venerdì 22 novembre 2019

LA NUOVA STAGIONE
Silvia Ballestra

“Una posizione meravigliosa, un bel fiume profondo. Unica cosa è che, certo, bisogna mettere un po’ a posto, ripulire… In primo luogo, diciamocelo pure, buttar giù tutti i rustici, compresa questa casa, che non servono più a niente, tagliare il vecchio giardino dei ciliegi…” Anton Čechov, Il giardino dei ciliegi

 “Di lassù si vede luccicare il mare all’orizzonte e si abbraccia tutto intero il poderoso nodo montano; intorno, colline di forme capricciose, brevi pianure come piazzuole verdi e piccole valli scavate dai fiumi che, buoni buoni, se ne vanno dai monti al mare serpeggiando con grazia.” Dolores Prato, Campane a Sangiocondo


L’estate che le mie cugine vendettero la terra fu un’estate di particolare siccità. L’anno con meno pioggia degli ultimi due secoli. In compenso a luglio c’era stata una grandinata spaventosa sulla costa. Su un paio di paesi del sud delle Marche si era abbattuta una sassaiola di ghiaccio dalle zocche grosse come limoni. La spiaggia, dopo quella furiosa passata, era imbiancata manco fosse Natale. Tutte le tapparelle delle finestre verso nord apparivano bucherellate come per effetto di mitragliate. Facciate di case da rifare, tettucci e cofani delle macchine bugnati da piccoli crateri, foglie segate longitudinalmente, tendoni squarciati come da pugnalate, vetri delle finestre in frantumi. Era durato poco ma era stato stupefacente e, dopo, abitanti e turisti si aggiravano per le vie come se fossero stati flagellati, presi a schiaffi dal cielo. Mesi prima, altri eventi eccezionali avevano ferito quei posti. Terremoti di forte intensità avevano colpito l’entroterra causando centinaia di vittime e danni terribili a decine di paesi. Era successo in agosto, poi di nuovo a ottobre, poi a gennaio. Con i terremoti dell’inverno era arrivata anche un’enorme nevicata che aveva provocato una grossa valanga: tonnellate di ghiaccio e pietre e alberi e neve avevano investito un albergo abruzzese seppellendolo e uccidendo ventinove persone. Quella parte di Italia, il centro del paese che molti indicavano con immagini come il cuore, o la spina dorsale, dunque oltre che luogo mediano e interno anche nucleo innegabilmente vitale e forte, capace di irrorare e dare rilievo a tutto il resto, era sotto shock da allora, dalla notte di agosto di un anno prima. E faticava a riprendersi. Era come se quei luoghi, da sempre dolci e domestici, accoglienti e benigni, si fossero trasformati in posti aspri e oscuri. Incattiviti. Imprevedibili. Sibillini come il nome di una delle loro catene montuose. Le quiete colline si muovevano. In montagna, le gole normalmente percorribili franavano. Le belle piazze dei paesi si mostravano ostili. Gli amati borghi sembravano volersi liberare degli abitanti, svuotarsi. Le casette di pietra antiche, magari ingentilite da belle linee e decori, si scrollavano via pareti e tetti e balconi, avendo avuto l’accortezza di allontanare tutti con una scossa di avvertimento che aveva evitato altre vittime. La terra sgroppava. Lo aveva sempre fatto, nei secoli, ma in quel modo brutale e spaventoso non succedeva da un pezzo. I più vecchi erano stati portati via, alcune famiglie e certi giovani tenaci provavano a resistere, ma molti si erano trasferiti altrove, scacciati dai crolli e dalla tensione continua per le scosse che non cessavano, seppure ormai si manifestassero solo a bassa intensità, come brontolio, come ringhio sommesso. Per pura coincidenza, non troppo distante da quei luoghi, fu in quei mesi che le mie cugine Olga e Nadia Gentili si separarono dai terreni che la loro famiglia aveva posseduto più o meno da dopo l’Unità d’Italia: al contrario di chi si era visto crollare il mondo addosso, loro con quella vendita chiudevano per sempre una piccola storia e si congedavano da un passato remoto e dai luoghi di famiglia, per scelta. O, almeno, così pensavano loro. Fu una strana estate. Sospesa, di passaggio. Mi capitò di accompagnarle in un paio di occasioni (la visita all’ufficio tecnico del Comune di Altodono, una sortita alla ricerca di una macchina cippatrice a Servino) e ne approfittavamo per entrare e uscire dalle chiese, aggirarci per le vie, ammirare le mura dei paesi come se le vedessimo per la prima volta. Dopo quello che era successo, un nuovo affetto ci legava a quei posti. Una