grazia noncurante le loro corolle, trattenendo così sbadatamente, come un ultimo, vaporoso paramento, il fascio di stami, sottili come fili della Vergine, dal quale erano tutte avvolte, che nel seguire, nel cercar di mimare dentro di me il gesto della loro fioritura, io l'immaginavo come il volgere di testa rapido e sventato, con sguardo civettuolo, con affilate pupille, di una bianca fanciulla distratta e viva. 
Il signor Vinteuil era venuto con sua figlia a prendere posto accanto a noi. 
Di buona famiglia, era stato insegnante di pianoforte delle sorelle di mia nonna, e da quando, in seguito alla morte della moglie e a un'eredità ricevuta, s'era ritirato nei pressi di Combray, lo vedevamo spesso a casa nostra. 
Ma, esageratamente pudibondo com'era, aveva smesso di venirci per non incontrare Swann, che aveva fatto quello ch'egli chiamava "un matrimonio sconveniente, secondo la moda d'oggigiorno". 
Mia madre, venuta a sapere che componeva, gli aveva detto per cortesia che, quando fosse andata da lui, avrebbe dovuto farle ascoltare qualcosa di suo. 
Il signor Vinteuil ne sarebbe stato felice, ma la sua buona creanza e la sua bontà d'animo lo rendevano a tal punto scrupoloso che, mettendosi sempre nei panni degli altri egli temeva di infastidirli e di sembrare egoista seguendo o semplicemente lasciando indovinare il proprio desiderio. 
Il giorno in cui i miei genitori erano andati a trovarlo, io li avevo accompagnati, ma mi avevano permesso di restare fuori, e poiché la casa del signor Vinteuil, Montjouvain, era sovrastata da un monticello cespuglioso nel quale mi ero nascosto, ero venuto a trovarmi all'altezza del secondo piano, a cinquanta centimetri dalla finestra del salotto. 
Quando erano venuti ad annunciargli i miei genitori, avevo visto il signor Vinteuil affrettarsi a mettere in evidenza sul pianoforte uno spartito. 
Ma, dopo il loro ingresso, l'aveva tolto e messo in un angolo, senza dubbio nel timore di poterli indurre a credere che egli fosse lieto di vederli soltanto per eseguire le sue composizioni. 
E ogni volta che, nel corso della visita, mia madre era tornata alla carica, lui aveva ripetuto: Non capisco davvero chi ha messo quella roba sul piano, non è il suo posto, e aveva dirottato la conversazione su altri argomenti, proprio perché lo interessavano meno. 
L'unica passione che nutriva era per sua figlia, che si sarebbe detta un maschio e appariva così robusta che non si poteva non sorridere nel vedere le precauzioni che il padre prendeva per lei, trovando sempre qualche scialle supplementare da metterle indosso. 
La nonna ci faceva notare l'espressione dolce, delicata, quasi timida che passava sovente nello sguardo di quella ragazza così rude, dal viso cosparso di efelidi. 
Appena pronunciata una parola, l'ascoltava con lo spirito di quelli a cui l'aveva detta, si preoccupava dei possibili malintesi, e dietro la sua fisionomia mascolina e bonaria si illuminavano di colpo, si stagliavano come in trasparenza i tratti più fini di una fanciulla tormentata. 
Quando, al momento di lasciare la chiesa, mi inginocchiai davanti all'altare, tutt'a un tratto, rialzandomi, sentii che i biancospini esalavano un odore dolceamaro di mandorle, e mi accorsi che sui fiori c'erano delle piccole zone più chiare sotto le quali mi figurai che dovesse essere nascosto quell'odore, come l'aroma di una torta sotto le parti più gratinate o quello delle gote di Mademoiselle Vinteuil sotto le loro efelidi. 
Nonostante la silenziosa immobilità dei biancospini, quell'odore intermittente era come il mormorio della loro intensa esistenza e l'altare ne vibrava come in campagna una siepe visitata da viventi antenne, alle quali facevano pensare certi stami quasi rossi che sembravano aver conservato la violenza primaverile, il potere irritante di insetti ora mutati in fiori. 
Uscendo dalla chiesa parlavamo un poco con il signor Vinteuil davanti al portico. 
S'intrometteva fra i monelli che si accapigliavano sulla piazza, prendeva le difese dei piccoli, faceva ramanzine ai grandi. 
Se la figlia, con il suo vocione, ci diceva come era stata contenta di vederci, subito sembrava che dentro di lei una sorella più sensibile arrossisse di quella sortita da bravo ragazzo sbadato che avrebbe potuto farci pensare a una sua intenzione di sollecitare un invito a casa nostra. 
Il padre le gettava un cappotto sulle spalle, insieme salivano su un calessino che guidava lei stessa e se ne tornavano a Montjouvain. 
Quanto a noi, siccome l'indomani era domenica e non ci si sarebbe alzati che per la messa grande, se c'era la luna e l'aria era tiepida, mio padre, per amor di gloria, invece di farci rincasare direttamente ci faceva fare, passando per il calvario, una lunga passeggiata che mia madre, data la sua scarsa attitudine a orientarsi e a riconoscere le strade, considerava come la prodezza di un genio strategico. 
Di tanto in tanto ci spingevamo fino al viadotto, i cui lunghi passi di pietra cominciavano alla stazione e rappresentavano ai miei occhi l'esilio e lo sconforto al di fuori del mondo civile, perché ogni anno, arrivando da Parigi, ci raccomandavano di fare bene attenzione, una volta a Combray, di non lasciar passare la stagione, di prepararci per tempo, visto che il treno ripartiva dopo due minuti per avventurarsi sul viadotto al di là dei paesi cristiani dei quali Combray segnava per me l'estrema frontiera. 
Tornavamo per il viale della stazione, dove sorgevano le più simpatiche ville del paese. 
In ogni giardino il chiaro di luna spargeva qua e là, come Hubert Robert, i suoi gradini scheggiati di marmo bianco, gli zampilli delle sue fontane, i suoi cancelli socchiusi. (107) La sua luce aveva distrutto l'ufficio del telegrafo. 
Non ne avanzava che una colonna spezzata, ma bella come una rovina immortale. 
Io trascinavo le gambe, cascavo dal sonno, il profumo dei tigli mi sembrava una ricompensa che si poteva ottenere solo a prezzo delle più dure fatiche e che non ripagava abbastanza. 
Da cancelli lontanissimi l'uno dall'altro, cani svegliati dai nostri passi solitari abbaiavano in alterna successione, come mi accade ancora, qualche volta, di sentire la sera, ed è fra quei latrati che (quando al suo posto fu creato il giardino pubblico di Combray) dovette venire a rifugiarsi il viale della stazione, dato che, ovunque io mi trovi, quando quelli cominciano a echeggiare e a rispondersi, subito lo rivedo, con i suoi tigli e il suo marciapiede illuminato dalla luna. 
All'improvviso mio padre ci imponeva una sosta e chiedeva a mia madre: Dove siamo?. 
Stremata dalla marcia ma fiera di lui, gli confessava con tenerezza di non averne la più pallida idea. Lui scrollava le spalle e rideva. 
E, come se l'avesse tirata fuori dalla tasca della giacca insieme alla chiave, ci mostrava, dritto davanti a noi, la porticina posteriore del nostro giardino, venuta con tutto l'angolo di rue du Saint-Esprit ad aspettarci allo sbocco di quegli itinerari sconosciuti. 
Mia madre gli diceva con ammirazione: Sei straordinario!. 
E io, a partire da quel momento, non avevo più un solo passo da fare, era il suolo a camminare per me in quel giardino dove da tanto tempo i miei atti avevano smesso d'accompagnarsi a un'attenzione volontaria: l'Abitudine veniva a prendermi tra le sue braccia e mi portava a letto come un bambino piccolo. 
Se la giornata di sabato, che cominciava un'ora prima e durante la quale rimaneva priva di Franoise, passava per lei più lentamente di qualsiasi altra, mia zia attendeva tuttavia con impazienza, sin dall'inizio della settimana, che ritornasse, come quella che racchiudeva tutta la novità e la distrazione che il suo corpo indebolito e maniaco fosse ancora in grado di sopportare. 
Eppure, non è che non aspirasse anche lei, ogni tanto, a qualche cambiamento più sensibile, che non conoscesse quei momenti eccezionali quando si ha sete di qualcosa di diverso dall'esistente, e coloro ai quali la mancanza di energia o d'immaginazione impedisce di trarre da se stessi un principio di rinnovamento domandano all'attimo che sopravviene, al postino che suona, di portar loro qualcosa di nuovo, foss'anche di peggio, un'emozione, un dolore; quando la sensibilità, che il benessere ha fatto tacere come un'arpa indolente, vuol risuonare al tocco di una mano, anche se brutale, e a rischio d'esserne infranta; quando la volontà, che con tanta fatica si è conquistata il diritto d'abbandonarsi senza ostacolo ai suoi desideri, alle sue pene, vorrebbe rimettere le redini nelle mani di eventi imperiosi, non importa se crudeli. 
Certo, poiché le forze di mia zia, che si esaurivano al minimo sforzo, non le tornavano che a goccia a goccia nel corso del suo riposo, il serbatoio ci metteva troppo a riempirsi, e passavano dei mesi prima che lei avvertisse quel lieve sovrappiù che altri accumulano nell'attività e di cui, d'altronde, era incapace di sapere e di decidere quale uso fare. Sono sicuro che allora - così come il desiderio di sostituirlo con patate alla "béchamel" finiva col nascere, dopo un certo tempo, proprio dal piacere generato in lei dal ritorno quotidiano del purè, di cui non si "stancava" mai - mia zia traeva dall'accumularsi di quei giorni monotoni, ai quali tanto teneva, l'attesa di un cataclisma domestico, limitato alla durata di un momento, ma tale da costringerla una volta per tutte a uno di quei cambiamenti che le sarebbero stati, lo ammetteva, salutari e ai quali non riusciva a risolversi da sola. Amandoci sinceramente, sarebbe stata contenta di piangerci; la notizia - che arrivasse in un momento in cui lei si sentiva bene e non aveva i suoi sudori - che la casa era in preda a un incendio nel quale tutti noi eravamo già periti e che ben presto non avrebbe lasciato pietra su pietra, ma al quale lei avrebbe avuto tutto il tempo di scampare senza affanno, alla sola condizione di alzarsi subito dal letto, dovette non di rado alloggiare tra le sue speranze, come quella che avrebbe unito ai vantaggi secondari di farle assaporare in un lungo rimpianto tutta la tenerezza che aveva per noi e di suscitare la stupefazione del paese sostenendo, coraggiosa e prostrata, moribonda ma in piedi, il lutto per la nostra scomparsa, quello ben più prezioso di costringerla una buona volta, senza tempo da perdere, senza possibilità di esitazioni snervanti, ad andare a trascorrere l'estate nella sua bella tenuta di Mirougrain, dove c'era una cascata. 
Non essendosi mai verificato nessun evento del genere, di cui lei sicuramente fantasticava l'esito quando era sola, assorta in uno dei suoi innumerevoli giochi di pazienza (e che l'avrebbe gettata nella disperazione sin dal primo accenno di effettivo accadimento, sin dal primo di quei piccoli fatti imprevisti, di quelle parole che annunciano una cattiva notizia e di cui non si può più dimenticare l'accento, di tutto ciò che reca l'impronta della morte reale, così diversa dalla sua possibilità logica e astratta), si accontentava, per rendere ogni tanto più interessante la propria vita, di introdurvi delle peripezie immaginarie che seguiva con passione. 
Si divertiva a supporre, tutt'a un tratto, che Franoise la derubasse e che lei ricorrendo all'astuzia per accertarsene, la cogliesse sul fatto; abituata, quando giocava a carte da sola, a fare insieme la sua parte e quella dell'avversario, rivolgeva a se stessa le scuse imbarazzate di Franoise e vi replicava con tanto ardore e tanta indignazione che qualcuno di noi, 
  entrando proprio allora, la trovava madida di sudore, con gli occhi scintillanti e i capelli posticci scivolati fino a lasciarle scoperta la fronte calva. 
Forse, dalla camera accanto, Franoise sentì qualche volta i mordenti sarcasmi che le erano indirizzati e la cui invenzione non avrebbe dato sufficiente sollievo a mia zia se fossero rimasti allo stato puramente immateriale e se, mormorandoli a mezza voce, non li avesse resi più realistici. 
In certi casi, quello "spettacolo in un letto" non bastava più a mia zia, che decideva di portare i suoi drammi sulle scene. 
E così, una domenica, con tutte le porte misteriosamente chiuse, confidava a Eulalie i suoi dubbi sulla probità di Franoise, la sua intenzione di disfarsi di lei, e un'altra volta a Franoise i suoi sospetti di infedeltà sul conto di Eulalie, che sarebbe stata messa alla porta quanto prima; pochi giorni dopo, disgustata della confidente di ieri, era di nuovo in armonia con la traditrice, l'una e l'altra destinate per altro a scambiarsi i ruoli per la prossima rappresentazione. 
Ma i sospetti che Eulalie le ispirava di tanto in tanto non erano che un fuoco di paglia e svanivano ben presto, nulla potendo alimentarli dato che Eulalie non abitava con noi. Diverso era il caso di quelli a carico di Franoise, della quale la zia avvertiva la perpetua presenza sotto lo stesso tetto senza tuttavia azzardarsi, per paura di prender freddo lasciando le coperte, a scendere in cucina per rendersi conto della loro fondatezza. 
A poco a poco la sua mente non ebbe più altre occupazioni che cercare d'indovinare quello che di continuo Franoise potesse fare e tentare di nasconderle. 
Coglieva i più furtivi movimenti della sua fisionomia, una contraddizione nelle sue parole, un desiderio che avesse l'aria di dissimulare. 
E le faceva capire di averla smascherata con una sola parola che faceva impallidire Franoise e che mia zia sembrava conficcare con crudele divertimento nel cuore della sventurata. La domenica successiva, una rivelazione di Eulalie - simile a quelle scoperte che in un sol colpo spalancano un campo insospettato a una scienza nascente che arrancava nella polvere - dava a mia zia la prova d'essere rimasta, nelle sue supposizioni, ben al di sotto della verità. 
Ma Franoise dovrebbe saperlo, adesso che le avete dato una vettura. - Io le ho dato una vettura? esclamava la zia. - Non so, credevo, l'avevo vista che passava in calesse, adesso, fiera come Artabano, (108) per andare al mercato di Roussainville. 
Avevo pensato che fosse stata Madame Octave a darglielo. 
Ormai Franoise e mia zia non smettevano più, come la bestia e il cacciatore, di cercare di prevenire l'una le astuzie dell'altra. 
Mia madre temeva che in Franoise si sviluppasse un vero e proprio odio per la zia, che l'offendeva il più crudamente possibile. 
In ogni caso Franoise prestava sempre più alle minime parole, ai minimi gesti di mia zia un'attenzione straordinaria. 
Quando aveva qualcosa da chiederle, esitava a lungo sulla scelta del modo. 
E una volta avanzata la sua richiesta, osservava furtivamente mia zia, tentando di indovinare dall'espressione del suo volto quel che aveva pensato e cosa avrebbe deciso. E così - mentre c'è qualche artista, lettore dei memorialisti del Diciassettesimo secolo, che, desideroso di avvicinarsi al grande Re, crede di incamminarsi su questa strada fabbricandosi una genealogia che lo fa discendere da una famiglia storica o intrattenendo una corrispondenza con uno degli attuali sovrani europei, e così facendo volta esattamente le spalle a ciò che ha il torto di cercare sotto forme identiche e proprio per questo morte - a una vecchia signora di provincia, che non faceva altro che obbedire sinceramente a irresistibili manie e a una malignità nata dall'ozio, succedeva, senza mai aver pensato a Luigi Quattordicesimo, che le più insignificanti occupazioni della sua giornata, concernenti il risveglio, la colazione, il riposo, acquistassero grazie alla loro singolarità dispotica un poco dell'interesse di quella che Saint-Simon chiamava la "meccanica" della vita a Versailles; le succedeva, persino, di poter credere che i suoi silenzi, una sfumatura di buonumore o di alterigia nella sua espressione, costituissero per Franoise l'oggetto di un commento appassionato e insieme apprensivo, non meno che il silenzio, il buonumore, l'alterigia del Re quando un cortigiano o magari i più grandi signori erano andati a presentargli una supplica a Versailles, alla svolta di un viale. 
Una domenica che mia zia aveva ricevuto la visita simultanea del curato e di Eulalie e si era poi riposata, eravamo saliti tutti ad augurarle la buonanotte, e la mamma le fece le condoglianze per la sfortunata circostanza che i visitatori arrivassero sempre alla stessa ora: - So che le cose si sono messe male un'altra volta questo pomeriggio, Léonie, le disse con dolcezza, vi sono capitati tutti quanti insieme. 
Discorso che la prozia interruppe con un: Fastidi grassi..., perché da quando sua figlia era malata credeva di doverle risollevare il morale presentandole sempre tutto sotto la luce più favorevole. 
Ma mio padre, prendendo la parola: - Voglio approfittare, disse, del fatto che tutta la famiglia è riunita per raccontarvi una cosa senza dover ricominciare da capo con ciascuno. 
Ho paura che i nostri rapporti con Legrandin si siano guastati: stamattina mi ha detto appena buongiorno. 
Non mi fermai ad ascoltare il racconto di mio padre perché ero appunto con lui quando, dopo la messa, avevamo incontrato il signor Legrandin, e scesi in cucina a informarmi sul menu del pranzo, che ogni giorno mi svagava come le notizie che si leggono sul giornale e mi eccitava come il programma di una festa. 
Quando il signor Legrandin ci aveva rasentati uscendo di chiesa, al fianco di una castellana dei dintorni che conoscevamo solo di vista, mio padre gli aveva rivolto, senza che ci fermassimo, un saluto amichevole e al tempo stesso riservato; lui si era limitato a rispondere con un'aria stupita, come se non ci avesse riconosciuti, e con quella prospettiva dello sguardo tipica delle persone che non vogliono essere gentili e che dal fondo improvvisamente arretrato dei loro occhi sembrano scorgervi all'orizzonte di una strada interminabile, a una distanza tale che s'accontentano di indirizzarvi un minuscolo cenno del capo, proporzionato alle vostre dimensioni dl marionetta. 
Ora, la signora alla quale Legrandin si accompagnava era una persona virtuosa e di buona reputazione, era da escludere che ci fosse del tenero tra loro e che lo imbarazzasse l'essere stato sorpreso, e mio padre si chiedeva come avesse potuto irritare Legrandin. 
Mi rincrescerebbe molto che si fosse offeso, disse, anche perché con la sua giacchetta spiovente, la sua cravatta molle, in mezzo a tutta quella gente vestita a festa ha un che di così poco inamidato, di così autenticamente semplice, e un'aria quasi ingenua che è davvero simpatica. 
Ma il consiglio di famiglia espresse unanime il parere che era solo un'impressione di mio padre, oppure che Legrandin, in quel momento, era assorto in qualche pensiero. 
D'altronde il timore di mio padre venne dissipato già la sera successiva. 
Tornando da una lunga passeggiata avvistammo, presso il Ponte Vecchio, Legrandin, cui le feste consentivano di trattenersi a Combray per diversi giorni. Ci venne incontro con la mano tesa: Conoscete, signor lettore, mi chiese, questo verso di Paul Desjardins: "Sono già neri i boschi, ancora azzurro è il cielo?" (109) Esprime con molta finezza, non è vero?, l'incanto di quest'ora. 
Forse non avete mai letto Paul Desjardins. 
Leggetelo, ragazzo mio; oggi, mi dicono, sta diventando una specie di predicatore, (110) ma è stato a lungo un limpido acquarellista... "Sono già neri i boschi, ancora azzurro è il cielo..." 
Che il cielo resti sempre azzurro per voi, mio giovane amico; e anche nell'ora, che su di me già incombe, in cui i boschi sono neri e la notte scende veloce, vi consolerete, come faccio io, guardando dalla parte del cielo. 
Estrasse dalla tasca una sigaretta, tenne gli occhi lungamente fissi all'orizzonte. 
Addio, amici, ci disse all'improvviso, e ci lasciò. 
All'ora in cui io scendevo a informarmi sul menu, il pranzo era già cominciato e Franoise, che impartiva ordini alle forze della natura trasformate in sue ancelle, così come nelle fiabe i giganti si fanno assumere come cuochi, incitava il carbone, affidava al vapore le patate per lo stufato e faceva perfezionare dal fuoco i capolavori culinari precedentemente preparati in recipienti da ceramisti che andavano da grandi marmitte, pentole, paioli e pesciere fino alle terrine per la cacciagione, agli stampi per i dolci e alle ciotole per la crema, passando attraverso una collezione completa di casseruole di tutte le misure. 
Mi fermavo a guardare sulla tavola, dove la sguattera li aveva appena sbucciati, i piselli allineati e numerati come biglie verdi di un gioco; ma a mandarmi in estasi erano gli asparagi, intinti nel rosa e nell'oltremare e la cui punta, finemente spruzzata di malva e d'azzurro, sfuma insensibilmente fino al gambo - pur segnato, ancora, dal terriccio della pianticella - con iridescenze che non appartengono alla terra. 
Mi sembrava che quelle sfumature celesti rivelassero le deliziose creature che si erano divertite a metamorfosarsi in legumi e che attraverso il travestimento della loro carne salda e commestibile lasciavano scorgere in quei colori teneri d'aurora, in quegli accenni d'arcobaleno, in quello spegnersi di sere azzurre, l'essenza preziosa che io potevo ancora riconoscere quando, dopo che ne avevo mangiato a pranzo, giocavano per tutta la notte lo scherzo, poetico e grossolano come una fantasmagoria di Shakespeare, di trasformare il mio vaso da notte in una profumiera. 
La povera Carità di Giotto, come la chiamava Swann, incaricata da Franoise di mondarli, li teneva accanto a sé in un cestino; aveva un'espressione dolente, come se fosse afflitta da tutti i mali della terra; e le leggere corone d'azzurro che cingevano gli asparagi al di sopra delle loro tuniche rosa erano finemente disegnate, stella per stella, come nell'affresco i fiori che cingono la fronte o spuntano dal canestro della Virtù di Padova. 
E intanto Franoise girava sullo spiedo uno di quei polli, come lei sola sapeva arrostirne, che avevano sparso in tutta Combray l'odore dei suoi meriti e che, quando ce li serviva a tavola, facevano prevalere la dolcezza nella mia speciale concezione del suo carattere, giacché l'aroma di quella carne che lei sapeva rendere così tenera e così untuosa non era per me che il particolare profumo di una sua virtù. 
Ma il giorno che ero sceso in cucina mentre mio padre consultava il consiglio di famiglia sull'incontro con Legrandin, era uno di quelli in cui la Carità di Giotto, molto sofferente per avere da poco partorito, non poteva lasciare il letto; Franoise, rimasta senza aiuto, era in ritardo. 
Quando arrivai giù, lei era intenta, nel retrocucina che dava sul cortile, ad ammazzare un pollo che, con la sua resistenza disperata e del tutto naturale, ma accompagnata da Franoise mentre, fuori di sé, cercava di bucargli il collo sotto l'orecchio, con urli di bestiaccia! bestiaccia!, metteva la santa dolcezza e l'unzione della nostra domestica un po' meno in luce di quanto non avrebbe fatto, durante il pranzo dell'indomani, con la sua pelle ricamata d'oro come una pianeta e il suo sugo prezioso uscito goccia a goccia da un ciborio. Quando fu morto, Franoise raccolse il sangue, che colava senza spegnere il suo rancore, ebbe ancora un soprassalto di collera e contemplando il cadavere del suo nemico disse un'ultima volta: Bestiaccia!. 
Risalii tutto tremante; avrei voluto che Franoise venisse messa immediatamente alla porta. 
Ma chi mi avrebbe preparato delle "boules" così calde, del caffè così profumato, e anche... quei polli?... 
E come me, in realtà, l'avevano dovuto fare tutti, quel calcolo vile. 
Infatti mia zia Léonie sapeva - mentre io ancora l'ignoravo - che Franoise, pronta a dare la vita senza un lamento per la figlia e i nipoti, con altre creature era di una durezza singolare. 
Malgrado ciò mia zia l'aveva tenuta perché, se conosceva la sua crudeltà, apprezzava il suo servizio. 
Io mi accorsi a poco a poco che la dolcezza, la compunzione, le virtù di Franoise nascondevano tragedie da retrocucina, così come la storia va scoprendo che i regni di Re e Regine rappresentati con le mani giunte nelle vetrate delle chiese furono segnati da sanguinosi incidenti. 
Mi resi conto che, a parte quelli che componevano la sua parentela, gli esseri umani tanto più eccitavano la sua compassione con le loro sventure quanto più erano lontani da lei. I torrenti di lacrime che versava, leggendo il giornale, sulle disgrazie degli sconosciuti si prosciugavano ben presto se poteva raffigurarsi con una qualche precisione la persona della vittima. 
Una delle notti che seguirono il parto, la sguattera fu colta da coliche atroci: la mamma udì i suoi lamenti, si alzò e svegliò Franoise la quale, insensibile, dichiarò che tutte quelle grida erano una commedia, che la sguattera voleva fare la signora. 
Il medico, temendo una di queste crisi, aveva messo un segno in un libro di medicina che avevamo in casa, alla pagina dove esse erano descritte e dove ci aveva detto di leggere le indicazioni per le prime cure. 
Mia madre mandò Franoise a cercare il libro raccomandandole di non perdere il segno. 
Dopo un'ora Franoise non era ancora di ritorno; mia madre, indignata, pensò che si fosse rimessa a dormire e mi disse di andare a vedere io stesso in biblioteca. 
Vi trovai Franoise che, avendo voluto guardare cosa ci fosse alla pagina segnata, stava leggendo la descrizione clinica della crisi e, poiché ora si trattava di una malata-tipo che lei non conosceva, ci singhiozzava sopra. 
A ogni sintomo doloroso menzionato dall'autore del trattato, esclamava: Ah, Vergine santa, è mai possibile che il buon Dio voglia far soffrire così un'infelice creatura umana? Ah, povera disgraziata!. 
Ma non appena, chiamata da me, fu di nuovo al capezzale della Carità di Giotto, le sue lacrime cessarono subito di scorrere; non ritrovò più né quella gradevole sensazione di commozione e di pietà che conosceva così bene e che la lettura dei giornali le aveva tante volte procurata, né altri piaceri della medesima famiglia, nel fastidio e nell'irritazione d'essersi alzata nel cuore della notte a causa della sguattera; e, alla vista delle stesse sofferenze la cui descrizione l'aveva fatta piangere, non reagì che con brontolii di malumore o addirittura con atroci sarcasmi, dicendo, quando pensò che ce ne fossimo andati e non potessimo più sentirla: Bastava non fare quello che porta per forza a questo punto! ma già, le sarà piaciuto! e allora non faccia tante storie, adesso! Certo che un giovanotto dev'essere abbandonato dal buon Dio per andare con una roba simile... Ah, è proprio come diceva, nel suo modo di parlare, la mia povera mamma: 
"Chi del culo d'un cane s'innamora, si crede che è una rosa". 
Se, quando il nipotino aveva un leggero raffreddore di testa, lei si metteva in strada di notte, anche malata, invece di andarsene a letto, per controllare che non avesse bisogno di niente, facendo quattro leghe a piedi prima di giorno in modo d'essere di ritorno per il lavoro, in compenso quello stesso amore per i suoi e il desiderio di assicurare le future grandezze del suo parentado si traducevano, nella sua politica verso gli altri domestici, in una massima costante: fare in modo che nessuno di loro mettesse mai radici in casa di mia zia, che lei, d'altronde, per una sorta di orgoglio, non lasciava avvicinare da chicchessia, preferendo, quando si sentiva poco bene lei stessa, alzarsi dal letto per darle la sua acqua di Vichy pur di non consentire alla sguattera l'accesso alla stanza della padrona. 
E come l'imenottero studiato da Fabre, (111) la vespa scarificatrice, che per assicurare ai piccoli, dopo la sua morte, della carne fresca da mangiare, chiama l'anatomia in aiuto della crudeltà e, catturato qualche ragno o punteruolo, gli trafigge con una sapienza e un'abilità meravigliose il centro nervoso da cui dipende il movimento delle zampe, ma non le altre funzioni vitali, in modo che l'insetto paralizzato, accanto al quale depone le proprie uova, fornisca alle larve, quando si schiuderanno, una preda docile, inoffensiva, incapace di fuga o di resistenza, ma non ancora frollata, Franoise escogitava, per assecondare la sua pervicace volontà di rendere la casa insostenibile da parte di qualsiasi domestico, degli accorgimenti così sottili e così spietati che, parecchi anni dopo, scoprimmo che se quell'estate avevamo mangiato asparagi quasi quotidianamente, era stato perché il loro odore provocava alla povera sguattera incaricata di pulirli delle crisi d'asma d'una tale violenza che, alla fine, fu costretta ad andarsene. 
Ahimè! sul conto di Legrandin dovevamo cambiare definitivamente opinione. 
Una domenica successiva a quell'incontro sul Ponte Vecchio, dopo il quale mio padre aveva dovuto confessare il proprio errore, mentre la messa stava finendo e nella chiesa, insieme al sole e ai rumori esterni, entrava qualcosa di così poco sacro che Madame Goupil, Madame Percepied (tutte le persone che un attimo prima, al mio ingresso un po' tardivo, avevano tenuto gli occhi immersi nella loro preghiera, tanto che avrei persino potuto credere che non mi avessero visto entrare se, nello stesso tempo, i loro piedi non avessero respinto leggermente il banchetto che mi impediva di raggiungere la mia sedia) cominciavano a intrattenersi ad alta voce con noi su argomenti del tutto temporali come se fossimo già stati nella piazza, scorgemmo sull'avvampante soglia del portico, sovrastante il variopinto tumulto del mercato, Legrandin, che il marito della dama in compagnia della quale l'avevamo ultimamente incontrato stava presentando alla moglie di un altro grosso proprietario terriero dei dintorni. 
Il volto di Legrandin esprimeva un'animazione, uno zelo straordinari; salutando fece un profondo inchino, con un tuffo supplementare all'indietro che riportò bruscamente il suo dorso al di là della posizione di partenza e che doveva aver imparato dal marito di sua sorella, Madame de Cambremer. 
Quel subitaneo raddrizzarsi fece rifluire come in un'onda focosa i muscoli della schiena di Legrandin, che non supponevo così carnosa; e, non so perché, quell'ondulazione di pura materia, quel fiotto totalmente carnale, privo di qualsiasi espressione di spiritualità, che una sollecitudine piena di bassezza sferzava in un turbine di tempesta, evocarono di colpo nella mia mente la possibilità di un Legrandin affatto diverso da quello che conoscevamo. 
La signora lo pregò di dire qualcosa al suo cocchiere, e mentre lui andava fino alla carrozza l'impronta di gioia timida e devota che la presentazione aveva segnata sul suo volto vi persisteva ancora. 
Sorrideva, come rapito in un sogno; poi, affrettandosi, tornò verso la dama e, poiché camminava più svelto del solito, le sue spalle oscillavano ridicolmente a destra e a sinistra, e lui stesso aveva l'aria, tanto perdutamente vi si abbandonava non curandosi più di nient'altro, d'essere un'inerte, meccanica marionetta della felicità. 
Intanto noi uscivamo dal portico, stavamo per passare accanto a lui; troppo educato per voltare la testa, fissò con sguardo improvvisamente e profondamente sognante un punto così lontano dell'orizzonte che non poté vederci e non fu costretto a salutarci. 
Il suo viso restava ingenuo sopra la giacchetta morbida e diritta, che sembrava capitata per sbaglio e suo malgrado in mezzo a un lusso detestato. 
E una "lavallière" a pallini agitata dal vento della Piazza continuava a garrire su Legrandin come il vessillo del suo fiero isolamento e della sua nobile indipendenza. Proprio mentre stavamo rincasando, la mamma si accorse che ci eravamo dimenticati del "saint-honoré" e pregò mio padre di tornare con me sui nostri passi a dire che ce lo portassero subito. 
Vicino alla chiesa incrociammo Legrandin, che veniva in senso inverso accompagnando la stessa signora alla sua carrozza. 
Sfiorandoci, non smise di parlare alla sua vicina, e dall'angolo del suo occhio azzurro ci fece un piccolo segno, in qualche modo interno alla palpebra, che non interessando affatto i muscoli del suo viso poté passare perfettamente inosservato da parte della sua interlocutrice, ma, cercando di compensare con l'intensità del sentimento la ristrettezza del campo in cui ne circoscriveva l'espressione, in quell'angolino d'azzurro che ci era riservato fece scintillare tutto il brio della buonagrazia, che oltrepassò l'allegria per rasentare la malizia; spinse le finezze dell'amabilità fino agli ammiccamenti della connivenza, alle mezze parole, ai sottintesi, ai misteri della complicità; e per finire esaltò le attestazioni d'amicizia fino alle proteste di tenerezza, fino alla dichiarazione d'amore, illuminando per noi soli d'un languore segreto, invisibile alla castellana, una pupilla appassionata in un viso di ghiaccio. 
Proprio il giorno prima Legrandin aveva chiesto ai miei genitori di mandarmi, quella sera, a pranzo da lui: Venite a far compagnia al vostro vecchio amico, mi aveva detto. Come il "bouquet" che un viaggiatore ci spedisce da un paese nel quale non torneremo più, fatemi respirare dalla lontananza della vostra adolescenza i fiori delle primavere che tanti anni fa io pure ho attraversate. 
Venite con la primula, con la barba di prete, col botton d'oro, venite con il sedo di cui è fatto il "bouquet" di dilezione della flora balzachiana, (112) con il fiore del giorno della Resurrezione, la pratolina, e con il pallone di maggio che comincia a profumare lungo i viali della vostra prozia, quando ancora non si sono sciolte le ultime palle di neve delle burrasche di Pasqua. 
Venite con la gloriosa veste di seta del giglio degno di Salomone (113) e con lo smalto policromo delle viole del pensiero; ma soprattutto venite con la brezza ancora fresca delle ultime gelate, che presto farà dischiudere. per le due farfalle che da stamane attendono alla porta, la prima rosa di Gerusalemme. 
(114) Ci si chiedeva, a casa, se fosse opportuno mandarmi comunque a pranzo dal signor Legrandin. 
Ma la nonna si rifiutava di credere che fosse stato scortese. 
Ammetterete anche voi che era vestito come al solito, con molta semplicità, non certo in una foggia mondana. 
Sosteneva che in ogni caso, e nella peggiore delle ipotesi, era meglio, se scortese era stato, far finta di non essercene accorti. 
A dire il vero anche mio padre, pur essendo il più irritato per il comportamento di Legrandin, nutriva forse un estremo dubbio sul suo significato. 
Era come tutte le azioni o gli atteggiamenti nei quali si rivela il carattere profondo e segreto di qualcuno: non hanno alcun legame con i suoi discorsi precedenti, non possiamo farceli confermare dalla testimonianza del colpevole che non confesserà mai; dobbiamo accontentarci di quella dei nostri sensi, e davanti a questo ricordo isolato e incoerente ci chiediamo se essi non siano stati vittime di un'illusione; e così tali atteggiamenti, i soli che abbiano importanza, ci lasciano spesso dei dubbi. 
Pranzai con Legrandin sulla sua terrazza, al chiaro di luna: C'è una deliziosa qualità di silenzio, non è vero? mi disse. 
Ai cuori feriti come il mio, un romanziere che leggerete più avanti sostiene che convengano soltanto l'ombra e il silenzio. 
E in verità, ragazzo mio, viene nella vita un momento, dal quale voi siete ancora ben lontano, in cui gli occhi affaticati non sopportano più che una luce, quella che una bella notte come questa prepara e distilla con l'oscurità, e gli orecchi non possono più ascoltare altra musica che quella suonata dal chiaro di luna sul flauto del silenzio. 
Ascoltavo le parole del signor Legrandin, che mi sembravano sempre così gradevoli; ma turbato dal ricordo di una donna che avevo vista di recente per la prima volta e pensando, ora che sapevo come Legrandin fosse legato a diversi personaggi dell'aristocrazia dei dintorni, che forse la conosceva, raccolsi tutto il mio coraggio e gli dissi: Conoscete, signore, la... 
i castellani di Guermantes?, felice, già nel pronunciare questo nome, di prenderne in qualche modo possesso, per il fatto stesso di farlo uscire dal mio sogno e di dargli un'esistenza oggettiva e sonora. 
Ma al nome di Guermantes vidi che dentro gli occhi azzurri del nostro amico si apriva una piccola intaccatura bruna, come se una punta invisibile li avesse trafitti, mentre il resto della pupilla reagiva secernendo fiotti d'azzurro. 
L'orlo della sua palpebra si annerì, s'abbassò. 
E la sua bocca segnata da una piega amara sorrise, riprendendosi più rapidamente, mentre lo sguardo rimaneva doloroso come quello di un bel martire dal corpo irto di frecce: No, non li conosco, disse, ma anziché dare a un'informazione così semplice, a una risposta così poco sorprendente, il tono naturale e comune che sarebbe stato opportuno, la declamò sottolineando le parole, chinandosi in avanti, facendo cenni con la testa, con l'insistenza di cui si correda, per essere creduti, un'affermazione inverosimile come se il fatto ch'egli non conoscesse i Guermantes non potesse dipendere che da una singolare coincidenza - e al tempo stesso con l'enfasi di chi, non potendo tacere una situazione per lui penosa, 
  
preferisce proclamarla per suggerire agli altri l'idea che la confessione che ne sta facendo non gli crea il minimo imbarazzo, è qualcosa di facile, gradevole, spontaneo, e che la situazione stessa l'assenza di relazioni con i Guermantes - potrebbe benissimo essere stata, non già subìta, ma voluta da lui, risultare da qualche tradizione di famiglia, principio morale o voto religioso che gli impedisca, nel caso specifico, di frequentare i Guermantes. 
No, riprese spiegando con le parole il tono con cui le pronunciava, no, non li conosco, non ho mai voluto, ho sempre tenuto a salvaguardare la mia assoluta indipendenza, in fondo, sapete, ho una mentalità giacobina. 
Molte persone hanno insistito, mi dicevano che avevo torto a non andare a Guermantes, che mi comportavo come uno zulù, come un vecchio orso. 
Ma è una reputazione che non mi spaventa affatto, è così rispondente al vero! Nella vita, in fondo, amo ormai soltanto qualche chiesa, due o tre libri, appena qualche quadro in più, e il chiaro di luna quando la brezza dei vostri giovani anni porta fino a me l'odore dei prati che le mie vecchie pupille non riescono più a distinguere. 
Ciò che mi sfuggiva era perché, per non andare in casa di persone estranee, fosse necessario aggrapparsi alla propria indipendenza, e in che senso questo dovesse far pensare al comportamento d'un selvaggio o d'un orso. 
Quello che capivo, invece, era che Legrandin non era del tutto sincero quando diceva di amare solo le chiese, il chiaro di luna e la giovinezza; amava molto gli abitatori dei castelli, e davanti a loro veniva assalito da una tale paura di dispiacere che non osava mostrare di avere per amici dei borghesi, dei figli di notai o di agenti di cambio, e preferiva, se la verità doveva essere scoperta, che questo avvenisse in sua assenza, lontano da lui e "in contumacia"; era uno snob. 
Certo, di tutto questo non traspariva mai nulla nel linguaggio che i miei parenti e io amavamo tanto. 
E se io chiedevo: Conoscete i Guermantes?, Legrandin il conversatore rispondeva: No, non ho mai voluto conoscerli. 
Sventuratamente, giungeva soltanto secondo a rispondere così, perché un altro Legrandin, che egli nascondeva con cura nel fondo di se stesso, che non faceva vedere a nessuno perché quello là, quel Legrandin, sapeva sul conto del nostro, e del suo snobismo, certe storie compromettenti, un altro Legrandin aveva già risposto con la ferita dello sguardo, con il rictus della bocca, con il tono esageratamente grave della risposta, con le mille frecce da cui il nostro Legrandin s'era trovato di colpo crivellato e illanguidito come un san Sebastiano dello snobismo: Ahi! come mi fate male! no, non conosco i Guermantes, non risvegliate il grande dolore della mia vita. 
E siccome questo Legrandin "enfant terrible", questo Legrandin ricattatore, se non aveva il linguaggio forbito dell'altro aveva, in compenso, la parola infinitamente più pronta, sostanziata di quelli che chiamano "i riflessi", quando Legrandin il conversatore voleva imporgli il silenzio, l'altro aveva già parlato, e il nostro amico aveva un bel rammaricarsi della cattiva impressione che le rivelazioni del suo "alter ego" dovevano aver prodotto, ormai non gli restava che cominciare a porvi rimedio. 
Questo, beninteso, non vuol dire che il signor Legrandin non fosse sincero quando tuonava contro gli snob. 
Non poteva sapere, almeno da se stesso, di esserlo anche lui, giacché noi non conosciamo mai che le passioni degli altri, e quel che arriviamo a sapere delle nostre è solo dagli altri che abbiamo potuto scoprirlo. 
Su di noi, esse agiscono in modo meramente secondario, attraverso l'immaginazione che sostituisce i moventi originari con altri moventi di ricambio, più decorosi dei primi. 
Lo snobismo di Legrandin non gli consigliava mai di andare a trovare con assiduità una duchessa. 
Incaricava l'immaginazione di Legrandin di fargli apparire questa duchessa ammantata d'ogni grazia. 
Legrandin si accostava alla duchessa convinto di soccombere a quel fascino dell'intelletto e della virtù che gli infami snob ignorano. 
Solo gli altri sapevano che tale era lui stesso; perché, grazie alla loro incapacità di cogliere il ruolo di mediatrice svolto dalla sua immaginazione, scorgevano l'una di fronte all'altra l'attività mondana di Legrandin e la sua causa prima. 
Adesso, a casa nostra, non ci si faceva più illusioni sul signor Legrandin, e i nostri rapporti con lui si erano molto diradati. 
La mamma si divertiva enormemente ogni volta che coglieva Legrandin nella flagranza del peccato che non confessava e che continuava a chiamare il peccato senza remissione, lo snobismo. 
Mio padre, invece, faceva fatica a prendere con altrettanto distacco e allegria gli sgarbi di Legrandin; e quando, un anno, pensarono di mandarmi a passare le vacanze estive a Balbec insieme alla nonna, lui disse: Bisogna assolutamente che avverta Legrandin che andrete a Balbec, per vedere se si offrirà di mettervi in contatto con sua sorella. 
Probabilmente non ricorderà di averci detto che abita a due chilometri di distanza. 
La nonna, convinta che quando si va al mare bisogna stare dalla mattina alla sera sulla spiaggia a respirare il salmastro e non si deve conoscere nessuno perché le visite, le passeggiate sono solo tempo sottratto all'aria marina, chiedeva, al contrario, che non si parlasse a Legrandin dei nostri progetti e già s'immaginava, già vedeva la sorella di lui, Madame de Cambremer, piombare in albergo proprio mentre stavamo per andare a pesca e costringerci a rimanere al chiuso per intrattenerla. 
Ma la mamma rideva di questi timori, pensando in cuor suo che il pericolo non era così incombente, che Legrandin non avrebbe avuto tanta fretta di metterci in contatto con la sorella. 
Ora, senza bisogno da parte nostra di parlargli di Balbec, fu lo stesso Legrandin che, lontanissimo dall'immaginare che avessimo intenzione d'andare da quelle parti, venne a mettersi in trappola da solo una sera che lo incontrammo in riva alla Vivonne. 
- Stasera nelle nuvole ci sono dei viola e degli azzurri talmente belli, non vi sembra, amico mio?, disse rivolto a mio padre; soprattutto quell'azzurro più di fiori che d'aria, un azzurro cineraria che sorprende nel cielo. 
E quella nuvoletta rosa, non ha anche lei la tinta d'un fiore, un garofano o un'ortensia? Soltanto sulla Manica, fra Normandia e Bretagna, ho potuto collezionare più ricche osservazioni su questo, come dire?, regno vegetale dell'atmosfera. 
Laggiù, vicino a Balbec, vicino a quei luoghi così selvaggi, c'è una piccola baia d'una dolcezza incantevole, dove il tramonto del paese d'Auge, il tramonto rosso e oro che d'altronde sono ben lungi dal disdegnare, in confronto non ha carattere, è insignificante; là, di sera, in quell'atmosfera umida e mite, sbocciano in pochi istanti dei "bouquets" celesti, azzurri e rosa che sono incomparabili, e che sovente resistono per ore senza appassire. 
Altri si sfogliano subito, ed è ancora più bello, allora, vedere tutto il cielo invaso dalla dispersione di innumerevoli petali color dello zolfo o della rosa. 
In quella baia, che chiamano d'opale, le spiagge dorate sembrano ancora più dolci perché s'aggrappano, come bionde Andromede, ai terribili scogli delle coste vicine, a quella funebre riva, famosa per tanti naufragi, sulla quale d'inverno molte barche soccombono al periglio del mare. 
Balbec! la più antica ossatura geologica del nostro suolo, veramente Ar-mor, il Mare, (1154) la fine della terra, la regione maledetta che Anatole France - un incantatore che il 
nostro giovane amico dovrebbe leggere - ha così ben dipinto, avvolta nelle sue nebbie eterne, come l'autentico paese dei Cimmeri nell'Odissea. (116) Soprattutto da Balbec, dove già, sovrapponendosi a quel suolo antico e affascinante, ma senza alterarlo, sorgono alcuni alberghi, che delizia potersi immergere, fatti pochi passi, in quelle regioni primitive e così belle! - Ah! conoscete dunque qualcuno a Balbec? disse mio padre. 
Il piccolo deve appunto andare a passarci due mesi con sua nonna, e forse con mia moglie. 
Legrandin, preso alla sprovvista dalla domanda in un momento in cui teneva gli occhi fissi su mio padre, non li poté distogliere, ma incollandoli con un'intensità che aumentava di secondo in secondo - e sorridendo intanto con tristezza - agli occhi del suo interlocutore, con un'aria di amichevole franchezza, come non temesse di guardarlo in faccia, diede l'impressione di avergli attraversato il volto quasi che questo si fosse fatto trasparente, e di vedere ormai, ben al di là, una nube dai vividi colori che gli creava un alibi mentale e che gli avrebbe permesso di stabilire che, quando gli avevano chiesto se conoscesse qualcuno a Balbec, lui stava pensando a qualcos'altro e non aveva sentito la domanda. 
Abitualmente, sguardi come quello fanno sì che l'interlocutore dica: A che stavate pensando?. 
Ma mio padre, curioso, irritato e crudele, riprese: - Avete degli amici da quelle parti, visto che conoscete così bene Balbec? In un ultimo sforzo disperato lo sguardo sorridente di Legrandin raggiunse il culmine della tenerezza, dell'indeterminato, della sincerità e della distrazione, ma pensando evidentemente che non ci fosse ormai nient'altro da fare che rispondere, egli ci disse: - Ho amici ovunque vi sia un gruppo d'alberi piagati, ma non vinti, che si sono uniti per implorare insieme con patetica ostinazione un cielo inclemente che non ha pietà di loro. 
- Non è questo che volevo dire, interruppe mio padre, ostinato quanto gli alberi e non meno impietoso del cielo. 
Chiedevo, per il caso che succedesse qualcosa a mia suocera e avesse bisogno di non sentirsi isolata in un paese sperduto, se conoscevate qualcuno laggiù. 
- Là come altrove, conosco tutti e non conosco nessuno, rispose Legrandin che non si arrendeva così facilmente; molto le cose e assai poco le persone. 
Ma le cose stesse, là, sembrano persone, persone rare, d'un'essenza delicata e come deluse della vita. 
A volte è un castello che incontrate sulla scogliera, sul margine della strada dove si è fermato a confrontare la sua pena con la sera ancora rosa scalata da una luna d'oro e di cui le barche che tornano a riva striando l'acqua iridescente issano sui loro alberi la fiamma e indossano i coloti; a volte è una semplice casa solitaria, quasi sordida, dall'aria timida ma romantica, che nasconde a ogni sguardo qualche imperituro segreto di gioia e disincanto. 
Questo paese senza verità, aggiunse con una delicatezza machiavellica, questo paese di pura finzione offre una cattiva lettura a un ragazzo, e non è certo quello che sceglierei e raccomanderei per il mio giovane amico già così incline alla tristezza, per il suo cuore già predisposto. I climi di confidenza amorosa e di inutile rimpianto possono convenire a un vecchio disilluso come me, sono sempre malsani per un temperamento che non s'è ancora formato. 
Credetemi, riprese con insistenza, le acque di quella baia, già per metà bretone, possono esercitare un'azione sedativa, per altro discutibile, su un cuore non più intatto come il mio, su un cuore la cui lesione non ha più antidoti. Sono controindicate alla vostra età, ragazzo mio. 
Buonanotte, vicini, soggiunse congedandosi con quella bruschezza evasiva che gli era abituale, e volgendosi ancora verso di noi col dito alzato del medico che riassume il suo consulto: Niente Balbec prima dei cinquant'anni, e soltanto se lo permetterà lo stato del cuore, ci gridò. 
Mio padre gliene riparlò nei nostri incontri successivi, lo torturò di domande, fu fatica sprecata: come quel truffatore erudito che profondeva nel fabbricare falsi palinsesti una laboriosità e una scienza la cui centesima parte sarebbe stata sufficiente ad assicurargli un lavoro non solo più remunerativo, ma onorevole, il signor Legrandin, se avessimo insistito ulteriormente avrebbe finito con l'edificare tutta un'etica del paesaggio e una geografia celeste della bassa Normandia, pur di non confessarci che a due chilometri da Balbec abitava sua sorella e di non essere costretto ad offrirci una lettera di presentazione, che non avrebbe costituito per lui un tale motivo di terrore se fosse stato assolutamente certo - come avrebbe dovuto essere, in effetti, con l'esperienza che aveva del carattere di mia nonna - che non l'avremmo mai utilizzata. 
Rincasavamo sempre di buonora dalle nostre passeggiate, per poter fare una visita a zia Léonie prima di pranzo. 
All'inizio della stagione, quando le giornate finiscono presto, arrivando in rue du Saint-Esprit vedevamo ancora un riflesso del sole al tramonto sulle finestre della casa e una striscia di porpora in fondo ai boschi del Calvario, che più lontano si riverberava nello stagno, un rosso che, accompagnato spesso da un freddo piuttosto pungente, si associava nella mia immaginazione al rosso del fuoco sopra il quale arrostiva il pollo che al piacere poetico offerto dalla passeggiata avrebbe fatto seguire, per me, il piacere della gola, del caldo e del 
  riposo. 
D'estate, al contrario, quando rincasavamo il sole non stava ancora tramontando; e durante la visita che facevamo a zia Léonie, la sua luce che s'abbassava lambendo le finestre, s'impigliava fra le grandi tende e i loro sostegni, era divisa, ramificata, filtrata, e incrostando di particelle d'oro il legno di limone del comò illuminava obliquamente la stanza con la dolcezza che la luce assume in un sottobosco. 
Ma, certe rarissime volte, quando rincasavamo, il comò aveva perduto da tempo le sue effimere incrostazioni, non c'era più, arrivando in rue du Saint-Esprit, nessun riflesso di tramonto scagliato sui vetri, e lo stagno ai piedi del calvario non tratteneva più alcun rossore, era già color dell'opale, e un lungo raggio di luna, sempre più dilatato e screpolato da tutte le rughe dell'acqua, lo attraversava per intero. 
Allora, ormai prossimi alla casa, scorgevamo una sagoma sulla soglia, e la mamma mi diceva: - Dio mio! ecco Franoise di vedetta, tua zia è inquieta; abbiamo fatto talmente tardi. E senza perder tempo a spogliarci salivamo in fretta da zia Léonie, per rassicurarla e per dimostrarle che, contrariamente a quello che già s'immaginava, non ci era successo niente, ma eravamo andati "dalla parte di Guermantes" e, perbacco, quando facevamo quella passeggiata, la zia doveva pur sapere che non era possibile calcolare con sicurezza a che ora saremmo tornati. 
- Visto, Franoise, diceva mia zia, ve lo dicevo che erano andati dalla parte di Guermantes! Dio mio! devono avere una fame! e il vostro cosciotto si sarà tutto asciugato a furia d'aspettare. 
Però, che ora per tornare a casa! sfido, siete andati dalla parte di Guermantes! - Ma credevo che lo sapeste, Léonie, diceva la mamma. 
Pensavo che Franoise ci avesse visti uscire dalla porticina dell'orto. 
Intorno a Combray, infatti, c'erano queste due "parti" per le passeggiate, e opposte l'una all'altra così che, in effetti, da casa nostra non si usciva per la stessa porta se si voleva andare da una parte piuttosto che dall'altra: quella di Méséglise-la-Vineuse, chiamata anche la parte di Swann perché per andarci si passava davanti alla proprietà del signor Swann, e quella di Guermantes. 
Di Méséglisela-Vineuse, per la verità, io non ho mai conosciuto che la "parte" e alcuni forestieri che la domenica venivano a passeggiare a Combray, gente che né la zia, stavolta, né nessun altro di noi conosceva e dunque classificata come "persone che saranno venute da Méséglise". 
Quanto a Guermantes, un giorno ne avrei saputo di più, ma solo dopo molto tempo; e per tutta la mia adolescenza, se Méséglise era ai miei occhi qualcosa di inaccessibile come l'orizzonte, sottratto alla vista, per lontano che s'arrivasse, dalle ondulazioni d'una campagna che non assomigliava già più a quella di Combray, Guermantes non mi è mai apparso se non come il termine, più ideale che reale, della sua "parte", una sorta d'espressione geografica astratta come la linea dell'equatore, il polo, l'oriente. 
Prendere "per Guermantes" per andare a Méséglise, o viceversa, mi sarebbe sembrata un'espressione altrettanto assurda che "prendere per l'est" per andare a ovest. Siccome mio padre parlava sempre della parte di Méséglise come del più bel panorama di pianura che egli conoscesse e della parte di Guermantes come del tipico paesaggio fluviale, io attribuivo loro, concependole in tal modo come due entità, quella coesione, quell'unità che appartengono soltanto alle creazioni del nostro spirito; il minimo frammento di entrambe mi sembrava prezioso e capace di manifestare la particolare eccellenza del tutto, mentre al loro confronto, prima di arrivare sul sacro suolo dell'una o dell'altra, i percorsi puramente materiali in mezzo ai quali esse erano collocate nel loro rispettivo ruolo di ideale panorama di pianura e di ideale paesaggio fluviale non meritavano d'essere guardati più di quanto non lo meritino, per l'appassionato d'arte drammatica, le stradine intorno a un teatro. 
Ma più delle distanze chilometriche, ciò che io interponevo fra loro era la distanza che correva fra le due parti del mio cervello in cui le pensavo, una di quelle distanze mentali che non allontanano soltanto, ma separano e situano in un'altra dimensione. 
E questa separatezza era resa ancora più assoluta dal fatto che la nostra abitudine di non andare mai verso le due "parti" in uno stesso giorno, nel corso di una sola passeggiata, ma una volta dalla parte di Méséglise, un'altra da quella di Guermantes, le incasellava, per così dire, l'una lontana dall'altra, l'una inconoscibile all'altra, nei vasi chiusi e non comunicanti di differenti pomeriggi. 
Quando volevamo andare dalla parte di Méséglise uscivamo (non troppo presto, e pazienza se il cielo era coperto, perché la passeggiata, non molto lunga, non portava troppo lontano), come per andare in qualsiasi altro luogo, dalla porta della casa di mia zia su rue du Saint-Esprit. 
Ricevevamo i saluti dell'armaiolo, infilavamo le lettere nella cassetta postale, passando dicevamo a Théodore, da parte di Franoise, che era rimasta senza olio o senza caffè, e uscivamo di città per la strada che costeggiava la staccionata bianca del parco del signor Swann. 
Prima ancora di arrivarci, ci imbattevamo nell'odore, venuto incontro ai forestieri, dei suoi lillà. 
Questi, da dentro i cuoricini verdi e freschi delle foglie, sollevavano curiosi al di sopra della staccionata i pennacchi di piume bianche o malva, lustrate, persino all'ombra, dal sole nel quale erano immerse. 
Qualcuno, mezzo nascosto dalla casetta di tegole, detta la casa degli Arcieri, dove abitava il guardiano, ne superava il fastigio gotico con il suo minareto rosa. 
Le Ninfe della primavera sarebbero parse volgari a paragone di quelle giovani uri che serbavano in un giardino francese i toni vivi e puri delle miniature persiane. 
Nonostante il mio desiderio di circondare con le braccia la loro vita flessuosa e di attirare a me i boccoli stellati della loro testa odorosa, passavamo senza fermarci, perché i miei parenti non andavano più a Tansonville dopo il matrimonio di Swann e, per non aver l'aria di spiare nel parco, invece di prendere la strada che costeggia la sua recinzione e sale direttamente ai campi, ne prendevamo un'altra che anch'essa li raggiunge, ma obliquamente, e ci faceva sbucare un po' troppo in là. 
Un giorno, il nonno disse a mio padre: - Vi ricordate? Ieri Swann ha detto che siccome sua moglie e sua figlia partivano per Reims, (117) lui ne avrebbe approfittato per andare a passare ventiquattro ore a Parigi. 
Visto che quelle signore non ci sono, potremmo costeggiare il parco, sarebbe un bel tratto di strada risparmiata. 
Sostammo un poco davanti alla staccionata. 
La stagione dei lillà s'avvicinava alla fine; alcuni reggevano ancora, come alti lampadari color malva, le bolle delicate dei loro fiori, ma in molte zone del fogliame, dove, ancora una settimana prima, dilagava la loro "mousse" odorosa, appassiva ora, rattrappita e annerita, una schiuma vuota, secca e senza profumo. 
Il nonno faceva notare a mio padre in che cosa l'aspetto del luogo era rimasto identico e in che cosa era mutato dalla sua passeggiata con il signor Swann, il giorno che a questi era morta la moglie, e colse l'occasione per raccontarla una volta di più. 
Davanti a noi, un viale bordato di nasturzi saliva in pieno sole verso il castello. 
A destra, invece, il parco si stendeva pianeggiante. 
C'era, all'ombra dei grandi alberi che lo circondavano, uno specchio d'acqua, che avevano fatto scavare i genitori di Swann, ma nelle sue creazioni più artificiose è pur sempre sulla natura che l'uomo lavora; intorno a certi luoghi vige sempre il loro speciale dominio, le loro insegne immemorabili trionfano in mezzo a un parco come in un luogo remoto da qualsiasi intervento umano, in una solitudine che torna ovunque a circondarle scaturendo dalle necessità della loro esposizione e sovrapponendosi all'opera dell'uomo. Così, ai piedi del viale che sovrastava lo stagno artificiale, s'era formata su due file, intrecciate di miosotidi e pervinche, la corona naturale, azzurra e delicata, che cinge la fronte cangiante delle acque, e il gladiolo, flettendo le sue spade con regale abbandono, stendeva sull'eupatorio e sul ranuncolo dall'umido gambo i gigli in brandelli, viola e gialli, del suo scettro lacustre. 
La partenza di Mademoiselle Swann che - privandomi della terribile opportunità di vederla apparire in un viale, d'essere conosciuto e disprezzato dalla ragazzina privilegiata che aveva come amico Bergotte e andava con lui a visitare cattedrali - mi rendeva indifferente la vista di Tansonville la prima volta che mi era consentita, sembrava invece dotare questa proprietà, agli occhi di mio nonno e di mio padre, di agi supplementari, di un'attrattiva transitoria, e rendere la giornata - come, per un'escursione in montagna, l'assenza di ogni nube - straordinariamente propizia a una passeggiata da quella parte; avrei voluto che i loro calcoli venissero sventati, che un miracolo facesse apparire Mademoiselle Swann con suo padre, così vicino a noi da non lasciarci il tempo di evitarla e da costringerci a fare la sua conoscenza. 
Così, quando a un tratto scorsi sull'erba, come un segnale della sua possibile presenza, un cestino abbandonato accanto a una canna da pesca il cui sughero galleggiava sull'acqua, mi affrettai a distogliere verso un'altra direzione gli sguardi di mio padre e di mio nonno. 
D'altronde, poiché Swann ci aveva detto che per lui non era facile assentarsi in quel periodo, avendo degli ospiti in casa, la canna da pesca poteva appartenere a qualche invitato. Non si udiva, nei viali, nessuno scalpiccìo.Dividendo l'altezza d'un albero indeterminato, un uccello invisibile si sforzava di far sembrare breve la giornata mentre esplorava con una nota prolungata la circostante solitudine, ma ne riceveva una replica così unanime, un così raddoppiato rimbalzo di immobilità e di silenzio, che l'unico effetto ottenuto era, si sarebbe detto, di arrestare per sempre l'istante che aveva cercato di far passare più in fretta. 
Dalla fissità del cielo, la luce cadeva così implacabile da far desiderare di sottrarsi alla sua attenzione, e persino l'acqua addormentata, il cui sonno era incessantemente irritato dagli insetti, e che sognava certo di qualche Maelstrom (118) immaginario, acuiva il turbamento nel quale m'aveva gettato la vista del sughero galleggiante, dando l'impressione di trascinarlo a tutta velocità sulle distese silenziose del cielo riflesso; quasi verticale, il sughero sembrava sul punto di affondare, e io già mi chiedevo se, lasciando da parte il desiderio e il timore di conoscerla, non fosse mio dovere far avvertire Mademoiselle Swann che il pesce aveva abboccato, - quando dovetti raggiungere di corsa mio padre e mio nonno che mi chiamavano, stupiti ch'io non li avessi seguiti sul viottolo che sale verso i campi e lungo il quale si erano incamminati. 
Lo trovai tutto ronzante dell'odore dei biancospini. 
La siepe formava come una sfilata di cappelle che scomparivano sotto il paramento dei loro fiori, ammucchiati a formare una sorta di repositorio; al di sotto, il sole stendeva per terra un quadrettato chiarore, come filtrato da una vetrata; il profumo s'espandeva altrettanto untuoso, altrettanto circoscritto in una propria forma che se mi fossi trovato davanti all'altare della Vergine, e i fiori, non meno acconciati, con aria distratta reggevano ciascuno il suo scintillante mazzolino di stami, fini e raggianti nervature di stile "flamboyant" simili a quelle che in chiesa traforavano la balaustra della tribuna o le partizioni della vetrata e sboccianti in candida carne di fior di fragola. 
Come sembravano ingenue e paesane al confronto, le rose di macchia che, di lì a qualche settimana, si sarebbero inerpicate anch'esse, in pieno sole, per lo stesso agreste cammino, nel loro corpetto di liscia seta rosseggiante che basta un soffio a disfare! Ma avevo un bel sostare davanti ai biancospini a respirare, a fissare nel mio pensiero, incerto su che farne, a perdere, a ritrovare il loro profumo saldo e invisibile, a unirmi al ritmo che lanciava qua e là i loro fiori, con giovanile allegrezza e a intervalli inattesi come certi intervalli musicali: era sempre lo stesso fascino che essi mi offrivano, con inesauribile profusione ma senza lasciarmelo approfondire più di tanto, come quelle melodie che si possono suonare cento volte di seguito senza scendere più addentro nel loro segreto. 
Me ne distoglievo un momento, per abbordarli poi con forze più fresche. 
Inseguivo fino alla scarpata, che al di là della siepe saliva scoscesa verso i campi, qualche papavero disperso, qualche fiordaliso rimasto pigramente indietro, che l'ornavano qua e là con le loro corolle così come nella bordatura di un arazzo compare, sparsamente accennato, il motivo agreste che trionferà nel centro; ancora radi, spaziati come le singole case che annunciano già l'approssimarsi di un villaggio, essi mi annunciavano l'immensa distesa dove dilagano le messi, dove s'accavallano le nubi, e la vista di un solo papavero che inalberava in cima alla sua fune e lasciava sferzare dal vento il rosso della sua fiamma al di sopra del nero unto della sua boa, mi faceva battere il cuore, come al viaggiatore che, scorgendo su una terra bassa una prima barca incagliata e un calafato che la ripara, esclama, prima ancora d'averlo visto: Il Mare!. 
