LE STRADE DELL'INNOCENZA
(Blood On The Moon, 1984)
James Ellroy
In ricordo
di Kenneth Millar
1915-1983
I lauri della nostra terra son tutti avvizziti,
E le meteore fan tremare le stelle fisse in cielo;
La pallida luna osserva insanguinata la terra,
E profeti dal volto scarno sussurrano terribili cambiamenti.
Shakespeare, Riccardo II
PARTE PRIMA
Primo sangue
1
Venerdì 10 giugno 1964 la stazione KRLA aveva dato inizio a una rassegna di vecchi successi. I due cospiratori che esaminavano il territorio su cui inscenare il "sequestro" alzarono al massimo il volume della radio portatile, per coprire il rumore dei seghetti elettrici, dei martelli e dei palan-chini; il concerto dei lavori di restauro della classe al terzo piano e la musica dei Fleetwood combattevano per avere la supremazia del frastuono.
Larry Craigie, soprannominato "Birdman", con la radio attaccata all'orecchio, stupiva dell'assurdità di quel lavoro di costruzione che si svolgeva poco meno di una settimana prima che la scuola chiudesse per le vacanze estive. Proprio in quel momento fecero passare la canzone di Gary U. S. Bonds: "Finalmente è finita la scuola, ce l'ho fatta e sono felice", e Larry cadde sul pavimento di linoleum coperto di segatura, torcendosi dalle risate. Magari la scuola era anche finita, lui certamente non ce l'avrebbe fatta, ma tanto non gliene fregava un cazzo. Si rotolò sul pavimento senza pensare che stava sporcando la camicia violetta Sir Guy appena lavata. Delbert Haines, detto "Whitey", cominciò a provare disgusto e incazzar-si. O Birdman era completamente fuori di testa, oppure ci marciava, il che voleva dire che il suo tirapiedi di vecchia data era più sveglio di lui, perciò stava proprio ridendo di lui. Whitey aspettò che Larry finisse di ridere e si mettesse in posizione per le flessioni. Sapeva cosa stava per dire: tutta una serie di osservazioni sconce del tipo che voleva fare le flessioni sopra Ruthie Rosenberg e farsi fare un pompino da lei mentre stava appeso agli anelli della palestra delle ragazze. La risata si interruppe, e Larry aprì la bocca. Whitey non lo lasciò neanche cominciare. Gli piaceva Ruthie Rosenberg, e odiava sentir parlare ma-le delle ragazze carine. Spinse la punta dello stivale contro le scapole di Larry, dove sapeva che i foruncoli gli facevano male. Larry cacciò uno strillo e balzò in piedi, stringendo la radio contro il petto.
Larry Craigie, soprannominato "Birdman", con la radio attaccata all'orecchio, stupiva dell'assurdità di quel lavoro di costruzione che si svolgeva poco meno di una settimana prima che la scuola chiudesse per le vacanze estive. Proprio in quel momento fecero passare la canzone di Gary U. S. Bonds: "Finalmente è finita la scuola, ce l'ho fatta e sono felice", e Larry cadde sul pavimento di linoleum coperto di segatura, torcendosi dalle risate. Magari la scuola era anche finita, lui certamente non ce l'avrebbe fatta, ma tanto non gliene fregava un cazzo. Si rotolò sul pavimento senza pensare che stava sporcando la camicia violetta Sir Guy appena lavata. Delbert Haines, detto "Whitey", cominciò a provare disgusto e incazzar-si. O Birdman era completamente fuori di testa, oppure ci marciava, il che voleva dire che il suo tirapiedi di vecchia data era più sveglio di lui, perciò stava proprio ridendo di lui. Whitey aspettò che Larry finisse di ridere e si mettesse in posizione per le flessioni. Sapeva cosa stava per dire: tutta una serie di osservazioni sconce del tipo che voleva fare le flessioni sopra Ruthie Rosenberg e farsi fare un pompino da lei mentre stava appeso agli anelli della palestra delle ragazze. La risata si interruppe, e Larry aprì la bocca. Whitey non lo lasciò neanche cominciare. Gli piaceva Ruthie Rosenberg, e odiava sentir parlare ma-le delle ragazze carine. Spinse la punta dello stivale contro le scapole di Larry, dove sapeva che i foruncoli gli facevano male. Larry cacciò uno strillo e balzò in piedi, stringendo la radio contro il petto.
«Non avresti dovuto farlo.»
«No» disse Whitey «però l'ho fatto. Io ti leggo nel cervello, pazzoide. Psicopatico fasullo. Per cui non dire male delle belle ragazze. Dobbiamo sistemare quella merda, non una ragazza.»
Larry annuì. Far parte di un piano tanto importante toglieva un po' del gusto che provava nell'attacco. Andò alla finestra più vicina e guardò all'esterno, e pensò allo stronzo con quei suoi mocassini frangiati e il maglione a rombi e quella faccetta da bravo ragazzo e alla sua rivista di poesia che faceva stampare al negozio di fotografia di Alvarado, dove viveva pulendo il negozio in cambio di vitto e alloggio.
La Rassegna di poesia della Marshall High.Poesie del cazzo, da mezzeseghe. Stronzate d'amore lagnose: tutti sapevano che erano dedicate a quella boriosa ragazzina irlandese trasferita dalla scuola parrocchiale e alle altre puttanelle tronfie della sua corte di amanti della poesia. E frecciate cattive contro di lui e Whitey e tutti i ragazzi giusti della Marshall. Il giorno che Larry si era fatto di colla e aveva riempito di gavettoni il Club della Canzone Folk, la Rassegna aveva commemorato l'occasione pubblicando una sua caricatura in uniforme da soldato tedesco e una didascalia acida:
"Ecco tal Birdman, nazista inveterato; di poche parole, e molto illetterato. Colpisce nascosto la sua arma è un cervello spento; ma più che uccello, egli è un escremento."
Con Whitey era andata anche peggio: dopo che aveva preso a calci in culo Big John Kafesjian in combattimento leale alla Rotunda Court, quel bastardo aveva dedicato un intero numero della Rassegnaa un poema "epico" in cui si narrava l'evento nei dettagli, definendo Whitey "un bifolco provocatore bianco", terminando con una previsione del suo destino in forma di epitaffio:
Mai autopsia rivelerà ciò che tale oscuro cuore sempre nasconderà, un tal becero gradasso, circondato da odio e terrore, mai nessun conosca, e sia questo il requiem di un peso mosca.
Larry si era offerto di vendicare Whitey e nello stesso tempo fare un favore anche a se stesso: il vicepreside aveva detto che se lo avessero preso a picchiarsi e a tirare ancora gavettoni lo avrebbero espulso, e bastava il pensiero di non dover più andare a scuola a farlo sbrodare tutto. Ma Whitey aveva rifiutato una soluzione semplice e rapida, dicendo: "No, sarebbe troppo comodo. Quella merda deve soffrire come abbiamo sofferto noi. Ci ha fatto ridere dietro da tutti. Noi gli restituiremo il complimento, e anche qualcosina in più".
Così avevano escogitato il loro piano, consistente nel pestarlo per bene, svestirlo, pitturargli i genitali e raparlo a zero. E ora, se tutto andava bene, era arrivato il momento. Larry guardava Whitey che disegnava svastiche nella segatura. A quel punto terminò Come Go With Me, cantata dai Del-Viking, e cominciò il notiziario. Voleva dire che erano le tre in punto. Do-po un istante Larry sentì gli schiamazzi, e rimase a guardare gli operai che raccoglievano i loro attrezzi e le apparecchiature elettriche per scendere lo scalone principale, lasciando i due soli ad aspettare il poeta.
Larry deglutì e diede di gomito a Whitey, timoroso di rovinargli quel capolavoro che stava ultimando in silenzio.
«Sei sicuro che viene? E se poi capisce che il biglietto è fasullo?»
Whitey alzò gli occhi e scardinò con un calcio l'antina semiaperta di un armadietto a muro. «Arriverà. Vuoi che non creda a un biglietto di quella figa irlandese? Penserà che è una specie di incontro amoroso di merda. Sta' tranquillo. Ho fatto scrivere il biglietto da mia sorella. Carta da lettera ro-sa, calligrafia da ragazzina. Solo che non sarà per niente un incontro amoroso. Mi segui?»
Larry annui. Lo sapeva bene. I cospiratori attendevano in silenzio, Larry intento a sognare a occhi a-perti, Whitey a frugare negli armadietti abbandonati per vedere se qualcuno aveva lasciato qualcosa. Quando sentirono i passi nel corridoio del secondo piano, sotto di loro Larry tirò fuori da un sacchetto di carta un paio di shorts e prese di tasca un tubetto di colla da modellismo. Ne spremette l'intero contenuto sugli shorts, poi si nascose contro la fila di armadietti vicina alla tromba delle scale. Whitey si accucciò al suo fianco, con un tira-pugni artigianale sulla destra.
«Amore?»
Quel vezzeggiativo sussurrato con esitazione precedette il suono dei passi che sembravano farsi più sicuri a mano a mano che si avvicinavano al pianerottolo dei due cospiratori.
Whitey contò a bassa voce, poi, quando ebbe calcolato che il poeta fosse a portata, spinse Larry da parte e si mise al suo posto vicino alle scale.
«Tesoro?»
Larry cominciò a ridere, e il poeta si bloccò a metà di un passo, con la mano sulla ringhiera delle scale. Whitey gliela afferrò e tirò forte verso l'alto, facendo finire il poeta a sbattere contro gli ultimi due gradini. Tirò di nuovo, e rilasciò la pressione giusto quanto bastava per far rivoltare il poeta e metterlo in ginocchio. Quando il suo avversario lo fissò con occhi im-potenti e supplichevoli, Whitey gli mollò un calcio nello stomaco, poi lo ti-rò in piedi mentre cominciava a tremare forte.
«Dài, Birdman!» strillò Whitey.
Larry avvolse gli shorts impastati di colla sulla bocca e le narici del poeta e spinse finché lui non cominciò a emettere gorgoglii vari e la pelle delle tempie gli diventò rossa e poi violacea mentre annaspava in cerca d'aria. Larry mollò la presa e indietreggiò, mentre i calzoncini finivano a terra. Il poeta barcollò e cadde all'indietro, contro un armadietto semiaperto. Whitey rimase dov'era; a pugni stretti, fissando il poeta che si strozzava per cercare di respirare, sussurrando: «Lo abbiamo ammazzato. Dio Cristo, lo abbiamo ammazzato.»
Larry era in ginocchio, pregava e si faceva il segno della croce. Poi finalmente il poeta ritrovò l'ossigeno e sputò una gran boccata di catarro col-loso, strillando una sillaba: «Ma... Ma...»
«Mascalzoni!»
«Mascalzoni!»
Esclamò la parola tutta d'un fiato, e mentre si trascinava in ginocchio il colore gli tornò al volto. «Mascalzoni! Luridi vermi, stupidi animali perversi e bifolchi!»
Whitey Haines cominciò a ridere, sentendosi sollevato. Larry Craigie cominciò a fare dei singhiozzi secchi e riadattò la sua preghiera stringendo le mani a pugno. La risata di Whitey cominciò a farsi isterica, e il poeta, che ora si era alzato, scaricò sui di lui tutta la sua furia: «Sporco gradasso, rifiuto puzzolente, rozzo buffone! Non c'è una donna che ti voglia toccare! Tutte le ragazze che conosco ridono di te e del tuo cazzettino di tre centimetri! Castrato buffone...»
Whitey diventò rosso in faccia e prese a tremare. Tirò un calcio nei genitali al poeta con tutta la forza che aveva. Il poeta cacciò un urlo e cadde in ginocchio. Whitey gridò: «Accendi la radio, mettila al massimo!»
Larry obbedì, e in tutto il corridoio cominciò a echeggiare la musica dei Beach Boys, mentre Whitey prendeva a calci e pugni il poeta, che si era rannicchiato in posizione fetale e balbettava "Mascalzoni, mascalzoni" mentre i due lo coprivano di colpi. Quando il volto e le braccia del poeta furono pieni di sangue Whitey indietreggiò per gustarsi la vendetta. Si tirò giù la lampo per il coop de grace liquido finale, e si accorse che gli era diventato duro. Anche Larry lo vide, e rivolse uno sguardo al suo capo per sapere cosa sarebbe successo. D'un tratto, Whitey si sentì terrorizzato. Abbassò gli occhi sul poeta, che gemet-te di nuovo "Mascalzoni", sputandogli poi un grumo di sangue sugli anfibi dalla punta in acciaio. Poi Whitey capì perché gli era diventato duro, e si inginocchiò accanto al poeta, gli tirò giù i Levi's e i boxer, gli divaricò le gambe e lo penetrò con forza. Il poeta urlò nel sentirlo entrare, poi i suoi ansiti si trasformarono in qualcosa di simile a una strana risatina ironica.
Larry obbedì, e in tutto il corridoio cominciò a echeggiare la musica dei Beach Boys, mentre Whitey prendeva a calci e pugni il poeta, che si era rannicchiato in posizione fetale e balbettava "Mascalzoni, mascalzoni" mentre i due lo coprivano di colpi. Quando il volto e le braccia del poeta furono pieni di sangue Whitey indietreggiò per gustarsi la vendetta. Si tirò giù la lampo per il coop de grace liquido finale, e si accorse che gli era diventato duro. Anche Larry lo vide, e rivolse uno sguardo al suo capo per sapere cosa sarebbe successo. D'un tratto, Whitey si sentì terrorizzato. Abbassò gli occhi sul poeta, che gemet-te di nuovo "Mascalzoni", sputandogli poi un grumo di sangue sugli anfibi dalla punta in acciaio. Poi Whitey capì perché gli era diventato duro, e si inginocchiò accanto al poeta, gli tirò giù i Levi's e i boxer, gli divaricò le gambe e lo penetrò con forza. Il poeta urlò nel sentirlo entrare, poi i suoi ansiti si trasformarono in qualcosa di simile a una strana risatina ironica.
Whitey terminò, se lo rimise nei calzoni e guardò il suo subalterno irrigidito dallo choc, in cerca di sostegno. Per rendergli le cose più facili, alzò il volume della radio finché la voce di Elvis Presley non divenne un gracchiare stridulo, dopo di che rimase a guardare Larry che seguiva il suo esempio.
Lo lasciarono dov'era, incapace anche di piangere o fare altro che non fosse perdersi nel vuoto di quella tragedia umiliante. Mentre i due stavano per allontanarsi, alla radio cominciarono a trasmettere Cathy's Clown, degli Everly Brothers. I due scoppiarono a ridere, e Whitey gli tirò un ultimo calcio.
Lui rimase disteso là finché non fu sicuro che la corte dell'istituto fosse deserta. Pensò al suo solo e unico amore e provò a immaginare che si trovasse lì insieme a lui, che gli avesse posato la testa sul petto, che gli stesse dicendo quanto amava i sonetti che componeva per lei.
Alla fine si alzò in piedi. Era difficile riuscire a camminare; ogni passo che faceva gli bruciava le viscere di un dolore lacerante che saliva fino al petto. Si toccò la faccia: era coperta di qualcosa di secco che doveva essere sangue. Si strofinò furiosamente con la manica finché dalle ferite non sgorgò di nuovo il sangue. Questo lo fece sentire meglio, e il fatto di non essere scoppiato in lacrime meglio ancora.
Fatta eccezione per qualche gruppetto di ragazzini ancora in giro che giocavano alla lotta libera, il cortile era deserto, e il poeta lo attraversò a passi lenti e dolorosi. Gradualmente, si rese conto di sentire un liquido caldo che gli scorreva sulle gambe. Si alzò la gamba dei pantaloni e vide che aveva il calzino inzuppato di sangue mescolato a qualcosa di bianco. Si tolse i calzini e raggiunse barcollando l'"Arco di Trionfo", un sentiero in marmo che commemorava le classi degli anni precedenti. Il poeta strofinò sulle fotografie degli Athenians della classe '63 il pugno che stringeva il cotone insanguinato e finì su quelle dei Delphians, classe '31, dopo di che si diresse al cancello meridionale della scuola, a piedi nudi, sentendo di ri-guadagnare forza e coraggio a ogni passo. Uscì sul Griffith Park Boulevard con la mente piena di versi e rime amorose, tutte dedicate a lei...
Quando vide il negozio del fioraio all'angolo fra Griffith Park e Hyperion, capì che era quella la sua destinazione. Si fece forza per vincere la resistenza al contatto umano, entrò, comprò una dozzina di rose rosse, e chiese di mandarle a un indirizzo che conosceva a memoria, nonostante non ci fosse mai stato. Prese un bigliettino per accompagnarle, e sul retro scrisse qualche riga su un amore inciso nel sangue. Pagò il fioraio, che sorrise e gli assicurò che i fiori sarebbero stati consegnati entro un'ora.
Il poeta uscì dal negozio, considerò che c'erano ancora un paio d'ore di luce e si rese conto di non avere un posto dove andare. Si sentì terrorizzato, e cercò di comporre un'ode alla luce del giorno che svaniva per tenere a bada la paura. Provò e riprovo, ma la mente non voleva aiutarlo, e la paura diventò terrore, e lui cadde in ginocchio, singhiozzando, cercando una parola o una frase che lo aiutasse a rimettere tutto a posto.
2
Il giorno in cui il quartiere Watts andò a fuoco, il 23 agosto 1965, Lloyd Hopkins stava costruendo castelli di sabbia sulla spiaggia di Malibu, popo-landoli dei membri della sua famiglia e di tutta una serie di personaggi nati dalla sua fervida immaginazione.
Attorno all'allegro ventitreenne si era riunito un gruppo di ragazzini, tutti ansiosi di divertirsi eppure, in qualche misura, pieni di timore reverenziale per la grande intelligenza che sentivano in quel giovanotto robusto che creava dalla sabbia ponti levatoi, fossati e parapetti con tanta destrezza.
Lloyd era come una cosa sola con i bambini e la propria mente, che considerava un'entità separata. I bambini stavano a guardare, e lui percepiva la loro ansia e il loro desiderio di stare insieme a lui, e capiva d'istinto quando era il momento di gratificarli con un sorriso o alzando le sopracciglia in modo da renderli felici per poter continuare con il vero divertimento.
Immaginò che i suoi antenati irlandesi protestanti stessero combattendo contro il suo fratello pazzo, Tom, per il dominio del castello. Era una battaglia fra i buoni lealisti dei tempi andati e Tom, con la sua corte di guer-rafondai paramilitari convinti che i negri dovevano tornarsene in Africa e le autostrade dovevano essere privatizzate. I cattivi avevano temporaneamente preso il potere: Tom e il suo arsenale di granate e armi automatiche nascoste in giardino erano formidabili, ma i bravi lealisti erano tanto puri di cuore quanto Tom e la sua banda corrotti, e, guidati dal futuro agente di polizia Lloyd, i buoni irlandesi avevano battuto la forza dei mezzi nemici.
Sull'arsenale di Tom piovevano fuoco e fiamme, e tutto esplose. Lloyd immaginò le fiamme sulla sabbia di fronte a sé, e si chiese per l'ennesima volta in quel giorno come sarebbe stata l'Accademia. Più dura dell'addestramento primario? Meglio che lo fosse, perché altrimenti tutta Los Angeles si sarebbe trovata nei guai.
Lloyd sospirò. Lui e i suoi lealisti avevano vinto la battaglia e i suoi genitori, entrambi inspiegabilmente lucidi, erano arrivati a lodare il figlio vit-torioso e schernire il perdente.
"Non si può battere il cervello Doris" aveva detto suo padre a sua madre.
"Vorrei tanto che non fosse così, ma sono le menti a dominare il mondo.
Impara una lingua, Lloyd; Tom può benissimo farsela con quei mezzi delinquenti del posto telefonico pubblico, ma tu devi risolvere gli enigmi e dominare il mondo." Sua madre annuiva senza dire nulla; l'infarto l'aveva resa muta.
Tom ribolliva fra sé, sconfitto.
Lloyd sentì la musica provenire dal nulla e, lentamente, si costrinse a voltarsi nella direzione da cui sentiva provenire il frastuono rauco.
Una bambina stringeva una radio fra le braccia con trasporto, cercando di cantare al ritmo della musica. Quando Lloyd vide la bambina, si sentì sciogliere il cuore. Lei non poteva sapere quanto odiasse la musica, quanto gli scombussolasse i pensieri. Avrebbe dovuto trattarla gentilmente, come sempre con le donne di ogni età. Attirò la sua attenzione parlando gentilmente, nonostante sentisse crescere l'emicrania: «Ti piace il mio castello, tesoro?»
«S... Sì» disse la bambina.
«È per te. I bravi lealisti si sono battuti per l'onore di una dolce damigella, e quella damigella sei tu.»
La musica si stava facendo assordante; Lloyd pensò per un istante che la potesse sentire il mondo intero. La bambina scosse il capo civettuola, e Lloyd disse: «Puoi spegnere la radio, dolcezza? E io ti farò vedere il tuo castello.» La bambina obbedì, e girò la manopola dalla parte sbagliata proprio mentre la musica cessava e un annunciatore dalla voce stentorea annunciava: "Il governatore Edmund G. Brown ha appena dichiarato che alla Guardia nazionale è stato dato ordine di raggiungere in forze la zona sud del centro di Los Angeles per far cessare i tumulti e i saccheggi che durano ormai da due giorni e che hanno provocato quattro morti. Tutti i membri delle seguenti unità a rapporto immediatamente..."
La bambina armeggiò con la radio e la spense proprio mentre l'emicrania di Lloyd si trasformava improvvisamente in una quiete perfetta. «Hai mai letto Alice nel Paese delle Meraviglie, tesoro?» le chiese.