volontà di cura, di protezione, di conoscenza. Perché, mi aveva detto Olga che fra l’altro non viveva più lì da tanto tempo, era vero: quei posti la facevano dannare, e spesso l’avevano fatta sacramentare, ma lei non gli aveva mai voluto bene come in quei mesi terribili. Quei luoghi le davano delle preoccupazioni, dei pensieri e talvolta anche dei dispiaceri, ma non poteva fare a meno di loro. E lei, che veniva da una famiglia di proprietari terrieri, queste figure che risalivano a un passato di cui, diversamente da altrove, ci si era liberati in modo incruento e graduale e in fondo da poco, si trovava a fare i conti non solo con la materialità dei suoi beni, ma anche con i ricordi dell’infanzia, con la vita di tante persone che avevano lavorato insieme a lungo e con l’alternarsi di stagioni, più o meno floride, più o meno dense, che avevano governato quei luoghi come un regno. Ma di chi erano quei luoghi? Di chi li aveva accuditi o di chi li sentiva suoi per esserci nato e cresciuto? Nel momento in cui a Olga, alla sorella Nadia e alla madre Liliana toccava fare un passo indietro affidando ad altri ciò che era stato il loro vecchio patrimonio, tutti gli sforzi e l’umana piccolezza dell’avvicendarsi su quella terra le tornavano in mente in forma di lascito e retaggio, storia sommersa e comune che veniva allo scoperto. Come ogni anno, a giugno facemmo un’escursione sulla Sibilla, questa montagna che per secoli aveva attirato viandanti, pastori, pellegrini e ora turisti. Sorge, maestosa e allo stesso tempo accessibile, fra il monte Vettore e il monte Priora. Per arrivarci bisogna puntare su Montemonaco, un grazioso borgo dallo spettacolare balcone a sprofondo su verdissimi dirupi, dove ci si può fermare a rifornirsi di panini con la lonza o con il ciauscolo. Fette di pane enormi che richiedono buone mascelle, da accompagnarsi poi con un dolce ricotta e cioccolato o con una fetta di crostata alle visciole comprati al forno del paese. Roba buonissima, vere bombe che aiutano ad affrontare le scarpinate in quota. Presi i rifornimenti in centro, si ripartiva verso la frazione Collina, da dove sarebbe iniziata la salita in macchina fino al rifugio, su una pietraia che, dal basso, sembrava una serie di zeta sovrapposte e schiacciate, un vero sfregio alla montagna. Una strada di un chilometro e mezzo che però faceva più impressione vista che affrontata. Una volta imboccata, saliva, sì, con i suoi bei tornanti, ma era larga abbastanza e percorribile senza troppi problemi. A metà c’era sempre un gregge con la guardiania di cani bianchi – il pastore, invisibile, forse ricoverato nella roulotte ai lati della strada, forse al bar giù in paese – che a volte abbaiavano a volte ti fissavano in preoccupante silenzio. Se guardavi bene, passando, potevi vederne un paio immobili dietro le rocce, disposti a protezione del gregge secondo orientamenti noti solo a loro. Nel parcheggio del rifugio c’erano, di solito, non più di tre-quattro macchine, almeno in quei primi mesi estivi e a metà settimana, i giorni che sceglievamo noi per non incontrare troppe persone. Avevamo cominciato a fare escursioni solo da una ventina d’anni, da quando erano nati i figli di Olga e Nadia. La generazione dei nostri genitori era più per la montagna in inverno: sci e slittino, camminare neanche a pensarci. Poi noi avevamo cominciato a salire dalla costa, a esplorare la parte montuosa della nostra regione proprio per “spezzare il mare”, mettere una pausa ogni tanto al fluire di nuotate e sudaticcio e cappone d’afa che dai primi anni del nuovo millennio, già a fine maggio, attanagliava pianura e città anche per settimane. “Passami le racchette,” avevo chiesto a mia nipote, che mi aveva guardato beffarda mentre prendeva gli zaini dal bagagliaio della macchina. “Sì, sono una vecchia,” dissi. “Le racchette servono a noi vecchie. E se continui a ridacchiare te ne do una in testa. Come fanno, per l’appunto, le vecchie.” Ero fiera delle mie racchette. Da quando ne avevo acquistato un paio blu metallizzato, per quindici euro, scendevo che era una meraviglia. Servivano più per la discesa che per la salita. “Sembra ieri che dovevamo metterli negli zaini porte-enfant,” disse Olga. “E adesso ci prendono in giro se rallentiamo un po’ per rifiatare.” “Sì, fino a pochi anni fa li portavamo alla festa delle streghe e dei folletti di