Poi tornavo davanti ai biancospini come davanti a quei capolavori che si crede di poter vedere meglio dopo aver smesso per un poco di guardarli, ma avevo un bel farmi schermo delle mani per non avere nient'altro sotto gli occhi: il sentimento che risvegliavano in me continuava ad essere oscuro e vago e cercava invano di liberarsi, di venire ad aderire ai loro fiori. 
Questi non mi aiutavano a schiarirlo, né io potevo chiedere ad altri fiori di soddisfarlo. 
Allora, dandomi la stessa gioia che proviamo nel vedere un'opera del nostro pittore preferito che differisce da quelle che conoscevamo, o se qualcuno ci porta davanti a un quadro del quale, fino a quel momento, non avevamo visto che uno schizzo a matita, o se un pezzo sentito soltanto al pianoforte ci appare poi rivestito dei colori dell'orchestra, mio nonno mi chiamò e, indicando la siepe di Tansonville, mi disse: Tu che ami i biancospini, guarda un po' quello spino rosa; non è una meraviglia?. 
In effetti era uno spino, ma rosa, più bello ancora dei bianchi. 
Era, anch'esso, agghindato a festa - di quelle sole vere feste che sono le feste religiose, giacché nessun capriccio contingente le applica, come le feste mondane, a un giorno qualsiasi, che non è specificamente destinato a loro e che non ha nulla di essenzialmente festivo -, ma in un modo ancora più ricco, dal momento che i fiori, attaccati al ramo uno sopra l'altro così da non lasciare il minimo spazio privo di ornamento, come una cascata di fiocchi su una mazza rococò, erano "colorati" e quindi di una qualità superiore secondo l'estetica di Combray, almeno a voler giudicare dalla graduatoria dei prezzi nell'"emporio" della Piazza o da Camus, dove i biscotti rosa erano più cari. 
Io stesso apprezzavo di più il formaggio alla crema se era rosa, cioè se mi avevano permesso di schiacciarci sopra delle fragole. 
E quei fiori avevano scelto appunto una di quelle tinte di cosa mangereccia, o di tenero abbellimento d'una "toilette" per una festa grande, che sono, nella misura in cui manifestano la ragione della loro superiorità, quelle che appaiono più evidentemente belle agli occhi dei fanciulli e, di conseguenza, avranno sempre per loro qualcosa di più vivo e di più naturale di qualsiasi altra tinta, anche quando sarà ormai chiaro che non promettevano nulla alla loro gola e che non era stata la sarta a sceglierle. 
E io, certo, l'avevo sentito subito - come davanti agli spini bianchi ma con più meraviglia - che non in modo fittizio, attraverso un'artificiosa confezione umana, s'era tradotta nei fiori l'intenzione di festa, ma era stata la natura stessa ad esprimerla spontaneamente, con l'ingenuità d'una merciaia di paese che addobba un repositorio, sovraccaricando l'arbusto di quelle rosette dal tono troppo tenero e di un "pompadour" (119) provinciale. 
In cima ai rami, simili a tanti di quei piccoli rosai con i vasi nascosti nella carta merlettata di cui, nelle feste solenni, si facevano esplodere sull'altare i tenui fuochi d'artificio, pullulavano mille bottoncini d'una tinta più pallida che, schiudendosi, lasciavano vedere, come in fondo a una coppa di marmo rosa, delle sanguigne, svelando, più degli stessi fiori, l'essenza particolare e irresistibile dello spino, che là dove germogliava, là dove fioriva, non poteva farlo, sempre e ovunque, che in rosa. 
Intercalato nella siepe, ma da questa non meno diverso d'una fanciulla abbigliata a festa tra le persone in vestaglia che resteranno a casa, bell'e pronto per il mese di Maria di cui sembrava già far parte, brillava sorridendo nella sua fresca veste rosa l'arbusto cattolico e delizioso. (120) Attraverso la siepe si poteva scorgere all'interno del parco un viale bordato di gelsomini, di viole del pensiero e di verbene, in mezzo ai quali delle violaciocche schiudevano le loro borse fresche d'un rosa odoroso e sbiadito come quello di un vecchio cuoio di Cordova, mentre sulla ghiaia un lungo tubo per innaffiare verniciato di verde svolgeva le sue spire, lanciando in corrispondenza dei suoi fori, al di sopra dei cespugli di cui irrorava i profumi, il ventaglio verticale e prismatico delle sue minuscole gocce multicolori. 
Tutt'a un tratto mi fermai, fui incapace di muovermi, come succede quando una visione non si indirizza solo al nostro sguardo ma sollecita percezioni più profonde e s'impadronisce del nostro essere nella sua interezza. 
Una ragazzina d'un biondo rossiccio, che aveva l'aria di tornare da una passeggiata e reggeva in mano una vanga da giardiniere, ci guardava alzando il suo viso cosparso di efelidi rosa. 
I suoi occhi neri brillavano, e poiché allora non sapevo, né l'ho imparato in seguito, ridurre ai puri elementi oggettivi una forte impressione, non avendo abbastanza di quel che si definisce "spirito d'osservazione" per isolare la nozione del loro colore, per molto tempo, ogni volta che ripensavo a lei, il ricordo del loro sfavillio mi si presentò senz'altro come quello di un vivido azzurro, dal momento che i suoi capelli erano biondi: al punto che, forse, se non avesse avuto degli occhi così neri - ciò che colpiva tanto chi la vedeva per la prima volta - non mi sarei più particolarmente innamorato, come mi innamorai, di quei suoi occhi azzurri. 
Io la guardavo, dapprima con quello sguardo che non è soltanto il portavoce degli occhi, ma la finestra dalla quale si sporgono tutti i sensi, ansiosi e impietriti, quello sguardo che vorrebbe toccare, catturare, portar via il corpo che guarda e insieme la sua anima; poi, tanta era la mia paura che da un momento all'altro mio nonno e mio padre, scorgendo quella fanciulla, mi allontanassero dicendomi di precederli un poco di corsa, con un secondo sguardo inconsciamente supplichevole, che cercava di costringerla a prestarmi attenzione, a conoscermi! Lei saettò avanti e di lato le pupille per prendere conoscenza di mio nonno e di mio padre, e l'idea che ne ricavò fu senza dubbio che eravamo ridicoli, perché si voltò e, con aria indifferente e sdegnosa, si trasse da parte per risparmiare al proprio volto di trovarsi nel campo visivo di quei due; e mentre loro, che continuavano a camminare senza accorgersi di lei, mi avevano ormai superato, lasciò che i suoi sguardi corressero per tutta la loro portata nella mia direzione, senza un'espressione particolare, senza aver l'aria di vedermi, ma con una fissità e un sorriso dissimulato che io, in base alle nozioni di buona educazione di cui disponevo, non potevo interpretare che come una prova di oltraggioso disprezzo; e la sua mano abbozzava intanto un gesto indecente al quale, se rivolto in pubblico a una persona non conosciuta, il piccolo dizionario di buona creanza che portavo dentro di me attribuiva un unico significato, quello di un'intenzione insolente. 
- Su, Gilberte, vieni; cosa stai facendo? gridò con voce penetrante e autoritaria una signora in bianco che non avevo vista e a breve distanza dalla quale un signore vestito di lino grezzo e a me sconosciuto mi stava fissando con due occhi che gli uscivano dalla testa; e, smettendo bruscamente di sorridere, la fanciulla prese la sua vanga e, senza più voltarsi dalla mia parte, si allontanò con aria docile, impenetrabile e sorniona. 
Fu così che quel nome, Gilberte, mi passò accanto, offerto a me come un talismano che un giorno mi avrebbe forse permesso di ritrovare colei di cui aveva appena fatto una persona e che solo un istante prima non era che un'incerta immagine. 
Passò così, pronunciato sopra i gelsomini e le violaciocche, agro e fresco come le gocce dell'annaffiatoio verde; impregnando, iridando la zona d'aria pura che aveva attraversato - e che isolava del mistero della vita di colei che designava per gli esseri beati che vivevano, che viaggiavano con lei; spiegando sotto la macchia degli spini rosa, all'altezza della mia spalla, la quintessenza della familiarità, per me così dolorosa, che li legava a lei, all'ignoto della sua vita dove non sarei entrato. 
Per un istante (mentre ci allontanavamo, e mio nonno mormorava: Povero Swann, che razza di parte gli tocca: farlo partire per restarsene sola con il suo Charlus, perché è lui, l'ho riconosciuto! E quella piccina, mischiata a una simile infamia!) l'impressione lasciata in me dal tono dispotico con il quale la madre di Gilberte le aveva parlato senza che lei replicasse, facendomela apparire come costretta a obbedire a qualcuno, dunque non superiore a tutto, lenì un poco la mia sofferenza, mi rese qualche speranza e attenuò il mio amore. 
Ma ben presto tale amore tornò a innalzarsi dentro di me, per una reazione con la quale il mio cuore umiliato voleva mettersi allo stesso livello di Gilberte o abbassarla fino al proprio. 
La amavo, rimpiangevo di non aver avuto il tempo e l'ispirazione di offenderla, di farle male, e di costringerla a ricordarsi di me. 
La trovavo così bella che avrei voluto poter tornare sui miei passi a gridarle, alzando le spalle: Come vi trovo brutta, grottesca, come mi ripugnate!. 
E invece mi allontanavo, portando per sempre con me, come archetipo di una felicità inaccessibile ai ragazzi della mia specie in base a leggi naturali impossibili a trasgredirsi, l'immagine di una ragazzina rossa con la pelle cosparsa di efelidi rosa, che reggeva una vanga e lasciava scorrere su di me, ridendo, lunghi sguardi sornioni e inespressivi. E già l'incanto di cui il suo nome aveva incensato quel luogo sotto gli spini rosa, dove esso era risuonato nello stesso tempo alle sue e alle mie orecchie, stava per raggiungere, avvolgere, imbalsamare tutto ciò che le era vicino, i suoi nonni che i miei avevano avuto l'ineffabile gioia di conoscere, la sublime professione di agente di cambio, il doloroso quartiere dei Champs-Elysées dove lei abitava a Parigi. (121) Léonie, disse mio nonno quando fummo di ritorno a casa, avrei voluto che fossi con noi questo pomeriggio. 
Non riconosceresti Tansonville.Se avessi avuto coraggio, t'avrei colto un ramo di quegli spini rosa che ti piacevano tanto. 
Il nonno raccontava così la nostra passeggiata a zia Léonie, un po' per distrarla, un po' perché non avevamo perso tutte le speranze di convincerla a uscire. 
E quella proprietà, un tempo, le era stata molto cara, senza contare che le visite di Swann erano state le ultime che lei avesse ricevute, quando già aveva chiuso la porta a tutti quanti. 
E così come, quando adesso veniva a prendere sue notizie (lei era la sola persona di casa nostra ch'egli chiedesse ancora di vedere), gli faceva rispondere che era stanca, ma che l'avrebbe ricevuto la prossima volta, allo stesso modo quella sera disse: Sì, un giorno che farà bel tempo andrò in carrozza fino all'ingresso del parco. 
Lo diceva con sincerità. 
Le sarebbe piaciuto rivedere Swann e Tansonville; ma il desiderio che ne aveva era già abbastanza per le forze che le restavano; realizzarlo sarebbe stato troppo. 
Qualche volta il bel tempo le restituiva un po' di vigore, si alzava, si vestiva; la stanchezza la coglieva prima che fosse passata nell'altra stanza, e invocava il suo letto. Quel che per lei era cominciato - semplicemente più presto di quanto non succeda di solito - era la grande rinuncia della vecchiaia che si prepara alla morte, avviluppandosi nella propria crisalide, e che è possibile osservare, alla fine delle vite molto lunghe, anche fra i vecchi amanti che si sono più amati, fra gli amici uniti dai vincoli più puri, i quali, da un certo anno in poi, smettono di affrontare il viaggio o l'uscita di casa necessari per vedersi, smettono di scriversi, e sanno che in questo mondo non comunicheranno mai più. Mia zia doveva sapere benissimo che non avrebbe più rivisto Swann, che non sarebbe più uscita di casa, ma a renderle abbastanza sopportabile quella reclusione definitiva doveva essere proprio la ragione che, secondo noi, avrebbe dovuto rendergliela più dolorosa: e cioè che essa le era imposta dalla diminuzione che poteva constatare ogni giorno nelle proprie forze e che facendo di ogni azione, di ogni movimento una fatica, se non una sofferenza, dava per lei all'inazione, all'isolamento, al silenzio la dolcezza riparatrice e benedetta del riposo. 
La zia non andò a vedere la siepe di spini rosa, ma io chiedevo ogni momento ai miei parenti se ci sarebbe andata, se in passato andava spesso a Tansonville, cercando di farli parlare dei genitori e dei nonni di Mademoiselle Swann, che ai miei occhi si ergevano grandi come divinità. 
Quel nome, Swann, divenuto per me quasi mitologico, quando parlavo con i miei parenti languivo dal bisogno di sentirglielo dire, non osavo pronunciarlo io stesso, ma li trascinavo su argomenti che sfioravano Gilberte e la sua famiglia, che la concernevano, nei quali non mi sentivo esiliato a troppa distanza da lei; e costringevo all'improvviso mio padre, fingendo per esempio di credere che la carica ricoperta da mio nonno fosse già appartenuta prima di lui alla nostra famiglia, o che la siepe di spini rosa che zia Léonie voleva vedere si trovasse su un terreno comunale, a rettificare la mia asserzione, a dirmi, come mio malgrado, come di sua iniziativa: Ma no, era il padre di Swann che aveva quella carica, quella siepe fa parte del parco di Swann. 
Ero costretto, allora, a riprendere fiato, tanto gravava sino a soffocarmi, posandosi là dove era sempre scritto dentro di me, quel nome che, a sentirlo, mi sembrava più pieno di qualsiasi altro, perché si era fatto pesante di tutte le volte che, in precedenza, l'avevo mentalmente proferito. 
Me ne veniva un piacere che ero confuso d'aver osato pretendere dai miei parenti, i quali per procurarmelo così intenso avevano dovuto certamente fare molta fatica, e senza compenso, visto che non era un piacere destinato a loro. 
Così, per discrezione, cambiavo discorso. 
Per scrupolo anche. 
Tutte le singolari seduzioni che attribuivo a quel nome, Swann, le ritrovavo non appena veniva pronunciato. 
E allora, di colpo, mi sembrava che anche i miei parenti non potessero non avvertirle, che condividessero il mio punto di vista, che contemplassero a loro volta, assolvessero, sposassero i miei sogni, e mi sentivo infelice come se li avessi sopraffatti e corrotti. 
Quando, quell'anno, un po' prima del solito, i miei genitori ebbero fissato il giorno del ritorno a Parigi, la mattina della partenza, siccome mi avevano fatto arricciare i capelli in vista di una fotografia, sistemato con precauzione sulla testa un cappello che ancora non m'ero mai messo e rivestito d'un soprabitino di velluto, mia madre, dopo avermi cercato dappertutto, mi trovò in lacrime sullo stretto, ripido sentiero contiguo a Tansonville che dicevo addio ai biancospini, circondavo con le braccia i loro ispidi rami e, simile a una principessa da tragedia oppressa da sì vani ornamenti ingrato verso la mano importuna che intrecciando tanti nodi s'era prodigata per raccogliermi i capelli sulla fronte, (122) calpestavo i miei bigodini strappati e il mio cappello nuovo. 
Mia madre non fu toccata dalle mie lacrime, ma non poté trattenere un grido alla vista del copricapo sfondato e del soprabito da buttar via. 
Io non la sentii: Miei poveri piccoli biancospini, dicevo piangendo, non siete certo voi a volermi fare del male, a costringermi a partire. 
Voi, voi non mi avete mai fatto soffrire! Per questo vi amerò sempre. 
E, asciugandomi le lacrime, promettevo loro che da grande non avrei imitato la vita insensata degli altri uomini, e anche a Parigi, nei giorni di primavera, invece di recarmi a far visite e ad ascoltare sciocchezze, sarei andato in campagna a vedere i primi biancospini. 
Una volta nei campi, non li lasciavamo più per tutto il resto della passeggiata che facevamo dalla parte di Méséglise. 
Erano perennemente percorsi, come da un viandante invisibile, dal vento che, per me, era il genio particolare di Combray. 
Ogni anno, il giorno del nostro arrivo, per avere la sensazione d'essere davvero a Combray, salivo a ritrovarlo che trascorreva nei solchi e mi faceva correre dietro di lui. 
Avevamo sempre il vento al nostro fianco dalla parte di Méséglise, su quella pianura convessa dove per leghe e leghe il terreno non gli frappone alcun ostacolo. 
Sapevo che Mademoiselle Swann andava spesso a passare qualche giorno a Laon, (123) e sebbene fosse distante parecchie miglia, poiché la distanza era compensata dall'assenza di qualsiasi rilievo, quando, nel corso di caldi pomeriggi, vedevo un unico soffio giunto dall'estremo orizzonte inclinare le messi più lontane, propagarsi come un'anda per tutta l'immensa distesa e venire a spegnersi, tiepido e mormorante, ai miei piedi, fra la lupinella e il trifoglio, quella pianura che ci era comune sembrava ci avvicinasse, ci unisse, pensavo che quel soffio doveva esserle passato accanto, che fosse qualche messaggio di lei quel bisbiglio che non riuscivo ad afferrare, e lo baciavo al suo trascorrere. 
A sinistra c'era un villaggio che si chiamava Champieu ("Campus Pagani", secondo il curato). 
Sulla destra, al di là delle messi, si scorgevano i due campanili rustici e cesellati di SaintAndré-des-Champs, sfilacciati essi stessi, scagliosi, embricati d'alveoli, bulinati, biondeggianti e grumosi come due spighe. 
A intervalli simmetrici, nell'inimitabile ornato delle loro foglie che è impossibile confondere con quelle di qualsiasi altro albero da frutta, i meli aprivano i loro larghi petali di raso bianco o lasciavano pendere i timidi mazzolini dei loro boccioli rosseggianti. 
E' dalla parte di Méséglise che ho notato per la prima volta l'ombra rotonda proiettata dai meli sulla terra soleggiata, e anche quelle sete d'oro impalpabile che il tramonto tesse obliquamente sotto le foglie, e che io vedevo interrotte, senza mai essere deviate, dal bastone di mio padre. 
A volte, di pomeriggio, il cielo era attraversato dalla luna bianca come una nube, furtiva, senza splendore, simile a un'attrice che non deve recitare a quest'ora e che dalla platea, vestita da città, guarda per un momento i suoi compagni, cercando di scomparire, sperando che non si faccia caso a lei. 
Mi piaceva ritrovare la sua immagine in certi quadri, in certi libri, ma si trattava di opere d'arte ben diverse - almeno in quegli anni, prima che Bloch abituasse i miei occhi e il mio pensiero a più sottili armonie - da quelle in cui la luna mi sembrerebbe bella oggi e in cui allora non l'avrei riconosciuta. 
Erano, per esempio, un romanzo di Saintine, un paesaggio di Gleyre (124) in cui essa ritaglia nettamente nel cielo un'esile falce d'argento - opere ingenuamente incomplete così come lo erano le mie impressioni, e che le sorelle della nonna si scandalizzavano di vedermi amare. 
Erano convinte, loro, che si debbano accostare i ragazzi alle opere che, giunti alla maturità si ammirano in via definitiva, e che sia indice di gusto amarle sin dal primo momento. E questo, evidentemente, perché a loro giudizio i pregi estetici erano come oggetti materiali, che un occhio aperto non può fare a meno di scorgere, senza alcun bisogno di averne maturato a poco a poco degli equivalenti nel proprio cuore. 
Era dalla parte di Méséglise, a Montjouvain, una casa situata in riva a un grande stagno e addossata a una scarpata cespugliosa, che viveva il signor Vinteuil. 
E così, per strada, incrociavamo spesso sua figlia, che guidava un calessino a briglia sciolta. 
Da un certo anno in poi non la incontrammo più sola, ma in compagnia di un'amica più anziana di lei, che aveva una cattiva reputazione in paese e che un giorno si installò definitivamente a Montjouvain. 
Si diceva: Quel povero signor Vinteuil dev'essere proprio accecato dalla tenerezza per non rendersi conto di quel che si racconta e per consentire a sua figlia, lui che si scandalizza 
di una parola fuori posto, di ospitare sotto il suo tetto una donna simile. 
Lui dice che è una donna superiore, di gran cuore, e che avrebbe avuto delle doti straordinarie per la musica se le avesse coltivate. 
Può star certo che non si occupa di musica, quella, con sua figlia. 
Sì, il signor Vinteuil lo diceva; e, in effetti, è degno di nota come una persona susciti sempre ammirazione per le sue qualità morali nei parenti di ogni altra persona con la quale intrattenga relazioni carnali. 
L'amore fisico, così ingiustamente denigrato, spinge ogni creatura a palesare sin nelle minime sfumature tutto ciò che possiede in fatto di bontà, di dedizione di sé, a tal punto da farle saltare agli occhi della più ristretta cerchia di conviventi. 
Il dottor Percepied, al quale la grossa voce e le grosse sopracciglia consentivano di recitare a suo piacimento un ruolo di perfido per il quale non aveva il fisico, senza compromettere minimamente la sua incrollabile e immeritata reputazione di burbero benefico, sapeva far ridere sino alle lacrime il curato e tutti quanti dicendo con tono rude: 
Ebbene! a quanto pare fa della musica con la sua amica, la nostra Mademoiselle Vinteuil. 
Si direbbe che la cosa vi stupisca. 
Io non ne so nulla. 
E' Vinteuil padre che me l'ha detto, ancora ieri. 
In fin dei conti, avrà pure il diritto di amare la musica, quella ragazza. 
Io non sono dell'idea di contrastare le vocazioni artistiche dei giovani. 
Vinteuil neppure, a quanto sembra. 
E poi ci fa anche lui della musica, con l'amica della figlia. 
Ah, perdinci, ne fanno di musica da quelle parti! Ma si può sapere cosa c'è da ridere? Be', sì, fa un po' troppa musica quella gente. L'altro giorno ho incontrato Vinteuil padre vicino al cimitero. 
Non si reggeva sulle gambe. 
Per quelli che, come noi, videro a quell'epoca Vinteuil evitare le persone che conosceva, voltarsi dall'altra parte quando le scorgeva, invecchiare in pochi mesi, sprofondare nel proprio cruccio, divenire incapace di ogni sforzo che non avesse per fine immediato la felicità di sua figlia, passare giornate intere davanti alla tomba di sua moglie, sarebbe stato difficile non capire che egli stava morendo di crepacuore, e supporre che non si rendesse conto delle chiacchiere che correvano. 
Le conosceva; può darsi addirittura che vi prestasse fede. 
Non esiste forse persona, per grande che sia la sua virtù, la quale non possa esser condotta dalla complessità delle circostanze a vivere un giorno in familiarità con il vizio che pure condanna nel modo più formale - senza minimamente riconoscerlo, per altro, sotto il travestimento di fatti particolari che quello assume per entrare in contatto con lei e per farla soffrire: parole bizzarre, atteggiamento inesplicabile, una certa sera, di quella tale creatura che lei, d'altra parte, ha tante ragioni per amare. 
Ma in un uomo come Vinteuil doveva esserci tanta più sofferenza che in un altro nel rassegnarsi a una di quelle situazioni che crediamo, a torto, appannaggio esclusivo del mondo della "bohème", e che si producono, invece, ogni volta che un vizio che la natura stessa fa sbocciare in un bambino, a volte semplicemente mischiando le virtù di suo padre e di sua madre come il colore degli occhi, ha bisogno di conquistarsi lo spazio e la sicurezza che gli sono necessari. Ma che Vinteuil conoscesse forse le abitudini di sua figlia non significa che il suo culto per lei ne venisse diminuito. 
I fatti non penetrano nel mondo dove vivono le certezze della nostra fede, non le hanno fatte nascere né sono in grado di distruggerle; possono infliggere loro le più dure smentite senza indebolirle, e una valanga di sventure o di malattie che s'abbatta senza interruzione su una famiglia non l'indurrà a dubitare della bontà del suo Dio o del talento del suo medico. 
Ma quando Vinteuil pensava a sua figlia e a se stesso dal punto di vista degli altri, dal punto di vista della loro reputazione, quando cercava di situarsi con lei al livello che competeva loro nella stima generale, allora il giudizio d'ordine sociale ch'egli formulava era esattamente lo stesso che avrebbe formulato l'abitante di Combray a lui più ostile, si vedeva cioè, insieme a sua figlia, negli infimi bassifondi, e i suoi modi avevano così assunto, negli ultimi tempi, quell'umiltà, quel rispetto per coloro che si trovavano più in alto e che lui contemplava dal basso (anche se gli erano stati di molto inferiori), quella tendenza a cercar di risalire fino a loro, che è una conseguenza quasi meccanica di tutte le decadenze. 
Un giorno che camminavamo con Swann in una strada di Combray, Vinteuil, che sbucava da un'altra, s'era trovato troppo bruscamente faccia a faccia con noi per avere il tempo di evitarci, e Swann, con quella carità orgogliosa dell'uomo di mondo che, in mezzo alla dissoluzione di tutti i suoi pregiudizi morali, nell'infamia di un altro non vede se non una ragione per esercitare nei suoi confronti una benevolenza le cui testimonianze lusingano tanto più l'amor proprio di chi le concede quanto più egli le sente preziose per chi le riceve, aveva parlato a lungo con Vinteuil, al quale prima d'allora non rivolgeva la parola, e gli aveva chiesto, prima di lasciarci, perché non mandava un giorno sua figlia a suonare a Tansonville. 
Due anni prima quell'invito avrebbe indignato il signor Vinteuil, mentre lo colmava adesso di una tale riconoscenza ch'egli se ne credeva obbligato a non commettere l'indiscrezione di accettarlo. 
La cortesia di Swann nei confronti di sua figlia gli sembrava, in se stessa, un sostegno così onorevole e delizioso che forse, dentro di sé stimava più conveniente non valersene, per avere la tutta platonica dolcezza di custodirlo. 
- Che uomo squisito, ci disse quando Swann ci ebbe lasciati, con la stessa venerazione entusiasta che tiene delle borghesi graziose e intelligenti in affascinata soggezione di fronte a una duchessa, foss'anche stupida e brutta. 
Che uomo squisito! Che peccato che abbia fatto un matrimonio così sconveniente! E allora - a tal punto gli esseri più sinceri sono impastati d'ipocrisia, e lasciano cadere, parlando con una persona, l'opinione che hanno di lei e che sono soliti esprimere quando non è presente - i miei parenti deplorarono con il signor Vinteuil il matrimonio di Swann in nome di 
princìpi e convenienze contro i quali (per il fatto stesso di invocarli in comune con lui, da brava gente dello stesso stampo) mostravano di sottintendere che, a Montjouvain, non si commettesse nessuna trasgressione. 
Vinteuil non mandò sua figlia a casa di Swann. 
E questi fu il primo a rammaricarsene. 
Ogni volta, infatti, appena lasciato Vinteuil, si ricordava di avere da qualche tempo un'informazione da chiedergli su qualcuno che portava il suo stesso nome, presumibilmente un suo parente. 
E quella volta si era appunto ripromesso di non dimenticare quel che doveva chiedergli quando Vinteuil avesse mandato la figlia a Tansonville. 
Poiché la passeggiata dalla parte di Méséglise era la meno lunga delle due che facevamo intorno a Combray, e la si riservava per questo motivo alle giornate di tempo incerto, dalla parte di Méséglise il clima era piuttosto piovoso e noi non perdevamo mai di vista il limitare dei boschi di Roussainville, nel cui folto avremmo potuto metterci al riparo. 
Spesso il sole si nascondeva dietro una nuvola di cui indorava i bordi e che deformava il suo ovale. 
Il fulgore, ma non la luce, scompariva dalla campagna dove ogni vita sembrava sospesa, mentre il piccolo villaggio di Roussainville scolpiva nel cielo il rilievo dei suoi spigoli bianchi con una precisione e una finitezza insopportabili. 
Un po' di vento faceva alzare in volo un corvo che tornava a planare in lontananza, e contro il cielo biancastro il lontano profilo dei boschi appariva più azzurro, come nelle decorazioni a chiaroscuro di certi "trumeaux" in qualche antica dimora. 
Ma altre volte si metteva a cadere quella pioggia che ci aveva minacciata il frate cappuccino davanti al negozio dell'ottico; simili a uccelli migratori che spiccano il volo tutti insieme, le gocce d'acqua scendevano giù dal cielo in ranghi frettolosi. 
Non si separano mai, non vanno mai all'avventura durante la veloce traversata; ciascuna sta al proprio posto e attira a sé quella che la segue, e il cielo ne è oscurato più che dalla partenza delle rondini. 
Ci rifugiavamo nel bosco. 
Quando il loro viaggio sembrava finito, alcune arrivavano ancora, le più deboli, le più lente. 
Ma noi lasciavamo il nostro rifugio, perché le gocce si divertono con le foglie, e quando la terra era ormai quasi asciutta più d'una s'attardava ancora a giocare sulle nervature d'una foglia e appesa alla sua punta, quieta, luccicante nel sole, di colpo si lasciava scivolare per tutta la lunghezza del ramo e ci cadeva sul naso. 
Spesso, anche, andavamo a rifugiarci, mescolandoci alla rinfusa con santi e patriarchi di pietra, sotto il portico di Saint-André-desChamps. 
Com'era francese quella chiesa! Sopra la porta, i santi, i recavalieri con un fiordaliso in mano, le scene di sposalizi e funerali erano effigiate come potevano esserlo nell'anima di Franoise. 
Lo scultore aveva raccontato anche certi aneddoti su Aristotele e Virgilio, (125) allo stesso modo che Franoise, in cucina, parlava volentieri di san Luigi come se l'avesse conosciuto di persona, in genere per svergognare con quel paragone i miei nonni che erano meno "giusti". 
Si sentiva che le nozioni di storia antica o cristiana di cui disponevano l'artista medievale e la contadina medievale (sopravvissuta sino al Diciannovesimo secolo), nozioni che si distinguevano in pari misura per l'inesattezza e la bonarietà, non derivavano loro dai libri, ma da una tradizione al tempo stesso antica e diretta, ininterrotta, orale, deformata, inesplorabile e vivente. 
Un altro personaggio di Combray che pure riconoscevo, virtuale e profetizzato, nella scultura gotica di Saint-André-des-Champs, era il giovane Théodore, il commesso di Camus. Franoise, d'altronde, percepiva così bene in lui il compaesano e il contemporaneo che, quando zia Léonie era troppo malata perché Franoise potesse farcela da sola a girarla nel letto o a metterla in poltrona, piuttosto che lasciar salire la sguattera a "farsi vedere" dalla zia, chiamava in aiuto Théodore. 
Ebbene, quel ragazzo che passava, e non senza ragione, per un cattivo soggetto, era così pervaso dallo spirito che aveva decorato Saint-André-des-Champs, e in particolar modo dai sentimenti di rispetto dovuti, secondo Franoise, ai "poveri malati", alla "sua povera signora", che nel sollevare sul guanciale la testa di mia zia aveva l'espressione ingenua e zelante degli angioletti che, nei bassorilievi, s'affaccendano con un cero in mano intorno alla Vergine in deliquio, quasi che i volti di pietra scolpita, grigiastri e nudi, come i boschi d'inverno fossero soltanto assopiti, una riserva pronta a rifiorire alla vita in innumerevoli volti popolari, astuti e reverendi come quello di Théodore, accesi dal rossore di una mela matura. 
Non più aderente alla pietra come gli angioletti, ma staccata dal portico, di statura più che umana, ritta su un basamento come su uno sgabello che le evitasse di posare i piedi sul terreno umido, una santa aveva le gote piene, il seno saldo a gonfiare il drappeggio come un grappolo maturo in un sacchetto di crine, la fronte stretta, il naso corto e sbarazzino, le pupille infossate, l'aria sana, insensibile e coraggiosa delle contadine del luogo. 
Quella somiglianza, che insinuava nella statua una dolcezza ch'io non vi avevo cercata, era spesso confermata da qualche ragazza dei campi, venuta come noi a mettersi al riparo, e la cui presenza, simile a quella delle foglie di parietaria spuntate accanto alle foglie scolpite, sembrava destinata a consentire, attraverso un confronto con la natura, di giudicare la verità dell'opera d'arte. 
Davanti a noi, in lontananza, terra promessa o maledetta, Roussainville, fra le cui mura non ero mai penetrato, Roussainville, a volte, quando per noi la pioggia era già cessata, continuava a essere castigata come un villaggio biblico da tutte le lance del temporale che flagellavano obliquamente le dimore dei suoi abitanti, altre volte era già stata perdonata da Dio Padre che faceva scendere su di lei, ineguali per lunghezza come i raggi di un ostensorio d'altare, le sfrangiate aste d'oro del sole nuovamente apparso. 
In certi giorni il tempo si metteva decisamente al brutto, bisognava ritornare e stare chiusi in casa. 
Qua e là, in fondo alla campagna che l'oscurità e l'umidità rendevano simile al mare, delle case isolate, aggrappate al fianco di una collina immersa nell'acqua e nella notte, brillavano come piccoli battelli con le vele ripiegate, immobili al largo per tutta la notte. 
Ma cosa importava la pioggia, cosa importava il temporale! D'estate, il cattivo tempo non è che un umore passeggero, superficiale, del bel tempo sottostante, fisso, ben diverso dal bel tempo instabile e fluido dell'inverno, e che, al contrario, installatosi sulla terra dove si è solidificato in densi fogliami sui quali la pioggia può sgocciolare senza compromettere la resistenza della loro gioia perenne, ha issato per tutta la stagione, fin nelle strade del villaggio, sui muri delle case e dei giardini, i suoi stendardi di seta bianca o viola. 
Seduto nel salottino dove aspettavo leggendo l'ora del pranzo, sentivo l'acqua sgrondare dai nostri castagni, ma sapevo che l'acquazzone non faceva che ravvivare il colore delle loro foglie e che essi sarebbero rimasti là, per tutta quella notte piovosa, come garanti dell'estate, ad assicurare la continuità del bel tempo; che poteva piovere quanto voleva, ma domani, sopra la staccionata bianca di Tansonville, avrebbero ondulato numerose come al solito le piccole foglie a forma di cuore, ed era senza tristezza che vedevo il pioppo di rue des Perchamps rivolgere alla bufera suppliche e saluti disperati; era senza tristezza che sentivo in fondo al giardino gli ultimi echi del tuono tubare fra i lillà. 
Se il tempo era inclemente fin dal mattino, i miei rinunciavano alla passeggiata e io non uscivo. 
Ma più tardi presi l'abitudine, in quei giorni, di andare a passeggiare da solo dalla parte di Méséglise-laVineuse, l'autunno che dovemmo recarci a Combray per la successione di zia Léonie, giacché alla fine era morta, decretando il trionfo sia di coloro che pretendevano che il suo regime debilitante avrebbe finito con l'ucciderla, sia degli altri che avevano sempre sostenuto che soffriva di una malattia non immaginaria ma organica, alla cui evidenza gli scettici sarebbero ben stati costretti ad arrendersi quando lei ne fosse stata sopraffatta, e con la sua morte infliggendo un grande dolore a un solo essere - ma davvero selvaggio, a quello. 
Durante i quindici giorni che durò la sua ultima malattia, Franoise non la abbandonò un istante, non si spogliò mai, non permise a nessun altro di prestarle qualche cura, e non lasciò il suo corpo che quando fu sepolto. 
Allora ci apparve chiaro che quella sorta di timore, nel quale Franoise era vissuta, delle cattive parole, dei sospetti delle collere di mia zia aveva sviluppato in lei un sentimento che avevamo scambiato per odio e che era invece venerazione e amore. 
La sua padrona vera, la padrona dalle decisioni impossibili a prevedersi, dalle astuzie difficili da eludere, dal buon cuore facile da piegare, la sua sovrana, la sua monarca misteriosa e onnipotente non c'era più. 
Al suo confronto, noi contavamo ben poco. 
Era lontano il tempo (quando avevamo cominciato a venire a Combray, per le vacanze) in cui agli occhi di Franoise uguagliavamo in prestigio la zia. 
Quell'autunno, interamente assorbiti dalle formalità da sbrigare, dagli incontri con i notai e con i fattori, i miei genitori, non avendo la possibilità di fare delle gite che d'altronde il tempo non favoriva, presero l'abitudine di lasciarmi andare a passeggiare senza di loro dalla parte di Méséglise, avvolto in un grande "plaid" che mi proteggeva dalla pioggia e che io mi gettavo tanto più volentieri sulle spalle quanto più percepivo che il suo disegno scozzese scandalizzava Franoise, nella cui testa era impossibile inculcare l'idea che il colore dei vestiti non ha nulla a che vedere con il lutto e alla quale, per altro, il dispiacere che noi provavamo per la morte della zia era poco gradito dal momento che non avevamo offerto nessun banchetto funebre, non assumevamo un tono di voce speciale per parlare di lei e io, a volte, addirittura canterellavo. 
Sono sicuro che in un libro - sotto questo profilo ero anch'io come Franoise - una simile concezione del lutto, derivata dalla "Chanson de Roland" (126) e dal portale di Saint- André-des-Champs, avrebbe suscitato la mia simpatia. 
Ma dato che Franoise mi era vicina, un demone mi spingeva a desiderare che fosse in collera, coglievo ogni pretesto per dirle che rimpiangevo mia zia perché era una buona donna, malgrado le sue fisime ridicole, ma assolutamente non perché era mia zia, che avrebbe potuto essere mia zia e risultarmi odiosa, e la sua morte non provocarmi alcuna sofferenza, tutti discorsi che in un libro mi sarebbero sembrati insulsi. 
Se Franoise, traboccante come un poeta d'un flusso di pensieri confusi sul dolore, sui ricordi di famiglia, si scusava allora di non saper rispondere alle mie teorie e diceva: Non so esprimermi, io trionfavo di quell'ammissione con un buonsenso ironico e brutale degno del dottor Percepied; e se lei aggiungeva: Però era sempre della parantela, resta comunque il rispetto che si deve alla parantela, io scrollavo le spalle e pensavo: Sono troppo buono a mettermi a discutere con un'analfabeta che fa degli svarioni simili, adottando così, per giudicare Franoise, il meschino punto di vista di quella gente di cui gli stessi che più la disprezzano nell'imparzialità della riflessione sono poi capacissimi di assumere la parte quando devono recitare in una delle scene volgari della vita. 
Le mie passeggiate di quell'autunno erano ancora più piacevoli in quanto seguivano a lunghe ore trascorse su un libro. 
Quando ero stanco per aver letto tutta la mattina in salotto, mi gettavo il "plaid" sulle spalle e uscivo; il mio corpo costretto da lungo tempo all'immobilità, ma caricatosi durante la stasi di animazione e di velocità accumulate, aveva poi bisogno, come una trottola alla quale si dà il via, di prodigarle in ogni direzione. 
I muri delle case, la siepe di Tansonville, gli alberi del bosco di Roussainville, i cespugli ai quali s'addossa Montjouvain ricevevano colpi d'ombrello o di bastone, ascoltavano grida gioiose che altro non erano sia gli uni che le altre, se non idee confuse che mi esaltavano e che non avevano raggiunto il riposo nella luce, a una lenta e difficile chiarificazione avendo preferito il piacere di una più agevole scorciatoia verso uno sbocco immediato. 
La maggior parte delle pretese espressioni di ciò che abbiamo provato non fanno, così, che sbarazzarcene, sprigionandolo da noi sotto una forma indistinta che non ci insegna a conoscerlo. 
Quando cerco di fare l'inventario di quel che devo alla parte di Méséglise, delle umili scoperte di cui essa è stata la fortuita cornice o l'ispiratrice necessaria, mi ricordo che fu 
quell'autunno, durante una di quelle passeggiate, vicino ai roveti della scarpata che protegge Montjouvain, che fui colpito per la prima volta da questo disaccordo fra le nostre impressioni e la loro espressione abituale. 
Dopo un'ora di pioggia e di vento, contro i quali avevo lottato allegramente, proprio mentre arrivavo sulla sponda dello stagno di Montjouvain, davanti a un bugigattolo ricoperto di tegole dove il giardiniere del signor Vinteuil custodiva i suoi attrezzi, il sole era appena riapparso, e i suoi ori lavati dall'acquazzone rilucevano a nuovo nel cielo, sugli alberi, sui muri del capanno, sul suo tetto di tegole ancora bagnato lungo la cresta del quale passeggiava una gallina. 
Il vento, soffiando stirava orizzontalmente le erbe matte spuntate negli interstizi del muro e le piume lanuginose della gallina, le une e le altre si lasciavano filare a piacimento dal suo soffio per tutta la loro lunghezza, con l'abbandono delle cose inerti e leggere. 
Il tetto di tegole creava nello stagno, che il sole aveva reso di nuovo specchiante, una marezzatura rosa alla quale, prima, non avevo mai fatto attenzione. 
E vedendo che sull'acqua e sulla superficie del muro un pallido sorriso rispondeva al sorriso del cielo, gridai in preda all'entusiasmo, brandendo il mio parapioggia arrotolato: 
Accipicchia, accipicchia!. 
Ma immediatamente sentii che sarebbe stato mio dovere non accontentarmi di quell'opaca esclamazione e cercar di vedere più chiaro nel mio trasporto. 
E sempre in quel momento - grazie a un contadino che passava con l'aria d'essere già piuttosto imbronciato, e ancor più lo divenne quando per poco non si prese un'ombrellata in faccia, e rispose senza alcun calore al mio bel tempo, non è vero, si cammina volentieri imparai che le medesime emozioni non si producono simultaneamente, secondo un ordine prestabilito, in tutte le persone. 
Più tardi, ogni volta che una lettura un po' prolungata mi avesse invogliato a chiacchierare, il compagno al quale smaniavo di rivolgere la parola aveva appena finito di gustare i piaceri della conversazione e desiderava, adesso, che lo si lasciasse leggere in pace. 
E se, dopo aver pensato ai miei genitori con tenerezza, avevo appena preso le decisioni più sagge e più indicate ad accontentarli, loro avevano impiegato lo stesso tempo a rinvangare un mio peccatuccio che avevo dimenticato, e che mi rimproveravano severamente proprio mentre io mi slanciavo verso di loro per baciarli. 
A volte, all'esaltazione che mi proveniva dalla solitudine se ne aggiungeva un'altra che non sapevo isolare nitidamente, causata dal desiderio di veder sorgere davanti a me una contadina ch'io potessi stringere fra le braccia. 
Nato bruscamente, e senza che avessi avuto il tempo di collegarlo con esattezza alla sua causa, in mezzo a pensieri affatto diversi, il piacere a cui s'accompagnava non mi sembrava che un grado superiore di quello che essi già mi infondevano. 
Attribuivo un merito supplementare a quanto occupava in quel momento la mia mente, al riflesso rosa del tetto di tegole alle erbe matte, al villaggio di Roussainville dove da tanto tempo desideravo andare, agli alberi del suo bosco, al campanile della sua chiesa, per quel turbamento nuovo che me li faceva soltanto apparire più desiderabili perché credevo che fossero loro a provocarlo, e che sembrava non voler altro se non condurmi più velocemente verso di loro quando gonfiava la mia vela d'una brezza potente, sconosciuta e propizia. Ma se il desiderio di veder comparire una donna aggiungeva per me agli incanti della natura qualcosa di più esaltante questi, a loro volta, dilatavano quel che l'incanto della donna avrebbe avuto di troppo angusto. 
Mi sembrava che la bellezza degli alberi fosse anche la sua bellezza e che l'anima di quegli orizzonti, del villaggio di Roussainville, dei libri che leggevo quell'anno, sarebbe stato il suo bacio a rivelarmela; e poiché la mia immaginazione riprendeva slancio a contatto con la sensualità, e la mia sensualità si diffondeva in tutti i domini della mia immaginazione, non c'erano più limiti al mio desiderio. 
Anche perché - come succede in quei momenti di fantasticheria quando, immersi nella natura, sospeso il potere dell'abitudine, accantonate le nostre astratte nozioni delle cose, noi crediamo con fede profonda all'originalità, alla vita individuale del luogo in cui ci troviamo - mi sembrava che la passante invocata dal mio desiderio non fosse un esemplare qualunque del tipo generale "donna", ma un prodotto necessario e naturale di quella terra. 
A quel tempo, infatti, tutto ciò che era altro da me, la terra e le creature, mi appariva più prezioso, più importante, dotato di un'esistenza più reale di quanto non appaia agli uomini maturi. 
E fra terra e creature non facevo distinzione. 
Avevo desiderio di una contadina di Méséglise o di Roussainville, di una pescatrice di Balbec, come avevo desiderio di Méséglise e di Balbec. 
Il piacere ch'esse potevano darmi mi sarebbe parso meno vero, non sarei riuscito a crederci, se ne avessi modificate a mio arbitrio le condizioni. 
Conoscere a Parigi una pescatrice di Balbec o una contadina di Méséglise, sarebbe stato come ricevere delle conchiglie non viste da me sulla spiaggia, una felce non trovata da me nel bosco, come sottrarre al piacere che la donna mi avrebbe dato tutti quelli nei quali l'aveva avvolta la mia immaginazione. 
Ma vagare così nei boschi di Roussainville senza una contadina da baciare, voleva dire non conoscere di quei boschi il tesoro nascosto, la bellezza profonda. 
Quella fanciulla che io non vedevo che immersa nel fogliame era lei stessa, per me, come una pianta di quella terra, d'una specie soltanto più nobile delle altre e dotata, rispetto a loro, d'una struttura che consente d'avvicinarsi maggiormente al sapore profondo del luogo. 
Mi era tanto più facile credere questo (e che le carezze con le quali mi avrebbe fatto giungere fin là sarebbero state a loro volta d'una qualità particolare, tali che nessun'altra avrebbe potuto farmene conoscere il piacere) in quanto mi trovavo, per lungo tempo ancora, ad avere l'età in cui non si è ancora arrivati ad astrarre quel piacere dal possesso delle diverse donne con le quali lo si è gustato, a ridurlo a una nozione generale che da un certo momento in poi le fa considerare come gli strumenti intercambiabili d'un piacere sempre identico. 
Nemmeno esiste, isolato, separato e formulato nella mente, come lo scopo che si persegue accostandosi a una donna, come la causa del turbamento che si prova inizialmente. 
Appena ci si pensa come a un piacere che si avrà; lo si chiama, piuttosto, il suo fascino, il fascino di lei; giacché non si pensa a se stessi, non si pensa che a uscire da sé. Oscuramente atteso, immanente e celato, porta soltanto, nel momento in cui si compie, a un tale parossismo gli altri piaceri suscitati in noi dalle dolci occhiate, dai baci di colei che ci sta accanto, che appare soprattutto a noi stessi come una sorta di trasporto della nostra riconoscenza per la bontà di cuore della nostra compagna e per la toccante predilezione che ci accorda e che noi misuriamo dalle delizie, dalla gioia di cui ci colma. 
Invano, ahimè, supplicavo il torrione di Roussainville; invano gli chiedevo di far venire a me qualche creatura del suo villaggio, come al solo confidente ch'io avessi avuto dei miei primi desideri, quando in cima alla nostra casa di Combray, nello stanzino odoroso di giaggiolo, non vedevo che la sua sagoma nel riquadro della finestra socchiusa, mentre con le esitazioni eroiche del viaggiatore che intraprende un'esplorazione o del disperato che si toglie la vita, tremando, aprivo dentro di me una strada ignota e che credevo mortale finché una traccia naturale come quella d'una chiocciola veniva ad aggiungersi alle foglie del ribes selvatico che si sporgevano fino a me. 
Invano adesso lo supplicavo. 
Invano drenavo con gli occhi la distesa, che stava tutta nel campo del mio sguardo, cercando di pescarvi una donna. 
Potevo anche spingermi fino al portico di SaintAndré-des-Champs; non vi avrei mai trovato la contadina che non avrei mancato di incontrare se fossi stato con mio nonno e nell'impossibilità di attaccare discorso con lei. 
Fissavo incessantemente il tronco di un albero lontano, da dietro il quale sarebbe comparsa per venire fino a me; l'orizzonte perlustrato rimaneva deserto, scendeva la notte, era ormai senza speranza che la mia attenzione s'aggrappava, come per aspirarne le creature cui poteva dare ricetto, a quel terreno sterile, a quel suolo inaridito; e non era più per allegrezza, era per rabbia che percuotevo gli alberi del bosco di Roussainville di tra i quali non usciva maggior copia d'esseri viventi che se fossero stati alberi dipinti sulla tela d'un panorama, quando, incapace di rassegnarmi a tornare a casa prima d'aver stretto fra le braccia la donna che avevo tanto desiderata, ero tuttavia costretto a riprendere la strada di Combray confessando a me stesso che il caso che avrebbe potuto metterla sul mio cammino si faceva via via meno probabile. 
E, d'altronde, se lei si fosse trovata lì, avrei osato rivolgerle la parola? Pensavo che mi avrebbe preso per un folle; ormai non credevo più che i desideri formulati durante quelle passeggiate e mai realizzati potessero essere condivisi da qualche altra creatura, che potessero essere veri al di fuori di me. 
Non mi apparivano più che come le creazioni puramente soggettive, impotenti, illusorie del mio temperamento. Non avevano più alcun legame con la natura, con la realtà che subito perdeva qualsiasi incanto e qualsiasi significato, riducendosi per la mia vita a una cornice convenzionale, come per l'intreccio d'un romanzo il vagone sul cui sedile il viaggiatore lo sta leggendo per ammazzare il tempo. 
E' da un'impressione provata sempre nei pressi di Montjouvain, qualche anno più tardi, impressione rimasta allora oscura, che è forse nata, molto tempo dopo, l'idea che mi son fatta del sadismo. 
Si vedrà poi che, per tutt'altre ragioni, il ricordo di questa impressione era destinato a svolgere un ruolo importante nella mia vita. 
Faceva molto caldo; i miei genitori, che avevano dovuto assentarsi per tutta la giornata, mi avevano detto di tornare tardi quanto volessi, e arrivato fino allo stagno di Montjouvain, dove amavo rivedere i riflessi del tetto di tegole, m'ero steso all'ombra e addormentato fra i cespugli della scarpata che domina la casa, nello stesso luogo dove avevo aspettato mio padre un giorno che era andato a trovare il signor Vinteuil. 
Era quasi buio quando mi svegliai, feci per alzarmi, ma scorsi Mademoiselle Vinteuil (per quanto almeno mi riuscì di riconoscerla, giacché non l'avevo vista spesso a Combray, e solo quand'era ancora bambina mentre adesso cominciava a essere una ragazza), che probabilmente era appena rientrata, di fronte a me, a pochi centimetri da me, in quella stanza dove suo padre aveva ricevuto il mio e che lei aveva trasformata in un suo salottino. 
La finestra era socchiusa, la lampada accesa, vedevo tutti i suoi movimenti senza che lei mi vedesse, ma se me ne fossi andato avrei fatto rumore nei cespugli, lei m'avrebbe sentito e avrebbe potuto pensare che m'ero nascosto là per spiarla. 
Era in lutto stretto, perché suo padre era morto da poco. 
Non eravamo andati a farle visita, mia madre non lo aveva voluto in nome d'una virtù che era la sola, in lei, a limitare gli effetti della bontà: il pudore; ma la compiangeva profondamente. 
Mia madre ricordava com'era stata triste, alla fine, la vita del signor Vinteuil tutta assorbita, prima, dalle attenzioni da madre e da governante che aveva per sua figlia, poi dalle sofferenze che questa gli aveva inflitte; rivedeva il volto torturato, quello che era sempre stato, da ultimo, il volto del vecchio; sapeva come avesse rinunciato per sempre alla trascrizione in bella copia di tutta la sua opera degli ultimi anni, povere composizioni d'un anziano professore di piano, d'un vecchio organista di villaggio, delle quali immaginavamo, certo, che avessero ben poco valore in se stesse, ma che non disprezzavamo perché ne avevano tanto per lui ed erano state la sua ragione di vita prima che le sacrificasse alla figlia: per la maggior parte, nemmeno annotate, conservate solo nella sua memoria, alcune buttate giù su foglietti sparsi, illeggibili, sarebbero rimaste ignote; pensava anche, mia madre, a quell'altra rinuncia ancora più crudele alla quale Vinteuil era stato costretto, la rinuncia a un avvenire di felicità onesta e rispettata per sua figlia; quando rievocava, così, l'estremo sfacelo dell'ex-maestro di piano delle mie zie, la mamma provava un'autentica pena, e pensava con spavento a quella, ben altrimenti amara, che doveva provare Mademoiselle Vinteuil, una pena alla quale si intrecciava il rimorso di avere press'a poco ucciso suo padre. Povero signor Vinteuil, diceva, ha vissuto ed è morto per sua figlia, senza riceverne compenso. 
Glielo daranno dopo la sua morte, e in quale forma? Soltanto lei potrebbe. 
In fondo al salotto di Mademoiselle Vinteuil, sul camino, era posato un piccolo ritratto di suo padre che lei s'affrettò a prendere non appena dalla strada giunse il rumore di una carrozza, poi si gettò su un divano e a questo avvicinò un tavolino sul quale sistemò il ritratto, così come Vinteuil, quella volta, aveva deposto accanto a sé lo spartito del pezzo che avrebbe voluto far ascoltare ai miei genitori. 
Subito dopo entrò la sua amica. 
Mademoiselle Vinteuil l'accolse senza alzarsi, le mani incrociate dietro la testa, e si spostò sul lato opposto del sofà come per farle posto. 
Ma immediatamente si accorse che in quel modo sembrava volerle imporre un atteggiamento che le era forse sgradito. 
Pensò che la sua amica avrebbe forse preferito star lontana da lei, su una sedia, si giudicò indiscreta, la delicatezza del suo animo ne rimase turbata; riprendendo tutto intero il posto sul sofà chiuse gli occhi e si mise a sbadigliare, per far intendere che la voglia di dormire era l'unica ragione per la quale si era sdraiata. 
Nonostante la familiarità rude e imperiosa che la legava alla sua compagna, riconoscevo in lei i gesti ossequiosi e reticenti, i bruschi scrupoli di suo padre. Ben presto si alzò, finse di voler chiudere le imposte e di non riuscirci. 
- Lascia pure aperto, ho caldo, disse l'amica. 
- Ma è seccante, ci vedranno, rispose Mademoiselle Vinteuil. 
Ma dovette certo immaginare che l'amica avrebbe pensato che le aveva detto quelle parole soltanto per provocarla a replicare con certe altre, che in effetti lei desiderava sentire ma che, per discrezione, voleva lasciar pronunciare all'altra di sua iniziativa. 
E così il suo sguardo, che io non riuscivo a distinguere, dovette assumere l'espressione che piaceva tanto alla mia nonna mentre lei s'affrettava ad aggiungere: - Quando dico vederci, voglio dire vederci leggere; è seccante, anche se si fa qualcosa di insignificante, pensare che degli occhi ci guardino. 
Per generosità istintiva, per gentilezza involontaria, taceva le parole premeditate che aveva ritenuto indispensabili alla completa realizzazione del suo desiderio. 
E continuamente, in fondo al suo cuore, una vergine timida e supplice implorava e teneva a bada un soldataccio rozzo e prepotente. 
- Sì, è davvero probabile che qualcuno ci veda a quest'ora, in questa campagna così frequentata, disse ironicamente l'amica. 
E poi aggiunse (e pensò bene di accompagnare con un ammicco tenero e malizioso queste parole che recitava per bontà, come un testo che sapeva gradito a Mademoiselle Vinteuil, in un tono che si sforzava di rendere cinico) e poi, se anche ci vedono, tanto meglio. 
Mademoiselle Vinteuil fremette e si alzò. 
Il suo cuore scrupoloso e sensibile ignorava le parole che si sarebbero spontaneamente adattate alla scena reclamata dai suoi sensi. 
Cercava, il più lontano possibile dalla sua autentica natura morale, il modo d'esprimersi tipico della ragazza viziosa che desiderava essere, ma le parole che quella, secondo lei, avrebbe pronunciate con franchezza le sembravano false nella sua bocca. 
E il poco che alla fine se ne concedeva era detto in un tono affettato, nel quale la radicata timidezza paralizzava le velleità d'audacia e si mescolava ai Non hai freddo, non hai 
troppo caldo, non preferisci star sola, non hai voglia di leggere?. 
- Mi sembra che Mademoiselle abbia dei pensieri alquanto lubrici, stasera, finì col dire, ripetendo certo una frase udita qualche altra volta dalla bocca dell'amica. 
Nello scollo della sua camicetta di crespo, Mademoiselle Vinteuil sentì che l'amica appuntava un bacio; lanciò un piccolo grido, fuggì, e le due si inseguirono saltando, facendo svolazzare come ali le loro ampie maniche e chiocciando e pigolando come uccelli in amore. 
Poi Mademoiselle Vinteuil si lasciò cadere sul divano, coperta dal corpo dell'amica. 
Ma questa volgeva la schiena al tavolino sul quale era stato posato il ritratto del vecchio professore di piano. 
Mademoiselle Vinteuil capì che l'amica non l'avrebbe visto se lei non vi avesse attirato la sua attenzione, e le disse, come se solo allora l'avesse notato: - Oh, quel ritratto di mio padre che ci guarda, vorrei sapere chi ce l'ha messo, ho detto mille volte che non è quello il suo posto. 
Mi ricordai che le stesse parole aveva detto Vinteuil a mio padre a proposito dello spartito. 
Certo quel ritratto doveva servire loro abitualmente per qualche profanazione rituale, perché l'amica replicò con queste parole che dovevano far parte delle sue risposte liturgiche: - Ma lascialo dov'è, tanto lui non è più qui a levarci il fiato. 
Te l'immagini come frignerebbe, come insisterebbe per farti mettere il mantello, quella brutta scimmia, se ti vedesse qui con la finestra aperta? Mademoiselle Vinteuil rispose con parole di dolce rimprovero: Ma no, via, che testimoniavano la bontà della sua indole, non perché fossero dettate dall'indignazione per quel modo di riferirsi a suo padre (evidentemente era questo un sentimento che s'era abituata, con l'aiuto di quali sofismi?, a far tacere dentro di sé in quei determinati momenti), ma perché costituivano una specie di freno che, per non mostrarsi egoista, imponeva lei stessa al piacere che l'amica cercava di procurarle. 
E poi, forse, questa moderazione sorridente nel rispondere a quelle bestemmie, questo rimprovero tenero e ipocrita, apparivano alla sua natura buona e schietta come una forma particolarmente infame, una forma melliflua della scelleratezza che cercava di assimilare. 
Ma non poté resistere alla seduzione del piacere che avrebbe provato nel venir trattata con dolcezza da una persona così implacabile verso un morto indifeso; e, saltata sulle ginocchia dell'amica, le tese castamente la fronte da baciare, come avrebbe potuto fare se fosse stata sua figlia, godendo nel sentire che in quel modo si spingevano entrambe all'estremo della crudeltà sottraendo a Vinteuil, fin nella tomba, la sua paternità. 
L'amica le prese la testa fra le mani e depose un bacio sulla sua fronte con una docilità che le era resa facile dal grande affetto per Mademoiselle Vinteuil e dal desiderio di offrire un po' di distrazione alla sua triste vita di orfana. 
- Sai cosa mi vien voglia di fargli, a quel vecchio mostro? disse prendendo il ritratto. 
E mormorò all'orecchio di Mademoiselle Vinteuil qualcosa che non potei udire. 
- Oh no, non ne avresti il coraggio. 
- Non avrei il coraggio di sputarci sopra? su questo? disse l'amica con deliberata brutalità. 
Non sentii altro, perché Mademoiselle Vinteuil, con un'aria stanca, goffa, onesta, triste e affaccendata, venne a chiudere le imposte e la finestra, ma sapevo ormai, per tutte le sofferenze che Vinteuil aveva sopportate in vita a causa di sua figlia, qual era il compenso che da lei riceveva dopo la morte. 
E tuttavia, più tardi, ho riflettuto che se il signor Vinteuil avesse potuto assistere a quella scena, forse non avrebbe ancora perso la propria fede nel buon cuore di sua figlia, e non avrebbe neanche avuto, forse, del tutto torto. 
Certo, nelle abitudini di Mademoiselle Vinteuil l'apparenza del male era così compatta che sarebbe stato difficile trovarla, condotta allo stesso grado di perfezione, altrove che in un sadico; è alla luce della ribalta di un teatro di "boulevard", (127) piuttosto che a quella della lampada di un'autentica dimora di campagna, che è dato vedere una ragazza far sputare da un'amica sul ritratto di un padre vissuto soltanto per lei; e alla fine non c'è che il sadismo a dare un fondamento nella vita all'estetica del melodramma. 
Nella realtà, a parte i casi di sadismo, una ragazza potrebbe anche commettere, verso la memoria e le volontà del padre morto, mancanze non meno crudeli di quelle di Mademoiselle Vinteuil, ma non le riassumerebbe mai espressamente in un atto d'un simbolismo altrettanto ingenuo e rudimentale; quel che di criminale ci fosse nel suo comportamento resterebbe più velato agli occhi degli altri e persino agli occhi di lei, che farebbe il male senza confessarlo a se stessa. 
Ma, al di là dell'apparenza, nel cuore di Mademoiselle Vinteuil il male non fu, almeno all'inizio, disgiunto da altri moventi. 
Una sadica come lei è un'artista del male, ciò che una creatura interamente malvagia non potrebbe mai essere, perché il male non le risulterebbe più estraneo, le sembrerebbe del tutto naturale, non si distinguerebbe nemmeno dalla sua persona; e la virtù, la memoria dei morti, la tenerezza filiale, non proverebbe alcun piacere sacrilego a profanarle, perché non ne avrebbe il culto. 
I sadici della specie di Mademoiselle Vinteuil sono esseri così puramente sentimentali, così naturalmente virtuosi, che persino il piacere sensuale appare loro come qualcosa di malvagio, come il privilegio dei cattivi. 
E quando si concedono d'indulgervi per un momento, è nella pelle dei cattivi che si sforzano d'entrare e di far entrare il loro complice, così da avere per un poco l'illusione di evadere dalla loro anima tenera e scrupolosa per penetrare nel mondo inumano del piacere. 
E io capivo quanto lei l'avrebbe desiderato vedendo come le era impossibile riuscirci. 
Nel momento in cui si voleva così diversa da suo padre, quel che mi rammentava era il modo di pensare, di parlare del vecchio professore di piano. 
Ben più della fotografia, quel che lei profanava, quel che metteva al servizio dei suoi piaceri ma che restava fra lei e loro e le impediva di gustarli direttamente, era la somiglianza del suo volto, gli occhi azzurri della nonna paterna che lui le aveva trasmessi come un gioiello di famiglia, quei gesti gentili che insinuavano fra Mademoiselle Vinteuil e il suo vizio una fraseologia, una mentalità che non erano fatte per il vizio e che le impedivano di conoscerlo come qualcosa di sostanzialmente diverso dai numerosi doveri di cortesia ai quali di norma si consacrava. 
Non era il male a darle l'idea del piacere, a sembrarle piacevole; era il piacere a sembrarle maligno. 
E poiché ogni volta che vi si abbandonava, s'accompagnava per lei a cattivi pensieri per il resto assenti dal suo animo virtuoso, il piacere finiva con l'apparirle come qualcosa di diabolico, identificandosi con il Male. 
Forse Mademoiselle Vinteuil sentiva che, nel fondo, la sua amica non era cattiva, e che non era sincera quando le faceva quei discorsi blasfemi. 
Ma aveva almeno il piacere di baciare sul suo volto dei sorrisi, degli sguardi magari finti, ma analoghi nella loro espressione abietta e viziosa a quelli che avrebbe potuto trovare in una creatura, non di bontà e sofferenza, ma di crudeltà e piacere. 
Poteva immaginare, per un istante, di fare sul serio i giochi che avrebbe fatti con una complice tanto snaturata da provare veramente quei sentimenti barbari verso la memoria di suo padre. 
Forse non avrebbe pensato al male come a uno stato così raro, così straordinario, così vertiginoso, dov'era così riposante rifugiarsi, se avesse saputo cogliere in se stessa, come in tutti, quell'indifferenza alle sofferenze da noi provocate che è, comunque la si voglia chiamare, la forma terribile e permanente della crudeltà. 