«La mamma me l'ha letto e mi ha fatto vedere le figure» disse la bimba.
«Brava. Allora sai cosa significa seguire il coniglio nella tana?»
«Vuoi dire come Alice quando è andata nel Paese delle Meraviglie?»
«Proprio così. È proprio questo che va a fare il vecchio Lloyd. Lo ha detto la radio adesso.»
«Sei tu "il vecchio Lloyd"?»
«Sì.»
«Allora cosa succederà al tuo castello?»
«Lo avrai tu in eredità, dolce pulzella. Puoi farne quello che vuoi.»
«Davvero?»
«Davvero.»
La bambina fece un salto e atterrò proprio sul castello di sabbia, spiacci-candolo. Lloyd corse alla macchina, verso quello che sperava fosse il suo battesimo del fuoco.
Nell'armeria, il sergente maggiore Beller chiamò in disparte la sua squadra e disse a tutti che per pochi dollari potevano ridurre notevolmente le loro probabilità di farsi mangiare a colazione dai negri e magari farsi anche quattro risate.
Fece cenno a Lloyd Hopkins e ad altri due soldati scelti di entrare nelle latrine e mostrò l'armamentario, spiegando: «Calibro 45 automatica. Classica arma da agente. Garantita come rimedio per tutti i negri armati a una trentina di metri di distanza, non importa dove li beccate. Assolutamente illegale, ma dà un ottimo vantaggio. Questi giocattolini qua sono completamente automatici: pistole mitragliatrici con un caricatore gigante di mia progettazione. Venti colpi, ricarica in cinque secondi secchi. Il pezzo surri-scalda, ma vi offro un guanto. Allora: l'arma, due caricatori giganti e il guanto, è un buon equipaggiamento. Volontari?» e offrì le armi. I due soldati scelti motoristi le fissarono a lungo con passione, ma declinarono.
«Io non rischio, sergente» disse il primo soldato scelto.
«Io devo restare indietro alla postazione di comando con i mezzi, sergente» disse il secondo soldato scelto.
Beller sospirò e alzò gli occhi su Lloyd Hopkins, il tipo che gli dava i brividi. I ragazzi della compagnia lo chiamavano "La Mente". «E tu, Hoppy?»
«Le prendo tutte e due» disse Lloyd.
In perfetta divisa da combattimento, con gambali, bandoliere ed elmetti, la compagnia A del secondo battaglione, quarantaseiesima divisione, della Guardia nazionale della California si trovava sul riposo nella sala principale dell'armeria Glendale, ad aspettare le istruzioni. Il comandante di battaglione, un dentista quarantaquattrenne di Pasadena che aveva il grado di tenente colonnello, raccolse pensieri e ordini in quello che sperava fosse un sermone deciso e breve e si avvicinò al microfono. «Signori, stiamo per cacciarci nel casino. La polizia di Los Angeles ci ha appena informato che una zona di 80 chilometri quadrati del centro di Los Angeles sud è in preda alle fiamme, e che interi palazzi sono stati saccheggiati e incendiati. Noi stiamo per essere inviati a proteggere le vite dei pompieri che combattono le fiamme e impedire, con la nostra presenza, i saccheggi e tutte le altre attività criminali. Questa è l'unica compagnia di fanteria all'interno di una divisione armata. Sono certo che voi sarete la punta di diamante di questa forza pacificatrice di soldati civili. Avrete altre informazioni al raggiungi-mento dell'obiettivo. Buona giornata, e Dio sia con voi!»
Nessuno parlò più di Dio, mentre il convoglio di mezzi militari e trasporti truppe usciva da Glendale per imboccare la Golden State Freeway in direzione sud. I principali argomenti di conversazione erano le armi, il sesso e i negri, finché il soldato scelto Lloyd Hopkins, tutto sudato per il caldo che regnava nel camion coperto da un telone, si tolse il giubbino della mimetica e introdusse nei discorsi i temi della paura e dell'immortalità:
«Per prima cosa dovete dirlo a voi stessi, farlo sentire, parlare chiaro: "Ho paura. Non voglio morire!" Chiaro? No, non ditelo ad alta voce, perde l'impatto. Ditelo a voi stessi. Ecco, bravi. Secondo, dite anche questo: "So-no un buono e bravo ragazzo bianco che adesso va all'università ed è entrato in questa Guardia nazionale del cazzo per togliersi dalle palle due anni di servizio attivo", giusto?»
I soldati civili, la cui età media era sui vent'anni, cominciarono a seguire Lloyd, e qualcuno borbottò: «Giusto.»
«Non vi sento!» urlò Lloyd, facendo il verso al sergente Beller.
«Giusto!» gridarono tutti all'unisono gli uomini della Guardia.
Lloyd rise, e gli altri, sollevati da quel calo di tensione, fecero lo stesso.
Lloyd espirò, e ingobbì la schiena muscolosa, imitando l'andatura pesante di un negro. «E voi avere baura di bovero negro?» disse scimmiottando.
La domanda fu accolta dal silenzio, seguito poi dalla ripresa delle varie conversazioni a bassa voce. Lloyd si sentì infuriato, perché si accorgeva di perdere lo slancio, che quel momento trascendentale della sua vita stava per spegnersi.
Batté forte il calcio del suo M-14 sul pavimento metallico del mezzo.
«Giusto!» urlò. «Giusto, brutti cazzoni pigliainculo segaioli senzapalle ca-gasotto! Giusto?» Pestò di nuovo il fucile. «Giusto? Giusto? Giusto? Giusto?»
«Giusto!» Il camion sembrava traboccare di quella parola, del nuovo candido orgoglio, e la risata che seguì era assordante, libera e spaccona.
Lloyd picchiò il calcio del fucile un'ultima volta, per richiamare il gruppo all'ordine. «E allora non possono farci del male. Lo avete capito?» Aspettò finché non ebbe visto ciascuno dei presenti annuire, poi trasse la baionetta dalla fondina e ritagliò un grosso buco nel telone che copriva il trasporto militare. Era alto, per cui riuscì a vedere in lontananza con una certa facilità. Vedeva la distesa del suo amato Bacino di Los Angeles avvolta dallo smog. Lingue di fuoco e fumo ne coprivano il perimetro meridionale. Lloyd pensò che era la cosa più bella che avesse mai visto.
La divisione si accampò vicino al McCallum Park, all'incrocio tra Florence e la Novantesima Strada, a poco più di un chilometro dal centro del casino. Furono abbattuti degli alberi per dare spazio al centinaio di veicoli militari che quella sera avrebbero percorso le strade della zona di Watts, pieni di uomini armati fino ai denti, e da un autocarro da cinque tonnellate vennero distribuite le razioni da combattimento mentre i capiplotone in-formavano gli uomini sulle loro missioni.
Circolavano un mucchio di voci, alimentate dal Dipartimento di polizia di Los Angeles e dagli agenti di collegamento dello sceriffo: si diceva che i Musulmani Neri stessero arrivando in forze per lavorarsi i numerosi negozi di elettrodomestici vicino all'incrocio tra Vermont e la Slauson; si diceva che bande minorili di negri pieni di anfetamine stessero rubando macchine e formando "squadre kamikaze" dirette a Beverly Hills e Bel Air; che Rob "Magawambi" Jones e i suoi Sostenitori Afroamericani di Goldwater avessero compiuto una netta svolta politica a sinistra e ora pre-tendessero dal sindaco Yorty otto degli isolati commerciali di Wilshire Boulevard in riparazione per "i crimini contro l'umanità commessi dal Dipartimento di polizia di Los Angeles", e che se le loro richieste non fossero state accolte entro 24 ore, quegli otto isolati sarebbero stati ridotti in cenere da bombe incendiare nascoste nelle profondità delle fogne di La Brea.
Lloyd Hopkins non credeva a una sola parola. Comprendeva le iperboli della paura e, ancora di più, capiva che i suoi colleghi soldati e i poliziotti stavano facendosi coraggio per avere la forza di uccidere, e che un mucchio di poveracci negri che volevano solo rubare una TV a colori e una cassa di birra quel giorno ci avrebbero lasciato la buccia.
Lloyd fece fuori le razioni da combattimento e ascoltò il suo capoploto-ne, il tenente Campion, gestore notturno di un ristorante della catena Bob's Big Boy, mentre spiegava loro gli ordini che aveva ricevuto da altri soldati civili di grado maggiore: «Siamo un corpo di fanteria, quindi faremo servizio di pattuglia a piedi e perlustreremo per conto dei tipi armati. Controlle-remo ingressi, vicoli e ci preoccuperemo che si sappia della nostra presenza: baionette fisse, posizioni da combattimento, stronzate del genere. Cer-cate di avere l'aria cattiva. Stanotte saremo in compagnia del plotone armato con cui abbiamo fatto addestramento la scorsa estate. Qualche domanda? Sapete tutti chi è il vostro comandante di squadrone? Ci sono dei nuovi che vogliono fare domande?»
Il sergente Beller, disteso sull'erba in fondo al gruppo di uomini, alzò la mano: «Tenente, lei sa che il plotone è in sovrannumero di quattro uomini?
Che ce ne sono 54?»
Campion si schiarì la gola. «Sì... Ah... Sì, sergente, lo so.»
«Signore, lei sa anche che qui ci sono tre uomini che provengono dai corsi speciali? Tre uomini che non fanno parte del corpo regolare?»
«Vuol dire...»
«Voglio dire, signore, che io, Hopkins e Jensen siamo ricognitori specializzati della fanteria, e sono certo che sarà d'accordo con me sul fatto che possiamo essere di maggior aiuto a questa missione andando in avan-guardia rispetto al plotone armato. Dico bene, signore?»
Lloyd vide che il tenente esitava, e si rese improvvisamente conto che lo voleva tanto quanto Beller. Alzò la mano e disse: «Signore, il sergente Beller ha ragione; noi possiamo camminare avanti e inoltre proteggere meglio il plotone, e inoltre renderlo più autonomo. Il plotone ha più uomini del necessario, e...»
Il tenente si diede per vinto. «E va bene» disse. «Beller, Hopkins e Jensen, voi restate a duecento metri di fronte al convoglio. Fate attenzione.
Altre domande? Rompete le righe.»
Lloyd e Beller si ritrovarono proprio mentre i carri armati e i trasporti truppe accendevano i motori, riempiendo l'aria del frastuono della combu-stione. Beller sorrise, e Lloyd gli restituì il sorriso di complicità, in silenzio.
«Andiamo in avanscoperta, sergente?»
«Certo, e molto, Hoppy.»
«E Jensen?»
«Lui è solo un ragazzino. Gli dirò di rimanere indietro con la fanteria armata. L'importante è che noi siamo coperti. Noi abbiamo carta bianca, ed è questo che conta.»
«Dalle parti opposte della strada?»
«Mi sembra che vada bene. Fischia due volte se la storia si fa pericolosa.
Perché ti chiamano "La Mente"?»
«Perché sono molto intelligente.»
«Quanto basta da capire che quei negri di merda stanno distruggendo tutto il paese?»
«No, sono troppo intelligente per bermi queste cagate. Basta mezzo cervello per capire che questo è solo un casino temporaneo, e che quando sarà tutto finito la vita ricomincerà come al solito. Io voglio salvare delle vite innocenti.»
Beller disse in tono di scherno: «Puttanate. Dimostri solo che le menti ormai sono sopravvalutate. Quello che conta è il fegato.»
«Sono le menti a dominare il mondo.»
«Ma il mondo sta andando in merda.»
«Non so. Proviamo a vedere come stanno le cose qui.»
«Già, proviamoci.» Beller cominciò a preoccuparsi per lui. Da qualche tempo, Hoppy gli pareva un leccaculo dei negri.
Oltrepassarono completamente la divisione, dirigendosi verso sud, dove le fiamme erano più alte e l'eco degli spari più forte..
Lloyd prese la zona settentrionale della Novantatreesima Strada e Beller quella meridionale, con i fucili ad altezza d'uomo e le baionette inastate, scrutando con lo sguardo una fila dopo l'altra di case popolari in assicelle bianche abitate da famiglie di negri che sbirciavano dalle finestre illumina-te o se ne stavano sedute sui porticati a bere, fumare, chiacchierare e aspettare che finalmente succedesse qualcosa.
Arrivarono alla Central. Lloyd deglutì e sentì il sudore scendergli lungo la maglietta, che gli tirava sulla schiena, appesantita dalle due automatiche speciali infilate nella cintura.
Beller fece un fischio dall'altra parte della strada e gli indicò un punto più avanti. Lloyd annuì nel sentire una zaffata di fumo arrivargli alle narici. Continuarono a camminare verso sud, e alla mente di Lloyd ci vollero lunghi minuti per entrare in azione e riuscire ad assimilare le epifanie, la perfetta logica dell'autodistruzione cui stava assistendo.
Negozi di alcolici, night club e chiese inframmezzate da spiazzi deserti pieni di macchine abbandonate e bruciate dall'interno. Vetrine in frantumi, una dopo l'altra, e una profusione di bottiglie di alcolici rotte; vetri infranti dappertutto; i vicoli ingombri di materiale elettrico da quattro soldi, oggetti vari non rivendibili evidentemente razziati nella fretta e in seguito gettati quando gli sciacalli si erano resi conto che si trattava di roba senza valore.
Lloyd infilava la punta dell'M-14 nelle vetrate distrutte, cercando di vedere qualcosa nel buio, aguzzando gli orecchi come aveva visto fare ai ca-ni, ascoltando attentamente in cerca del minimo suono o movimento. Ma non c'era niente, solo l'ululato delle sirene e il crepitio delle armi da fuoco in lontananza.
Beller attraversò la strada di buon passo proprio mentre un'auto del Dipartimento di polizia di Los Angeles svoltava nella Central venendo dalla Novantaquattresima. Due agenti con giubbetti antiproiettile saltarono fuori all'improvviso, e l'autista raggiunse Lloyd gridando: «Che cazzo ci fate qui, voi due?»
Fu Beller a rispondere, cogliendo di sorpresa i due poliziotti, che si voltarono portando le mani alle calibro 38. «Siamo in avanscoperta, agente!
Io e il mio amico abbiamo l'incarico di rimanere davanti alla compagnia per cercare i cecchini. Siamo ricognitori specializzati della fanteria.»
Lloyd capì che i poliziotti non l'avevano bevuta, e che doveva assolutamente entrare nella cruenta meraviglia di Watts senza quel farabutto del suo compagno. Lanciò un'occhiata feroce a Beller e disse: «Credo che ci siamo persi. Dovevamo stare avanti solo di tre isolati, ma dobbiamo aver sbagliato svolta. Le case di queste strade numerate sembrano tutte uguali.»
Esitò un momento, cercando di darsi un'aria sperduta.
Beller capì al volo e disse: «Già. Sembrano tutte uguali, queste case. E
anche tutti quei negri seduti sui gradini a bere.»
Il più vecchio dei due poliziotti annuì, poi indicò in direzione sud e disse: «Voi state con l'artiglieria giù vicino alla Centoduesima? Quelli del re-parto pesante?»
Lloyd e Beller si guardarono. Beller si leccò le labbra per non ridere.
«Sì» dissero all'unisono.
«Allora salite in macchina. Vi facciamo trovare noi la strada.»
Mentre partivano diretti a sud senza lampeggiante né sirena, Lloyd disse ai poliziotti che lo avevano chiamato per il corso di ottobre all'Accademia e che voleva fare un po' di addestramento per conto suo in mezzo ai tumulti. Il poliziotto più giovane lanciò un grido e disse: «Allora questo casino è il posto giusto per addestrarti. Quanto sei alto, uno e 90? Uno e 92? Grosso come sei, ti manderanno dritto alla divisione della Settantasettesima Strada a Watts, proprio queste strade di merda che stiamo percorrendo adesso.
Una volta che il polverone sarà passato e quei garantisti rottinculo avranno finito di dire che i negri sono vittime della povertà, ci sarà da tenere a bada qualche stronzo di negro del cazzo particolarmente agitato, gente che ha voglia di vedere il sangue. Come ti chiami, ragazzo?»
«Hopkins.»
«Hai mai ucciso qualcuno, Hopkins?»
«No, signore.»
«Non chiamarmi "signore". Non sei ancora uno sbirro, e io sono solo un vecchio agente di pattuglia. Be', io ne ho ammazzati tanti, in Corea. Proprio tanti, e questo mi ha cambiato. Adesso vedo le cose in modo diverso.
Molto diverso. Ne ho parlato con gli altri sverginati, e siamo tutti d'accordo: si apprezzano di più le cose diverse. Uno vede degli innocenti, come ad esempio i bambini, e vuole che lo rimangano per sempre, perché sa che lui l'innocenza non ce l'ha più. Le piccole cose, come i bambini, o i loro giocattoli e i cuccioli, fanno un altro effetto, perché sai benissimo che stanno per finire in questo cazzo di letamaio e tu non vuoi che succeda. E
poi vedi altra gente che non ha il minimo riguardo per la gentilezza, per le cose buone, e allora con loro devi andarci giù duro. Devi proteggere quei due soldi di innocenza che ci sono al mondo. È per questo che sono nella polizia. Tu mi sembri uno vergine, Hopkins. Capisci cosa intendo dire?»
Lloyd annuì, sentendosi formicolare tutto. Sentì odore di fumo arrivare dal finestrino aperto, e la sensazione cominciò ad attenuarsi mentre si rendeva conto che il poliziotto stava parlando, senza saperlo, dell'etica protestante irlandese di Lloyd. «Capisco perfettamente di cosa sta parlando»
disse.
«Ottimo, ragazzo. Allora cominci stasera. Accosta, socio.»
Il poliziotto più vecchio frenò e accostò al marciapiede.
«È tutto tuo, ragazzo» disse il poliziotto più giovane, allungandosi a dare un colpo sull'elmetto di Lloyd. «Noi portiamo il tuo amico alla compagnia.
Vedi se riesci a fare un po' di movimento per conto tuo.»
Lloyd uscì dall'auto di pattuglia così in fretta che non ebbe la possibilità di ringraziare il suo mentore. Loro accesero la sirena per salutarlo.
L'incrocio fra la Centoduesima e la Central era un caos di rovine fuman-ti, un sibilo di idranti, lo stridio dei pneumatici sul selciato umido, tutto il rumore modulato dagli elicotteri della polizia sospesi nel cielo, che illuminavano i negozi per dare luce ai pompieri in modo che potessero lavorare.
Lloyd entrò in quel maelstrom con un gran sorriso, pensando ancora a quell'eloquente riassunto della sua filosofia. Rimase a guardare un semi-cingolato con una mitragliatrice calibro 50 che avanzava lentamente lungo la strada. Un soldato della Guardia che si trovava all'interno gridò in un potente megafono: «Coprifuoco tra cinque minuti! La zona è sotto legge marziale! Chiunque sarà trovato in strada dopo le nove in punto verrà arrestato. Su chiunque cerchi di oltrepassare le barriere della polizia verrà aperto il fuoco. Ripeto: coprifuoco tra cinque minuti!»
Quelle parole, evidentemente dette con forza e cattiveria, echeggiarono forti per tutta la strada, e il risultato fu un grande movimento. Lloyd scorse decine di giovani schizzare fuori dai palazzi bruciati, correndo a tutta velocità in ogni direzione per non farsi sorprendere dai riflettori. Si strofinò gli occhi e li socchiuse per vedere se gli uomini trasportavano con sé mer-ce rubata, solo per rendersi conto che erano scomparsi prima ancora che potesse gridare qualcosa o puntare su di loro l'M-14.
Lloyd scosse il capo e oltrepassò un gruppo di pompieri che si davano da fare di fronte a un negozio di alcolici saccheggiato. Tutti si accorsero di lui, ma nessuno parve sorpreso nel vedere un soldato della Guardia da solo e di pattuglia a piedi. Incoraggiato, Lloyd decise di controllare se c'era movimento all'interno.
Gli piaceva. La tenebra dentro il negozio incendiato era riposante, e Lloyd sentì che quel silenzio immerso nelle ombre gli avrebbe dato delle informazioni vitali. Si fermò, prese un rotolo di nastro adesivo dalla tasca della mimetica e fissò la pila elettrica alla parte inferiore della baionetta.
Mosse il fucile facendogli descrivere un arco a otto, e controllò il risultato: dovunque avesse puntato l'M-14, da quel momento in poi ci sarebbe stata luce.
Cumuli di legno bruciato, montagne di materiale isolante bottiglie di alcolici in frantumi. Preservativi usati dappertutto. Lloyd fece una risatina nel pensare a gente che si accoppiava in un seminterrato che ospitava un negozio di alcolici, poi si sentì sprofondare quando la risata venne ripetuta e seguita da un orribile gemito profondo.
Girò l'M-14 a 360 gradi, tenendo la canna all'altezza della vita. Prima una volta, poi due. Alla terza trovò quello che cercava: c'era un vecchio disteso in cima a un mucchio di fibra isolante arrotolata. Lloyd si sentì tornare in vita. Quel povero stronzo era rachitico come un albero avvizzito, e non poteva minacciare nessuno. Gli si avvicinò e gli allungò la sua borraccia. Il vecchio l'afferrò con mani tremanti, se la portò alle labbra e poi la gettò per terra, urlando: «Non voglio questa roba! Voglio la mia Lucy! Datemi la mia Lucy!»
Lloyd era stordito. Il nonno stava chiedendo forse di sua moglie o di una vecchia fiamma ormai perduta?