Montalto e adesso dicono che le streghe le portano loro.” “Yuuuhu,” ci salutarono ormai a distanza i ragazzi, decisi a raggiungere il luogo che la leggenda voleva ritrovo di demoni e ombre notturne ma che al sole del mattino estivo era una magnifica meta da escursione classificata “facile”. Nadia, Olga e io avevamo camicie leggere, scarponcini vintage antistorta e antivipera che avevano già affrontato il ghiaione delle Lame Rosse e i pantani di Accumoli, un paio di zaini con il mangiare e le bottigliette dell’acqua, felpe annodate in vita. “Imo,” aveva proclamato Olga, facendosi scudo al sole con la mano. Forse in italiano esisteva solo “ite”, ma non importava. Era uno sprone. Partimmo. La prima tratta era ancora abbastanza erbosa, poi i ciuffi si diradavano e i fiori di campo lasciavano il posto alle specie appenniniche: cardi, stelle e fritillarie che occhieggiavano, piccole e isolate, gialle e viola, tra i sassi. All’inizio era meglio procedere in silenzio. Già dopo dieci minuti il sole picchiava sul coppino. Mi fermai a mettermi una manata di crema dietro il collo e quando ripresi a camminare mi accorsi di essere rimasta ultima. Le mie cugine salivano e avevano già svoltato un tornante; i ragazzi, avanti, manco si vedevano più. Attorno ronzavano insetti a tutto andare e avevo la netta impressione che l’odore pungente della crema protettiva li richiamasse tutti su di me. A destra si apriva il panorama verso il mare. Da quella parte c’era Montefortino e, celata alla vista, Amandola. Era la parte dell’Infernaccio, con la sua gola ombrosa e sgocciolante. In fondo, nella spaccatura che divideva la Sibilla dalla Priora, le sorgenti del fiume Tenna ruscellavano nelle “pisciarelle”, un nome graziosetto, e allo stesso tempo crudo e sboccato, per le cascatelle sotto cui dovevi passare per forza, volendo affrontare la salita all’eremo di San Leonardo. Da noi era tutto così: pizzo del Diavolo e Infernaccio e Passo Cattivo, ma anche pisciarelle. Escursioni per famiglie, ma anche elisoccorso che ogni tanto doveva andare a ripescare qualche tedesco in cordata sul Palazzo Borghese o aiutare comitive di boy scout rimaste bloccate nell’Ambro. Placide terme per anziani a Sarnano, ma anche terremoti da cui dover fuggire a gambe levate. Posti da picnic domenicale, ma anche campi paramilitari a Venarotta per terroristi neri di Ascoli Piceno. Culto dei papi mandati a Roma da quelle terre, ma anche bestemmie a profusione. Divino e pagano, antico e moderno. Musica e urlo. Scossi la testa; così, da sola. Pensai alla piscia della befana, di cui parla un Leopardi dodicenne in una lettera scherzosa a una conoscente, firmata, appunto, “la befana”. Procedevo, puntando le mie picche accordate al ritmo dei passi – corti e regolari come si raccomanda in montagna – e pensavo alla natura matrigna, a come si era rivelata all’improvviso, da quelle parti, mesi addietro. Pensavo che non eravamo certo i primi ad assistere a sconquassi del genere lì, ma pensavo pure che i precedenti più gravi risalivano a centinaia d’anni prima. E che a Norcia, per esempio, di là dal Vettore alle mie spalle, sotto la stupefacente piana di Castelluccio, la basilica aveva sofferto per vari terremoti ma solo questa volta si era sbriciolata. Seguivo docilmente il sentiero sapendo che la leggenda della Sibilla suscitava ancora meraviglia e interesse, pure dopo secoli, anche se non riuscivo a cogliere il lato pauroso della faccenda. Nel tempo, poi, la sua figura era cambiata, attraversando paganesimo e cristianesimo, dai culti del sole, delle pietre e della terra, alla stregoneria medievale, passando per la letteratura, fino ad arrivare alla saggezza matristica di conoscitrice ed esperta di tecniche agricole, allevamento, artigianato, medicina e alimentazione. C’era chi si lasciava affascinare dal lato erotico della Sibilla, regina bellissima che con le sue fate e il ballo del saltarello insegnava ai giovani l’arte della seduzione, e chi si soffermava sul suo ruolo di depositaria della memoria e sulle capacità di vaticinio del futuro. La storia, narrata la sera nelle veglie notturne, col fiato delle bestie e l’odore di ammoniaca che saliva in vapore dai pagliericci alla luce di candele, voleva che nella grotta dentro la montagna che ora mi si parava davanti vivesse una signora che, seduta al telaio, tesseva una trama con raggi di