Se era abbastanza semplice andare dalla parte di Méséglise, andare dalla parte di Guermantes era tutt'altra faccenda, perché la passeggiata era lunga e volevamo esser sicuri del tempo che avrebbe fatto. 
Quando sembrava che si fosse entrati in una serie di belle giornate; quando Franoise, osservando disperata che non una goccia d'acqua scendeva sui "poveri raccolti" e non vedendo che rare nuvole bianche galleggianti sul la superficie calma e azzurra del cielo, esclamava fra i gemiti: Non si direbbero dei veri e propri pescecani, lassù, che giocano e sporgono il muso? Ah! ci pensano loro, sì, a far piovere per la povera gente che lavora la terra! E poi, quando sarà spuntato il grano, verrà giù acqua a catinelle, senza mai smettere, e non si 
capirà neanche più dove cade, come fosse sul mare!; quando mio padre aveva regolarmente ricevuto gli stessi responsi favorevoli dal giardiniere e dal barometro, allora, a pranzo, si diceva: Domani, se il tempo non cambia, andremo dalla parte di Guermantes. 
Si usciva subito dopo colazione dalla porticina del giardino e ci si trovava in rue des Perchamps, stretta e ad angolo acuto, piena di graminacee in mezzo alle quali due o tre vespe passavano la giornata a erborizzare, strada bizzarra come il suo nome, da cui mi sembrava che discendessero le sue particolarità curiose e la sua personalità arcigna, e che si cercherebbe invano nella Combray attuale dove sul suo antico tracciato s'innalza la scuola. 
Ma la mia immaginazione (simile a quegli architetti allievi di Viollet-le-Duc (128) che, credendo di rinvenite sotto una tribuna rinascimentale e un altare del Seicento le tracce di un coro romanico, rimettono l'intero edificio nello stato in cui doveva essere nel Dodicesimo secolo) non lascia pietra su pietra al nuovo fabbricato, riapre e "restituisce" rue des Perchamps. 
Essa, d'altronde, dispone per questi restauri di dati più precisi di quelli sui quali, di solito, si basano gli architetti: alcune immagini conservate dalla mia memoria, le ultime, forse che oggi sopravvivano, e destinate ad andare ben presto distrutte, di com'era Combray al tempo della mia infanzia; e, poiché è stata quella stessa Combray a tracciarle dentro di me prima di scomparire, non meno commoventi - se è lecito paragonare un oscuro ritratto alle effigi gloriose di cui la nonna amava regalarmi le riproduzioni - di quelle antiche incisioni della Cena o di quel quadro di Gentile Bellini nei quali vediamo, in uno stato ormai irrecuperabile, il capolavoro di Leonardo e il portale di San Marco. (129) In rue de l'Oiseau si passava davanti alla vecchia "Htellerie de l'Oiseau flesché", (130) nel cui vasto cortile entrarono talvolta durante il Diciassettesimo secolo le carrozze delle duchesse di Montpensier, di Guermantes e di Montmorency, (131) quando dovevano venire a Combray per una contestazione con i loro fattori o per qualche onoranza. 
Si raggiungeva il viale da dove, fra gli alberi che lo fiancheggiavano, si scorgeva il campanile di Saint-Hilaire. 
E io avrei voluto potermi sedere e restarmene là tutto il giorno a leggere ascoltando le campane; perché il luogo era così bello e così tranquillo che quando suonavano le ore si sarebbe detto, non che violassero la calma del giorno, ma che la liberassero di ciò che conteneva, come se il campanile, con la precisione indolente e meticolosa di una persona che non ha nient'altro da fare, si limitasse - per spremere e far cadere le poche gocce d'oro che il caldo vi aveva lentamente e naturalmente raccolte - a pigiare, al momento giusto la plenitudine del silenzio. 
La maggior attrattiva della parte di Guermantes era costeggiare per quasi tutto il tempo il corso della Vivonne. 
La si attraversava una prima volta, dieci minuti dopo essere usciti di casa, su una passerella detta il Ponte Vecchio. 
Fin dal giorno successivo al nostro arrivo, il giorno di Pasqua, dopo la predica, se c'era bel tempo io correvo laggiù a vedere, in quel disordine d'un mattino di festa solenne in cui qualche preparativo sontuoso fa sembrare più sordidi gli attrezzi domestici sparsi ancora qua e là, il fiume che già se ne andava, vestito d'azzurro cielo, tra le rive ancora nude e nere, accompagnato solo da una banda di cuculi arrivati troppo presto e da una manciata di primule precoci, mentre a tratti una viola dalla boccuccia blu piegava lo stelo sotto il peso della goccia di profumo racchiusa nel suo minuscolo cartoccio. 
Il Ponte Vecchio sboccava in una stretta alzaia che in quel punto, d'estate, si ammantava dell'azzurro fogliame d'un nocciòlo, sotto il quale aveva messo radici un pescatore col cappello di paglia. 
A Combray, dove sapevo quale individualità di maniscalco o di commesso di drogheria si dissimulasse sotto l'uniforme da svizzero o la cotta da ragazzo del coro, quel pescatore era la sola persona di cui non avessi mai scoperto l'identità. 
Doveva conoscere i miei parenti, visto che quando passavamo sollevava il cappello; allora io avrei voluto chiedere il suo nome, ma mi facevano segno di tacere per non spaventare il pesce. 
Ci incamminavamo lungo l'alzaia che dominava la corrente da un altezza di parecchi piedi; dall'altra parte la riva era bassa e si stendeva in ampi prati fino al villaggio e, più oltre, fino alla stazione. 
Qua e là, per metà nascosti nell'erba, erano disseminati i ruderi del castello degli antichi conti di Combray, (132) che nel medioevo il corso della Vivonne difendeva su questo lato dagli attacchi dei signori di Guermantes e degli abati di Martinville. 
Ormai rimaneva solo qualche frammento di torre che chiazzava, appena visibile, la pianura, qualche feritoia da dove un tempo il balestriere scagliava le sue pietre e la sentinella sorvegliava Novepont, Clairefontaine, Martinville-le-Sec, Bailleau-l'Exempt, tutti territori vassalli di Guermantes tra i quali s'incuneava Combray, ma ogni cosa appariva spianata al livello dell'erba, assoggettata dai ragazzi della scuola dei frati che venivano là a studiare o a fare ricreazione - un passato come disceso nel grembo della terra, coricato in riva al fiume come un viandante che prende il fresco, ma capace di farmi fantasticare a lungo, di farmi aggiungere, nel nome di Combray, una città tutta diversa alla cittadina di oggi, di calamitare i miei pensieri con il suo volto antico e incomprensibile, celato per metà sotto i bottondoro. 
Ce n'erano moltissimi, lì, avevano scelto quel luogo per i loro giochi sull'erba, singoli, a coppie, in gruppo, gialli come un giallo d'uovo, tanto più scintillanti, mi sembrava, in quanto, non potendo incanalare in velleità di degustazione il piacere che mi veniva dalla loro vista, l'accumulavo tutto nella loro superficie dorata, fino a fargli acquistare la forza di produrre un po' di inutile bellezza; e questo fin da quando ero piccolo e dall'alzaia tendevo le braccia verso di loro senza riuscire a compitare correttamente il loro nome grazioso da Principi delle fiabe francesi, venuti forse molti secoli prima dall'Asia, ma radicatisi per sempre al villaggio, paghi di quel modesto orizzonte, innamorati del sole e delle rive, fedeli al piccolo panorama della stazione, e tuttavia custodi tenaci, come certi nostri antichi dipinti, nella loro semplicità popolare, di un poetico splendore d'Oriente. 
Mi divertivo a guardare le caraffe che i ragazzi disponevano lungo il corso della Vivonne per catturare i pesciolini, e che, imprigionando il fiume dal quale sono a loro volta assediate, al tempo stesso "contenitori" dalle pareti trasparenti come acqua solida e "contenuti" immersi in un più vasto contenitore di cristallo liquido e scorrente, evocavano l'immagine della freschezza in modo più delizioso e più pungente che non se fossero venute a trovarsi su una tavola apparecchiata, non lasciandola apparire che in fuga nella perpetua allitterazione fra l'acqua priva di consistenza, dove le mani non potevano afferrarla, e il vetro privo di fluidità, dove il palato non poteva gioirne. 
Mi ripromettevo di tornare, più tardi, con qualche lenza; ottenevo che si prendesse un po' di pane dalle provviste per la merenda e ne gettavo nella Vivonne alcune pallottoline che sembrava bastassero a provocare un fenomeno di sovrasaturazione, giacché l'acqua si solidificava subito intorno ad esse in grappoli ovoidali di girini affamati, certo rimasti là fino a quel momento in dissoluzione, invisibili, prossimi a cristallizzarsi. Le piante acquatiche non tardano a ostruire il corso della Vivonne. 
Si cominciava a incontrarne di isolate, come un certo nenufaro al quale la corrente, dove era situato di traverso in modo assai infelice, lasciava così poca requie che, come un traghetto azionato meccanicamente, toccava una riva solo per tornare a quella dalla quale era venuto, rifacendo all'infinito la doppia traversata. 
Spinto verso la riva, il suo peduncolo si dispiegava, s'allungava, filava, raggiungeva il limite estremo della propria tensione fino alla sponda dove, ripreso dalla corrente, il verde cordame si ripiegava su se stesso e riportava la povera pianta a quello che si poteva ben chiamare il suo punto di partenza, visto ch'essa non ci restava neppure un istante ma ripartiva immediatamente per una ripetizione dell'identica manovra. 
La ritrovavo da una passeggiata all'altra, sempre nella stessa situazione che faceva pensare a certi nevrastenici, fra i quali mio nonno annoverava zia Léonie, che nel corso degli anni ci offrono senza mutamenti lo spettacolo delle abitudini stravaganti dalle quali si credono sempre sul punto di liberarsi e che invece regolarmente mantengono; presi nell'ingranaggio dei loro disturbi e delle loro manie, gli sforzi in cui si dibattono invano per evaderne non fanno che assicurare il funzionamento e far scattare il congegno della loro dietetica bizzarra, ineluttabile e funesta. 
Tale era il nenufaro, simile inoltre a uno di quegli infelici il cui singolare tormento, che si ripete all'infinito nell'eternità, eccitava la curiosità di Dante, il quale se ne sarebbe fatto raccontare più diffusamente le particolarità e la causa dallo stesso suppliziato se Virgilio, allontanandosi a grandi passi, non l'avesse costretto a raggiungerlo in tutta fretta, come i miei parenti facevano con me. 
Ma più avanti la corrente si calma, attraversa una tenuta il cui accesso era un tempo consentito al pubblico dal proprietario, che s'era dilettato d'orticoltura acquatica facendo fiorire, nei piccoli stagni formati dalla Vivonne, dei veri e propri giardini di ninfee. 
(133) Poiché, in quel punto, le rive erano molto boscose, le grandi ombre degli alberi davano all'acqua un fondo che appariva perlopiù verde cupo ma che a volte, rincasando in certe sere rasserenate dopo un temporale pomeridiano, ho visto d'un azzurro tenue e crudo, che sconfinava nel viola, rifinito come uno smalto e di gusto giapponese. 
Qua e là, sulla superficie, un fiore di ninfea dai bordi bianchi e dal cuore scarlatto rosseggiava come una fragola. 
Più oltre, i fiori erano più numerosi e più pallidi, meno lisci, più granulosi, più pieghettati, e disposti dal caso in volute così eleganti che sembrava di veder galleggiare alla deriva, come nello sfogliarsi malinconico di una festa galante, delle ghirlande sciolte di rose borraccine. 
Altrove, un angolo pareva riservato alle specie comuni, che mostravano il lindore bianco e roseo delle esperidi, simili a porcellane lavate con meticolosità casalinga, mentre un po' più in là si sarebbe detto che delle viole del pensiero, strette l'una contro l'altra in una sorta di piattabanda galleggiante, fossero venute dai giardini a posare come farfalle le loro ali azzurrognole e candite sull'obliquità trasparente di quell'aiuola d'acqua, aiuola celeste, anche, giacché il colore che creava in sottofondo ai fiori era più prezioso, più commovente di quello stesso dei fiori; e sia che facesse scintillare sotto le ninfee, nel pomeriggio, il caleidoscopio di una felicità attenta, mobile e silenziosa, sia che si colmasse verso sera, come certi porti lontani, del rosa sognante del tramonto, cambiando di continuo per rimanere sempre in accordo, intorno alle corolle dalle tinte più stabili, con quel che c'è di più profondo, di più fuggevole, di più misterioso - con quel che c'è d'infinito - nell'ora, sembrava che li avesse fatti fiorire in pieno cielo. 
Uscendo da quel parco, la corrente della Vivonne riprende slancio. 
Quante volte ho visto, e desiderato di imitare quando fossi stato libero di vivere a modo mio, un rematore che, abbandonato il remo, s'era sdraiato quant'era lungo sulla schiena, abbandonando la testa sul fondo della barca, e mentre lasciava che questa galleggiasse alla deriva, mentre vedeva il cielo, e nient'altro, sfilare lentamente sopra di lui, mostrava in volto l'espressione di chi pregusta la felicità e la pace! Ci sedevamo fra i giaggioli in riva all'acqua. 
Nel cielo festivo si trascinava a lungo, pigramente, una nuvola oziosa. 
Di tanto in tanto, oppressa dalla noia, una carpa si rizzava fuori dell'acqua in un'aspirazione ansiosa. 
Era l'ora della merenda. 
Indugiavamo, prima di rimetterci in cammino, a mangiare frutta, pane e cioccolata sull'erba dove giungevano fino a noi, orizzontali, smorzati, ma ancora densi e metallici, i rintocchi della campana di Saint-Hilaire, che non s'erano confusi con l'aria pur così lungamente attraversata e, segmentati dai palpiti successivi di tutte le loro linee sonore, vibravano, rasentando i fiori, ai nostri piedi.A volte, lungo l'acqua attorniata dai boschi, ci imbattevamo in una villetta di campagna isolata, sperduta, che non vedeva nulla del mondo all'infuori del fiume che le bagnava i piedi. 
Una giovane donna (134) il cui volto pensoso e i cui veli eleganti non appartenevano a quel luogo e che vi era certo venuta, secondo l'espressione popolare, a "seppellirsi", ad assaporare l'amaro piacere di constatare che il suo nome, il nome soprattutto dell'uomo il cui cuore lei non aveva saputo trattenere, vi erano sconosciuti, compariva nel riquadro della finestra dalla quale non le era possibile spingere lo sguardo al di là della barca ormeggiata accanto alla porta. 
Levava distrattamente gli occhi sentendo, dietro gli alberi della riva, le voci di quei passanti che, poteva esserne sicura prima ancora d'averli visti in faccia, non avevano né mai avrebbero conosciuto l'infedele; nulla nel loro passato conservava l'impronta di lui, nulla nel loro avvenire avrebbe avuto occasione di riceverla. 
Si intuiva che, nella sua rinuncia, aveva volontariamente lasciato i luoghi dove avrebbe potuto almeno scorgere colui che amava, per questi che non l'avevano mai visto. E io la guardavo mentre, tornando da una passeggiata lungo una strada che lui non avrebbe mai percorso, si sfilava con mani rassegnate i lunghi guanti inutilmente seducenti.Mai, nelle nostre passeggiate dalla parte di Guermantes, riuscimmo a risalire fino alle sorgenti della Vivonne, (135) alle quali tante volte avevo pensato e che per me avevano un'esistenza così astratta, così ideale, che il giorno in cui m'avevano detto che si trovavano nel nostro stesso dipartimento, a una certa distanza chilometrica da Combray, non ero stato meno sorpreso di quando avevo appreso che c'era un altro punto preciso della terra dove, nell'antichità, s'apriva la porta degli Inferi. 
Nemmeno ci fu mai possibile arrivare fino alla meta da me tanto agognata, fino a Guermantes. 
Sapevo che là dimoravano dei castellani, il duca e la duchessa di Guermantes, (136) sapevo che erano personaggi reali, esistenti nell'attualità, ma ogni volta che pensavo a loro me li raffiguravo ora in un arazzo, come la contessa di Guermantes nella "Incoronazione d'Ester" della nostra chiesa, ora di colore cangiante, come Gilberto il Malvagio che nella vetrata passava dal verde cavolo al blu susina a seconda ch'io stessi ancora attingendo l'acqua benedetta o avessi già raggiunto le nostre sedie, ora del tutto impalpabili come l'immagine di Genoveffa di Brabante, antenata dei Guermantes, che la lanterna magica faceva passeggiare sulle tende o salire sul soffitto della mia camera, - sempre avvolti, comunque, nel mistero dei tempi merovingi, e immersi come in un tramonto nella luce arancione che emana dalla sillaba "antes". 
Ma se, malgrado ciò, essi erano per me, in quanto duca e duchessa, degli esseri reali, benché forestieri, in compenso la loro ducale persona si dilatava smisuratamente, si smaterializzava, per poter contenere in sé quel Guermantes di cui erano duca e duchessa, tutto il sole di quella "parte di Guermantes", il corso della Vivonne, le sue ninfee, i suoi grandi alberi, e tanti pomeriggi deliziosi. 
E sapevo che non portavano solo il titolo di duca e duchessa di Guermantes, ma fin dal Quattordicesimo secolo, quando, dopo aver invano tentato di sconfiggere gli antichi signori del luogo, s'erano alleati con loro per via di matrimoni, erano conti di Combray, primi cittadini di Combray, dunque, e tuttavia i soli a non avervi dimora. 
Conti di Combray, possedevano Combray nel nome, nella persona, ed effettivamente c'era, in loro, quella strana e devota tristezza peculiare di Combray; proprietari della città, ma non di una singola casa, sicuramente avevano la loro residenza fuori, nella strada, fra cielo e terra, come quel Gilberto di Guermantes di cui, nelle vetrate di Saint-Hilaire, non vedevo che il rovescio di lacca nera se, andando a comprare il sale da Camus, alzavo lo sguardo verso l'abside.Accadde, poi, che dalla parte di Guermantes io passassi qualche volta davanti a certi piccoli, umidi recinti dove s'arrampicavano grappoli di fiori scuri. 
Mi fermavo, convinto di acquisire una nozione preziosa, giacché mi sembrava di avere sotto gli occhi un frammento di quella regione fluviale che tanto desideravo conoscere da quando ne avevo trovato la descrizione in uno dei miei scrittori preferiti. 
E fu con quella regione, con il suo territorio immaginario attraversato da corsi d'acqua ribollenti, che si identificò Guermantes mutando aspetto nel mio pensiero, dopo che ebbi sentito il dottor Percepied parlarci dei fiori e dei bei ruscelli che c'erano nel parco del castello. 
Sognavo che Madame de Guermantes mi ci invitasse, cedendo per me a un improvviso capriccio; per tutto il giorno pescavamo insieme le trote. 
E la sera, tenendomi per mano, passando davanti ai minuscoli giardini dei suoi vassalli, mi mostrava, lungo i muretti, i fiori che vi appoggiavano le loro conocchie rosse e viola, (137) e mi insegnava i loro nomi. 
Mi sollecitava a dire di cosa avrebbero parlato le poesie che avevo intenzione di scrivere. 
E questi sogni mi facevano pensare che, dal momento che volevo un giorno diventare uno scrittore, era tempo di sapere quel che meditassi di scrivere. 
Ma appena me lo chiedevo, tentando di rintracciare un argomento nel quale poter racchiudere un immenso significato filosofico, la mia intelligenza smetteva di funzionare, non vedevo più che il vuoto di fronte alla mia attenzione, sentivo di non avere talento o che, forse, una malattia cerebrale gli impediva di nascere. 
A volte facevo assegnamento su mio padre per sistemare la faccenda. 
Era così potente, così stimato dalle persone importanti, che riusciva persino a farci trasgredire le leggi che Franoise mi aveva insegnato a considerare più ineluttabili di quelle della vita e della morte, a far ritardare di un anno per la nostra casa, sola in tutto il quartiere, i lavori di "ripristino", a ottenere dal ministro, per il figlio di Madame Sazerat che voleva andare alle cure termali, il permesso di sostenere gli esami di maturità con due mesi di anticipo, insieme ai candidati il cui nome cominciava per A, invece di attendere il turno della S. Se mi fossi ammalato gravemente, se fossi stato catturato dai briganti, convinto che mio padre aveva troppe relazioni con le potenze supreme, troppe irresistibili lettere di raccomandazione al buon Dio perché la mia malattia o la mia cattività potessero essere altro che dei vani simulacri privi per me di qualsiasi pericolo, avrei aspettato con calma l'ora inevitabile del ritorno alla realtà normale, l'ora della liberazione o della guarigione; forse quell'assenza di talento, quel buco nero che si spalancava nella mia testa quando ricercavo l'argomento dei miei scritti futuri, era a sua volta una semplice illusione senza consistenza, e sarebbe svanita grazie all'intervento di mio padre, che sicuramente aveva convenuto con il Governo e con la Provvidenza che io sarei stato il più importante scrittore del mio tempo Ma altre volte, mentre i miei parenti si spazientivano vedendo che restavo indietro e non li seguivo, la mia vita effettiva, anziché sembrarmi una creazione artificiale di mio padre, che avrebbe potuto modificarla a suo piacimento, mi appariva, al contrario, come parte di una realtà che non era fatta per me, contro la quale non c'era possibilità di ricorso, in seno alla quale non avevo alleati, e dietro la quale non si nascondeva niente. Mi sembrava, in quei momenti, di esistere nello stesso modo degli altri uomini, che sarei invecchiato, che sarei morto come loro, e che in mezzo al mucchio sarei stato semplicemente uno dei tanti che non hanno attitudine allo scrivere. 
E così, sfiduciato, rinunciavo per sempre alla letteratura, a dispetto degli incoraggiamenti che mi erano venuti da Bloch. 
Quella sensazione intima, immediata, del nulla del mio pensiero, prevaleva su tutte le parole lusinghiere che potevano essermi elargite, come i rimorsi di coscienza in un malvagio di cui tutti esaltano le buone azioni. 
Un giorno mia madre mi disse: Visto che parli sempre di Madame de Guermantes, sappi che, siccome il dottor Percepied l'ha curata molto bene quattro anni fa, verrà a Combray per assistere al matrimonio di sua figlia. 
Potrai vederla alla cerimonia. 
Era soprattutto dal dottor Percepied, del resto, che avevo sentito parlare di Madame de Guermantes, ci aveva persino mostrato il numero di una rivista illustrata dove lei esibiva il costume indossato a un ballo in maschera presso la principessa di Léon. 
Tutt'a un tratto, durante la celebrazione del matrimonio, uno spostamento compiuto dallo svizzero mi permise di vedere, seduta in una cappella, una dama bionda con un gran naso, occhi azzurri e penetranti, una cravatta di seta color malva, liscia, nuova e sfavillante, e un foruncoletto all'angolo del naso. 
E poiché nella superficie del suo viso, che era rosso come se avesse molto caldo, io distinguevo, diluite e appena percettibili, delle frammentarie analogie con il ritratto che mi avevano mostrato, e poiché, soprattutto, i tratti caratteristici che rilevavo in lei si formulavano, se cercavo di enunciarli, esattamente negli stessi termini - un gran naso, occhi azzurri - di cui si era servito il dottor Percepied quando aveva descritto in mia presenza la duchessa di Guermantes, io mi dissi: Quella signora assomiglia a Madame de Guermantes; ora, la cappella dalla quale lei seguiva la messa era quella di Gilberto il Malvagio, sotto le cui tombe piatte, debordanti e dorate come alveoli di miele riposavano gli antichi conti di Brabante, vale a dire la cappella che io, da quel che mi avevano detto, ricordavo essere riservata alla famiglia di Guermantes quando qualcuno dei suoi membri veniva a Combray per qualche cerimonia; verosimilmente, poteva esserci una sola donna che assomigliasse al ritratto di Madame de Guermantes e che si trovasse proprio quel giorno, il giorno appunto in cui lei doveva venire, in quella cappella: era lei! La mia delusione era grande. 
Derivava dal fatto di non essermi mai reso conto che, quando pensavo a Madame de Guermantes, me la raffiguravo con i colori di un arazzo o di una vetrata, in un altro secolo, in un'altra prospettiva rispetto al resto dell'umanità vivente. 
Mai avevo sospettato che potesse avere un viso rosso, una cravatta malva come Madame Sazerat, e l'ovale delle sue guance richiamò talmente alla mia memoria altre persone viste in casa mia che fui sfiorato dal dubbio, d'altronde subito dissipatosi, che quella signora, nel suo principio generatore, in tutte le sue molecole, non fosse in sostanza la duchessa di Guermantes, e che il suo corpo, ignaro del nome che gli veniva applicato, appartenesse invece a un certo tipo femminile che comprendeva anche delle mogli di medici e di commercianti. 
E' questa, è soltanto questa, Madame de Guermantes!, diceva la faccia attenta e sbalordita con la quale contemplavo quell'immagine che, naturalmente, non aveva alcun rapporto con le immagini apparse tante volte nei miei sogni sotto lo stesso nome di Madame de Guermantes, perché non ero stato io a formarla, questa, arbitrariamente come le altre, ma m'era balzata per la prima volta agli occhi solo un momento prima, nella chiesa, e non era della stessa natura, non la si poteva colorare a volontà come quelle che si lasciavano impregnare dell'arancione di una sillaba, ma era così reale che tutto, perfino il foruncoletto che s'infiammava all'angolo del naso, certificava il suo assoggettamento alle leggi della vita, così come, in un'apoteosi teatrale, una piega nel vestito della fata, un tremolio del suo dito mignolo denunciano la presenza materiale di un'attrice in carne ed ossa là dove noi supponevamo quasi di avere davanti agli occhi una semplice proiezione luminosa. 
Ma, nello stesso tempo, a quell'immagine che il naso prominente, gli occhi penetranti appuntavano alla mia visione (forse perché erano stati i primi a raggiungerla, a intaccarla, quando ancora non avevo avuto il tempo di pensare che la donna apparsami davanti potesse essere Madame de Guermantes), a quell'immagine tutta nuova e immutabile io cercavo di applicare l'idea E' Madame de Guermantes, riuscendo solo a far sì che manovrasse dirimpetto all'immagine, come due dischi separati da un intervallo. 
Ma quella Madame de Guermantes della quale avevo così spesso sognato, adesso che la vedevo esistere veramente al di fuori di me acquistò un dominio ancora più saldo sulla mia immaginazione che, paralizzata per un momento dal contatto con una realtà tanto diversa da quella che s'attendeva cominciò subito a reagire e a sussurrarmi: Gloriosi fin da prima di Carlo Magno, i Guermantes avevano diritto di vita e di morte sui loro vassalli; la duchessa di Guermantes discende da Genoveffa di Brabante. 
Non conosce, né acconsentirebbe mai a conoscere nessuna delle persone qui presenti. 
E - o meravigliosa indipendenza degli sguardi umani, collegati al volto da una corda così lenta, così lunga, così estensibile che possono andarsene a spasso da soli, lontani da quello! - mentre Madame de Guermantes sedeva nella cappella, sopra le tombe dei suoi morti, i suoi sguardi erravano oziosi qua e là, salivano lungo i pilastri, indugiavano persino su di me come un raggio di sole vagante nella navata, ma un raggio di sole che, nel momento in cui ne ricevetti la carezza mi parve cosciente. 
Quanto a Madame de Guermantes, poiché se ne stava immobile, seduta come una madre che apparentemente non vede le audacie birichine e le imprese indiscrete dei suoi figli, che giocano e si intrattengono con persone che lei non conosce, mi fu impossibile capire se approvasse o biasimasse nell'inoperosità dell'animo, il vagabondaggio dei suoi sguardi. Era importante, per me, che non se ne andasse prima ch'io avessi potuto guardarla a sufficienza, perché mi ricordavo che da anni consideravo la sua vista come eminentemente desiderabile, e non staccavo gli occhi dalla sua persona, come se ciascuno dei miei sguardi avesse potuto materialmente prelevare e mettere al sicuro dentro di me il ricordo del suo naso prominente, delle guance rosse, di tutti quei particolari che mi sembravano altrettante informazioni preziose, autentiche e singolari sul conto del suo viso. 
Adesso che tutti i pensieri ai quali lo collegavo - e soprattutto, forse, quella forma dell'istinto di conservazione delle parti migliori di noi stessi che è il costante desiderio di non esser stati delusi - me lo facevano trovare bello, ricollocando lei (dal momento che faceva tutt'uno con quella duchessa di Guermantes che avevo evocata fino allora) al di fuori del resto dell'umanità con cui la pura e semplice vista del suo corpo me l'aveva fatta per un istante confondere, mi irritava sentir dire intorno a me: E' meglio di Madame Sazerat, di Mademoiselle Vinteuil, come se fosse possibile paragonarla a loro. 
E mentre i miei sguardi indugiavano sui suoi capelli biondi, sui suoi occhi azzurri, sull'attacco del suo collo, tralasciando i connotati che avrebbero potuto ricordarmi qualche altro viso, di fronte a quello schizzo volutamente incompleto esclamavo: Come è bella! Che nobiltà! E proprio una superba Guermantes, la discendente di Genoveffa di Brabante, che ho 
  davanti ai miei occhi!. 
E l'attenzione con la quale perlustravo il suo volto l'isolava a tal punto che oggi, se ripenso a quella cerimonia, mi è impossibile rivedere una sola delle persone che vi assistevano, tranne lei e lo svizzero che rispose affermativamente quando gli chiesi se quella signora era proprio Madame de Guermantes. 
Ma lei sì che la rivedo, soprattutto al momento del corteo nella sagrestia rischiarata dal sole caldo e intermittente d'un giorno di vento e temporali, dove Madame de Guermantes era venuta a trovarsi in mezzo a tutta quella gente di Combray di cui non sapeva neanche il nome, ma la cui inferiorità proclamava con troppa evidenza la sua supremazia perché lei non provasse per loro una benevolenza sincera, e nei cui confronti sperava d'altronde di imporsi ancor più a forza di buona grazia e di semplicità. 
Così, non potendo emettere quegli sguardi volontari, carichi d'un significato preciso, che si indirizzano alle persone conosciute, ma soltanto lasciare che i suoi pensieri distratti fluissero incessantemente davanti a lei in un fiotto incontenibile di luce azzurra, temeva che questo potesse mettere in imbarazzo o dare l'impressione che lei disdegnasse l'umile gente che incontrava di passaggio, che raggiungeva di continuo. 
Rivedo ancora, al di sopra della sua cravatta malva, gonfia e serica, il dolce stupore dei suoi occhi ai quali aveva aggiunto, senza osare destinarlo a qualcuno, ma perché ciascuno potesse prenderne la sua parte, un sorriso un po' timido di signora feudale desiderosa di scusarsi con i suoi diletti vassalli. 
Quel sorriso cadde su di me che con gli occhi non l'abbandonavo un istante. 
Allora, ricordando lo sguardo che aveva lasciato indugiare su di me durante la messa, azzurro come un raggio di sole filtrato attraverso la vetrata di Gilberto il Malvagio, mi dissi: Ma non c'è dubbio, mi sta osservando. 
Credetti di piacerle, che avrebbe pensato a me anche dopo aver lasciato la chiesa, che a causa mia, forse, quella sera a Guermantes sarebbe stata triste. 
E subito l'amai, perché se qualche volta, per innamorarci di una donna, basta che lei ci guardi con disprezzo, come mi era parso nel caso di Mademoiselle Swann, facendoci pensare che non potrà mai essere nostra, a volte può anche bastare che ci guardi con bontà, come Madame de Guermantes, facendoci pensare che potrà essere nostra. I suoi occhi sprigionavano bagliori azzurri, come una pervinca impossibile a cogliersi e che, tuttavia, lei mi avesse dedicata; e il sole, minacciato da una nube ma ancora dardeggiante a tutta forza sulla piazza e nella sagrestia, conferiva un incarnato di geranio ai tappeti rossi che erano stati distesi sul pavimento per la solennità e sui quali Madame de Guermantes incedeva sorridendo, e aggiungeva alla loro lanosità un che di roseo e vellutato, un'epidermide di luce, quella sorta di tenerezza, quella seria dolcezza nella pompa e nella gioia che caratterizzano certe pagine del "Lohengrin", certi dipinti del Carpaccio, e che spiegano come Baudelaire abbia potuto applicare al suono della tromba l'epiteto "delizioso". (138) Dopo quel giorno, nelle mie passeggiate dalla parte di Guermantes, come mi sarebbe parso desolante, ancor più di prima, non avere disposizione per le lettere, dover rinunciare a diventare un celebre scrittore! Il rammarico che ne provavo quando stavo solo, un po' in disparte, a fantasticare, mi straziava a tal punto che, per non provarlo più, di sua iniziativa la mia mente cessava del tutto, per una sorta di inibizione davanti al dolore, di pensare ai versi, ai romanzi, a un avvenire poetico sul quale la mia mancanza di genio mi proibiva di fare assegnamento. 
Allora, assolutamente al di fuori di tali preoccupazioni letterarie e senza alcun rapporto con esse, all'improvviso un tetto, un riflesso di sole su una pietra, l'odore d'una strada mi facevano sostare per uno speciale piacere che ne traevo e anche perché sembravano nascondere, dietro ciò che vedevo, qualcosa che mi invitavano ad andare a prendere e che io, malgrado i miei sforzi, non riuscivo a scoprire. 
Poiché sentivo che quella tal cosa si trovava dentro di loro, rimanevo là immobile a guardare, a respirare, a sforzarmi di oltrepassare col pensiero l'immagine o l'odore. E se dovevo raggiungere il nonno, riprendere il cammino, cercavo di ritrovarli chiudendo gli occhi; mi applicavo a ricordare esattamente la linea del tetto, la sfumatura della pietra che, senza che potessi comprenderne la ragione, m'erano parse piene, pronte a dischiudersi, a consegnarmi ciò di cui non erano che l'involucro. 
Non erano certo impressioni di questo genere a potermi restituire la perduta speranza d'essere un giorno scrittore e poeta, dal momento che rimanevano sempre vincolate a un oggetto specifico privo di valore intellettuale e non ricollegabile ad alcuna verità astratta. 
Ma perlomeno mi davano un piacere immotivato, l'illusione di una sorta di fecondità, distraendomi così dalla noia, da quella sensazione della mia impotenza che avevo provata ogni volta che avevo cercato un argomento filosofico per una grande opera letteraria. 
Ma il dovere di coscienza - suscitato in me da quelle impressioni di forma, di profumo o di colore - di tentare di cogliere ciò che esse nascondevano dietro di sé, era così arduo che non tardavo a ricercare delle scuse che mi permettessero di sottrarmi a quegli sforzi e di risparmiarmi tutta quella fatica. 
Per fortuna i miei parenti mi chiamavano, sentivo di non avere per il momento la tranquillità necessaria a proseguire in modo proficuo la mia ricerca, che tanto valeva non pensarci più fin quando non fossi ritornato a casa, e non affaticarmi in anticipo e senza costrutto. 
Non mi occupavo più, allora, di quella cosa ignota che s'avvolgeva in una forma o in un profumo, assolutamente tranquillo visto che la portavo con me, ben protetta dal rivestimento di immagini sotto le quali l'avrei ritrovata viva, come i pesci che, i giorni in cui mi lasciavano andare a pescare, portavo a casa nel mio cestino, coperti da uno strato d'erba che ne conservava la freschezza. 
Una volta a casa, poi, pensavo a qualcos'altro, e nella mia testa s'ammassavano (come nella mia stanza i fiori raccolti durante le mie passeggiate o gli oggetti che mi avevano regalato) una pietra screziata da un certo riflesso, un tetto, il suono d'una campana, un odore di foglie, tante immagini diverse sotto le quali la realtà intuita che non sono riuscito a svelare per insufficienza di volontà ha da molto tempo ormai cessato di vivere. 
Una volta, tuttavia - la nostra passeggiata aveva superato di molto la sua durata abituale, ed eravamo stati ben felici di incontrare a metà strada sulla via del ritorno, quando il pomeriggio già declinava, il dottor Percepied che passava in carrozza a briglia sciolta e, riconosciutici, ci aveva fatti salire con lui -, ebbi un'impressione di quel genere e non l'abbandonai senza averla un po' approfondita. 
Mi avevano fatto salire accanto al cocchiere, andavamo come il vento perché il dottore, prima di tornare a Combray, doveva ancora fermarsi a Martinville-le-Sec da un malato alla cui porta era inteso che l'avremmo aspettato. 
Improvvisamente, a una svolta della strada, provai quel piacere speciale, che non assomigliava a nessun altro, nel vedere i due campanili di Martinville sui quali batteva il sole al tramonto e che con il movimento della nostra carrozza e le curve della strada sembravano mutar posto, e poi quello di Vieuxvicq che, quantunque separato dai primi da una collina e da una valle e situato in lontananza su un piano più elevato, sembrava vicinissimo a entrambi. 
Constatando, registrando la forma della loro guglia, il dislocarsi dei loro contorni, l'effetto del sole sulla loro superficie, sentivo di non arrivare al fondo della mia impressione, che c'era qualcosa dietro quel movimento, dietro quella luminosità, qualcosa che essi sembravano nello stesso tempo contenere e nascondere. 
I campanili apparivano così lontani, e sembrava che noi ci avvicinassimo così poco a loro, che rimasi stupito quando, alcuni istanti dopo, ci fermammo davanti alla chiesa di Martinville. 
Non conoscevo la fonte del piacere provato nello scorgerli all'orizzonte, e cercare di scoprirla mi si presentava come un obbligo penoso; avevo voglia di mettere in serbo nella mia testa quelle linee che si spostavano nel sole e di non pensarci più per il momento. 
Ed è probabile che, se lo avessi fatto, i due campanili sarebbero andati per sempre a far compagnia a tutti quegli alberi, tetti, profumi e suoni che avevo distinti dagli altri a causa del piacere oscuro che mi avevano procurato e che non avevo mai approfondito. 
Scesi a parlare con i miei parenti in attesa del dottore. 
Poi ripartimmo, io ripresi il mio posto a cassetta e mi volsi a guardare ancora i campanili che poco più tardi vidi un'ultima volta a una curva della strada. 
Poiché il cocchiere, che aveva risposto appena ai miei discorsi, mi sembrava poco disposto a chiacchierare, fui costretto, in mancanza d'altra compagnia, a ripiegare su quella di me stesso e a cercare di ricordarmi i due campanili. 
Presto le loro linee e le loro superfici illuminate dal sole si lacerarono, quasi fossero state una specie di scorza, qualcosa di ciò che in esse mi si nascondeva apparve, ebbi un pensiero che per me un istante prima non esisteva e che si articolò in parole nella mia testa, e il piacere che la loro vista m'aveva appena fatto provare ne fu talmente accresciuto che, preso da una sorta di ebbrezza, non potei più pensare ad altro. 
In quel momento, eravamo già lontani da Martinville, volgendo il capo li scorsi di nuovo, tutti neri questa volta perché il sole era ormai tramontato. 
A intervalli le curve della strada me li nascondevano, poi si mostrarono un'ultima volta, e infine non li vidi più. 
Senza dire a me stesso che quanto stava nascosto dietro i campanili di Martinville doveva essere qualcosa di analogo a una bella frase, poiché era sotto forma di parole capaci di procurarmi piacere che la cosa mi era apparsa, chiesi al dottore una matita e della carta e, a dispetto dei sobbalzi della carrozza, composi, per dare sollievo alla mia coscienza e obbedire al mio entusiasmo, il breve pezzo seguente, che ho ritrovato più tardi e al quale ho apportato solo lievi modifiche: (139) "Soli, ergendosi dal livello della pianura e come sperduti in piena campagna, salivano verso il cielo i due campanili di Martinville. 
Presto ne vedemmo tre: venendo a collocarsi dinanzi agli altri con un volteggio ardito, un campanile ritardatario, quello di Vieuxvicq, li aveva raggiunti. 
I minuti passavano, noi viaggiavamo rapidamente e tuttavia i tre campanili restavano sempre in lontananza davanti a noi, come tre uccelli posati sulla pianura, immobili e ben visibili al sole. 
Poi il campanile di Vieuxvicq si fece da parte, si distanziò, e i campanili di Martinville rimasero soli, illuminati dalla luce del tramonto che anche a quella distanza vedevo giocare e sorridere sui loro tetti scoscesi. 
Ci avevamo messo tanto ad avvicinarci a loro che io pensavo al tempo che ancora sarebbe occorso per raggiungerli quando, all'improvviso, la carrozza, dopo una svolta, ci depositò ai loro piedi; ed essi le si erano parati davanti così bruscamente che avemmo appena il tempo di fermarci per non urtare contro il portico. 
Proseguimmo il nostro itinerario; avevamo già lasciato Martinville da un po' di tempo e il villaggio, dopo averci accompagnati per qualche secondo, era già scomparso, quando, rimasti soli all'orizzonte a guardarci fuggire, i suoi campanili e quello di Vieuxvicq agitarono ancora in segno d'addio le loro cime lambite dal sole. 
A tratti uno si scostava perché gli altri due potessero vederci ancora un istante; ma la strada cambiò direzione, essi virarono nella luce come tre perni dorati e disparvero ai miei occhi. 
Ma, poco dopo, quando eravamo già nei pressi di Combray e il sole era ormai tramontato, li vidi un'ultima volta da molto lontano, e non somigliavano più che a tre fiori dipinti sul cielo al di sopra della bassa linea dei campi. 
Mi facevano pensare anche alle tre fanciulle di una leggenda, abbandonate in un luogo solitario quando già scendevano le tenebre; e mentre ci allontanavamo al galoppo, li vidi cercare timidamente il cammino e, dopo qualche maldestro sussulto delle loro nobili figure, serrarsi l'uno contro gli altri, scivolare uno dietro l'altro, non configurare più contro il cielo ancora rosato che un'unica forma nera, incantevole e rassegnata, e dileguarsi nella notte." Non mi è mai capitato di ripensare a questa pagina, ma quando, allora, in quell'angolo del sedile dove il cocchiere del dottore era solito sistemare dentro un paniere il pollame comprato al mercato di Martinville, ebbi finito di scriverla, mi sentii così felice, mi parve che m'avesse così completamente liberato dei campanili e di quel che si nascondeva dietro di loro, che, come fossi io stesso una gallina e avessi appena deposto un uovo, mi misi a cantare a squarciagola. 
Per tutto il giorno, durante quelle passeggiate, avevo avuto la possibilità di fantasticare, pensando che piacere sarebbe stato essere amico della duchessa di Guermantes, pescare trote, 
  andare in barca sulla Vivonne e, avido di felicità, non chiedere altro alla vita, in quei momenti, che di comporsi tutta d'una serie di pomeriggi beati. 
Ma quando, sulla via del ritorno, avvistavo a sinistra una certa fattoria, abbastanza distante da altre due che erano invece molto vicine tra loro, e a partire dalla quale, per entrare in Combray, non restava che imboccare un viale di querce costeggiato su un lato da una distesa di campi, che appartenevano ciascuno a un piccolo podere e dove alcuni meli piantati a intervalli regolari proiettavano, nel momento in cui erano illuminati dal tramonto, il disegno giapponese delle loro ombre, il mio cuore si metteva d'improvviso a battere, sapevo che entro mezz'ora saremmo giunti a casa e, secondo la regola dei giorni in cui s'era andati dalla parte di Guermantes e il pranzo veniva servito più tardi, mi avrebbero mandato a letto subito dopo la minestra, così che mia madre, trattenuta a tavola come quando c'erano ospiti, non sarebbe salita a darmi la buonanotte in camera mia. 
La zona di tristezza nella quale entravo repentinamente era distinta dalla zona dove, ancora un attimo prima, mi ero slanciato con gioia così come in certi cieli, una striscia rosa è separata come con una riga da una striscia verde o nera. 
Si vede un uccello volare nel rosa, sta per toccarne il confine, è quasi nel nero: ecco, vi è entrato. 
I desideri, nei quali poco prima ero immerso, di andare a Guermantes, di viaggiare, d'essere felice, adesso mi erano talmente estranei che la loro realizzazione non mi avrebbe fatto alcun piacere. 
Come avrei dato tutto questo per poter piangere tutta la notte tra le braccia della mamma! Rabbrividivo, non staccavo gli occhi angosciati dal viso di mia madre, che quella sera non sarebbe apparso nella stanza dove già mi figuravo col pensiero; avrei voluto morire. 
E quella condizione sarebbe durata fino all'indomani, quando i raggi del mattino, come il giardiniere, avrebbero appoggiato la loro scala a pioli al muro coperto di nasturzi che s'arrampicavano fino alla mia finestra, e io sarei saltato giù dal letto per scendere svelto in giardino, senza più riflettere che la sera avrebbe riportato con sé l'ora di lasciare mia madre. 
Ed è stato, così, dalla parte di Guermantes, che ho imparato a distinguere i diversi stati che, in certi periodi, si succedono dentro di me, e che arrivano a spartirsi la giornata, l'uno scacciando l'altro, con la puntualità della febbre; contigui, ma estranei l'uno all'altro, così privi della possibilità di comunicare tra loro che io non riesco più a capire, e neanche a immaginarmi, trovandomi nell'uno, quel che ho desiderato, o temuto, o fatto trovandomi nell'altro. 
La parte di Méséglise e la parte di Guermantes restano in tal modo legate, per me, a tanti piccoli avvenimenti di quella che fra tutte le diverse vite parallele che noi viviamo è la più piena di peripezie, la più ricca di episodi, voglio dire la vita intellettuale. 
Certo questa vita progredisce insensibilmente dentro di noi, e delle verità che ai nostri occhi ne hanno cambiato il senso e il volto, che ci hanno aperto nuove strade, preparavamo da molto tempo la scoperta; ma non lo sapevamo, così che esse non risalgono per noi oltre il giorno, il minuto in cui ci sono divenute visibili. 
I fiori che allora scherzavano sull'erba, l'acqua che scorreva al sole, tutto il paesaggio, che contornò la loro apparizione, continua ad accompagnarne il ricordo con il suo volto incosciente o distratto; e, certo, quando erano lungamente contemplati da quell'umile passante, da quel fanciullo sognante - come un re da un memorialista confuso tra la folla -, mai quell'angolo di natura, quel lembo di giardino avrebbero pensato che proprio grazie a lui sarebbero stati chiamati a sopravvivere nelle loro particolarità più effimere; eppure, quel profumo di biancospino che imperversa lungo la siepe dove presto lo sostituiranno le rose di macchia, un rumore di passi senza eco sulla ghiaia d'un viale, la bolla che l'acqua del fiume ha formato contro una pianta acquatica e che subito scoppia, la mia esaltazione li ha presi su di sé ed è riuscita a trasportarli attraverso il succedersi di tanti anni, mentre tutt'intorno le strade sono state cancellate e sono morti quelli che le percorsero e anche il loro ricordo è morto. 
A volte quella porzione di paesaggio trasportata così fino all'oggi è talmente staccata, talmente isolata da tutto, che fluttua incerta nel mio pensiero, simile a una Delo fiorita, senza ch'io sappia dire da che paese, da che tempo viene - forse, semplicemente, da quale sogno. 
Ma è soprattutto come a profondi giacimenti del mio sottosuolo mentale, come ai terreni resistenti che ancora mi sostengono, ch'io devo pensare alla parte di Méséglise e alla parte di Guermantes. 
Mentre percorrevo quegli itinerari, credevo alle cose, agli esseri, ed è per questo che le cose e gli esseri che vi ho conosciuti sono i soli che io prenda ancora sul serio e che mi diano ancora della gioia. 
O perché la fede che crea si è inaridita in me, o perché la realtà non si forma che nella memoria, i fiori che qualcuno mi mostra oggi per la prima volta non mi sembrano fiori veri. La parte di Méséglise con i suoi lillà, i suoi biancospini, i suoi fiordalisi, i suoi papaveri, i suoi meli, la parte di Guermantes con il suo fiume popolato di girini, le sue ninfee e i suoi bottondoro, hanno formato per me l'eterno volto del paese dove amerei vivere, dove esigo prima d'ogni altra cosa che si possa andare a pesca, fare gite in barca, vedere rovine di fortificazioni gotiche e trovare in mezzo ai campi di grano una chiesa monumentale, rustica e dorata come un pagliaio, quale era Saint-Andrédes-Champs; e i fiordalisi, i biancospini, i meli che ancora mi succede, quando viaggio, di incontrare nei campi, sono immediatamente in comunicazione con il mio cuore perché situati alla stessa profondità, al livello del mio passato. 
E tuttavia, dato che c'è qualcosa di individuale nei luoghi, quando mi assale il desiderio di rivedere la parte di Guermantes, non riuscireste a soddisfarmelo conducendomi sulla riva d'un fiume dove ci fossero ninfee altrettanto belle, ancora più belle che nella Vivonne, allo stesso modo che di sera, tornando a casa - nell'ora in cui si risvegliava in me quell'angoscia che più tardi emigra nell'amore, e può divenirne inseparabile per tutta la vita -, non avrei certo voluto che venisse a darmi la buonanotte una mamma più bella e più intelligente della mia. 
No; così come, per potermi addormentare felice, con quella pace senza turbamento che nessuna amante, dopo, è mai riuscita a darmi - giacché si dubita di loro nello stesso momento in cui si crede in loro e non si possiede mai il loro cuore come io ricevevo in un bacio quello di mia madre, tutto intero, senza la riserva di un pensiero inespresso, senza il residuo di un'intenzione non dedicata a me -, ciò di cui avevo bisogno era che fosse lei, che chinasse lei verso di me quel viso dove sotto l'occhio si vedeva qualcosa che era, pare, un difetto, ma che io amavo esattamente come il resto; allo stesso modo ciò che voglio rivedere è la parte di Guermantes che ho conosciuta io, con la fattoria un po' distante dalle altre due che si rinserrano invece l'una all'altra all'inizio del viale delle querce; sono i prati dove, quando il sole li rende specchianti come stagni, si disegnano le foglie dei meli; è quel paesaggio che a volte, la notte, nei miei sogni, mi afferra nella sua individualità con una potenza quasi fantastica che al risveglio non so più ritrovare. 
Certo, avendo congiunto dentro di me, indissolubilmente e per sempre, delle impressioni diverse, solo perché me le hanno fatte provare in uno stesso tempo, la parte di Méséglise e la parte di Guermantes mi hanno esposto, nel prosieguo della mia vita, a molte delusioni e persino a molti errori. 
Spesso, infatti, ho voluto rivedere una persona senza rendermi conto che lo desideravo semplicemente perché mi ricordava una siepe di biancospini, e sono stato indotto a credere, a far credere alla reviviscenza di un affetto dal semplice desiderio di un viaggio. 
Ma persino in quel modo, e continuando a essere presenti in quelle fra le mie impressioni attuali cui possono riallacciarsi, esse danno loro un fondamento, una profondità, una dimensione che le altre non possiedono. 
Danno loro anche un incanto, un significato che per me solo hanno valore. 
Quando, nelle sere d'estate, il cielo armonioso ringhia come una belva e tutti si aggrondano per timore della tempesta, è alla parte di Méséglise che devo il gusto di restarmene solo, in estasi, a respirare, attraverso il fruscio della pioggia, l'odore di invisibili, persistenti lillà. 
E' così che, spesso, indugiavo fino al mattino a rievocare il tempo di Combray, le mie tristi sere senza sonno, i tanti giorni, anche, la cui immagine mi era stata di recente restituita dal sapore - che a Combray si sarebbe chiamato il "profumo" - di una tazza di tè e, per associazione di ricordi, quanto avevo appreso, molti anni dopoTutti quei ricordi sovrapposti gli uni agli altri formavano ormai una massa, ma questo non impediva di distinguere fra loro - fra i più antichi e i più recenti, nati da un profumo, e poi quelli che erano soltanto i ricordi di un'altra persona, dalla quale li avevo raccolti - se non delle fessure, delle faglie vere e proprie, almeno quelle venature, quelle screziature di colorazione che in certe rocce, in certi marmi, rivelano differenze d'origine, d'età, di "formazione". 
Certo, quando s'avvicinava il mattino la breve perplessità del mio risveglio era da tempo dissipata. 
Sapevo in quale camera mi trovavo realmente, l'avevo ricostruita intorno a me nell'oscurità e orientandomi con la sola memoria, oppure servendomi, come indicazione, d'un debole chiarore che era filtrato e in base al quale sistemavo le tende della finestra - l'avevo ricostruita per intero, arredandola come un architetto e un tappezziere decisi a rispettare le aperture originarie di porte e finestre, riabbassando gli specchi, riportando il cassettone al suo solito posto. 
Ma appena il giorno - e non, da me scambiato prima per il giorno, il riflesso di un'ultima brace su una bacchetta di rame tracciava nell'oscurità, come col gesso, la sua prima riga bianca e rettificatrice, la finestra con le sue tende lasciava subito il vano della porta dove l'avevo situata per errore mentre, per farle posto, lo scrittoio, installato là maldestramente dalla mia memoria, scappava velocissimo spingendo davanti a sé il camino e spostando il muro divisorio del corridoio; dove, un istante prima, si stendeva la stanza da bagno, regnava ora un cortiletto, e la casa che avevo ricostruita nelle tenebre era andata a raggiungere le case intraviste nel turbine del risveglio, messa in fuga dal pallido segno tracciato sulle tende dal dito levato del giorno. 
NOTE a cura di Alberto Beretta Anguissola e Daria Galateria. 
"Siate sicuri che, se l'autore vale qualcosa voi non afferrerete subito il suo pensiero [...] Non ch'egli non dica quello che vuole dire, o non lo dica con forza; ma questo pensiero egli non può esprimerlo tutto e, cosa ancora più strana, non vuole; ma lo esprime in maniera oscura, e con parabole, sì da poter essere sicuro che voi lo andrete cercando [...] Quando trovate un buon libro dovete chiedervi: Son io disposto a lavorare come un minatore?. John Ruskin, "Sesamo e i gigli" 
RAGIONI DI UN COMMENTO. 
Dopo la morte di Proust e la pubblicazione degli ultimi volumi del suo romanzo, la principale preoccupazione fu di raccogliere, prima che fosse troppo tardi, le preziose testimonianze di amici e conoscenti, mentre si approfondiva la discussione sull'importanza dell'opera e sul suo significato all'interno della letteratura europea. 
Poi, per qualche tempo, Proust divenne un autore imbarazzante e scomodo, che non si poteva non amare benché in contrasto con i postulati della cultura militante. 
In una terza fase, l'impetuosa trasformazione culturale degli anni '60 ha utilizzato anche Proust come termine di riferimento per meglio definire se stessa. 
La nuova critica cercava in lui un precursore illustre ed un laboratorio per perfezionare le tecniche di analisi dei testi. 
Non sono mancate le interpretazioni veramente nuove e rivelatrici, che avevano comunque almeno un elemento in comune con quelle più antiche: puntavano a cogliere la chiave di volta, il segreto di tutta l'opera, le leggi primarie della sua costruzione. 
L'aspirazione di fondo restava quella di ricondurre il molteplice verso una più semplice unità sfrondando l'essenza dai suoi accidenti ed estraendo dalle migliaia di pagine del libro 
  una citazione o una sequenza capaci di illuminare tutto il resto. 
A poco a poco, però, ci si è accorti che il testo proustiano non nasconde un segreto né cela sotto la sua crosta smagliante poche fondamentali equazioni ricorrenti. 
Ogni pagina ha i suoi enigmi, e questi sono indipendenti da quelli delle altre pagine: appena risolto un quesito, occorre ricominciare quasi da zero. 
Perciò l'interesse critico si va ora sempre più concentrando sul chiarimento di singoli luoghi opachi del testo, mentre decresce la passione per le interpretazioni globali. Con l'umiltà di chi ha rinunciato a scoprire nuove leggi di Newton o di Einstein e volge le spalle ai massimi sistemi per ficcare incuriosito lo sguardo nei minimi dettagli, ma anche con il buonumore di chi sa di avere imboccato una strada giusta, un piccolo esercito di esploratori del concreto si è messo a lavorare per chiarire le cose che nel testo proustiano appaiono poco chiare, che sembrano rinviare a qualcos'altro, somigliano a citazioni o a "pastiches" e aggiungono al senso immediato un senso semisegreto, un più complesso spessore. 
Non ci risulta che in nessun paese del mondo sia mai stata fatta un'edizione o una traduzione annotata di "A la recherche du temps perdu". 
L'edizione della Pléiade (1954) a cura di Pierre Clarac e André Ferré, possiede un robusto corredo critico, che tiene però conto quasi esclusivamente di problemi filologici di ripulitura e ricostituzione del testo con l'indicazione delle varianti, in un'accezione abbastanza ristretta del termine. 
Del resto non era forse possibile fare altrimenti, perché se si fosse voluto tener conto di tutte le diverse stesure del testo proustiano rintracciabili nei manoscritti, il lavoro dei curatori si sarebbe forse per sempre smarrito in un inestricabile groviglio di labirinti sovrapposti e incrociati. 
E inoltre: non potremmo considerare tutto il "Jean Santeuil" come una prima stesura abortita, e quindi come una variante della "Recherche"? Già molti hanno espresso la fondata opinione che una vera edizione critica del romanzo proustiano sia impresa impossibile. 
Quello che a noi sembra comunque paradossale è il fatto che esistano edizioni accuratamente commentate di certi manoscritti di Proust o della sua corrispondenza, mentre lo stesso non può dirsi per la parte più importante della sua opera. 
Grazie a Philip Kolb, ad esempio, sappiamo quasi tutto sui segreti del "Carnet de 1908" (diversi studiosi lo ritengono il primo taccuino pervenutoci di appunti e progetti per la composizione del romanzo); molto meno sappiamo sulle zone d'ombra di "Un amour de Swann". 
Eppure, una delle prime cose che saltano agli occhi, quando si inizia la lettura di "Combray" e si intraprende il lungo viaggio verso il "Temps retrouvé", è proprio la straripante quantità di allusioni, citazioni, riferimenti a persone, cose, libri, quadri, opere musicali, leggende, fiabe, proverbi, statue, chiese, luoghi di ogni latitudine e longitudine e avvenimenti di tutte le epoche storiche. 
Subito il lettore è indotto a chiedersi: Ma questo è un romanzo, o è una "satura" infarcita di elementi tratti dall'intero scibile umano?. 
Non è soltanto il Narratore, nella sua duplice funzione di protagonista e di tessitore del racconto, ad apparirci fin dalle prime pagine contagiato da una strana malattia: il bisogno di istituire confronti e di trarre da ogni circostanza pretesti per parlare di qualcos'altro. 
Sono proprio i personaggi, tutti i personaggi - da Franoise a Legrandin, da Cottard a Brichot, da Albertine a Robert de Saint-Loup che sembrano esistere solo nella misura in cui, come l'uomo di Pascal bramoso di alienarsi nel "divertissement", riescono ad estraniarsi in innumerevoli e spesso difficilmente decifrabili punti di fuga al di fuori della loro situazione concreta, in mille vie d'uscita oltre lo spazio e il tempo del romanzo. 
Incessantemente essi negano il loro ruolo di marionette azionate da un ignoto burattinaio e penetrano furtivamente e allusivamente nel tempo della nostra vita, della nostra memoria o del nostro oblio collettivo, delle opere d'arte che anche noi amiamo. 
Questo bisogno quasi patologico di estraniazione carica il romanzo di una straordinaria forza centrifuga ed esplosiva. 
Il testo proustiano è proteso verso l'altro-da-sé, può inglobare ogni materiale eterogeneo, travolgere gli argini e inondare la nostra esistenza, spazzando via protezioni faticosamente costruite. 
E il Narratore - questa figura così antica ma in Proust così nuova - si muove in una dimensione intermedia, per metà dentro il racconto e per l'altra metà dalla parte di chi lo ascolta. 
L'ammiccante e complice "mitoyenneté" di chi narra - che rende la "Recherche" dissimile da ogni precedente romanzo - è resa possibile proprio dall'esistenza di questo fitto reticolato di allusioni spesso enigmatiche a dati reali, storici, che non servono tanto a conferire al racconto un superfluo certificato di veridicità, quanto a trascinare storia, cronaca e cultura in una diversa dimensione, dentro un gioco narrativo a volte festoso, più spesso tragico, come se Proust avesse avuto in animo di far sì che i suoi lettori diventassero anch'essi dei personaggi potenziali del romanzo. 
Anche per questo tra "fabula" e realtà si innesta un denso e vago strato di citazioni e riferimenti immaginari o inesatti o volutamente deformati, quasi a dimostrare che tra arte e vita l'antitesi si è dissolta, essendo entrambe contaminate dalla soggettività e dalla finzione. 
Ogni lettore è - con maggiore o minore impegno e con strumenti abbondanti o scarsi - un annotatore della "Recherche", il cui testo chiede di essere annotato, perché non potrebbe funzionare con piena efficacia se non venissero azionati tutti i congegni inventati da Proust per dire senza dire, per lasciare intendere negando. 
A chi legge è affidato il compito di rendere espliciti gli impliciti significati ulteriori. 
Il romanzo è infatti scritto sulla base di questo presupposto: la buona lettura è un atto creativo e il piacere estetico consiste nel cercare, non nella fruizione passiva di una bellezza preconfezionata. 
Occorre innanzitutto ricostruire o restaurare la ricca trama di cognizioni culturali, mondane, quotidiane o storiche che era immediatamente presente al parigino colto del primo Novecento, ma è divenuta estranea al lettore di oggigiorno. 
Il mondo in cui Proust è vissuto, gli interessi e le preoccupazioni di allora si sono così allontanati che, per leggere la "Recherche", si impone uno sforzo di immersione in un tempo e in uno spazio diversi non meno arduo, per certi aspetti, di quello necessario per penetrare la "Commedia" dantesca. 
Alcuni enigmi sono però strutturali e indipendenti dal volgere degli anni. 
In molti casi lo scrittore si è divertito a giocare a nascondino col lettore e ha voluto circondarlo di una spessa siepe di punti interrogativi. 
Talvolta, rendendo esplicita un'allusione segreta, si getta una luce inattesa - per lo più una luce sulfurea, tragica, feroce - su elementi del racconto apparentemente innocenti e idilliaci. 
Il testo si stratifica allora su due o più livelli: una crosta fenomenica contaminata dalla menzogna, costituita dalla linea principale del racconto, e sotto a questa il nucleo profondo, noumenico dei significati, al quale ci guidano proprio i riferimenti a prima vista più estemporanei ed esterni all'azione. 
In questo senso il romanzo di Proust è veramente, e alla lettera, un palinsesto, secondo la felice ma ancora metaforica intuizione di Gérard Genette (cfr. "Proust palimpseste", in "Figures", Paris, Ed. du Seuil, 1966, pp. 39-67). 
Oppure è come un affresco di età paleocristiana su cui sia stato passato uno strato di intonaco, riaffrescato a sua volta nel Rinascimento e poi ricoperto da una terza incrostazione ottocentesca. 
Qua e là affiorano frammenti degli strati più profondi, e queste spie, questi segnali incaricati di attrarre l'attenzione del visitatore sono assai sovente, nel libro, proprio i riferimenti meno essenziali, quelli su cui la grande maggioranza dei lettori sorvola. 
Qualche esempio: in "Combray" quasi tutte le allusioni si riallacciano con ossessiva consapevolezza al tema edipico, esplorato nelle sue più crudeli e perverse variazioni, mentre il racconto sembra solo accennarvi con ignaro e dolcissimo candore; il nome proprio della nonna, Bathilde, e quelli di alcuni re merovingi, che parrebbero citati a caso, celano e al tempo stesso svelano casi efferati di odi e violenze familiari: madri spietate o vittime, parricidi, infanticidi, fratricidi; un innocente fiore di campo e un riferimento a Balzac bastano a trasformare un invito a pranzo in un tentativo di seduzione omosessuale; molte cose possono insegnarci sull'amore tra Swann e Odette la trama di una commedia o le città nei cui musei sono custoditi certi quadri di Vermeer; alla luce velata di inquietanti paragoni con persone di sesso opposto anche l'universo gioioso e primaverile delle fanciulle in fiore, superficialmente immune da sospetti, soggiace all'inespressa ipotesi di contaminazione da parte di un vizio minaccioso e innominabile. 
Il più delle volte le citazioni e i riferimenti svolgono una funzione anticipatrice. 