Tolse la pila dalla sede della baionetta e la puntò al volto del vecchio, poi sussultò: aveva la bocca e il mento coperti di sangue raggrumato, da cui sporgevano frammenti di vetro simili ad aculei di un porcospino di cristallo. Lloyd indietreggiò, poi indirizzò il raggio di luce sul busto dell'uo-mo e indietreggiò ancora di più: le mani avvizzite erano coperte di ferite profonde fino alle ossa, e tre dita della destra erano state ridotte a monche-rini insanguinati. La sinistra, nodosa, stringeva i resti frantumati di una bottiglia di vino Thunderbird.
«La mia Lucy! Datemi la mia Lucy!» piagnucolava il vecchio, sputando sangue a ogni parola.
Lloyd prese la torcia e attraversò di corsa le rovine coperte di vetri rotti, asciugandosi le lacrime dagli occhi, cercando una bottiglia ancora intatta che contenesse la salvezza liquida. Alla fine ne trovò una, nascosta in parte da una trave ribaltata. Era un mezzo litro di Seagram's 7 di sei anni.
Lloyd la prese e imboccò il vecchio, reggendogli la testa per i pochi capelli grigi, tenendo la bottiglia a qualche centimetro di distanza dalle labbra insanguinate per paura che tentasse di ingoiarla tutta. Pensò di cercare un medico, ma decise di lasciar perdere. Sapeva che il vecchio voleva morire, che meritava almeno di morire ubriaco e che il servizio che gli stava recando era l'equivalente militare delle tante ore trascorse a parlare con sua madre, quella donna muta dal cervello malato.
Il vecchio sbavava e succhiava avidamente la bottiglia ogni volta che questa gli toccava le labbra. Dopo qualche minuto, una volta consumata metà del mezzo litro, smise di tremare, e allontanò la mano di Lloyd.
«È la terza guerra mondiale» disse.
Lloyd fece finta di non avere sentito e disse: «Sono il soldato scelto Lloyd Hopkins, della Guardia nazionale della California. Vuoi che vada a cercare un medico?»
Il vecchio rise, sputando grandi boccate di catarro sanguinolento.
«Devi avere un'emorragia interna» disse Lloyd. «Posso portarti a un'ambulanza. Pensi di poter camminare?»
«Posso fare tutto quello che ci ho voglia» strillò il vecchio «ma voglio crepare! Non c'è posto per me in questa guerra, devo andare dall'altra parte!»
Gli occhi velati e iniettati di sangue fissarono Lloyd come se fosse un bambino scemo. Lui diede ancora da bere al vecchio, assistendo allo spettacolo della pace liquida che inondava il corpo decrepito. Quando la bottiglia fu finita il vecchio disse: «Tu hai da farmi un favore, bianco.»
«Parla» disse Lloyd.
«Io muoio. Tu hai da andare nella mia stanza a prendere i miei libri e le carte a venderla la roba per farmi un bel funerale. Una roba da cristiano, chiaro?»
«Dov'è la tua stanza?»
«Long Beach.»
«Posso andarci quando sarà tutto finito, non prima.»
Il vecchio scosse furiosamente la testa finché non cominciò a tremare anche lui come una bambola di pezza. «Devi andarci! Domani mi manda-no via che non pago l'affitto! Poi la polizia mi butta nella fogna coi topi!
Hai da andarci!»
«Calma» disse Lloyd. «Non posso andare così lontano. Non ora. Non hai amici nella zona con cui possa parlare? Qualcuno che possa andare a Long Beach per te?»
Il vecchio rifletté sulla proposta. Lloyd lo guardò compitare parole silen-ziose e poi decidersi a dire: «Vai alla missione dove c'è l'incrocio Avalon e Centoseiesima. La chiesa africana. Parla con sorella Sylvia. Digli che va in casa di Famous Johnson e prende la sua roba e la vende. C'ha la mia data di nascita nei registri della chiesa. Voglio una lapide buona. Gli dici che amo tanto Gesù, ma che amo più la mia Lucy.»
Lloyd si alzò. «Vuoi proprio morire?» chiese.
«Tanto, amico, tanto.»
«Perché?»
«Non c'è posto in questa guerra, amico.»
«Che guerra?»
«La terza guerra mondiale, coglione!»
Lloyd pensò a sua madre e allungò la mano per prendere il fucile, ma non ci riuscì.
Lloyd corse fino all'incrocio fra la Centoseiesima e Avalon componendo mentalmente una serie di epitaffi per Famous Johnson. Il torace gli bruciava e le braccia e le spalle gli dolevano per aver tenuto a lungo il fucile ad altezza d'uomo, e quando vide l'insegna al neon che indicava CHIESA E-PISCOPALE METODISTA AFRICANA UNITA inspirò a fondo più vol-
te per calmare il battito furioso del cuore. Voleva essere l'immagine della dignità in misericordiosa missione.
La chiesa era dietro una vetrina di negozio in un edificio di due piani con le luci accese, in violazione del coprifuoco. Lloyd entrò per trovarsi di fronte a un pandemonio che sembrava in parte dovuto a un incontro di preghiera e in parte a una distribuzione gratuita di caffè. Fra le file di panche di legno erano sistemati alcuni grandi tavoli, e c'erano negri anziani e di mezz'età inginocchiati in preghiera e intenti a servirsi di caffè e ciambelle.
Lloyd avanzò lentamente lungo le pareti coperte di dipinti che raffigura-vano un Cristo nero in lacrime, con il sangue che colava dalla corona di spine. Cominciò a fissare i volti della gente inginocchiata, in cerca di qualche segno di pietà o compassione. Non vide altro che paura.
Poi notò una donna di colore grassa in abito bianco, che sembrava quasi sorridere dentro di sé mentre dava pacche sulle spalle alla gente inginocchiata sulle panche più vicine.
Quando la donna vide Lloyd gridò: «Benvenuto soldato» e la sua voce spiccò su tutto il chiacchiericcio. Gli si avvicinò allungando la mano.
Stupefatto, Lloyd gliela strinse e disse: «Sono il soldato scelto Hopkins.
Sono qui in missione di carità per conto di uno dei vostri parrocchiani.»
La donna lasciò la mano di Lloyd e disse: «Io sono sorella Sylvia. Questa chiesa è riservata agli afroamericani, ma stasera è un'occasione speciale. Sei venuto a pregare per le vittime di Armageddon? È questa la tua missione?»
Lloyd scosse il capo. «No, sono venuto a chiederle un favore. Famous Johnson è morto. Ma prima mi ha chiesto di venire qui e dirle di vendere le sue proprietà in modo da fargli avere un buon funerale. Mi ha detto che lei conosce l'indirizzo della sua casa a Long Beach e la sua data di nascita.
Vuole una bella lapide. Mi ha detto di dirle che ama tanto Gesù.» Lloyd rimase di sasso nel vedere sorella Sylvia scuotere ironicamente il capo e sorridere. «Non vedo cosa ci sia di divertente» disse.
«Ah no?» ruggì sorella Sylvia. «Io sì, invece! Famous Johnson era un rifiuto, giovanotto bianco! Si meritava di essere chiamato quello che era, un negro bastardo! E quella stanza a Long Beach? È solo un'invenzione! Famous Johnson viveva nella sua macchina, con le sue cose peccaminose sul sedile dietro! Veniva in questa chiesa a prendere ciambelle e caffè, ma niente altro! Famous Johnson non aveva niente da vendere!»
«Ma io...»
«Vieni con me, giovanotto. Ti faccio vedere, così dimentichi tutto di quell'infame Johnson e tieni la coscienza pulita.»
Lloyd decise di non protestare. Voleva vedere cosa intendeva il donnone per peccaminoso.
Era una Cadillac del 1947, con il posteriore a pinne, il cofano squadrato e ribassata. Quella che Tom avrebbe definita "una macchina da muso ne-ro".
Lloyd puntò il raggio della pila sul sedile posteriore mentre sorella Sylvia si metteva al suo fianco in posa trionfale, a gambe solidamente di-varicate e braccia conserte come per dirgli "te lo avevo detto". Lui aprì la portiera. I sedili col rivestimento strappato e ricacciato dentro erano coperti di bottiglie vuote di bibite e foto porno, in maggior parte rappresentanti coppie di negri che praticavano fellatio. Lloyd provò una grande compassione: la donna che succhiava e l'uomo erano vecchi e obesi, e le fotografie da quattro soldi erano molto diverse da quelle dei numeri di Playboy che lui collezionava dai tempi del liceo. Avrebbe voluto che non fosse così.
Era una memoria troppo sporca per qualsiasi essere umano.
«Cosa ti avevo detto!» latrò sorella Sylvia. «È questa qui la casa di quell'infame Johnson! Vendi quelle foto e riporta i vuoti delle bottiglie, ne ri-caverai un dollaro e 98 che non ci compri altro che due bottiglie di Thunderbird da versare sulla tomba di Johnson l'Infame!»
Lloyd scosse il capo. Si sentiva percuotere il cervello dal rumore delle radio che veniva da un isolato di distanza, e quell'orrenda scena si fece per un momento indistinta. «Ma non capisce, signora» disse. «Famous Johnson ha affidato a me questo compito. È il mio lavoro, il mio dovere. Il mio...»
«Non parlarmi più di quel peccatore! Capito? Non seppellisco quel porco nel nostro cimitero neanche per tutti i soldi del mondo. Hai capito?» Sorella Sylvia non rimase ad aspettare risposta, e tornò di gran passo alla chiesa, lasciando Lloyd solo sul marciapiede a pensare che avrebbe tanto voluto sentir crescere il rumore delle armi da fuoco fino a soffocare quello delle radio.
Si sedette sul marciapiede e pensò ai due poveri disgraziati delle fotografie, e a Janice che non voleva prenderglielo in bocca, ma che aveva accon-sentito a passare ai fatti la sera del loro primo appuntamento, due settimane prima del diploma di liceo, lasciando Lloyd Hopkins, classe '59 alla Marshall High, pieno di gioia e felicità per l'amore che vedeva nel suo futuro. E ora, sei anni più tardi, Lloyd Hopkins, laureato summa cum laude alla Stanford University, diplomato alla Scuola di fanteria di Fort Polk e al corso di lettura rapida Evelyn Wood, fidanzato da sei anni con Janice Marie Rice, era seduto su un marciapiede di Watts a chiedersi perché mai a lui non era concesso quello che un vecchio porco negro e obeso poteva avere sempre. Lloyd puntò di nuovo la pila contro il finestrino posteriore. Proprio come sospettava: quel tipo aveva l'uccello più lungo del suo di almeno cinque centimetri. Pensò che c'entravano Dio e la costanza. Quel coglione della foto non aveva quoziente di intelligenza, e come fisico faceva schifo, così Dio gli aveva donato una bella nerchia per aiutarlo ad avere successo nella vita. E aveva funzionato.
Janice diceva che gliel'avrebbe succhiato solo quando avesse preso il diploma all'accademia e si fossero sposati. L'ultimo pensiero lo eccitò e lo rattristò al tempo stesso. Janice lo rendeva triste. Poi pensò alle figlie che avrebbero avuto. Janice, un metro e 76 a piedi nudi, slanciata ma con fianchi robusti, era fatta per dare alla luce bambine eccezionali. Figlie. Dovevano essere figlie, da allevare nell'amore e nel rispetto della sua etica irlandese protestante...
Lloyd portò ai limiti estremi di bene e male le sue fantasticherie su Janice e sulle sue figlie, poi passò a pensare alle donne in generale. Donne pu-re, malvage, vulnerabili, bisognose d'aiuto, forti: tutte le stesse ambiguità di sua madre, ora immersa nella sua forza silenziosa, resa muta da tutti gli anni in cui aveva dato rifugio alla sua prole nevrotica di uomini dalla quale solo lui era emerso sano di mente e capace di procurarle sollievo.
Lloyd sentì uno scoppio di spari a breve distanza. Fuoco di armi automatiche. In un primo momento pensò che fosse la radio o la TV, ma era un rumore troppo reale, troppo preciso, e veniva dal punto in cui c'era la chiesa africana. Raccolse l'M-14 e corse all'angolo. Nel voltarlo sentì urlare, e subito notò la vetrata della chiesa in frantumi. Quando vide il carnaio al-l'interno, urlò anche lui. Sorella Sylvia e tre parrocchiani erano distesi sul pavimento di linoleum in una massa di carne sfracellata e incollata da fiu-mi di sangue. Da un punto del cumulo di corpi contorti un'arteria tranciata sputò fuori uno schizzo di sangue. Lloyd, impietrito, lo guardò spegnersi e sentì il suo urlo trasformarsi in un'unica parola: «Cosa! Cosa! Cosa?»
Strillò finché non riuscì a distogliere gli occhi dai cadaveri per portare lo sguardo sulla sala della chiesa puzzolente di cordite. Dalle panche di legno emersero teste scure. Lloyd si rese vagamente conto che la gente era terrorizzata da lui. Con il volto rigato di lacrime, gettò il fucile a terra e urlò:
«Cosa? Cosa? Cosa?» solo per sentirsi rispondere da un coro di voci che urlavano: «Assassino, assassino, assassino!» Era un grido di orrore e ol-traggio.
Fu allora che lo udì, in lontananza ma distintamente, alla sua sinistra, qualcosa di così conciso che capì doveva essere vero, non una voce elettronica: " Auf wiedersehen, negri del cazzo. Auf wiedersehen, scimmie mer-dose. Ci si vede all'inferno".
Era Beller.
Lloyd capì quello che doveva fare. Mostrò ai negri nascosti dietro le panche tutta la sua risolutezza e andò a inseguirlo, lasciando il fucile per terra, tenendosi nascosto dietro le auto in sosta mentre si dirigeva verso il distruttore dell'innocenza.
Beller correva piano verso nord, senza sapere di essere seguito. Lloyd lo vedeva stagliato nettamente contro la luce dei lampioni che non erano stati distrutti, lo vide voltarsi ogni pochi istanti per guardarsi indietro e assaporare il proprio trionfo. Controllò la lancetta dei secondi dell'orologio e fece un rapido calcolo. Era più che evidente: il subconscio di Beller lo spingeva a voltarsi per controllare la zona ogni venti secondi circa.
Lloyd si alzò e corse a tutta velocità, contando a bassa voce, abbassan-dosi a terra ogni volta che Beller si guardava alle spalle. Era a una cinquantina di metri di distanza dall'assassino quando Beller si infilò in un vicolo e cominciò a urlare: «Non muoverti, negro, non muoverti!» Seguì una scarica di colpi di automatica. Lloyd capì che venivano dalla calibro 45
con il caricatore gigante.
Raggiunse il vicolo e si bloccò per riprendere fiato. Vicino all'estremità del vicolo cieco c'era una sagoma scura. Lloyd aguzzò la vista e riuscì a distinguere una mimetica verde. Un istante dopo sentì la voce di Beller sputare epiteti incoerenti.
Lloyd entrò nel vicolo, avanzando rasente il muro di mattoni. Prese una delle due calibro 45 dalla cintura e tolse la sicura. Era quasi arrivato a distanza di tiro quando colpì col piede una lattina, e il rumore improvviso riverberò tutto attorno come un tuono.
Sparò contemporaneamente a Beller, e i lampi delle pistole illuminarono il vicolo di una luce accecante, mostrando Beller chino sul cadavere di un negro, un uomo decapitato, fatto a pezzi dalle spalle in su, il collo ridotto una massa di carne insanguinata e bruciata. Lloyd urlò quando il rinculo della calibro 45 lo sollevò in aria e lo gettò a terra. Il muro sopra la sua testa venne colpito da una salva, e lui si rotolò freneticamente sul selciato coperto di frammenti di vetro mentre Beller sparava un'altra raffica mirando a terra, facendogli esplodere schegge di vetro e asfalto davanti agli occhi.
Lloyd cominciò a singhiozzare. Si protesse gli occhi con il braccio e pregò per avere coraggio e la possibilità di essere un buon marito per Janice. Le sue preghiere vennero interrotte da un rumore di passi che si allontanavano da lui. Lloyd si costrinse ad alzarsi in piedi. Gli tremavano le gambe, ma aveva la mente salda e decisa. Aveva visto giusto: sul petto del cadavere c'era l'M-14 abbandonato da Beller, e a breve distanza la calibro 45, ormai scarica e bollente.
Lloyd respirò a fondo, ricaricò e rimase in ascolto. Sentì il rumore: in lontananza, alla sua sinistra, rumore di passi e un respirare affannoso. Se-guì quei suoni per la via più breve possibile, scalando il muro di cemento del vicolo per ritrovarsi in un cortile invaso di erbacce, dove il rumore del respiro si confondeva con quello di una radio da cui trasmettevano jazz.
Lloyd attraversò il cortile a tentoni, borbottando preghiere per cancellare la musica dalla mente. Raggiunse un sentiero che portava in strada, e la lu-ce che veniva dalla casa adiacente gli permise di distinguere una traccia di sangue fresco. Vide che il sangue portava a un grande spiazzo deserto, completamente buio e silenzioso in modo spettrale.
Lloyd rimase in ascolto, cercando di costringersi ad avere gli orecchi di un animale selvatico. Proprio mentre gli occhi gli si abituavano alla tenebra e riusciva a distinguere gli oggetti dello spiazzo, lo sentì: uno schiocco di metallo su metallo che veniva dal punto in cui si trovava un gabinetto prefabbricato per cantieri. Era impossibile sbagliare: Beller aveva ancora una delle sue malefiche calibro 45 modificate, e sapeva che Lloyd era vicino.
Lloyd tirò una pietra contro la latrina. La porta si aprì con un cigolio e risuonarono tre colpi secchi, seguiti dal rumore delle porte che sbattevano in tutto l'isolato.
A Lloyd venne un'idea. Avanzò per la strada scrutando i portici delle ca-se finché non trovò quello che cercava, nascosto fra un mucchio di sac-chetti vuoti di patatine e lattine di birra: una radio portatile. Facendosi forza, alzò il volume e si sentì bombardare dal ritmo della musica soul. Nonostante l'emicrania sorrise, poi abbassò il volume. Una giustizia poetica per il sergente maggiore Richard A. Beller.
Lloyd portò la radio nello spiazzo e la mise per terra una decina di metri alle spalle della latrina, poi girò la manopola del volume e corse via nella direzione opposta.
Qualche secondo dopo Beller schizzò fuori dal gabinetto urlando: «Negri di merda! Negri! Negri bastardi!» Sparò qualche raffica alla cieca. La luce dei lampi di fuoco che venivano dalla canna lo illuminava alla perfezione. Lloyd sollevò la calibro 45 e prese lentamente la mira, puntando ai piedi di Beller per compensare il rinculo. Premette il grilletto, la pistola gli sobbalzò nella mano e il caricatore gigante si svuotò. Beller urlò. Lloyd si gettò nella polvere, cercando di soffocare le urla che gli salivano alla bocca. Alla radio urlava il rhythm and blues, e Lloyd corse verso quel rumore, tenendo la calibro 45 per la canna. Avanzò a tentoni nel buio, poi si inginocchiò e uccise la musica a colpi di calci.
Lloyd si alzò traballando, poi raggiunse quello che rimaneva di Richard Beller. Si sentiva stranamente calmo mentre portava nella latrina prima le frattaglie del soldato, poi la parte inferiore del corpo, poi le braccia amputate. Della testa di Beller rimanevano solo ossa frantumate e una poltiglia di materia cerebrale, che Lloyd lasciò nella polvere.
Borbottando "Dio, ti prego, ti prego, Dio, coniglio nella tana" Lloyd raggiunse la strada; notando con il suo istinto animale che non c'era nessuno in giro. Gli abitanti del quartiere dovevano farsela sotto dalla paura degli spari, oppure c'erano semplicemente abituati. Lloyd vuotò la borraccia nel vicolo e trovò un laccio emostatico nell'astuccio della baionetta. Una volta Beller gli aveva detto che era ottimo per strangolare la gente. Accanto al marciapiede c'era una Ford Fairlane del '61. Manovrando con destrezza tubo e borraccia, Lloyd riuscì ad aspirare mezzo litro buono di benzina dal serbatoio. Tornò al gabinetto e la versò sopra i resti di Beller, poi ricaricò la calibro 45 e indietreggiò di dieci metri. Sparò, e la latrina saltò in aria. Lloyd tornò in Avalon Boulevard. Quando si voltò, vide che l'intero spiazzo era avvolto dalle fiamme.
Due giorni dopo, i tumulti di Watts terminarono. Nei sobborghi devastati del centro di Los Angeles venne ristabilito l'ordine. I morti ammontavano a 42: 40 dimostranti, un vicesceriffo di contea e un soldato della Guardia nazionale il cui corpo non era mai stato ritrovato, ma che si presumeva morto.
I tumulti vennero attribuiti a svariate cause. L'Associazione nazionale per lo sviluppo della gente di colore e la Lega urbana li attribuivano al razzismo e alla povertà. Il Partito musulmano nero alla brutalità della polizia.
Il capo della polizia di Los Angeles, William H. Parker, a un "impoveri-mento dei valori morali". Per Lloyd Hopkins tutte quelle teorie erano solo sciocchezze inutili. Per lui la causa dei tumulti di Watts era stata la morte dei cuori innocenti, in particolare di quello di un vecchio ubriacone negro che si chiamava Famous Johnson.
Quando fu tutto finito, Lloyd andò a prendere la macchina nel parcheggio dell'armeria di Glendale e raggiunse l'appartamento di Janice. Fecero l'amore, e Janice cercò di confortarlo per quanto le era possibile, ma gli rifiutò il conforto orale richiesto. Così Lloyd lasciò il letto alle tre del mattino e andò a cercarselo da solo, quel conforto.
All'angolo fra la Western e la Adams trovò una prostituta negra disposta a succhiarglielo per dieci dollari, e lui raggiunse una stradina laterale e parcheggiò. Quando venne, Lloyd urlò, terrorizzando la battona che scappò via dalla macchina senza neppure prendere i soldi.