sole filtrati dalle crepe sulle rocce intrappolandoli nel suo ordito. E che nel tessuto di luci e ombre rimanesse impigliato il tempo in disegni e colori diversi, per le donne e per gli uomini, per gli animali e per le piante. E che ogni giorno le tre sorelle della signora indossassero i vestiti ricavati da quei tessuti, nei quali erano fissati i segni dello scorrere delle stagioni e degli eventi. La sorella vestita di bianco portava il vento, quella di rosso e oro portava il caldo di mezzogiorno, la sorella vestita di nero il sonno. Chi voleva cambiare vita doveva arrivare al telaio, guardare i disegni della stoffa e porre tre domande alla tessitrice, ma non doveva farlo per sé o con il misero intento di arricchirsi e ottenere potere, altrimenti le sorelle lo avrebbero punito: la bianca scaraventandolo sulle rocce con il suo figlio vento, la rossa facendolo bruciare da suo figlio sole, la nera buttandolo nella voragine davanti alla grotta e condannando le sue ossa a mai dormire e a illuminarne l’entrata con il loro biancore. E questa era solo una delle storie su quei monti magici. L’altra narrava di un sabba che si era protratto troppo a lungo, con le fate della Sibilla che se la spassavano insieme ai pastori per i campi e la loro regina che, arrabbiata, scagliava pietre dalla cima provocando terremoti. Mi aveva fatto molta impressione un video che era circolato sulle televisioni e che ora si trovava naturalmente in rete: quello dei cacciatori appostati con i fucili carichi, che erano stati sorpresi dal terremoto in cima alla loro garitta. Era una bellissima mattinata, tersa e tranquilla e tutto attorno, all’improvviso, le foglie tremavano, come scosse da furie invisibili, sul monte davanti si levava lo sbuffo di polvere di qualche crollo, i cacciatori bestemmiavano e dicevano: “Questo ha ammazzato la gente,” con un accento che conoscevo bene. E c’era orrore nella loro voce e preoccupazione per “balzo di Montegallo”, che era forse il loro stesso paese, visto da lontano. Da lassù, dove erano andati a caccia di poveri animali e dove erano stati scioccati dalla terra in rivolta, si capiva e si vedeva l’inquietudine della Sibilla. Manifesta, terribile. Mi riunii infine agli altri sul crinale, la prima tappa dell’escursione, forse il punto più spettacolare. Non era il più arduo da raggiungere, ma da lì potevi guardare oltre e ti si rivelava una fuga inaspettata di cime e dirupi immacolati, deserti e verdissimi che apparivano come raccolti in una conca di cui non si capiva la profondità. Il vuoto, il vento, il silenzio sono i padroni di quei luoghi da contemplare. Olga e Nadia erano ferme ad aspettarmi. Olga seduta su un mucchio di pietre, Nadia in piedi con il peso poggiato sulla gamba destra dritta davanti, a squadra. I ragazzi erano discosti, sulla destra, sul monte Zampa, la cui cima, per uno strano effetto di prospettive, sembra lontana e remota quando invece per raggiungerla ci vogliono solo pochi minuti di cammino. Da lì dove si trovavano, la vista era ancora diversa: spaziava sul versante orientale delle Marche, quasi fino al Conero, sulle valli verso il mare. Da qualche parte laggiù, un po’ immersi nella foschia tremolante da calura, c’erano i loro terreni. “Quei grandi cerchi nell’erba,” dissi alle mie cugine, indicando il fianco della montagna, “li fanno dei funghi.” “Allucinogeni?” “Non credo. A parte che da qui non si vedrebbero, ma penso siano addirittura sotterranei. Possono rendere l’erba più verde o più secca, a seconda della specie. Ma comunque si propagano a cerchio.” “I cerchi delle streghe,” disse Olga. “I fairy circles.” “Eh,” dissi. “Le streghe non c’entrano nulla, sono funghi.” “Qui la terra si muove, ci sono le frane, compaiono questi enormi cerchi sull’erba. Capisci che il luogo è parecchio sibillino,” disse Nadia. Rievocai la volta che, salendo in macchina verso Tallacano, dietro una curva mi ero trovata una ragazza seduta in mezzo alla strada. “Schivata per un pelo, sembrava proprio fatta. E quando siamo ripassati in giù, era sparita nel nulla. Ma non c’erano paesi o frazioni vicino: solo faggete.” Nadia disse che le ricordava la storia misteriosa di diverse persone che avevano trovato un uomo insanguinato, vittima di un incidente, lungo una strada di montagna lì vicino ed erano andate a cercare aiuto ma quando erano tornate l’uomo era sparito, non