E' come se, nella "Recherche", l'Io-che-cita sapesse fin dall'inizio molte più cose dell'Io-che-racconta. 
Questi sembra deliberatamente immerso nell'illusione, nell'errore nel mito, mentre l'altro - onnisciente e invisibile - tace e solo di tanto in tanto bisbiglia le sue profezie e formula enigmi. 
C'è quindi una sfasatura cronologica, per quanto riguarda l'ampiezza del registro semantico, tra la "fabula" e il sistema dei riferimenti. 
Come i temi musicali wagneriani accompagnano le peripezie degli eroi assumendo forme e significati sempre nuovi, così anche le citazioni proustiane vivono nella quarta dimensione - quella del Tempo - e ricompaiono, dopo un ampio arco narrativo, metamorfosate e dotate di una nuova valenza espressiva che talora contraddice la precedente. Tutta la serie delle allusioni al teatro di Racine possiede, ad esempio, una sua durata che le trasforma stabilendo un legame sempre più stretto e dissacrante tra la poesia tragica del grande classico seicentesco e l'omosessualità di M. de Charlus. 
Il tema di Fedra - la madre incestuosa che provoca la morte del figliastro colpevolmente amato - ha nella "Recherche" uno spessore così intenso da fare di quella mitologica eroina quasi un personaggio primordiale del romanzo, una specie di protagonista sotterraneo, invisibile che si incarna di volta in volta in questa o quella figura fenomenica (la madre, la nonna, la Berma, Madame de Sévigné, Madame de Marsantes, lo stesso Narratore, Charlus...) per consegnarci le sue velenose gocce di verità. Generalmente questi motivi culturali fanno una prima apparizione quasi casuale e neutra per riaffiorare più tardi impregnati di acidi corrosivi. 
Le memorie della Principessa Palatina e il saint-simoniano maresciallo di Villars sono dapprima citati solo per rafforzare certe osservazioni su problemi di linguaggio e di stile, ma con un effetto/sorpresa paragonabile alle rivelazioni sulla vera natura di Saint-Loup o di Legrandin - tornano una seconda volta a parlarci dell'inversione sessuale. 
Confrontando il testo della "Recherche" con i manoscritti delle versioni preparatorie, si scopre che uno dei criteri seguiti da Proust nel suo complesso procedimento di riscrittura è stato la volontà di occultare il più possibile alcuni significati, inizialmente troppo espliciti, del suo libro. 
Unici testimoni sopravvissuti di quell'aperta intenzionalità semantica, soltanto i segni culturali ci consentono ora di intraprendere un fecondo lavoro di decifrazione e di scavo. Ma perché tanta ansia di segretezza? Vi è certamente un po' del dandysmo compositivo di chi nel "Temps retrouvé" scrive: Un'opera in cui ci sono delle teorie è come un oggetto su cui viene lasciato il cartellino del prezzo. 
Ma soprattutto è la scelta di coinvolgere il lettore in una ricerca impegnativa, ponendolo di fronte a quell'oscurità parziale che - secondo il Ruskin di "Sesamo e i gigli" - è il contrassegno delle opere davvero grandi. 
La crudele reticenza dei saggi - scrive Ruskin - li spinge a nascondere i pensieri più profondi. 
Essi non ce li offrono come sussidio, ma come ricompensa e vogliono assicurarsi che noi li meritiamo, prima di permetterci di afferrarli. 
E in una nota della sua traduzione, Proust spiega che ciò non avviene per un capriccio, ma perché comprendere vuol dire eguagliare, raggiungere dentro di sé la medesima profondità attinta dall'autore. 
Se proprio quel che più conta deve essere celato da mille veli, quando si scopre che un riferimento o un tema, man mano che il testo della "Recherche" si avvia alla forma definitiva, tendono a sprofondare verso gli strati meno visibili, si può affermare, senza nessun paradosso, che si tratta di cose davvero importanti. 
E dunque argomenta ancora Ruskin - vale la pena di rimboccarsi le maniche fino ai gomiti, lavorando con vanghe, pale, altiforni e ceselli per poter raccogliere una scaglia di quell'oro che è il simbolo materiale della saggezza. 
Questo sforzo commenta Proust solo il desiderio e l'amore ci danno la forza di compierlo. A. 
B. A. 
AVVERTENZA. 
Il labirintico gioco dei riferimenti, che costituisce quasi un secondo testo parallelo al primo, è illustrato in queste note. 
Vi sono però nella "Recherche" dei segreti provvisori che restano oscuri solo alla prima lettura, ma che il testo stesso nella sua completezza consente di decifrare. 
Ci siamo chiesti se fosse opportuno, in questi casi, anticipare in nota una scoperta che lo scrittore ha voluto ritardare; mettere a disposizione del lettore una specie di memoria artificiale. 
Il piacere del testo - riteniamo - è fatto anche di ignoranza, "suspense", penombre, sospetti che lentamente prendono consistenza e trovano conferma, improvvisi rovesciamenti del punto di vista. 
La maliziosa miscela di apparenza e verità è stata così ben dosata dallo scrittore che si spezzerebbe un delicato equilibrio col far troppa luce e con troppa fretta. 
Perciò, a parte qualche rara eccezione, abbiamo preferito lasciare al lettore la soddisfazione di dipanare da solo la ragnatela di equivoci ed inganni da cui all'inizio si trova avvolto. 
Ma questo lavoro di annotazione non sarebbe stato possibile senza un'altra, ben più rilevante, autolimitazione: la rinuncia ad affrontare i problemi filologici del testo proustiano. Se avessimo voluto occuparci in modo adeguato anche di tali questioni, non sarebbe bastato un intero volume di apparato critico, certamente sproporzionato nel caso di una traduzione italiana. 
Né avrebbe avuto senso pubblicare solo le varianti più belle o quelle più lunghe. 
E' stato quindi preso per buono il testo della Pléiade, dal momento che per ora non ne esiste uno migliore. 
Se in alcuni casi abbiamo tenuto conto dei manoscritti e delle varianti, è stato per un interesse extrafilologico, cioè perché in quel manoscritto o in quella variante era contenuta la risposta a un quesito che ci eravamo posti, perché vi affiorava più scopertamente in superficie un'intenzionalità semantica che nella stesura definitiva è stata ricoperta da molti veli, ma non per questo annullata. 
Il lettore non troverà quindi in queste note un'esauriente discussione sulle varie fasi di composizione della "Recherche", né gli diremo quando Proust ha incominciato a scriverla e in quale rapporto stanno tra loro il romanzo e il progettato saggio contro il metodo critico di Sainte-Beuve. 
Non parleremo della spinosa questione del nesso tra il racconto in terza persona di "Un amour de Swann" e il resto del romanzo in prima persona, né delle trasformazioni e degli arricchimenti che subì via via l'originario progetto proustiano. 
In appendice al terzo volume il lettore troverà un Indice dei nomi di persone, luoghi e cose: quasi un piccolo dizionario enciclopedico del mondo proustiano. 
Vi abbiamo convogliato alcune annotazioni di carattere più strettamente informativo e meno ricche di potenzialità ermeneutiche, cioè non inseparabilmente legate alla migliore comprensione della singola pagina, e tra esse tutte quelle necessarie per ricostruire le cosiddette chiavi dei personaggi. 
Tra note e voci dell'indice esiste comunque una stretta complementarietà. 
Se non è indicato il nome del traduttore di un testo in lingua straniera citato in nota, è da intendersi che si tratta di una nostra traduzione. 
Tranne che per i testi poetici e quelli per cui l'originale risultava particolarmente significativo, ci siamo limitati alla sola traduzione, rinviando però alla pagina dell'edizione francese o inglese, affinché il lettore possa proseguire per suo conto la nostra ricerca. 
Nel concludere il lavoro di annotazione di questo primo volume, sentiamo il bisogno di ringraziare coloro che ci hanno in particolar modo aiutato. 
La nostra affettuosa riconoscenza va innanzitutto a Giovanni Macchia, che è stato per noi una fonte inesauribile e paziente di suggerimenti e informazioni e ci ha inoltre consentito di utilizzare per le nostre ricerche la sua eccezionale biblioteca. 
Troppo lungo sarebbe l'elenco di tutte le cose che senza il suo aiuto non avremmo potuto scoprire. 
Ringraziamo inoltre Philip Kolb e Bernard Brun, che attraverso un fitto scambio epistolare ci hanno gentilmente fornito la soluzione di alcune difficoltà. 
E infine desideriamo esprimere la nostra gratitudine a Marco Beck, per il suo stimolante lavoro di revisione, e a Luciano De Maria, amabile e coraggioso organizzatore della cultura, al quale va il merito di avere ideato la complessa struttura di questa nuova edizione di Proust e, per quanto ci riguarda, di averci seguito con intelligente e vigile amicizia. A. B. A. 
D. 
G. 
SIGLE. 
BSMP: Bulletin de la Société des amis de Marcel Proust et des amis de Combray. 
CG: "Correspondance générale de Marcel Proust", publiée par Robert Proust et Paul Brach: t. 1: Lettres à Robert de Montesquiou (1893-1921); t. 2: Lettres à la comtesse de Noailles (1901-1919); t. 3: Lettres à Monsieur et Madame Sydney Schiff, Paul Souday, etc...; t. 4: Lettres à P. Lavallée, J.-L. Vaudoyer, etc...; t. 5: Lettres à Walter Berry, etc...; t. 6: Lettres à Monsieur et Madame Emile Straus, etc... 
Choix: M. Proust, "Choix de lettres", a c. di Ph. 
Kolb, con prefazione di J. de Lacretelle, Plon, 1965. 
Chr.: M. Proust, "Chroniques", Gallimard, 1927. 
CMP: Cahiers Marcel Proust, nouvelle série, 1-11, Gallimard, 19701982: 1 - S. Béhar, "L'Univers médical de Proust", 1970; 2 - M. Bibesco, "Au bal avec Marcel Proust", 1971 (prima ed.: 1928); 3 - M. Proust, "Textes retrouvés", a c. di Ph. 
Kolb 1971; 4 - J. Cazeaux, "L'Ecriture de Proust ou l'Art du vitrail", 1971; 5 - M. Duplay, "Mon ami Marcel Proust, souvenirs intimes", 1972; 6 - "Etudes proustiennes" 1, 1973; 7 - "Etudes proustiennes" 2, 1975; 8 - "Le Carnet de 1908", a c di Ph. 
Kolb, 1976; 9 - "Etudes proustiennes" 3, 1979; 10 - "Poèmes", a c. di Cl. 
Francis e F. Gontier, 1982; 11 - "Etudes proustiennes" 4, "Proust et la critique anglo-saxonne", 1982. 
Corr.: M. Proust, "Correspondance", a c. di Ph. 
Kolb, tt. 1-9, 18801909, Plon, 1970-1982. 
CSB: M. Proust, "Contre Sainte-Beuve, précédé de Pastiches et mélanges et suivi de Essais et articles", a c. di P. Clarac e Y. Sandre, Gallimard, 1971, Bibliothèque de la Pléiade. c.s.b.: M. Proust, "Contre Sainte-Beuve, suivi de Nouveaux mélanges", a c. di B. de Fallois, Gallimard, 1954. 
Daudet: L. Daudet, "Autour de soixante lettres de Marcel Proust", in Les Cahiers Marcel Proust, n. 5, Gallimard, 1928. 
JS: M. Proust, "Jean Santeuil, précédé de Les Plaisirs et les jours", a c. di P. Clarac e Y. Sandre, Gallimard, 1971, Bibliothèque de la Pléiade. j.s.: M. Proust, "Jean Santeuil", a c. di B. de Fallois, con prefazione di A. Maurois, Gallimard, 1952, tt. 1-3. 
LNRF: M. Proust, "Lettres à la Nouvelle Revue Franaise", Gallimard, 1932. 
LR: M. Proust, "Lettres retrouvées", a c. di Ph. 
Kolb, Plon, 1966. 
LRH: M. Proust, "Lettres à Reynaldo Hahn", a c. di Ph. 
Kolb, con prefazione di E. Berl, Gallimard, 1956. 
Mère: M. Proust, "Correspondance avec sa mère 1887-1905", a c. di Ph. 
Kolb, Plon, 1953. 
Rivière: M. Proust e J. Rivière, "Correspondance 1914-1922", a c. di Ph. 
Kolb, con prefazione di J. Mouton, Gallimard, 1976. 
RTP: M. Proust, "A la recherche du temps perdu", a c. di P. Clarac e A. Ferré, Gallimard, 1954, Bibliothèque de la Pléiade: t. 1: "Du cté de chez Swann"; "A l'ombre des jeunes filles en fleurs"; t. 2: "Le Cté de Guermantes"; "Sodome et Gomorrhe"; t. 3: "La Prisonnière", "La Fugitive", "Le Temps retrouvé". 
Straus: M. Proust, "Correspondance avec Madame Straus", con prefazione di S. Mante-Proust, Le livre de Poche, 1974. 
TR: M. Proust, "Textes retrouvés, recueillis et présentés par Ph. 
Kolb et Larkin B. Price, avec une Bibliographie des publications de Proust (1892-1967)", Urbana, University of Illinois Press, 1968. 
DALLA PARTE DI SWANN a cura di Alberto Beretta Anguissola. 
Dopo il rifiuto degli editori cui Proust si era dapprima rivolto, "Dalla parte di Swann" (Du cté de chez Swann") fu pubblicato da Bernard Grasset a spese dell'autore e comparve in libreria il 14 novembre del 1913. 
Questa edizione originale del primo volume di "Alla ricerca del tempo perduto" ("A la recherche du temps perdu") reca l'indicazione del sommario di quelli che - se non fosse scoppiata la guerra, durante la quale Proust arricchì considerevolmente il suo libro - sarebbero stati i due volumi successivi, previsti per l'anno seguente: Saranno pubblicati nel 1914: "La parte di Guermantes" (Intorno a Madame Swann - Nomi di paesi: il paese - Primi abbozzi del barone di Charlus e di Robert de Saint-Loup - Nomi di persone: la duchessa di Guermantes - Il salotto di Madame de Villeparisis). 
Un vol. in - 18 jésus... 3fr. 50. 
"Il tempo ritrovato" (All'ombra delle fanciulle in fiore - M. de Charlus e i Verdurin - Morte di mia nonna - Le intermittenze del cuore- I "Vizi" e le "Virtù" di Padova e di Combray - Madame de Cambremer - Matrimonio di Robert de Saint-Loup - L'Adorazione perpetua). Un vol. in - 18 jésus... 3fr. 50. 
In seguito al pentimento di Gide e degli altri collaboratori della Nouvelle Revue Franaise che nel 1912 avevano respinto il dattiloscritto di Swann e dopo alterne trattative con Grasset, questi accettò di cedere i suoi diritti alle Editions de la Nouvelle Revue Franaise (Gallimard), che si assicurarono così la proprietà letteraria dell'intero romanzo. 
Nel 1917 uscì la seconda edizione di "Dalla parte di Swann" (Paris, Ed. de la NRF, 1 vol.), con alcune modifiche rispetto a quella originale di Grasset. 
Ma anche per questa edizione, com'era già avvenuto per la prima, Proust trascurò la revisione delle bozze, essendo soprattutto impegnato nella stesura dei volumi successivi, passati ormai da due a sei ("All'ombra delle fanciulle in fiore", "La parte di Guermantes", "Sodoma e Gomorra", "La prigioniera", "La fuggitiva", "Il tempo ritrovato"). Man mano che cresceva nel pubblico dei lettori l'apprezzamento per l'opera di Proust e si andava delineando la consapevolezza critica dell'importanza della "Recherche" nel panorama letterario del Novecento, aumentava anche l'insoddisfazione per un'edizione estremamente imprecisa e infarcita di errori, un'edizione che - tanto per fare un esempio - nella premessa al suo libro su Proust del 1931 Samuel Beckett definiva abominevole. 
Ma il primo a protestare era stato lo stesso Proust, che aveva indirizzato a Gaston Gallimard e a Jacques Rivière lettere indignate. 
Lungamente attesa da tutti coloro che avevano imparato ad amare i libri di Proust, nella Bibliothèque de la Pléiade (Gallimard) uscì nel 1954 una nuova edizione della "Recherche" in tre volumi, curata da P. Clarac e A. Ferré. 
Su di essa si basa la presente traduzione di Giovanni Raboni. 
Il lavoro di Clarac e Ferré non pretende di essere una vera edizione critica, anche perché i due curatori, per non addentrarsi in un labirinto senza vie d'uscita, non ritennero di dover utilizzare che in minima misura i manoscritti proustiani, per altro in parte smarriti e in quegli anni difficilmente consultabili. 
Solo all'inizio degli anni '60, infatti questi manoscritti sono stati ceduti dagli eredi alla Bibliothèque Nationale di Parigi, e da allora ha avuto inizio un'interessante ricerca che ha consentito di raggiungere nuovi risultati. 
Il primo a servirsi sistematicamente dei manoscritti proustiani è stato M. Bardèche per il suo libro "Marcel Proust romancier" (2 voll., Paris, Les Sept Couleurs, 1971). Molte pagine dei manoscritti sono state stampate e commentate in alcune pubblicazioni specializzate e, tra l'altro, nei Cahiers Marcel Proust di cui l'editore Gallimard ha ripreso la pubblicazione a partire dal 1970 (si vedano in particolare i nn. 6, 7, 8, 9). 
Per stabilire un testo non filologicamente perfetto ma generalmente accettabile di "Dalla parte di Swann", Clarac e Ferré si sono limitati a confrontare tra loro l'edizione Grasset del 1913, quella della NRF del 1917 e le bozze incomplete dell'edizione Grasset, alcune delle quali recano correzioni autografe dell'autore. 
Come testo di base hanno adottato l'edizione del 1917, riportando in nota tutte le varianti. 
Le note dell'edizione della Pléiade riportano invece il testo dell'edizione 1917 quando i due curatori hanno giudicato preferibile il testo della prima edizione, o quando hanno di loro iniziativa apportato delle correzioni per eliminare errori palesi. 
Evidentemente, se essi avessero incluso nel concetto di varianti tutte le diverse stesure di uno stesso episodio trasmesseci da Proust nei suoi manoscritti, con ogni probabilità non avrebbero ancora portato a termine un lavoro che molti studiosi di Proust ritengono a priori irrealizzabile. 
Come già è stato spiegato, ci è sembrato inopportuno riprodurre in un'edizione italiana un analogo corredo di note filologiche al testo, e lo abbiamo sostituito con note di carattere esplicativo che - ci auguriamo - dovrebbero costituire, nell'ambito degli studi proustiani, un'interessante novità. 
Nota a. Gaston Calmette (1859-1914) fu direttore del Figaro dal 1900 al 16 marzo 1914, quando venne tragicamente ucciso nel suo ufficio a colpi di pistola da Madame Caillaux, la moglie del ministro delle Finanze. 
Contro il progressista Joseph Caillaux, che aveva presentato un progetto di imposta sul reddito, Calmette aveva fatto pubblicare articoli aspramente polemici, cedendo alle pressioni degli ambienti conservatori che finanziavano il giornale. 
In uno di essi si minacciavano rivelazioni scandalistiche sulla vita privata del ministro e sul passato di sua moglie. 
Costei decise quindi di vendicare il suo onore offeso. 
Proust era stato presentato a Calmette da Léon Daudet e, divenutone amico, poté pubblicare sul Figaro numerosi articoli, il primo dei quali, "Pèlerinages ruskiniens en France", uscì il 13 febbraio 1900. 
Prima della pubblicazione di Swann, apparvero sul Figaro quattro estratti del romanzo. 
Di qui la gratitudine, alla quale si aggiungeva, nell'abile strategia letteraria messa in atto da Proust per lanciare il suo romanzo, la speranza di poter ottenere da quel giornale recensioni positive. 
Così infatti avvenne. 
Il Figaro pubblicò il 27 novembre 1913 un articolo su "Swann", pieno di entusiasmo e di acute osservazioni, firmato da Lucien Daudet, amico di Proust fin dall'adolescenza (cfr. G. Painter, "Marcel Proust", trad. it., Milano, Feltrinelli, 1965, pp. 531-2; 536). 
COMBRAY. 
Nota 1. 
Cfr. 
H. Bergson, "Matière et mémoire", Edition du centenaire, Presses universitaires de France, 1970, p. 295: Un essere umano che sognasse la sua esistenza invece di viverla terrebbe senza dubbio sotto il suo sguardo, in ogni momento, la moltitudine infinita dei dettagli della sua storia passata. 
L'analogia, anche sintattica, è sorprendente, ma Bergson parla qui del sogno come atteggiamento esistenziale disinteressato e contemplativo, antitetico rispetto a quello utilitario: Ma se il nostro passato resta per noi quasi interamente nascosto essendo inibito dalle necessità dell'azione presente, ritroverà la forza di varcare la soglia della coscienza ogni volta che noi ci disinteresseremo dell'azione effficace per ricollocarci, in qualche modo, nella vita del sogno (ivi). 
E' un sognare ad occhi aperti, un'ipotesi che in ogni momento possiamo preferire e rendere attuale, come se il riaffiorare della memoria inconscia fosse non un avvenimento raro e casuale, ma una libera scelta. 
Tra i molti interventi critici sul rapporto tra Proust e Bergson, si può vedere, ad esempio, il libro di Joyce N. Megay, "Bergson et Proust. Essai de mise au point de la question de l'influence de Bergson sur Proust", Paris, Vrin, 1976. 
Nota 2. 
Sui luoghi abitati e conosciuti da Proust che possono aver ispirato Combray, i suoi edifici, le strade, i giardini e i villaggi adiacenti, si veda la Cronologia ; si rinvia, anche, all'Indice dei nomi che figurerà in appendice al terzo volume della presente edizione. 
Per quanto riguarda i motivi che possono aver indotto lo scrittore a scegliere questo nome, è opportuno ricordare che in Normandia esiste un villaggio chiamato Combray; che nei pressi di Méréglise (e quindi non lontano da Illiers) c'è un piccolo paese chiamato Combres; che a Combourg, in Bretagna, Chateaubriand trascorse l'adolescenza. 
Ma l'ipotesi forse più verosimile è che, foggiando questo toponimo, Proust abbia voluto rendere omaggio - quasi una segreta dedica sentimentale - al suo caro amico Bertrand de Fénelon, che vantava tra i suoi antenati l'omonimo scrittore seicentesco, anch'egli autore di un "Bildungsroman", un romanzo di formazione ("Les Aventures de Télémaque"). Franois de Salignac de la Mothe Fénelon (1651-1715) fu arcivescovo di Cambrai in Fiandra, e venne soprannominato il cigno di Cambrai: da cigno (in inglese "swan", in tedesco "Schwan") potrebbe derivare anche il nome di Swann. 
Nota 3. 
A partire dal febbraio del 1893 Le Journal des Débats cominciò a pubblicare un'edizione della sera su carta rosa anziché bianca. 
Nota 4. 
Stile di arredamento settecentesco con elementi classicheggianti, vivace ma più sobrio del rococò. 
Nota 5. 
Eroina di una saga popolare diffusasi nel corso del medioevo. 
Dovendo raggiungere l'esercito che Carlo Martello (714-41) guidava in una campagna contro gli Arabi, il conte palatino di Treviri, Sigfrido, si separò dalla moglie Genoveffa, figlia del duca di Brabante, affidandola al suo siniscalco, Golo. 
Questi tentò invano di sedurla e, per vendicarsi del rifiuto subìto, la accusò falsamente di adulterio presso lo sposo, la fece condannare a morte e fu incaricato di provvedere all'esecuzione della sentenza. 
Ma coloro ai quali Golo aveva delegato l'uccisione di Genoveffa, ebbero pietà di lei e si limitarono ad abbandonarla in una foresta con il bambino di cui, nel frattempo, era divenuta madre. 
Genoveffa si nutrì di frutti selvatici e di radici, e il bambino fu alimentato col latte di una cerva addomesticata. 
Molti anni dopo, il conte Sigfrido si imbatté, andando a caccia, in questa cerva, che, fuggendo, corse verso la sua padrona. 
I due sposi si riconobbero e Genoveffa riuscì a dimostrare la sua innocenza, trionfando così del malvagio Golo, che fu squartato. 
Più volte ripresa in romanzi ed opere teatrali, questa leggenda era stata scelta ad argomento di un'operetta di Jacques Offenbach (1819-80) su testo di Hector Crémieux (1828-92), rappresentata ai Bouffes-Parisiens nel 1859. 
Rimaneggiata e arricchita, approdò nel 1875 al Thétre de la Gaité, come opera in cinque atti, e vi riscosse uno straordinario successo. 
Nota 6. 
Tonalità di colore intermedia tra il bruno, il rossiccio e il viola con riflessi dorati. 
Nota 7. 
Il periodo merovingio, durante il quale regnò la prima dinastia di sovrani franchi, si protrasse dal 428 al 751. Nota 8. 
Il nome proprio della nonna sembra essere tutto ciò che resta, nel testo definitivo di "Dalla parte di Swann", di una serie di riferimenti, rintracciabili nei manoscritti, alla tragica vicenda dei due figli del re merovingio Clodoveo Secondo (639-57), che il padre condannò - secondo la leggenda - al supplizio dello snervamento (distruzione per bruciatura dei legamenti nervosi dei piedi) per punirli della loro ribellione contro la madre Bathilde. 
Già nella prima edizione del "Contre Sainte-Beuve" curata da Bernard de Fallois leggiamo, dopo la descrizione di una foresta che circonda Guermantes: E dall'altra parte, in basso, il fiume in cui furono deposti gli snervati di Jumièges (p. 286). 
Dopo la mutilazione i due figli di Clodoveo furono infatti abbandonati in una barca in mezzo alla Senna e vennero poi soccorsi e curati nell'eremitaggio di San Filiberto, che sorgeva sul luogo dove fu in seguito costruita l'abbazia di Jumièges, alla quale Proust si è certamente ispirato per la descrizione della chiesa di Combray. 
Lo stesso tema figura nelle varianti raccolte e commentate da Claudine Quémar, in "L'Eglise de Combray, son curé et le Narrateur", in "Etudes proustiennes" 1 (CMP 6, pp. 277- 342). 
Nel saggio "Proust et la nuit mérovingienne", ripubblicato come annesso al volume "Proust et le monde sensible" (Paris, Ed. du Seuil, 1974), Jean-Pierre Richard spiega la funzione espressiva delle allusioni al passato merovingio di Combray in rapporto all'intreccio di sentimenti edipici e sensi di colpa che sconvolgono l'apparentemente serena vita familiare. Dando alla nonna il nome di una madre crudele, Proust allude alla reversibilità del rapporto tra vittima e carnefice all'interno di un universo sadico. Nonna e madre sono figure che tendono a sconfinare l'una nell'altra, e Bathilde è dunque nel romanzo anche la madre che, concedendo al figlio il bacio proibito e giustificandone come malattia le colpe morali, contribuisce a determinare l'annientamento della sua volontà, cioè a snervarlo come gli infelici figli di Clodoveo. 
Nelle note al saggio citato, la Quémar ricorda una pagina della "Histoire de France" del Michelet (un libro che Proust conosceva bene) a proposito della degenerazione degli ultimi sovrani merovingi: Il simbolo di questa razza sono gli snervati di Jumièges, questi giovani principi cui sono state tagliate le articolazioni e che se ne vanno su una barca lungo il corso del fiume che li trasporta all'Oceano; ma vengono raccolti in un monastero. Non è escluso però che il nome Bathilde sia un semplice riferimento stendhaliano. 
Nella prefazione alla sua traduzione della "Bibbia di Amiens" di John Ruskin (ora in CSB, p. 136), per criticare l'idolatria, cioè un certo snobismo, un'insincerità estetica, che gli sembrava di riscontrare sia nello stesso Ruskin sia nello scrittore Robert de Montesquiou, Proust si chiede: A meno di non farlo per un semplice complimento estetico, dobbiamo davvero preferire una persona perché si chiama Bathilde come l'eroina di "Lucien Leuwen"?. 
Bathilde è in effetti il nome di Madame de Chasteller, l'aristocratica di provincia amata da Lucien a Nancy. 
Nota 9. 
Nel saggio "Charlus dans le métro ou pastiche et cruauté chez Proust" (in "Etudes proustiennes" 3, CMP 9, p. 15), Marcel Muller osserva che viene qui per la prima volta stabilito un legame sadico tra il piacere sessuale e il dolore inflitto alla vittima. 
I tormenti della nonna Bathilde spingono il N. a rifugiarsi in lacrime nel gabinetto, luogo riservato alla masturbazione infantile, dalla cui finestra si scorgeva Roussainville, prima incarnazione di Sodoma, dove ha luogo l'iniziazione erotica di Gilberte Swann. Nota 10. 
Taglio di capelli, a spazzola sul davanti e lunghi dietro, messo in voga dall'attore Jean-Baptiste-Prosper Bressant (1815-86), che divenne socio della Comédie-Franaise nel 1854, dopo aver ottenuto grandi successi recitando per sette anni a Pietroburgo. 
Era considerato il miglior primo giovane del suo tempo. 
In una fotografia che lo ritrae venticinquenne, Charles Haas - il principale modello di Swann - ha effettivamente i capelli tagliati a spazzola. Nota 11. 
In inglese "jockey" significa fantino. 
Verso la metà del Settecento, alcuni aristocratici inglesi fondarono a Newmarket il primo Jockey Club, che aveva per obiettivo il miglioramento delle razze equine e l'organizzazione delle corse di cavalli. 
Nel 1833 nacque a Parigi un'analoga associazione. 
Tra i quattordici membri fondatori, c'erano i più bei nomi dell'aristocrazia: il duca d'Orléans, il duca di Nemours, il principe della Moskowa, lord Henry Seymour... Estremamente severe le norme che regolavano l'ammissione: l'aspirante doveva ottenere il giudizio favorevole, unanime e segreto, di una commissione formata da sei soci; per essere esclusi era sufficiente che al termine della votazione, l'urna contenesse anche una sola palla nera. 
A Parigi la sede del Club fu dapprima in rue du Helder, poi in rue Grange-Batelière, quindi in rue de Grammont, e agli inizi del Novecento all'angolo tra boulevard des Capucines e rue Scribe. 
Nota 12. 
Il conte di Parigi è Louis-Philippe-Albert d'Orleans (183894), pretendente al trono francese con il titolo di Filippo Settimo. 
Esule prima in Germania, poi in Inghilterra, nel 1861 partecipò alla guerra di secessione americana nelle file nordiste; rientrato in Francia dopo il '70, accordandosi con il cugino conte di Chambord sopì il contrasto tra legittimisti e orleanisti, ma nel 1886 fu definitivamente bandito dalla Francia e si trasferì di nuovo in Inghilterra. 
Quanto al principe di Galles, si tratta del futuro Edoardo Settimo, figlio della regina Vittoria, nato nel 1841, sovrano britannico dal 1901 al 1910. 
Nota 13. 
Quartiere sulla riva sinistra della Senna, che trae nome dalla chiesa romanica (nucleo di una scomparsa abbazia) di SaintGermain-des-Prés. 
Nel XVII e XVIII secolo vi erano state costruite le eleganti residenze di numerose famiglie della più alta aristocrazia. 
Perciò, anche se nelle epoche successive esso non ospitò più l'élite della società francese, quest'ultima continuò ad essere indicata con l'espressione faubourg Saint-Germain. 
Nota 14. 
Sull'Ile Saint-Louis, prospiciente l'abside di Notre-Dame: è uno degli angoli più suggestivi dell'intera Parigi, apprezzato dagli artisti e dagli snob ma non dalla prozia del Narratore, di gusti grossolani e attenta solo alle apparenze. 
Nota 15. 
Lungo viale che dal boulevard des Italiens va verso l'Etoile. Dopo la morte della madre, dal 1906 al 1919, Proust vi abitò al n. 102. 
Nota 16. 
Come narra Virgilio nel libro IV delle Georgiche (vv. 31795), Aristeo si era invaghito della bella Euridice e, per possederla, la inseguì a lungo, finché la giovane fu morsa da un serpente e morì. 
Orfeo chiese allora agli dei di punire Aristeo, e gli dei decisero di far morire tutte le api da lui allevate (aveva introdotto l'apicultura in Arcadia). 
Disperato, Aristeo si immerse nel regno delle acque per incontrare sua madre, la ninfa Cirene, e chiederle soccorso. Seguendone le istruzioni, avrebbe poi interpellato Proteo, profetico dio marino. 
Nota 17. 
Divinità primordiale che personifica la fecondità femminile del mare. 
Figlia di Urano e Gea, sposò uno dei suoi fratelli, Oceano, da cui ebbe più di tremila figli: tutti i fiumi del mondo. 
Nota 18. 
Una maionese piccante ottenuta con l'aggiunta di mostarda, pepe di Caienna, capperi, cerfoglio e dragoncello. 
Nota 19. 
Località nei pressi di Londra, dov'era la residenza della famiglia d'Orléans durante l'esilio in Inghilterra. 
Fino al 1871 vi aveva dimorato il conte di Parigi, Louis-Philippe-Albert d'Orléans, pretendente al trono di Francia. 
Nel suo secondo esilio, tra il 1886 e il 1894, egli non abitò più a Twickenham, ma in altre località inglesi: Sheen House, Stowe House e Folkestone. 
Twickenham rimase comunque il centro principale dell'opposizione monarchica in esilio (cfr. 
Gareth H. Steel, "Chronology and Time in A la recherche du temps perdu", Genève, Droz, 1979, p. 141). 
Nota 20. 
E' uno degli ingredienti della salsa "gribiche". 
Nota 21. 
Elegante scuola di Parigi, gestita dalle Dames du SacréCoeur, congregazione fondata nel 1800 dall'abate Tournely, dal padre Varin e da Sainte Madeleine-Sophie Barat (1779-1865). Nota 22. 
Per Madame de Sévigné cfr. nota 54 di "Un amore di Swann". 
Nota 23. 
Questo nipote di Madame de Villeparisis è il principe des Laumes che diventerà poi duca di Guermantes. 
Nota 24. 
Edme-Patrice-Maurice de Mac-Mahon (1808-93) fu presidente della Repubblica dal 1873 al 1879 (cfr. Cronologia). 
Nota 25. 
Furono, tutti e tre, insigni statisti al servizio della monarchia orleanista: il conte Louis-Mathieu Molé (1781-1855) già guardasigilli di Napoleone, dopo la rivoluzione del 1830 fu, come primo ministro (dal 1836 al 1839), un fedele collaboratore di Luigi Filippo; il duca Etienne-Denis Pasquier (1767-1862), membro del governo durante la Restaurazione, divenne dopo il '30 presidente della Camera dei Pari e cancelliere di Francia (fu autore di "Mémoires" e di un volume di "Discours et Opinions"); il duca Achille-Charles- LéonceVictor de Broglie (1785-1870) dapprima diplomatico napoleonico, con l'avvento di Luigi Filippo ottenne il ministero degli Esteri (1832) e successivamente (1835) la presidenza del Consiglio. 
Nota 26. 
Edme-Armand-Gaston d'Audiffret-Pasquier (1823-1905), figlio del conte d'Audiffret, fu adottato, dopo la morte del padre, dal cancelliere Pasquier, suo prozio. 
Nel 1871 fu eletto come candidato orleanista all'Assemblea Nazionale. 
Divenne presidente della Camera nel '75, per passare, l'anno successivo, a presiedere il Senato. 
Fu a lungo il più autorevole consigliere politico del conte di Parigi, ma nel 1896 si staccò dal partito orleanista. 
Nota 27. 
L'attore Henri-Polydore Maubant (1821-1902) è qui associato al personaggio di Vinteuil (figura tragica di padre) forse perché alla Comédie-Franaise interpretava abitualmente il ruolo di padre nobile. 
Nota 28. 
Altra sottile (e corrosiva) associazione di idee: la cantante austriaca Amalia Materna (1847-1918) fu la prima a interpretare il ruolo di Brunilde nella "Walchiria" di Wagner (a Bayreuth, nel 1876). 
Come Mademoiselle Vinteuil col suo comportamento erotico affretterà la degradazione e la morte di suo padre, cosi l'eroina wagneriana anch'essa una fanciulla guerriera, di tipo virile - provoca la caduta di Wotan essendosi ribellata al suo ordine di contrastare Sigmund, e avendo sposato Sigfrido, il figlio di un'unione incestuosa. 
Nota 29. 
Jean-Baptiste-Louis Andrault, marchese di Maulévrier-Langeron (1677-1754), era ambasciatore di Francia a Madrid nel periodo (172023) in cui Louis de Rouvroy, duca di Saint- Simon (1675-1755), fu inviato nella capitale spagnola come ambasciatore straordinario, incaricato di favorire l'accordo per il matrimonio tra il giovane re Luigi Quindicesimo e l'Infanta di Spagna. 
Aveva modi grossolani e i suoi rapporti con Saint-Simon furono spesso burrascosi. Nota 30. 
Saint-Simon non afferma mai che Maulévrier fosse omosessuale, ma Proust sembra voler creare un doppio senso intorno a questo rifiuto di far conoscere i propri figli a un personaggio di rango inferiore, dando alla parola raggiro un significato che forse non ha nei "Mémoires". 
L'unica frase che nei "Mémoires" potrebbe gettare una luce ambigua sulle tendenze sessuali di Maulévrier è la seguente: Robin [il segretario di Maulévrier] era l'Apollo senza il quale Maulévrier non poteva far versi (p. 1062 del t. VI dell'edizione Pléiade, dove si trovano anche i brani di Saint-Simon citati da Swann; ma cfr. anche il t. XXXIX, p. 310 sgg. dell'edizione Boislisle). 
Nota 31. 
Cfr. 
Pierre Corneille (1606-84), "La Mort de Pompée" (atto IlI, scena IV), v. 1072: O ciel, que de vertus vous me faites har!. 
E' l'esclamazione di Cornélie, la vedova di Pompeo, dopo che Cesare, da lei odiato, ha dato ordine che ella sia rispettata e onorata in quanto moglie di un eroe. Nota 32. 
Stoffa lavorata di seta, lana o mista di lana e cotone. 
Nota 33. 
Nel libro l'"Art religieux du Treizième siècle en France" (letto da Proust nel 1899) lo storico dell'arte Emile Male (1862-1954) osserva che, tra tutti i miracoli attribuiti alla Vergine, la storia del diacono Teofilo è quella più spesso raffigurata nelle cattedrali francesi. 
Di origine orientale, essa è narrata nella "Leggenda aurea" di Jacopo da Varagine (nato tra il 1225 e il 1230 e morto nel 1298); il poeta Rutebeuf (morto attorno al 1285) vi si ispirò per una celebre sacra rappresentazione. 
Ecco la leggenda, secondo il racconto di Male: Teofilo era uomo di grande umiltà e, quando morì il vescovo di cui era coadiutore, rifiutò l'onore di succedergli, preferendo continuare a obbedire a un nuovo vescovo. 
Ma il demonio decide di tentarlo e riesce a fargli rimpiangere il potere ricusato. 
Cosi Teofilo sottoscrive un patto con Satana: vende la propria anima; in cambio otterrà gloria ed onori sulla terra. 
Riesce in effetti a conquistarsi i favori del popolo e a soppiantare il nuovo vescovo, ma ben presto è assalito dal rimorso. 
Implora l'aiuto della Vergine Maria, che lo salva strappando di mano a Satana la pergamena con il contratto firmato da Teofilo. Questi confessa allora pubblicamente la sua colpa e rivela il miracoloso intervento della Madonna. 
Poco tempo dopo muore santamente. 
Cfr. 
E. Male, "L'Art religieux du Treizième siècle en France. 
Etude sur l'iconographie du Moyen Age et sur ses sources d'inspiration", Paris, Armand Colin, 1958, pp. 260-3 (prima edizione: 1898). 
Nota 34. 
Romanzo cavalleresco intitolato anche "Renaud de Montauban", la cui versione letteraria più antica risale al Dodicesimo secolo. 
Aalard, Renaud, Guichard e Richart hanno offeso Carlo Magno, e per sottrarsi alla sua vendetta si rifugiano in un castello nelle Ardenne. 
L'imperatore li raggiunge; costringe il loro padre, Aymon, a combattere contro i propri figli (tema edipico), brucia il loro castello, li insegue tra i boschi. 
Dopo la riconciliazione con re Carlo, Renaud compie un pellegrinaggio al Santo Sepolcro e si impegna a costruire la cattedrale di San Pietro a Colonia. 
Nota 35. "Rince-bouche": recipiente con acqua che alla fine del pranzo veniva portato ad ogni commensale per consentirgli di sciacquarsi la bocca o le dita. 
Nota 36. 
A Parigi, da rue de La Fayette a rue du Bergère, cioè non lontano da due delle case abitate, in epoche diverse, da Proust: 102, boulevard Haussmann e 9, boulevard Malesherbes. 
Nota 37. 
Benozzo Gozzoli (1420-97) affrescò nel camposanto monumentale di Pisa le "Storie di Abramo", gravemente danneggiate - com'è noto dai bombardamenti dell'ultima guerra, che provocarono un incendio (ed è forse opportuno ricordare che, non lontano da quello cui Proust fa qui cenno, c'è un affresco raffigurante "L'incendio di Sodoma"). 
Salta agli occhi, in questo caso, la tendenziosità dell'associazione padre/Abramo, madre/Sara, Narratore/Isacco, nonché la valenza ironica dell'inatteso lieto fine comune sia alla vicenda biblica sia all'infantile tragedia che si svolge a Combray. 
Molti dei riferimenti ad opere d'arte contenuti nella "Recherche" trovano riscontro nelle opere di John Ruskin, di cui Proust tradusse con grande impegno "The Bible of Amiens" ("La Bibbia di Amiens") e "Sesame and Lilies" ("Sesamo e i gigli"), e di cui sosteneva di aver letto tutti i libri. Le "Storie di Abramo" di Benozzo Gozzoli sono descritte da Ruskin in "Modern Painters", nei volumi IV (pp. 30-1) e V (p. 51) delle sue opere complete ("The Works of John Ruskin", London, Allen, in 39 volumi usciti tra il 1903 e il 1912, cioè prima della pubblicazione di "Du cté de chez Swann"). 
Ruskin considerava il Gozzoli un grande pittore di second'ordine. 
Tuttavia gli affreschi del camposanto di Pisa ebbero un'importanza enorme per la sua maturazione estetica e intellettuale. 
Li vide nel suo secondo viaggio in Italia (1845), e fu per lui un'illuminazione. 
Improvvisamente comprese il significato più profondo dell'arte cristiana e dello stesso cristianesimo e cominciò così ad amare l'arte italiana del Trecento e del Quattrocento che, fino a quel giorno, lo aveva deluso. 
Tutto ciò è raccontato da Ruskin nel secondo capitolo della sua autobiografia, "Praeterita" ("Works", vol. 
XXXV, pp. 350-8). 
Nota 38. 
Una distruzione di Combray si verifica, durante la prima guerra mondiale, nella prima parte del "Tempo ritrovato". 
Ma quando Proust pubblicò "Du cté de chez Swann" (1913), la guerra non era ancora scoppiata. 
I biografi ricordano però che tra i modelli della casa e del giardino di Combray, non c'è soltanto la dimora dello zio paterno Jules Amiot a Illiers, bensì anche quella dei Weil, la famiglia materna, a Auteuil (dove Proust nacque il 10 luglio 1871), al n. 96 di rue La Fontaine. 
A Auteuil, che era allora un piccolo, elegante sobborgo di Parigi vicino al Bois de Boulogne, i Proust trascorrevano brevi periodi di riposo quando non valeva la pena di andare fino a Illiers. 
La casa natale e il giardino annesso, ben più ampio di quello di Illiers, furono demoliti verso la fine degli anni '90 per consentire la costruzione dell'avenue Mozart. Questa vicenda autobiografica è splendidamente narrata in JS, pp. 864-70. Nota 39. 
E interessante confrontare queste riflessioni del N. sulla prima sconfitta dei metodi educativi dei genitori con i principi pedagogici propugnati da Adrien Proust, il padre dello scrittore, nel libro "Hygiène du néurasthénique", Paris, Masson, 1897, p. 147: l'educazione deve evitare con ogni cura di dare al fanciullo "la formula dei suoi cattivi istinti". Dire ad alta voce in presenza di un bambino ch'egli è pigro, incapace di fare questo o quello, significa spesso suggerirgli, con la convinzione di essere incapace di applicazione, il difetto stesso che si vorrebbe sopprimere [...] L'educazione deve dunque cercare sempre di persuaderlo che è capace di comprendere e che potrà fare questo o quello e mostrare apprezzamento per ogni suo sforzo anche piccolo. 
Bisogna inoltre abituare il bambino a volere e a compiere quello che ha voluto, a perseverare nello sforzo, in una parola, a potere (cfr. 
Cl. 
Francis e F. Gontier, "Proust et les siens", Paris, Plon, 1981, pp. 99-100). 
E' proprio applicando alla lettera le concezioni educative di Adrien Proust che il N., tornando più avanti a meditare su questa piccola tragedia infantile a lieto fine, dirà che da quella notte ebbe inizio la sua resa di fronte all'avanzare della fragilità nervosa e della malattia in generale. 
Quella che sino allora era stata considerata come una colpa veniva improvvisamente riconosciuta come forma patologica, indipendente dalla buona o cattiva volontà. 
Nota 40. 
A differenza dei quattro succitati romanzi del ciclo campestre, appartenenti alla piena maturità della scrittrice, "Indiana" (1831) risale agli esordi lirico-romantici di George Sand (pseudonimo di Aurore Dupin: 1804-76). 
Narra una vicenda di passioni, suicidi, adulteri e pregiudizi, in un quadro di indignata polemica contro la condizione subalterna della donna nel Diciannovesimo secolo. Nota 41. 
La nonna simboleggia la sintesi impossibile tra arte e vita, genio e salute, sapere e innocenza. 
Ma i riferimenti culturali, di cui queste prime pagine sull'infanzia sono così ricche, tendono proprio a fare da ironico contrappunto alla filosofia estetico-esistenziale della nonna, anticipando le tesi che saranno poi esposte nel "Tempo ritrovato": la verità è incompatibile con la vita, la forza dello spirito è distruzione del corpo. Nota 42. 
Il quadro di J.-B.-C. 
Corot (1796-1875) è al Louvre. 
Hubert Robert (1733-1808) si ispirò alle fontane del parco di Saint-Cloud in molte sue opere, ad esempio in "Lavandières dans un parc" (al Petit Palais di Parigi, nella collezione Dutuit); Joseph Mallord William Turner (1775-1851) fece tra il 1815 e il 1819 delle escursioni al Vesuvio, recandone disegni e acquerelli che rappresentano il vulcano in eruzione e in stato di quiete (cfr. 
J. Nathan, "Citations références et allusions de Marcel Proust dans A la recherche du temps perdu, Paris, Nizet, 1969, p. 38). 
Può essere interessante osservare che nella prima edizione del "Contre Sainte-Beuve" troviamo una singolare associazione tra il momento dell'eiaculazione e il quadro della fontana di Saint-Cloud. 
Il giovane N. si masturba nel gabinetto della casa di Combray, e... finalmente sgorgò un getto d'opale con slanci successivi, come quando si slancia in alto la fontana di SaintCloud, che possiamo riconoscere nel ritratto lasciatone da Hubert Robert, poiché, nello scorrere incessante delle sue acque, possiede una sua individualità graziosamente disegnata dalla sua curva resistente (c.s.b., p. 65). 
Ma cfr. anche S. Doubrovsky, "La Place de la madeleine. 
Ecriture et fantasme chez Proust", Paris, Mercure de France, 1974). 
Non del tutto lontano da questo significato sessuale potrebbe essere anche il disegno di Turner raffigurante l'eruzione del Vesuvio. Né va trascurato il fatto che si stabilisce una tacita complicità tra l'eiaculazione-fontana e la nonna-madre che ha regalato la riproduzione del quadro. 
Nota 43. 
L'incisore Raffaello Morghen (1761-1833) eseguì nel 1800 una riproduzione dell'"Ultima Cena" di Leonardo che rimase una delle sue opere più celebri. 
Ruskin ne parla in "The Cestus of Aglaia", dove sostiene che dei massimi capolavori pittorici non esistevano allora riproduzioni ben fatte, tranne che della "Cena" leonardesca ("Works", vol. 
XIX, p. 103). 
Nota 44. "Champi" è un termine piuttosto raro, che nel "patois" del Berry significa fanciullo trovato nei campi. 
Questo romanzo di G. 
Sand fu pubblicato a puntate sul Journal des Débats nel 1848. 
Racconta la storia di un trovatello che viene allevato dalla vecchia Isabelle, desiderosa di un aiuto nel lavoro, cioè per interesse, senza amore. 
Ma il fanciullo trova nella bella e giovane Madeleine, moglie del mugnaio del villaggio, l'affetto di una vera madre, e si trasferisce in casa di lei. 
Madeleine è infelice perché il marito la tradisce con Sévère, donna frivola e crudele, che a sua volta si è invaghita di Franois. 
Di fronte al rifiuto del bell'adolescente, costei, per ripicca, aizza contro di lui il mugnaio e lo persuade a cacciare Franois dal mulino. 
L'orfano si reca a lavorare in un altro villaggio, ma il suo cuore è sempre pieno del ricordo dolce e puro di Madeleine. 
Dopo la morte del mugnaio Franois viene a sapere che Madeleine attraversa una crisi finanziaria a causa di una truffa ordita contro di lei da Sévère. 
Egli abbandona allora il suo lavoro e, respinte le profferte amorose della figlia del suo padrone, corre in soccorso di Madeleine e riesce a far rifiorire l'attività del mulino. I due giovani vivono nella stessa casa, ignari del loro amore; ma i pettegolezzi dei vicini su questo strano rapporto finiscono col far loro comprendere la vera natura del sentimento che li unisce. 
La vicenda si conclude così con un lieto fine nuziale. 
Nota 45. 
La scelta di "Franois le Champi" (si veda anche la nota precedente) è tutt'altro che casuale, poiché vi si narra una storia d'amore in cui il sentimento materno e la passione tendono 
a coincidere. 
Nel capitolo IV ad esempio, Franois chiede alla mugnaia Madeleine, che per lui è divenuta una sorta di madre adottiva, di dargli un bacio, così come lei abitualmente bacia il figlio Jeannie: Il fanciullo si gettò al collo di Madeleine, e divenne così pallido ch'ella ne fu stupita e se lo tolse dolcemente dai ginocchi cercando di distrarlo. 
Ma lui la lasciò d'un tratto, e fuggì tutto solo come per nascondersi, suscitando l'inquietudine della mugnaia. Madeleine andò a cercarlo e lo trovò inginocchiato in un angolo del granaio, tutto in lacrime [...]. 
Nota 46. 
In francese: "coquille Saint-Jacques". 
Più avanti alla forma della piccola "madeleine" (definita sensuale... e devota) è attribuita una funzione in qualche modo religiosa. 
Per comprendere questo brano, occorre tener presente che, fin dai tempi delle crociate, le conchiglie erano associate ai pellegrinaggi. 
Cucite sugli abiti di chi tornava in Europa dopo aver visitato il Santo Sepolcro o dopo aver combattuto per la sua liberazione, le conchiglie, raccolte sulle spiagge dei paesi lontani, testimoniavano il lungo e difficile itinerario di purificazione percorso da quei penitenti. 
Il nome francese di questo tipo di conchiglia è collegato al fatto che i pellegrini diretti a San Giacomo di Compostella, nel nord-ovest della Spagna (o che di li ritornavano), avevano delle "coquilles SaintJacques" sul cappello o sul mantello. 
Ci resta di ciò un ricordo pittorico nel pannello dei "Pellegrini" del polittico di Hubert e Jan van Eyck nella cattedrale di San Bavone a Gand: un'opera che suscitò in Proust un grande interesse, tanto che il suo riquadro centrale, "L'Adorazione dell'Agnello Mistico", fu probabilmente all'origine dell'intenzione, conservata per qualche tempo, di intitolare l'ultima parte del romanzo "L'Adoration perpétuelle" (cfr. Christian Robin, "Le Retable de la cathédrale", in CMP 9, pp. 67-93). 
Scendendo ancora più a fondo dentro la metafora, si può osservare che, con la resurrezione involontaria di Combray dalla tazza di tè, comincia il pellegrinaggio devoto del N. alla ricerca del Tempo perduto e della verità, un itinerario che - a differenza di quanto avveniva nel medioevo - non comporta nessuna mortificazione della sensibilità, ma anzi ne esalta il valore. 
Devoto e sensuale, dunque: un paradosso solo apparente, che racchiude in un'estrema condensazione il significato del libro. 
Del resto non dobbiamo stupirci per questa associazione tra il ricordo dell'infanzia a Combray e la memoria storica dei pellegrinaggi al santuario di Compostella. 
Se nell'ultima versione del testo di "Dalla parte di Swann" Combray risulta collocata nei pressi di Reims e Laon, a nord-est di Parigi, nell'edizione Grasset del 1913 l'immaginaria cittadina dell'infanzia era invece situata, come la Illiers della biografia proustiana, a pochi chilometri di distanza da Chartres. 
Ma sia Chartres sia Illiers furono, durante il medioevo, tappe quasi obbligate per i pellegrini che lasciavano Parigi diretti a San Giacomo, in Galizia. La chiesa principale di Illiers testimonia di questo illustre passato con il suo stesso nome: Saint-Jacques. 
Nota 47. 
Rue de l'Oiseau è, a Illiers, l'antica denominazione dell'attuale rue du Dr. 
Galopin, che era così chiamata in ricordo di una vetusta locanda con l'insegna di un uccello trafitto, dove probabilmente convenivano arcieri e cacciatori. 
Nota 48. 
Zia Léonie fa uso di un tipo di parrucca, ormai desueto, in cui i ciuffi di capelli erano montati su una calotta. 
Poiché non aveva avuto il tempo di pettinarsi, il bordo della calotta era visibile, quel mattino, attraverso i capelli finti in disordine; e quest'alternanza di pieni e di vuoti suggerisce al Narratore le tre metafore consecutive: vertebre, corona di spine, grani di rosario. 
E' questa la spiegazione fornita da Philip Kolb (cfr. "Une énigmatique métaphore", in Europe, agosto-settembre 1970 pp. 141-51) per un brano della "Recherche" ricco di storia. E' infatti noto che in una lettera a Proust, scritta circa due mesi dopo la pubblicazione di "Du cté de chez Swann" presso Grasset, André Gide esprime tutto il suo rimorso per aver contribuito a determinare il rifiuto di pubblicare il romanzo da parte della Nouvelle Revue Franaise. 
E adduce due motivi per giustificare il suo primo parere negativo. 
Innanzitutto egli riteneva che Proust fosse un dilettante mondano e snob; insomma, un seccatore da cui tenersi alla larga. 
Inoltre, sfogliando il dattiloscritto, lo sguardo gli era caduto proprio su queste fatidiche vertebre della fronte di zia Léonie: un'immagine che gli era parsa incomprensibile e assurda, perché, per quanto una vecchia signora possa essere magra e malata, sulla sua fronte non si vedranno mai trasparire delle vertebre. 
Verificando una delle prime stesure dattiloscritte del capitolo "Combray", Kolb ha constatato che la congiunzione et fu inserita in un secondo tempo da Proust, con una correzione manoscritta, tra faux cheveux e où. 
Originariamente, in traduzione, il testo sarebbe stato: non aveva ancora sistemato i capelli posticci, dove le vertebre trasparivano.... 
Le vertebre appartenevano quindi alla parrucca, non alla fronte. 
L'aggiunta della congiunzione sarebbe servita - secondo Kolb - per dare maggior forza alla metafora, unificando fronte e parrucca nel comico automartirio ipocondriaco e mistico (mancano pochi minuti alla messa) di zia Léonie. 
Ma il testo finiva così per diventare ambiguo, scandalizzando Gide e altri lettori. 
Kolb ha inoltre accertato che il testo della lettera di Gide effettivamente inviata a Proust - e a lungo ritenuta dispersa - non corrisponde a quello che Gide stesso fece pubblicare molti anni dopo sulla base di una più ampia brutta copia presumibilmente da lui conservata. 
Nella lettera ricevuta da Proust non c'era nessun accenno a queste sfortunate vertebre. 
Proust, quindi, non seppe mai nulla degli equivoci provocati da una sua correzione poco felice. 
E Kolb ritiene che, se ne fosse stato davvero informato, non avrebbe esitato a modificare il testo in vista delle edizioni successive. Nota 49. 
Cfr. 
G. Painter, op cit., p. 451 Tra le rovine dell'abbazia di Jumièges Proust vide la cripta merovingia e il pavimento delle tombe degli abati, e trasferì l'una e l'altro a Saint-Hilaire. La visita cui Painter si riferisce avvenne nell'autunno del 1906, durante un'escursione in automobile a Versailles. 
Nota 50. 
In una lettera a Madame Straus datata da Philip Kolb alla fine di settembre o all'ottobre del 1907, Proust racconta una sua visita alla cattedrale di Evreux: una cattedrale [...] con belle vetrate che riuscivano a essere luminose anche nell'ora crepuscolare in cui le ho viste, in una giornata grigia, sotto un cielo plumbeo. 
Alla stanchezza di un giorno che fin dal mattino era stato somigliante alla notte, e che stava per cederle il posto, quelle vetrate riuscivano a rubare dei gioielli di luce, una porpora scintillante, zaffiri pieni di fuoco: era inaudito (Straus, pp. 101-2) Nota 51. 
Carlo Sesto, detto il Bene Amato o il Pazzo, re di Francia dal 1380 al 1422.Impazzì nel 1392, e nel 1407 fu definitivamente internato nell'htel Saint-Pol. 
Durante la sua malattia scoppiò la guerra tra Borgognoni e Armagnacchi, con l'intervento degli Inglesi a favore dei primi. 
Questo monarca folle e recluso, che gioca a carte mentre fuori infuria la guerra, rinvia alla condizione dello scrittore, così come i giochi di carte con cui si diletta alludono ironicamente alla creazione dell'opera, alla solitaria stesura del romanzo. 
Nota 52. 
Sono indicati come successori di san Luigi i sovrani francesi che regnarono nella seconda metà del Tredicesimo e nel Quattordicesimo secolo. 
Nota 53. 
Per la descrizione di questi arazzi Proust si sarebbe ispirato a quello esistente nel tesoro della cattedrale di Sens e raffigurante storie di Ester e Assuero. 
Nota 54. 
Sant'Eligio (588-659) è il patrono dell'oreficeria, arte che aveva esercitato prima di diventare vescovo. 
Secondo la leggenda, re Clotario Secondo (584-629) lo nominò suo tesoriere perché Eligio aveva saputo forgiargli due troni d'oro, anziché uno solo, con la stessa quantità di metallo prezioso. 
Tradizioni locali gli attribuiscono poi la paternità di molti manufatti di oreficeria medievale. 
Successivamente il re Dagoberto (600-38) prese Eligio come suo consigliere, e lo nominò vescovo di Noyon. 
Eligio convertì numerosi pagani al cristianesimo e si guadagnò la riconoscenza popolare fondando ospedali e promuovendo l'assistenza ai poveri. 
Dagoberto Primo fu l'ultimo grande re merovingio; con la sua fermezza riuscì a unificare ed estendere il regno franco. 
Ebbe fama di giustiziere severo e talvolta crudele, e gli fu rimproverata una vita dissoluta (giunse ad avere tre mogli contemporaneamente). 
Favorì però l'affermarsi della fede cristiana e nel 630 avviò la costruzione della prima basilica di Saint-Denis, ultimata e consacrata da Carlo Magno, devastata poi dai Normanni e riedificata nel Dodicesimo secolo dall'abate Suger. 
La compresenza di devozione e ferocia in Dagoberto preannuncia la dicotomia di molti personaggi proustiani. 
Per quanto riguarda la croce d'oro, Proust si è certamente ispirato a quella che si conservava nell'abbazia di Saint Denis - nel luogo stesso in cui si riteneva fosse stato sepolto il santo -, fabbricata secondo le indicazioni iconografiche dell'abate Suger e da lui descritta nel "Liber de rebus in administratione sua gestis". 
La fonte di Proust è stata senza dubbio il libro di E. Male, "L'Art religieux du Treizième siècle en France", ed. cit., pp. 152-4. 
La croce d'oro di Saint-Denis era alta sette metri, tutta incrostata di pietre preziose e ulteriormente impreziosita da smalti con la riproduzione di scene della vita di Cristo messe in parallelo con episodi dell'Antico Testamento. 
Fu modellata da cinque orefici, tra cui - secondo Male Godefroy de Claire. Nota 55. 
Altra allusione al tema edipico: Luigi (o Ludovico) Secondo detto il Germanico, figlio di Luigi il Pio e nipote di Carlo Magno, fu dall'843 all'876 sovrano della parte orientale dell'impero carolingio. 
Ebbe tre figli: Carlomanno il primogenito e poi Luigi e Carlo. 
I due cadetti si ribellarono e combatterono contro il padre per gelosia nei confronti del fratello maggiore che era stato favorito nella spartizione del regno. 
Ma il nome di Luigi il Germanico compare solo nella versione definitiva. 
Le numerose varianti di questo brano rintracciabili nei manoscritti rivelano come Proust avesse a lungo oscillato tra le tombe dei figli di san Luigi a Saint-Denis (descritte da Viollet-le-Duc nel t. IX del suo "Dictionnaire d'architecture"), quelle dei figli di Clodoveo Secondo (sepolti, secondo la tradizione, a Jumièges) o dei figli di Childeberto o di Carlo Magno (cfr. 
CMP 6, p. 337). 
Nota 56. 
Nella regione di Illiers - come segnala anche il canonico Marquis nella sua monografia "Illiers", pubblicata nel 1907 - si trovavano numerosi monumenti megalitici, la cui presenza era attribuita dalle leggende popolari all'opera soprannaturale delle fate. 
Nota 57. 
La discesa nella notte merovingia è figura di un'esplorazione rischiosa dell'inconscio, dove affiorano, liberate, le pulsioni aggressive e quelle erotiche. 
Così a guidare il N. in questa notte del desiderio sono il giovane sacrestano Théodore (organizzatore di giochi proibiti a sfondo sessuale intorno alle rovine di Roussainville) e sua sorella, che più avanti, divenuta "femme de chambre" della baronessa Putbus, sarà oggetto del desiderio del N. La valva profonda scavata nella pietra del pavimento dalla lampada miracolosamente intatta, può essere assimilata ad altri oggetti dotati, nell'universo proustiano, di una connotazione sessuale, tra cui anche la piccola "madeleine", il dolce a forma di conchiglia mediante il quale riaffiora alla memoria il tempo perduto di Combray (cfr. 
Ph. 
Lejeune, "Ecriture et sexualité", Europe, 502-3, febbraio-marzo 1971, pp. 113-43). Nota 58. 
Il brano tra virgolette è una citazione lievemente rimaneggiata dei "Récits des temps mérovingiens" di Augustin Thierry, un libro che, insieme alla "Conqute de l'Angleterre par les Normands" dello stesso autore, il N. leggeva a Combray (come si vedrà in "Sodoma e Gomorra") mentre Jean Santeuil e lo stesso Proust lo leggevano a Illiers. 
Ma come in ogni informazione proveniente direttamente o per interposta persona dal parroco della chiesa di Saint-Hilaire (Théodore ne è il sacrestano), c'è un errore. Il prodigio narrato da Thierry, che lo riprende dalla "Historia Francorum" di Gregorio di Tours (53994) e dai "Carmina" di Venanzio Fortunato (530-609), sarebbe accaduto sulla tomba non della figlia ma della cognata di Sigeberto, Galeswinthe o Galsuinda, figlia di Atanagildo re dei Visigoti di Spagna, andata in sposa a Chilperico (561-84), figlio di Clotario e fratello di Sigeberto. 
Quest'ultimo, che fu re franco d'Austrasia dal 561 al 575, aveva sposato Brunilde, sorella di Galsuinda. 
I due sovrani franchi figli di Clotario si erano voluti entrambi imparentare con i potenti Visigoti spagnoli; ma, mentre Brunilde era amata dal suo sposo Sigeberto, la povera Galsuinda trovò alla corte di Chilperico, dopo il lungo viaggio dalla Spagna, una situazione insostenibile e per lei infamante. 