Lloyd girò senza meta fino all'alba, poi andò alla casa dei suoi genitori, a Silverlake. Mentre apriva la porta sentì suo padre russare, e vide che dalla porta della camera di Tom filtrava la luce. Sua madre era nello studio, sulla sedia a dondolo. Tutte le luci della sala erano spente, tranne quella colorata dell'acquario. Lloyd sedette per terra e raccontò tutta la storia alla donna muta e prematuramente invecchiata, terminando con l'uccisione di chi aveva ucciso l'innocenza, e di come ora poteva proteggere gli innocenti come mai prima. Assolto e rinforzato, Lloyd baciò sua madre sulla guancia e si chiese come avrebbe passato le otto settimane che rimanevano prima di entrare all'accademia.
Tom lo aspettava fuori di casa, immobile sul sentiero che portava al marciapiede. Quando vide Lloyd, fece una risata e aprì la bocca per dire qualcosa. Lloyd non lo lasciò parlare. Estrasse la calibro 45 automatica dalla cintura e gliela puntò contro la fronte. Tom cominciò a tremare, e Lloyd disse dolcemente: «Se provi anche solo a nominarmi negri, comunisti o ebrei, o altre cazzate del genere, per il resto della vita, io ti ammazzo.» Il volto rubizzo di Tom diventò terreo, e Lloyd sorrise, per poi ritornare ai miseri resti della propria innocenza distrutta.
PARTE SECONDA
Canzoni d'amore
3
Si diresse verso ovest sul Ventura Boulevard, assaporando il nuovo giorno a ora legale, la limpidezza di quei pomeriggi più lunghi del solito e il tempo primaverile, insolitamente bello, che spingeva le meretrici a indossare abiti e prendisole scollati e le vere donne a indossare con pudica modestia una profusione di colori pastello estivi: rosa, azzurro e verde chiaro, giallo pallido.
Dall'ultima volta erano passati molti mesi, e lui attribuiva quella pausa all'incostanza del tempo che si rifletteva anche sulla sua mente: un giorno era caldo, il successivo freddo e piovoso. Non si poteva mai sapere cosa avrebbero indossato le donne, perciò era difficile fissare l'attenzione su una in particolare per poterla salvare. Non c'era modo di sentire i colori, la trama che componeva la donna, finché non la si esaminava in un contesto di concretezza. Lo sapeva Dio se gli innumerevoli piccoli flussi della vita femminile non diventavano subito evidenti una volta dato inizio al piano.
E se a quel punto perdeva l'amore, la compassione che seguiva gli serviva a riaffermare gli aspetti spirituali della sua missione e a dargli il distacco necessario a compiere il suo lavoro.
Ma la pianificazione ne costituiva almeno la metà, la parte costruttiva, quella che lo purificava, che lo separava dalle cose insignificanti e gli dava una precaria immunità a quel mondo che divorava le creature raffinate e sensibili e le eliminava come escrementi.
Decise di passare da Topanga Canyon mentre ritornava in città. Spense il condizionatore dell'automobile e mise nel riproduttore una cassetta di meditazione, quella che enfatizzava il suo leit-motivpreferito: quello dell'uomo che si muoveva in silenzio, sicuro di sé e rassegnato, armato solo della sua missione caritatevole. Ascoltò il sacerdote con la voce da campa-gnolo che parlava di quanto fosse importante avere degli scopi. "Quello che distingue l'uomo in movimento dall'uomo che vive nell'inferno della stasi è la strada, sia quella che porta all'interno sia quella che conduce lontano, in direzione di scopi degni. Percorrere questa strada è al tempo stesso viaggio e destinazione, un dono fatto e ricevuto. Voi potrete cambiare la vostra vita per sempre se seguirete un semplice programma mensile. Per prima cosa pensate a ciò che più desiderate in questo momento. Può essere qualsiasi cosa, l'illuminazione spirituale o una macchina nuova. Prendete nota di questo vostro obiettivo su un pezzo di carta e scriveteci sopra la da-ta di oggi. Per i prossimi trenta giorni voglio che vi concentriate per raggiungere quell'obiettivo e non permettiate al minimo pensiero distruttivo di entrarvi nella mente. Se tali pensieri vi disturbano, banditeli! Bandite ogni pensiero che non sia quello santo e puro di raggiungere il vostro scopo, e vedrete accadere miracoli!"
Lui ci credeva. Era un metodo che per lui aveva sempre funzionato. C'erano venti pezzetti di carta ripiegati con cura a testimoniare della sua effi-cacia.
Aveva ascoltato quel nastro per la prima volta quindici anni prima, nel 1967, e ne era rimasto colpito. Ma a quel tempo non sapeva ancora cosa voleva. Tre giorni dopo aveva visto lei, e l'aveva capito. Si chiamava Jane Wilhelm. Nata e cresciuta a Grosse Point, era scappata dalla Bennington l'anno del diploma e se n'era andata a ovest in cerca di valori e amicizie nuove. Lei, con le sue camicie di tela oxford e i mocassini, si era ritrovata in mezzo ai drogati del Sunset Strip. L'aveva vista per la prima volta fuori dal WHISKY AU GO GO, mentre chiacchierava con un gruppo di delinquenti capelloni nell'evidente tentativo di mortificare la propria intelligenza e l'educazione ricevuta. Lui l'aveva fatta salire in macchina e le aveva parlato della cassetta e del pezzo di carta. Lei era rimasta commossa, ma aveva riso a lungo. Aveva detto che se voleva farsi quattro salti, bastava che lo chiedesse. Per lei il romanticismo era inutile, ed era una donna emancipata.
Era stato allora, con quel rifiuto, che lui aveva scorto il proprio obbligo morale. Aveva capito qual era il suo obiettivo presente e futuro: salvare l'innocenza delle donne.
Aveva tenuto sotto stretta sorveglianza Jane Wilhelm fino al termine dei trenta giorni prescritti dal sacerdote, spiandola mentre girava per i meeting di amore libero, gli appartamenti in cui si fermava temporaneamente e i concerti rock. Poco dopo la mezzanotte del trentunesimo giorno, Jane era uscita sola, barcollando, dal GAZZARI'S DISCO. Dalla sua macchina, parcheggiata dalla parte meridionale del Sunset, lui l'aveva osservata attraversare la strada. Aveva acceso gli abbaglianti e l'aveva illuminata in pieno, memorizzando per sempre i lineamenti stravolti dalle droghe e gli occhi sbarrati. Era l'ultimo atto della sua degenerazione. L'aveva strangolata là, sul marciapiede, poi aveva gettato il cadavere nel baule della macchina.
Tre notti più tardi si era diretto a nord, verso i campi alla periferia di Oxnard. Dopo aver improvvisato un servizio funebre con l'aiuto della sua cassetta e delle sue parole salvifiche, aveva sepolto Jane nella terra morbida adiacente una cava di roccia. Per quanto ne sapeva, il cadavere non era mai stato ritrovato.
Svoltò sulla Topanga Canyon Road, ricordando i particolari della meto-dologia che gli aveva permesso di dare la salvezza a venti donne senza farsi sorprendere dalla frenesia dei massmedia o dagli sbirri. Era molto semplice. Lui non faceva altro che diventare le sue donne, trascorrendo mesi interi ad assimilare ogni dettaglio delle loro vite, assaporandone ogni sfu-matura, catalogando ogni elemento di perfezione e imperfezione prima di decidere la tattica prevista per l'eliminazione, che era studiata in modo da adattarsi alla personalità, addirittura all'anima stessa, della sua amata. Dunque la pianificazione diveniva corteggiamento, e l'uccisione promessa di matrimonio.
Pensare al corteggiamento gli riportò alla mente un fiotto di ricordi esal-tanti, tutti che ruotavano intorno a dettagli concreti, alle piccole forme d'intimità che solo un amante poteva apprezzare.
Elaine, nel 1969, che tanto amava la musica barocca; una donna che, nonostante fosse graziosa, passava praticamente tutto il suo tempo libero ad ascoltare Bach e Vivaldi con le finestre dell'appartamento seminterrato aperte, perfino quando faceva molto freddo, perché desiderava condividere la gioia che provava con un mondo che faceva di tutto per ignorarla. Notte dopo notte era rimasto in ascolto con un microfono dal tetto di un'abitazione vicina, raccogliendo i deboli lamenti della solitudine nascosti sotto la musica. Quasi piangeva mentre i loro cuori si univano nel tormento dei Concerti brandeburghesi.
Per due volte era entrato nell'appartamento, per raccogliere elementi che gli avrebbero indicato il giusto modo di salvare l'anima di Elaine. Aveva deciso di aspettare, di meditare sulla fine della vita di quella donna, quando sotto ai maglioni aveva trovato una richiesta d'iscrizione a un servizio di appuntamenti via computer. Vedere Elaine soccombere a quell'ultima volgarità era stato l'indicatore finale.
Aveva passato un mese a studiare la sua grafia, e un'altra settimana a comporre con la stessa scrittura un biglietto in cui annunciava il suicidio.
Una gelida notte dopo il Giorno del Ringraziamento era entrato dalla finestra e aveva vuotato tre capsule e mezza di Seconal nella bottiglia di succo d'arancia da cui Elaine beveva sempre prima di andare a dormire.
Più tardi l'aveva osservata con un binocolo mentre consumava la letale comunione. Le concesse due ore di sonno prima di entrare nell'appartamento a lasciare il biglietto e aprire i rubinetti del gas. Come ultimo gesto d'amore aveva messo sullo stereo un concerto per flauto di Vivaldi in mo-do da accompagnare Elaine nella sua dipartita.
Si sentì riempire gli occhi di lacrime nel ricordare le altre sue amanti, mentre rammentava i momenti cruciali: Karen che amava i cavalli e la cui casa era una testimonianza della sua passione per gli equini. Karen, che cavalcava a pelo sulle colline oltre Malibu e che era morta in sella al suo roano quando lui era uscito di corsa dal suo nascondiglio e aveva spinto a bastonate il cavallo oltre il bordo di una scarpata. Poi Monica, di gusto squisito per le piccole cose, che avvolgeva il corpo poliomielitico tanto odiato in sete e lane pregiate. A mano a mano che lui coglieva frase dopo frase del suo diario e guardava crescere l'odio che la ragazza provava per il suo stesso corpo, si era convinto che smembrarla sarebbe stato un atto di compassione. Dopo avere strangolato Monica nel suo appartamento di Ma-rina Del Ray, l'aveva fatta a pezzi con una sega elettrica e aveva gettato le membra avvolte nella plastica nell'oceano, vicino a Manhattan Beach. La polizia aveva attribuito il delitto all'"Assassino della plastica".
Si asciugò le lacrime dagli occhi, sentendo i ricordi coagulare in una nuova ambizione. Era di nuovo il momento.
Raggiunse Westwood Village, trovò un parcheggio a pagamento e si in-camminò, decidendo di non avere troppa fretta, ma neanche di essere più cauto dello stretto necessario. Stava calando il crepuscolo, facendo anche calare la temperatura, e le strade del Village brulicavano di vitalità femminile: donne dappertutto, che si infilavano maglioni, si tenevano accanto al-le vetrine dei negozi mentre aspettavano di entrare nei cinema, curiosavano per le librerie, gli camminavano tutto intorno, lo oltrepassavano. Gli parve quasi di sentirsene attraversare.
Il crepuscolo divenne sera, e con il buio le strade si erano spopolate fino al punto in cui le singole donne spiccavano in tutta la loro unicità. Fu allora che la vide, di fronte alla Libreria Hunter, mentre guardava la vetrina come in cerca di un sogno. Era alta, slanciata, e aveva truccato appena il volto dolce che cercava ostentatamente di proiettare intorno a sé un'aura di allegra disinvoltura. Sulla trentina, e lui pensò che era sicuramente una cercatrice, un'artigiana di buon carattere: sarebbe entrata nella libreria, avrebbe guardato prima i best seller, poi i grandi autori in brossura, e alla fine si sarebbe decisa a comprare un romanzo gotico o un giallo. Era sola.
Aveva bisogno di lui.
La donna raccolse i capelli a crocchia e li fermò con una spilla. Con un sospiro, spinse la porta della libreria e si diresse con decisione al bancale su cui erano esposti vari libri su come migliorare se stessi. C'era di tutto, da Divorziare in modo creativo a Come vincere con lo yoga dinamico, e la donna, dopo qualche esitazione, prese una copia di Salvarsi la vita con il sinergismo dei campi vitali, e la portò alla cassiera.
Lui rimase continuamente a breve distanza dalla donna, e quando lei prese il libretto degli assegni per pagare il libro, ne memorizzò nome e indirizzo stampati sugli assegni:
Linda Deverson
3583 Mentone Avenue
Culver City, California, 90408
Non aspettò di sentire Linda Deverson conversare con la cassiera. Corse fuori dal negozio e raggiunse la macchina, preso dal suo amore e dall'im-perativo territoriale: il poeta voleva esaminare la scena del suo nuovo corteggiamento.
Tre settimane dopo, mentre faceva sviluppare l'ultima serie di fotografie, pensò che Linda Deverson era molte cose. Tirò fuori le foto dalla soluzione e le appese ad asciugare, e la guardò delinearsi nettamente in bianco e nero sulla carta. Linda che lasciava l'ufficio dove lavorava come agente immobiliare; Linda con la faccia imbronciata, mentre cercava di fare il pieno alla macchina da sola; Linda che faceva jogging per San Vicente Boulevard; Linda con lo sguardo fisso oltre la finestra del soggiorno, intenta a fumare una sigaretta.
Lui chiuse il negozio, prese le foto e salì al piano di sopra, nel suo appartamento. Come sempre, mentre attraversava il suo oscuro regno, si sentì orgoglioso. Orgoglioso di aver avuto la pazienza di risparmiare e perse-verare senza mai demordere nella sua determinazione a possedere quel luogo che gli aveva donato momenti fra i più belli della sua vita.
Quando i suoi genitori erano morti, lasciandolo senza casa a 14 anni, era stato preso in amicizia dal proprietario del Silverlake Camera, che gli dava venti dollari alla settimana per pulire il negozio ogni sera all'ora di chiusura e gli permetteva di dormire per terra e studiare nel gabinetto dei clienti.
Lui aveva studiato duramente, e aveva reso il proprietario orgoglioso di lui. L'uomo giocava d'azzardo e scommetteva sui cavalli, e si serviva del negozio come garanzia per le scommesse. Aveva sempre pensato che il suo benefattore, che soffriva di cuore ed era senza famiglia, un giorno gli avrebbe lasciato il negozio di fotografo; ma si sbagliava. Quando morì il negozio passò ai bookmaker suoi creditori. I quali lo rovinarono subito: as-sunsero un branco di incompetenti che trasformarono il piccolo e tranquillo locale in un raduno per delinquenti, organizzando scommesse sulle par-tite di football e sui cavalli e smerciando droga.
Quando si era reso conto di cosa era accaduto al suo santuario, lui aveva capito che doveva salvarlo, a qualunque prezzo.
Si era guadagnato agevolmente da vivere come fotografo free-lance, facendo servizi su matrimoni, banchetti e prime comunioni, e aveva da parte denaro più che sufficiente ad acquistare il negozio, se mai l'avessero messo in vendita. Ma sapeva che i mascalzoni che lo possedevano non l'avrebbero mai venduto, perché i profitti illeciti che ne ricavavano erano troppo grandi. La cosa lo angosciava tanto che aveva completamente dimenticato il suo quarto corteggiamento e aveva devoluto ogni energia all'obiettivo di poter avere per sempre il suo rifugio ormai devastato.
Le continue telefonate alla polizia e al procuratore distrettuale non erano servite a niente. Nessuno era disposto a fermare i traffici del Silverlake Camera. Ridotto alla disperazione, aveva cercato altri mezzi.
Dopo un'attenta sorveglianza, era venuto a sapere che il nuovo proprietario si ubriacava tutte le sere in un bar vicino al Sunset. Sapeva che all'ora di chiusura dovevano caricarlo su un taxi a forza, e che il tassista che lo andava a prendere al bar ogni notte alle due era un appassionato di cavalli che gli doveva molti soldi. Con la stessa diligenza con cui conduceva i suoi corteggiamenti, lui si era messo all'opera, cominciando con l'acquistare trenta grammi di eroina pura, quindi avvicinando il tassista e facendogli un'offerta. Il tassista aveva accettato, e aveva lasciato Los Angeles il giorno successivo.
Due notti più tardi, al volante del taxi che si era fermato davanti allo Short Stop Bar all'ora di chiusura, c'era lui. Alle due precise, il proprietario del Silverlake Camera era uscito barcollando e si era gettato sul sedile posteriore, perdendo immediatamente i sensi. Lui aveva portato l'uomo all'incrocio fra il Sunset e Alvarado, e gli aveva infilato nella tasca del soprabito un sacchetto di plastica pieno di eroina. Poi aveva trascinato l'ubriacone, ancora incosciente, al negozio e lo aveva sistemato in posizione seduta, metà dentro e metà fuori della porta d'ingresso, con la chiave nella destra.
Aveva raggiunto un telefono pubblico e aveva chiamato il Dipartimento di polizia di Los Angeles, denunciando un tentativo di rapina in atto. Del resto si erano occupati loro. All'incrocio fra il Sunset e Alvarado erano state mandate tre auto di pattuglia. Quando la prima aveva inchiodato di fronte al Silverlake Camera, l'uomo si era risvegliato, si era alzato in piedi e aveva messo la mano nella tasca del soprabito. I due uomini di pattuglia avevano frainteso il gesto e avevano sparato, uccidendolo. Il Silverlake Camera era andato all'asta la settimana successiva, e lui l'aveva acquistato per niente.
Il negozio di fotografia e l'appartamento di tre stanze al piano di sopra divennero il suo sogno personale, un sogno che lui trasformò in una sinfonia, una perfetta e decisa dichiarazione estetica radicata nel suo passato, e soprattutto nelle storie nascoste delle tre persone che gli avevano donato la terribile catarsi da cui aveva tratto la libertà necessaria a proteggere l'innocenza femminile.
Un'intera parete era dedicata ai suoi attaccanti, un collage fotografico che narrava dei loro squallidi progressi nella vita: quello muscoloso, vicesceriffo di Contea di Los Angeles; il suo leccapiedi, un prostituto. Il breve incontro che avevano avuto con lui ne aveva plasmato le vite in negativo, e per il loro vuoto spirituale l'unico balsamo era il denaro e il potere sui traffici illeciti. Le fotografie scattate di nascosto e appese alla parete ne erano testimonianza: Birdman, fermo su un marciapiede del quartiere omosessuale, i fianchi in fuori, gli occhi avidi che cercavano poveri disgraziati so-li a cui rubare qualche dollaro e pochi minuti di autocompiacimento; e poi l'uomo muscoloso, obeso e dal volto rubicondo, con lo sguardo rivolto oltre il finestrino della sua auto di pattuglia nel suo regno personale a West Hollywood: quello dei finocchi di alto bordo che proteggeva con ogni cu-ra, ma che rifiutavano la sua "protezione" e ridevano di lui, chiamandolo
"Agente Porco".
Sulla parete opposta c'erano ingrandimenti di foto della sua amata, prese da album scolastici. La sua innocenza era stata perpetuata in eterno dalla straordinaria nitidezza della sua abilità fotografica. Aveva ritagliato le foto il giorno del diploma, nel 1964, ma solo dieci anni più tardi, quando era diventato un fotografo provetto, si era sentito sicuro di sé quanto bastava ad assumersi un'impresa complessa come quella di ingrandire e riprodurre una foto per tentare di renderla di dimensioni maggiori del vero. Accanto agli ingrandimenti erano attaccati venti gambi di rose rinsecchite e contorte, i resti dei tributi floreali che spediva alla sua adorata ogni volta che in suo nome prendeva la vita di una donna.
Voleva trasformare il suo santuario in un testamento sensorio globale in nome di quelle tre persone, ma erano anni che il metodo per farlo gli sfuggiva. Le aveva raggiunte visivamente, ma voleva che fossero così vive da sentirle respirare.
La soluzione gli era giunta in sogno. Vedeva giovani donne legate al perno di un gigantesco giradischi in movimento. Lui era seduto alla centralina di controllo di un complicato sistema elettrico a premere pulsanti e spingere leve nel tentativo vano di costringere le donne a urlare. Ridotto quasi al punto di urlare a sua volta, era riuscito a trovare la capacità di cancellare la propria frustrazione agitando le braccia per simulare il volo.
Mentre calpestava l'aria con le membra, perse il fiato e si trovò sul punto di soffocare, quando le sue mani raggiunsero lunghi festoni di nastro ma-gnetico che volavano nell'aria. Lui aveva afferrato il nastro, servendosene come balestra per ritornare alla centralina di controllo. Durante il suo volo tutte le luci del pannello si erano spente, e quando cominciò a premere i pulsanti le luci si accesero, poi vi fu un corto circuito e tutto esplose in una nuvola di sangue. Lui aveva cominciato a riempire di nastro i fori insanguinati. Il nastro era strisciato nelle aperture, finendo sul giradischi e intorno al perno, schiacciando le giovani donne prigioniere. Le urla lo avevano risvegliato da quel sogno, sciogliendosi in quello che aveva emesso lui nell'accorgersi di essere esploso con le mani strette all'inguine.