c’era più nessun incidente e non ne era rimasta la minima traccia. Era pure una scena eclatante: cioè, avevano visto quest’uomo travolto da un camion che trasportava tronchi e qualche albero era pure caduto dal pianale. E dopo venti minuti, invece, non c’era più niente. Manco una forcella, una foglia fuori posto. “Me lo ricordo vagamente,” dissi. “Di che parlate?” chiesero i due ragazzi di ritorno. “State di nuovo infamando l’eremita, con quella storia di festini e limousine, donne e bisbocce?” “Intanto non era di qui, ma umbro,” disse Olga. “Sì, sì, le nefandezze solo gli umbri e gli abruzzesi,” sghignazzarono loro. “Quelli di qui, mai. Tutti santi, tutti boni. Tutti eremiti genuini.” “Guardate che era una cosa vera,” intervenni. “Si era costruito davvero una galleria abusiva che portava nel cuore della montagna e dentro ci teneva parcheggiata la macchina. Era una Porsche, non una limousine, che non può mica inerpicarsi per i tornanti. Una Porsche Cayenne o un jeeppone. E l’amante ce l’aveva. Pure più di una.” Olga, seria, si lamentò che non era possibile mettere sempre tutto in burletta. E che voleva conoscerla, la donna che si accompagnava a un eremita puzzolente. “Ma non è una burletta, come dici tu,” protestai io. “È una storia verificata, un caso abbastanza noto. Risale agli anni novanta, mica a chissà quando!” Ci riferivamo a uno scandalo di paese, la vicenda di un frate molto chiacchierato di cui avevamo parlato l’anno prima, in quello stesso punto. L’anno prima avevamo pure parlato della famiglia scomparsa. Una storia classica di sparizione misteriosa da una casa isolata in montagna, con tutta la tavola imbandita per la cena rimasta intonsa, la porta sprangata da dentro, padre madre figli mai più visti. E questo doveva essere successo negli anni cinquanta, sotto la montagna dell’Ascensione. Dalle parti del maceratese, sul monte d’Aria, chiamato anche “buca d’aria” per il cratere d’un vulcano ormai spento ricoperto da una fitta boscaglia, c’era una villetta al centro di una vicenda analoga (famigliola sparita all’improvviso con in più tracce di sangue in cucina). Erano trame ricorrenti, con solo qualche piccola variazione, racconti di paura e mistero, genere che poi si trasforma in casa degli spiriti o casa diroccata. Molto diffusi in zone montuose, dunque isolate quando non abbandonate. “Ora noi si va alla corona della Sibilla,” disse Nadia, “senza por tempo in mezzo.” Io da lì però non mi sarei più mossa. Soffrivo di vertigini e la linea netta del sentiero in cresta mi stava mettendo ansia. C’era vento, era questo che mi inquietava. Li lasciai andare avanti, con me rimase Olga. Dopo appena due minuti, Nadia e i ragazzi erano figurette un po’ curve che salivano verso la cima come elfi in processione, creature sognanti di cui distinguevi ormai solo il profilo, arcane e silenziose in equilibrio su una frattura. Si stagliavano nell’azzurro profondo del cielo solo a tratti oscurato da nuvole che passavano veloci, fiocconi bianchi rotolanti verso le cime del monte Bove e del Redentore come gigantesche ruzzole spinte dal vento. Il gioco delle ombre era stupefacente e irreale, cambiava continuamente contorni e distanze. “Ce la fai?” mi chiese Olga, gentilmente. “Proviamo, appena il vento si placa un po’ andrà meglio,” dissi. “Se proprio non riesco, torno indietro e vi aspetto alla macchina, ok? Ridiscendo da qui.” Il vento pettinava l’erba scuotendo i ciuffi più lunghi, con un rumore sordo e misterioso. Lontano, sotto di noi, una manciata di briciole bianche in mezzo a un prato che potevano essere pecore o una frana di pietre. Da lì non si capiva bene. “Non ti lasciamo da sola, che fai la fine delle tipe di Hanging Rock.” “Sono troppo vecchia per fare la fine delle ragazze di Hanging Rock, non mi si prende nessuno, manco la montagna. Non ancora, almeno.” “Ma dobbiamo andare a chiedere alla Sibilla!” rise Olga. “Dobbiamo fare l’anello. Vuoi perderti la sentenza?” “Perché, dobbiamo andare a chiedere delle cose? Non basta arrivare su e mangiarci i panini guardando il panorama?” “Vedrai,” rise di nuovo. “La maga stavolta ci deve aiutare!” Le dissi che mi serviva ancora qualche minuto. Forse il vento si sarebbe placato, oppure mi sarei fatta coraggio e basta. Non volevo bloccarla, obbligandola a rinunciare alla compagnia degli altri e alla corona della Sibilla che per lei non