Chilperico, prima di questo matrimonio, aveva avuto numerose amanti, una delle quali, Fredegonda - donna terribile e dalla volontà d'acciaio -, convinse il sovrano a trattare con freddezza la nuova sposa, mentre il rapporto privilegiato tra il re e la concubina continuava ufficialmente. 
Quando Galsuinda chiese di essere ripudiata e di poter tornare in Spagna, Chilperico, istigato dalla ferocia di Fredegonda, ordinò ai suoi sicari di sopprimere la moglie. 
Cfr. A. 
Thierry, "Oeuvres", Orléans, Garnier, 1875, t. VII, p. 329: Si diceva che una lampada di cristallo, appesa presso la tomba di Galeswinthe nel giorno dei suoi funerali, si fosse staccata improvvisamente senza che nessuno la toccasse e fosse caduta sul pavimento di marmo senza spezzarsi e senza spengersi. 
Si assicurava, per completare il miracolo, che le persone presenti avevano visto il marmo del pavimento cedere a metà. Cfr. anche "Venantii Fortunati Opera", lib. 
VI, cap. 
VII: Nascitur hic subito rerum mirabile signum: / Dum pendens lychnus lucet ad obsequium, / Decidit in lapidem, nec vergit, et integer arsit. / Nec vitrum saxis, nec perit ignis aquis (D'un tratto avviene un prodigio straordinario: / una lampada che, appesa, brillava in segno d'ossequio, / cadde sul sepolcro, ma continuò ad ardere intatta, senza offuscarsi. / Né il vetro s'infranse sulla pietra, né la fiamma si spense nell'acqua). 
Cfr. infine Gregorio di Tours, "La storia dei Franchi", a c. di M. Oldoni, Milano, Fond. 
Valla/Mondadori, 1981, vol. 
I, lib. 
IV, p. 340: Lyghnus enim ille, qui fune suspensus coram sepulchrum eius ardebat, nullo tangente, disrupto fune, in pavimento conruit et, fugientem ante eum duritiam pavimenti, tamquam in aliquod molle elimentum discendit, atque medius est suffossus nec omnino contritus. 
Quod non sine magno miraculo videntibus fuit (Infatti la lampada che, appesa ad una fune, ardeva davanti al suo sepolcro, senza che nessuno la toccasse, spezzatasi la fune, cadde in terra e, come se fosse caduta su qualcosa di morbido, la durezza del pavimento venne meno al contraccolpo e s'avvallò al centro, e la lucerna non rimase spezzata. 
Questo certo non accadde, davanti a quelli che lo videro, senza grande miracolo). Nota 59. 
La chiesa di Saint-Augustin fu costruita, a partire dal 1860, da Baltard, l'architetto delle vecchie Halles che si ispirò a motivi del Rinascimento italiano e dell'arte bizantina. 
La sua cupola ricorda vagamente quella della basilica di San Pietro e di altre chiese romane. 
E' questa, forse, la suggestione che fa scattare il confronto con le vedute romane dell'architetto e incisore Giambattista Piranesi (1720-78). 
Nota 60. 
Formate da un nodo largo e fluttuante, e adatte sia all'abbigliamento maschile che a quello femminile, simili cravatte sono così chiamate in ricordo della duchessa Franoise-Louise 
 de La Vallière (1644-1710), favorita di Luigi Quattordicesimo e sua amante fino all'avvento della Montespan nel 1667. 
Nota 61. 
Cfr. "Lettera agli Ebrei" 6, 4-8: Poiché, quelli che già una volta sono stati illuminati e hanno gustato il dono celeste, sono stati fatti partecipi dello Spirito Santo e hanno assaporato la bella parola di Dio e le meraviglie del mondo futuro e poi sono caduti, è impossibile riportarli ancora al ravvedimento, essi che nuovamente per loro conto crocifiggono il Figlio di Dio e lo espongono al ludibrio. 
(Si avverte che tutte le citazioni bibliche presenti nelle Note sono conformi al testo della "Bibbia Concordata", nell'edizione dei Meridiani di Mondadori, 3 voll., Milano, 1982.) Nota 62. 
Cfr. nota 98. 
Nota 63. 
Mobili la cui imbottitura presenta delle trapunte a forma di losanga. 
Nota 64. 
Edicola a forma di colonna usata a Parigi per affiggervi i manifesti degli spettacoli teatrali. 
Il primo concessionario di questo sistema pubblicitario fu lo stampatore Morris: donde il nome. 
Nota 65. 
Un'esplicita allusione al mito dell'infelice re di Tebe non poteva certo mancare in queste pagine sull'infanzia del N. così intrise di sentimenti edipici. 
Il "Testamento di César Girodot", di A. 
Belot e E. Villetard, è invece una brillante macchina comica incentrata sul tema dell'eredità da spartire tra parenti più o meno avidi o generosi, che ebbe nel 1859 un grande e in parte immeritato successo all'Odéon, tanto che divenne uno dei cavalli di battaglia di Sarah Bernhardt agli inizi della sua carriera teatrale, e figurava ancora nel repertorio della Comédie-Franaise nel 1890. 
E' ironico l'accostamento tra un capolavoro immortale e una commedia esaltata a suo tempo ma poi dimenticata, anche se all'inesperto e ancor giovanissimo N. le due opere strane appaiono sullo stesso piano. 
Nota 66. 
Pennacchio di penne lunghe e sottili, usato come guarnizione per i cappelli la cui foggia viene riprodotta nella gioielleria. 
Nota 67. 
Entrambe opere comiche di Daniel Auber (1782-1871), che aveva musicato due libretti di Eugène Scribe (1791-1861). 
Ebbero le loro prime rappresentazioni al teatro dell'Opéra-Comique, rispettivamente nel 1841 e nel 1837; ma rimasero in repertorio fino agli ultimi anni del secolo. 
Nota 68. 
E' un dolce tutto bianco e squisito, di difficile preparazione pur nella sua semplicità, che metteva a dura prova le capacità culinarie delle nostre nonne o delle loro collaboratrici domestiche. 
La sua ricetta è ignorata sia dall'Artusi, sia dal "Talismano della Felicità" e da altri classici testi di gastronomia. Per i lettori curiosi la si trascrive qui dal volumetto del Prof. 
Cav. 
Uff. 
Adolfo Giaquinto, "Il mio libro. 
Cucina di famiglia e pasticceria. 
Esteso manuale pratico di cucina, dolci, conserve alimentari, liquori, gelati, marmellate, ecc...", Bracciano, 1933 (dodicesima ed.), pp. 405-6: Fate cuocere un etto di riso in mezzo litro di latte e quando è quasi cotto aggiungetegli un etto di zucchero fino, mezza stecca di vaniglia ed un pizzico di sale. 
Coprite e fate finire di cuocere. 
Quando sarà cotto ed accremato toglietelo dal fuoco, unitegli 25 gr. di burro e 5 fogli di gelatina prima tenuti a bagno in acqua fresca e poi liquefatti in un poco di latte. 
Aggiungete poi 50 gr. di scorzette d'arancio e ciliege candite tagliate in pezzetti e macerate in un bicchierino di buon maraschino. 
Quando il composto è freddo e comincia a rapprendersi unitegli con garbo un buon bicchiere di panna montata. 
Versate il composto in uno stampo copritelo e circondatelo di ghiaccio pesto per farne congelare il contenuto, per il quale occorrono non meno di due ore. Al momento si immerge (un istante appena) lo stampo fino all'orlo nell'acqua calda, si sforma in un piatto e lo si innaffia al maraschino. 
Nota 69. 
Cinque prestigiosi attori della seconda metà dell'Ottocento, "artistes sociétaires" presso la Comédie-Franaise: Edmond-Franois Jules Got (1822-1901); Louis-Arsène Delaunay (1826-1903), eterno attor giovane; Alexandre-Frédéric Febvre (1835-1916) Charles-JeanJoseph Thiron (1830-91); Benot-Constant Coquelin (1841-1909), per un venticinquennio "premier comique", memorabile interprete del "Misanthrope" di Molière. 
Poco sotto ricompare la figura di Maubant, altro mattatore delle scene parigine, già evocato in stretta connessione con il signor Vinteuil. 
Nota 70. 
Carrozza chiusa, a quattro ruote, con due sportelli e un solo sedile. Nota 71. 
Il nome della Berma - personaggio fittizio, di considerevole peso nell'economia della "Recherche" - occhieggia qui per la prima volta, insinuato in una graduatoria di attrici tra le più acclamate del secondo Ottocento: Sarah Bernhardt (pseudonimo di Henriette-Rosine Bernard: 1844-1923), che fu la più celebre attrice francese dell'epoca; Jeanne-Julia Regnault, detta Madame Bartet (1854-1941), magistrale nei ruoli raciniani di Bérénice e Andromaque; Madeleine Brohan (1833-1900), "grande coquette" molieresca; sua nipote Jeanne Samary (1857-90), "grande soubrette". 
Nota 72. 
Una tazza di tè. 
L'anglomania linguistica è indice di snobismo. 
Nota 73. 
Lettera inoltrata al destinatario mediante la posta pneumatica. 
Nota 74. 
Achille Tenaille de Vaulabelle (1799-1879), storiografo e pubblicista, scrisse un'assai erudita "Histoire des deux restaurations". Fu ministro della Pubblica Istruzione nel 1848. 
Nota 75. 
In francese: "houppelandes". 
Sopravesti in uso soprattutto nel Trecento e nel Quattrocento. Nota 76. 
Nella Cappella degli Scrovegni, che sorge a Padova nei pressi dell'antica Arena romana, Giotto dipinse le allegorie dei vizi e delle virtù lungo la fascia inferiore del suo ciclo di affreschi. 
Nel suo interesse per questa iconografia, Swann è quanto mai ruskiniano. 
La raffigurazione giottesca della Carità era stata più volte descritta e interpretata dallo scrittore inglese. 
Nel libro "The Stories of Venice" (1851-53), ad esempio, essa è confrontata con uno dei capitelli del veneziano Palazzo Ducale, che mostra una donna col grembo pieno di pani di cui ne dà uno a un bambino che stende il braccio a traverso un'ampia apertura del fogliame del capitello. 
Molto inferiore alla rappresentazione giottesca di questa virtù. 
Nella cappella dell'Arena essa è distinta da tutte le altre virtù per avere una gloria circolare intorno alla sua testa ed una croce di fuoco, è coronata di fiori, presenta con la destra un vaso pieno di frutti e di frumento e con la sinistra riceve da Cristo i mezzi che le sono necessari per una continua beneficenza, mentre calpesta coi piedi i tesori della terra. 
La peculiare bellezza di molte rappresentazioni italiane della carità sta nel fatto che in esse la munificenza è sopraffatta dall'amore espresso sempre col fuoco. 
Giotto le dà una croce di fuoco, l'Orcagna un turibolo da cui escono fiamme, Dante la rappresenta come addirittura formata di fiamme, tanto che in una fornace di limpido fuoco sarebbe impossibile scorgerla ("Le pietre di Venezia", Roma, Carboni, 1910, p. 198, trad. di A. Tomei). 
Agli affreschi di Giotto a Padova Ruskin dedicò un'opera specifica nel 1853 ("Giotto and his Works in Padua"), senza tuttavia parlarvi dei "Vizi" e delle "Virtù". Ma nel 1900, l'ultimo anno della sua vita, quel libro fu ristampato a cura di A. Wedderburn, che aggiunse in appendice le riproduzioni delle "Virtù" e dei "Vizi" giotteschi commentate con la raccolta di tutti i giudizi ruskiniani sparsi nelle altre opere. 
Per quanto riguarda la Carità, ad esempio, oltre al brano già citato, ne veniva riproposto uno tratto da "Fors Clavigera" del luglio 1871: Con questa lettera vi dono l'immagine della Carità di Giotto [tale riproduzione, in effetti, era stata scelta come frontespizio del fascicolo] - la Rossa Regina di Dante, e anche la nostra - com'è diversa la concezione ch'egli ne ha da quella comune! Di solito è intenta a nutrire bambini e distribuire denaro. 
Giotto pensa che ci sia poca carità nel nutrire bambini - gli orsi e le volpi fanno altrettanto per i loro piccoli - e ancor meno nel porgere denaro. 
La sua Carità calpesta sacchi d'oro - non sa che farsene. 
Dona soltanto grano e fiori, e l'Angelo di Dio non le dà nemmeno queste cose - ma un cuore. 
Il curatore precisa poi che, nel redigere l'indice di questo numero di "Fors Clavigera", Ruskin aggiunse: Non ho dubbi: mi sono sbagliato nel leggere il senso dell'azione: essa dà il suo cuore a Dio mentre agli uomini offre doni ("Works", ed. cit., vol. 
XXVII, p. 130). 
Certamente Proust si imbatté nella Carità di Giotto nel corso dei suoi lavori ruskiniani. 
In una nota all'introduzione della sua traduzione della "Bibbia d'Amiens", egli ricorda il confronto tra la Carità di Padova e quella della cattedrale di Amiens sviluppato da Ruskin 
nelle pagine di "Pleasures of England": Mentre la Carità ideale di Giotto a Padova presenta a Dio il cuore nella mano, e schiaccia coi piedi dei sacchi d'oro, e dona soltanto grano e fiori, al portico ovest di Amiens si accontenta di vestire un mendicante con una pezza di stoffa della manifattura della città. 
E Proust cita anche un analogo giudizio formulato da Emile Male nel suo studio su "L'Art religieux du Treizième siècle en France" (ed. cit., pp. 118-9): La Carità che tende a Dio il suo cuore infiammato è del paese di San Francesco d'Assisi. 
La Carità che dona ai poveri il mantello è del paese di San Vincenzo de' Paoli (CSB, p. 97). 
Proust poté visitare a Padova la Cappella degli Scrovegni in occasione del suo primo viaggio in Italia, nel maggio del 1900. "Les Vices et les Vertus de Padoue et de Combray" doveva essere il titolo di un'intera sezione del terzo e ultimo volume secondo il progetto concepito al momento della pubblicazione di "Swann" presso Grasset. 
Così si sarebbe intitolato l'episodio del viaggio a Venezia, che avrebbe dovuto comprendere un'appendice padovana, poi soppressa, con la vicenda dell'amore per la "femme de chambre" della baronessa Putbus (cfr. 
M. Bardèche, "Marcel Proust romancier", Paris, Les Sept Couleurs, 1971, t. I, pp. 299-300). Nota 77. 
Lo scrittore che suscita nel N. questa associazione eroticopaesaggistica potrebbe essere Flaubert. 
In "L'Affaire Lemoine par Gustave Flaubert" (il "pastiche" pubblicato da Proust nel Supplément littéraire del Figaro, 14 marzo 1908) leggiamo infatti, a proposito della delusione di coloro che avevano sperato di poter conquistare la ricchezza e la felicità grazie al metodo per la fabbricazione dei diamanti inventato da Lemoine: E finivano per non vedere più che due grappoli di fiori viola, che scendono fino all'acqua veloce e quasi la toccano nella luce cruda di un pomeriggio senza sole, lungo un muro rossastro e sgretolato. In "Madame Bovary" sia il primo amore non realizzato tra Emma e Léon, sia quello con Rodolphe sono associati al fiume, ai muri dei giardini, ai fiori di colore viola: I muri dei giardini, adorni in cima di cocci di bottiglia, erano caldi come la vetrata di una serra. 
Tra i mattoni erano spuntati dei ramolacci; e, passando, Madame Bovary faceva cadere col bordo del suo ombrellino aperto una polvere gialla di quei fiori sciupati (ed. 
Michel Lévy, 1862, p. 116); Le foglie non si muovevano. 
C'erano grandi spazi pieni di eriche fiorite, e delle chiazze viola si alternavano a una gran varietà di alberi grigi, fulvi o dorati... (p. 193). 
Altri esempi potrebbero essere tratti dall'"Education sentimentale". 
Nella sua edizione dei "Pastiches" di Proust, Jean Milly ricorda però che in un frammento manoscritto di "Swann" (pubblicato su La Table ronde, 2, aprile 1945, pp. 5-33) l'associazione di cui stiamo parlando è stabilita con un romanzo di Balzac: Certi romanzi che allora leggevo - forse "Le Lys dans la vallée", ma non ne sono sicuro - mi ispiravano un grande amore per certi fiori a conocchia, che sovrastano un sentiero fiorito coi loro grappoli dai colori cupi. 
Quante volte li ho cercati dalla parte di Guermantes, fermandomi davanti a qualche digitale, lasciando che i miei genitori mi sopravanzassero e scomparissero dietro un'ansa della Vivette affinché nulla potesse turbare i miei pensieri, ripetendomi la frase amata, chiedendomi se era proprio quel fiore che il romanziere aveva voluto dipingere cercando di identificare in base al paesaggio letto quello che stavo contemplando, per dargli la dignità che la letteratura conferiva già, per me, alla realtà manifestandomene l'essenza e insegnandomi a riconoscerne la bellezza. 
Nota 78. 
Cfr. 
Alfred de Musset (1810-57), "La Nuit de Mai", v. 81. 
Come "La Nuit d'Octobre", citata sopra, questa poesia appartiene alla suite delle Nuits (1835-37). Nota 79. 
Cfr. 
Jean Racine (1639-99), "Phèdre", v. 36. 
Nota 80. 
Il poeta parnassiano Ch-M. 
Leconte de Lisle (1818-94), che trasse ispirazione dall'antica Grecia e volse in francese l'"Iliade" e l'"Odissea". Bloch, per affettazione, ne imita lo stile pseudoomerico. 
Nota 81. 
Componimento in versi incluso nei "Poèmes antiques" (1852) di Leconte de Lisle. "Bhagavat" (o "Bhagavan") significa beato, ed è in India un appellativo riservato a Visnu, a Krsna e alle incarnazioni del Buddha. 
Nota 82. 
Fa parte dei "Poèmes tragiques" (1884) di Leconte de Lisle. 
Nota 83. 
Questo paradossale giudizio sul celebre verso di Racine va ascritto, non a Leconte de Lisle, bensì a Théophile Gautier. 
Cfr. infatti il "Cahier 26", fol. 1-37, del Fondo Marcel Proust alla Bibliothèque Nationale: Mi ricordo le mie angosce mentre passeggiavo dalla parte di Méséglise perché qualcuno mi aveva detto che secondo Théophile Gautier il più bel verso di Racine è "La fille de Minos et de Pasiphaé". 
Allora io non potevo lasciare all'arte, che collocavo molto al di sotto della filosofia, nessuna dignità se non a condizione che contenesse qualche grande idea. 
Che questo verso di Racine, che certi versi di Leconte de Lisle fossero più belli dei versi filosofici di Sully-Prudhomme, questo fatto mi sconvolgeva proprio perché percepivo quella bellezza che non riuscivo a giustificare. 
E pensare che oggi - per delle ragioni completamente diverse da quelle di Théophile Gautier - io non attribuisco quasi nessuna importanza al contenuto intellettuale esplicito di un'opera d'arte. 
Ma non era ancora arrivato il momento in cui avrei incontrato l'idea che dell'arte mi faccio oggi e dovevo ancora percorrere molte strade prima di giungervi (recentemente pubblicato in M. Bardèche, "M. P. 
romancier", ed. cit., t. I, p. 387). 
Cfr. anche la risposta di Proust a un'inchiesta sull'antitesi romanticismo/classicismo, pubblicata sulla Renaissance politique, littéraire, artistique dell'8 gennaio 1921. Vi si legge, tra l'altro: Non c'è nulla di più stupido che dire come fa Théophile Gautier - il quale del resto era un poeta di terz'ordine - che il più bel verso di Racine è "La fille de Minos et de Pasiphaé" (cfr. 
CSB, p. 618). 
Che i versi privi di significato fossero più belli di quelli dotati di un contenuto concettuale è uno stereotipo di tutta la cultura dell'"Art pour l'art". 
Nei "Souvenirs littéraires" di Maxime Du Camp tale tesi è attribuita a Flaubert: Il répetait souvent: "[...] un beau vers qui ne signifie rien est supérieur à un vers aussi beau qui signifie quelque chose: hors de la forme, point de salut [...]" (Ripeteva spesso: "[...] un bel verso che non significa nulla è superiore a un verso altrettanto bello che significhi qualcosa: al di fuori della forma, nessuna salvezza [...]"; citato in G. Flaubert, "Oeuvres complètes", a c. di B. 
Masson, Paris, Ed. du Seuil, 1964, t. 1, p. 21). 
Nota 84.La madre di Proust, Jeanne Weil, era di famiglia ebrea. 
Nota 85. 
Opera in cinque atti di Fromental Halévy (in origine Hal Lévy), nato nel 1799 e morto nel 1862, su libretto di Eugène Scribe (1791-1861); prima rappresentazione: 1835. Il musicista era padre di Madame Straus, amica di Proust (e, in parte modello di Madame Verdurin), moglie in prime nozze del compositore Georges Bizet da cui aveva avuto un figlio, Jacques, compagno di scuola di Proust al Lycée Condorcet. 
Madame Straus era anche zia di un altro suo compagno di scuola, Daniel Halévy, figlio di Ludovic Halévy (1834-1908), librettista con Henri Meilhac (1831-97) di molte operette di 
J. 
Offenbach. 
Ludovic era a sua volta figlio di Léon Halévy (1802-83), che era fratello di Fromental. 
Il nonno del N. canticchia il coro della prima scena del secondo atto: O Dieu de nos Pères / Toi qui nous éclaires / Parmi nous descends! / O Dieu de nos Pères / Cache nos mystères / A l'oeil des méchants (Dio dei nostri padri, / tu che ci illumini, / scendi in mezzo a noi! / Dio dei nostri padri, / nascondi i nostri misteri / agli occhi dei malvagi). 
Nota 86. 
E' l'aria di Sansone nella seconda scena del primo atto dell'opera "Samson et Dalila" di Camille Saint-Sans (1835-1921), su libretto di Ferdinand Lemaire, rappresentata per la prima volta a Weimar il 2 dicembre del 1877 e ripresa a Parigi nel 1892: Isral! romps ta chaine! / O peuple, lève-toi! / Viens assouvir ta haine! / Le Seigneur est en moi! / O toi, Dieu de lumière, / Comme aux jours d'autrefois / Exauce ma prière / Et combats pour tes lois! (Israele spezza la tua catena! / O popolo, sollevati! / Vieni a saziare il tuo odio! / Il Signore è in me! / O tu Dio di luce, / come negli antichi tempi / esaudisci la mia preghiera / e combatti per le tue leggi!). 
Nota 87. 
E' l'aria di Giuseppe dal primo atto del "Joseph" di EtienneNicolas Méhul (1763-1817), rappresentato per la prima volta nel 1807, ma riproposto nel 1899 all'Opéra in una nuova versione con recitativi di Bourgauld-Decoudray (1840-1910), su testo di Armand Sylvestre (1837-1901). 
Nota 88. 
Nonostante la pubblicazione di tanti studi su Proust e la musica, e nonostante le nostre pazienti ricerche, non è stato fino ad oggi chiarito donde siano tratte alcune delle arie d'opera canticchiate dal nonno del N. Ciò vale sia per "Arcieri, fate buona guardia!...", sia per "E come? Di quel timido israelita...", sia per "Sì, della razza eletta io sono". 
Al momento non si può escludere che siano citazioni immaginarie, maliziosamente mescolate con celebri melodie reali. 
Nota 89. 
Le due tragedie di Racine, messe in scena rispettivamente nel 1691 e nel 1677. 
A p. 241 si cita - inquadrandolo nel repertorio della Berma - il "Cid" (1636) di Corneille, dove il principale ruolo femminile è quello di Chimène. Nota 90. 
In italiano nel testo. 
Nota 91. 
Nel 1480, durante un soggiorno a Costantinopoli, Gentile Bellini (1429-1507) dipinse il ritratto di Mehmed Il Fatih, il Conquistatore (1430-81), ora conservato alla National Gallery di Londra, ma facente parte fino al 1916 della collezione di opere d'arte che l'amatore inglese sir Austen Henry Layard aveva radunato nel suo palazzo sul Canal Grande. Il ritratto del Bellini è riprodotto in un libro che Proust certamente conosceva: il volume dedicato a Venezia nell'ambito della serie Les Villes d'art célèbres, pubblicata dal 1900 al 1909 dall'editore Laurens. 
Questa collana è espressamente citata in "All'ombra delle fanciulle in fiore".Nota 92. 
Il portale occidentale della cattedrale di Chartres capolavoro della scultura tardo-romanica - è decorato con statue di re e regine della Bibbia, antenati di Cristo. 
Nell'introduzione alla sua traduzione della "Bible of Amiens" di Ruskin, Proust cita in nota un passo di un'altra opera ruskiniana, "The Two Paths", in cui le sculture del portale occidentale di Chartres sono paragonate e riconosciute superiori alla statua della Madonna della cattedrale di Amiens: Queste statue sono state considerare a lungo e giustamente come rappresentative dell'arte più nobile del Dodicesimo e dell'inizio del Tredicesimo secolo in Francia [...] (CSB, pp. 79-83). 
Nota 93. 
Nel 1874 Anatole France - che è uno dei principali modelli di Bergotte - scrisse una prefazione alla nuova edizione in cinque volumi delle opere di Racine, e il suo saggio fu pubblicato anche come fascicolo autonomo. 
Nota 94. 
Processioni compiute nei tre giorni che precedono la festa dell'Ascensione per chiedere al Signore di benedire i lavori dei campi e di preservare gli animali da malattie contagiose. Furono istituite nel 470, e generalizzate nell'anno 800 per iniziativa del papa Leone Secondo, il quale intese soprattutto sostituire con cerimonie cristiane i riti pagani degli "Ambarvalia". 
Nota 95. 
Il canonico Joseph Marquis, curato di Illiers, pubblicò nel 1907 un volume intitolato "Illiers" nella serie delle Archives historiques du diocèse de Chartres: vi si discutono le possibili etimologie dei toponimi locali. 
Nota 96. 
Durante la Rivoluzione francese fu demolita, a Illiers, la chiesa di Saint-Hilaire, che sorgeva fuori dell'abitato, dalla parte di Méréglise. 
Nota 97. 
Nel tesoro della cattedrale (dedicata a Saint-Etienne) di questa cittadina non lontana da Fontainebleau, si conservano tappezzerie del '400 raffiguranti storie della Vergine e vicende bibliche. 
Cfr. 
M.A. 
Vogely, "A Proust Dictionary", Troy, New York, Whitston, 1981, p. 653: In una sala del Tesoro c'è una tovaglia d'altare, un trittico, in lino e seta, con ricami d'oro e d'argento, della seconda metà del sec. 
XV. 
Una parte reca scene dell'Antico Testamento, tra cui Ester incoronata da Assuero. 
I personaggi del paramento indossano costumi di corte quattrocenteschi. 
Nota 98. 
Carlo Secondo, re di Navarra e conte di Evreux (1332-87), definito da Voltaire uno dei flagelli della Francia ("Essai sur les Moeurs", Il, cap. 
LXXVI) e soprannominato Carlo il Malvagio, è raffigurato in ginocchio e con le mani giunte in una vetrata della cattedrale di Evreux (che questo personaggio trecentesco sia uno dei modelli di Gilberto il Malvagio, è dimostrato anche dal fatto che in molte varianti autografe Proust scrisse Charles invece di Gilbert le Mauvais). 
Saint-Simon spiega nei "Mémoires" che quel soprannome gli derivò da una serie di azioni violente e criminali (t. V dell'edizione Hachette del 1886, p. 188, nota 3). 
Durante la guerra dei Cent'anni combatté contro il Delfino, e le sue bande devastarono l'abbazia di Jumièges. 
J. Marquis riferisce che anche nella zona di Chartres e di Illiers ci furono saccheggi compiuti dai suoi soldati. 
Nonostante le molte scelleratezze, Carlo di Navarra è comunque raffigurato nella vetrata di Evreux per aver fatto ricostruire la cattedrale distrutta dal re Giovanni (cfr. J. Fossey, "Monographie sur la Cathédrale d'Evreux", 1898, p. 59). 
Una vetrata sovrastante il coro della chiesa di Saint-Jacques a Illiers rappresenta a sua volta un antico signore feudale del luogo, Florent d'Illiers, che combatté a fianco di Giovanna d'Arco. 
Florent figura in piedi tra Cristo, SaintJacques, Saint-Hilaire e Miles d'Illiers, che fu vescovo di Chartres. 
Nota 99. 
Come rilevano J. Nathan e M.A. 
Vogely (op. cit., pp. 317-8), Proust ha certamente desunto sia questo esempio di linguistica inversione sessuale (che prelude alle scoperte di "Sodoma e Gomorra") sia le varie deformazioni del nome di Saint-Hilaire dal libro di Jules Quicherat, "De la formation franaise des anciens noms de lieux", Paris, Librairie A. Franck, 1867, pp. 65-7. 
Nota 100. 
Un sovrano carolingio con questo nome non è mai esistito, al pari dell'ipotetico Pipino l'Insensato. 
Del resto la dinastia carolingia scomparve definitivamente nel 991, circa 35 anni prima della nascita del normanno Guglielmo il Conquistatore (1027-87; 1066: battaglia di Hastings e conquista dell'Inghilterra), il quale, perciò, difficilmente avrebbe potuto aiutare il malvagio Gilberto a sconfiggere il fratello Carlo. 
Ci troviamo, insomma, di fronte a un divertente "pastiche" pieno di informazioni inesatte. 
Il curato di Combray confonde tra loro i nomi degli antichi sovrani. 
Personaggi storici furono Carlo Terzo il Semplice (879-929) e suo padre Luigi o Ludovico il Balbuziente (846-79), figlio di Carlo Secondo il Calvo (823-77), cui era toccata la parte occidentale dell'impero. 
Nota 101. 
Citazione quasi testuale dal libro dell'abbé Marquis su Illiers. 
Scrive infatti il dotto abate: Il visconte di Chteaudun, Goffredo, aveva prematuramente perduto il padre ed esercitava il potere con l'indipendenza e la presunzione di una giovinezza a cui era mancata la disciplina (p. 28). 
In realtà, però, questo Goffredo d'Illiers vissuto nell'Undicesimo secolo è il principale modello proprio di Gilberto il Malvagio, e non di suo fratello Carlo. 
Lottando con accanimento contro Fulberto, vescovo di Chartres, e contro il re Roberto (996-1031), Goffredo perpetrò atroci devastazioni nella regione di Illiers; nel 1020 diede alle fiamme la cattedrale di Chartres. 
Volendo poi espiare i suoi misfatti, fondò due monasteri. 
Nota 102. 
In alcune varianti dei manoscritti proustiani, la crudeltà degli antichi signori di Guermantes è esemplificata attraverso le stragi ordinate nel medioevo da una Oriane de Guermantes la quale in un sol giorno faceva decapitare sessanta vassalli e gettare le loro teste in quei famosi fossati di Guermantes... (cfr. 
Cl. Quémar, art. 
cit., CMP 6, p. 301). 
Nota 103. 
Teodeberto Primo fu re merovingio d'Austrasia (Francia orientale e Germania) dal 534 al 548. 
Un Teodeberto Secondo regnò dal 595 al 612. 
Ma in una delle varianti, anziché Teodeberto troviamo Childeberto. 
Ciò spiega l'allusione alle guerre contro i Burgundi. 
Nelle "Lettres sur l'Histoire de France" di Augustin Thierry, Proust poteva infatti leggere che Childeberto, aiutato dai fratelli Clotario e Clodomero, intraprese una prima spedizione contro i Burgundi nel 523, ma ne uscì sconfitto. 
Fu invece coronata dal successo una seconda spedizione nel 532. Nota 104. 
Goffredo visitò la cattedrale di Chartres nel 1040, convinto che l'oblio fosse ormai sceso sulle devastazioni e sugli incendi ch'egli un tempo aveva moltiplicato in quella contrada. 
Purtroppo il suo nome era ancora inviso nella memoria degli abitanti. 
All'uscita dalla messa, alcuni cittadini di Chartres lo assalirono e lo trucidarono (J. Marquis, op. cit., p. 36). 
Nota 105. 
J. Racine, "Athalie", atto Il, scena VII, v. 688 (Le bonheur des méchants comme un torrent s'écoule). 
Narra la Bibbia (2Re 2 e 2Cronache 22,9-23,21) che Atalia - figlia di Acab, moglie del re di Giuda Ioram e madre di Acaz - decise di vendicare l'uccisione di quest'ultimo ad opera di Ieu (unto dal Signore per distruggere i re idolatri) e di massacrare tutti i discendenti della casa di Giuda, cioè della stessa stirpe del re suo marito. 
Soppresse quindi tutti i nipoti, tranne Ioas, che fu salvato e allevato segretamente nel Tempio dal sacerdote Ioiada. 
Quando Ioas compie sette anni, il gran sacerdote lo mostra al popolo che lo riconosce come re, mentre Atalia viene uccisa. 
Nota 106. 
Secondo J. Nathan (op. cit., p. 45), si tratta di un'allusione alla celebre frase Les Franais n'ont pas la tte épique con cui Nicolas de Malezieu (1650-1727) aveva motivato la mediocrità dei numerosi poemi epici scritti in Francia durante il diciassettesimo secolo. 
Nota 107. 
Si veda, per questa particolare cifra pittorica, la nota 42. 
Nota 108. 
La fierezza di Artabano - un personaggio del romanzo "Cléopatre" di G. de La Calprenède (1614-63) - era divenuta proverbiale, grazie anche all'enorme e duraturo successo riscosso dal libro. 
Nota 109. 
Questo verso (Les bois sont déjà noirs, le ciel est encor bleu) di Paul Desjardins (1859-1940) appartiene al poema "Celui qu'on oublie", del 1883, dedicato a Lamartine. 
Nota 110. 
Desjardins, che era stato professore di Proust all'Ecole des Sciences Politiques, aveva fondato nel 1892 l'Union pour l'Action morale, con l'intento di reagire al pessimismo filosofico e allo scetticismo. 
Nel 1898, in seguito all'"affaire" Dreyfus, il movimento si scisse: l'ala più nazionalista e antidreyfusarda si raccolse nell'Action franaise, mentre Desjardins costituì l'Union pour la vérité. 
Nei primi anni del Novecento Desjardins, per contribuire all'elevazione morale della società, promosse le "Décades", dibattiti che duravano dieci giorni e si svolgevano nell'abbazia medievale di Pontigny, nei pressi di Auxerre. 
Fu proprio attraverso il Bulletin de l'Union pour l'Action morale, diretto da Desjardins, che Proust entrò in contatto con l'opera di Ruskin; a partire dal 1893, infatti, la rivista pubblicò alcuni estratti ricavati dai libri dello scrittore inglese. Nota 111. 
Jean-Henri Fabre (1823-1915), entomologo, definito il Virgilio degli insetti, raccolse le sue osservazioni nei dieci volumi dei "Souvenirs entomologiques" (1879-1907). 
Nota 112. 
Nel secondo capitolo del "Lys dans la vallée", Balzac fa abbondante uso del linguaggio dei fiori. 
Per esprimersi l'un l'altro in forma sublimata la loro reciproca, ricambiata passione, i due innamorati (Madame de Mortsauf e Félix de Vandenesse) inventano o progettano mazzi di fiori sempre più complessi e ricchi di allusioni sentimentali o erotiche. 
Nel nono volume della nuova edizione Pléiade (Paris, Gallimard, 1978) leggiamo, a p. 1056: Attorno al collo svasato della porcellana, supponete un bordo spesso composto unicamente di ciuffi bianchi, caratteristici del sedum che cresce nelle vigne della Touraine; vaga immagine delle forme desiderate, avviluppate come quelle di una schiava sottomessa. 
Sensualità e sottomissione, dunque. 
Ma alla buona memoria del lettore di Balzac il poetico e floreale invito a pranzo di Legrandin si disvela come un vero e proprio tentativo di seduzione. 
Nelle "Illusions perdues", infatti, il sedum viene associato all'incontro tra Lucien de Rubempré e Vautrin. 
Quando Lucien, sconfitto dalla dura realtà, vuole suicidarsi gettandosi nella Charente, l'improvviso passaggio di una diligenza lo induce, per darsi un contegno, a cogliere dei fiori di sedum in una vigna. 
Tornato sul sentiero si imbatte in Vautrin, che rimane colpito dalla bellezza profondamente malinconica del giovane e dal suo mazzolino simbolico. 
Vautrin - scrive Balzac - sembra un cacciatore che abbia trovato una preda a lungo e invano braccata. 
Mi sembrate afflitto da qualche dolore egli dice a Lucien, almeno ne avete in mano l'insegna, come il triste dio dell'imene. 
Nella mitologia greca, Imeneo è il dio che guida il corteo nuziale. 
In tutte le versioni di questo mito, appare come un giovane a tal punto avvenente da essere talvolta scambiato per una fanciulla e da suscitare l'amore di Apollo e di Espero. Muore il giorno stesso delle sue nozze, ma Asclepio lo risuscita. 
In alcune raffigurazioni antiche, tiene in mano un serto intrecciato con fiori di campo. 
Nota 113. 
Cfr. 
Vangelo secondo Matteo 6, 28-9: E' per il vestito perché vi preoccupate? Osservate i gigli del campo come crescono: non faticano né filano, eppure vi dico che neppure Salomone in tutta la sua gloria si vestì come uno di essi. 
Nota 114. 
Da un punto di vista strettamente botanico, non esiste nessuna rosa così denominata. 
Inoltre, storicamente, a Gerusalemme non crescevano piante di rose, eccettuato - secondo una tradizione rabbinica del tempo della diaspora - un solo roseto. 
La rosa di Gerusalemme potrebbe quindi essere, per l'estetismo di Legrandin, il simbolo della bellezza impossibile, del sogno che non si avvera nella realtà. 
Ma se consideriamo Gerusalemme come una sineddoche per designare la Palestina in generale o almeno la valle del Giordano, Legrandin potrebbe riferirsi a un versetto di Isaia (35, 1), citato da Ruskin come esergo della seconda parte del suo libro "Sesamo e i gigli", tradotto - com'è noto - da Proust: Sii felice, o deserto assetato, esulti la solitudine e fiorisca come il giglio; e dagli aridi luoghi di Giordania scaturiranno foreste selvagge ("Isaia", XXXV, 1, versione dei Settanta). 
In una nota del traduttore, cioè dello stesso Proust si precisa: La versione abituale è: "Il deserto e il luogo arido esulteranno e la solitudine sarà nell'allegria e fiorirà come una rosa" [leggermente diverso il testo della Bibbia Concordata: "Gioiranno il deserto e le sabbie, esulterà la steppa e darà fiori"]. Cfr. "Pittori moderni" ["Modern Painters", altra opera ruskiniana], vol. IV, cap. 
VII, paragrafo 4: "Bisogna che la furia delle tempeste colpisca le montagne, che i rovi e le spine crescano su di esse; ma le tempeste colpiscono invece le montagne in modo da dare alle rocce le forme più belle; e i rovi e le spine crescono in modo che il deserto fiorisca come la rosa". 
Vedi anche "Fors Clavigera" [sempre di Ruskin], vol. 
IV (quest'ultimo passo citato da Bardoux): "La storia della valle delle rose non è finita. 
Le montagne e le colline romperanno il silenzio, intoneranno canti, e, all'attorno, il deserto si rallegrerà e fiorirà come la rosa" (M. Proust, "Commento a Sesamo e i gigli di John Ruskin", prefazione di G. Macchia, a c. di B. Piqué, Milano, Editoriale Nuova, 1982, pp. 147 e 179). 
La rosa di Gerusalemme sarebbe - dunque - la rosa del deserto, la gioia che nasce dalla solitudine e dalle sofferenze. 
C'è tuttavia anche un'altra possibile interpretazione. 
Se si tiene conto del contiguo riferimento a Balzac e all'incontro tra Vautrin e Lucien de Rubempré e se si pensa all'episodio del rapporto omosessuale tra il barone di Charlus e Jupien in "Sodoma e Gomorra", intervallato dal racconto della fecondazione di un'orchidea da parte di un calabrone, l'immagine delle due farfalle che attendono alla porta per poter entrare nella prima rosa di Gerusalemme potrebbe anche racchiudere un significato oscuramente osceno. 
Si veda inoltre, nel "Voyage en Orient" di Flaubert, la sua seconda visita al Santo Sepolcro di Gerusalemme: Il prete greco ha preso una rosa, l'ha gettata sulla pietra, vi ha versato dell'acqua di rosa, l'ha benedetta e me l'ha data; è stato uno dei momenti più amari della mia vita, sarebbe stato così dolce per un credente! (G. Flaubert, "Oeuvres complètes", ed. cit., t. Il, p. 
611). 
Si consideri, infine, che nell'iconografia cristiana la rosa è simbolo di rigenerazione e resurrezione ed anche del calice che raccoglie il sangue di Cristo: il Graal. 
Nel Paradiso di Dante (canti XXX, XXXI) la candida rosa coincide con la milizia santa, la Gerusalemme celeste (XXX 129 sgg.: Vedi nostra città quant'ella gira [...]); la rosa del Saron nel "Cantico dei Cantici" (2, 1) è metafora della Sposa (Sion, Gerusalemme) che attende l'arrivo dello Sposo. 
La farfalla, con le sue metamorfosi, è anch'essa simbolo di resurrezione; di più: l'immagine di due farfalle è, in Giappone metafora della felicità coniugale, mentre la vista di una farfalla è considerata presagio di una visita imminente o della morte. 
Per la funzione simbolica del vento (lo spirito di Dio, ma anche la potenza fecondante) si veda ancora il "Cantico dei Cantici" (4, 15). 
Nota 115. 
In lingua celtica AR = su e MOR = mare, donde il nome di una zona della Bassa Bretagna, l'Armorica: il paese vicino al mare.Nota 116. 
In "Pierre Nozière" (1899) Anatole France (1844-1924) paragona la Pointe du Raz in Bretagna al paese dei Cimmeri: Nel mondo celtico come nel mondo ellenico, i morti hanno una loro terra che l'Oceano separa dalla nostra, un'isola brumosa che essi abitano in massa. 
Là è l'isola dei Cimmeri; qui, più vicina alla riva, l'isola dei Sette Sonni (éd. 
Nelson-Calmann-Lévy, p. 266). 
Nell'"Odissea", Ulisse incontra i Cimmeri nel libro XI (vv. 13-9): ed essa [la nave] giunse ai confini di Oceano dalla profonda corrente. / Lì sono il popolo e la città dei Cimmerii, / avvolti da nebbie e da nuvole: mai / il Sole splendente li guarda con i suoi raggi, / né quando sale nel ciclo stellato, / né quando volge dal cielo al tramonto, / ma una notte funesta si stende sugli infelici mortali (trad. di G.A. 
Privitera, in: Omero, "Odissea", Volume IlI, Libri IX-XII, a c. di A. 
Heubeck, Milano, Fond. 
Valla/Mondadori, 1983). 
Storicamente i Cimmeri furono un antico popolo della Crimea che invase l'Asia minore nell'Ottavo sec. a.C., ma venne respinto dai Lidi. 
Nota 117. 
Nell'edizione Grasset del 1913 il testo era: sa femme et sa fille partaient pour Chartres. 
Prima della guerra, infatti, Proust aveva collocato Combray nella stessa area geografica dove si trova Illiers, cioè non lontano da Chartres. 
Avendo poi deciso di coinvolgere nelle distruzioni provocate dal primo conflitto mondiale la cittadina dell'infanzia, la spostò bruscamente verso est, immaginandola tra Reims e Laon, dove più intensi imperversarono i combattimenti tra Francesi e Tedeschi. 
Nota 118. 
Sulla tenebrosa mitologia marinara che circonda le acque vorticose dello stretto norvegese del Malstrm, nell'arcipelago delle Lofoti (Mare del Nord), Edgar Allan Poe ha costruito uno dei suoi racconti più tesi, "Una discesa nel Maelstrm" (1841). 
Nota 119. 
Naturalmente dal nome di Madame de Pompadour (1721-64): indica lo stile rococò fiorito durante il regno di Luigi Quindicesimo. 
Nota 120. 
C'è un'ispirazione ruskiniana al fondo di questa associazione tra i biancospini e il culto cattolico della Vergine. 
Era stato Ruskin ad attirare l'attenzione di Proust sul fatto che l'ornamento floreale della statua della Madonna ad Amiens non era una ghirlanda convenzionale, ma una squisita composizione di biancospini. 
E nelle "Pietre di Venezia": L'architetto della cattedrale di Bourges amava i biancospini e ha quindi tappezzato di biancospini il suo portale. E' una perfetta Niobe di maggio (cfr. 
CSB, p. 81). 
Nota 121. 
Evidentemente è trascorso del tempo dalla drammatica notte in cui la visita di Swann impedì al N. di ricevere il bacio materno. 
Allora Swann abitava sul quai d'Orléans. 
Adesso risiede, con moglie e figlia, nel quartiere dei Champs-Elysées gravitante intorno all'omonima avenue, che dall'Arc de Triomphe giunge fino a place de la Concorde. Nota 122. 
Ironica parafrasi di alcuni versi pronunciati dalla Fedra raciniana, personaggio con cui il N. tende a identificarsi: Que ces vains ornements que ces voiles me pèsent! / Quelle importune main, en formant tous ces noeuds, / A pris soin sur mon front d'assembler mes cheveux? (Racine, "Phèdre", atto I, scena IlI, vv. 158-60: Come mi pesano questi vani ornamenti e questi veli! / Quale mano importuna ha sistemato i miei capelli / sulla fronte formando tutti questi nodi?). 
Per un'analisi delle variazioni subite dal tema di Fedra nella "Recherche" si può vedere il mio saggio "Racine e Charlus", in "Le città dell'ombra", Roma, Bulzoni, 1979, pp. 165-77. 
Nota 123. 
Nell'edizione Grasset del 1913 il testo era: Je savais que Mademoiselle Swann allait souvent à Chartres passer quelques jours.... 
Nota 124. 
Joseph-Xavier Boniface, detto Saintine (1798-1865), autore di opere narrative facili e sentimentali, tra le quali spicca il romanzo "Picciola", fece anche rappresentare alcuni "vaudevilles". 
Charles-Gabriel Gleyre (1808-74), pittore svizzero, paesaggista accademico, nel 1843 aveva presentato al "Salon" un quadro intitolato "Le Soir ou les Illusions perdues", attualmente al Louvre. 
Un'analoga associazione Gleyre/Saintine compare nell'articolo ["Le peintre. 
Ombres - Monet"] pubblicato per la prima volta da Bernard de Fallois tra i "Nouveaux mélanges" (1954) e poi ripreso in CSB, pp. 675-7: Quando siamo fanciulli e cerchiamo nei libri la luna e le stelle, la luna di "Picciola" ci entusiasma perché è un astro scintillante [...] E' l'epoca in cui nei musei apprezziamo solo i quadri di Gleyre e di Ingres, in cui abbiamo bisogno di forme mirabili, di lune come un corno d'argento su un cielo seminato di stelle [...]. 
Nota 125. 
Come osserva Giovanni Macchia ("L'angelo della notte", Milano, Rizzoli, 1979, p. 135), nell'articolo "Le Salon de la Comtesse Potocka" (pubblicato sul Figaro del 13 maggio 19o4 e raccolto poi in "Chroniques") Proust aveva già accennato a quella storia di Campaspe che fa camminare Aristotele a quattro zampe, una delle pochissime storie dell'antichità che il medioevo abbia raffigurato nelle sue cattedrali per dimostrare l'impotenza della filosofia pagana a preservare l'uomo dalle passioni (cfr. 
CSB, p. 493). 
Ancora una volta la fonte è il libro di Emile Male sull'arte religiosa del Duecento francese (ed. cit., p. 337), dove è anche riprodotto il bassorilievo Aristotele e Campaspe che figura sulla facciata della cattedrale di Lione. 
Era stato proprio Male, infatti, a sottolineare che i grandi saggi dell'antichità non sono mai rappresentati nelle cattedrali, salvo Aristotele e Virgilio, ma in circostanze quanto mai indecorose. 
Il celebre aneddoto su Aristotele costituisce anche il tema di un "lai" scritto nel 1225 da Henri d'Andeli. 
Il filosofo vorrebbe sottrarre il suo discepolo Alessandro Magno alla folle passione per la bella Campaspe. 
Costei decide di vendicarsi, compare seminuda davanti al vecchio sapiente, lo seduce, lo costringe a mettersi una sella sulla schiena e a lasciarsi cavalcare. 
Per quanto riguarda l'allusione a Virgilio, si tratta di un'altra famosa leggenda, raffigurata - come ricorda Male - su un capitello trecentesco della chiesa di SaintPierre a Caen. 
Il poeta (cui nel medioevo si attribuivano straordinarie doti intellettuali e persino facoltà magico-profetiche) accetta un appuntamento galante con una maliziosa matrona romana. 
Poiché costei vive in cima a una torre, per raggiungerla Virgilio deve farsi issare dentro una cesta. 
Ma la donna fa fermare la cesta a mezza altezza: e il poeta è costretto a trascorrere la notte in una situazione tra le più imbarazzanti, che lo esporrà, la mattina successiva, al ludibrio popolare. 
Di Emile Male, Proust divenne amico e, durante il periodo dell'entusiasmo per Ruskin e per l'architettura medievale, si giovò spesso della vasta erudizione dello studioso nell'organizzare i suoi itinerari storico-artistici. 
Nota 126. 
Cfr., ai vv. 2397-2442, il compianto di Carlo Magno per la more di Rolando. Nota 127. 
Come ha suggerito Giovanni Macchia (op. cit., pp. 224-5), questo brano vagamente oscuro diventa più comprensibile se si tiene conto di quel dramma (rimasto allo stadio di semplice progetto) che Proust aveva meditato di scrivere nel 1906 in collaborazione con l'amico René Peter, durante un prolungato soggiorno all'"Htel des Réservoirs" di Versailles. Sulla base di una lettera a Reynaldo Hahn ("Corr." VI, p. 216) se ne può ricostruire la trama: un uomo adora la propria moglie, ma un impulso degradante lo spinge ad avere rapporti sessuali con alcune prostitute; per sadismo, le induce a insultare la sposa amata. 
Costei lo sorprende in uno di questi momenti di aberrazione e, inorridita, lo abbandona. 
Inconsolabile, egli si suicida. 
Nota 128. 
Architetto e storico dell'arte, Eugène-Emmanuel Viollet-leDuc (1814-79) propugnò nei suoi scritti quell'opera di recupero delle più antiche strutture medievali di cui diede pratico esempio attraverso il restauro di monumenti come la Sainte-Chapelle, NotreDame e il castello di Pierrefonds. 
Nota 129. 
Nella "Processione delle reliquie della Croce in Piazza San Marco", dipinta da Gentile Bellini nel 1496 e attualmente conservata alle Gallerie dell'Accademia a Venezia, si possono ancora ammirare tutti gli antichi mosaici inseriti nelle lunette sovrastanti i cinque portali della basilica, di cui l'unico pervenuto fino a noi è il primo a sinistra. 
Nel quadro la facciata di San Marco appare inoltre in tutto lo splendore dei suoi bronzi originariamente dorati, compresi i quattro famosi cavalli. Ruskin parla di questo dipinto sia in "Guide to the Principal Pictures in the Academy of the Fine Arts at Venice" ("Works", ed. cit., vol. XXIV, p. 164), sia in "St. 
Mark's Rest" (ivi, pp. 257, 285, 290-1). 
Nota 130. 
Per l'identificazione di questa antica via di Illiers, e della locanda che vi si affacciava, si veda la nota 122. 
In un'altra locanda poco distante, l'Htel du Sauvage, soggiornò nel 1588 la duchessa Loyse de Laval, moglie di Pierre de Montmorency (cfr. P.-L. 
Larcher, "Le Parfum de Combray", Paris, Mercure de France, 1945, p. 
45, dove sono riportati alcuni brani della più volte citata monografia su Illiers dell'abbé Marquis). 
Nota 131. 
Anne-Marie-Louise d'Orléans (1627-93), duchessa di Montpensier, detta la Grande Mademoiselle, era figlia di Gaston d'Orléans, fratello di Luigi Tredicesimo. Tra i protagonisti della Fronda, la nobildonna dovette ritirarsi nelle sue terre di SaintFargean dopo la vittoria di Mazzarino. 
Tornata a corte, si innamorò del dandy Lauzun, ma il re proibì la "mésalliance". 
I suoi vivaci "Mémoires" coprono il periodo tra il 1630 e il 1688. 
Per quanto riguarda la duchessa di Montmorency (un antichissimo casato, il cui capostipite, Bouchard Primo barone di M., fu un contemporaneo di Ugo Capeto), potrebbe trattarsi sia di Marie-Félicie des Ursins (1601-66), moglie di Henri Secondo duca di Montmorency, sia di CharlotteMarguerite (1594-1650), figlia di Henri Primo de Montmorency, andata in sposa al principe di Condé. 
Nota 132. 
Il castello di Illiers era stato edificato nel 1019 dal visconte Geoffroy de Chteaudun, impegnato in un aspro conflitto contro il vescovo di Chartres, Fulberto. 
Nota 133. 
E' una diretta allusione al giardino (ancor oggi visitabile) di proprietà dello zio Jules Amiot a Illiers, assunto da Proust come modello anche per il parco di Swann. 
Già George Painter aveva segnalato che le due passeggiate dalla parte di Méséglise e dalla parte di Guermantes, se si confronta il loro itinerario con l'effettiva topografia di Illiers, coincidono nel tratto iniziale. 
Nota 134. 
Andando da Illiers verso Saint-Eman e risalendo il corso del fiume Loir, si incontra uno specchio d'acqua e, nelle vicinanze, una casa di campagna solitaria, chiamata Le Rocher de Mirougrain. 
Qui, nella seconda metà del secolo scorso, viveva appartata la giovane Juliette Joinville d'Artois, che nel 1887 pubblicò un volume di memorie, "A travers le coeur". La solitudine in cui si era immersa, attenuata solo dalla presenza di un domestico muto, e una certa eccentricità (si era fatta costruire, ad esempio, una specie di tempietto, utilizzando come materiale i "menhir" preistorici raccolti nelle campagne circostanti) avevano finito col sollevare malevole illazioni sui suoi costumi. 
Da questo punto di vista, Juliette può essere considerata una chiave di Mademoiselle Vinteuil. 
Nota 135. 
A Saint-Eman c'è una delle sorgenti del Loir, il fiume che attraversa Illiers.  
Anche la suggestione per il tema delle sorgenti del fiume trova riscontro in Ruskin, che aveva progettato di scrivere un libro sulla cattedrale di Chartres (non lontana - come sappiamo- da Illiers) e di intitolarlo "Le sorgenti dell'Eure"; libro che - insieme alla "Bibbia d'Amiens" e a un altro volume progettato sulla cattedrale di Rouen (con il titolo di "Domrémy") - avrebbe costituito il trittico "I nostri padri ci hanno tramandato": estrema e polemica proclamazione dell'insuperabile valore artistico e spirituale del medioevo cristiano. 
Cfr. 
CSB, p. 122: Ruskin non separava la bellezza delle cattedrali dal fascino del paese in cui esse sorgono [...] Non solo il primo capitolo della "Bibbia d'Amiens" si intitola: "Lungo le correnti d'acqua viva", ma il libro che Ruskin progettava di scrivere sulla cattedrale di Chartres doveva intitolarsi: "Le sorgenti dell'Eure". 
L'associazione ruskiniana tra la chiesa gotica e il fiume aveva profondamente colpito Proust, che si rivolse ai discepoli di Ruskin per chiedere informazioni sul probabile contenuto del libro mai scritto su Chartres (CSB, pp. 442-3). 
Il nome stesso della Vivonne evoca l'idea dell'acqua viva che dona la vita. 
Inoltre Proust non poteva non ricordare un brano di Ruskin, tratto da "L'arte dell'Inghilterra", che Robert de La Sizéranne riporta nel suo "Ruskin et la Religion de la Beauté": Questi caratteri della bellezza Dio ce li fa amare e li ha impressi nelle forme più familiari della vita di ogni giorno [...] Le cose più semplici e più banali, le cose più care che potete vedere ogni sera d'estate lungo gli innumerevoli corsi d'acqua, tra le basse colline delle vostre vecchie contrade familiari. 
Amate queste cose e imparate a guardarle con animo retto. 
Il Rio delle Amazzoni e l'Indo, le Ande e il Caucaso non possono darvi nulla di più. 
Nella semplicità domestica e fluviale che Ruskin raccomanda agli artisti di prediligere, ritroviamo gran parte della poetica di Combray. 
Nonostante il vistoso ripudio dell'insegnamento del maestro, che Proust, paradossalmente, accuserà proprio di mancanza di semplicità e di idolatria, l'influsso esercitato da Ruskin sul suo traduttore francese fu in realtà assai profondo, perché muovendo dal campo delle teorie estetiche e delle interpretazioni storiche si estese anche ad una modificazione della sensibilità riguardo alle piccole cose di ogni giorno. 
Proust volge le spalle al clima rarefatto del "dandysmo" postbaudelairiano anche perché ha incontrato in Ruskin l'antitesi del "dandy": l'uomo che invita ad andare verso la Natura senza scegliere, senza disprezzare, senza rifiutare nulla, in assoluta semplicità di cuore. 
Attraverso la rivalutazione - intrisa di ironia e ricca di contraddizioni - della semplicità, Proust si trova proiettato verso una dimensione più largamente umana e al tempo stesso più ambiziosa della scrittura, cioè - sulle orme di Goethe e di Tolstoj verso il grande romanzo dell'anima e della storia, nel quale il dato quotidiano più banale e campestre si intreccia - come in una cattedrale o in una Bibbia di pietra - con il ritmo epico e tragico che travolge e trasforma vaste comunità umane. 
Nota 136. 
Sempre a Saint-Eman sorge il castello dei Goussencourts, una famiglia patrizia che aveva il proprio scanno nella cappella sottostante il campanile di Saint-Jacques a Illiers. Ma per comprendere il tema della mitica distanza di Guermantes in rapporto alla topografia della zona di Illiers, non si può non tener conto del fatto che sia nel "Carnet de 1908" (il taccuino di appunti e progetti per il romanzo pubblicato da Ph. 
Kolb in CMP 8), sia nel "Cahier IV" del fondo Proust della Bibliothèque Nationale (cfr. 
Claudine Quémar, "Sur deux versions anciennes des cotés de Combray", in "Etudes proustiennes" Il, CMP 7, pp. 159-282), la meta lontana delle passeggiate lungo il fiume, dove i più illustri aristocratici locali avevano la loro dimora è chiamata Villebon. E Villebon è appunto, nella realtà, il nome di un villaggio a una decina di chilometri a nord di Illiers, molto più distante di Saint-Eman, e quindi effettivamente irraggiungibile a piedi. 
Vi si erge un bellissimo castello risalente al Quattordicesimo secolo, anticamente di proprietà dei d'Estoutteville, poi restaurato, verso la metà del '600, da Sully. 
Nella citata monografia su Illiers, J. Marquis ci informa che, prima del '600, le sorgenti del Loir si trovavano più a nord, appunto nella zona di Villebon. 
Successivamente, in conseguenza di una eccezionale siccità, quelle antiche sorgenti scomparvero, e da Villebon a SaintEman il fiume segue ora un percorso sotterraneo. 
Di qui, forse, l'associazione con la porta degli Inferi. 
Nota 137. 
Si veda la nota 77, a proposito dell'intreccio eroticofloreale-paesaggistico e del suo rapporto con un "pastiche" flaubertiano. 
Nota 138. 
Le son de la trompette est si délicieux, / Dans ces soirs solennels de célestes vendanges, / Qu'il s'infiltre comme une extase dans tous ceux / Dont elle chante les louanges ("L'imprévu", vv. 4952, in "Les Epaves", n. XVIII: Il suono della tromba è così delizioso, / nelle solenni sere di vendemmie celesti, / che sempre, come un'estasi, filtra dentro quei cuori / di cui canta le lodi trad. 
di G. Raboni, in: Ch. 
Bauclelaire "I fiori del male", a c. di A. 
Capatti, Milano, Mondadori, 1983). 
Nel saggio "A propos de Baudelaire", pubblicato sotto forma di lettera a Jacques Rivière sulla Nouvelle Revue Franaise (giugno 1921), Proust così commenta questi versi: Qui è consentito pensare che nel poeta il ricordo dell'ammiratore appassionato di Wagner si unisca alle impressioni del bighellone parigino (CSB, p. 623). 
Nota 139. 
In effetti Proust riprende qui - limitandosi a sostituire i nomi e a tagliare qualche frase - il suo articolo "Impressions de route en automobile", pubblicato sul Figaro del 19 novembre 1907 e raccolto poi in "Pastiches et Mélanges" col titolo "Les Eglises sauvées. 
Les clochers de Caen. 
La Cathédrale de Lisieux" (CSB, pp. 645). 
DALLA PARTE DI SWANN. 
(Primo volume de "Alla ricerca del tempo perduto"). 
Tomo 2. 
SOMMARIO. 
Un amore di Swann: pagina 3. 
Nomi di paesi: il nome: pagina 319. 
Note, a cura di Alberto Beretta Anguissola e Daria Galateria: pagina 391. 
Parte seconda. 
 aver lasciato quella piccola città, intorno a un amore che Swann aveva avuto prima che io nascessi, con quella precisione di dettagli che risulta più facile da ottenere, a volte, per la vita di persone morte da secoli che non per le vicende dei nostri migliori amici, e che sembra impossibile come sembrava impossibile parlare da una città a un'altra - finché si ignora il trucco grazie al quale l'impossibilità è stata aggirata. 

UN AMORE DI SWANN.
Per far parte del "piccolo nucleo", del "piccolo gruppo", del "piccolo clan" dei Verdurin, era sufficiente ma anche necessaria una condizione: aderire tacitamente a un Credo secondo un articolo del quale il giovane pianista protetto quell'anno da Madame Verdurin, e di cui lei diceva: Non dovrebbe essere consentito di saper suonare Wagner in questo modo!, "surclassava" in un colpo solo Planté e Rubinstein, e il dottor Cottard aveva più talento diagnostico di Potain. (1) Ogni "nuova recluta" alla quale i Verdurin non riuscivano a far credere che le serate della gente che non andava da loro erano noiose come la pioggia, veniva immediatamente esclusa.
Da questo punto di vista, le donne erano più riluttanti degli uomini a deporre, con ogni curiosità mondana, il desiderio di documentarsi direttamente sulle attrattive degli altri salotti, e i Verdurin, temendo dal canto loro che quello spirito inquisitivo e quel demone della frivolezza potessero, per contagio, divenire fatali all'ortodossia della piccola chiesa, avevano finito con l'eliminare uno dopo l'altro tutti i "fedeli" di sesso femminile.
A parte la giovane moglie del dottore, quell'anno le "fedeli" si erano ridotte quasi esclusivamente (benché Madame Verdurin fosse di per sé una donna virtuosa e venisse da una rispettabile famiglia borghese, smodatamente ricca e totalmente oscura, con la quale aveva a poco a poco e di proposito interrotto qualsiasi rapporto) a una figura quasi del "demimonde", Madame de Crécy, che Madame Verdurin chiamava per nome, Odette, e dichiarava essere "un amore", e alla zia del pianista, che doveva aver tenuto una portineria; persone ignare del bel mondo e talmente ingenue che era stato facile convincerle che la principessa di Sagan e la duchessa di Guermantes erano costrette, per aver gente a pranzo, a pagare qualche malcapitato, così che se avessero proposto loro di farle invitare in casa di quelle due gran dame, l'ex-portinaia e la "cocotte" avrebbero sdegnosamente rifiutato.
I Verdurin non facevano inviti a pranzo: in casa loro, ciascuno aveva sempre "il suo posto a tavola".
Per la serata non c'era programma.
Il giovane pianista suonava, ma solo se la cosa "gli andava", perché non si voleva forzare nessuno e, come diceva il signor Verdurin: Tutto per gli amici, e viva i compagni!. Se il pianista voleva suonare la cavalcata della "Walkiria" o il preludio del "Tristano", Madame Verdurin protestava, non perché quella musica le dispiacesse ma, al contrario, perché la emozionava troppo.
Allora volete proprio che mi venga la mia emicrania? Sapete bene che va sempre a finire così quando suona quella roba.