Quella mattina aveva comprato due registratori a transistor fra i migliori sul mercato, due microfoni, dieci metri di cavo elettrico e un alimentatore a transistor. Nel giro di una settimana gli appartamenti dell'Agente Porco e della sua amata di un tempo erano stati equipaggiati di dispositivi spia perfettamente nascosti, e lui aveva potuto entrare completamente nelle loro vi-te. Faceva sortite settimanali per cambiare il nastro, tornando a casa quasi sul punto di scoppiare mentre guardava le foto sulla parete e ascoltava i lo-ro sussurri, venendo a conoscenza di segrete intimità che neppure gli amanti più cari potevano conoscere.
E quelle intimità confermavano in ogni aspetto l'idea che si era fatto: la sua prima amata accoglieva i suoi amanti carnali con molta cautela. Erano tutti uomini apparentemente sensibili, che l'amavano molto e non potevano che capitolare di fronte alla sua raffinata volontà. Lui capiva che sotto quella facciata a volte un po' stridente da femminista militante lei doveva sentirsi molto sola, ma era naturale: era una poetessa di grande fama locale, e la solitudine era la maledizione di tutti i creativi. L'Agente Porco, na-turalmente, era la corruzione incarnata: uno sbirro arrivista che si faceva pagare dai prostituti del quartiere omosessuale per guardare da un'altra parte insieme ai suoi squallidi amici poliziotti mentre si dedicavano alle loro perversità. Birdman gli faceva da collegamento, e dopo ore passate ad ascoltare i due vecchi compagni di liceo che gongolavano sulle loro truffa-relle da quattro soldi si era convinto che la miseria delle loro vite era in sé una splendida vendetta.
Passarono gli anni e lui ascoltava, nelle lunghe sere in cui si toccava nella tenebra assoluta mentre le voci incise sui nastri si susseguivano negli au-ricolari. Nel suo desiderio di essere in totale sincronia con le persone che avevano celebrato quella rinascita, lui si fece ancora più ardito, e il giorno dell'anniversario di quell'evento iniziale a cui pensava ormai raramente, e-laborava i suoi fidanzamenti camuffandoli da suicidi, in modo da celebrare la sua umiliazione in quel corridoio di liceo coperto di segatura. Lo aveva fatto quattro volte: due proprio sotto la casa dell'Agente Porco, e una nel suo stesso condominio. In quegli istanti di memoria simbiotica, l'amore che provava aveva reso i suoi orgasmi a mani strette dieci volte più enor-mi, e lui sapeva che, con ogni sua traversia di arte fotografica e respiri e sangue, il suo sogno diventava sempre più inviolato. Ritornato al presente, ripensò alle molte cose che era Linda Deverson, poi si sentì svuotare la mente nel cercare di trovare una linea narrativa da imporre al turbinio di immagini che costituivano il suo nuovo amore. Sospirò e si chiuse alle spalle la porta dell'appartamento, poi prese le foto di Linda e le attaccò alla finestra in vetro di Tiffany di fronte al suo scrittoio. Sospirando nuovamente, scrisse:
17/5/82
Dopo averla corteggiata per tre settimane non sono ancora riuscito a far breccia nel suo appartamento, tanto meno nel suo cuore. Tripla serratura sull'unica porta, ci vorrà coraggio per entrare.
Dovrò rischiare presto: Linda rimane fuggevole. O forse no. Quello che mi ha colpito di lei finora è il suo senso dell'umorismo, il sorriso triste che le illumina il volto mentre prende una sigaretta dalla tuta dopo aver fatto jogging per cinque chilometri verso San Vicente; il suo deciso e gioviale rifiuto di uscire con quel giovane e testardo agente che sta in ufficio con lei all'agenzia immobiliare; il modo con cui parla fra sé quando pensa che nessuno la veda e l'ostentazione con cui si copre la bocca quando un passante la sorprende. Due sere fa l'ho seguita al seminario sul sinergismo dei campi vitali. Ho visto quello stesso sorriso triste mentre firmava l'assegno per la tassa d'iscrizione e ancora al primo "raduno", quando le hanno detto che non era permesso fumare. Sono convinto che Linda possieda lo stesso distacco che ho notato in molti scrittori: il desiderio di accomunarsi all'umanità, di condividere un'esperienza o un sogno, e allo stesso tempo di rimanere in disparte, di trattenere le proprie verità (per quanto universali) al di sopra di quelle collettive. Linda è una donna molto acuta. Durante il corso del primo raduno (un'accozzaglia di sciocchezze ambigue riguardo l'unità e l'energia) mi sono recato nascostamente all'ufficio d'iscrizione e ho rubato il modulo da lei compilato. Ora della mia amata so questo:
1. Nome: Linda Holly Deverson
2. Data di nascita: 29/4/52
3. Luogo di nascita: Goleta, California
4. Livello di educazione: Liceo 1 2 3 4
Università 1 2 3 4
Diplomi speciali? No.
5. Come avete saputo del S.C.V.? «Ho letto il vostro libro.»
6. Descrivetevi con quattro di queste definizioni:
1. Ambizioso/a
2. Atletico/a
3. Aggressivo/a
4 Illuminato/a
5 In sintonia
6. Sognante
7. Curioso/a
8 Passivo/a
9. Infuriato/a
10 Sensibile
11. Appassionato/a
12. Estetico/a
13. Carnale
14. Moralista
15. Generoso/a
7. Perché siete venuto/a all'Istituto per il S.C.V.? «Onestamente non lo so. Ho letto nel vostro libro cose che mi hanno colpito co-me verità che forse potevano aiutarmi a migliorare.»
8. Pensate che il S.C.V. possa cambiare la vostra vita? «Non so.»
Una donna acuta. Ma io posso cambiare la tua vita, Linda; sono l'unico che può farlo.
Tre sere più tardi irruppe nel suo appartamento.
L'azione era stata accuratamente pianificata. Sapeva che sarebbe andata al secondo seminario che sarebbe durato dalle otto a mezzanotte. Alle otto meno un quarto si trovava dalla parte opposta della strada rispetto all'Istituto di S.C.V., all'incrocio fra la Quattordicesima e Montana, a Santa Monica, armato di un bloccacircuiti grande come una scatola di fiammiferi, con un paio di guanti in gomma da chirurgo.
Sorrise nel vedere Linda parcheggiare nello spiazzo e ricambiare saluti con lo sguardo agli altri apprendisti del S.C.V. che stavano arrivando, e aspirare poi voluttuosamente l'ultima sigaretta prima di correre nel grande edificio di mattoni rossi.
Lui attese dieci minuti, poi corse alla sua Camaro del '69, aprì il cofano motore e collegò il deviatore allo spinterogeno dell'auto. Se qualcuno avesse cercato di mettere in moto la Camaro, il motore avrebbe girato una volta e si sarebbe spento. Esilarato dalla perfezione di quell'oggettino così piccolo, richiuse il cofano e corse alla sua macchina, poi andò a casa della sua amata.
La notte di primavera era buia, e il vento caldo gli dava anche protezione uditiva. Parcheggiò a un isolato di distanza e raggiunse cautamente il 3583
di Mentone Avenue, portando con sé una chiave inglese e una radio a transistor nascosta in un sacchetto di carta. Proprio mentre veniva raggiunto da una forte corrente di vento, mise la radio per terra di fronte alla finestra del soggiorno della casa di Linda e alzò il volume al massimo. La notte venne schiantata dal punk trasmesso alla radio, e lui fracassò la finestra colpen-dola con la chiave inglese a tutta forza, poi afferrò la radio e tornò di corsa alla macchina.
Aspettò venti minuti, finché non ebbe la certezza che nessuno aveva sentito alcun rumore e che non fossero suonati allarmi muti. Poi tornò alla ca-sa ed entrò nell'appartamento buio.
Richiuse le tende di fronte alla finestra rotta, inspirò profondamente e aspettò che gli occhi si abituassero al buio, poi lasciò via libera alla propria curiosità più pressante e si diresse senza esitare verso il punto in cui doveva trovarsi il bagno. Accese la luce e frugò nell'armadietto delle medici-ne, poi controllò il completo da trucco sopra il gabinetto e frugò perfino nel cesto della biancheria da lavare. La sua anima tirò un sospiro di sollievo. Non c'era traccia di contraccettivi di alcun genere. La sua amata era una donna casta.
Lasciò la porta socchiusa ed entrò nella camera da letto. Notò subito che non c'era luce, e accese la lampada accanto al letto. Lavorò al bagliore dif-fuso, spalancando l'antina del guardaroba, ansioso di toccare i tessuti che ricoprivano la sua amata.
L'armadio era pieno di abiti appesi agli attaccapanni, e lui li prese tutti con una sola bracciata e li portò nel bagno. Erano in maggior parte completi, di grande varietà di tessuti e stili. Tremante, lui fece passare gli abiti di poliestere e cotone, gonne-pantaloni di finta seta, abiti eleganti in tweed; decorazioni a righe, rombi, quadri. Tutto estremamente femminile e che diceva molto della natura raffinata e cercatrice di Linda Deverson. "Non sa chi è" si disse "e così compra questi abiti per riflettere tutte le svariate cose che potrebbe essere".
Riportò il fagotto di vestiti nell'armadio e risistemò tutto, com'era, poi continuò a cercare altre prove della castità di Linda. Le trovò sul piedistal-lo del telefono: tutti i numeri scritti nell'agendina appartenevano a donne.
Con il cuore esultante di gioia, andò in cucina e frugò nell'armadietto sotto il lavello finché non trovò una lattina di vernice nera e un pennello duro.
Aprì la lattina, prese una grande pennellata di tinta e scrisse sulla parete della cucina CLANTON 14 ST. - CULVER CITY -VIVA LA RAZA. Per migliorare la messinscena, prese un tostapane e un registratore a cassette portatile e se li portò via.
Sistemato il tostapane sul sedile accanto, tornò all'Istituto per il S.C.V. e tolse il deviatore dall'auto di Linda, poi tornò a casa per meditare sulla raf-finatezza della sua donna.
Il mercoledì sera successivo ci fu il primo raduno del S.C.V. sul tema
"Domande e risposte". Lui aveva comprato il biglietto due giorni prima al-la biglietteria automatica vicino al suo negozio, ed era curioso di sentire quali domande Linda avrebbe rivolto ai suoi programmatori del S.C.V., che fino a quel momento non avevano avuto dialogo con i loro discepoli.
Era sicuro che la sua amata avrebbe fatto domande intelligenti e impronta-te allo scetticismo.
Fuori dall'istituto c'era un corteo di bigotti con cartelli su cui era scritto IL SINERGISMO È PECCATO! GESÙ È L'UNICA VIA! Lui rise mentre li oltrepassava. Era convinto che Gesù fosse una volgarità. Uno dei bigotti notò il suo sorriso sardonico e gli domandò se era stato salvato.
«Certo, venti volte» ribatté lui.
Il bigotto spalancò la bocca. Era stato insultato da molti pazzoidi sacri-leghi, ma quello era un tipo nuovo. Si fece da parte e lasciò entrare nel palazzo quell'eretico indefinibile.
Una volta entrato diede il biglietto alla guardia del servizio di sicurezza, che gli passò un grosso cuscino, indicandogli la sala di riunione. Lui attraversò il corridoio adornato dalle foto degli adepti più celebri ed entrò in una grande sala occupata da gruppetti di gente che aspettava ansiosamente chiacchierando e squadrando i nuovi arrivati. Sistemò il cuscino in fondo alla sala e sedette con gli occhi fissi alla porta.
Lei entrò un istante più tardi, piazzandosi a pochi metri di distanza da lui. Il cuore gli diede un balzo, e cominciò a battere così forte che gli parve cancellare tutto il ciarlare emozionato riguardo scemenze psicologiche che regnava intorno. Abbassando gli occhi in grembo, assunse una postura meditativa per scoraggiare qualsiasi tentativo di conversazione. Serrò gli occhi e si strinse le mani con tanta forza che gli parve di essere una bomba pronta a esplodere.
Poi le luci della sala vennero abbassate due volte, per indicare che la seduta stava per avere inizio. L'assemblea si zittì mentre le luci si spegnevano del tutto e venivano accese candele, sistemate poi in posizione strate-gica per tutta la sala. L'oscurità improvvisa lo avvolse, stringendolo come un'amante. Voltò la testa e scorse la sagoma di Linda stagliata contro la lu-ce delle candele. "Sei mia" si disse, "mia".
Dagli altoparlanti cominciò a provenire una musica di sitar, che si risolse in una gentile voce maschile. "Sentite i campi che vi separano dal vostro io più elevato dissolversi. Ascoltate il vostro io interiore unirsi alla sinergia degli altri campi vitali sintonizzati, ascoltateli produrre vera energia e unione. Sentite la sintesi di voi stessi con tutto ciò che di buono c'è nel cosmo."
La voce divenne un sussurro. "Questa sera sono qui per parlare con voi di persona, per aiutarvi ad applicare i principi del sinergismo dei campi vitali alle vostre vite. Questa è la vostra terza riunione. Ora avete le armi necessarie a cambiare per sempre la vostra vita, ma so che avete certamente molto da chiedere. È per questo che sono qui. Luci, prego!"
Le luci si accesero improvvisamente, stordendolo. Modulando attentamente il respiro per mantenere il controllo, guardò un uomo dai capelli bianchi con una giacca sportiva blu raggiungere un leggio da conferenze ornato di fiori all'altra estremità della sala. L'uomo venne accolto con applausi e sguardi estasiati.
«Grazie» disse l'uomo. «C'è qualche domanda?»
Un signore anziano nelle prime file sollevò la mano e disse: «Sì, ce l'ho io una domanda. Cosa intendete fare per i negri?»
L'uomo al leggio diventò rosso fino alla radice dei capelli argentei e disse: «Be', ecco, non credo che questa sia una domanda pertinente. Penso...»
«Io invece sì!» ruggì il vecchio. «Voi avete tolto questo palazzo all'Alce, e avete la responsabilità civile di risolvere il problema dei negri!» Il vecchio si guardò intorno in cerca di sostegno senza trovare altro che alzate di spalle imbarazzate e sguardi ostili. L'uomo al leggio schioccò le dita e nella sala entrarono due adolescenti robusti in giacche sportive.
Il vecchio continuò a sbraitare. «Sono stato membro della Loggia dell'Alce per 38 anni, e maledico il giorno che abbiamo venduto tutto a voi lu-ride checche! Chiederò un'assemblea del consiglio di quartiere, farò passare un'ordinanza che mandi tutti i negri e i pazzoidi religiosi fuori da Wilshire. Sono membro di rispetto del...» I due adolescenti afferrarono l'uomo per le braccia e le gambe e lo trascinarono fuori, mentre lui scalciava, mordeva e strillava.
L'uomo di fronte al leggio fece segno di stare calmi, alzando le mani in un gesto supplichevole per zittire il cicaleccio seguito all'uscita di scena dell'uomo. Passandosi la mano fra i capelli d'argento, l'uomo disse: «Ecco, avete visto qualcuno che ha una debole sinergia karmica! Il razzismo è segno di un chakra povero! Adesso...»
Linda Deverson alzò con uno sforzo la mano e disse: «Ho una domanda da fare. Riguarda quell'anziano. Non potrebbe darsi che il suo io interiore sia malato e che i suoi campi vitali originari siano così sconvolti dalla paura e dalla rabbia che non riesce a trovare altro sfogo che la furia? Che abbia magari anche solo un poco di gentilezza e curiosità, e sia venuto qui stasera per quello? Voglio dire, dopo tutto ha pagato per venire a questa riunione, ha...»
«I soldi gli verranno restituiti» ribatté l'uomo al leggio.
«Non è questo che volevo dire!» urlò Linda. «Ma non capite che non si può liquidare un uomo con una battuta su un chakrapovero? Non vi...»
Linda picchiò le mani sul cuscino poi si alzò in piedi e corse alla porta.
«Lasciatela andare!» esclamò il capogruppo. «I suoi pochi denari le verranno restituiti se lascia il corso. Lasciate che paghi per il suo chakra!»
Trattenendo a malapena l'emozione, lui si alzò per seguirla e per poco non venne gettato a terra da una donna alta e formosa che indossava un completo pantalone di velluto a coste. Quando uscì nel parcheggio, vide la donna discutere con Linda, che stava fumando una sigaretta asciugandosi dagli occhi lacrime di rabbia. Al riparo di una siepe d'arbusti, sentì ogni parola della loro conversazione.
«Merda, merda, merda» borbottava Linda.
«Lascia perdere» diceva la donna. «Non si può averle tutte vinte. Io cerco la mia strada da molti anni più di te. Ascolta la voce dell'esperienza.»
Linda rise. «Probabilmente hai ragione. Dio, quanto vorrei bere qualcosa!»
«Anche a me andrebbe» disse la donna. «Ti va uno scotch?»
«Lo adoro!»
«Ottimo. Ho una bottiglia di Chivas, a casa. Abito a Palisades. Sei qui in macchina?»
«Sì.»
«Vuoi seguirmi?»
Linda annuì e spense la sigaretta pestandola a terra. «Certo.»
Lui le tallonò mentre percorrevano le tortuose strade del Santa Monica Canyon, finché non raggiunsero un tranquillo isolato di grandi case fron-teggiate da ampi giardini. Guardò la prima auto che accendeva l'indicatore di destra ed entrava in una lunga via privata circolare. Linda la seguì, par-cheggiando dietro. Lui proseguì e accostò all'angolo, poi raggiunse con aria noncurante la casa in cui erano entrate le due donne.
Il giardino circondava tutta la casa, e il perimetro era costituito da alte piante di ibisco. Si fece largo fra di esse, rimanendo nell'ombra, facendo il giro completo della casa prima di scorgere le due donne sedute su grandi poltrone vicine in un soggiorno confortevole. Abbassandosi, osservò Linda che sorseggiava lo scotch e rideva, immaginandola piacevolmente intrattenuta da lui, dalla sua arguzia e dai versi gioviali che scriveva per lei sola.
Anche l'altra donna rideva, battendosi la mano sul ginocchio e riempiendo ogni pochi minuti il bicchiere di Linda da una bottiglia posata sul tavolino accanto a loro.
Rimase a guardare dalla finestra, sperduto nelle risate di Linda, quando improvvisamente si rese conto che c'era qualcosa di drasticamente fuori posto. Il suo istinto non lo ingannava mai, e proprio quando era sul punto di localizzare la ragione della sua inquietudine, vide le due donne avvicinarsi lentamente e baciarsi sulle labbra in perfetta sincronia, in un primo momento con qualche esitazione, poi appassionatamente, rovesciando la bottiglia di scotch mentre si abbracciavano avidamente. Lui fece per urlare, poi si trattenne ficcandosi la mano in bocca. Alzò l'altro pugno per fra-cassare la finestra, ma la ragione lo trattenne, e colpì invece il terreno.
Guardò di nuovo la vetrata. Le donne non si vedevano più. Schiacciò freneticamente il volto contro il vetro e sforzò il collo fin quasi a slogarse-lo, finché non vide due paia di gambe nude abbracciate che si contorceva-no per terra. A quel punto urlò davvero e il suono spettrale della propria voce lo spinse fuori in strada. Corse fino a sentirsi bruciare i polmoni e tremare le gambe. Poi cadde in ginocchio e rimase completamente immobile, schiacciato dalle confortanti visioni delle altre sue venti donne. Ripensò a loro com'erano nel momento della salvezza, e a quanto assomigliavano a quelle che avevano tradito la sua amata tanti anni prima.
Sentendosi donare nuova forza dalla certezza che il suo scopo era sacro-santo, si rialzò e tornò alla propria auto.
Esercitare i rituali della vita di tutti i giorni gli permise di continuare la sua opera durante la settimana successiva, impedendo ai ricordi del tradimento di spingerlo ad azioni disperate.
Da mattina fino a tardo pomeriggio si occupava del negozio, poi iniziava il suo giro per smaltire le chiamate ricevute. Come ogni primavera, i matrimoni cominciavano a farsi più frequenti, e quell'anno lui poté permet-tersi di scegliere i servizi, passando l'inizio della sera a interrogare i genitori delle coppiette di fidanzati convinti di stare interrogando lui. Decise che non avrebbe accettato incarichi da persone brutte o ripugnanti. Di fronte alla sua macchina fotografica voleva solo gente alta e bella e giovane.
Dopo aver sbrigato i suoi affari tornava a Palisades e rimaneva a guardare Linda Deverson e Carol March mentre facevano l'amore. In un completo nero, scalava un palo delle linee telefoniche avvolto dalle ombre e sbirciava dalla finestra della camera, al piano superiore, dove le due donne si univano su un letto ad acqua coperto di trapunte colorate. Verso mezzanotte, quando cominciava a sentirsi le braccia indolenzite dopo lunghe ore in cui era rimasto abbracciato al palo del telefono, guardava Linda, appagata, mentre si alzava dal letto e Carol cercava di convincerla a passare la notte da lei. Era sempre così: il suo cervello, volontariamente annullato per tutto il periodo in cui osservava le due che facevano l'amore, ritornava improvvisamente in vita rincorrendo ipotesi disparate quando Linda se ne andava.
Perché, si chiedeva, Linda voleva andarsene? Forse emergeva in lei il senso di colpa? Rimorso per la degradazione in cui era caduta?
Allora saltava giù dal palo e correva a prendere la macchina, portandosi a fari spenti dietro la Camaro di Linda proprio mentre lei usciva dalla casa.
Poi la seguiva, mentre Linda tornava a casa per la strada più panoramica possibile, come se avesse bisogno di ritrovare la bellezza dopo la sua notte di depravazione. Mantenendosi dietro di lei a distanza di sicurezza, la lasciava allontanare all'incrocio fra il Sunset Boulevard e la Pacific Coast Highway, domandandosi come e quando poterle portare la salvezza.