era un problema. “Forse più che a cosa ci aspetta, dovremmo pensare a quello che ci lasciamo alle spalle,” dissi. “Ci penso continuamente, a quello che ci lasciamo alle spalle,” disse lei, avvicinando con lo scarponcino una pietra a una piramidella di altre pietre che qualcuno aveva ammucchiato ai lati del sentiero. “Lo conosco e cerco di conoscerlo sempre più a fondo. Però, innegabilmente, alcune cose si allontanano sempre più. E comunque niente è statico, mai.” “Manco queste montagne,” aggiunse. “Persino loro si muovono.” Se c’era un tempo per dirlo, era proprio quell’estate. Alla base del canalone sotto di noi spuntò una coppia. A breve sarebbero arrivati dove eravamo, sicuramente si sarebbero fermati anche loro per le foto e per guardare nell’Infernaccio. Mia cugina disse che dall’indomani lei e sua sorella sarebbero state impegnate nelle vicende che riguardavano la “dismissione” degli ultimi pezzi della vecchia azienda agricola. Ci sarebbero state altre gite nel corso dell’estate, disse, ma gran parte delle giornate sarebbe stata dedicata allo sgombero delle piante, a sistemare le carte e a impazzire dietro la mostruosa creatura nota a tutti con il nome di burocrazia. Al solo pensiero le veniva voglia di buttarsi di sotto. “Considera che dopo sarai più libera e leggera,” dissi. “Pensalo come una nuova stagione, l’inizio di una nuova fase, non solo la chiusura di una vecchia.” Disse che, se era per questo, non vedeva l’ora. Ma che non era semplice come vuotare e vendere una casa, operazione già logorante e da incubo per molti figli. “Cerchiamo di sostenerci,” disse sospirando. “Dateci una mano anche voialtri, che io e Nadia siamo già un po’ provate.” La coppia ci aveva quasi raggiunte. Sembravano ben attrezzati e determinati, non dei fanatici ma neanche due che avevano deciso all’ultimo momento di salire. Parlavano con accento romano e stavano rievocando escursioni passate. Ci salutammo, cortesemente. Dissero qualcosa sul tempo e ci chiesero di un ristorante di Castelsantangelo sul Nera che aveva riaperto dopo il terremoto. Erano fra i pochi venuti a visitare quelle zone. Pensai si trattasse del genere di persone che, viaggiando, preferiscono tornare nei luoghi dove sono state bene per conoscerli ogni volta meglio invece di cercare sempre cose nuove. Era più o meno il mio stesso atteggiamento per cui pensai che, a quel punto, volessero anche campo libero e desiderassero restare soli. Così mi misi in piedi, allacciai il giubbino fino al collo, inforcai gli occhiali da sole graduati e mi rassegnai a seguire Olga, cercando di non guardare troppo in basso e non pestare le cacarozze di pecora infestate di mosche cavalline che punteggiavano il sentiero. “Si conclude, va a buon fine la vendita?” urlò Olga, un’oretta più tardi, contro la parete di una casa che, unica sulla montagna e quasi nascosta su un fianco dei pascoli, era stata edificata negli anni settanta e poi chiusa, forse sequestrata. “Ita, ita, ita,” le rispose l’eco. “Ita può voler dire sia che è andata nel senso che non si quaglia, sia che è andata in porto,” considerò Nadia, perplessa. “Entrambe le cose.” “Uhm,” disse Olga, “proviamo con palme.” “Ce ne liberiamo, delle palme?” urlò. La risposta fu “alme, alme, alme” che i ragazzi interpretarono come “calme” di state calme, o, sghignazzando, come “salme” di forse quando sarete salme. Olga si lamentò che non si capivano, quelle risposte. “Troppo sibilline.” “Che pretendi. Gli oracoli sono vaghi. In più, il procedimento non è ortodosso. Così sono buoni tutti. Con l’eco, urlando come pescivendole,” dissi. “Ti rimane la terza domanda, però,” le segnalò il figlio. “Ok,” disse lei, prendendo fiato. “Ce l’ho. Senti: le tagliamo queste radici?” E sulla Vallelunga si sentì risuonare nell’aria “ici, ici, ici”, rimbalzante come un ciottolo sulla superficie dell’acqua. “Secondo me, mamma, ti hanno ricordato che devi pagare l’Ici. Oppure, hanno risposto ‘che cacchio dici’,” interpretò lui per tutti noi. “L’Ici non c’è più, si chiama Imu e non me la nominare per favore,” tagliò corto lei. “Poi secondo me hanno detto che siamo troppo cinici. Ici era la coda di cinici, ok?” I più agili tra noi fecero uno scatto in avanti verso il sentiero che proseguiva in discesa. Guardammo un’ultima volta verso la cima della Sibilla che adesso, essendo passato il sole, aveva ombre più lunghe, e