So che cosa mi aspetta! Domani, quando mi vorrò alzare, addio, sarò distrutta! Se non suonava, si faceva conversazione, e uno degli amici, più spesso il pittore favorito di turno, ne


sparava, come diceva Verdurin, una delle sue facendo sghignazzare tutta la compagnia, soprattutto Madame Verdurin, alla quale - tanta era la forza della sua abitudine di prendere alla lettera le espressioni figurate delle emozioni che provava - il dottor Cottard (allora giovane debuttante) aveva dovuto rimettere a posto la mascella slogatasi per il gran ridere. L'abito da sera era vietato perché si stava "tra amici", e per non assomigliare ai "noiosi", dai quali ci si guardava come dalla peste e che venivano invitati soltanto alle grandi serate, indette il più raramente possibile e soltanto se la circostanza poteva divertire il pittore o far conoscere il musicista.
Altrimenti ci si accontentava di giocare alle sciarade, di cenare in maschera, ma fra intimi, senza mischiare forestieri al piccolo "clan".
Ma quanto più i "compagni" avevano guadagnato spazio nella vita di Madame Verdurin, tanto più i noiosi, i reprobi erano diventati tutto ciò che tratteneva gli amici lontano da lei, ciò che qualche volta impediva loro d'essere liberi, si trattasse della madre dell'uno, della professione dell'altro, della casa di campagna o della cattiva salute d'un terzo.
Se il dottor Cottard pensava di doversene andare subito dopo mangiato per tornare accanto a un malato in pericolo di vita: Chissà, diceva Madame Verdurin, forse gli farebbe molto meglio che non lo disturbaste questa sera; passerà una buona notte senza di voi; domattina ci andrete di buonora e lo troverete guarito.
Fin dall'inizio di dicembre si sentiva male al pensiero che i fedeli "staccassero" il giorno di Natale e il primo gennaio.
La zia del pianista esigeva che in quell'occasione il nipote venisse a pranzare in famiglia dalla madre di lei: - Credete che ne morrebbe, vostra madre, esclamò con durezza Madame Verdurin, se non pranzaste con lei a capodanno come si fa in provincia! Le inquietudini riaffioravano in vista della settimana santa: - Voi, dottore, uno scienziato, uno spirito libero, naturalmente verrete il Venerdì santo come un qualsiasi altro giorno? disse a Cottard, il primo anno, con tono sicuro, come se non dubitasse della risposta.
Ma nell'attesa che questa giungesse tremava perché, se lui non fosse venuto, avrebbe rischiato di ritrovarsi sola.
- Verrò il Venerdì santo... a salutarvi, perché andiamo a passare le feste di Pasqua in Alvernia.
- In Alvernia? a farvi divorare da pulci e parassiti? Buon pro vi faccia! E dopo una pausa di silenzio: - Se almeno ce l'aveste detto, avremmo cercato di organizzarci per fare il viaggio insieme con un po' di comodità.
Allo stesso modo, se un "fedele" aveva un amico, o una "habituée" un "flirt" che avrebbe potuto indurla qualche volta a "staccare", i Verdurin, che non si spaventavano se una donna aveva un amante a patto che l'avesse in casa loro, l'amasse in loro e non lo preferisse a loro, dicevano: Ebbene, portatelo qui il vostro amico.
E lo si metteva alla prova per vedere se fosse capace di non avere segreti per Madame Verdurin, se fosse degno d'essere aggregato al "piccolo clan". Se non lo era, si prendeva da parte il fedele che l'aveva presentato e gli si rendeva il servizio di guastare i suoi rapporti con l'amico o con l'amante.
Nel caso contrario, il "nuovo" diventava a sua volta un fedele.
Così quando, quell'anno, la "demi-mondaine" raccontò al signor Verdurin di aver incontrato un uomo affascinante, il signor Swann, e insinuò che questi sarebbe stato felice d'essere ricevuto in casa loro, Verdurin trasmise seduta stante la richiesta a sua moglie. (Non aveva mai opinioni che non discendessero da quelle di sua moglie, della quale era suo compito specifico attuare i desideri, come pure i desideri dei fedeli, con grandi risorse di ingegnosità.) - C'è qui Madame de Crécy che ha qualcosa da chiederti.
Vorrebbe presentarti un suo amico, il signor Swann.
Cosa ne dici? - Ma andiamo, è mai possibile rifiutare qualcosa a una simile piccola perfezione? Tacete, non ci interessa il vostro parere, vi dico che siete una perfezione. - Se lo dite voi, rispose Odette con tono da commedia galante, (2) e aggiunse: Sapete che non sono "fishing for compliments". (3) - Portatelo dunque, il vostro amico, se è una persona gradevole.
Certo il "piccolo clan" non aveva alcun rapporto con la società frequentata da Swann, e dei mondani puri avrebbero pensato che non valeva la pena di occuparvi, come lui, una posizione eccezionale per farsi poi presentare ai Verdurin.
Ma Swann amava a tal punto le donne che a partire da un certo momento, avendo conosciuto pressoché tutte le rappresentanti dell'aristocrazia e non avendo queste più nulla da insegnargli, aveva smesso di attribuire alle lettere di naturalizzazione, quasi patenti di nobiltà, graziosamente concessegli dal faubourg Saint-Germain, un valore che non fosse quello di puro scambio, di lettera di credito che, priva di pregio in se stessa, gli consentiva però di conquistarsi sui due piedi una posizione in quel certo buco di provincia o in quel certo oscuro ambiente di Parigi dove gli era parsa graziosa la figlia del signorotto di campagna o del cancelliere.
Il desiderio o l'amore gli facevano infatti ritrovare, in quei casi, un sentimento di vanità da cui era ormai esente nella consuetudine della vita (benché in altri tempi l'avesse senza alcun dubbio indirizzato verso quella carriera mondana lungo la quale aveva sperperato in frivoli piaceri i doni della propria intelligenza e messo la propria erudizione in materia d'arte a disposizione delle dame della società per consigliarle nell'acquisto di quadri e nell'arredamento dei loro palazzi) e che lo induceva a voler brillare, agli occhi di una sconosciuta della quale s'era invaghito, di un'eleganza che il nome di Swann, da solo, non bastava a suggerire.
Questa ambizione si manifestava soprattutto se la sconosciuta era di umili condizioni.
Così come non è a un altro uomo intelligente che un uomo intelligente teme di sembrare sciocco, non è da un gran signore, ma da uno zotico che un uomo elegante paventa di veder misconosciuta la propria eleganza.
I tre quarti degli sfoggi d'intelligenza e di vanità menzognera prodigati, da che il mondo esiste, da persone che non potevano che esserne diminuite, avevano come destinatari degli inferiori.
E Swann, semplice e noncurante con una duchessa, tremava d'essere disprezzato, e posava, davanti a una cameriera.
Non era come tanti che, per pigrizia o per un senso di rassegnazione all'obbligo, creato dall'importanza sociale, di non abbandonare un certo lido, s'astengono dai piaceri proposti loro dalla realtà estranea alla posizione mondana in cui vivono rintanati fino alla morte, paghi, alla fine, di chiamare piaceri, in mancanza di meglio e una volta raggiunta l'assuefazione, i divertimenti mediocri o le sopportabili noie ch'essa racchiude.
Swann, invece, non cercava di trovare belle le donne con le quali passava il suo tempo, ma di passare il suo tempo con le donne che, di primo acchito, aveva trovato belle. E spesso erano donne dalla bellezza piuttosto volgare, giacché le qualità fisiche di cui, senza rendersene conto, andava in cerca, erano completamente antitetiche a quelle che ammirava nelle donne dipinte o scolpite dai suoi maestri preferiti.
La profondità, la malinconia dell'espressione gelavano i suoi sensi, che una carne sana, rosea e prosperosa bastava per contro a risvegliare.
Se, viaggiando, incontrava una famiglia che sarebbe stato più elegante evitare di conoscere, ma nella quale una donna gli si presentava dotata di un fascino da lui non ancora sperimentato, restarsene "sulle sue" e ingannare il desiderio che gli aveva ispirato, sostituire un diverso piacere al piacere che avrebbe potuto scoprire con lei, scrivendo a una vecchia amante di venire a raggiungerlo, gli sarebbe parso un'abdicazione alla vita altrettanto vile, una rinuncia altrettanto stupida a una felicità nuova quanto il confinarsi nella propria camera a guardare delle vedute di Parigi invece di visitare il paese.
Egli non si chiudeva nell'edificio delle sue relazioni, ma lo aveva trasformato, per poterlo costruire di nuovo da cima a fondo ovunque una donna gli fosse piaciuta, in una di quelle tende smontabili che gli esploratori portano con sé.
Quanto a ciò che non era trasportabile o non poteva essere scambiato con un piacere nuovo, l'avrebbe dato via senza contraccambio, per invidiabile che potesse apparire a qualcun altro.
Quante volte il suo credito presso una duchessa, accumulato negli anni dal desiderio che questa nutriva d'essere carina con lui senza mai trovarne l'occasione, egli l'aveva dilapidato in un sol colpo pretendendo da lei, con un dispaccio indiscreto, una raccomandazione telegrafica che senza indugio lo mettesse in relazione con un certo intendente la cui figlia, in campagna, aveva attirato la sua attenzione, così come un affamato baratterebbe un diamante con un tozzo di pane! E persino, a cose fatte, se ne divertiva, poiché c'era in lui, riscattato da rare delicatezze, un che di brutale.
Inoltre egli apparteneva a quella categoria di persone intelligenti che sono vissute nell'ozio e che cercano una consolazione e forse una giustificazione nell'idea che esso abbia offerto alla loro intelligenza oggetti non meno degni di interesse di quelli che avrebbero potuto offrirle l'arte o lo studio, che la "Vita" contenga situazioni più interessanti, più romanzesche di qualsiasi romanzo.
Perlomeno egli lo andava proclamando, persuadendoli facilmente, ai più raffinati fra i suoi amici del bel mondo, segnatamente al barone di Charlus, che si divertiva a rallegrare con il resoconto delle sue avventure piccanti, sia che, incontrata in treno una donna e condottala poi a casa sua, avesse scoperto in lei la sorella d'un sovrano nelle cui mani s'intrecciavano in quel momento tutti i fili della politica europea, della quale egli si trovava così ad essere informato nel più piacevole dei modi, sia che, per un complesso gioco di circostanze, dipendesse dalla scelta che ci si attendeva dal conclave se egli sarebbe o no diventato l'amante di una cuoca.
D'altronde, non era solo la brillante falange delle vecchie dame virtuose, dei generali, degli accademici, ai quali era particolarmente legato, che Swann costringeva con tanto cinismo a fungere da mezzani.
Tutti i suoi amici erano abituati a ricevere da lui, di tanto in tanto, delle lettere nelle quali una parola di raccomandazione o di presentazione era sollecitata con un'abilità diplomatica che, perdurando attraverso il succedersi degli amori e la diversità dei pretesti, denunciava, più di qualsiasi eventuale goffaggine, un'identica natura e degli scopi immutabili. Molti anni dopo, cominciando a interessarmi al suo carattere per via delle affinità che presentava, in ben altri campi, col mio, mi sono fatto spesso raccontare come, ogni volta ch'egli scriveva a mio nonno (il quale non era ancora tale, giacché fu intorno all'epoca della mia nascita che cominciò la grande storia d'amore di Swann, destinata a segnare una lunga sospensione di tali pratiche), questi, riconoscendo sulla busta la scrittura dell'amico, esclamasse: Ecco Swann che avanza una richiesta: in guardia!.
E sia per diffidenza, sia per l'atteggiamento inconsciamente diabolico che ci spinge a offrire qualcosa solo a coloro che non la desiderano affatto, i miei nonni opponevano un rigoroso rifiuto alle istanze più facili da soddisfare ch'egli rivolgeva loro, per esempio di presentarlo a una fanciulla che avevano ospite a pranzo tutte le domeniche e che erano costretti, ogni volta che Swann ne riparlava, a fingere di non vedere più, mentre per tutta la settimana ci si chiedeva chi si sarebbe potuto invitare insieme a lei, finendo spesso col non trovare nessuno pur di non avvertire colui che ne sarebbe stato così felice.
Qualche volta una certa coppia amica dei nonni, che fino a quel momento s'era lamentata di non vedere mai Swann, annunciava ai miei, con soddisfazione e forse non senza il proposito di suscitarne l'invidia, che egli era diventato straordinariamente cordiale con loro, che non li lasciava mai.
Il nonno non voleva offuscare la loro gioia, ma guardava sua moglie canticchiando:
"Qual mistero è mai questo? Penetrarlo io non so..." (4) o: "Visione fuggitiva... (5)
o: "In codeste faccende meglio non veder niente." (6)
Se, qualche mese dopo, mio nonno chiedeva al nuovo amico di Swann: E Swann, continuate a vederlo spesso?, l'interlocutore faceva il viso lungo: Non pronunciate mai quel nome in mia presenza! - Ma vi credevo tanto legati....


Così, per qualche mese, eta stato intimo dei cugini di mia nonna, pranzando in casa loro quasi ogni giorno.
Bruscamente, senza preavviso, aveva smesso di andarci.
Lo credettero malato, e la cugina della nonna stava per mandare a chiedere sue notizie quando nell'"office" trovò una sua lettera inserita inavvertitamente nel libro dei conti della cuoca.
Swann vi annunciava a costei che stava per lasciare Parigi e non sarebbe più venuto.
Era la sua amante, e al momento della rottura aveva ritenuto utile avvertire lei sola.
Quando la sua amante di turno era, invece, una persona di mondo, o perlomeno una persona che un'estrazione troppo umile o una situazione troppo irregolare non gli impedivano di far ricevere in società, allora, per lei, vi ritornava, ma solo nell'ambito ristretto in cui lei si muoveva o lui l'aveva introdotta.
Inutile contare su Swann per questa sera, si diceva, sapete bene che è giorno d'Opéra per la sua americana.
La faceva invitare nei salotti particolarmente esclusivi dove coltivava le sue abitudini, i suoi pranzi settimanali, il suo poker; ogni sera, dopo che una lieve arricciatura aggiunta alla pettinatura a spazzola dei suoi capelli rossi aveva temperato di qualche dolcezza la vivacità dei suoi occhi verdi, sceglieva un fiore per l'occhiello della sua giacca e andava a raggiungere l'amante in casa dell'una o dell'altra signora del suo giro; e allora, pensando all'ammirazione e all'amicizia che la gente alla moda che avrebbe incontrata là e per la quale lui faceva il bello e il cattivo tempo, gli avrebbe prodigate davanti alla donna che amava, ritrovava un po' di fascino in quella vita mondana della quale s'era disincantato ma la cui materia, penetrata e soffusa di calde tinte come da una fiamma che vi si fosse insinuata e ardesse internamente, gli sembrava bella e preziosa da quando vi aveva incorporato un nuovo amore.
Ma mentre tutte le sue relazioni e tutti i suoi "flirts" erano stati ciascuno la realizzazione più o meno completa di un sogno nato dalla vista di un volto o di un corpo che Swann, spontaneamente, senza il minimo sforzo, aveva trovato affascinanti, quando un giorno a teatro egli fu presentato a Odette de Crécy da un amico d'altri tempi che gli aveva parlato di lei come di una donna incantevole con la quale avrebbe forse potuto combinare qualcosa, dipingendogliela tuttavia come più difficile di quanto in realtà non fosse per arrogarsi il merito di avergli usato una maggior cortesia facendogliela conoscere, ella era invece apparsa a Swann non certo priva di bellezza, ma d'un genere di bellezza che gli era indifferente, che non gli ispirava alcun desiderio e gli suscitava anzi una sorta di repulsione fisica, una di quelle donne come ne esistono per tutti, diverse per ciascuno, e che sono l'opposto del tipo reclamato dai nostri sensi.
Aveva un profilo troppo pronunciato per piacergli, la pelle troppo delicata, gli zigomi troppo in rilievo, i lineamenti troppo tirati.
Gli occhi erano belli, ma così grandi che si piegavano sotto la loro stessa massa, affaticavano il resto del viso e gli davano sempre un'aria di cattiva cera o di cattivo umore. Un po' di tempo dopo questa presentazione a teatro, lei gli aveva scritto per chiedergli di vedere le sue collezioni che la interessavano tanto, "lei, un'ignorante con il gusto delle cose belle", aggiungendo che le sarebbe parso di conoscerlo meglio quando l'avesse visto "nel suo 'home'" dove l'immaginava "talmente beato con il suo tè e i suoi libri", anche se non gli nascondeva d'essere sorpresa che abitasse in quel quartiere che doveva essere così triste e che era "così poco 'smart' (7) per lui che lo era tanto".
E, dopo che l'ebbe lasciata venire, lei, salutandolo, gli aveva espresso il suo rammarico d'essere rimasta così poco in quella dimora dove era stata felice di penetrare, parlando di lui come se significasse per lei qualcosa di più delle altre persone che conosceva, e di loro due come se li unisse un qualche legame di tipo romanzesco, il che lo aveva fatto sorridere. Ma all'età già un po' disincantata cui Swann si approssimava e nella quale ci si accontenta d'essere innamorati per il piacere d'esserlo, senza eccessive esigenze di reciprocità, quell'avvicinamento dei cuori, pur non essendo più, come nella prima giovinezza, lo scopo verso il quale tende necessariamente l'amore, continua in compenso ad essergli connesso da un'associazione di idee così forte che può, precedendolo, divenirne la causa.
Un tempo si sognava di possedere il cuore della donna di cui si era innamorati; più tardi, sentire che si possiede il cuore di una donna può bastare a farci innamorare di lei. E così, nell'età in cui sembrerebbe, poiché nell'amore si cerca soprattutto un piacere soggettivo, che il gusto per la bellezza della donna dovesse avere una parte decisiva, può succedere che l'amore - l'amore nel senso più fisico della parola - nasca senza che vi sia stato, alla base, il precedente del desiderio.
A quell'epoca della vita l'amore ci ha già colpiti parecchie volte; la sua evoluzione non segue più soltanto le proprie leggi ignote e fatali davanti al nostro cuore stupefatto e passivo. Noi gli andiamo in aiuto, lo alteriamo con la memoria, con la suggestione.
Riconoscendo uno dei suoi sintomi ricordiamo, facciamo rinascere gli altri.
Dal momento che la sua canzone, incisa per intero dentro di noi, ci è familiare, non occorre che una donna ce ne suggerisca l'attacco - pieno dell'ammirazione suscitata dalla bellezza - per recuperarne il seguito.
E se comincia a metà - là dove i cuori si avvicinano, dove si parla di non vivere più che l'uno per l'altra - siamo abbastanza esperti di questa musica per poter subito raggiungere la nostra partner al punto esatto in cui ci aspetta.
Odette de Crécy tornò a casa di Swann, poi intensificò le sue visite; ogni volta, certo, si rinnovava in lui la delusione di trovarsi davanti quel viso di cui, nel frattempo, aveva un po' dimenticato i dettagli, che non ricordava né così espressivo né, malgrado la sua giovinezza, così appassito; rimpiangeva, mentre conversava con lei, che la sua grande bellezza non fosse di quelle che spontaneamente preferiva.
Bisogna dire, d'altra parte, che il viso di Odette appariva più magro e più prominente perché la superficie omogenea e più levigata costituita dalla fronte e dal sommo delle gote era nascosta dalla massa dei capelli che si portavano, allora, prolungati e sollevati sul davanti in una fitta frangia arricciata e sparsi in ciocche capricciose lungo le orecchie; e quanto al corpo, che era fatto stupendamente, era difficile coglierne la continuità (per effetto della moda del tempo, e benché Odette fosse una delle donne meglio vestite di Parigi), a tal punto il busto, sporgendo ad aggetto come su un ventre immaginario e terminando bruscamente a punta mentre al di sotto cominciava a gonfiarsi il pallone delle doppie sottane, dava l'impressione che la donna fosse composta di pezzi diversi male infilati l'uno dentro l'altro; a tal punto le gale, i "volants", il "gilet" seguivano con assoluta indipendenza, secondo la fantasia del loro disegno e la consistenza della loro stoffa, la linea che li conduceva ai fiocchi, agli sbuffi di pizzo, alle frange dritte di "jais" o li dirigeva lungo la stecca, ma non si riconnettevano in nessun modo all'essere vivente il quale, a seconda che l'architettura di tutti quei fronzoli aderisse troppo o troppo si discostasse dalla sua, vi si trovava impacciato o sperduto.
Ma, partita Odette, Swann sorrideva ricordando che lei gli aveva detto come le sarebbe parso lungo il tempo nell'attesa che lui le permettesse di tornare; rivedeva l'espressione inquieta, timida con cui, una volta, l'aveva pregato che non lasciasse passare troppo tempo, e quello sguardo, fisso su di lui con timorosa implorazione, che la rendeva commovente sotto il mazzolino di viole artificiali appuntato sul suo cappello tondo di paglia bianca col sottogola di velluto nero.
E voi, aveva detto, voi non verreste da me, una volta, a prendere il tè? Lui aveva addotto certi lavori in corso, uno studio - in realtà abbandonato da anni - su Vermeer di Delft. (8) Capisco che non posso combinare nulla, io poveretta, a fianco di uomini coltissimi come voi, aveva replicato.
Mi sentirei come la rana davanti all'areopago. (9) E pensare che mi piacerebbe tanto istruirmi, sapere, essere iniziata! Dev'essere così divertente trafficare coi libri, ficcare il naso nelle vecchie carte! aveva aggiunto, con l'aria soddisfatta di sé che assumono le donne eleganti per significare che non chiedono di meglio che potersi dedicare, senza timore di insudiciarsi, a qualche lavoro poco pulito, per esempio cucinare mettendo direttamente "le mani in pasta".
Adesso mi prenderete in giro, ma quel pittore che vi impedisce di vedermi (voleva dire Vermeer), non ne avevo mai sentito parlare; è un artista vivente? E' possibile vedere qualche sua opera a Parigi, per potermi fare un'idea di quello che amate, indovinare un po' cosa c'è sotto quella gran fronte che lavora tanto, in quella testa che, lo si sente, sta sempre meditando, poter dire a me stessa: ecco, è a questo che pensa ora...
Che sogno sarebbe, essere messa al corrente dei vostri lavori! Swann si era scusato parlando del suo timore delle nuove amicizie, di quella che aveva chiamato, per galanteria, la sua paura d'essere infelice.
Avete paura di un affetto? che strano, e io che non cerco altro, che darei la mia vita per trovarne uno, aveva detto lei con un'intonazione così naturale, così convinta, che l'aveva turbato.
Sicuramente avete sofferto per una donna.
E siete persuaso che le altre siano come lei.
Non ha saputo capirvi; siete una creatura così speciale.
E' questo che mi è subito piaciuto in voi, ho sentito che non eravate come gli altri. - Ma del resto, aveva detto Swann, so bene come sono le donne, anche voi avrete una quantità di impegni, sarete poco libera. - Io? Non ho mai niente da fare, io.
Sono sempre libera, lo sarò sempre per voi.
A qualsiasi ora del giorno o della notte, se vi fosse comodo vedermi, fatemi cercare, sarò felice di venire.
Lo farete? Una cosa carina, sapete, sarebbe che vi faceste presentare a Madame Verdurin; vado da lei tutte le sere.
Pensate! se ci si incontrasse là, e io potessi dirmi che è anche un po' per me che ci siete! E certo, ricordando così i loro discorsi, pensando così a lei quando era solo, egli non faceva che animare la sua immagine fra molte altre immagini di donna in qualche fantasticheria romanzesca; ma se, grazie a una circostanza qualsiasi (o, forse, anche indipendentemente da essa, giacché la circostanza che si presenta nel momento in cui uno stato, fino allora latente, si rivela, può non avervi avuto alcun influsso), l'immagine di Odette de Crécy fosse venuta ad assorbire tutte quelle fantasie, rendendole inseparabili dal ricordo di lei, allora l'imperfezione del suo corpo non avrebbe più avuto nessuna importanza, e nemmeno che esso corrispondesse, più o meno di altri corpi, ai gusti di Swann, giacché, divenuto il corpo della donna che amava, sarebbe stato il solo, ormai, capace di procurargli gioie e tormenti.
Mio nonno aveva per l'appunto conosciuto, cosa che non si sarebbe potuta dire di nessuno dei loro amici attuali, la famiglia di quei Verdurin.
Ma aveva perso ogni contatto con colui che chiamava "il giovane Verdurin" e che considerava, un po' semplicisticamente, caduto - pur conservando parecchi milioni - nel giro della "bohème" e della gentaglia.
Un giorno ricevette una lettera di Swann che gli chiedeva se potesse presentarlo ai Verdurin: In guardia! in guardia! aveva esclamato il nonno.
La cosa non mi stupisce, è proprio là che doveva finire Swann.
Bell'ambientino! In primo luogo non posso fare quel che mi chiede, perché quel signore non lo conosco più.
E poi ci sarà sotto una storia di donne, affari in cui non mi voglio certo immischiare.
Bene, bene! ci sarà da divertirsi, se Swann s'affibbia i piccoli Verdurin.
E, dopo la risposta negativa di mio nonno, era stata la stessa Odette a portare Swann in casa Verdurin.
Il giorno del debutto di Swann, i Verdurin avevano avuto a pranzo il dottor Cottard e signora, il giovane pianista con la zia, e il pittore che a quell'epoca godeva del loro favore, ai quali s'era aggregato nel corso della serata qualche altro fedele.
Il dottor Cottard non sapeva mai con precisione che tono dare alle risposte, se il suo interlocutore scherzasse o fosse serio.
E ad ogni buon conto aggiungeva a tutte le espressioni della sua fisionomia l'offerta di un sorriso condizionale e provvisorio, la cui attendistica finezza l'avrebbe prosciolto
  dall'accusa di ingenuità se il discorso che gli avevano rivolto si fosse rivelato faceto.
Ma poiché, per far fronte all'ipotesi opposta, non osava lasciare che quel sorriso s'affermasse nettamente sul suo volto, vi ondeggiava perennemente un'incertezza nella quale era possibile leggere la domanda che egli non osava formulare: Dite sul serio?.
Né più sicuro che nei salotti era del modo in cui doveva comportarsi per la strada e, più in generale, nella vita, così che lo si vedeva opporre ai passanti, alle carrozze, agli avvenimenti un sorriso malizioso che toglieva in anticipo al suo atteggiamento qualsiasi improprietà giacché dimostrava, qualora non fosse acconcio, che lui lo sapeva bene, e che se l'aveva assunto era stato solo per scherzo.
Comunque, su tutti i punti intorno ai quali gli sembrava lecita una franca domanda, il dottore non lesinava gli sforzi per restringere il campo dei suoi dubbi e completare la propria istruzione.
Per questo, seguendo i consigli datigli da una madre previdente quando era partito dalla provincia, non si lasciava mai sfuggire una locuzione o un nome proprio che gli fossero ignoti senza cercare di documentarsi in proposito.
Quanto alle locuzioni, era insaziabile di ragguagli, giacché, accreditandole a volte di un significato più preciso di quello che hanno in effetti, avrebbe voluto sapere che cosa esattamente si intendesse con quelle che più spesso sentiva usare: la bellezza dell'asino, sangue blu, darsi alla pazza gioia, il quarto d'ora di Rabelais, (10) arbitro d'eleganza, dare carta bianca, essere ridotto al "quia", eccetera, e in quali determinati casi avrebbe potuto farle figurare a sua volta nei suoi discorsi.
In mancanza di queste, vi inseriva dei giochi di parole che aveva imparati.
Riguardo ai nuovi nomi di persone che venivano pronunciati davanti a lui, si accontentava di ripeterli in un tono interrogativo che riteneva sufficiente a valergli delle spiegazioni senza aver l'aria di sollecitarle.
Siccome era completamente sprovvisto del senso critico che credeva di esercitare in ogni circostanza, quella raffinata forma di cortesia che consiste nel dire a qualcuno cui si sta facendo un favore, senza pretendere d'essere creduti, che è invece lui a farcelo, con il dottor Cottard era fatica sprecata, perché prendeva tutto alla lettera.
Benché cieca nei suoi confronti, e pur continuando a trovarlo molto sottile, Madame Verdurin aveva finito con l'indispettirsi nel vedere che, quando lo invitava in un palco di proscenio ad ascoltare Sarah Bernhardt dicendogli, per vezzo: Siete stato davvero gentile a venire, dottore, tanto più che, ne sono certa, avrete già ascoltato Sarah Bernhardt diverse volte, e poi siamo forse un po' troppo vicini al palcoscenico, il dottor Cottard, entrato nel palco con un sorriso che per precisarsi o scomparire aspettava che una persona autorizzata lo informasse circa il valore dello spettacolo, le diceva di rimando: In effetti siamo decisamente troppo vicini e Sarah Bernhardt comincia a stancare.
Ma voi avete espresso il desiderio che io venissi.
Per me i vostri desideri sono ordini.
Sono ben felice di rendervi questo piccolo servigio.
Cosa non si farebbe per accontentarvi, siete così buona!.
E aggiungeva: Sarah Bernhardt, è lei la Voce d'Oro, non è vero? Spesso scrivono anche che incendia le platee.
Un'espressione bizzarra, non è vero?, nella speranza di commenti che non arrivavano.
Sai, aveva detto al marito Madame Verdurin, penso che sbagliamo tattica quando, per modestia, deprezziamo quel che offriamo al dottore.
E' un uomo di scienza che vive al di fuori dell'esistenza pratica, non conosce di persona il valore delle cose e si basa su quello che gli diciamo noi. - Non osavo dirtelo, ma l'avevo notato, replicò il signor Verdurin.
E il capodanno seguente, invece di mandare al dottor Cottard un rubino da tremila franchi dicendogli ch'era una cosa da niente, Verdurin comprò per trecento franchi una pietra rigenerata lasciando intendere che difficilmente se ne vedevano di così belle.
Quando Madame Verdurin aveva annunciato che alla serata sarebbe intervenuto il signor Swann: Swann? aveva esclamato il dottore con accento reso brutale dalla sorpresa, giacché la minima novità prendeva sempre alla sprovvista, più di chiunque altro, quest'uomo che si credeva regolarmente preparato a tutto.
E vedendo che nessuno gli rispondeva: Swann? Swann chi? urlò al colmo di un'ansia che s'allentò di colpo non appena Madame Verdurin ebbe detto: Ma sì, l'amico di cui ci aveva parlato Odette. - Ah! bene, d'accordo, concluse il dottore, tranquillizzato.
Quanto al pittore, si rallegrava dell'introduzione di Swann in casa Verdurin, perché lo supponeva innamorato di Odette e amava favorire le relazioni.
Niente mi diverte come combinare matrimoni, confidò nell'orecchio al dottor Cottard, ne ho già propiziati parecchi, anche fra donne! Dicendo ai Verdurin che Swann era molto "smart", Odette li aveva indotti a temere un "noioso".
Egli fece loro, al contrario, un'eccellente impressione, di cui era causa indiretta, a loro insaputa, la sua frequentazione della società elegante.
In effetti, rispetto alle persone anche intelligenti che non sono mai state nel gran mondo egli possedeva una delle superiorità tipiche di coloro che vi hanno un po' vissuto e che consiste nel non trasfigurarlo più col desiderio o con l'orrore che esso ispira all'immaginazione, nel considerarlo come qualcosa di assolutamente privo d'importanza. La loro amabilità, immune da ogni snobismo e dal timore di apparire troppo amabili, divenuta indipendente, ha la disinvoltura, la grazia di movimenti di coloro le cui membra sciolte eseguono con esattezza tutto ciò che vogliono, senza la partecipazione impacciata e indiscreta del resto del corpo.
La semplice, elementare ginnastica dell'uomo di mondo, che tende con garbo la mano al giovane sconosciuto che gli viene presentato e s'inchina con riserbo al cospetto dell'ambasciatore al quale viene presentato, aveva finito col trasferirsi, senza ch'egli ne fosse cosciente, in tutto il comportamento sociale di Swann, che di fronte a persone di un ambiente inferiore al suo come erano i Verdurin e i loro amici fece istintivamente mostra di una premura, si concesse delle "avances" dalle quali, secondo loro, un noioso si sarebbe astenuto.
Ebbe solo un momento di freddezza con il dottor Cottard: vedendo che gli strizzava l'occhio e gli sorrideva con aria ambigua prima ancora che si fossero parlati (mimica che Cottard definiva "lasciar venire"), Swann credette che il dottore lo conoscesse senz'altro per averlo incontrato in qualche luogo di piacere, benché per conto suo li frequentasse pochissimo non avendo mai fatto vita di bagordi.
Trovando l'allusione di pessimo gusto, soprattutto in presenza di Odette che avrebbe potuto farsi di lui una cattiva opinione, ostentò un distacco glaciale.
Ma quando apprese che una signora che gli stava accanto era Madame Cottard, rifletté che un marito così giovane non avrebbe mai cercato di alludere davanti a sua moglie a divertimenti di quel genere, e non attribuì più all'aria d'intesa del dottore il significato che aveva temuto.
Il pittore, immediatamente, invitò Swann a visitare con Odette il suo "atelier"; Swann lo trovò gentile.
Forse avrete più fortuna di me, disse Madame Verdurin con un tono che si fingeva piccato, e potrete vedere il ritratto di Cottard (era lei che l'aveva commissionato al pittore). Sforzatevi, "signor" Biche, ricordò poi al pittore, al quale si rivolgeva così per rinnovare uno scherzo consacrato, di rendere la bellezza dello sguardo, quel non so che di arguto, di scintillante nell'occhio.
Sapete che è soprattutto il suo sorriso che voglio; quello che vi ho chiesto è il ritratto del suo sorriso.
E poiché l'espressione le parve notevole, la ripeté a voce molto alta per essere sicura che parecchi degli invitati l'avessero sentita, e anzi ne attirò qualcuno, con un vago pretesto, nelle vicinanze.
Swann chiese di poter conoscere tutti, compreso un vecchio amico dei Verdurin, Saniette, che per la sua timidezza, la sua semplicità e il suo buon cuore aveva finito col perdere ovunque la stima procuratagli dall'erudizione d'archivista, dall'ingente patrimonio e dalla distinzione della sua famiglia.
Aveva, nel parlare, una sorta di poltiglia in bocca che risultava adorabile, perché si sentiva che derivava, più che da un difetto della lingua, da una qualità dell'anima, come se non avesse mai del tutto perduto l'innocenza della prima età.
Tutte le consonanti che non riusciva a pronunciare corrispondevano ad altrettante asprezze di cui era incapace.
Chiedendo d'essere presentato al signor Saniette, Swann diede a Madame Verdurin l'impressione di invertire i ruoli (al punto che, in risposta, disse, sottolineando la differenza: Signor Swann, vorreste avere la bontà di permettermi di presentarvi il nostro amico Saniette), ma destò in Saniette una fervida simpatia che d'altronde i Verdurin non rivelarono mai a Swann, perché Saniette li imbarazzava un po' e non ci tenevano a procurargli degli amici.
Ma, in compenso, Swann li toccò profondamente credendo doveroso, subito dopo, chiedere di poter fare la conoscenza della zia del pianista.
Vestita di nero come sempre, perché era convinta che il nero si addicesse in ogni circostanza e non ci fosse niente di più distinto, aveva il viso smodatamente rosso come sempre dopo aver mangiato.
Si inchinò davanti a Swann con rispetto, ma si rialzò con maestà.
Poiché non aveva un briciolo di cultura e temeva di fare degli errori di francese, parlava con una pronuncia volutamente confusa, pensando che, se anche avesse detto qualche strafalcione, sarebbe rimasto avvolto in una tale nebulosità che nessuno avrebbe potuto identificarlo con certezza; in questo modo la sua conversazione si riduceva a un catarroso borbottìo dal quale emergevano di tanto in tanto i rari vocaboli di cui si sentiva sicura.
Swann credette di poterla lievemente prendere in giro parlando con il signor Verdurin, il quale ne fu invece seccato.
E' una donna così eccellente, replicò.
Vi concedo che non sia strabiliante; ma vi assicuro che è piacevole quando si parla da soli con lei. - Non ne dubito, s'affrettò ad assentire Swann.
Volevo dire che non mi sembrava "eminente", aggiunse staccando questo aggettivo, e in fin dei conti si tratta di un complimento! - Ecco, disse Verdurin, vi stupirò: sa scrivere in un modo incantevole.
Suo nipote non l'avete mai sentito? è straordinario, non è vero, dottore? Volete che gli chieda di suonare qualcosa, signor Swann? - Ma sarà una fortuna..., cominciava a rispondere Swann, quando il dottore lo interruppe con aria beffarda.
In effetti, essendogli rimasto impresso che nella conversazione l'enfasi, l'impiego di forme solenni era qualcosa di antiquato, appena udiva una parola grave detta seriamente, come adesso la parola "fortuna", era certo che chi l'aveva pronunciata si fosse macchiato di pomposità.
E se, inoltre, quella parola si trovava per caso a far parte di quella ch'egli riteneva una vecchia espressione stereotipa, pur essendo altrimenti di uso affatto corrente, il dottore supponeva che la frase cominciata fosse ridicola, e la completava ironicamente con il luogo comune ch'egli sembrava imputare al suo interlocutore, quasi che questi avesse voluto farvi ricorso, mentre in realtà non ci aveva mai pensato.
- Una fortuna per la Francia! esclamò maliziosamente alzando le braccia con enfasi.
Il signor Verdurin non poté impedirsi di ridere.
- Cosa avranno da ridere quei bei tipi laggiù, si direbbe che non stiate fabbricando malinconia in quel vostro angolino, esclamò Madame Verdurin. Se credete che mi diverta, io, a starmene tutta sola in penitenza, aggiunse con tono imbronciato, facendo la bambina.


Madame Verdurin era seduta su un seggiolone svedese di abete lucidato, che le era stato regalato da un violinista di quel paese e che lei conservava, benché nella forma ricordasse uno sgabello e facesse a pugni con i suoi bei mobili antichi, perché ci teneva a lasciare in evidenza i regali che i fedeli usavano farle di tanto in tanto, in modo che i donatori avessero il piacere di riconoscerli ogni volta che venivano.
Per questa ragione cercava di convincere i fedeli a orientarsi sui fiori e sulle caramelle, che perlomeno si distruggono; ma non ci riusciva, e la sua casa ospitava una vera e propria collezione di scaldapiedi, cuscini, pendole, paraventi, barometri, vasi di porcellana, in un'orgia di repliche e in un'accozzaglia di strenne.
Da quella sede elevata partecipava con brio alla conversazione dei fedeli e si compiaceva delle loro "fumisterie", ma, dopo l'incidente alla mascella, aveva rinunciato a prendersi la briga di scoppiare in un'effettiva risata e si applicava, in sostituzione, a una mimica convenzionale da cui risultava, senza fatica né rischi per lei, che stava morendo dal ridere. Alla minima battuta lanciata da un "habitué" contro un noioso o contro un "ex-habitué" respinto nel campo dei noiosi, lei - suscitando la disperata invidia di Verdurin, che aveva lungamente coltivato la pretesa d'essere non meno amabile della moglie, ma che ridendo davvero restava presto senza fiato ed era stato distanziato e sconfitto dalla trovata di quell'ilarità incessante e fittizia - emetteva un gridolino, chiudeva completamente i suoi occhi d'uccello che un'albugine cominciava a velare, e bruscamente, come se avesse appena avuto il tempo di nascondere uno spettacolo indecente o di far fronte a un accesso mortale, tuffandosi il volto fra le mani che lo coprivano rendendolo invisibile, assumeva l'aspetto di qualcuno che si sforza di reprimere, di annientare una risata che, vi si fosse abbandonato, gli avrebbe fatto perdere i sensi.
E così, stordita dall'allegria dei fedeli, ebbra di amichevolezza, di maldicenza e di assenso, Madame Verdurin, appollaiata sul suo trespolo, simile a un uccello il cui ciuffo sia stato immerso nel vino caldo, singhiozzava d'amabilità.
Nel frattempo il signor Verdurin, dopo aver chiesto a Swann il permesso d'accendersi la pipa (qui non ci facciamo problemi, siamo tra amici), pregava il giovane artista di mettersi al piano.
- Su, andiamo, non levargli il fiato, non è qui per essere tormentato, esclamò Madame Verdurin, non voglio che lo si tormenti, io! - Ma perché dovrebbe dispiacergli? disse Verdurin.
Forse il signor Swann non conosce la sonata in fa diesis che abbiamo scoperta; ci suonerà l'arrangiamento per pianoforte.
- Ah no, no, non la mia sonata! gridò Madame Verdurin, non ho proprio nessuna voglia di prendermi un raffreddore di testa con nevralgia facciale a furia di piangere, come l'altra volta; grazie del pensiero, non ci tengo a ricominciare; ma che bravi, si vede che non toccherà a voi mettervi a letto per otto giorni! Questa scenetta, che si ripeteva ogni volta che il pianista stava per suonare, deliziava gli amici quasi fosse nuova, come prova della seducente originalità della "Padrona" e della sua sensibilità musicale.
Quelli che le erano accanto facevano segno, a quelli che fumavano o giocavano a carte più lontano, di avvicinarsi, che succedeva qualcosa, dicendo, come al Reichstag nei momenti cruciali: Udite, udite!.
E il giorno dopo si compiangevano gli assenti, assicurando loro che la scena era stata ancor più divertente del solito.
- E va bene, d'accordo, disse il signor Verdurin, suonerà solo l'andante.
- Solo l'andante! ma benissimo! esclamò Madame Verdurin.
E' precisamente l'andante che mi spezza braccia e gambe.
Davvero magnifico, il Padrone! Come dire: della "Nona" sentiremo solo il finale, dei "Maestri" l'ouverture.
Il dottore, intanto, incoraggiava Madame Verdurin a lasciar suonare il pianista, non perché credesse simulati i disturbi che le dava la musica - vi riconosceva certi sintomi della nevrastenia - ma per l'abitudine comune a molti medici di mitigare immediatamente la severità delle loro prescrizioni non appena sia in gioco, cosa che essi giudicano assai più importante, qualche riunione mondana cui prendono parte e di cui la persona alla quale consigliano di dimenticare per una volta la sua dispepsia o la sua influenza è un elemento essenziale.
- Stavolta non starete male, vedrete, le disse cercando di suggestionarla con lo sguardo.
E se starete male, vi cureremo.
- Veramente? rispose Madame Verdurin, come se di fronte alla speranza d'un simile favore non restasse che arrendersi.
Può anche darsi che, a forza di dire che sarebbe stata male, ci fosse qualche momento in cui dimenticava la propria finzione e assumeva la mentalità di una malata.
E i malati, stanchi di dover sempre far dipendere dalla propria saggezza la rarità delle crisi di cui soffrono, amano indulgere alla convinzione che potranno fare impunemente tutto ciò che desiderano e che, di solito, li fa star male, a patto di mettersi nelle mani di un essere onnipotente che, senza nessuno sforzo da parte loro, con una parola o con una pillola li rimetterà in piedi.
Odette era andata a sedersi su un divano ricoperto d'arazzo, accanto al piano: - Sapete, ho il mio posto preferito, disse a Madame Verdurin.
Costei, vedendo Swann su una sedia, lo fece alzare: - Non siete comodo lì, mettetevi vicino a Odette vero Odette che farete un po' di posto al signor Swann? - Che bel Beauvais, disse prima di sedersi Swann che voleva essere gentile.
- Ah! sono contenta che apprezziate il mio divano, esclamò Madame Verdurin.
E vi avverto che se pensate di cercarne altri così belli, potete rinunciarci subito.
Non ne hanno mai fatti di simili.
Anche le seggioline sono delle meraviglie.
Le vedrete fra poco.
Ogni bronzo ha un motivo che corrisponde alla piccola scena raffigurata sul sedile; sapete, c'è da divertirsi a guardarli, vi prometto un momento piacevole.
Basterebbero i piccoli fregi dei bordi, ecco, guardate là, la piccola vigna su fondo rosso dell'Orso e dell'Uva. (11) Che disegno, eh? Cosa ne dite, a me sembra che erano piuttosto bravi a disegnare! E' appetitosa, no, quella vigna? Mio marito sostiene che non amo la frutta perché ne mangio meno di lui.
Ma no, ne sono ghiotta più di tutti voi, solo che non ho bisogno di mettermela in bocca visto che posso goderne con gli occhi.
Cosa avete da ridere, tutti quanti? Chiedete al dottore, vi dirà che quell'uva mi fa da purgante.
Altri fanno le cure di Fontainebleau, (12) io faccio la mia piccola cura di Beauvais.
Ma, signor Swann, non ve ne andrete senza aver toccato i bronzetti degli schienali.
Che tenerezza di patina, eh? Ma no, a piene mani, toccateli bene.
- Ah! se Madame Verdurin comincia a palpare i bronzi, addio musica per stasera, disse il pittore.
- Tacete, voi, siete un bruto.
In fondo, disse volgendosi a Swann, a noi donne proibiscono cose meno voluttuose.
Ma se non esiste, una carne paragonabile a questa! Quando il signor Verdurin mi faceva l'onore d'essere geloso di me - su, non essere scortese almeno, non dire che non lo sei mai stato...
- Ma io non dico niente, assolutamente niente.
Vediamo, dottore, vi prendo a testimone: ho forse detto qualcosa? Swann, per cortesia, palpava i bronzi e non osava smettere subito.
- Andiamo, li accarezzerete più tardi; adesso sarete voi ad essere accarezzato, accarezzato nell'orecchio; vi piace, io credo; ecco, ci penserà questo giovanottino.
Ora, quando il pianista ebbe suonato, Swann si mostrò con lui ancora più amabile che con le altre persone presenti.
Ecco perché: L'anno precedente, a una serata, aveva ascoltato un brano musicale eseguito da piano e violino.
In un primo momento aveva gustato soltanto la qualità materiale dei suoni che gli strumenti secernevano.
Ed era già stato un grande piacere quando, al di sotto della tenue linea del violino, esile, resistente, densa e direttrice, aveva visto a un tratto cercar d'innalzarsi in un liquido sciabordio la massa della parte per pianoforte, multiforme, indivisa, piana e internamente ribollente come l'agitazione color malva dei flutti incantati e bemollizzati dal chiaro di luna.
Ma a un certo punto, senza riuscire a distinguere nettamente un contorno, a dare un nome a ciò che gli piaceva, affascinato all'improvviso, aveva cercato di cogliere la frase o l'armonia - nemmeno lui lo sapeva - che passava e che gli aveva aperto più largamente l'anima, così come certi effluvi di rose che circolano nell'aria umida della sera hanno la proprietà di dilatare le nostre narici.
Proprio perché non conosceva la musica, forse, egli poteva provare un'impressione così confusa, una di quelle impressioni che, d'altronde, sono forse le sole puramente musicali, inestese, interamente originali, irriducibili a qualsiasi altro ordine d'impressioni. Un'impressione di quel genere, che ha la durata di un istante, è per così dire "sine materia".
Certo le note che noi udiamo in quel momento tendono già, secondo la loro altezza e quantità, a coprire davanti ai nostri occhi delle superfici di varie dimensioni, a tracciare degli arabeschi, a darci delle sensazioni di larghezza, di tenuità, di stabilità, di capriccio.
Ma le note sono già svanite prima che tali sensazioni siano abbastanza formate dentro di noi per non essere sommerse da quelle risvegliate dalle note successive o persino simultanee.
E questa impressione continuerebbe ad avvolgere nella sua liquidità e nel suo "fondu" i motivi che a tratti ne emergono, appena distinguibili, per subito riaffondare e sparire, conosciuti soltanto attraverso il piacere particolare che danno, sottratti a ogni possibilità di descriverli, ricordarli, nominarli, ineffabili - se la memoria, simile a un operaio che lavora alla posa di fondamenta durature in mezzo ai flutti, non ci consentisse, fabbricando per noi dei facsimili di quelle frasi fuggitive, di compararle e differenziarle da quelle che le seguono.
Così, la sensazione deliziosa che Swann aveva provata s'era appena dissolta che già, seduta stante, la sua memoria gliene aveva fornito una trascrizione, sia pure sommaria e provvisoria, che lui aveva potuto tenere sotto gli occhi mentre il pezzo continuava, così che, quando la medesima impressione era all'improvviso ritornata, non era già più inafferrabile.
Egli se ne rappresentava l'estensione, i raggruppamenti simmetrici, la grafia, il valore espressivo; aveva davanti a sé quella cosa che non è più musica pura, che è disegno, architettura, pensiero, e che consente di ricordare la musica.
Stavolta Swann aveva nettamente distinto una frase che s'elevava per qualche istante al di sopra delle onde sonore.
Subito gli, aveva proposto delle voluttà particolari, mai immaginate prima di udirla, e che (ne era certo) nient'altro al mondo avrebbe potuto fargli sentire; e aveva provato per lei come un amore sconosciuto.
Con il suo ritmo lento lo dirigeva - prima qui, poi là, poi altrove verso una felicità nobile, inintelligibile e precisa.
E di colpo, al punto cui era arrivata e da dove egli si apprestava a seguirla, dopo una pausa d'un istante bruscamente cambiava direzione, e con un movimento nuovo, più rapido, sottile, malinconico, dolce e incessante, lo trascinava con sé verso prospettive ignote.
Poi disparve.
Appassionatamente egli sperò di rivederla una terza volta.
E in effetti riapparve, ma senza più parlargli con chiarezza, causandogli anzi una voluttà meno profonda.
Ma, tornato a casa, ebbe bisogno di lei: era come un uomo nella cui vita una passante scorta per un attimo ha insinuato l'immagine di una bellezza nuova che conferisce un più alto valore alla sua sensibilità, senza ch'egli sappia se potrà mai almeno rivedere colei che già ama e di cui ignora persino il nome.
Questo amore per una frase musicale sembrò addirittura, per un momento, dover innescare in Swann la possibilità di una sorta di ringiovanimento.
Aveva rinunciato da tanto tempo a indirizzare la sua vita verso uno scopo ideale, limitandola al perseguimento di soddisfazioni quotidiane, da essere ormai convinto, senza mai dirselo formalmente, che sarebbe stato così fino alla morte; anzi, non sentendo più idee elevate nel proprio intelletto, aveva persino smesso di credere alla loro realtà, senza per altro poterla del tutto negare.
Aveva quindi preso l'abitudine di rifugiarsi in pensieri privi d'importanza che gli consentivano di lasciar da parte la sostanza delle cose.
Come non si chiedeva mai se avrebbe fatto meglio a non recarsi in società, ma in compenso sapeva con certezza che se accettava un invito ci doveva poi andare e che dopo, se non faceva una visita, doveva almeno lasciare il proprio biglietto, così, conversando, si sforzava di non esprimere mai con calore un'opinione intima sulle cose, ma di fornire dei dettagli materiali che avessero un qualche valore per se stessi e gli permettessero di non dare alcuna misura di sé.
Era di una precisione estrema per quel che riguardava una ricetta di cucina, la data di nascita o di morte di un pittore, la nomenclatura delle sue opere.
Qualche volta, nonostante tutto, si lasciava andare a pronunciare un giudizio su un'opera, su un modo di intendere la vita, ma imprimeva allora alle sue parole un'intonazione ironica, quasi non aderisse fino in fondo a quel che diceva.
Ora, come certi valetudinari nei quali, di colpo, un paese dove si sono trasferiti, un diverso regime, a volte un'evoluzione organica, spontanea e misteriosa, sembrano indurre una tale regressione del loro male che essi cominciano a considerare la possibilità insperata di iniziare in tarda età una vita del tutto differente, Swann trovava dentro di sé, nel ricordo della frase che aveva ascoltata, in certe sonate che s'era fatto eseguire per vedere se l'avrebbe scoperta anche lì, la presenza di una di quelle realtà invisibili alle quali aveva smesso di credere e alle quali, come se la musica avesse avuto sull'aridità morale di cui soffriva una sorta di influsso elettivo, sentiva di nuovo il desiderio e quasi la forza di consacrare la vita.
Ma, non essendo riuscito a sapere di chi fosse l'opera che aveva udita, non aveva potuto procurarsela e aveva finito col dimenticarla.
:E' vero che aveva incontrato nel corso della settimana alcune persone intervenute con lui a quella serata e le aveva interpellate; ma parecchi erano arrivati dopo il pezzo o se n'erano andati via prima; alcuni, pur presenti durante l'esecuzione, si erano ritirati a conversare in un altro salotto, e altri ancora, rimasti ad ascoltare, non avevano inteso più dei primi.
Quanto ai padroni di casa, sapevano trattarsi di un'opera nuova che gli artisti da loro ingaggiati avevano chiesto di suonare; questi erano partiti per una "tournée", Swann non era riuscito a saperne di più.
Aveva sì degli amici musicisti, ma pur ricordando il piacere speciale e intraducibile che la frase gli aveva dato, pur ritrovandosi davanti agli occhi le forme che essa disegnava, era tuttavia incapace di accennargliela con la voce.
Poi smise di pensarci.
Ora, qualche minuto appena dopo che il piccolo pianista aveva cominciato a suonare in casa di Madame Verdurin, tutt'a un tratto, dopo una nota alta lungamente tenuta per due battute, egli vide avvicinarsi, sfuggendo da sotto quella sonorità prolungata, tesa come un sipario sonoro a nascondere il mistero della sua incubazione, egli riconobbe, segreta, frusciante e divisa, la frase aerea e olezzante che amava.
Ed era così particolare, aveva un fascino così singolare e insostituibile, che per Swann fu come ritrovare in un salotto amico una persona che avesse ammirata per la strada e disperato di poter mai rivedere.
Alla fine s'allontanò, indicatrice, diligente, fra le ramificazioni del suo profumo, lasciando sul volto di Swann il riflesso del suo sorriso.
Ma adesso lui poteva chiedere il nome della sua sconosciuta (gli dissero che era l'andante della "Sonata per piano e violino di Vinteuil"), (13) la teneva, avrebbe potuto averla in casa sua tutte le volte che avesse voluto, cercare di apprendere il suo linguaggio e il suo segreto.
Così, quando il pianista ebbe finito, Swann lo accostò per esprimergli una riconoscenza la cui vivacità piacque molto a Madame Verdurin.
- Che incantatore, non è vero?, disse a Swann; il piccolo miserabile la capisce, eh, la sua sonata? Non ve lo immaginavate, voi, che il piano potesse arrivare a tanto. E' tutto tranne che piano, parola mia! Ogni volta ci ricasco, sono convinta di sentire un'orchestra.
E' persino meglio dell'orchestra, più completo.
Il giovane pianista s'inchinò e sorridendo, sottolineando le parole come se la sua fosse una battuta di spirito: - Siete molto indulgente con me, disse.
E mentre Madame Verdurin diceva a suo marito: Su, dagli dell'aranciata, decisamente se l'è meritata, Swann raccontava a Odette come si era innamorato di quella piccola frase. Quando Madame Verdurin, che si era un po' scostata, disse: Ebbene, Odette, mi sembra che vi stiano dicendo delle belle cose, lei annuì: Sì, molto belle, e Swann trovò deliziosa la sua semplicità.
Intanto raccoglieva informazioni su Vinteuil, sulla sua opera, sul periodo della sua vita in cui aveva composto quella sonata, su ciò che poteva aver significato per lui la piccola frase; era questo, soprattutto, che avrebbe voluto sapere.
Ma tutte quelle persone che ostentavano d'ammirare il musicista (quando Swann aveva detto che la sua sonata era davvero bella, Madame Verdurin aveva esclamato: Credo bene che sia bella! Ma non è ammissibile non conoscere la sonata di Vinteuil, non si ha il diritto di non conoscerla, e il pittore aveva aggiunto: Ah! è proprio un meccanismo grandioso, non è vero? Non è, se volete, di quelle cose che fanno "cassetta" e "tutto esaurito", ma è un'emozione di prim'ordine per un artista), quelle persone sembravano non essersi mai poste tali domande, perché non seppero rispondere.
E addirittura, a una o due osservazioni particolari di Swann sulla sua frase preferita: - To', è buffo, non ci avevo mai badato; vi dirò che non mi piace molto cercare il pelo nell'uovo, andare troppo per il sottile; non perdiamo il nostro tempo a spaccare il capello in quattro, qui, non è nello stile della casa, rispose Madame Verdurin, che il dottor Cottard contemplava con ammirazione beata e con zelo studioso mentre navigava disinvolta in quel mare di frasi fatte.
Lui e Madame Cottard, per altro, con quella specie di buonsenso che è comune anche a certa gente del popolo, si guardavano bene dall'esprimere giudizi o dal fingere ammirazione per una musica che si confessavano vicendevolmente, una volta tornati a casa, di non capire più di quanto capissero la pittura del "signor" Biche.
Poiché dell'incanto, della grazia, delle forme della natura il pubblico non conosce che quel tanto che ne ha attinto negli esempi più banali di un'arte lentamente assimilata, e poiché un artista originale comincia appunto dal rifiuto di tali esempi, i Cottard, emblema - in questo caso - del pubblico, non trovavano né nella sonata di Vinteuil né nei ritratti del pittore ciò che rappresentava per loro l'armonia della musica e la bellezza della pittura.
Avevano l'impressione che quando il pianista eseguiva la sonata accozzasse a caso sul piano delle note che, in effetti, non erano concatenate dalle forme cui erano abituati, e che il pittore gettasse dei colori a caso sulle sue tele.
E quando, in queste ultime, riuscivano a riconoscere una forma, la trovavano appesantita e volgare (cioè sprovvista dell'eleganza di quella scuola di pittura attraverso il cui filtro vedevano persino gli esseri viventi per la strada) e priva di verità, quasi che Biche avesse ignorato com'è costruita una spalla e che le donne non hanno i capelli color malva. Tuttavia, essendosi dispersi i fedeli, il dottore sentì che l'occasione era propizia e mentre Madame Verdurin faceva un ultimo commento sulla sonata di Vinteuil, come un nuotatore alle prime armi che si getta in acqua per imparare ma sceglie un momento in cui non ci sia troppa gente a vederlo: - Allora è quello che si definisce un musicista "di primo cartello"! (14) esclamò con brusca risoluzione.
Swann poté soltanto appurare che la recente comparsa della sonata di Vinteuil aveva destato grande impressione in una scuola di tendenze assai avanzate, ma era del tutto ignota al grande pubblico.
- Conosco bene un tale che si chiama Vinteuil, disse Swann pensando al professore di piano delle sorelle di mia nonna.
- Forse è lui, esclamò Madame Verdurin.- Oh no, replicò Swann ridendo.
Se l'aveste visto anche solo per un paio di minuti, non vi porreste il problema.
- Insomma, porsi il problema è già risolverlo? disse il dottore.
- Ma potrebbe essere un parente, riprese Swann, sarebbe piuttosto triste, ma in fin dei conti può darsi che un uomo di genio sia cugino d'un vecchio scemo.
Se fosse così, confesso che non c'è supplizio al quale non mi sottoporrei perché il vecchio scemo mi presentasse all'autore della sonata: a cominciare dal supplizio di frequentare il vecchio scemo, che dev'essere terribile.
Il pittore sapeva che Vinteuil, in quel momento, era molto malato e che il dottor Potain temeva di non poterlo salvare.
- Ma come, esclamò Madame Verdurin, c'è ancora qualcuno che si fa curare da Potain! - Ah, signora, disse Cottard con tono da commedia galante, voi dimenticate che state parlando di un mio collega, dovrei dire di un mio maestro.
Il pittore aveva sentito dire che su Vinteuil incombeva una minaccia di alienazione mentale.
E assicurava che era possibile dedurlo da certi passaggi della sua sonata.
Swann non trovò assurda quell'osservazione, ma ne rimase turbato; poiché un'opera di musica pura non contiene nessuno dei rapporti logici la cui alterazione nel linguaggio denuncia la follia, che si potesse riconoscere la presenza della follia in una sonata gli sembrava qualcosa di altrettanto misterioso quanto la follia di una cagna, la follia di un cavallo, fenomeni che d'altronde si verificano realmente.
- Non mi seccate con i vostri maestri, voi ne sapete dieci volte più di lui, replicò Madame Verdurin a Cottard, col tono di una persona che ha il coraggio delle proprie opinioni e tiene bravamente testa a chi non la pensa come lei.
Voi i vostri malati non li ammazzate, almeno! - Ma, signora, lui è dell'Accademia, ribatté il dottore con tono ironico.
Se un malato preferisce morire per mano di un principe della scienza...
E' molto più "chic" poter dire: E' Potain che mi cura.
- Ah, è più "chic"? disse Madame Verdurin.
Dunque c'è qualcosa di "chic" nelle malattie, adesso? Non lo sapevo...
Ma quanto siete spiritoso! esclamò tutt'a un tratto nascondendosi il volto fra le mani.
E io che continuavo a discutere seriamente, povera sciocca, senza accorgermi che vi prendevate gioco di me.


Quanto al signor Verdurin, trovando un po' faticoso mettersi a ridere per così poco, si accontentò di tirare una boccata dalla sua pipa, pensando con tristezza che non sarebbe più riuscito a raggiungere la moglie sul terreno dell'amabilità.
- Sapete che il vostro amico ci piace molto, disse Madame Verdurin a Odette quando questa le augurò la buonanotte.
E' semplice, garbato; se gli amici che avete da presentarci sono tutti così, portateli pure.
Verdurin fece notare che, tuttavia, Swann non aveva apprezzato la zia del pianista.
- Era ancora un po' spaesato, pover'uomo, replicò Madame Verdurin, non puoi pretendere che, la prima volta, abbia già il tono della casa come Cottard, che fa parte del nostro piccolo clan da diversi anni.
La prima volta non conta, serviva a prendere contatto.Odette, è inteso che verrà di nuovo a trovarci domani allo "Chtelet". (15) Se passaste voi a prenderlo? - Ma no, non vuole.
- Ah! be', come volete.
Purché non stacchi all'ultimo momento! Con grande sorpresa di Madame Verdurin, Swann non "staccò" mai.
Li raggiungeva dappertutto, qualche volta nei ristoranti dei sobborghi dove s'andava ancora di rado - non era la stagione -, più spesso a teatro, dove Madame Verdurin amava recarsi; e quando un giorno, a casa, lei disse davanti a lui che per le prime e le serate di gala sarebbe stato prezioso disporre di un lasciapassare, che si era rivelato molto scomodo non averlo il giorno dei funerali di Gambetta, (16) Swann, che non parlava mai delle sue relazioni brillanti, ma soltanto di quelle poco prestigiose che gli sarebbe parso indelicato nascondere, e fra le quali si era abituato, nel faubourg SaintGermain, a collocare le relazioni col mondo ufficiale, intervenne: - Vi prometto di occuparmene, l'avrete in tempo per la replica dei "Danicheff", (17) domani stesso farò colazione col Prefetto di polizia all'Eliseo.
- Come, all'Eliseo? gridò Cottard con voce tonante.
- Sì, dal signor Grévy, (18) rispose Swann, un po' a disagio per l'effetto prodotto dalla sua frase.
E il pittore disse al dottore, scherzosamente: - Vi piglia spesso? Di solito, una volta avuta la spiegazione, Cottard diceva: Ah! bene, bene, d'accordo e non mostrava più alcuna traccia di emozione.
Ma, stavolta, le ultime parole di Swann, invece di procurargli l'abituale rilassamento, portarono all'acme il suo stupore per il fatto che un uomo che pranzava con lui, e che non aveva né cariche ufficiali né privilegi di sorta, frequentasse il Capo dello Stato.
- Come, il signor Grévy? Voi conoscete il signor Grévy? chiese a Swann con l'aria sbalordita e incredula di una guardia municipale alla quale uno sconosciuto chieda di vedere il Presidente della Repubblica e che, comprendendo da quelle parole "con chi ha a che fare", come dicono i giornali, garantisca al povero demente che sarà ricevuto senza indugio e lo indirizzi all'infermeria del carcere mandamentale.
- Lo conosco un po', abbiamo degli amici comuni (non osò dire che si trattava del principe di Galles), del resto invita con grande facilità e vi assicuro che quelle colazioni non hanno nulla di divertente, inoltre sono molto semplici, non si è mai più di otto a tavola, rispose Swann cercando di cancellare ciò che sembravano avere di troppo clamoroso, agli occhi del suo interlocutore, quei rapporti col Presidente della Repubblica.
Immediatamente Cottard, adeguandosi alle parole di Swann, adottò circa il valore degli inviti del signor Grévy l'opinione che si trattasse di cosa ben poco ricercata e alla portata di chiunque.