Dopo altre due settimane di accurata sorveglianza, scrisse nel suo diario: 7/6/82
Linda Deverson è una tragica vittima di questi tempi. Ha una sensualità autodistruttiva che indica un forte bisogno di affetto materno. La March se ne avvantaggia, da quella vipera che è.
Linda rimane insoddisfatta sia nella sua sensualità sia nella disperata ricerca di una madre (la March è più vecchia di lei di almeno 15 anni!). Le sue escursioni notturne in cui visita le zone più struggenti di Pacific Palisades e santa Monica parlano chiaramente del senso di colpa che nutre e della sua natura raffinata, di cercatrice. Sente un grande bisogno di bellezza, nel crepuscolo della propria autodistruzione. Devo prenderla ora, dev'essere ora l'esatto momento della sua salvezza.
Sapendo di poter contare sulla propria conoscenza del luogo, allontanò dalla mente ogni pensiero riguardo al tempo, perdendosi completamente nel suo corteggiamento. Ma per quelle notti passate fuori stava cominciando a pagare un prezzo fatto di piccole mancanze nella sua vita professionale: rullini di pellicola usati e poi stupidamente esposti alla luce, appuntamenti dimenticati, ordini per servizi fotografici persi. Tutte quelle mancanze dovevano cessare, e sapeva come. Doveva consumare il suo amore per Linda Deverson.
Fissò la data: martedì 14 giugno, tre giorni dopo. L'emozione dell'attesa cominciò a montare.
Lunedì 13 andò a un negozio di forniture automobilistiche nella Valley e comprò una latta di olio per motori, poi raggiunse un cimitero d'auto e disse al proprietario che stava cercando stemmi cromati da prendere dai co-fani. Mentre il proprietario si dava da fare per cercarli, lui raccolse a grandi manciate la limatura di ferro dal terreno e la mise in un sacchetto di carta.
Il rottamaio tornò di corsa qualche minuto più tardi, mostrandogli un piccolo bulldog cromato. Sentendosi in vena di generosità, lui offrì all'uomo dieci dollari. L'altro accettò. Tornando al negozio, all'altezza di Cahuenga Pass, gettò il bulldog fuori dal finestrino e fece una risata nel sentirlo tintinnare contro l'asfalto.
Il giorno del rito della consumazione venne accuratamente pianificato e sincronizzato al secondo. Appena alzato attaccò alla vetrina il cartello CHIUSO PER MALATTIA e tornò al suo appartamento, dove mise ancora la cassetta per la meditazione e rimase a fissare le foto di Linda Deverson. Poi distrusse le pagine del suo diario che la riguardavano e fece una lunga passeggiata per il quartiere, fino a Echo Park, dove trascorse alcune ore in barca sul laghetto a dare da mangiare alle anatre. Al crepuscolo sistemò tutti gli strumenti rituali nel baule della macchina e si diresse al primo e ultimo appuntamento con la sua amata.
Alle 8,45 aveva già parcheggiato a quattro porte di distanza dall'abitazione di Carol March, e spostava continuamente lo sguardo dalla strada buia all'orologio del cruscotto. Alle 9,03 Linda Deverson svoltò nel vialet-to. Lui scoppiava di gioia per quella perfezione. Era puntualissima.
Partì alla volta di Santa Monica Canyon, verso l'incrocio fra West Channel Road e Biscayne, dove la West Channel si biforcava per condurre a un piccolo parco pieno di tavolini da picnic e dondoli. Se i suoi calcoli erano esatti, Linda sarebbe arrivata esattamente dieci minuti prima di mezzanotte. Accostò la macchina al margine della strada, al bordo del parchetto, nascosta agli sguardi da un filare di sicomori. Poi andò a fare una lunga passeggiata.
Fu di ritorno alle 11,40 e tolse l'equipaggiamento dal baule, indossando per prima cosa l'uniforme da guardia forestale e il cappello con l'Orso Smoky, la camicia di lana verde e la cintura degli utensili, poi montò i cartelli di deviazione fatti con sostegni da taglialegna e li sistemò all'incrocio.
Quindi portò la latta da venti litri di olio per motori e la limatura di ferro in mezzo alla strada e versò tutto quanto con cura sull'asfalto, finché la strada appena prima dei cartelli di deviazione non divenne una distesa di liquido violetto e scivoloso in mezzo al quale luccicavano frammenti acu-minati d'acciaio. Poi non rimase più altro da fare che attendere.
Alle 11,52 sentì arrivare la sua macchina. Quando vide i fari, ebbe un brivido, e dovette fare uno sforzo per trattenere intestino e vescica.
L'auto rallentò nell'avvicinarsi ai cartelli, frenò e svoltò a destra, poi fece un testacoda e slittò andando a finire contro i sostegni da taglialegna. Vi fu uno schianto quando la lamiera si fracassò contro il legno, poi due forti scoppi quando gli pneumatici posteriori esplosero. L'auto si fermò e Linda uscì sbattendo la portiera e borbottando: «Oh cazzo, oh merda» e facendo il giro della macchina per accertare il danno.
Raccogliendo tutto il coraggio e tutta la signorilità che aveva, uscì dagli alberi e gridò: «Sta bene, signorina? Ha fatto una brutta scivolata.»
Linda rispose: «Sì, sto bene. Ma la macchina...!»
Lui estrasse la pila elettrica dalla cintura e la rivolse verso l'oscurità, muovendola ad arco per tutto il campo diverse volte, prima di spostare il fascio luminoso sulla sua adorata. Linda socchiuse gli occhi per il bagliore e alzò una mano per farsi schermo. Lui le si avvicinò, puntando la luce verso terra.
Lei sorrise nel notare il cappello. Era arrivato l'Orso Smoky ad aiutarla.
Si sentì felice di avere fumato l'ultima sigaretta da Carol. «Oh Dio, sono tanto contenta che sia arrivato» disse. «Ho visto il segnale di deviazione e poi ho slittato non so su cosa. Credo di avere due gomme a terra.»
«Nessun problema» disse lui. «Ho il capanno degli attrezzi proprio qui vicino. Chiameremo una stazione di servizio aperta anche la notte.»
«Oh Dio, che rottura di palle» disse Linda, allungando a tentoni la mano per cercare il braccio del suo salvatore. «Non sa quanto sono contenta di averla incontrata.»
Lui provò un fremito nel sentirsi toccare da lei. Si sentì bruciare di gioia, e disse: «È da tanto che ti amo. Da quando eravamo piccoli. Fin da quan...»
Linda ansimò. «Che dia...» disse. «Chi dia...»
Fece per indietreggiare, poi inciampò e cadde a terra. Lui allungò una mano per aiutarla ad alzarsi. Lei esitò. «No, per favore» piagnucolò. Lui portò la mano alla cintura e staccò l'accetta da incendio, a doppio taglio. Si chinò di nuovo, afferrando il polso di Linda e tirandola su nel momento esatto in cui faceva calare l'accetta in un potente arco. Il cranio di Linda scoppiò e tutto l'amore che lui provava si mosse al rallentatore, mentre sangue e frammenti di materia cerebrale schizzavano in aria, sospendendo quell'istante in mille eternità differenti. Fece calare l'accetta ancora e ancora, finché non si vide inzuppato di sangue e non ebbe sangue sul volto e in bocca e nel cervello, e tutta la sua anima divenne di un rosso scintillante e amoroso, il rosso splendente dei fiori che il mattino successivo avrebbe spedito alla sua amata. Per te, per te, per te sempre, mormorava il poeta nell'abbandonare quello che rimaneva di Linda Deverson e faceva ritorno alla sua macchina. La mia anima, la mia vita per te.
4
Il sergente Lloyd Hopkins della Squadra investigativa celebrò il dicias-settesimo anniversario del suo matrimonio con il Dipartimento di polizia di Los Angeles come al solito, cioè prendendo un tabulato di rapporto sui crimini più recenti e sugli interrogatori compilato dalla Divisione Rampart, per poi tornare al suo quartiere in modo da assaporare l'aria del passato e quella del presente dal proprio avamposto di uomo che proteggeva l'innocenza da 17 anni.
La giornata di ottobre era nebbiosa e quasi calda. Lloyd prese la sua Matador non ufficiale dallo spiazzo del Parker Center e si diresse a ovest verso il Sunset, immerso nei ricordi: quasi vent'anni in cui tutti i suoi sogni si erano realizzati. Lavoro, moglie e tre bambine meravigliose. Il lavoro era emozionante e poco appagante; il matrimonio forte nel senso che erano diventati forti lui e Janice; le bambine erano una felicità sufficiente a dare una ragione per vivere. Quello che mancava era solo la gioia, e nella sere-na nostalgia per i tempi andati Lloyd ne meditò l'assenza durante la sua maturità. Aveva quarant'anni, non 23; se quei 17 anni da agente gli avevano insegnato qualcosa, era che tutte le speranze scemavano a mano a mano che ci si rendeva conto di come l'umanità stava andando a puttane, e che occorreva inventarsi mille ragioni diverse e contraddittorie per mantenere in vita i sogni più importanti.
Mentre si fermava all'incrocio fra il Sunset ed Echo Park, alzando i finestrini per scacciare il rumore della strada pensò che - ironia della sorte -
quelle "ragioni" erano sempre costituite da donne, in aperta violazione dei suoi voti presbiteriani di matrimonio. Un'ironia che Janice, forte e testarda, non avrebbe mai capito. Lloyd sentì che quelle meditazioni stavano deci-samente uscendo dal seminato, e si gettò avanti, ansioso di dirlo a voce al-ta, a se stesso e all'aria vuota che lo circondava: "Tra noi non funzionereb-be niente, Janice, se non avessi la possibilità di scaricarmi in quel modo.
Tutte le piccole cose si accumulerebbero e io alla fine esploderei. E tu mi odieresti. E anche le bambine. È per questo che lo faccio. È per questo che ti..." Lloyd non riuscì a costringersi a pronunciare la parola "tradisco".
Pose fine a quelle meditazioni e si fermò nel parcheggio di un negozio di liquori, poi si tolse di tasca il tabulato del computer e si mise a pensare.
I fogli erano di un color rosa pallido e coperti di caratteri neri, fiancheg-giati da file di fori paralleli. Lloyd li lesse sistemandoli in ordine cronologico, cominciando da quelli datati 75/9/82. Cominciando dai rapporti criminali, lasciò che nella mente, del tutto libera da pensieri, gli scivolassero le brevi descrizioni di stupri, rapine, scippi, furti ai negozi e atti di teppi-smo. Le descrizioni dei sospetti e di ogni tipo di arma, dalle mazze da baseball alle mitragliatrici, erano registrate con periodi secchi e volontariamente smozzicati. Lloyd li lesse tre volte, sentendo di memorizzare sempre meglio fatti e cifre a ogni rilettura. Benedisse Evelyn Wood e il suo metodo, grazie al quale era in grado di divorare le parole stampate al ritmo di tremila al minuto.
Poi passò ai rapporti degli interrogatori in loco. Gente fermata per la strada, trattenuta per breve tempo e interrogata, quindi rilasciata. Lloyd li lesse quattro volte, realizzando a ogni rilettura che c'erano dei collegamenti da fare. Stava per ripassare un'altra volta tutto il pacco di tabulati, quando trovò il punto focale dell'intuizione che stava salendo alla superficie.
Frugò accanitamente tra i fogli di carta rosa e trovò quello che cercava: Verbale 10691, 6/10/82. Rapina a mano armata.
Verso le 23,30 di giovedì 6 ottobre, il Black Cat Bar all'incrocio fra il Sunset e la Vendome era stato rapinato da due messicani. Età non definita, ma si presumeva fossero giovani. Avevano in testa calze di seta per ma-scherare i lineamenti, portavano "grossi" revolver e avevano svuotato il registratore di cassa prima di costringere il gestore a chiudere il locale. Poi avevano costretto i clienti a stendersi per terra. Mentre erano distesi, i ladri li avevano alleggeriti di portafogli e gioielli. Un istante dopo erano scappa-ti, avvertendo che il loro "rincalzo" sarebbe rimasto fuori armato di mitragliatrice per venti minuti. Prima di andarsene avevano tagliato i cavi del telefono. Cinque minuti dopo il barista era corso fuori. Non c'era nessun rincalzo.
"Stupidi coglioni" pensò Lloyd, "rischiare minimo cinque anni di galera per un migliaio di dollari." Rilesse il verbale d'indagine, compilato da un agente di pattuglia della Rampart: 7/10/82, ore 1,05. "Interrogati due uomini bianchi fuori residenza al 2269 di Tracy. Bevevano vodka seduti su una Firebird vecchio modello, targa HBS 027. Affermano che la macchina non è loro, ma che abitano nella casa. Perquisiti da me e dal collega, niente armi. Ricevuta chiamata urgente prima di poter controllare fedina." Sotto c'era scritto il nome dell'agente.
Lloyd rimescolò nel cervello le ultime informazioni, pensando che era triste che lui dovesse conoscere nei dettagli un quartiere meglio degli agenti che lo pattugliavano. Il numero 2269 di Tracy Street era un vecchio rifugio per delinquenti fin da quando lui frequentava il liceo vent'anni prima, ai tempi in cui ospitava un istituto di recupero sociale per ex carcerati L'ex gangster dal grande carisma che aveva condotto tutta l'impresa con i fondi dello stato si era appropriato indebitamente di un carico di droga dalle agenzie assistenziali locali prima di vendere la casa a un vecchio amico di Folsom per tagliare poi la corda in direzione del confine e non farsi vedere più. Il suo amico aveva immediatamente assunto un avvocato per poter tenere la casa per sé. Aveva vinto la sua battaglia in tribunale e nella vecchia casa ornata di legni smerciava droga di ottima qualità. Lloyd ricordò che i suoi compagni di scuola c'erano andati a comprare degli spinelli, verso la fine degli anni Cinquanta. Sapeva che la casa era stata venduta a tutta una serie di tipi poco raccomandabili e nel quartiere veniva soprannominata
"Casa dei Gangster".
Lloyd raggiunse il Black Cat Bar. Il barista capì subito che era un poliziotto. «Desidera, agente?» disse. «Spero che non ci siano lamentele.»
«No, nessuna» disse Lloyd. «Sono qui per la rapina del sei ottobre. Era lei a occuparsi del bar quella sera?»
«Sì. Ero qui. Avete scoperto qualche traccia? Sono arrivati due suoi colleghi il giorno dopo, poi più niente.»
«Per il momento nessuna pista. Lei sa...»
Lloyd venne distratto dal rumore del Jukebox che entrò in funzione in quel momento, sparando discomusic. «Può spegnere quella roba?» disse.
«Non posso competere con un'orchestra.»
Il barista rise. «Non è mica un'orchestra, sono i Disco Doggies. Non le piacciono?»
Lloyd non capiva se l'uomo voleva solo essere gentile o stava cercando di fargli delle avance. Gli omosessuali erano sempre difficili da capire.
«Non sono molto al passo con la moda. Lo spenga, okay? Subito, per favore.»
Il barista si accorse del tono di voce teso di Lloyd e obbedì, facendo un po' di confusione nel tirare fuori dalla presa il cavo elettrico del jukebox.
Tornò al banco e disse con cautela: «Cosa voleva sapere?»
Rinfrancato dal silenzio, Lloyd disse: «Solo una cosa. È certo che i due rapinatori fossero messicani?»
«No.»
«Non ha forse...»
«Erano mascherati, agente. Io ho solo detto ai poliziotti che parlavano inglese con accento messicano. È questo che ho detto.»
«Grazie» disse Lloyd, e corse in macchina.
Andò direttamente al 2269 di Tracy Street, la Casa dei Gangster. Come aveva immaginato; la vecchia abitazione era deserta. Ragnatele, polvere e preservativi usati che coprivano il pavimento di legno sconnesso. Impronte perfettamente nitide, che Lloyd capì essere recenti. Le seguì fino alla cucina. Tutti gli impianti erano stati strappati via, e il pavimento era pieno di escrementi di topo. Lloyd aprì armadi e cassetti, trovando solo polvere, ragnatele e vecchi alimenti ammuffiti e infestati dai vermi. Poi aprì un cestino da pane decorato a disegni floreali e fece un balzo in aria, immaginando di andare diritto a canestro, urlando di gioia nel vedere quello che c'era: una scatoletta nuova di zecca di pallottole Remington calibro 38 a punta cava, e due paia di collant Sheer Energy. Lloyd gridò di nuovo: "Grazie, o fecondi giardini della mia infanzia!".
Un paio di telefonate al Dipartimento della motorizzazione civile della California e al Dipartimento di polizia di Los Angeles gli diedero conferma. Una Pontiac Firebird del 1979, targata HBS 027, era registrata a nome di Richard Douglas Wilson, 11879 Saticoy Street, Van Nuys. Fu facile procurarsi le informazioni restanti: Richard Douglas Wilson, maschio di razza bianca, 34 anni, era stato arrestato due volte per rapina a mano armata ed era recentemente uscito da San Quentin per buona condotta dopo aver scontato tre anni e mezzo dei cinque inflitti.
Sentendosi scoppiare il cuore di gioia, tranquillo e sicuro nella cabina telefonica isolata, Lloyd fece un terzo numero, quello di casa dell'uomo che un tempo era stato suo mentore e adesso era suo seguace, il capitano Arthur Peltz
«Dutch? Sono Lloyd. Che fai?»
Peltz disse, sbadigliando: «Facevo un pisolino, Lloyd. Oggi sono fuori servizio. Sto invecchiando, e ho bisogno di fare una siesta nel pomeriggio.
Che succede? Mi sembri su di giri.»
Lloyd rise. «Infatti. Hai voglia di beccare un paio di tizi per rapina a mano armata?»
«Tu e io da soli?»
«Certo. Che ti prende? Lo avremo fatto un milione di volte.»
«Come minimo. Forse anche due. Facciamo un controllo?»
«Sì, nell'appartamento di uno dei due, a Van Nuys. Va bene alla stazione di Van Nuys fra un'ora?»
«Ci sarò. Guarda che se hai preso un granchio mi offri la cena.»
«Quando vuoi» disse Lloyd, e riattaccò.
Arthur Peltz era stato il primo poliziotto di Los Angeles a riconoscere e annunciare al mondo il genio di Lloyd Hopkins. Era accaduto quando Lloyd aveva 27 anni e lavorava di pattuglia per la Divisione centrale. Era il 1969, e l'epoca hippy dell'amore libero e delle "buone vibrazioni" stava tramontando, lasciandosi alle spalle un popolo di giovani poveri e drogati che vivevano nei quartieri più miseri di Los Angeles, facevano la questua per le strade, rubavano nei negozi, dormivano nei parchi, nei cortili e sulle soglie delle abitazioni e contribuivano a far salire il numero degli arresti per piccoli reati e possesso di stupefacenti.
I bravi cittadini di Los Angeles avevano una grande paura dei nomadi hippy, soprattutto dopo gli omicidi Tate-La Bianca, attribuiti a Charles Manson e alla sua banda di capelloni. Il Dipartimento di polizia di Los Angeles veniva incalzato sempre di più perché desse una bella lezione a quei menestrelli d'amore ormai decaduti; e il Dipartimento aveva obbedito, organizzando battute contro i campi hippy, fermando spesso i veicoli in cui si trovavano capelloni dall'aria sospetta e, in generale, facendogli capire che a Los Angeles erano considerati personae non gratae. I risultati furono soddisfacenti: gli hippy cominciarono a evitare di uscire di casa e in generale vi fu la tendenza a "darsi una calmata". Poi cinque giovani capelloni erano stati uccisi a colpi di pistola per le strade di Hollywood nel giro di tre settimane.
Il caso era stato affidato al sergente Arthur Peltz, detto "Dutch", che a quei tempi aveva 41 anni e lavorava come agente investigativo alla Omicidi. Si era trovato con ben pochi indizi su cui lavorare, se non la decisa sensazione che gli omicidi di quei giovani, sconosciuti gli uni agli altri, fossero collegati al giro della droga, e che i cosiddetti "marchi rituali" incisi sui loro corpi, una lettera H, fossero solo uno stratagemma.
Le indagini sul passato delle vittime non avevano sortito risultati. Erano gente inutile che viveva dentro una subcultura di gente inutile. Dutch Peltz era confuso. Ma era un intellettuale che amava la contemplazione, e così aveva deciso di prendersi le due settimane di vacanza che gli spettavano proprio in coincidenza con quel caso. Era andato nell'Oregon a pescare, e ne era tornato con la mente sgombra, rinnovato nello spirito e felice di scoprire che il "Cacciatore di hippy", come lo aveva battezzato la stampa, non aveva fatto altre vittime.
Ma a Los Angeles stavano succedendo cose tragiche. La zona era stata invasa da un traffico di eroina brown messicana di alta qualità, che veniva da una sorgente ancora sconosciuta. L'istinto diceva a Dutch Peltz che fra quell'eroina e gli omicidi di poco prima c'era un collegamento. Ma non aveva la minima idea di quale fosse.
In una fredda serata, più o meno a quella stessa ora, l'agente Lloyd Hopkins aveva detto al suo collega che aveva voglia di qualcosa di dolce, e aveva suggerito di fermarsi a un supermercato o un negozio di liquori per comprare dei biscotti o dei pasticcini. Il suo collega aveva scosso la testa, borbottando che a quell'ora era aperto solo il Donut Despair. Lloyd aveva meditato sui pro e i contro: la sua golosità contro le peggiori ciambelle del mondo, servite da immigrati clandestini sempre scostanti o troppo osse-quiosi.