riprendemmo tutti a scendere in silenzio. Olga era particolarmente angustiata al pensiero di abbandonare per sempre il tasso che non aveva mai visto, la grande quercia secolare che reggeva un’intera scarpata, la non organizzazione del paesaggio a cui aveva concesso di prendere il sopravvento e, sebbene non l’avesse mai padroneggiata fino in fondo, anche una parte della lingua di quei luoghi che forse non avrebbe udito più. In cuor suo si sentiva una traditrice e una mass murderer di palmizi. Su quest’ultima cosa scherzava ma dopo aver letto un paio di saggi sulla raffinatezza sociale e l’intelligenza delle piante, sui loro sensi – quindici in più di quelli umani – e sulla loro capacità di comunicare, sentiva di star facendo una cosa che non avrebbe proprio voluto fare. Della presenza del tasso si sapeva grazie alle tracce lasciate sul terreno. Unghiate attorno alle piante nel campo dei meloni e impronte di dentini sui frutti, scelti tra i più belli e profumati, oltre al grosso buco vicino alla quercia, dietro il capanno degli attrezzi, che sembrava proprio l’ingresso di una tana. Doveva essere la classica galleria che porta a diverse stanze ipogee, talvolta condivise con una volpe da cui i tassi si fanno pagare l’affitto sotto forma di cibo e resti di carcasse. O magari abitate da vari altri membri della famiglia, chissà, ragionavano le mie cugine accucciate a contemplare la nera cavità. Erano convinte che il tasso fosse uno solo – lo avevano sempre chiamato il tasso, al singolare – perché, pur avendo letto che, come bestia, poteva coabitare con diversi nuclei familiari, non avevano mai visto nessuno degli eventuali parenti. E comunque non avevano mai visto nemmeno il titolare: non l’avevano mai beccato a portare fuori foglie e muschio dalle sue camere sotterranee per metterli a scaldare al sole in inverno, né l’avevano pizzicato a banchettare con i famosi meloni buoni in estate, né era mai stato visto sotto la siepe durante il giorno sdraiato a godersi il paesaggio olfattivo della campagna come fanno talvolta i tassi per sfuggire alle tensioni in casa o per far giocare eventuali cuccioli. E, di sicuro, mai avrebbero potuto vederlo al lavoro, intento a costruire la tana che doveva scendere fin sotto le radici della quercia e diramarsi in vari cunicoli con uscite secondarie e prese d’aria. Il tasso è uno scavatore. Un architetto del sottosuolo, un abitatore profondo dei luoghi (così dicono gli etologi e forse anche certuni un po’ sciamani). Con il suo buon carattere e il pelo folto dalle nobili insegne, il tasso è considerato, in tutto il mondo, un animale fortemente simbolico: un filosofo e un poeta dallo strettissimo legame con i luoghi, in quanto abile costruttore della casa che poi gli eredi si tramandano per generazioni ampliandola e migliorandola. Doveva aver marcato il terreno in lungo e largo, secondo Olga e Nadia, ed era da considerarsi il custode, invisibile, animale, selvatico, della loro proprietà. Sapevano che era la laboriosa creatura capace di tenere uniti il sotto e il sopra, l’essere un po’ sovrannaturale e al tempo stesso assai terrestre che aveva accesso alle viscere della collina ove si immergeva segretamente, facendo la spola dentro e fuori per stringere un legame ancora più forte tra ciò che vi era, là sotto, di sepolto e notturno e ciò che invece era all’aria, disteso e alla luce. Da loro aveva scelto la parte più bella di tutte. Quella sotto la quercia monumentale, la zona lasciata in pace dai trattori e dalle colture in quanto un po’ scoscesa e vicina al fosso. Lì, accanto al vecchio letamaio, proliferavano i biancospini in una formazione, a primavera e nei primi mesi estivi, spettacolare e profumatissima. Sotto, dunque, si immaginava dovessero ramificarsi le gallerie e le stanze della tana che poteva avere altri sbocchi comodi nel folto del fosso – da cui ogni tanto si sentivano grufolare dei cinghiali – e più su, a salire la collina, dove un mattino avevano trovato i resti di una pelliccia di lepre. E comunque Olga e Nadia avrebbero dovuto abbandonare anche la quercia, ma almeno quella la sapevano protetta e tutelata, in vista com’era e sacra a tutti in quanto regina della loro regione, ultimo simbolo di foreste antiche sostituite dal paesaggio agrario e coltivato. Fin lì era scampata al taglio, anche se non sapevano come avrebbe reagito