Da quel momento in poi non si meravigliò più che Swann, come un qualsiasi altro cittadino, frequentasse l'Eliseo, e un po' lo compiangeva, anzi, di dover partecipare a colazioni che, per ammissione dello stesso invitato, erano noiose.
- Ah! bene, bene, d'accordo, disse col tono di un doganiere che, diffidente fino a un attimo prima, dopo i vostri chiarimenti vi rilascia il visto e vi fa passare senza costringervi ad aprire i bagagli.
- Ah, vi credo, devono essere tutt'altro che divertenti quelle colazioni, avete un bel coraggio ad andarci, disse Madame Verdurin alla quale il Presidente della Repubblica appariva come un noioso particolarmente temibile perché disponeva di mezzi di seduzione e di coercizione che, applicati nei confronti dei fedeli, avrebbero potuto indurli a "staccare". Pare che sia sordo come una campana, e che mangi con le mani.
- In effetti, allora, non dev'essere tanto divertente andarci, per voi, disse il dottore con una punta di commiserazione; e, ricordando la cifra di otto commensali: Sono colazioni intime? chiese vivacemente, con zelo di linguista più ancora che con interesse di curioso.
Ma il prestigio che aveva ai suoi occhi il Presidente della Repubblica finì nonostante tutto col trionfare sia dell'umiltà di Swann sia della malevolenza di Madame Verdurin, e ad ogni pranzo Cottard chiedeva con interesse: Vedremo il signor Swann questa sera? Ha dei rapporti personali con il signor Grévy.
E' quello che si definisce un "gentleman", non è vero?.
Giunse persino a offrirgli un biglietto d'invito per l'esposizione dentistica.
- Potrete entrare con le persone che vi accompagneranno, ma è vietato l'ingresso ai cani.
Capite, ve lo dico perché ho degli amici che non lo sapevano e ci sono rimasti molto male.
Quanto a Verdurin, non gli sfuggì la sgradevole impressione suscitata in sua moglie dalla scoperta che Swann aveva amicizie altolocate di cui non aveva mai parlato. Se non si era organizzato un intrattenimento fuori, era a casa Verdurin che Swann raggiungeva il piccolo clan, ma ci andava solo la sera, e non accettava quasi mai gli inviti a pranzo, malgrado le insistenze di Odette.
- Potrei pranzare io sola con voi, se la preferite, gli diceva.
- E Madame Verdurin? - Oh, nulla di più semplice.
Basterebbe dirle che il vestito non era pronto, che il mio "cab" (19) è arrivato in ritardo.
C'è sempre modo di arrangiarsi.
- Siete gentile.
Ma Swann si diceva che se avesse mostrato a Odette (acconsentendo a raggiungerla soltanto dopo pranzo) che egli preferiva altri piaceri a quello di stare in sua compagnia, l'inclinazione che lei sentiva per lui non avrebbe conosciuto ancora per molto tempo la sazietà.
E poiché, d'altra parte, preferiva di gran lunga a quella di Odette la bellezza di una piccola operaia fresca e paffuta come una rosa di cui s'era invaghito, gli piaceva passare con lei la prima parte della serata, sicuro poi di vedere Odette.
Per le stesse ragioni non voleva mai che Odette passasse a prenderlo per andare dai Verdurin.
La piccola operaia lo aspettava quasi sotto casa, a un angolo di strada che il suo cocchiere Rémi conosceva, saliva accanto a lui e restava fra le sue braccia fino al momento in cui la carrozza si fermava davanti alla casa dei Verdurin.
Quando entrava, Madame Verdurin, mostrando le rose che le aveva mandate al mattino, diceva: Vi devo sgridare, e gli indicava un posto accanto a Odette, mentre il pianista suonava, per loro due, la piccola frase di Vinteuil che era come l'inno nazionale del loro amore.
Cominciava con la tenuta di tremolo del violino, che per qualche battuta s'offriva sola all'ascolto occupando tutto il primo piano, poi, di colpo, sembrava farsi da parte e, come in quei quadri di Pieter de Hooch (20) cui la stretta cornice di una porta socchiusa conferisce maggiore profondità, da molto lontano, con un diverso colore, nel vellutato di una luce schermata, la piccola frase appariva, danzante, pastorale, intercalata, episodica, come d'un altro mondo.
Passava con le sue pieghe semplici e immortali, distribuendo qua e là i doni della sua grazia, con un sorriso identico e ineffabile; ma Swann, adesso, credeva di distinguervi del disinganno.
Sembrava che essa conoscesse la vanità di quella gioia di cui mostrava la via.
Nella sua grazia leggera c'era qualcosa di compiuto, come il distacco che subentra al rimpianto.
Ma a lui poco importava, la considerava meno in se stessa in quello che poteva esprimere per un musicista che ignorava l'esistenza sua e di Odette quando l'aveva composta, e per tutti coloro che l'avrebbero ascoltata nei secoli - che come un pegno, un ricordo del suo amore, qualcosa che anche per i Verdurin, per il piccolo pianista, faceva pensare a Odette e nello stesso tempo a lui, li univa; tanto che, cedendo a un capriccio di Odette, egli aveva rinunciato al progetto di farsi suonare da qualcuno l'intera sonata, di cui continuò a conoscere quel solo passaggio.
Che bisogno avete del resto? gli aveva detto.
E' questo il "nostro" pezzo.
E soffrendo al pensiero che nel momento in cui passava così vicina eppure infinitamente lontana, nel momento stesso in cui si rivolgeva a loro, essa non li conosceva, Swann giungeva quasi a rammaricarsi che avesse un significato, una bellezza intrinseca e inalterabile, estranea a loro, così come, di fronte ai gioielli ricevuti in dono, persino di fronte alle lettere scritte da una donna amata, noi rimproveriamo all'acqua della gemma e alle parole del linguaggio di non esser fatte unicamente dell'essenza di quell'amore passeggero e di quella creatura particolare.
Spesso succedeva che egli si fosse talmente attardato con la giovane operaia prima di recarsi dai Verdurin che, non appena il pianista aveva finito di suonare la piccola frase, Swann si accorgeva che stava ormai giungendo per Odette l'ora di rientrare.
La accompagnava fino alla porta della sua palazzina in rue La Pérouse, dietro l'Arco di Trionfo.
Ed era forse per questo, per non chiederle tutti i possibili favori, ch'egli sacrificava il piacere per lui meno necessario di vederla prima, di arrivare con lei dai Verdurin, all'esercizio del diritto che lei gli riconosceva di andare via insieme, un diritto al quale attribuiva maggior pregio perché, in quel modo, gli sembrava che nessuno l'avrebbe vista, si sarebbe frapposto tra loro, le avrebbe impedito d'essere ancora con lui dopo che s'erano lasciati.
Lei tornava, dunque, nella carrozza di Swann; una sera, mentre era appena scesa e gli diceva arrivederci, raccolse rapidamente nel piccolo giardino antistante alla casa un ultimo crisantemo, e glielo porse prima che lui ripartisse.
Swann se lo tenne stretto contro la bocca durante il tragitto di ritorno e quando, in capo a pochi giorni, il fiore fu appassito, lo chiuse nel suo "secrétaire" per custodirvelo gelosamente.
Tuttavia, non entrava mai in casa di Odette.
Solo due volte, nel pomeriggio, era stato partecipe di quell'operazione per lei capitale che era "prendere il tè".
L'isolamento e il vuoto di quelle brevi strade (composte quasi per intero di palazzine contigue, la cui monotonia era rotta all'improvviso da qualche sinistra bottega, testimonianza storica e sordido avanzo dei tempi in cui quei quartieri erano ancora malfamati), la neve rimasta nei giardini e sugli alberi, la sciatteria della stagione, la vicinanza della natura, conferivano un che di più misterioso al calore, ai fiori che aveva trovato all'interno.
Lasciando sulla sinistra, al piano rialzato, la camera da letto di Odette che si affacciava, dietro, su una stradina parallela, una scala dritta, fra pareti dipinte di una tonalità scura
  lungo le quali scendevano stoffe orientali, fili di rosari turchi e una grande lanterna giapponese sospesa a un cordoncino di seta (ma che per non privare i visitatori degli ultimi "conforts" della civiltà occidentale, si accendeva a gas), conduceva al salotto e al salottino.
Questi erano preceduti da uno stretto vestibolo alla cui parete, rivestita di un graticcio da giardino, ma dorato, era addossata per tutta la sua lunghezza una cassa rettangolare nella quale, come in una serra, fioriva un filare di quei grossi crisantemi ancora rari in quegli anni, sebbene non paragonabili alle qualità che gli orticoltori riuscirono ad ottenere in seguito.
Swann era infastidito dalla moda di cui erano oggetto dall'anno precedente, ma questa volta lo aveva colpito piacevolmente vedere la penombra della stanza screziarsi di rosa, arancione e bianco grazie ai raggi odorosi di quegli effimeri astri che s'accendono nelle giornate grigie.
Odette l'aveva ricevuto in vestaglia di seta rosa, con il collo e le braccia nudi.
L'aveva fatto sedere accanto a lei in uno dei molti misteriosi ricettacoli ricavati nelle insenature del salotto, protetti da immense palme dentro portavasi di Cina o da paraventi ai quali erano appuntati dei nastri intrecciati, dei ventagli, delle fotografie.
Gli aveva detto: Ma così non siete comodo, aspettate, vi sistemo io per bene, e con il piccolo riso vanitoso di chi esibisce una sua speciale invenzione aveva sistemato dietro la testa e sotto i piedi di Swann una quantità di cuscini di seta giapponese, schiacciandoli come fosse prodiga di tali ricchezze e noncurante del loro valore.
Ma quando il cameriere era venuto a portare una dopo l'altra le numerose lampade che, racchiuse quasi tutte in vasi di porcellana cinese, ardevano isolate o a coppie, disposte su vari mobili come su altari, e avevano fatto riapparire nel crepuscolo già quasi notturno di quel tardo pomeriggio d'inverno un tramonto più durevole, umano e rosato - persuadendo forse qualche innamorato a indugiare sognante nella strada davanti al mistero della presenza che le finestre accese svelavano e nascondevano a un tempo -, lei, con la coda dell'occhio, aveva severamente sorvegliato il domestico per verificare che le posasse con esattezza al loro posto consacrato.
Temeva che mettendone anche una sola in posizione sbagliata l'effetto d'insieme del suo salotto andasse dissolto e che il suo ritratto, sistemato su un cavalletto obliquo drappeggiato di "peluche", non fruisse più della luce giusta.
Seguiva dunque con trepidazione i movimenti di quell'uomo grossolano, e lo rimproverò vivacemente perché era passato troppo rasente alle due giardiniere, che puliva lei stessa per paura che gliele sciupassero e che andò a esaminare da vicino per controllare che non le avesse sbrecciate.
Trovava che i suoi soprammobili cinesi avessero tutti delle forme "divertenti", e anche le orchidee, le cattleya soprattutto, che erano con i crisantemi i suoi fiori preferiti perché avevano il grande merito di non assomigliare a dei fiori ma d'essere di seta, di raso.
Quella si direbbe ritagliata nella fodera del mio mantello, disse a Swann mostrandogli una certa orchidea, con una sfumatura d'ammirazione per quel fiore così "chic", per quella sorella elegante e imprevista che la natura le offriva, così lontana da lei nella scala degli esseri e tuttavia raffinata, più degna di chissà quante donne d'avere un posto nel suo salotto. Mostrandogli, via via, delle chimere dalle lingue di fuoco dipinte su un vaso di porcellana o ricamate su un parafuoco, le corolle di un fascio di orchidee, un dromedario d'argento niellato, con gli occhi incrostati di rubini, che stava sul camino accanto a un rospetto di giada, Odette affettava volta a volta di aver timore della malvagità o di sorridere dell'aspetto stravagante dei mostri, di arrossire per l'indecenza dei fiori e di provare un irresistibile desiderio di baciare il dromedario e il rospo, che chiamava "amorini".
E quelle affettazioni contrastavano con la sincerità di certe sue devozioni, specialmente a Notre-Dame de Laghet (21) che un tempo, quando abitava a Nizza, l'aveva guarita d'una malattia mortale, e della quale portava sempre su di sé una medaglietta d'oro cui attribuiva un potere illimitato.
Odette preparò a Swann il "suo" tè, gli chiese: Limone o panna?, e quando lui rispose panna gli disse ridendo: Una nuvola!.
E poiché lo trovava buono: Vedete che so cosa vi piace.
Quel tè, in effetti, era sembrato a Swann qualcosa di prezioso in se stesso, e l'amore esige a tal punto una giustificazione, una garanzia di durata in piaceri che, invece, non esisterebbero se non esistesse l'amore e finiscono dove quello finisce, che quando, alle sette, l'aveva lasciata per tornare a casa e cambiarsi d'abito, durante tutto il tragitto in carrozza, non riuscendo a contenere la gioia suscitata in lui da quel pomeriggio, si ripeteva: Certo sarebbe molto gradevole avere una personcina dalla quale poter trovare questa cosa così rara, del buon tè.
Dopo un'ora ricevette un biglietto di Odette, e riconobbe subito quella scrittura grande nella quale un'affettazione di rigidità britannica imponeva un'apparenza di disciplina a certi caratteri informi che a occhi meno benevoli avrebbero rivelato il disordine del pensiero, l'insufficienza dell'istruzione, la mancanza di schiettezza e di volontà.
Swann aveva dimenticato da lei il suo portasigarette. "Aveste dimenticato così anche il vostro cuore, non vi avrei consentito di riprenderlo." Una seconda visita che le fece fu forse più importante.
Mentre andava da lei, quel giorno come ogni volta che doveva vederla, se la raffigurava in anticipo; e la necessità in cui versava, per trovare bello il suo viso, di circoscrivere ai soli pomelli freschi e rosei le guance che erano così spesso gialle, languide, cosparse a volte di puntini rossi, lo rattristava come una prova che l'ideale è inaccessibile e la felicità mediocre.
Le portava un'incisione che lei desiderava vedere.
Era leggermente indisposta; lo ricevette in vestaglia di "crpe de Chine" color malva, trattenendosi sul petto, come un mantello, uno scialle sontuosamente ricamato. In piedi accanto a lui, i capelli sciolti, fluenti lungo le gote, una gamba piegata in un atteggiamento quasi di danza per potersi curvare senza fatica sull'incisione che osservava a testa china, con quei suoi grandi occhi che erano, quando non si animava, così cupi e stanchi, lo colpì per la sua somiglianza con quella figura di Sefora, la figlia di Ietro, che si vede in un affresco della Cappella Sistina. (22) Swann aveva sempre avuto questa particolare passione di ritrovare nella pittura dei maestri non solo i caratteri generali della realtà che ci circonda, ma ciò che, al contrario, sembra meno suscettibile di generalità, vale a dire i tratti individuali dei volti che conosciamo: così, nella consistenza di un busto del doge Loredan scolpito da Antonio Rizzo, (23) il risalto degli zigomi, l'obliquità dei sopraccigli, insomma un autentico sosia del suo cocchiere Rémi; sotto i colori di un Ghirlandaio, la fisionomia del signor di Palancy; (24) in un ritratto del Tintoretto, l'insediarsi dei primi peli delle fedine nel grasso della guancia, l'increspatura del naso, la penetrazione dello sguardo, la congestione delle palpebre del dottor du Boulbon. (25) Forse, avendo sempre nutrito il rimorso d'aver limitato la propria vita alle relazioni mondane, alla conversazione, credeva di trovare una sorta di indulgente perdono concessogli dai grandi artisti nel fatto che anche loro avessero considerato con piacere e accolto nella propria opera simili volti, che le conferiscono un singolare attestato di realtà e di vitalità, un sapore moderno; forse, anche, si era a tal punto lasciato conquistare dalla frivolezza della gente di mondo che sentiva il bisogno di rintracciare in un'opera antica quelle allusioni anticipate capaci di ringiovanire i nomi propri del presente.
Forse, al contrario, aveva conservato una natura d'artista in misura sufficiente perché quelle caratteristiche individuali gli dessero piacere assumendo un significato più generale quando le scorgeva, sradicate, liberate, nella somiglianza d'un ritratto più antico con un originale non raffigurato.
In ogni caso, e forse perché la pienezza di impressioni ch'egli provava da qualche tempo, pur essendogli venuta piuttosto con l'amore per la musica, aveva arricchito anche il suo gusto della pittura, fu più profondo - e doveva esercitare su di lui un influsso durevole - il piacere ch'egli trasse allora dalla somiglianza di Odette con la Sefora di quel Sandro di Mariano al quale ci si riferisce più volentieri con il soprannome popolare di Botticelli, dal momento che esso evoca, in luogo dell'opera autentica del pittore, l'idea falsa e banale che se n'è volgarizzata. (26) Swann non giudicò più il viso di Odette secondo la qualità più o meno buona delle guance e la dolcezza puramente carnale che supponeva di dovervi trovare toccandola con le labbra se mai avesse osato baciarla, ma come una matassa di linee sottili e leggiadre che i suoi sguardi presero a sbrogliare seguendo la curva che aveva segnato il loro avvolgersi, connettendo la cadenza della nuca all'effusione dei capelli e alla flessione delle palpebre, come in un ritratto di lei nel quale il suo tipo divenisse chiaro e intelligibile.La guardava; un frammento dell'affresco appariva nel suo viso e nel suo corpo, e da allora egli cercò sempre di ritrovarvelo, sia quando era vicino a Odette sia quando semplicemente pensava a lei; e sebbene il capolavoro fiorentino gli fosse caro soltanto perché lo ritrovava nelle sue fattezze, tuttavia quella somiglianza conferiva a lei pure una bellezza, la rendeva più preziosa.
Swann si rimproverò d'aver misconosciuto i pregi di una creatura che sarebbe parsa adorabile al grande Sandro, e si rallegrò perché il piacere che provava nel vedere Odette aveva ora una giustificazione nella sua cultura estetica.
Si disse che associando il pensiero di Odette ai propri sogni di felicità non si era rassegnato a una soluzione di ripiego così imperfetta come aveva creduto fino a quel momento, visto che la sua figura appagava in lui le inclinazioni artistiche più raffinate.
Dimenticava che Odette non diveniva per questo una donna commisurata al suo desiderio, giacché il suo desiderio si era sempre per l'appunto orientato in senso opposto ai suoi gusti estetici.
Quel termine, "opera fiorentina", rese a Swann un grande servigio.
Fu l'attestato che gli consentì di far penetrare l'immagine di Odette in un mondo di sogni cui prima non aveva avuto accesso e nel quale si impregnò di nobiltà.
E mentre la visione puramente carnale che egli ne aveva avuta, rinnovando continuamente i suoi dubbi sulla qualità del viso, del corpo, di tutta la bellezza di lei, aveva indebolito il suo amore, quei dubbi furono dissolti, quell'amore rinsaldato quando ebbe come fondamento, invece, i dati di un'estetica certa; senza contare che i baci e il possesso, che sembravano naturali e mediocri se concessi da una carne sciupata, gli parve invece che dovessero essere - venendo a coronare l'adorazione di un pezzo da museo - sovrannaturali e deliziosi.
E quando era tentato di rammaricarsi per non aver fatto altro, da mesi, che vedere Odette, si rispondeva che era ragionevole dedicare gran parte del proprio tempo a un inestimabile capolavoro, trasfuso, per una volta, in una materia diversa e singolarmente saporosa, in un esemplare rarissimo ch'egli contemplava ora con l'umiltà, la spiritualità e il disinteresse di un artista, ora con l'orgoglio, l'egoismo e la sensualità di un collezionista.
Mise sul suo scrittoio, come una fotografia di Odette, una riproduzione della figlia di Ietro.
Ammirava quei grandi occhi, quel viso delicato che lasciava indovinare l'imperfezione della pelle, i meravigliosi boccoli dei capelli lungo le guance affaticate; e, adattando quel che prima trovava bello in senso estetico all'idea di una donna viva, lo trasformava in pregi fisici e si rallegrava di trovarli riuniti in una creatura che avrebbe potuto possedere. Quella vaga simpatia che ci spinge verso un capolavoro mentre lo stiamo osservando si era convertita, adesso ch'egli conosceva l'originale in carne ed ossa della figlia di Ietro, in un desiderio capace ormai di supplire a quello che il corpo di Odette non gli aveva mai ispirato.
Guardando lungamente quel Botticelli, pensava al "suo" Botticelli, che trovava più bello ancora, e quando avvicinava a sé la fotografia di Sefora gli sembrava di stringersi contro il cuore Odette.
E tuttavia non era solo la stanchezza di Odette che si ingegnava di prevenire: era, a volte, anche la propria; accorgendosi che, da quando poteva vederlo senza alcuna difficoltà, Odette sembrava non avere più granché da dirgli, temeva che i modi un po' insignificanti, monotoni, e come fissati una volta per tutte, che lei adesso assumeva quando stavano insieme, finissero con l'uccidere dentro di lui quella speranza romanzesca di un giorno in cui lei avrebbe deciso di dichiarare la sua passione, speranza che, sola, lo aveva reso e lo manteneva innamorato.
E per rinnovare un poco l'aspetto morale, troppo cristallizzato, di Odette, del quale aveva paura d'annoiarsi, tutt'a un tratto le scriveva una lettera piena di fittizie delusioni e di collere simulate, e gliela faceva recapitare prima di pranzo.
Sapeva che ne sarebbe rimasta spaventata, che gli avrebbe risposto, e sperava che dalla contrazione prodotta nel suo animo dal timore di perderlo schizzassero fuori delle parole che
  ancora non gli aveva mai dette; e, in effetti, proprio così aveva ottenuto le lettere più tenere che lei gli avesse scritte finora, una delle quali, fattagli recapitare a mezzogiorno dalla "Maison Dorée" (27) (era il giorno della festa Parigi-Murcia a favore degli alluvionati di Murcia (28)), esordiva con queste parole: "Amico mio, la mano mi trema così forte che riesco appena a scrivere", ed egli l'aveva conservata nello stesso cassetto del crisantemo secco.
Oppure, se non aveva avuto il tempo di scrivergli, quando fosse arrivato dai Verdurin lei gli sarebbe venuta impetuosamente incontro e gli avrebbe detto: Vi devo parlare, e lui avrebbe contemplato con curiosità sul suo viso e nelle sue parole quello che fino allora gli aveva nascosto del suo cuore.
Gli bastava avvicinarsi alla casa dei Verdurin e scorgere, illuminate dalle lampade, le grandi finestre i cui scuri non venivano mai chiusi, per intenerirsi al pensiero della creatura incantevole che avrebbe visto risplendere alla loro luce dorata.
A volte le ombre degli invitati si stagliavano, nere e sottili, incorporee, davanti alle lampade, simili a quelle piccole incisioni che su un "abat-jour" traslucido appaiono intercalate ad altri pannelli semplicemente luminosi.
Cercava di distinguere la "silhouette" di lei.
Poi, una volta arrivato, senza che se ne rendesse conto, gli occhi gli brillavano d'una tale gioia che il signor Verdurin diceva al pittore: Mi sembra che la cottura sia a buon punto. E, in effetti, la presenza di Odette aggiungeva per Swann a quella casa ciò di cui erano sprovviste tutte le altre ch'egli frequentava: una sorta di apparato sensitivo, di rete nervosa le cui ramificazioni giungevano in tutte le stanze trasmettendo continui impulsi al suo cuore.
Il semplice funzionamento di quell'organismo sociale che era il piccolo "clan" fissava così per Swann, automaticamente, degli appuntamenti quotidiani con Odette, e gli consentiva di fingere un'indifferenza nel vederla, o addirittura un desiderio di non vederla più, che non gli faceva correre grossi rischi poiché, qualsiasi messaggio le avesse scritto durante il giorno, di sera l'avrebbe fatalmente vista e riaccompagnata a casa.
Ma una volta che, pensando con riluttanza a quell'inevitabile ritorno insieme, aveva condotto fino al Bois la sua giovane operaia per ritardare il momento di recarsi dai Verdurin, arrivò così tardi che Odette, convinta che non sarebbe più venuto, se n'era andata.
Vedendo che non era più nel salotto, Swann sentì una stretta al cuore; tremava al pensiero d'essere privato di un piacere di cui per la prima volta abbracciava la misura, avendo goduto sino allora di quella certezza di trovarlo a suo arbitrio che per ogni piacere riduce o addirittura inibisce in noi la possibilità di scorgerne la grandezza. - Hai visto la faccia che ha fatto quando si è accorto che lei non c'era? disse Verdurin alla moglie.
Mi sembra proprio cotto a puntino! - La faccia che ha fatto? domandò con violenza il dottor Cottard che, momentaneamente assentatosi per visitare un malato, tornava allora a prendere sua moglie e non sapeva di chi si parlasse.
- Ma come, non avete incontrato sulla porta il più grazioso degli Swann...
- No.
Il signor Swann era qui? - Oh, solo per un istante.
Abbiamo avuto uno Swann molto agitato, molto nervoso.
Capirete, Odette se n'era andata.
- Volete dire che hanno fatto coppia? che lei gli ha concesso i suoi favori? disse il dottore, sperimentando con cautela il senso di quelle espressioni.
- Ma no, non c'è assolutamente nulla e, detto fra noi, trovo che lei ha parecchio torto, che si comporta da quella vera ochetta che è.
- Piano, piano, disse Verdurin, come fai a saperlo, tu, che non c'è nulla? Noi non eravamo là a vedere, ti sembra? - A me l'avrebbe detto, replicò fieramente Madame Verdurin.
Se vi dico che mi racconta tutte le sue faccende! Visto che non ha più nessuno, in questo momento, le ho detto che avrebbe dovuto andarci a letto.
Sostiene che non può, che s'era presa sì una bella cotta per lui ma che lui è timido nei suoi confronti e questo intimidisce anche lei, e poi che non lo ama in quel modo, che è un essere ideale, che ha paura di deflorare il sentimento che prova per lui, che ne so io? Eppure, sarebbe proprio quello che le ci vuole.
- Mi permetterai di non condividere il tuo parere, disse Verdurin, quel signore mi convince solo a metà; a me sembra uno che posa.
Madame Verdurin si immobilizzò, assunse un'espressione inerte come se si fosse trasformata in una statua, finzione che le permise di stornare il sospetto che avesse sentito quella parola insopportabile, "posa", la quale sembrava implicare che qualcuno potesse "posare" con loro e, dunque, essere "più di loro".
- Be', se non c'è niente, non credo che sia perché quel signore la reputa "virtuosa", disse ironicamente Verdurin.
E dopotutto, non si può mai dire, visto che ha l'aria di crederla intelligente.
Non so se hai sentito quello che le declamava l'altra sera sulla sonata di Vinteuil; io voglio bene a Odette con tutto il cuore, ma per esporle delle teorie estetiche bisogna essere dei begli ingenui! - Andiamo, non parlate male di Odette, disse Madame Verdurin facendo la bambina.
E' una delizia.
- Ma nessuno mette in dubbio che sia una delizia! Non parliamo male di lei, diciamo solo che non è né l'incarnazione della virtù né quella dell'intelligenza.
In fondo, aggiunse rivolto al pittore, ve ne importa qualcosa, a voi, che sia virtuosa? Magari sarebbe molto meno affascinante, chi può dirlo? Sul pianerottolo, Swann era stato raggiunto dal maggiordomo, che non c'era quando lui era arrivato e che era stato incaricato da Odette di dirgli - ma era già passata un'ora -, se per caso fosse venuto, che probabilmente sarebbe andata a prendere una cioccolata da "Prévost" (29) prima di tornare a casa.
Swann corse da Prévost, ma a ogni passo la sua carrozza era intralciata da altre carrozze o da persone che attraversavano la strada, ostacoli odiosi che sarebbe stato felice di travolgere se il processo verbale dell'agente non avesse minacciato di farlo ritardare ancor più del passaggio dei pedoni.
Calcolava il tempo che stava impiegando, aggiungeva qualche secondo a ogni minuto per essere sicuro di non averlo troppo accorciato, cosa che gli avrebbe fatto credere d'avere più probabilità di quante in realtà non avesse di arrivare abbastanza presto e di trovare ancora Odette.
E a un tratto, come chi si sveglia da un sonno febbrile e prende coscienza dell'assurdità delle fantasticherie che ruminava senza riuscire a distinguersene nettamente, Swann scorse all'improvviso dentro di sé la stranezza dei pensieri che andava trascinando dal momento in cui gli avevano detto, a casa dei Verdurin, che Odette se n'era già andata, la novità del dolore che gli opprimeva il cuore e che avvertì come se si fosse appena destato.
Ma come? tutta quell'agitazione perché non avrebbe visto Odette fino a domani, che era esattamente ciò che si era augurato, un'ora fa, mentre si recava da Madame Verdurin! Fu costretto a constatare che lì, in quella stessa carrozza che lo portava da Prévost, egli non era più lo stesso, e che non era più solo: un altro essere gli era accanto, aderente, amalgamato a lui, un essere del quale forse non sarebbe riuscito a sbarazzarsi, che avrebbe dovuto trattare con riguardo come un padrone o come una malattia.
E tuttavia, da quando aveva sentito che una nuova persona s'era in quel modo aggiunta a lui, la sua vita gli appariva più interessante.
Era già tanto se diceva a se stesso che quel possibile incontro da "Prévost" (la cui attesa devastava spogliava a tal punto i momenti che lo precedevano, ch'egli non trovava più una sola idea, un solo ricordo dietro i quali far riposare la mente) era comunque probabile, se pure si fosse avverato, che sarebbe stato come gli altri, ben poca cosa.
Come ogni sera, una volta che fosse stato con Odette e avesse furtivamente gettato sul suo viso mutevole uno sguardo subito distolto per il timore che lei vi leggesse la profferta di un desiderio e non credesse più alla sua indifferenza, non avrebbe più potuto pensare a lei, troppo occupato a cercare dei pretesti che gli permettessero di non lasciarla immediatamente e di assicurarsi, senza mostrare di tenerci, che l'avrebbe ritrovata l'indomani dai Verdurin: vale a dire di prolungare per il momento e di rinnovare un giorno di più la delusione e la tortura procurategli dalla vana presenza di quella donna che teneva al suo fianco senza osare abbracciarla.
Odette non era da "Prévost"; Swann volle perlustrare tutti i ristoranti dei "boulevards".
Per guadagnare tempo, mentre lui ne visitava alcuni mandò negli altri il suo cocchiere Rémi (il doge Loredan di Rizzo), e andò poi ad aspettarlo - essendo fallita la sua ricerca - nel luogo che gli aveva indicato.
La carrozza non tornava e Swann, pensando al momento che stava per venire, se lo rappresentava, alternativamente, ora come quello in cui Rémi gli avrebbe detto: La signora è qui e ora come quello in cui Rémi gli avrebbe detto: La signora non era in nessuno dei caffè.
E così vedeva davanti a sé la fine della serata, unica e al tempo stesso sdoppiata, preceduta sia dall'incontro con Odette che avrebbe abolito la sua angoscia, sia dalla rinuncia forzata a trovarla quella sera, dall'accettazione del ritorno a casa senza averla rivista.
Il cocchiere tornò, ma mentre si fermava davanti a lui Swann non gli disse: Avete trovato la signora?, ma: Ricordatemi domani di ordinare della legna, credo che la provvista stia finendo.
Forse si diceva che se Rémi aveva trovato Odette in un caffè nel quale, adesso, lei lo stava aspettando, la fine di serata nefasta era ormai cancellata dalla fine di serata felice che aveva avuto inizio, e non c'era bisogno che lui s'affrettasse a ghermire una gioia già catturata e al sicuro, una gioia che non sarebbe più sfuggita.
Ma era anche per forza d'inerzia, aveva nell'anima quella mancanza di flessibilità che altri hanno nel corpo e che, al momento di evitare un urto, d'allontanare una fiamma dall'abito, di compiere un movimento urgente, fa sì che prendano tempo, che rimangano un secondo nella situazione precedente come per trovarvi un punto d'appoggio, lo slancio. E sicuramente, se il cocchiere l'avesse interrotto dicendo: La signora è qui, avrebbe replicato: Ah già, è vero, la commissione che dovevate fare, che strano, non avrei mai creduto e avrebbe continuato a parlargli della legna da ordinare perché non si accorgesse della sua emozione e per concedere a se stesso il tempo di rompere con l'inquietudine e di darsi alla gioia.
Ma il cocchiere tornò per dirgli che non l'aveva trovata da nessuna parte e, da vecchio servitore, aggiunse il proprio parere: - Credo che al signore non resti che tornare a casa. Ma l'indifferenza, che Swann non aveva faticato a ostentare finche Rémi si trovava nell'impossibilità di mutare la risposta di cui era portatore, svanì quando vide che cercava di farlo recedere dalla sua speranza e dalla sua ricerca: - Ma niente affatto, esclamò, dobbiamo trovare quella signora; è una cosa importantissima.
Si troverebbe in grave imbarazzo, per una certa faccenda, e si offenderebbe, se non mi vedesse prima.
- Non vedo come la signora potrebbe offendersi, obiettò Rémi, dato che è stata lei ad andarsene senza aspettare il signore; e poi ha detto che andava da "Prévost" e da "Prévost" non c'era.
Del resto avevano cominciato ovunque a spegnere le luci.
Sotto gli alberi dei "boulevards", in un'oscurità misteriosa, i passanti vagavano più radi, appena riconoscibili.
Più di una volta l'ombra di una donna che s'accostava a lui, gli mormorava qualcosa all'orecchio chiedendogli di accompagnarla, fece trasalire Swann.
Sfiorava ansiosamente tutti quei corpi oscuri come se tra i fantasmi dei morti, nel regno delle tenebre, stesse cercando Euridice.
Di tutti i modi di produzione dell'amore, di tutti gli agenti di disseminazione del male sacro, uno dei più efficaci è certo questo gran soffio d'ansia che passa a volte su di noi. La sorte è segnata, allora: sarà lui, l'essere della cui compagnia godiamo in quell'istante, sarà lui che ameremo.
Non c'è nemmeno bisogno che, prima, ci piacesse più di altri, e nemmeno altrettanto.
Occorreva solo che la nostra inclinazione per lui divenisse esclusiva.
E tale condizione si realizza quando - nel momento in cui non ne disponiamo alla ricerca dei piaceri prodigatici dalla sua grazia si sostituisce bruscamente dentro di noi un bisogno


ansioso che ha per oggetto quell'essere medesimo, un bisogno assurdo, che le leggi di questo mondo rendono impossibile soddisfare e difficile guarire - il bisogno insensato e doloroso di possederlo.
Swann si fece condurre negli ultimi ristoranti; la sola ipotesi che avesse contemplata con calma era quella della felicità; ormai non nascondeva più la propria agitazione, l'importanza che attribuiva a quell'incontro, e promise al cocchiere una ricompensa in caso di successo, come se, ispirandogli un desiderio di riuscita in aggiunta a quello che egli stesso provava, potesse far sì che Odette, qualora fosse già a casa e coricata, si trovasse nondimeno in un ristorante del "boulevard".
Si spinse fino alla "Maison Dorée", entrò due volte da "Tortoni" e, senza averla vista neppure lì, era appena uscito dal "Café Anglais" (30) e camminava a grandi passi, con aria stravolta, per raggiungere la carrozza che l'aspettava all'angolo del "boulevard des Italiens", quando urtò una persona che proveniva in senso contrario: era Odette; gli spiegò poi che, non avendo trovato posto da "Prévost", era andata a cenare alla "Maison Dorée", in una rientranza dove lui non l'aveva scoperta, e stava tornando alla carrozza.
Così poco s'aspettava di vederlo, che ebbe un moto di spavento.
Quanto a lui, aveva battuto Parigi non perché credesse possibile raggiungerla, ma perché gli era troppo crudele rinunciarvi.
Ma la gioia che la sua ragione non aveva mai smesso di ritenere, per quella sera, irrealizzabile, gli appariva ora, proprio per questo, più reale; non avendovi contribuito con la previsione del verosimile, la sentiva infatti come esteriore; non aveva bisogno di trarla dalla propria mente perché questa ne beneficiasse, ma era essa stessa la fonte da cui emanava, era essa stessa a proiettarla verso di lui, quella verità tanto radiosa da dissipare come un incubo l'isolamento che aveva temuto, e sulla quale posava, alla quale andava, senza pensieri, i suoi sogni felici.
Così un viaggiatore giunto sotto un cielo sereno in riva al Mediterraneo, dubitando dell'esistenza dei paesi appena abbandonati, si lascia abbagliare la vista, più che lanciarvi occhiate, dai raggi sprigionati verso di lui dall'azzurro luminoso e resistente delle acque.
Salì al suo fianco nella carrozza di lei, e disse a Rémi di seguirli.
Odette aveva in mano un mazzo di "cattleya" (31) e Swann vide, sotto il fazzoletto di trina che le copriva il capo che c'erano tra i suoi capelli dei fiori di quella stessa orchidea appuntati a un'"aigrette" di piume di cigno.
Indossava, sotto la mantiglia, una cascata di velluto nero che, ripresa di sbieco, scopriva in un largo triangolo il fondo d'una gonna di "faille" bianca e lasciava trapelare uno sprone, pure bianco e di "faille" all'apertura dello scollo, da dove spuntavano altri fiori di "cattleya".
S'era appena rimessa dallo spavento provocatole da Swann, quando un ostacolo costrinse il cavallo a uno scarto.
Furono spostati bruscamente, lei aveva gettato un grido e restava tutta palpitante, senza respiro.
- Non è nulla, le disse, non abbiate paura.
E la teneva per la spalla, appoggiandola contro di sé per sorreggerla; poi le disse: - Soprattutto non parlate, rispondetemi a segni per non aumentare l'affanno.
Non vi dà fastidio se raddrizzo i fiori del vostro corpetto? L'urto li ha tutti scompigliati...
Temo che li perdiate, vorrei infilarli meglio.
Odette, che non era abituata a vedere gli uomini far tanti complimenti con lei, disse sorridendo: - No, per niente, non mi dà nessun fastidio.
Ma lui, intimidito dalla risposta, forse anche per dimostrare che era stato sincero quando aveva còlto quel pretesto o, addirittura, cominciando ormai a credere di esserlo stato, esclamò: - Oh no, soprattutto non parlate, resterete di nuovo senza fiato, potete benissimo rispondermi a gesti, vi capirò.
Veramente non vi dò fastidio? Vedete, c'è un po'... credo sia del polline che si è sparso su di voi; permettete che lo tolga con la mano? Non vado troppo forte, non sono troppo rude? Forse vi sto facendo un po' di solletico? è che non vorrei toccare il velluto del vestito, per non gualcirlo.
Ma, vedete, era proprio necessario fissarli, sarebbero caduti; e così, se li spingo più giù, più in fondo...
Seriamente, non sono indiscreto? E se inspiro per vedere se davvero non hanno profumo, nemmeno? Non ho mai provato, posso? dite la verità.Lei, sorridendo, alzò appena le spalle, come per dire siete matto, non vedete che mi fa piacere?.
Stava sollevando l'altra mano a percorrere la gota di Odette; lei lo guardò fissamente, con l'aria languida e grave delle donne del maestro fiorentino alle quali gli era parso che somigliasse; sospinti all'orlo delle palpebre, i suoi occhi luminosi, larghi e sottili come i loro, sembravano sul punto di staccarsi come due lacrime.
Teneva il collo piegato come lo tengono tutte loro, sia nelle scene pagane che nei soggetti religiosi.
E in un atteggiamento che le era certo abituale, che sapeva consono a quei momenti e che stava ben attenta a non dimenticarsi di assumere, sembrava aver bisogno di tutta la sua forza per trattenere il proprio viso, come se una forza invisibile lo stesse attirando verso Swann.
E fu Swann, prima che lei lo lasciasse cadere, come suo malgrado, sulle labbra di lui, a trattenerlo a una certa distanza, per un attimo, fra le mani.
Aveva voluto lasciare al suo pensiero il tempo di accorrere, di riconoscere il sogno che aveva così a lungo accarezzato e di assistere al suo avverarsi, come un parente che si chiama per renderlo partecipe del successo di un fanciullo molto amato.
Fors'anche, lo sguardo che Swann fissava sul viso di un'Odette non ancora posseduta, nemmeno baciata, ancora, da lui, e ch'egli vedeva per l'ultima volta, era lo stesso con il quale, partendo, si vorrebbe portar via un paesaggio che si lascia per sempre.
Ma era così timido con lei che, avendo quella sera finito col possederla dopo aver cominciato con l'aggiustarle le cattleya, fosse paura di offenderla, fosse timore di fare retrospettivamente la figura d'aver mentito, fosse mancanza dell'audacia necessaria a formulare un'esigenza più grande di quella che poteva essere rinnovata dal momento che, la prima volta, Odette non se n'era disgustata), nei giorni seguenti egli ricorse al medesimo pretesto.
Se lei aveva delle cattleya nella scollatura, le diceva: Che peccato, stasera le cattleya non hanno bisogno d'essere sistemate, non sono finite fuori posto come l'altra sera; eppure mi sembra che questa qui non sia proprio dritta.
Posso vedere se anche queste non profumano?.
Oppure, se non ne aveva: Ah! niente cattleya stasera, impossibile dedicarmi alle mie piccole sistemazioni.
Di modo che, per qualche tempo, non vi furono mutamenti nell'ordine che aveva seguito la prima sera, cominciando col toccare a fior di dita e di labbra il seno di Odette, e continuò a essere questo, ogni volta, l'inizio delle sue carezze; e molto più tardi, quando la sistemazione delle cattleya (o il suo simulacro rituale) era ormai da tempo caduta in desuetudine la metafora "fare cattleya", divenuta un semplice vocabolo che usavano senza pensarci quando volevano designare l'atto del possesso fisico nel quale per altro, nessuno possiede alcunché -, sopravvisse nel loro linguaggio, così commemorandolo, a quell'uso obliato.
E, forse, quel modo particolare di dire "far l'amore" non aveva esattamente lo stesso significato dei suoi sinonimi.
Si ha un bell'essere disincantati in materia di donne, considerando il possesso delle più disparate amanti come se fosse sempre identico e noto a priori, in realtà esso si traduce in un piacere nuovo se si tratta di donne abbastanza difficili - o da noi credute tali da obbligarci a farlo nascere da qualche episodio inopinato dei nostri rapporti con loro, come appunto per Swann, la prima volta, la sistemazione delle cattleya.
Egli sperava tremando, quella sera (ma Odette, si diceva, non poteva indovinarlo se aveva abboccato alla sua astuzia), che ciò che i loro larghi petali color malva gli avrebbero offerto fosse il possesso di lei; e il piacere che già provava e che Odette, secondo lui, tollerava forse solo perché non l'aveva riconosciuto, gli sembrava, proprio per questo - come poté apparire al primo uomo che lo assaporò tra i fiori del paradiso terrestre -, un piacere mai esistito prima e ch'egli stesso cercava di creare, un piacere - e il nome speciale che gli aveva dato ne serbava la traccia - affatto nuovo e particolare.
Tutte le sere, adesso, dopo averla ricondotta a casa, bisognava ch'egli entrasse, e spesso lei usciva in vestaglia e lo accompagnava fino alla carrozza, lo baciava sotto gli occhi del cocchiere dicendo: Cosa vuoi che me ne importi, cosa può importarmi degli altri?.
Le sere in cui lui non andava dai Verdurin (il che a volte succedeva, da quando poteva vederla altrimenti ), le sere sempre meno frequenti in cui si recava in società, Odette gli chiedeva di passare da lei prima di andare a casa, qualsiasi ora fosse.
Era primavera, una primavera pura e gelida.
Uscendo da una serata, Swann saliva nella sua "victoria", (32) si stendeva una coperta sulle gambe, rispondeva agli amici che erano usciti con lui e gli chiedevano di rincasare insieme a loro che non poteva, che non andava nella stessa direzione, e il cocchiere partiva al gran trotto sapendo qual era la meta.
Quelli si meravigliavano, e Swann, in effetti, non era più lo stesso.
Nessuno riceveva più le sue lettere in cui chiedeva di conoscere una donna.
Non badava più a nessuna, si asteneva dal frequentare i luoghi in cui se ne incontrano.
In un ristorante, in campagna, il suo atteggiamento risultava l'opposto di quello dal quale, fino a ieri, era possibile riconoscerlo, e che era parso doverlo per sempre contrassegnare. A tal punto una passione è, in noi, come un carattere diverso e momentaneo, che si sostituisce all'altro e abolisce i segni, fino allora immutabili, attraverso i quali si esprimeva! In compenso, quel che adesso era immutabile era che, ovunque si trovasse, Swann non mancava mai di andare a raggiungere Odette.
Il tragitto che li separava era quello ch'egli percorreva inevitabilmente: quasi il pendio, ripido e irresistibile, della sua stessa vita.
Spesso, a dire il vero, attardatosi in società, avrebbe preferito tornare direttamente a casa senza fare quella lunga deviazione, e vedere Odette soltanto l'indomani; ma il fatto stesso di sobbarcarsi in quell'ora insolita alla fatica di andare da lei, il fatto stesso di indovinare che gli amici, dopo averlo salutato, si dicevano: E' sotto pressione, c'è di sicuro una donna che lo costringe ad andare da lei a qualsiasi ora, gli dava il senso di condurre la vita degli uomini nella cui esistenza c'è un affare di cuore e che sacrificando il proprio riposo e i propri interessi a una fantasia voluttuosa acquistano un fascino interiore.
E poi, senza che se ne rendesse conto, quella certezza che lei lo aspettava, che non era altrove con altri, che non sarebbe rincasato senza averla vista, neutralizzava l'angoscia, obliata ma sempre pronta a rinascere, sperimentata la sera che Odette non era più dai Verdurin, e il cui attuale sopore era così dolce da potersi chiamare felicità.
Proprio a quell'angoscia, forse, egli era debitore dell'importanza che Odette aveva assunta per lui.
Le persone, di solito, ci sono così indifferenti che, quando abbiamo collocato in una di loro delle simili possibilità, nei nostri confronti, di sofferenza e di gioia, essa appartiene quasi a un altro universo, si circonda di un alone di poesia, trasforma la nostra vita in un'estensione emotiva dove si misura la sua maggiore o minore vicinanza rispetto a noi.
Swann non poteva chiedersi senza turbamento che cosa Odette sarebbe divenuta per lui negli anni futuri.
A volte, contemplando dalla sua "victoria", in quelle belle notti fredde, la luna che, splendente, effondeva il proprio chiarore tra i suoi occhi e le strade deserte, pensava all'altro volto, luminoso e appena rosato come quello della luna, che s'era levato un giorno davanti al suo pensiero e che, da allora, proiettava sul mondo la luce misteriosa nella quale lui lo vedeva immerso.
Se, quando arrivava, era già passata l'ora in cui Odette mandava i suoi domestici a dormire, prima di suonare alla porta del giardinetto andava subito nella strada sulla quale si affacciava, a pianterreno, tra le finestre tutte uguali, ma buie, delle palazzine contigue, la finestra, la sola illuminata, della sua camera da letto.


Batteva ai vetri e lei, sull'avviso, rispondeva e andava ad aspettarlo dall'altra parte, all'ingresso.
Trovava, aperto sul pianoforte, qualche spartito dei pezzi che lei prediligeva: il "Valzer delle Rose" o "Povero pazzo" di Tagliafico (33) (che, per sua disposizione scritta, dovevano essere eseguiti al suo funerale); lui le chiedeva di suonare, invece, la piccola frase della sonata di Vinteuil, sebbene Odette suonasse molto male - ma l'immagine più bella che ci resta di un'opera è, sovente, quella che s'è librata al di sopra delle note false strappate da dita maldestre a un pianoforte scordato.
La piccola frase continuava ad associarsi, per Swann, al suo amore per Odette.
Sentiva come quell'amore non corrispondesse a nulla d'esteriore, di verificabile da parte di qualcuno che non fosse lui; si rendeva conto che le qualità di Odette non giustificavano tutto il valore che egli attribuiva ai momenti passati accanto a lei.
E spesso, quando a regnare in lui era la sola intelligenza positiva, voleva smettere di sacrificare a quel piacere immaginario tanti interessi intellettuali e sociali.
Ma la piccola frase, non appena l'ascoltava, riusciva a liberare dentro di lui lo spazio che le era necessario, le proporzioni della sua anima ne risultavano mutate; un margine v'era riservato a un godimento cui pure non corrispondeva alcun oggetto esteriore e che tuttavia, lungi dall'essere meramente individuale come quello dell'amore, si imponeva a Swann come una realtà superiore alle cose concrete.
Questa sete d'un incanto sconosciuto, la piccola frase la risvegliava in lui, ma senza offrirgli nulla di preciso per soddisfarla.
E così quelle zone del suo animo in cui la piccola frase aveva cancellato la cura degli interessi materiali, le considerazioni umane e alla portata di tutti, essa le aveva lasciate vuote e in bianco, ed egli era libero di iscrivervi il nome di Odette.
Inoltre, a quel che l'amore di Odette poteva avere di un po' angusto e deludente, la piccola frase aggiungeva, amalgamava la propria essenza misteriosa.
Vedendo il viso di Swann mentre ascoltava la frase, si sarebbe detto che stesse assorbendo un anestetico che dava maggior ampiezza al suo respiro.
E il piacere che la musica gli procurava e che avrebbe presto creato, in lui, un vero e proprio bisogno, era in effetti simile, in quei momenti, al piacere che avrebbe tratto dallo sperimentare profumi, dall'entrare in contatto con un mondo per il quale noi non siamo fatti, che ci sembra senza forma perché i nostri occhi non lo percepiscono, senza senso perché sfugge alla nostra intelligenza, un mondo che riusciamo a raggiungere attraverso uno solo dei nostri sensi.
Che straordinario riposo, che misterioso rinnovamento per Swann - lui che negli occhi, benché raffinati amatori di pittura, lui che nella mente, benché sottile osservatrice di costumi, portava per sempre la traccia indelebile dell'aridità della sua vita - sentirsi trasformato in una creatura estranea all'umanità, cieca, sprovvista di facoltà logiche, una sorta di fantastico liocorno, di creatura chimerica incapace di percepire il mondo altrimenti che con l'udito.
E poiché nella piccola frase s'ostinava a cercare un senso dove la sua intelligenza non poteva penetrare, quale strana ebbrezza provava nello spogliare l'intimo dell'animo di tutti i soccorsi del ragionamento e nel farlo passare, solo, lungo il corridoio, attraverso il filtro oscuro del suono! Cominciava a rendersi conto di quanto ci fosse di doloroso, fors'anche di segretamente inappagato in fondo alla dolcezza di quella frase, ma non poteva soffrirne.
Che importava se gli diceva che l'amore è fragile, il suo era così forte! Scherzava con la tristezza che ne fluiva, la sentiva passare su di sé, ma come una carezza che rendeva più profonda e più dolce la sensazione ch'egli aveva della propria felicità.
La faceva suonare dieci, venti volte di seguito a Odette, esigendo che intanto non smettesse di baciarlo.
Ogni bacio chiama un altro bacio.
Ah! nei primi tempi di un amore, i baci nascono con tanta naturalezza! Spuntano così vicini gli uni agli altri; e a contare i baci che ci si è dati in un'ora si faticherebbe come a contare i fiori di un campo nel mese di maggio.
Odette, allora, fingeva di fermarsi, dicendo: Come faccio a suonare se mi tieni così? non posso fare tutto in una volta, decidi quel che vuoi, almeno: devo suonare la frase o farti le coccole?, Swann si arrabbiava e lei scoppiava in una risata che ricadeva su di lui mutandosi in una pioggia di baci.
Oppure lo guardava imbronciata, lui rivedeva un viso degno di figurare nella "Vita di Mosè" del Botticelli, ve la situava, dava al collo di Odette l'inclinazione necessaria; e quando l'aveva ben dipinta a tempera, nel Quindicesimo secolo, sulla parete della Sistina, (34) l'idea che frattanto fosse rimasta lì, accanto al piano, nel presente, pronta a essere baciata e posseduta, l'idea della sua materialità e della sua vita lo inebriava con una tale violenza che, l'occhio stravolto, le mascelle tese come a divorare, si precipitava su quella vergine del Botticelli e si metteva a pizzicarle le guance.
Poi, quando l'aveva lasciata, non senza essere tornato indietro per baciarla ancora una volta perché aveva dimenticato di portare con sé, nel proprio ricordo, qualche particolarità dei suoi tratti o del suo profumo, mentre rincasava sulla sua "victoria", benediceva Odette di consentirgli quelle visite quotidiane dalle quali capiva che non doveva derivarle una grande gioia, ma che aiutavano lui preservandolo dal diventare geloso, privandolo dell'occasione di soffrire di nuovo del male rivelatosi la sera che non l'aveva trovata dai Verdurin ad arrivare, senza incorrere in altre crisi come la prima, che era stata così dolorosa e che sarebbe rimasta la sola, alla meta di queste ore singolari della sua vita, di queste ore quasi magiche in cui attraversava Parigi al chiaro di luna.
E osservando, durante quei ritorni, che l'astro era adesso spostato rispetto a lui, quasi al limite dell'orizzonte, sentendo che il suo amore obbediva anch'esso a leggi immutabili e naturali, si chiedeva se quella fase in cui era entrato sarebbe durata ancora a lungo, se presto il suo pensiero non avrebbe visto il caro volto di lei occupare una posizione lontana e svalutata, e prossimo a non più diffondere il proprio incanto.
Perché Swann, da quando era innamorato, trovava nelle cose un incanto come al tempo in cui, adolescente, s'era creduto artista; ma non era lo stesso; questo, era soltanto Odette a conferirglielo.
Sentiva rinascere dentro di sé le ispirazioni della giovinezza, che la sua vita frivola aveva dissipate, ma tutte recavano il riflesso, l'impronta d'un essere particolare; e nelle lunghe ore che, adesso, passava in casa traendone un piacere raffinato, solo con la sua anima convalescente, ridiventava a poco a poco se stesso, ma di un'altra.
Non andava da lei che di sera, e non sapeva nulla di come impiegasse il suo tempo durante il giorno, nulla più che del suo passato, tanto da mancare persino di quella piccola informazione iniziale che, consentendoci di immaginare ciò che non sappiamo, ci stimola a un'indagine.
Così non si chiedeva cosa potesse fare, né quale fosse stata la sua vita.
Soltanto, a volte, sorrideva pensando che alcuni anni prima, quando non la conosceva, qualcuno gli aveva parlato di una donna che, se non ricordava male, doveva certamente essere lei, come di una ragazza facile, una mantenuta, una di quelle donne alle quali egli attribuiva ancora, avendo frequentato poco il loro ambiente, il carattere uniforme, fondamentalmente perverso, di cui le ha dotate per lungo tempo la fantasia di certi romanzieri.
Diceva a se stesso che, diverse volte, basta rovesciare le reputazioni create dalla gente per avere il giudizio esatto su una persona, quando a un siffatto carattere contrapponeva quello di Odette, buona, ingenua, innamorata dell'ideale, pressoché incapace di non dire la verità, al punto che una volta, avendola pregata, per poter pranzare da solo con lei, di scrivere ai Verdurin che non stava bene, l'indomani, davanti a Madame Verdurin che le domandava se stesse meglio, l'aveva vista arrossire, balbettare e riflettere nel viso, suo malgrado, il dispiacere, il supplizio che era per lei mentire e, mentre moltiplicava nella sua risposta i particolari inventati sulla sua pretesa indisposizione del giorno prima, assumere l'aria di chi, con sguardi supplichevoli e un tono desolato, chiede perdono della falsità delle sue parole.
Certi giorni, tuttavia, ma di rado, veniva lei a casa sua, nel pomeriggio, a interrompere le sue fantasticherie o quello studio su Vermeer al quale ultimamente era tornato a dedicarsi. Venivano a dirgli che Madame de Crécy era nel salottino.
Lui la raggiungeva e, quando apriva la porta, il viso rosato di Odette, nello scorgere Swann, si intrideva - mutando la forma della bocca, l'espressione degli occhi, il modellato delle guance - di un sorriso.
Rimasto solo, egli rivedeva quel sorriso, rivedeva quello del giorno prima, quello con cui l'aveva accolto una certa o una cert'altra volta, quello che era stato la sua risposta, in carrozza, quando le aveva chiesto se non fosse indiscreto aggiustando le cattleya; e la vita di Odette in tutto l'altro tempo, poiché non ne sapeva niente, gli appariva, con il suo fondo neutro e incolore, simile a quei fogli di studi di Watteau in cui si vedono qua e là, dappertutto, in tutti i sensi, disegnati a tre colori sulla carta camosciata, innumerevoli sorrisi.
Ma, a volte, in un lembo di quella vita che Swann vedeva tutta vuota - anche se la sua ragione gli diceva che non poteva essere tale - perché non riusciva a immaginarla, qualche amico che, supponendo il loro amore, non si sarebbe mai arrischiato a dirgli di lei qualcosa di men che insignificante, gli descriveva la figura di Odette intravista proprio quel mattino mentre risaliva a piedi rue Abbattucci in una "visite" guarnita di "skunk", sotto un cappello "alla Rembrandt" (35) e con un "bouquet" di violette allo scollo.
Quello schizzo innocente sconvolgeva Swann perché lo metteva all'improvviso di fronte all'evidenza che Odette aveva una vita che non era interamente sua; avrebbe voluto sapere a chi aveva cercato di piacere con quella "toilette" che lui non conosceva; si riprometteva di chiederle dove stava andando in quel momento, come se in tutta la vita incolore quasi inesistente, giacché gli era invisibile - della sua amante non ci fosse che una sola cosa all'infuori di tutti i sorrisi di cui lui era il destinatario: quella passeggiata sotto un cappello alla Rembrandt, con un "bouquet" di violette appuntato allo scollo.
Tranne quando le chiedeva la piccola frase di Vinteuil invece del "Valzer delle Rose", Swann non cercava mai di farle suonare brani che piacessero a lui né di correggere, in musica come in letteratura, il suo cattivo gusto. Si rendeva conto che Odette non era intelligente.
Dicendogli che le sarebbe tanto piaciuto che le parlasse dei grandi poeti, s'era immaginata d'essere sul punto di apprendere qualche strofetta eroica e romantica del genere di quelle del visconte di Borelli (36) ancora più commovente, magari.
Quanto a Vermeer di Delft, gli aveva chiesto se avesse sofferto per una donna, se fosse stata una donna ad ispirarlo, e poiché Swann le aveva confessato di non saperne nulla, si era disinteressata di quel pittore.
Diceva spesso: La poesia, lo credo bene, naturale che non ci sarebbe niente di più bello se fosse vero, se i poeti pensassero tutto quello che dicono.
Ma, molto spesso, non c'è gente più interessata di loro.
Ne so qualcosa io, avevo un'amica che si era innamorata di una specie di poeta.
Nei suoi versi non parlava che dell'amore, del cielo, delle stelle.
Ah, l'ha sistemata proprio bene! Le ha spillato più di trecentomila franchi.
Se Swann, allora, cercava di farle capire in che cosa consiste la bellezza artistica, in che modo bisogna ammirare i versi o i quadri, dopo un istante lei smetteva di ascoltarlo, dicendo: Davvero... non pensavo che fosse così.
E avvertiva in lei una delusione tale che preferiva mentire dicendole che tutto quello non era niente, che quelle erano ancora delle inezie, che l'importante era ben altro ma non c'era tempo di affrontarlo.
Ma lei, ravvivandosi, gli diceva: Ben altro? che cosa?... dimmelo dunque; lui però non lo diceva, sapendo come le sarebbe parso esiguo e diverso da ciò che sperava, meno sensazionale e meno commovente, e temendo che, delusa dall'arte, non lo fosse in pari tempo anche dall'amore. E, in effetti, Swann le sembrava, intellettualmente, inferiore alle
  sue aspettative.
Mantieni sempre il tuo sangue freddo, non riesco a definirti.
L'impressionavano di più la sua indifferenza al denaro, la sua gentilezza con tutti, la sua delicatezza.
E, in verità succede a qualche personaggio più importante di Swann, a uno studioso, a un artista, se non è del tutto disconosciuto da coloro che lo circondano, che il sentimento dal quale traspare che la superiorità della sua intelligenza ha fatto breccia in loro non è l'ammirazione per le sue idee, che non riescono ad afferrare, ma il rispetto per la sua bontà.
E rispetto era anche quello ispirato a Odette dalla posizione di cui Swann godeva nel gran mondo, anche se non desiderava che lui si adoperasse per farvela accogliere. Forse sentiva che non ci sarebbe riuscito, e fors'anche paventava che col solo parlare di lei avrebbe provocato qualche temibile rivelazione.
Comunque fosse, gli aveva fatto promettere di non pronunciare mai il suo nome.
La ragione per la quale non voleva andare in società era, gli aveva detto, un litigio avuto in passato con un'amica che, per vendicarsi, aveva poi sparlato di lei. Swann obiettava: Ma non avrà conosciuto tutti, la tua amica.
- E invece sì, è come una macchia d'olio, la gente è talmente cattiva.
Swann, da un lato, non capì questa storia, ma dall'altro sapeva che le proposizioni: "La gente è talmente cattiva", "una calunnia è come una macchia d'olio" sono generalmente tenute per vere; doveva pur esserci qualche caso cui esse s'applicavano.
Quello di Odette era uno di questi casi? Se lo chiedeva, ma non a lungo, giacché era anch'egli soggetto a quella pesantezza mentale che s'abbatteva su suo padre di fronte a un problema difficile.
D'altronde, quel mondo che le faceva tanta paura non ispirava forse grandi desideri a Odette, che non riusciva, lontano com'era da quello che lei conosceva, a raffigurarselo con precisione.
Tuttavia, pur essendo rimasta sotto certi aspetti veramente semplice (per esempio, aveva conservato l'amicizia di una piccola sarta a riposo, e s'arrampicava quasi ogni giorno per le sue scale ripide, buie e maleodoranti), aveva sete di "chic", ma non se ne faceva la stessa idea che ne ha la gente di mondo.
Per costoro, lo "chic" è un'emanazione di pochi individui che lo proiettano fino a un livello abbastanza remoto - e più o meno affievolito in ragione della distanza dal centro della loro intimità nella cerchia dei loro amici o degli amici dei loro amici, i cui nomi formano una sorta di repertorio.
La gente di mondo lo custodisce nella propria memoria, possiede su queste materie un'erudizione dalla quale ha ricavato una sorta di gusto, di tatto, e così, per esempio, se Swann leggeva in un giornale i nomi delle persone intervenute a un pranzo poteva dire immediatamente, senza bisogno di far appello alla sua dottrina mondana, la sfumatura dello "chic" di quel pranzo, allo stesso modo che un letterato, mediante la semplice lettura di una frase, valuta con esattezza la qualità letteraria del suo autore.
Ma Odette era una di quelle persone (estremamente numerose, checché ne pensi la gente di mondo, e disseminate in tutte le classi sociali) le quali non possiedono tali nozioni e s'immaginano uno "chic" affatto diverso, che riveste aspetti differenti secondo l'ambiente al quale appartengono, ma ha come carattere distintivo e comune - si tratti di quello vagheggiato da Odette, o di quello davanti al quale si inchinava Madame Cottard - d'essere direttamente accessibile a tutti.
A dir la verità lo è anche l'altro, quello della gente di mondo, ma occorre un po' di tempo.
Odette, parlando di qualcuno, diceva: - Va sempre e soltanto nei posti "chic".
E se Swann le chiedeva cosa intendesse con quell'espressione, lei rispondeva con una punta di disprezzo: - Ma i posti "chic", diamine! Se alla tua età bisogna insegnarti quali sono i posti "chic", cosa vuoi che ti dica? per esempio, la domenica mattina l'avenue de l'Impératrice, (37) alle cinque il giro del Lago, (38) giovedì l'"Eden Thétre", (39) venerdì l'"Hippodrome", (40) i balli...
- Ma quali balli? - Ma i balli che si danno a Parigi, i balli "chic", voglio dire.
Ecco, Herbinger, sai, quello che lavora da un agente di cambio? ma sì, devi saperlo, è uno degli uomini più lanciati di Parigi, quel giovanotto alto, biondo, così terribilmente snob, ha sempre un fiore all'occhiello, la scriminatura fino alla nuca, dei soprabiti chiari; sta con quella vecchia tavolozza che si porta dietro a tutte le prime.