Vinse la gola, solo che gli immigrati non c'erano più. Lloyd spalancò la bocca nel sedersi al banco. Al Donut Despair (o meglio, il Donut Deelite, aperto tutta notte!), come il mondo lo conosceva, venivano assunti solo ed esclusivamente immigrati clandestini in tutte le filiali. Era la politica del proprietario della catena, Morris Dreyfus, ex capobanda: assumere dei clandestini e pagarli sotto il minimo salariale, compensando la differenza con un alloggio di fortuna nelle sue numerose proprietà del Southside. E
ora, invece...
Lloyd guardò l'hippy annoiato che gli serviva una tazza di caffè e tre ciambelle glassate per poi ritirarsi in una stanza del retro, lasciando il banco incustodito. Poi sentì dei sussurri furtivi, seguiti da uno sbattere di portiera e un motore che partiva. Il barista hippy riapparve dopo un istante e non guardò Lloyd negli occhi. Lloyd capì che era per qualcosa di più che per la sua uniforme. Capì che qualcosa non andava.
Il giorno seguente, armato di una copia delle Pagine Gialle di Los Angeles, Lloyd, in borghese, aveva fatto il giro di più di venti Donut Despair, per trovare ovunque capelloni a servire al banco. Per due volte si era seduto a ordinare del caffè, lasciando che il barista vedesse, ma come per sua disattenzione, la calibro 38 che portava fuori servizio. In entrambi i casi la reazione era stata di terrore gelido e violento.
"Droga" si era detto Lloyd nel tornare a casa quella sera. "Droga. Droga.
Qualunque coglione con un minimo di esperienza della strada avrebbe capito che uno grosso come me, con i capelli corti e la faccia onesta, è uno sbirro. Quei due ragazzi lo hanno capito appena sono entrato nel locale.
Ma è stata la pistola a spaventarli. La pistola."
Era stato allora che Lloyd aveva pensato al Cacciatore di Hippy e a quel giro di eroina apparentemente non collegato a niente. Appena tornato a ca-sa aveva chiamato la stazione di Hollywood, aveva lasciato nome e numero di matricola, e aveva chiesto di parlare con qualcuno della Omicidi.
Dutch Peltz era rimasto più colpito dalla corporatura del giovane poliziotto che non dal fatto che avevano seguito quasi lo stesso percorso mentale. Aveva raggiunto un'ipotesi, cioè che Big Mo Dreyfus smerciava roba nei suoi locali e che per qualche ragione certa gente ci stesse rimettendo le penne. Ma era stato il giovane Hopkins, con quel suo fulgido e innato intuito per capire gli aspetti più tetri della vita, a sconvolgerlo.
Peltz era rimasto ad ascoltare Lloyd per ore mentre lui gli parlava del suo desiderio di proteggere l'innocenza, e di come si era allenato a captare le conversazioni più importanti che sentiva nei luoghi affollati, di come sapesse leggere le labbra e memorizzare insieme al momento e al luogo esatti qualsiasi faccia vista per almeno un secondo. Quando era tornato a casa, Dutch Peltz aveva detto a sua moglie: "Stasera ho incontrato un genio. Credo che cambierà tutto".
Era stata un'affermazione profetica.
Il giorno seguente Peltz aveva cominciato a indagare sugli aspetti finan-ziari delle attività di Morris Dreyfus. Era venuto a sapere che Dreyfus aveva cambiato in contanti tutte le azioni e i certificati di credito, e che stava contattando alcuni ex affiliati di bande per vendere a bassissimo prezzo l'intera catena Donut Deelite. Dopo ulteriori indagini aveva scoperto che Dreyfus aveva fatto da poco richiesta di passaporto e aveva venduto le sue case di Palm Springs e Lake Arrowhead.
Peltz aveva cominciato a sorvegliare Dreyfus, seguendolo mentre passava regolarmente in rassegna i suoi locali, dove altrettanto regolarmente chiamava il barista nel retro e ripartiva qualche momento dopo. Quella se-ra Peltz e un veterano della Narcotici avevano tallonato Dreyfus fino alla casa di Reyes Medina, a Benedict Canyon. Reyes era un messicano sospettato di fare da collegamento fra i cartelli della coltivazione dei papaveri nel Messico meridionale e i grossi spacciatori americani di eroina. Dreyfus era rimasto nella casa per due ore, e ne era uscito con l'aria sconvolta.
La mattina successiva Peltz si era recato al Donut Deelite all'incrocio fra la Quarantatreesima e il Normandie. Aveva parcheggiato dall'altro lato della strada ed era rimasto ad aspettare finché non erano usciti tutti i clienti, poi era entrato e aveva mostrato il distintivo al giovane che serviva al banco, dicendogli che voleva informazioni, e non certo su come si facevano le ciambelle. Il giovane aveva cercato di scappare nel retro, ma Peltz lo aveva placcato e gettato a terra, sussurrandogli: "Dov'è la roba? Dove hai messo la merda, brutto capellone del cazzo?" e alla fine il giovane aveva cominciato a balbettare la storiella che lui si era immaginato.
Mo Dreyfus passava l'eroina brown messicana agli spacciatori medi, che la rivendevano facendoci un mucchio di soldi. Quello che Peltz non si era aspettato era che Dreyfus aveva un cancro terminale, e che stava raccogliendo capitali per costosissime cure da parte di una specie di medico-stregone brasiliano. Si stava passando parola che tutti i Donut Deelite dovevano chiudere con le vendite di roba entro la settimana seguente, quando sarebbe arrivato il nuovo proprietario. A quel punto Big Mo sarebbe già stato in viaggio verso il Brasile, e tutti i pusher-baristi sarebbero stati contattati da un "ricco signore messicano" che avrebbe dato a tutti la "buonu-scita".
Trovati novanta grammi di eroina sotto un congelatore per carni, Peltz aveva ammanettato il giovane e lo aveva portato alla prigione della Centrale, dove era stato registrato come testimone oculare. Poi Peltz aveva preso l'ascensore ed era salito all'ottavo piano, agli uffici della Divisione narcotici del Dipartimento di polizia di Los Angeles.
Due ore dopo, ottenuti i mandati di perquisizione e arresto, quattro agenti investigativi armati di mitra erano entrati nella casa di Morris Dreyfus e lo avevano arrestato per possesso di eroina, possesso finalizzato allo spaccio, spaccio di stupefacenti e associazione per delinquere. Nella sua cella, contro i consigli del suo avvocato, Morris Dreyfus aveva fatto il collegamento che aveva convinto Dutch Peltz oltre ogni possibilità di dubbio che Lloyd Hopkins era un genio: a bassa voce, Dreyfus aveva raccontato che dietro la morte dei cinque hippy c'era uno Squadrone della Morte di stranieri clandestini che ora voleva 250 mila dollari da lui per liquidare en masse tutta la sua forza lavoro di immigrati. Gli hippy erano stati uccisi in seguito a una tattica terroristica, scelti a caso per sviare l'attenzione dalla catena Donut Deelite.
La mattina seguente una decina di auto della polizia aveva bloccato su entrambi i lati il 1100 di Wabash Street, nella zona est di Los Angeles. Gli agenti, con addosso giubbetti antiproiettile, avevano circondato il palazzo che ospitava i membri dello Squadrone della Morte. Armati di AK-47 automatici, avevano sfondato la porta sparando raffiche di avvertimento sopra la testa dei quattro uomini e delle tre donne intenti a fare colazione. I sette si erano stoicamente sottomessi all'ammanettamento, e una squadra di perquisizione aveva controllato il resto dell'edificio. In totale erano stati ar-restati undici clandestini. Dopo una snervante serie di interrogatori, tre uomini avevano confessato di aver commesso gli omicidi di Hollywood.
Erano stati accusati di cinque omicidi di primo grado e si erano presi l'ergastolo.
Il giorno dopo la confessione, Dutch Peltz era andato a cercare Lloyd Hopkins. Lo aveva trovato al parcheggio della Divisione centrale, appena finito il turno di servizio. Nell'aprile la macchina, Lloyd si era sentito battere sulla spalla. Si era voltato e aveva visto Peltz che strisciava nervosamente i piedi per terra, con gli occhi fissi su di lui in quello che poteva sembrargli soltanto uno sguardo di amore sconfinato.
"Grazie, ragazzo" aveva detto il poliziotto più anziano. "Mi hai fatto fare una gran figura. Volevo dirti..."
"Nessuno le crederebbe" lo aveva interrotto Lloyd. "Lasci che le cose vadano come sono."
"Non vuoi..."
"Ha fatto lei il lavoro, sergente. Io mi sono limitato a darle la teoria."
Peltz aveva riso tanto da far pensare a Lloyd che gli poteva venire un infarto. Poi, Peltz aveva ritrovato il fiato e aveva detto: "Ma tu chi sei?"
Lloyd aveva dato un colpetto all'antenna della sua macchina e aveva risposto: "Non lo so. Cristo, non lo so proprio."
"Io ti posso insegnare qualcosa" aveva detto Dutch Peltz. "Sono nella Omicidi da undici anni. Io ti posso dare molte informazioni concrete e pratiche, il frutto di molta esperienza."
"Cosa vuole da me?" aveva chiesto Lloyd.
Peltz aveva meditato sulla domanda per un istante. "Forse solo conoscer-ti" aveva risposto.
I due uomini si erano fissati in silenzio. Poi Lloyd aveva teso lentamente la mano, suggellando così il loro destino.
Era stato Lloyd il maestro, quasi fin dall'inizio. Dutch gli forniva la sua esperienza sotto forma di aneddoti in cui Lloyd scopriva le umane verità nascoste sotto la superficie e le isolava per esaminarle. Avevano passato centinaia di ore a parlare, a rimasticare i vecchi crimini e discutere di argomenti di tutti i tipi, da come il carattere delle donne si riflettesse nel loro modo di vestire a certi rapinatori che si portavano dietro i loro cani come sotterfugio. I due uomini avevano trovato rifugio l'uno nell'altro. Lloyd sapeva di avere finalmente trovato un poliziotto che non lo avrebbe mai guardato male quando lui indietreggiava al rumore di una radio e non gli avrebbe serbato rancore quando insisteva per fare le cose a modo suo, Dutch, invece, sapeva di avere finalmente trovato il più grande genio poli-ziesco della terra. Quando Lloyd era passato all'esame per il grado di sergente, era stato Dutch a smuovere le sue amicizie per farlo assegnare alla Divisione investigativa, dando così inizio a una serie di favori mai ricam-biati durata tutto l'arco della sua carriera.
Era stato allora che Lloyd Hopkins aveva potuto mostrare tutto il suo straordinario intuito, con risultati stupefacenti: il maggior numero di arresti e condanne per qualsiasi agente di polizia in tutta la storia del Dipartimento, in un periodo di cinque anni. La reputazione di Lloyd crebbe fino al punto in cui gli bastava chiedere per avere un'autonomia quasi totale e il rispetto anche dei poliziotti più recalcitranti e conservatori. E Dutch Peltz assisteva a tutto ciò con orgoglio, ben felice di essere illuminato della ma-estosa luce del genio di un uomo che amava più della sua stessa vita.
Lloyd raggiunse Dutch Peltz nella sala riunioni della stazione di polizia di Van Nuys, mentre camminava rasente i muri leggendo i rapporti criminali appiccicati alle bacheche. Lui si schiarì la gola, e il poliziotto più anziano si girò con le mani alzate, fingendo di arrendersi.
«Cristo, Lloyd» disse «in nome di Dio, quando imparerai a non camminare così silenziosamente quando sei fra amici? Un orso bruno con un passo felino. Cristo santo!»
Lloyd rise nel sentire quell'affetto. Lo rendeva felice. «Hai un bell'aspetto, Dutch. Stai sempre seduto a una scrivania e perdi anche peso! Cazzo, è un miracolo.»
Dutch strinse calorosamente la mano a Lloyd con entrambe le sue. «I miracoli non c'entrano, ragazzo mio. Ho smesso di fumare e sono calato di peso. Che c'è in pentola?»
«Un pigliainculo. Uno che lavora con un socio. Ha un appartamento nella Saticoy. Pensavo che potevamo fargli visita e vedere se c'è la sua macchina in giro. Se è in casa chiameremo un paio di unità di rinforzo, altrimenti lo aspettiamo fuori e lo prendiamo noi due. Ti va?»
«Mi va. Ho qui il mio Ithaca a pompa. Come si chiama lo stronzo?»
«Richard Douglas Wilson, bianco, 34 anni. Fregato due volte a San Quentin.»
«Sembra un gran simpaticone.»
«Già, proprio una merda in piena regola.»
«Mi dici il resto in macchina?»
«Sì, andiamo.»
Richard Douglas Wilson non era in casa. Dopo aver controllato ogni zo-na, stradina privata e parcheggio dell'isolato 11800 di Saticoy Street in cerca di una Firebird del 79, Lloyd fece il giro del numero 11879: una pa-lazzina diroccata a due plani, molto malmessa. Sulla cassetta delle lettere videro che Wilson abitava al numero 14. Lloyd trovò l'appartamento nel retro dell'edificio. C'era una finestra scorrevole coperta da uno schermo, spalancata. Lui diede un'occhiata all'interno, poi tornò da Dutch, che aveva parcheggiato dall'altra parte della via, all'ombra di una rampa d'uscita dell'autostrada.
«Niente auto e niente Wilson, Dutch» disse Lloyd «Ho guardato dalla finestra. Stereo nuovo di zecca, TV nuova, abiti nuovi. Soldi, un mucchio di soldi.»
Dutch rise. «Sei contento, Lloyd?»
«Certo. E tu?»
«Se lo sei tu, sì.»
I due poliziotti si misero in attesa. Dutch aveva portato un thermos di caffè, e quando il crepuscolo attenuò il caldo e lo smog, ne versò due tazze. Porgendone una a Lloyd, spezzò quel silenzio lungo e fastidioso. «L'altro giorno ho incontrato Janice. Dovevo testimoniare a favore di un mio vecchio informatore a Santa Monica. Si era fatto prendere per rapina, così ero andato a fare quattro chiacchiere col procuratore distrettuale per dirgli che quel povero coglione si faceva le pere e chiedergli se poteva convince-re il giudice a mandarlo in un centro di rieducazione per tossicomani. Be', per farla breve, mi sono fermato a una tavola calda, e vedo Janice. Con lei c'era una checca che le mostrava un campionario di tessuti, e ci dava dentro per cercare di fare affari. Poi la checca se ne va sculettando, e Janice mi invita a sedermi. E facciamo quattro chiacchiere. Mi dice del negozio, che va bene, che si sta facendo un nome, che le bambine vanno a meraviglia.
Mi dice che tu passi troppo tempo a lavorare, ma ormai sono anni che te lo dice e tanto ormai non può più cambiarti. Be', lei ha un'aria un po' schifata; così cerco di prendere le tue parti. Le faccio: "I geni non hanno regole, tesoro. Lloyd ti ama tanto. Vedrai che Lloyd cambierà se gli dai un po' di tempo". A quel punto Janice urla: "Lloyd non è capace di cambiare, e quel suo amore di merda non mi basta! " Ed è finita così, Lloyd. Non ha voluto parlare più. Io ho cercato di cambiare argomento, ma Janice continua a tirare frecciatine enigmatiche contro di te. Alla fine salta su e mi dà un bacio su una guancia, e dice: "Scusami, Dutch. Lo so che sono una stronza", e scappa via.»
Dutch smorzò la voce mentre cercava altre parole per terminare la storia.
«Volevo solo dirtelo» finì. «Credo che i compagni di squadra non debbano avere segreti l'uno per l'altro.»
Lloyd sorseggiò il caffè, sentendosi la mente al tempo stesso quieta e turbolenta, come sempre quando si rendeva conto che nei suoi sogni si a-privano delle falle. «E qual è la conclusione, socio?»
«La conclusione?»
«Il segreto, crucco rincoglionito! Quello che c'era fra le righe! Possibile che non hai imparato un cazzo dai miei insegnamenti? Cosa stava cercando di dirti veramente Janice?»
Dutch ingoiò il suo orgoglio ferito e sputò tutto con rabbia. «Per me ha capito che te la spassi con le altre, cervellone. Per me ha capito che il migliore dei migliori di Los Angeles corre dietro alla figa e se la fa con un mucchio di troie sfatte che non arrivano neanche alla suola della donna che ha sposato. È questo che penso.»
Lloyd raggiunse la calma dopo l'ira, e si accorse che le falle nei suoi sogni si allargavano. «Ti sbagli» disse stringendo gentilmente la spalla a Dutch. «Secondo me, se fosse così, Janice me lo farebbe sapere. E Dutch, ti dico un'altra cosa. Le altre donne della mia vita non sono troie.»
«Allora cosa sarebbero?»
«Donne, e basta. E io le amo tutte.»
«Cosa? Tu le ami?»
Lloyd capì mentre pronunciava le parole che quello era uno dei momenti più fulgidi della sua vita. «Sì. Amo tutte le donne con cui vado a letto, e amo le mie bambine e anche mia moglie.»
Dopo quattro ore di sorveglianza silenziosa, Dutch si era appisolato sul sedile di guida, con la testa appoggiata al finestrino semiaperto. Lloyd rimaneva sveglio e attento, sorseggiando caffè e tenendo gli occhi incollati al sentiero privato del numero 11879 di Saticoy Street. Erano passate da poco le dieci quando vide una Firebird ultimo modello accostare all'edificio.
Svegliò Dutch dandogli di gomito, posandogli una mano sulla bocca. «È
arrivato il nostro amico, Dutch. Ha appena parcheggiato, e sta ancora in macchina. Per me è meglio se usciamo dalla mia parte e facciamo il giro per prenderlo da dietro.»
Dutch annuì e passò a Lloyd il fucile. Lloyd si strinse per uscire dalla portiera del lato passeggeri, tenendo il fucile schiacciato contro la gamba destra. Dutch gli diede corda: sbatté la portiera e mise un braccio sulla spalla di Lloyd, esclamando: «Dio, sono fatto!» e si esibì in un'ottima imi-tazione di un ubriacone barcollante, appoggiandosi a Lloyd e farfugliando scemenze.
Lloyd tenne gli occhi fissi sulla Firebird bianca, aspettando che si apris-sero le portiere, domandandosi perché mai Wilson fosse ancora dentro.
Quando arrivarono alla fine dell'isolato passò a Dutch l'Ithaca a pompa e disse: «Tu prendi il guidatore, io mi occupo del passeggero.» Dutch annuì e infilò un proiettile in canna. Lloyd sussurrò: «Forza» e i due uomini si chinarono e raggiunsero di corsa la macchina, arrivando dai due lati opposti, mentre Dutch puntava il fucile contro il finestrino del lato guida sussurrando: «Polizia. Non muovetevi o siete morti.» Lloyd appoggiò la calibro 38 al montante dell'auto e disse alla donna seduta accanto al guidatore:
«Ferma dove sei, tesoro. Mani sul cruscotto. Vogliamo il tuo fidanzato, non te.»
La donna ricacciò indietro uno strillo e obbedì lentamente agli ordini di Lloyd. L'uomo al volante cominciò a berciare: «Ehi, amico, ci dev'essere uno sbaglio, io non ho fatto niente!»
Dutch strinse il grilletto e appoggiò la canna sul naso all'uomo, dicendo:
«Metti le mani dietro la testa. Adesso io apro la portiera lentamente. Tu esci altrettanto lentamente o ti faccio secco.»
L'uomo annuì e si intrecciò le mani tremanti dietro la nuca. Dutch ritrasse il fucile e fece per aprire la portiera dell'auto. Non appena la serratura scattò, l'uomo colpì la portiera con tutte e due le gambe. Dutch fu colpito al tronco e gettato indietro. Dal fucile esplose un colpo che finì in aria quando il dito gli si contrasse d'impulso sul grilletto. L'uomo saltò fuori dall'auto e ricadde sulla strada, poi si rialzò e cominciò a correre.
Lloyd lasciò perdere la donna e sparò un colpo di avvertimento in aria, gridando: «Fermati, fermati!»
Dutch si alzò in piedi e sparò alla cieca. Lloyd vide l'ombra in fuga che zigzagava per anticipare i colpi successivi. Seguì l'ondeggiare dell'uomo e sparò tre colpi all'altezza delle spalle. L'uomo barcollò e cadde sul selciato.
Prima che Lloyd potesse avvicinarglisi cautamente, Dutch lo aveva già raggiunto e lo stava colpendo alle costole col calcio del fucile. Lloyd tirò indietro Dutch, poi ammanettò il sospetto con le mani dietro la schiena.
L'uomo era stato colpito due volte appena sotto la clavicola. Lloyd notò che erano due colpi puliti, i fori d'uscita erano netti. Lo sollevò con forza per farlo alzare e disse a Dutch: «Ambulanza e rinforzi.» Voltando lo sguardo verso la folla che si stava formando sui due lati della strada, aggiunse: «E di' a quella gente di togliersi dal marciapiede.»
Lloyd rivolse la sua attenzione al sospetto. «Richard Douglas Wilson, giusto?»
«Non sono obbligato a dirti niente» rispose l'uomo.
«Già, proprio così. Okay, sistemiamo le formalità. Hai il diritto di non rispondere. Hai diritto alla presenza di un avvocato durante l'interrogatorio. Se non puoi permetterti un avvocato privato, te ne verrà fornito uno d'ufficio. Hai qualcosa da dire, Wilson?»
«Sì» disse l'uomo, agitando la spalla ferita. «Va' a sbatterlo in culo a tua madre.»
«Risposta scontata. Possibile che la gente come te non sia mai capace di tirare fuori niente di originale? Come per esempio "Mettilo in culo a tuo padre"?»
«Va' a dare via il culo, piedipiatti.»
«Bravo, così va meglio. Stai imparando.»
Ricomparve Dutch. «Ambulanza e rinforzi in arrivo.»