all’arrivo di avvelenatori senza scrupoli. Di uomini, pensava Olga da sempre conservazionista, ormai convertiti al pensiero industriale che, lavorando la terra esclusivamente con le macchine e per profitto a breve termine, si avviavano a trattare il mondo stesso che li circondava come un prodotto della tecnica invece che come una creatura viva da proteggere e rispettare nei limiti del possibile. Già il loro padre era stato molto attento a maneggiare le sostanze micidiali che dall’industrializzazione dell’agricoltura in poi avevano impestato la campagna. Ora però sarebberonon li aiutava e nonostante fossero conservatori su tutto il resto, di fronte all’eventuale guadagno si lasciavano andare alla spregiudicatezza e al menefreghismo. Dunque bisognava controllarli, vigilare, perché ogni tanto gli scappava la mano e si mettevano a segare cornioli, platani, gelsi e faggi da veri ignoranti e criminali. Per esempio, erano a rischio certi esemplari di prugnoli che mio zio aveva piantato decenni prima per fare da portainnesto a peschi e susini e che dopo, spariti i frutteti, avevano costituito protezione e casa per altre piante e uccelli. Su questo aspetto, sulla gestione della terra sia nella parte coltivata che in quella incolta, c’erano sempre stati attriti, divergenze, fra la visione contadina del mezzadro e quella del padrone o del fattore. E non era detto che il mezzadro la sapesse più lunga. Forse poteva saperne di più sulle tecniche, sulla parte pratica, ma la progettazione e la gestione era stata per secoli in mano alla proprietà e questo aspetto, nel pur giusto canto epico degli ultimi, era stato tralasciato. Ma non importava più: nuovi padroni arrivavano a reclamare, comprare, occupare. E a questo bisognava rassegnarsi. E poi c’era la lingua. Anche quella sarebbe un giorno andata persa. E le famose palme. Olga mi raccontò di quando, camminando tra i filari inselvatichiti di palme, aveva contato i passi per farsi un’idea di quante fossero. Un passo corrispondeva a un metro. Più o meno. Aveva fatto trinciare, che significa pulire da erbacce e rovi. “A ci sta le carge,” le aveva detto il contadino Secondo, quando l’aveva chiamato pregandolo di trovarle qualcuno che andasse da lei con la trincia e il trattore. arrivati altri, armati di autobotti, ghiaietta, diserbanti e smaniosi di ordine e pulizia, ben diversi dalle sorelle Gentili, così propense, negli ultimi anni, a lasciare che quello spazio naturale residuo si mantenesse rifugio per specie che non trovavano ospitalità . Sapevamo che i contadini quegli spazi li consideravano inutili e d’intralcio. Ma quanto si sbagliavano: dei veri villani! In questo, la loro conoscenza del  territorio non li aiutava e nonostante fossero conservatori su tutto il resto, di fronte all’eventuale guadagno si lasciavano andare alla spregiudicatezza e al menefreghismo. Dunque bisognava controllarli, vigilare, perché ogni tanto gli scappava la mano e si mettevano a segare cornioli, platani, gelsi e faggi da veri ignoranti e criminali. Per esempio, erano a rischio certi esemplari di prugnoli che mio zio aveva piantato decenni prima per fare da portainnesto a peschi e susini e che dopo, spariti i frutteti, avevano costituito protezione e casa per altre piante e uccelli. Su questo aspetto, sulla gestione della terra sia nella parte coltivata che in quella incolta, c’erano sempre stati attriti, divergenze, fra la visione contadina del mezzadro e quella del padrone o del fattore. E non era detto che il mezzadro la sapesse più lunga. Forse poteva saperne di più sulle tecniche, sulla parte pratica, ma la progettazione e la gestione era stata per secoli in mano alla proprietà e questo aspetto, nel pur giusto canto epico degli ultimi, era stato tralasciato. Ma non importava più: nuovi padroni arrivavano a reclamare, comprare, occupare. E a questo bisognava rassegnarsi. E poi c’era la lingua. Anche quella sarebbe un giorno andata persa. E le famose palme. Olga mi raccontò di quando, camminando tra i filari inselvatichiti di palme, aveva contato i passi per farsi un’idea di quante fossero. Un passo corrispondeva a un metro. Più o meno. Aveva fatto trinciare, che significa pulire da erbacce e rovi. “A ci sta le carge,” le aveva detto il contadino Secondo, quando l’aveva chiamato pregandolo di trovarle qualcuno che andasse da lei con la trincia e il trattore.