Ebbene, l'altra sera ha dato un ballo, c'era tutto quel che c'è di "chic" a Parigi.
Mi sarebbe tanto piaciuto andarci! ma bisognava esibire l'invito alla porta e io non ero riuscita a procurarmelo.
In fondo, meglio così, era un carnaio, non avrei visto niente.
Più che altro era per poter dire di essere stata da Herbinger.
E a me, tu lo sai, queste piccole ambizioni...! Del resto, puoi scommettere che su cento che raccontano d'esserci stati, almeno la metà la danno ad intendere.
Ma mi meraviglio che tu, una persona così introdotta, non ci fossi.
Swann, tuttavia, non cercava in alcun modo di farle modificare questa concezione dello "chic"; pensando che la sua non fosse più corretta, che fosse altrettanto insulsa e priva d'importanza, non aveva il minimo interesse a istruire in proposito la sua amante, e così, dopo qualche mese, Odette si interessava delle persone che lui frequentava unicamente per gli inviti al recinto del peso, ai concorsi ippici, alle prime, che Swann poteva ricevere grazie a loro.
Si augurava ch'egli coltivasse delle relazioni tanto proficue, ma era incline a reputarle poco "chic" da quando aveva visto passare per la strada la marchesa di Villeparisis vestita di lana nera, con un cappellino a nastri. - Ma sembra la maschera di un teatro, "darling", una vecchia portinaia! Quella una marchesa! Io non sono marchesa, ma dovrebbero sborsare una bella cifra per farmi uscire bardata in quel modo! Non comprendeva come Swann potesse abitare quel palazzo di quai d'Orléans, che, senza osare confessarglielo, trovava indegno di lui.
Certo, aveva la pretesa di amare le "antichità", e assumeva un atteggiamento sottilmente estatico per dire che adorava passare una giornata intera a "trafficare" in vecchi oggetti, a cercare del "bricà-brac", delle cose "d'altri tempi".
Benché s'ostinasse, quasi ne facesse un punto d'onore (o fosse in gioco l'osservanza di qualche precetto familiare), a non rispondere mai alle domande e a non "rendere conto" circa l'impiego delle sue giornate, parlò una volta a Swann di un'amica che l'aveva invitata e in casa della quale tutto era "d'epoca".
Ma Swann non riuscì a farle dire di che epoca si trattasse.
Tuttavia, dopo aver riflettuto, rispose che era "medioevo".
Intendeva dire, con ciò, che c'erano delle "boiseries".
Qualche tempo dopo gli riparlò della sua amica e aggiunse, con il tono esitante e l'aria d'intesa con la quale si cita qualcuno che si è visto a pranzo la sera precedente e di cui non si era mai sentito il nome, ma che i vostri anfitrioni sembravano considerare così celebre da legittimare la speranza che il vostro interlocutore sappia a chi volete alludere: Ha una sala da pranzo... del... del Settecento!.
Del resto, l'insieme le era parso spaventoso, nudo, come se la casa non fosse finita, le donne vi sembravano orribili e una simile moda non avrebbe mai attecchito.
Ne parlò, infine, una terza volta, mostrando a Swann l'indirizzo dell'uomo che aveva fatto quella sala da pranzo e che lei aveva intenzione di chiamare, quando avesse avuto denaro, per vedere se poteva fargliene, non certo una simile, ma quella che sognava e che, purtroppo, le dimensioni della sua palazzina non ammettevano, con alte credenze, mobili Rinascimento e camini come nel castello di Blois.
Quel giorno, si lasciò sfuggire davanti a Swann quel che pensava della sua abitazione di quai d'Orléans; siccome lui aveva criticato il fatto che l'amica di Odette avesse scelto, non il Luigi Sedicesimo che, diceva, anche se non va molto, può avere il suo fascino, ma il falso antico: Non vorrai che viva come te in mezzo a mobili rotti e a tappeti usati, gli disse, giacché il rispetto umano della borghesia prevaleva ancora, in lei, sul dilettantismo della "cocotte".
Di coloro che amavano " trafficare " in vecchi gingilli, amavano i versi, disprezzavano i bassi calcoli, fantasticavano d'onore e d'amore, Odette faceva un'"élite" superiore al resto dell'umanità.
Non era necessario avere realmente queste inclinazioni, bastava proclamarle; di un uomo il quale, a pranzo, le aveva confessato che amava vagabondare per le strade, sporcarsi le dita nelle vecchie botteghe, che non sarebbe mai stato apprezzato dal nostro secolo mercantile perché non si preoccupava dei propri interessi e apparteneva, in questo, a un altro tempo, lei diceva, ritornando a casa: Ma è un'anima adorabile, un sensibile, non l'avevo mai sospettato!, e provava per lui un'immensa e subitanea amicizia.
Ma, in compenso, quelli che, come Swann, pur avendo simili inclinazioni, non ne parlavano, la lasciavano fredda.
Certo, era costretta a riconoscere che Swann non teneva al denaro, ma aggiungeva imbronciata: Però non è la stessa cosa, lui; e, in effetti, quel che parlava alla sua immaginazione non era la pratica del disinteresse, ma il suo vocabolario.
Sentendo che, spesso, non riusciva a realizzare quel che lei sognava, Swann cercava almeno di fare in modo che stesse bene con lui, non contrastando quelle idee volgari, quel cattivo gusto che la caratterizzavano in ogni cosa e che, d'altronde, egli amava come tutto ciò che veniva da lei, addirittura trovava affascinanti perché erano altrettanti aspetti particolari grazie ai quali l'essenza di quella donna gli si manifestava, diveniva visibile.
Così, quando Odette si mostrava felice perché doveva andare alla "Reine Topaze", (41) o il suo sguardo si faceva serio, inquieto e determinato perché temeva di perdere la festa dei fiori o semplicemente l'ora del tè, con "muffins" e "toasts", al "Thé de la Rue Royale", (42) la cui assidua frequentazione pensava fosse indispensabile per consacrare la fama d'eleganza di una donna, Swann, in preda a un trasporto simile a quello che proviamo per la naturalezza di un bambino o per la verità di un ritratto che sembra sul punto di parlare, sentiva l'anima della sua amante affiorarle sul viso con tanta evidenza che non poteva trattenersi dal toccarla proprio lì con le labbra.
Ah! vuole che la si porti alla festa dei fiori, la piccola Odette, vuole farsi ammirare, ebbene, noi la porteremo, noi non possiamo far altro che inchinarci.
Avendo la vista un po' debole, Swann dovette rassegnarsi a usare gli occhiali a casa, per lavorare, e ad adottare il monocolo, che lo sfigurava meno, per andare in società. La prima volta che gliene vide uno, Odette non poté contenere la sua gioia: Non c'è che dire, trovo che per un uomo è una cosa molto "chic"! Come stai bene! hai l'aria di un vero "gentleman".
Ti manca solo un titolo! aggiunse con una sfumatura di rimpianto.
A lui piaceva che Odette fosse così, allo stesso modo che, se si fosse innamorato di una bretone, sarebbe stato felice di vederla con la cuffia in testa e di sentirle dire che credeva ai fantasmi.
Prima d'allora, come molti uomini nei quali il gusto artistico si sviluppa indipendentemente dalla sensualità, aveva coltivato una bizzarra disparatezza tra gli appagamenti che concedeva all'uno e all'altra, abbandonandosi, in compagnia di donne sempre più grossolane, alle seduzioni di opere sempre più raffinate, portando una piccola cameriera, in un palchetto munito di una grata, alla rappresentazione di una "pièce" decadente cui aveva voglia di assistere, o a qualche mostra di pittura impressionista, persuaso, per altro, che una colta dama del gran mondo non ne avrebbe capito di più e non sarebbe stata capace di tacere con tanta grazia.
Ma da quando amava Odette, al contrario, simpatizzare con lei, sforzarsi di avere in due un'anima sola gli era così dolce, che cercava di godere delle cose che lei amava, e provava un piacere tanto più profondo non solo nell'imitare le sue abitudini, ma nell'adottare le sue opinioni, in quanto esse non avevano alcuna radice nella sua propria intelligenza e gli ricordavano esclusivamente il suo amore, a causa del quale le aveva preferite.

Se tornava a "Serge Panine", (43) se approfittava di ogni occasione per andare a veder dirigere Olivier Métra, era per la dolcezza d'essere iniziato a tutte le concezioni di Odette, di sentirsi complice di tutti i suoi gusti.
Questa magia di avvicinarlo a lei, che possedevano i luoghi o le opere da lei amati, gli sembrava più misteriosa di quella intrinseca a luoghi e opere più belli, ma incapaci di ricordargliela.
D'altronde, poiché aveva lasciato che le convinzioni intellettuali della sua giovinezza si affievolissero, e il suo scetticismo di uomo di mondo era, impercettibilmente, penetrato fino ad esse, egli pensava (o, perlomeno, lo aveva pensato così a lungo che ancora lo proclamava) che gli oggetti dei nostri gusti non hanno in sé un valore assoluto, che è tutta una questione di epoca, di classe, di mode, le più volgari delle quali valgono quanto quelle che passano per le più squisite.
E come l'importanza attribuita da Odette al ricevere inviti per i "vernissages" non gli sembrava, di per sé, più ridicola del piacere procuratogli un tempo da una colazione con il principe di Galles, analogamente non pensava che l'ammirazione che lei professava per Montecarlo o per il Righi fosse meno ragionevole della passione che lui aveva per l'Olanda, che Odette si figurava brutta, e per Versailles, che a Odette pareva triste.
E così si privava del piacere di andarci, trovandone un altro nel dirsi che lo faceva per lei e che non voleva sentire, non voleva amare che lei.
Come tutto quanto circondava Odette ed era per lui, in un certo senso, soltanto il modo di poterla vedere, di parlare con lei, Swann amava la compagnia dei Verdurin.
Poiché in fondo a tutti i divertimenti, pasti, musica, giochi, cene in maschera, gite in campagna, spettacoli teatrali, persino in fondo alle poche "gran serate" date per i "noiosi", c'era la presenza di Odette, la vista di Odette, la conversazione con Odette, di cui i Verdurin facevano a Swann, invitandolo, il dono inestimabile, egli stava nel "piccolo clan" meglio che in qualsiasi altro posto, e cercava di attribuirgli dei meriti reali, immaginandosi che l'avrebbe frequentato per suo diletto tutta la vita.
Ora, non osando dire a se stesso, per timore di non crederci, che avrebbe sempre amato Odette, il supporre che avrebbe sempre frequentato i Verdurin (proposizione che, a priori, sollevava meno obiezioni di principio da parte della sua intelligenza) gli consentiva almeno di intravedere un futuro nel quale avrebbe continuato a incontrare Odette ogni sera; il che, forse, non era proprio lo stesso che continuare ad amarla, ma per il momento, mentre l'amava, credere che non avrebbe mai smesso di vederla era tutto ciò che chiedeva.
Che ambiente delizioso, si diceva.
In fondo, la vera vita è quella.
C'è più intelligenza, più senso artistico che nel gran mondo.
E Madame Verdurin, nonostante qualche piccola mania un po' ridicola, che amore sincero ha per la pittura, per la musica, che passione per le opere, che desiderio di compiacere gli artisti! Certo, si fa un'idea sbagliata delle persone di mondo; ma ciò non toglie che queste ne abbiano una ancora più sbagliata sugli artisti! Può darsi che io non abbia grandi bisogni intellettuali da soddisfare nella conversazione, ma mi trovo benissimo con Cottard, nonostante i suoi stupidi "calembours".
E quanto al pittore, se è spiacevolmente pretenzioso quando si sforza di stupire, in compenso è una delle più belle intelligenze che io abbia mai conosciute.
E soprattutto, poi, ci si sente liberi, si fa quel che si vuole senza schiavitù, senza cerimonie.
Che profusione di buonumore, ogni volta, in quel salotto! Decisamente, con qualche rara eccezione, andrò soltanto là, d'ora in avanti.
E' là che fonderò sempre più le mie abitudini, la mia vita.
E poiché le qualità ch'egli credeva intrinseche ai Verdurin non erano che il riflesso dei piaceri che il suo amore per Odette aveva assaporati in casa loro, quelle qualità gli apparivano tanto più serie, più profonde, più vitali quanto più lo erano questi piaceri.
Dal momento che Madame Verdurin dava talvolta a Swann quell'unica cosa che poteva fare la sua felicita; dal momento che, una certa sera in cui era in preda all'ansia perché Odette s'era rivolta a un ospite più che a un altro e lui, irritato, non voleva prendere l'iniziativa di chiederle se sarebbero tornati a casa insieme, Madame Verdurin gli donava la pace e la gioia dicendo spontaneamente: Odette, voi accompagnate il signor Swann, non è vero?; dal momento che la prossima estate, dopo che già lui aveva cominciato a chiedersi con inquietudine se Odette sarebbe partita senza di lui, se gli sarebbe stato possibile continuare a vederla tutti i giorni, Madame Verdurin li aveva invitati a passarla entrambi da lei in campagna, - Swann, lasciando inconsapevolmente che la riconoscenza e l'interesse s'infiltrassero nel suo cervello e influissero sulle sue idee, giungeva sino a proclamare che Madame Verdurin era un'anima eletta.
Di qualsiasi persona straordinaria o squisita gli parlasse qualche suo vecchio compagno della scuola del Louvre: (44) Preferisco cento volte i Verdurin, rispondeva lui.
E, con una solennità per lui nuova: Sono esseri magnanimi, e la magnanimità, in definitiva, è la sola cosa che conta e che nobilita, a questo mondo.
Vedi, non ci sono che due categorie di persone: i magnanimi e gli altri; e io sono arrivato a un'età in cui bisogna prendere posizione, decidere una volta per tutte chi si vuole amare e chi disprezzare, restarsene con coloro che amiamo e, per riguadagnare il tempo che abbiamo perduto con gli altri, non lasciarli più fino alla morte.
Ebbene, aggiungeva con quella lieve emozione che si prova quando, senza nemmeno rendersene ben conto, si dice una cosa non perché sia vera, ma perché si prova piacere a dirla, e la si ascolta dalla propria stessa voce come se giungesse dall'esterno, il dado è tratto, ho scelto di amare unicamente i cuori magnanimi e di non vivere più che nella magnanimità.
Mi chiedi se Madame Verdurin è davvero intelligente.
Io ti assicuro che mi ha dato le prove di una nobiltà di cuore, di un'elevatezza d'animo alla quale, che vuoi che ti dica, non si giunge senza un'uguale elevatezza del pensiero.
Di certo, capisce profondamente le arti.
Ma non è in questo, forse, che è più degna d'ammirazione; certe piccole azioni ingegnosamente, squisitamente buone, che ha compiute per me, certe geniali attenzioni, certi gesti familiarmente sublimi, rivelano una comprensione dell'esistenza più profonda di tutti i trattati di filosofia.
Eppure avrebbe potuto dire a se stesso che c'erano dei vecchi amici dei suoi genitori altrettanto semplici quanto i Verdurin, dei suoi compagni di gioventù altrettanto appassionati d'arte, e che, sebbene conoscesse altre persone di gran cuore, da quando aveva optato per la semplicità, le arti e la magnanimità non le frequentava più.
Ma loro non conoscevano Odette, e se anche l'avessero conosciuta non si sarebbero preoccupati di avvicinarla a lui.
Sicché non c'era, in tutta la cerchia dei Verdurin, un solo fedele che li amasse o credesse di amarli quanto Swann.
E tuttavia, quando Verdurin aveva detto che Swann non lo convinceva, non soltanto aveva espresso il proprio pensiero, ma aveva indovinato quello della moglie.
Sicuramente Swann aveva per Odette un sentimento troppo particolare, e aveva trascurato di eleggere Madame Verdurin a confidente quotidiana del suo amore; sicuramente, la stessa discrezione con la quale approfittava dell'ospitalità dei Verdurin, astenendosi spesso dal venire a pranzo per una ragione che non potevano supporre e al posto della quale scorgevano il desiderio di non rinunciare a un invito dei "noiosi", e anche, sicuramente, la progressiva scoperta che andavano facendo, nonostante le precauzioni ch'egli aveva prese per nascondergliela, della sua brillante situazione mondana, tutto questo contribuiva alla loro irritazione nei suoi confronti.
Ma la ragione profonda era un'altra: avevano ben presto avvertito, in lui, uno spazio riservato, impenetrabile, nel quale continuava a credere silenziosamente, per proprio conto, che la principessa di Sagan non fosse grottesca e le facezie di Cottard non fossero divertenti insomma, benché non si discostasse mai dalla sua gentilezza e mai si ribellasse ai loro dogmi, un'impossibilità di imporgli questi ultimi, di convertirlo interamente ad essi, quale non avevano mai riscontrato in nessuno.
Gli avrebbero perdonato di frequentare dei noiosi (ai quali per altro, nel proprio intimo, egli preferiva mille volte i Verdurin e tutto il piccolo clan) se avesse acconsentito, per dare il buon esempio, a rinnegarli in presenza dei fedeli.
Ma era, se ne resero conto, un'abiura che non sarebbero mai riusciti a strappargli.
Che differenza rispetto a un "nuovo" che Odette li aveva pregati di invitare, pur avendolo incontrato poche volte soltanto, e nel quale riponevano molte speranze, il conte di Forcheville! (Si scoperse che era per l'appunto cognato di Saniette, cosa che riempì di stupore i fedeli: il vecchio archivista aveva modi così umili che l'avevano sempre creduto di un rango sociale inferiore al loro, e non s'aspettavano di venire a sapere che apparteneva a un ambiente facoltoso e relativamente aristocratico.) Certo, Forcheville era grossolanamente snob, mentre Swann non lo era; certo, egli era ben lontano dal porre, come Swann, la cerchia dei Verdurin al di sopra di ogni altra.
Ma non aveva quella delicatezza d'animo che impediva a Swann di associarsi alle critiche troppo manifestamente false rivolte da Madame Verdurin contro persone di sua conoscenza.
Quanto alle tirate pretenziose e volgari cui il pittore indulgeva di tanto in tanto e alle spiritosaggini da commesso viaggiatore che arrischiava Cottard, mentre Swann, che voleva bene all'uno e all'altro, pur trovando loro facilmente delle scuse non aveva il coraggio e l'ipocrisia di applaudirli, Forcheville era di un livello intellettuale che gli consentiva invece d'essere meravigliato, sbalordito dalle prime, che per altro non capiva, e di divertirsi alle seconde.
E fu proprio il primo pranzo dai Verdurin cui partecipò Forcheville a mettere in luce tutte queste differenze e a dare risalto alle sue qualità, precipitando la disgrazia di Swann. Tra i commensali, a parte gli "habitués", c'era un professore della Sorbona, Brichot, che aveva incontrato i signori Verdurin alle cure termali e che, se gli impegni universitari e i lavori di erudito non avessero reso molto rari i suoi momenti liberi, con piacere sarebbe andato spesso da loro.
Aveva, infatti, quella curiosità, quella superstizione della vita che, unita a un certo scetticismo riguardo all'oggetto dei propri studi, dà a certi uomini intelligenti, qualunque ne sia la professione, medici che non credono alla medicina, professori di liceo che non credono alla versione di latino, la reputazione di menti aperte, brillanti e persino superiori. In casa Verdurin, parlando di filosofia e di storia, Brichot ostentava di cercare i suoi paragoni tra quanto c'era di più attuale, innanzitutto perché era convinto che quelle discipline non fossero altro che una forma di preparazione alla vita e s'immaginava di trovare in atto nel piccolo clan ciò che, fino a quel momento, aveva conosciuto solo attraverso i libri, e poi, forse, anche perché, avendo un tempo assorbito, e conservato a sua insaputa, un rispetto reverenziale per certi argomenti, credeva di spogliarsi della veste professorale prendendosi nei loro confronti delle licenze che, in realtà, gli apparivano tali unicamente perché continuava a indossarla.
All'inizio del pasto, sentendo che Forcheville, seduto alla destra di Madame Verdurin che per il "nuovo" sfoggiava un abito sontuoso, le diceva: Originale, questa "toilette" bianca, il dottore, che non aveva mai smesso di osservarlo, tanto era curioso di sapere come fosse fatto quello ch'egli chiamava un "de", e che stava cercando uno spunto per attirare la sua attenzione ed entrare più strettamente in contatto con lui, afferrò al volo la parola "bianca" e, senza alzare il naso dal piatto, disse: bianca? Bianca di Castiglia?, poi, senza muovere la testa, lanciò furtivamente a destra e a sinistra occhiate incerte e sorridenti.
Mentre Swann, con il vano e doloroso sforzo fatto per sorridere, attestava che quel "calembour" gli era parso stupido, Forcheville mostrò al tempo stesso di gustarne la finezza e di saper vivere, contenendo entro giusti limiti un'ilarità la cui franchezza conquistò Madame Verdurin.
- Che ne dite di uno scienziato così? aveva chiesto a Forcheville.
Non c'è modo di parlare seriamente per due minuti, con lui.
Gliene raccontate di questo genere, al vostro ospedale? aveva aggiunto rivolgendosi al dottore. Non dev'essere tanto noioso, allora, di regola.
Vedo che mi converrà chiedere d'essere ricoverata.- Mi sembra d'aver sentito il dottore menzionare quella vecchia megera di Bianca di Castiglia, se mi è concesso esprimermi così. Non è vero, signora? chiese Brichot a Madame Verdurin che a occhi chiusi, in estasi, nascose il volto tra le mani, da dove sfuggì qualche grido soffocato.Dio mio, signora, non vorrei allarmare le anime rispettose, ammesso che ve ne siano intorno a questa tavola, "sub rosa"... (45) Riconosco d'altronde che la nostra ineffabile repubblica ateniese - oh,
  quanto! - potrebbe onorare in questa capetingia oscurantista il primo dei prefetti di polizia dal polso di ferro.
Proprio così, mio caro ospite, aggiunse, replicando a un'obiezione di Verdurin, con la sua voce ben modulata che scandiva ogni sillaba, proprio così.
La "Chronique de Saint-Denis", di cui non possiamo contestare l'attendibilità, non lascia alcun dubbio in proposito.
Nessun'altra donna potrebbe essere eletta a sua patrona da un proletariato in vena di laicizzazione più fondatamente di questa madre di un santo, al quale santo, per altro, fece inghiottire bocconi alquanto amari, come dicono Suger e lo stesso san Bernardo; (46) perché con lei ciascuno aveva quel che si meritava. - Chi è quel signore? chiese Forcheville a Madame Verdurin.
Ha l'aria di sapere il fatto suo.
- Come, non conoscete il famoso Brichot? E' celebre in tutta Europa.
- Ah! è Bréchot, esclamò Forcheville che non aveva sentito bene, niente di meno! e spalancò gli occhi su quella celebrità.
E' sempre interessante pranzare con una persona in vista.
Ma, sentite un po', ci avete invitati con dei commensali di prima scelta.
Non ci si annoia a casa vostra.- Oh, sapete, disse Madame Verdurin con modestia, il fatto è che si trovano a loro agio.
Parlano di quel che vogliono, e la conversazione diventa un fuoco d'artificio.
Brichot, per esempio, stasera non è ancora niente: sapete, l'ho visto, qui da me, far faville, da inginocchiarglisi davanti; ebbene! in casa d'altri non è più lo stesso, non ha più spirito, bisogna strappargli le parole di bocca, è perfino noioso.
- Che strano! disse Forcheville, meravigliato.
Un genere di spirito come quello di Brichot sarebbe stato considerato pura stupidità nell'ambiente in cui Swann aveva trascorso la giovinezza, pur non essendo incompatibile con una effettiva intelligenza.
E quella del professore, vigorosa e ben nutrita, avrebbe potuto suscitare invidia, probabilmente, in parecchie delle persone di mondo che Swann trovava spiritose.
Ma costoro avevano finito con l'inculcargli così bene i loro gusti e le loro repulsioni, almeno per tutto quello che riguarda la vita mondana e anche per quello che, fra i vari territori con essa confinanti, dovrebbe inscriversi piuttosto nel dominio dell'intelligenza, cioè la conversazione, che Swann non poté fare a meno di giudicare le battute di Brichot pedantesche, volgari e disgustosamente grevi.
Inoltre, si sentiva urtato nella sua abitudine alle buone maniere dal tono rude e militaresco con cui il professore patriottardo si rivolgeva ostentatamente a ciascuno degli astanti. E soprattutto, infine, quella sera aveva forse smarrito la propria indulgenza vedendo lo sfoggio di amabilità di cui Madame Verdurin gratificava quel Forcheville che Odette aveva avuto la curiosa idea di portarsi dietro.
Lei, arrivando, aveva chiesto a Swann con un po' di imbarazzo: - Come vi sembra il mio invitato? E lui, accorgendosi per la prima volta che Forcheville, che conosceva da tempo, poteva piacere a una donna ed era nel complesso un bell'uomo, aveva risposto: Immondo!.
Non pensava certo d'essere geloso di Forcheville, ma non si sentiva felice come al solito, e quando Brichot, che aveva cominciato a raccontare la storia della madre di Bianca di Castiglia, la quale era stata per anni con Enrico Plantageneto prima di sposarlo, (47) volle farsene chiedere il seguito da Swann dicendogli: Non è vero, signor Swann?, con il tono marziale che si prende per mettere a suo agio un contadino o incoraggiare un soldato, Swann, con grande stizza della padrona di casa, gli rovinò l'effetto rispondendogli che lo pregava di scusarlo se si interessava così poco a Bianca di Castiglia, ma aveva qualcosa da domandare al pittore.
Questi, in effetti, era andato nel pomeriggio a vedere la mostra di un artista, amico di Madame Verdurin, che era morto di recente, e Swann avrebbe voluto sapere da lui (giacché apprezzava il suo gusto) se veramente ci fosse nelle sue ultime opere qualcosa di più del virtuosismo che già sorprendeva nelle precedenti.
- Da questo punto di vista, era straordinario, ma la sua non mi sembrava un'arte, come si suol dire, molto "elevata", disse Swann sorridendo.
- Elevata... all'altezza di un'istituzione, lo interruppe Cottard alzando le braccia con simulata gravità.
Tutta la tavolata scoppiò a ridere.
- Cosa vi dicevo? non si può restare seri con lui, disse Madame Verdurin a Forcheville.
Quando meno te lo aspetti, te ne tira fuori una delle sue.
Ma non le sfuggì che l'unico a non sorridere era stato Swann.
Del resto, non era molto contento che Cottard facesse ridere di lui davanti a Forcheville.
Ma il pittore, anziché dare a Swann una risposta interessante, come probabilmente avrebbe fatto se si fosse trovato solo con lui preferì farsi ammirare dai commensali piazzando un brano ad effetto sull'abilità del maestro scomparso.
- Mi sono avvicinato, disse, per vedere come era fatta, ci ho messo il naso sopra.
Figuriamoci! impossibile dire se aveva usato della colla, del rubino, del sapone, del bronzo, del sole, della cacca! - Più uno dodici, esclamò il dottore, ma in ritardo, e nessuno capì il senso della sua interruzione.
- Sembra fatta con niente, riprese il pittore, non c'è modo di scoprire il trucco, non più che nella "Ronda" o nelle "Reggenti", e la mano è ancora più forte di quella di Rembrandt o di Hals. (48) C'è dentro tutto, ma no, ve lo giuro.
E come i cantanti, raggiunta la nota più alta cui possano arrivare, continuano in falsetto, "piano", si accontentò di mormorare, e ridendo, come se davvero quella pittura fosse ridicola a forza d'essere bella: - Ha un buon odore, vi dà alla testa, vi mozza il fiato, vi fa il solletico, e non c'è verso di sapere con che cosa è fatta, è una stregoneria, è un tiro mancino, è un miracolo (scoppiando del tutto a ridere): è indecente! E fermandosi, raddrizzando gravemente la testa, prendendo una nota di basso profondo che si sforzò di rendere armoniosa: e talmente leale!.
Tranne quando aveva detto "più forte della 'Ronda'", bestemmia che aveva suscitato una protesta da parre di Madame Verdurin, convinta che la "Ronda" fosse il massimo capolavoro dell'universo insieme alla "Nona" e alla "Vittoria di Samotracia", e nel momento di quel "fatta con la cacca", che aveva indotto Forcheville a gettare un colpo d'occhio circolare alla tavolata per vedere se la parola sarebbe passata prima di farsi comparire sulla bocca un sorriso conciliante e pudico, tutti i commensali, eccettuato Swann, avevano appuntato sul pittore sguardi inebetiti per l'ammirazione.
- Come mi piace quando s'infiamma a questo modo, esclamò alla fine della tirata Madame Verdurin, entusiasta che la compagnia fosse così interessante proprio la prima volta che veniva Forcheville.
E tu, cos'hai da startene così, a bocca aperta come un allocco? disse all'indirizzo del marito.
Eppure lo sai che parla bene; si direbbe sia la prima volta che vi ascolta.
Se l'aveste visto mentre parlavate, le beveva, le vostre parole.
E domani ci ripeterà tutto quel che avete detto, senza saltare una sillaba. - Ma no, non c'è niente di inventato, disse il pittore, inebriato dal successo, avete l'aria di credere che io stia bluffando, che vi racconti delle frottole; vi accompagnerò là e mi direte se ho esagerato, ci metto la firma che verrete via più scombussolata di me! - Ma no, non crediamo che esageriate, vogliamo soltanto che mangiate, e che mangi anche mio marito; portate un'altra sogliola normanna al signore, vedete bene che la sua è fredda.
Non abbiamo tutta questa fretta, state servendo come se ci fosse il fuoco, aspettate un attimo per l'insalata.
Madame Cottard, benché modesta e di poche parole, sapeva trovare l'ardire necessario quando una buona ispirazione le suggeriva una battuta felice.
Sentiva di poter avere successo e questo le dava fiducia, ma interveniva meno per brillare che per contribuire alla carriera del marito.
Così non si lasciò sfuggire la parola "insalata" che Madame Verdurin aveva appena proferita.
- Non sarà insalata giapponese? disse a mezza voce volgendosi verso Odette.
E compiaciuta e confusa dell'appropriatezza e dell'audacia di quell'allusione discreta, ma chiara, alla nuova, chiacchieratissima commedia di Dumas, scoppiò in un'incantevole risata da ingenua, poco rumorosa ma talmente irresistibile che per qualche istante non riuscì a dominarla.
Chi è quella signora? ha dello spirito, disse Forcheville.
- No, ma ve la prepareremo se verrete tutti a pranzo venerdì.
- Mi giudicherete molto provinciale, signore, disse Madame Cottard a Swann, ma non ho ancora visto questa famosa "Francillon" di cui parlano tutti.
Il dottore è già andato a vederla (ricordo anzi che mi ha detto di aver avuto il grandissimo piacere di passare la serata con voi) e confesso che mi è parso poco ragionevole che prenotasse dei posti per tornarci con me.
Evidentemente al "Théatre-Franais" non si spreca mai la serata, recitano sempre così bene, ma poiché abbiamo degli amici molto gentili (Madame Cottard pronunciava di rado un nome proprio e si accontentava di dire "dei nostri amici", "una mia amica", per essere "distinta", con il tono artefatto e l'aria d'importanza della persona che nomina solo chi vuole) i quali hanno spesso dei palchi e hanno la buona idea di portarci a tutte le novità che vale la pena di non perdere, sono comunque sicura di vedere "Francillon", prima o poi, e di potermene formare una mia opinione.
Devo confessare, però, che mi sento un po' sciocca, perché in tutti i salotti dove vado non si parla d'altro, si capisce, che di questa benedetta insalata giapponese.
Si comincia persino a esserne un po' annoiati, aggiunse vedendo che Swann sembrava meno interessato di quel che lei credesse a un tema di così scottante attualità.
Bisogna ammettere, comunque, che a volte si presta a trovate abbastanza divertenti.
Una mia amica, per esempio, una donna molto originale ma altrettanto bella, ricercatissima, lanciatissima, sostiene di aver fatto fare l'insalata giapponese a casa sua, facendoci mettere dentro tutto quello che Dumas figlio dice nella commedia. (49) Aveva invitato alcune amiche a mangiarla.
Purtroppo io non ero fra le elette.
Ma ci ha raccontato tutto oggi, era il suo pomeriggio; pare che fosse detestabile, ci ha fatto piangere dalle risate.
Ma, sapete, tutto sta nel modo di raccontare, disse vedendo che Swann manteneva un'espressione seria.
(50) E supponendo che dipendesse dal fatto che non gli piaceva "Francillon": - Del resto, credo che avrò una delusione.
Non penso che valga "Serge Panine", la grande passione di Madame de Crécy.
Quelli, almeno, sono argomenti profondi, che fanno meditare; ma dare la ricetta di un'insalata sulle scene del "Théatre-Franais"! "Serge Panine", invece! Del resto, è come tutto quello che esce dalla penna di Georges Ohnet, scrive sempre così bene.
Non so se conoscete "Le Matre de Forges", (51) che io quasi quasi preferisco anche a "Serge Panine".
- Vogliate perdonarmi, disse Swann con aria ironica, ma devo confessare che la mia mancanza d'ammirazione è più o meno la stessa per questi due capolavori.
- Davvero? e che cos'hanno che non va, secondo voi? E' un partito preso? Vi sembrano forse un po' tristi? D'altronde, come dico sempre, non bisogna mai discutere di romanzi o di
  lavori teatrali.
Ciascuno la vede a suo modo, e voi potete trovare detestabile quello che a me piace di più.
Fu interrotta da Forcheville che chiamava in causa Swann.
In effetti, mentre Madame Cottard parlava di "Francillon", Forcheville aveva espresso a Madame Verdurin la sua ammirazione per quello che aveva chiamato il piccolo "speech" del pittore.
- Il signore ha una facilità di parola, una memoria! aveva detto a Madame Verdurin dopo che il pittore ebbe finito, come ne ho viste raramente. Diamine, vorrei averle io.
Sarebbe un eccellente predicatore.
Si può dire che fra lui e il signor Bréchot sono due numeri della stessa forza, e chissà che, quanto a parlantina, questo qui non possa anche dare dei punti al professore.
E' più naturale, meno ricercato.
Benché, strada facendo, abbia usato qualche parola un po' realistica, ma è il gusto d'oggigiorno, poche volte ho visto tenere il pallino con tanta destrezza, come dicevamo al reggimento, dove per altro avevo un camerata che il signore, per l'appunto, mi ha un po' richiamato alla memoria.
A proposito di una cosa qualsiasi, non so che dirvi, su questo bicchiere per esempio, era capace di blaterare per ore; no, non a proposito del bicchiere, ho detto una sciocchezza; ma della battaglia di Waterloo, di tutto quel che volete, e strada facendo ci buttava lì delle cose alle quali non avremmo mai pensato.
Del resto, Swann era nello stesso reggimento; deve averlo conosciuto.
- Vedete spesso il signor Swann? gli chiese Madame Verdurin.
- Ma no, rispose Forcheville, e poiché, per potersi più facilmente avvicinare a Odette, voleva riuscir gradito a Swann e intendeva approfittare di questa occasione per lusingarlo parlando delle sue prestigiose relazioni, ma da uomo di mondo, con un tono di critica cordiale e senza aver l'aria di congratularsene con lui come di un successo insperato: Vero, Swann, che non vi vedo mai? E, d'altronde, come si fa a vederlo? Quell'animale se ne sta sempre rintanato dai La Trémoille, dai Laumes, da tutta quella gente lì!...
Imputazione, per altro, tanto più falsa in quanto Swann, da più di un anno, frequentava quasi esclusivamente i Verdurin.
Ma bastava il nome di persone non conosciute a suscitare, in casa loro, un silenzio carico di riprovazione.
Il signor Verdurin, sgomento per l'impressione penosa che quei nomi di "noiosi", soprattutto perché buttati così senza tatto in faccia a tutti i fedeli, avevano certo prodotto in sua moglie, gettò verso di lei, di sfuggita, uno sguardo di inquieta sollecitudine; e vide che nella sua risoluzione di non prendere atto, di non esser stata toccata dalla notizia appena comunicatale, di restare muta, non solo, ma di esser stata sorda, così come ci sforziamo di dare a intendere quando un amico colpevole cerca di insinuare nella conversazione una scusa cui sembreremmo aderire se l'ascoltassimo senza protestare, o quando qualcuno pronuncia davanti a noi il nome proibito di un ingrato, Madame Verdurin, perché il suo silenzio non facesse pensare a un'acquiescenza, ma al silenzio ignaro delle cose inanimate, aveva repentinamente spogliato il proprio volto di qualsiasi vita, di qualsiasi motilità; la sua fronte bombata non era più che un accurato studio di scultura a tutto tondo, dove il nome di quei La Trémoille in casa dei quali Swann se ne stava sempre rintanato non aveva avuto la possibilità di penetrare; il suo naso leggermente arricciato mostrava un incavo che sembrava modellato sul vivo.
Si sarebbe detto che la sua bocca socchiusa fosse sul punto di parlare.
Non era più che una cera persa, una maschera di gesso, il modellino di un monumento, un busto per il Palazzo dell'Industria, davanti al quale il pubblico avrebbe sicuramente sostato per ammirare la perizia dello scultore nell'esprimere l'imprescrittibile dignità dei Verdurin contrapposta a quella dei La Trémoille e dei Laumes - cui essi non sono certo inferiori, come a nessun altro dei noiosi della terra - e nel conferire così una maestà quasi pontificale al biancore e alla rigidità della pietra.
Ma il marmo finì con l'animarsi, e fece udire che bisognava avere un bello stomaco per andare da quella gente, visto che la moglie era sempre ubriaca e il marito talmente ignorante che diceva "collidoio" invece di "corridoio".
- Per nessuna cifra al mondo li farei entrare in casa mia, concluse Madame Verdurin fissando Swann con aria imperiosa.
Non sperava certo che si sarebbe sottomesso fino a imitare la santa semplicità della zia del pianista la quale aveva esclamato: Ma ci pensate? Mi stupisce che trovino ancora delle persone disposte a parlare con loro! Credo che ne avrei paura: si fa così presto a ricevere un brutto colpo! Come è possibile che ci sia ancora gente così rozza da corrergli dietro?.
Ma che, almeno, non rispondesse come Forcheville: Diamine, è una duchessa; a qualcuno fa ancora impressione, il che aveva tuttavia permesso a Madame Verdurin di replicare:
Buon pro gli faccia!.
Swann, invece, si limitò a ridere con un'espressione dalla quale si arguiva che egli non poteva prendere sul serio una simile stravaganza.
Il signor Verdurin, che continuava a indirizzarle sguardi furtivi, vedeva con tristezza e capiva sin troppo bene che sua moglie provava la collera del grande inquisitore che non riesce a estirpare un'eresia, e nel tentativo di indurre Swann a una ritrattazione, poiché il coraggio delle proprie opinioni appare sempre come calcolo e viltà agli occhi di coloro nei cui confronti si esercita, lo interpellò: - Su, dite francamente quel che pensate, non glielo andremo a riferire.
E Swann: - Non è certo per timore della duchessa (se è ai La Trémoille che vi riferite).
Vi assicuro che fa piacere a tutti andare a casa sua.
Non dico che sia "profonda" (pronunciò "profonda" come se fosse una parola ridicola, giacché il suo linguaggio serbava traccia di abitudini di spirito che un certo rinnovamento, segnato dall'amore per la musica, gli aveva momentaneamente fatto perdere, tanto che a volte gli accadeva di esprimere le sue opinioni con calore) ma, in tutta sincerità, è una donna intelligente, e suo marito è un autentico letterato. (52) Sono persone affascinanti.
E qui Madame Verdurin, intuendo che per colpa di un unico infedele non sarebbe riuscita a realizzare l'unità morale del piccolo clan, non poté trattenersi, nella rabbia verso quel testardo che non capiva quanto le sue parole la facessero soffrire, dal gridargli dal profondo del cuore: - Se proprio volete pensatelo, ma almeno non venite a dircelo.
- Tutto dipende da quella che chiamate intelligenza, disse Forcheville che a sua volta voleva mettersi in luce.
Vediamo, Swann, che cosa intendete per intelligenza? - Ecco! esclamò Odette, ecco le grandi cose di cui gli chiedo di parlarmi, ma lui non vuole mai. - Ma come no..., protestò Swann.
- E ora mi prendete in giro! disse Odette.
- Giro turistico? chiese il dottore.
- Per voi, riprese Forcheville, l'intelligenza è dunque la chiacchiera mondana, l'arte di sapersi insinuare? - Finite il vostro "entremets", così potranno levarvi il piatto, disse Madame Verdurin con tono acido rivolgendosi a Saniette, il quale, immerso nelle sue riflessioni, aveva smesso di mangiare.
E vergognandosi un poco, forse, della propria asprezza: Non importa, fate pure con calma, se ve lo dico è per gli altri, in questo modo si blocca il servizio.- C'è, disse Brichot martellando le sillabe, una definizione alquanto curiosa dell'intelligenza in quel dolce anarchico di Fénelon... (53) - State a sentire! disse Madame Verdurin a Forcheville e al dottore, ora ci darà la definizione dell'intelligenza secondo Fénelon, è interessante, non si ha tutti i giorni l'occasione di imparare queste cose.
Ma Brichot stava aspettando che Swann desse la sua.
Swann tacque, e sottraendosi stroncò sul nascere il brillante certame che Madame Verdurin si rallegrava di poter offrire a Forcheville.
- Si capisce, è come con me, disse Odette immusonita, non mi dispiace scoprire di non essere la sola che lui non consideri all'altezza.
- Questi La Trémouaille che la signora ci ha dipinti come ben poco raccomandabili, chiese Brichot articolando con forza, discendono forse da quei tali che quella brava snob di Madame de Sévigné confessava d'esser felice di conoscere perché era vantaggioso per i suoi contadini? (54) E' vero che la marchesa aveva un'altra ragione, che per lei doveva prevalere sulla prima, giacché, letterata fin nell'anima com'era, in cima a tutto metteva la sua corrispondenza.
Ora, nel "giornale" che inviava regolarmente a sua figlia, era Madame de la Trémouaille, ben documentata per via delle sue influenti patentele, a occuparsi degli affari esteri.
- Ma no, non credo che sia la stessa famiglia, disse del tutto a caso Madame Verdurin.
Saniette che, dopo aver precipitosamente restituito al maggiordomo il piatto ancora pieno, si era rituffato in un silenzio meditativo, ne emerse infine per raccontare ridendo la storia di un pranzo nel corso del quale si era trovato a tavola con il duca di La Trémoille, storia da cui risultava che questi non sapeva che George Sand fosse lo pseudonimo di una donna.
Swann, che aveva simpatia per Saniette, si credette in dovere di fornirgli circa la cultura del duca dettagli atti a dimostrare che una simile ignoranza era, da parte sua, materialmente impossibile; ma tutt'a un tratto tacque, s'era reso conto che Saniette non aveva bisogno di prove e sapeva benissimo che la storia era falsa per la semplice ragione che l'aveva inventata un attimo prima.
Quell'uomo eccellente soffriva d'essere giudicato noioso dai Verdurin; e, conscio d'essere stato a quel pranzo ancora più insignificante del solito, non aveva voluto lasciarlo concludere senza aver offerto un minimo di divertimento.
S'arrese così in fretta, apparve così infelice di aver mancato l'effetto sul quale aveva fatto assegnamento, e rispose a Swann con uno tono così vile, perché questi non si accanisse in una confutazione ormai inutile: Va bene, va bene; in ogni caso, se anche mi sbaglio, non è un delitto, credo, che Swann avrebbe voluto potergli dire che la storia era vera e deliziosa.
Al dottore, che li aveva ascoltati, parve che fosse il caso di dire: "Se non è vero", (55) ma non era abbastanza sicuro delle parole ed ebbe paura di imbrogliarsi.
Finito il pranzo, Forcheville mosse spontaneamente incontro al dottore.
- Non dev'essere stata male, Madame Verdurin, e poi è una donna con la quale si può parlare e questo, per me, è l'essenziale.
Un po' stagionata, ormai, s'intende.
Madame de Crécy, però, quella sì che ha l'aria di un donnino sveglio, eh! perbacco, si vede subito che la sa lunga, quella! Stiamo parlando di Madame de Crécy, disse al signor Verdurin che si avvicinava con la sua pipa in bocca.
Mi immagino che, come fisico... - Meglio a letto con lei che con il diavolo disse precipitosamente Cottard, il quale da qualche istante aspettava invano che Forcheville riprendesse fiato per piazzare quella vecchia facezia, temendo che non cadesse più a proposito se la conversazione prendeva un'altra piega, e la declamò con quell'eccesso di spontaneità e di padronanza con cui si cerca di mascherare la freddezza e il turbamento inseparabili da ogni recitazione.
Forcheville la conosceva, capì e ne fu divertito.
Quanto a Verdurin, non lesinò la sua allegria, avendo da poco trovato, per esprimerla, un simbolo diverso da quello a cui ricorreva la moglie, ma altrettanto semplice e chiaro. Dopo aver appena accennato il movimento di testa e di spalle di uno che scoppia a ridere, subito si metteva a tossire, come se, ridendo troppo forte, gli fosse andato di traverso il fumo della pipa.
E, tenendo sempre quest'ultima nell'angolo della bocca, prolungava indefinitamente quel simulacro di soffocazione e di ilarità.
Lui e Madame Verdurin che, di fronte, mentre ascoltava una storia raccontatale dal pittore, chiudeva gli occhi prima di nascondersi precipitosamente il volto tra le mani, facevano
  pensare a due maschere teatrali raffiguranti in due diversi modi la gaiezza.
Verdurin, d'altronde, aveva fatto bene a non togliersi di bocca la pipa, giacché Cottard, dovendo allontanarsi un istante, pronunciò a mezza voce una battuta che aveva appresa di recente e che ripeteva ogni volta che aveva bisogno di andare nello stesso posto: Devo stare un momento a tu per tu con il duca d'Aumale, (56) il che ridiede la stura all'accesso di tosse di Verdurin.
- Andiamo, togliti di bocca la pipa, finirai col soffocarti se fai tutti quegli sforzi per non ridere, gli disse Madame Verdurin che veniva a offrire i liquori.
- Che uomo affascinante, vostro marito, ha spirito per quattro, dichiarò Forcheville a Madame Cottard.
Grazie, signora.
Un vecchio soldato come me non rifiuta mai un goccetto.
- Il signor di Forcheville trova Odette incantevole, disse Verdurin alla moglie.
- E lei, per l'appunto, vorrebbe, una volta, fare colazione con voi.
Ci penseremo noi, ma bisogna che Swann non lo sappia.
Lui, sapete, mette un po' di gelo.
Questo non vi impedirà di venire a pranzo, naturalmente, speriamo anzi di avervi spessissimo da noi.
Adesso che arriva la bella stagione, si andrà spesso a pranzo in campagna.
Non vi dispiacciono, i pranzetti al Bois? bene, bene, sarà molto simpatico.
Non vi starete già mettendo al lavoro, voi! gridò al giovane pianista, nell'intento di sfoggiare, davanti a un "nuovo" dell'importanza di Forcheville, sia il proprio umorismo sia il potere tirannico esercitato sui fedeli.
- Il signor di Forcheville mi stava parlando male di te, disse Madame Cottard al marito quando questi tornò nel salotto.
E Cottard, inseguendo l'idea della nobiltà di Forcheville che occupava la sua mente sin dall'inizio del pranzo, gli disse: - In questo momento ho in cura una baronessa, la baronessa Putbus, i Putbus parteciparono alle Crociate, non è vero? In Pomerania possiedono un lago dieci volte più grande di place de la Concorde. La sto curando per un'artrite secca, è una donna affascinante.
Del resto conosce Madame Verdurin, credo.
Forcheville fu così in grado, quando, un attimo dopo, si ritrovò solo con Madame Cottard, di completare il giudizio favorevole sul dottore: - E poi è interessante, si vede che conosce tanta gente.
Perdiana, ne sanno di cose, questi medici! - Suonerò la frase della Sonata per il signor Swann, disse il pianista.
- Accidenti! speriamo che non sia il "Serpente a sonate", (57) disse Forcheville per far colpo.
Ma il dottor Cottard, che non aveva mai sentito quel gioco di parole, non lo capì e, pensando a un errore di Forcheville, si affrettò ad avvicinarsi per correggerlo: - Ma no, non si dice serpente a sonate, si dice serpente a sonagli, sentenziò con tono misto di zelo, d'impazienza e di trionfo.
Forcheville gli spiegò il gioco di parole. Il dottore arrossì.
- Ammetterete che è divertente, dottore.
- Oh! lo conosco da tanto di quel tempo, ribatté Cottard.
Ma tacquero; sotto l'agitarsi dei tremoli di violino che la proteggevano con la loro fremente tenuta a due ottave di distanza - e così come, in un paese di montagna, dietro l'immobilità apparente e vertiginosa di una cascata si scorge, duecento piedi più in basso, la figura minuscola di una gitante - la piccola frase era apparsa lontana, aggraziata, protetta dal lungo frangersi di quei sipario trasparente, incessante e sonoro.
E Swann, in cuor suo, si rivolse a lei come a una confidente del suo amore, come a un'amica di Odette che avrebbe dovuto dirle di non interessarsi a quel Forcheville.
- Ah! arrivate tardi, disse Madame Verdurin a un fedele che aveva invitato, quella sera, solo in funzione di stuzzicadenti, abbiamo avuto un Brichot incomparabile, di un'eloquenza!
Ma è andato via.
Non è vero, signor Swann? E' la prima volta, mi pare, che l'incontrate, aggiunse per fargli notare che doveva a lei quella conoscenza.
Non è vero che è stato delizioso, il nostro Brichot? Swann s'inchinò cortesemente.
- No? non vi è parso interessante? gli chiese seccamente Madame Verdurin.
- Ma certo, signora, interessantissimo, mi ha affascinato.
E' forse un po' troppo perentorio e gioviale per i miei gusti.
Preferirei qualche esitazione, qualche tratto di dolcezza in lui, ma si sente che sa tante cose, e ha l'aria di un brav'uomo.
Se ne andarono tutti molto tardi.
Le prime parole di Cottard a sua moglie furono: - Poche volte ho visto Madame Verdurin in forma come stasera.
- Che cos'è esattamente questa Madame Verdurin, una mezza calzetta? disse Forcheville al pittore proponendogli di riaccompagnarlo a casa Odette lo vide allontanarsi con rimpianto, non osò non rincasare con Swann, ma in carrozza fu di cattivo umore, e quando lui le chiese se doveva entrare, gli disse: Si capisce, alzando le spalle con un moto d'impazienza.
Quando tutti gli ospiti si furono accomiatati, Madame Verdurin disse al marito: - Hai notato che stupido risolino ha fatto Swann quando abbiamo parlato di Madame La Trémoille?
Si era accorta che Swann e Forcheville avevano più volte soppresso la particella davanti a quel nome.
Sicura che l'avessero fatto per dare a vedere che non erano intimiditi dai titoli, avrebbe voluto imitare la loro dignità, ma non aveva ben afferrato la forma grammaticale attraverso la quale essa si manifestava.
Così, il suo difettoso modo di esprimersi avendo la meglio sull'intransigenza repubblicana, diceva ancora "i de La Trémoille" o meglio, con un'abbreviazione dissimulante il "de" utilizzata nei testi delle canzoni da caffè-concerto e nelle didascalie dei caricaturisti, "i d'La Trémoille", salvo poi rivalersi dicendo: "Madame La Trémoille". La "Duchessa", come dice Swann, aggiunse ironicamente, con un sorriso, per significare che la sua era una semplice citazione e che personalmente non avallava certo una designazione così ingenua e ridicola.
- Ti dirò che l'ho trovato estremamente stupido.
E Verdurin, di rincalzo: - Non è sincero, è un uomo pieno di cautele, sta sempre un po' sul pomo e un po' sul pero.
Vuol sempre salvare capra e cavoli.
Che differenza rispetto a Forcheville! Lui, almeno, è uno che dice tranquillamente quello che pensa, vi piaccia o non vi piaccia.
Niente a che vedere con l'altro, che non è mai né carne né pesce.
Del resto Odette ha l'aria di preferire bellamente Forcheville, e non le dò torto.
E poi, in fin dei conti, visto che Swann ci tiene a fare l'uomo di mondo, il campione delle duchesse, l'altro, perlomeno, ha il suo bravo titolo: è sempre conte di Forcheville, aggiunse con delicatezza, come se, al corrente della storia di quella contea, ne soppesasse minuziosamente il valore specifico.
- Ti dirò, riprese Madame Verdurin, che s'è creduto in dovere di rivolgere contro Brichot qualche insinuazione velenosa e abbastanza ridicola.
Naturalmente, visto che Brichot è benvoluto qui da noi, il suo era un modo di attaccarci, di criticare il nostro pranzo.
Si sente, in lui, il caro, buon amico che sparlerà di te appena uscito da casa tua.
- Ma te lo dicevo, confermò Verdurin, è il tipico fallito, l'individuo meschino invidioso di tutto quello che ha un po' di grandezza.
In realtà, non c'era un solo fedele che fosse meno maligno di Swann; ma tutti usavano la precauzione di insaporire le maldicenze con scontate facezie, con una leggera dose di emozione e di cordialità; mentre ogni minima riserva che Swann si concedeva, spoglia di formule convenzionali tipo: "Non per parlarne male", a cui egli sdegnava di abbassarsi, appariva come una perfidia.
Vi sono autori originali il cui minimo ardimento suscita indignazione perché non hanno preventivamente blandito i gusti del pubblico e non gli hanno propinato i luoghi comuni ai quali è avvezzo; nello stesso modo Swann indisponeva Verdurin.
Come in loro, anche in Swann era la novità del linguaggio a far supporre perfide intenzioni.
Swann ignorava ancora la disgrazia della quale era minacciato in casa Verdurin, e attraverso il suo amore continuava a vedere con indulgenza quel che c'era in loro di ridicolo. Non aveva appuntamenti con Odette, di solito, se non la sera; ma durante il giorno, pur temendo di stancarla andando da lei, avrebbe voluto, perlomeno, non smettere di occuparne il pensiero, e si sforzava di trovare continui pretesti per intervenire in esso, ma in un modo che le riuscisse gradevole.
Se, nella vetrina di un fiorista o di un gioielliere, lo incantava la vista di una piccola pianta o di un gioiello, subito pensava di mandarli a Odette immaginando che il piacere che gli avevano dato avrebbe accresciuto, ripercuotendosi in lei, il bene che gli voleva, e li faceva immediatamente recapitare in rue La Pérouse per non ritardare l'istante in cui, ricevendo Odette qualcosa da parte sua, egli si sarebbe sentito in qualche modo accanto a lei.
Soprattutto voleva che li ricevesse prima d'uscire, perché la riconoscenza che avrebbe provata gli garantisse un più tenero benvenuto quando si fossero incontrati dai Verdurin, o addirittura, chissà, se il fornitore fosse stato abbastanza sollecito, una sua lettera, forse, prima di pranzo, o l'arrivo di lei in persona, una sua visita supplementare a casa di Swann per ringraziarlo.
Come una volta, quando sperimentava le reazioni del dispetto sul carattere di Odette, cercava ora di estrarne, con quelle della gratitudine, segrete particelle di sentimento che ancora non gli aveva rivelate.
Spesso lei aveva dei problemi di denaro e, assillata da un debito, lo pregava di venirle in aiuto.
Swann ne era felice come di tutto ciò che poteva dare a Odette un'idea adeguata del suo amore o semplicemente della sua influenza, di quanto poteva esserle utile. Sicuramente, se all'inizio qualcuno gli avesse detto: E' la tua posizione che le piace, e adesso: E' per il tuo patrimonio che ti ama, non ci avrebbe creduto, e d'altronde non gli sarebbe troppo dispiaciuto che la si supponesse legata a lui - che li si immaginasse uniti l'uno all'altra - da qualcosa di forte come lo snobismo o il denaro.
Ma, anche se avesse pensato che era vero, forse non avrebbe sofferto scoprendo nell'amore di Odette quel fondamento, tanto più durevole d'ogni attrazione o qualità che lei potesse riconoscergli: l'interesse, l'interesse che avrebbe tenuto per sempre lontano il giorno in cui potesse sfiorarla la tentazione di non vederlo più.
Per il momento, colmandola di regali, rendendole dei servigi, poteva risparmiarsi, grazie a quei vantaggi esterni alla sua persona e alla sua intelligenza, la preoccupazione spossante di piacerle per se stesso.


E quella voluttà d'essere innamorato, di non vivere che d'amore, della cui realtà talvolta dubitava, il prezzo al quale in sostanza la pagava, da bravo dilettante di sensazioni immateriali, gliene aumentava il valore - così come certe persone, incapaci di stabilire se lo spettacolo del mare e il mormorio delle onde siano o no deliziosi, se ne convincono, convincendosi al tempo stesso della rara e disinteressata natura dei propri gusti, nel momento in cui pagano cento franchi al giorno per la camera d'albergo che gliene consente il godimento.
Un giorno in cui riflessioni di questo genere lo riconducevano ancora una volta al ricordo di quando Odette gli era stata dipinta come una mantenuta, e nuovamente si divertiva a contrapporre quella strana personificazione: la mantenuta - cangiante amalgama di elementi ignoti e diabolici, incastonato, come un'apparizione di Gustave Moreau, tra fiori velenosi intrecciati a preziosi gioielli (58) - a quell'Odette sul cui volto aveva visto passare gli stessi sentimenti di pietà per un infelice, di ribellione contro un'ingiustizia, di gratitudine per un atto generoso, che aveva còlti un tempo in sua madre o nei suoi amici, a quell'Odette i cui discorsi riflettevano tante volte le cose che egli stesso conosceva più da vicino, le sue collezioni, la sua stanza, il suo vecchio domestico, il banchiere che teneva in deposito i suoi titoli, ecco che quest'ultima immagine gli rammentò che avrebbe dovuto recarsi in banca a prelevare del denaro.
In effetti, se quel mese avesse aiutato Odette nelle sue difficoltà materiali con minor larghezza rispetto al mese precedente, durante il quale le aveva dato cinquemila franchi, e non le avesse offerto una collana di diamanti di cui s'era invaghita, non avrebbe rinnovato in lei quell'ammirazione per la sua generosità, quella riconoscenza, che lo rendevano così felice, e avrebbe persino rischiato di far credere a Odette che il suo amore per lei, di cui avrebbe visto diminuite le manifestazioni, si fosse attenuato.
Allora, all'improvviso, si domandò se tutto questo non significasse appunto "mantenerla" (come se, in realtà, quella nozione del mantenere potesse emergere da elementi non misteriosi e perversi, ma appartenenti al fondo quotidiano e privato della sua vita, come un certo biglietto da mille franchi, domestico e familiare, strappato e rincollato, che il suo cameriere, dopo aver regolato i conti del mese e pagato l'amitto, aveva riposto nel cassetto del vecchio scrittoio dove Swann l'aveva ripreso per inviarlo, con altri quattro, a Odette) e se non si potesse applicare a Odette, da quando la conosceva (giacché non sospettò neppure per un attimo che avesse mai potuto ricevere del denaro da qualcuno prima che da lui), quel termine, ch'egli aveva creduto cosi inconciliabile con lei, di "mantenuta".
Non poté approfondire questo concetto perché un accesso di quella pigrizia mentale che era in lui congenita, intermittente e provvidenziale, giunse in quel momento a spegnere ogni lume nel suo intelletto, con la stessa repentinità con la quale, più tardi, quando si installò dappertutto l'illuminazione elettrica, divenne possibile interrompere la corrente all'interno di una casa.
Per un istante il suo pensiero brancolò nel buio; si tolse gli occhiali, ne pulì le lenti, si passò una mano sugli occhi e non rivide la luce che quando fu in presenza di un pensiero tutt'affatto diverso, e cioè che il mese successivo avrebbe dovuto cercare di mandare a Odette sei o settemila franchi anziché cinque, in considerazione della sorpresa e della gioia che un simile gesto le avrebbe procurato.
Di sera, se non restava in casa aspettando l'ora di incontrarsi con Odette dai Verdurin oppure in uno dei ristoranti estivi che essi prediligevano, al Bois e soprattutto a Saint-Cloud (59) andava a pranzo in una di quelle case eleganti di cui un tempo era l'ospite abituale.
Non voleva perdere ogni contatto con persone che - non si può mai sapere - avrebbero potuto un giorno essere utili a Odette e grazie alle quali, nel frattempo, riusciva spesso a darle qualche piccola gioia.
Inoltre, la consuetudine ch'egli aveva lungamente coltivata dell'alta società, del lusso, gliene aveva instillato, insieme al disprezzo, il bisogno, così che, da quando aveva cominciato a collocare gli appartamenti più modesti esattamente sullo stesso piano delle più principesche dimore, i suoi sensi erano talmente avvezzi alle seconde che avrebbe provato qualche disagio a trovarsi nei primi.
Nutriva la medesima considerazione - a un livello di identità cui essi avrebbero stentato a credere - per dei borghesucci che facevano quattro salti al quinto piano di una scala D, pianerottolo a sinistra, e per la principessa di Parma che dava le più belle feste di Parigi; ma non aveva la sensazione di trovarsi a un ballo se stava con i signori nella camera da letto della padrona di casa, e la vista di un lavabo ricoperto di asciugamani, di un letto trasformato in guardaroba, sul cui piumino s'accatastavano soprabiti e cappelli, gli dava lo stesso senso di soffocamento che può dare oggi, a persone abituate da vent'anni all'elettricità, l'odore di una lampada che arde o il fumo di una "veilleuse".
Quando pranzava fuori, faceva preparare la carrozza per le sette e mezzo; vestendosi, non smetteva di pensare a Odette e così non si sentiva solo, giacché il costante pensiero di lei conferiva ai momenti in cui ne era lontano lo stesso singolare incanto di quelli segnati dalla sua presenza.
Si sedeva in carrozza, ma sentiva che quel pensiero vi era a sua volta salito e si sistemava sulle sue ginocchia come un animale adorato che si porta ovunque e che lui avrebbe tenuto con sé anche a tavola, all'insaputa dei commensali.
L'accarezzava, si riscaldava ad esso e, provando una sorta di languore, s'abbandonava a un lieve fremito che gli increspava il collo e il naso, ed era nuovo in lui, mentre si fissava all'occhiello il "bouquet" di aquilegie.
Sentendosi triste e in cattiva salute da qualche tempo, soprattutto da quando Odette aveva presentato Forcheville ai Verdurin, Swann sarebbe andato volentieri a riposarsi un poco in campagna.
Ma non avrebbe avuto il coraggio di lasciare Parigi per un solo giorno finché Odette era in città.
Faceva caldo: erano i giorni più belli della primavera.
E aveva un bell'attraversare una città di pietra per recarsi in qualche chiuso palazzo, quel che gli stava senza tregua davanti agli occhi era un parco ch'egli possedeva nei pressi di Combray, dove, dalle quattro in poi, prima d'arrivare alla piantagione d'asparagi, grazie al vento che soffia dai campi di Méséglise, si gustava sotto una pergola altrettanta frescura che sulle rive dello stagno orlato di gladioli e di miosotis, e dove, pranzando, egli vedeva tutt'intorno alla tavola, intrecciate dal suo giardiniere, ghirlande di ribes e di rose. Dopo pranzo, se l'appuntamento al Bois o a Saint-Cloud era fissato di buonora, egli se ne andava così in fretta appena finito di mangiare soprattutto se la pioggia minacciava di far rincasare precocemente i "fedeli" - che, una volta, la principessa des Laumes (dalla quale si era pranzato sul tardi, e che Swann aveva lasciata prima che venisse servito il caffè per raggiungere i Verdurin all'isola del Bois) disse: - Decisamente, se Swann avesse trent'anni di più e una malattia alla vescica, gli si perdonerebbe di tagliare la corda in questo modo.
Comunque è chiaro che se ne infischia degli altri.
Swann si diceva che l'incanto della primavera che non poteva assaporare a Combray l'avrebbe almeno ritrovato nell'isola dei Cigni (60) o a Saint-Cloud.
Ma poiché non riusciva a pensare che a Odette, non sapeva nemmeno, dopo, se aveva sentito l'odore delle foglie, se c'era stato o no il chiaro di luna.
Lo accoglieva la piccola frase, suonata in giardino sul pianoforte del ristorante.