«Bene. Dov'è la ragazza?»
«Ancora in macchina.»
«Occupati del signor Wilson, per favore. Io vado a dirle due paroline.»
Lloyd raggiunse la Firebird nera. La giovane donna era impietrita sul sedile passeggeri, le mani ancora appiccicate al cruscotto. Stava piangendo, e il mascara le era colato fino sul mento. «Signorina?»
La donna si voltò verso di lui, cominciando a singhiozzare. «Non voglio avere la fedina sporca!» piagnucolò. «Quello là l'ho incontrato da poco.
Non sono una delinquente, volevo solo farmi un paio di canne e ascoltare della musica!»
Lloyd le lisciò una ciocca di capelli. «Come ti chiami?» disse.
«Sarah.»
«Sarah Bernhardt?»
«No.»
«Sarah Vaughan?»
«No.»
«Sarah Coventry?»
La donna rise e si asciugò la faccia con la manica. «Sarah Smith» disse.
Lloyd le prese la mano. «Io mi chiamo Lloyd. Dove abiti, Sarah?»
«A West Los Angeles.»
«Adesso ascolta. Tu vai dove c'è la folla e aspetta. Io ho un paio di cose da sistemare qui, poi ti porto a casa. Okay?»
«Okay... Non mi segnerete la fedina, vero?»
«Non saprà mai nessuno che eri qui. Okay?»
«Okay.»
Lloyd guardò Sarah Smith ricomporsi e raggiungere il gruppo di guar-doni sul marciapiede opposto. Si diresse verso Dutch e Richard Douglas Wilson, che era appoggiato alla Matador. Lloyd fece cenno a Dutch di andare via, e mentre l'altro si allontanava fissò Wilson con uno sguardo cattivo e scosse il capo in segno di disgusto.
«I ladri non hanno onore, Richard» disse. «Proprio no. Soprattutto quei bastardi della Casa dei Gangster.» Lloyd vide Wilson tremare a quell'ultima parola, e continuò. «Ci ho trovato una scatola di pallottole e un incarto di collant con sopra le tue impronte. Ma non è con questo che ti abbiamo incastrato. Ti hanno fatto la spia. Qualcuno ha mandato agli agenti della Rampart una lettera anonima indicando il tuo nome come autore della rapina al Black Cat. Nella lettera c'era scritto che ti lavori solo i bar dei finocchi perché a San Quentin ti hanno fatto il culetto, e ti è piaciuto. Ti piacciono le checche, ma li odi per quello che ti hanno fatto diventare.»
«Merda, è una bugia!» urlò Wilson. «Mi sono fatto negozi di liquori, su-permercati, merda, anche una discoteca! Io ho...»
Lloyd lo interruppe con un gesto della mano e si preparò a dare il colpo di grazia. «Nella lettera c'era scritto che dopo la rapina sei andato a bere fuori dalla Casa dei Gangster, e ti vantavi di tutte le fighe che avevi ri-morchiato. Il tuo amico si pisciava sotto dalle risate perché sapeva che ci godi a fartelo piantare in culo.»
Il volto pallido e sudato di Richard Douglas Wilson si contrasse. Lui strillò: «Quel cagacazzo figlio di troia! Sono stato io a salvargli le chiappe da tutti i negri che volevano farselo quando eravamo dentro! Ho tirato fuori io quel bastardo da San Quentin, e adesso...»
Lloyd posò una mano sulla spalla di Wilson e disse dolcemente: «Richard, stavolta ti becchi minimo un deca. Dieci anni. Pensi di potercela fa-re? Sei un duro tu, lo so; sei uno coi coglioni. Anche io sono duro. Ma sai una cosa? Io non ce la farei per dieci anni là dentro. Là ci sono certi negri che mi mangerebbero a colazione. Dimmi chi è il tuo socio, Richard. Lui ti ha fatto la spia. Io vado...» Si interruppe nel vedere Wilson scuotere freneticamente il capo in segno di diniego. Scosse il capo anche lui, fissandolo schifato. «Pezzo di merda rincoglionito» disse. «Va bene, segui pure il codice d'onore, lasciati sputtanare da un rotto in culo, sei nella merda fino al collo e ancora ti permetti queste sottigliezze. Testa di cazzo.» Si voltò e fe-ce per andarsene.
Si era allontanato solo di qualche metro quando Wilson disse: «Un momento. Aspetta. Senti...»
Lloyd cacciò indietro il sorriso soddisfatto che stava per illuminargli il volto e disse: «Andrò dal procuratore distrettuale, parlerò col giudice, farò in modo che ti mandino in custodia protettiva mentre aspetti il processo.»
Richard Douglas Wilson soppesò i pro e i contro per un'ultima volta, poi cedette. «Si chiama John Gustodas. "Johnny il Greco". Abita a Hollywood.
Incrocio tra Franklin e la Argylle. Il palazzo di mattoni rossi.»
Lloyd strinse la spalla sana di Wilson. «Bravo ragazzo. Il mio socio prenderà nota delle tue dichiarazioni all'ospedale, e io mi farò vivo.» Voltò la testa per cercare Dutch, e lo vide sul marciapiede intento a parlare con due agenti in uniforme. Fischiò due volte, e Dutch lo raggiunse cautamente. «Stanco, vecchio Dutch?» domandò Lloyd.
«Un po'. Perché?»
«Wilson ha confessato. Ha venduto il suo socio. Abita a Hollywood. Io vado a casa. Ti va di prendere nota delle dichiarazioni di Wilson, poi di chiamare i ragazzi di Hollywood e dargli le informazioni su quel tipo?»
Dutch esitò un momento. «Certo, Lloyd» disse poi.
«Bene. Si chiama John Gustodas, detto"Johnny il Greco". Incrocio tra Franklin e la villetta di mattoni rossi all'angolo. Scriverò io tutti i verbali, non preoccuparti.»
Lloyd udì la sirena dell'ambulanza e scosse il capo per ricacciare indietro quel frastuono. «Quelle sirene del cazzo dovrebbero essere vietate» disse, mentre l'ambulanza svoltava l'angolo e si fermava con un'inchiodata.
«Ecco qua la salvezza su ruote. Io devo muovermi. Avevo promesso di andare a prendere Janice per portarla fuori a cena alle otto. E sono quasi le undici.» I due poliziotti si strinsero la mano. «Ce l'abbiamo fatta di nuovo, socio» disse Lloyd.
«Già. Mi spiace di essermela presa con te, ragazzo.»
«Stai dalla parte di Janice. Non c'è niente di male, è più attraente di me.»
Dutch fece una risata. «Ci sentiamo domani per la confessione di Wilson?»
«Va bene. Ti chiamo io.»
Lloyd vide Sarah Smith fra gli ultimi spettatori rimasti, intenta a fumare una sigaretta e a strisciare nervosamente i piedi sul selciato. «Ciao, Sarah.
Come ti senti?»
Sarah schiacciò la sigaretta per terra. «Bene, credo. Cosa succederà a quello là, quel comesichiama?»
Lloyd sorrise per la tristezza di quella domanda. «Andrà in prigione per un bel po'. Non ricordi neanche il suo nome?»
«Non sono brava a ricordare i nomi.»
«Ti ricordi il mio?»
«Floyd?»
«Quasi. Lloyd. Vieni, ti porto a casa. Raggiunsero la Matador non ufficiale ed entrarono.»
Lloyd esaminò apertamente Sarah mentre lei gli dava il suo indirizzo e frugava nella borsetta. Doveva essere una brava ragazza di buona famiglia, un po' sbandata. Ventotto anni o ventinove, capelli biondo chiaro a posto, corpo slanciato e morbido sotto il completo pantalone di cotone nero. Un bel visino che cercava di sembrare duro. Probabilmente era una gran lavo-ratrice, qualunque lavoro facesse.
Lloyd si diresse alla più vicina rampa d'accesso per l'autostrada verso ovest, assaporando prima il suo trionfo "di anniversario" e poi immaginan-dosi l'incontro con Janice, che sicuramente lo avrebbe rosolato a fuoco lento, se non addirittura picchiato per il suo ritardo. Sentendosi traboccare di tenerezza per aver risparmiato a Sarah Smith il rigore della legge, le toccò la spalla e disse: «Andrà tutto a posto, sta' tranquilla.»
Sarah rovistò nella borsetta in cerca delle sigarette e trovò solo un pacchetto vuoto. Borbottò: «Merda» e lo gettò fuori dal finestrino, poi sospirò.
«Già, forse hai ragione. Ti diverti proprio a fare lo sbirro, vero?»
«È tutta la mia vita. Dove hai incontrato Wilson?»
«È così che si chiama? L'ho conosciuto in un bar country & western. Un vero posto da bisonti, ma almeno là trattano le donne con rispetto. Cosa ha fatto?»
«Ha rapinato un bar a mano armata.»
«Cristo! Io credevo che era solo uno che spacciava.»
"La voce dell'innocenza" pensò Lloyd. «Senti, non voglio farti la predica» disse «ma non dovresti passare le serate in quei locali. Potrebbe capi-tarti qualcosa.»
Sarah fece un grugnito. «E allora dove dovrei andare, per incontrare gente?»
«Intendi degli uomini?»
«Be'... Sì.»
«Prova con il metodo intellettuale. Prendi un caffè e mettiti a leggere un libro in uno di quei locali caratteristici alla moda. Prima o poi arriverà un bel ragazzo e ti chiederà del libro che stai leggendo. Vedrai che così in-contrerai gente più di classe.»
Sarah fece una risata allegra e batté le mani, poi diede a Lloyd una gomitata sul braccio. Quando lui distolse lo sguardo dalla strada e la fissò con un volto inespressivo, la risata diventò isterica. «Che buffo, buffissimo!»
squittì.
«Non è mica divertente.»
«Invece sì! Perché non vai in televisione?» Sarah smise di ridere. Fissò Lloyd perplessa. «È così che hai incontrato tua moglie?»
«Non ti ho detto che sono sposato.»
«Ho visto la fede.»
«Molto osservatrice. Comunque mia moglie l'ho incontrata al liceo.» Sarah Smith si piegò in due dalle risate. Anche Lloyd rise, con più calma, poi si mise una mano in tasca per prendere il fazzoletto e asciugò il volto rigato di lacrime di Sarah. Lei gli appoggiò il viso alla mano, strofinandogli il naso sulle nocche.
«Ti capita mai di chiederti perché continui a fare certe cose anche quando sai che non funzionano?» disse lei.
Lloyd le mise un dito sotto il mento e le sollevò la testa verso di lui.
«Perché al di fuori dei sogni più importanti il mondo continua a cambiare, e anche se si continua a fare le stesse cose, si cercano risposte nuove.»
«Ci credo» disse Sarah. «Esci alla prossima e gira a destra.»
Cinque minuti più tardi lui accostò al marciapiede di fronte a un condominio della Barrington. Sarah gli diede una gomitata sul braccio e disse:
«Grazie.»
«Buona fortuna, Sarah. Prova col giochino del libro.»
«Magari lo faccio. Grazie.»
«Grazie a te.»
«Per cosa?»
«Non lo so.»
Sarah diede un'ultima gomitata a Lloyd e schizzò fuori dalla macchina.
Janice Hopkins guardò l'orologio d'antiquariato del soggiorno e sentì la paura crescere mentre la lancetta delle ore si fermava sulle dieci, ricordando che quello era il "secondo grande anniversario" di suo marito, e che non poteva battersi con lui ad armi pari e razionalmente per non essere venuto a cena con lei, e che non poteva servirsi né di quella bazzecola né di qualsiasi altra sciocchezza disturbasse il loro matrimonio per costringerlo a una battaglia. Sapeva che non avrebbe potuto far altro che dire: "Oh cazzo, Lloyd, si può sapere dove sei stato stavolta?" per sorridere poi nel sentire la brillante risposta che sicuramente le avrebbe dato, rendendosi conto di quanto lui l'amava. E il giorno dopo avrebbe chiamato il suo amico George, che sarebbe venuto in negozio, e insieme si sarebbero lamentati degli uomini.
"Oh, George" avrebbe detto lei "Che tristezza, la vita di una musa!"
E George avrebbe ribattuto: "Ma tu lo ami?"
"Non so neanche io quanto."
"Anche se sai che gli mancano un paio di rotelle?"
"Anche più di un paio, caro mio, con tutte quelle piccole fobie che ha.
Ma questo non fa altro che rendermelo più umano, più mio."
E allora George avrebbe sorriso e si sarebbe messo a parlare del suo amante, e insieme avrebbero riso fino a far tintinnare il cristallo di Water-ford e roteare i piattini di porcellana cinese sulle mensole.
Poi George le avrebbe preso la mano e avrebbe accennato con noncuran-za alla loro breve relazione quando George aveva deciso che doveva conoscere almeno qualcosa delle donne in modo da poter essere più donna lui stesso. Era durata una settimana, quando George l'aveva accompagnata a San Francisco per un seminario sulla stima dei pezzi d'antiquariato. A letto non faceva altro che parlare di Lloyd. Tutto ciò la disgustava, ma la emo-zionava anche, e gli divulgava i particolari più segreti del suo matrimonio.
Quando si era resa conto che Lloyd sarebbe stato sempre un invisibile terzo incomodo, aveva piantato tutto. Era stata l'unica volta che aveva tradito suo marito, e non per le solite ragioni, come sentirsi trascurata, mal-trattata o annoiata sessualmente. Era stato per ottenere una specie di parità con lui, per quella vita avventurosa che lui viveva. Quando Lloyd era spaventato, o infuriato, e veniva da lei con quella espressione sul volto, e lei si toglieva il reggiseno e gli porgeva i seni, allora era sua, completamente.
Ma quando leggeva i rapporti, o discuteva in soggiorno con Dutch Peltz e gli altri suoi amici della polizia, e vedeva l'universo che c'era dietro quegli occhi grigi, capiva che era in luoghi a lei inaccessibili. I mezzi con cui gli stava alla pari - il successo del negozio, il libro sugli specchi Tiffany di cui era stata coautrice, il suo talento per gli affari - tutte quelle cose la soddi-sfacevano solo a livello logico. Perché Lloyd sapeva volare e lei no. Neanche dopo 17 anni di matrimonio, Janice Rice Hopkins era in grado di ca-pirne le ragioni. E, inspiegabilmente, cominciava a sentirsi terrorizzata dal fatto che suo marito sapeva volare.
Janice contrappose le prove più recenti dello strano comportamento di Lloyd a più di vent'anni di conoscenza intima: le sue pause di ore davanti allo specchio, quando roteava gli occhi come in cerca di insetti; i periodi sempre più lunghi che trascorreva a casa dei suoi genitori a parlare a sua madre, che non aveva pronunciato né compreso parola da 19 anni; la smorfia sardonica che gli contorceva il volto quando discuteva al telefono con suo fratello riguardo alla cura dei loro genitori.
Ma quello che la inquietava di più erano le storie che raccontava alle bambine: racconti di polizia che Janice sospettava fossero in parte parabole educative e in parte confessioni. Storie squallide ambientate nelle strade più malsane di Los Angeles, popolate di battone, drogati e altri criminali e poliziotti spesso rozzi e brutali tanto quanto la gente che mandavano in prigione. Un anno prima Janice aveva detto a Lloyd di non raccontarle più quelle storie. Lui aveva obbedito, annuendo silenziosamente con uno sguardo gelido, quindi aveva trasferito quelle parabole-confessioni sulle bambine, accompagnando la loro adolescenza con resoconti dettagliati di malvagità e orrori. Anne non ci dava peso: aveva 14 anni e non pensava ad altro che ai ragazzi. Caroline, che aveva 13 anni e un enorme talento per la danza, le rimuginava a lungo e poi portava a casa riviste sulla polizia chiedendo a suo padre di commentarle gli articoli. E Penny ascoltava e ascoltava e ascoltava, attraversando con gli occhi grigi e scintillanti sia il padre sia la sua narrazione per fissare un orizzonte lontano. Quando Lloyd con-cludeva il racconto, Penny lo baciava forte sulla guancia e saliva al piano di sopra, a ricamare i plaid in cashmere e madras con cui aveva già conquistato la copertina di cinque supplementi domenicali.
Janice rabbrividì. Possibile che l'innocenza di Penny fosse già irrimedia-bilmente corrotta? Una bambina di dodici anni artigiana e imprenditrice af-fermata? Rabbrividi nuovamente e guardò l'orologio. Un'ora di fantasie impaurite e Lloyd non era ancora tornato. All'improvviso si rese conto che le mancava, e che lo desiderava oltre i limiti del lecito per una relazione che durava da più di vent'anni. Andò al piano di sopra e si spogliò nella camera da letto buia, accendendo la candela profumata per segnalare a Lloyd che voleva che la svegliasse per fare l'amore. Mentre si stendeva nel letto un ultimo tetro pensiero le attraversò la mente, come uno stormo di uccelli predatori che oscurasse un cielo sereno: più le bambine crescevano e più assomigliavano a Lloyd, soprattutto nello sguardo.
Un'ora dopo sentì entrare Lloyd, con il suo armeggiare rituale nell'atrio: un sospiro e uno sbadiglio, Lloyd che si toglieva il cinturone e lo deponeva sul tavolino del telefono, lo strascicare consueto dei passi mentre saliva le scale. Aspettando l'istante in cui avrebbe aperto la porta e l'avrebbe vista nella luce ambrata, Janice si stuzzicò fra le gambe con la mano.
Ma la porta della camera da letto non si aprì, e lei sentì Lloyd oltrepas-sarla in punta di piedi per andare in fondo al corridoio, verso la camera di Penny, per poi picchiare appena con le nocche alla porta e sussurrare:
"Pinguino? Vuoi che ti racconti una storia?" Un secondo più tardi la porta si aprì con uno scricchiolio, e Janice sentì padre e figlia ridacchiare insieme come allegri cospiratori.
Concesse a suo marito mezz'ora, fumando rabbiosamente una sigaretta dopo l'altra. Quando anche gli ultimi resti di eccitamento furono scomparsi e cominciò a tossire a causa delle sei sigarette fumate, Janice si mise una vestaglia e andò nel corridoio ad ascoltare.
La porta della stanza di Penny era accostata, e dallo spiraglio Janice vedeva suo marito e la figlia minore seduti sul bordo del letto, intenti a stringersi le mani. Lloyd parlava dolcemente, con voce sognante da cantastorie:
«...Una volta sistemato l'omicidio Haverhill-Jenkins, mi hanno assegnato a un caso di rapina, in aiuto alla squadra di West Los Angeles. Si era verifi-cata una serie di furti notturni negli uffici di alcuni medici, tutti in grandi edifici della zona di Westwood. Il ladro prendeva solo contanti e droghe smerciabili; in poco più di un mese si era beccato più di cinquemila dollari e un sacco di stimolanti farmaceutici e narcotici duri. I ragazzi di West Los Angeles avevano un'ipotesi sul modus operandi: secondo loro il bastardo si nascondeva nel palazzo fino al tramonto, poi faceva il suo lavoro, entrava in un ufficio del secondo piano e saltava giù dalla finestra nello spiazzo del parcheggio. Avevano delle prove che avvaloravano la tesi: il cemento dei davanzali era scheggiato. Quelli della squadra pensavano che il colpevole fosse un ginnasta, una specie di ladro atleta capace di saltare dal secondo piano senza farsi male. Il comandante della squadra voleva far pattugliare i parcheggi per beccarlo. Ma quando il ladro colpì di nuovo in un palazzo della Wilshire sorvegliato da due squadre di agenti investigativi, la loro ipotesi andò al diavolo, e così chiamarono me.»
Lloyd fece una pausa. Penny gli appoggiò la testa sulla spalla e sussurrò:
«Dimmi come hai beccato quell'idiota, papà.»
Lloyd fece calare la voce a una tonalità ancora più bassa: «Bimba mia, nessuno è capace di saltare dal secondo piano senza farsi niente. Io avevo già una mia idea: ero convinto che il ladro uscisse tranquillamente dall'edificio, magari salutando gli agenti della sicurezza al piano terra come se andasse tutto a meraviglia. C'era solo un particolare che mi lasciava perplesso. Dove teneva quello schifo che rubava? Andai a controllare le guardie in servizio durante le notti in cui erano avvenute le rapine. In prima serata erano uscite dall'edificio persone conosciute e sconosciute, ma nessuno portava con sé borse o pacchi di sorta. Le guardie le avevano considerate co-me professionisti che lavoravano nel palazzo e non avevano fatto controlli.
Mi sentii raccontare quella storia pari pari sei volte prima di connettere: il ladro si travestiva, magari da infermiera per sentirsi protetto, portando dentro una grossa borsa o un piccolo zaino. Verificai di nuovo con le guardie.
Tombola! Per tutte e sei le notti delle rapine era stata vista uscire dagli edifici svaligiati una donna sconosciuta vestita da infermiera, con una borsa molto grande. Le guardie non me l'avevano saputa descrivere, ma dicevano tutti che era "brutta", "un cesso", e via così.»
Penny si agitò tutta quando Lloyd respirò profondamente e sospirò. La bambina gli tolse la testa dalla spalla e lo tirò forte per il braccio. «Non te-nermi sulle spine, papà!»
Lloyd rise e disse: «Va bene. A quel punto verificai al computer tutti i nominativi della Buoncostume e i colpevoli di reati sessuali con precedenti per furto. Altra tombola! Arthur Christiansen, alias "Misty Christie", alias
"Arlene Regina" Christiansen. Specializzato nell'intrattenersi a pagamento con ubriachi convinti che fosse una donna vera e topo d'appartamento.
Sorvegliai il suo appartamento per trentasei ore di fila e, dopo aver sentito i suoi clienti dire che la sua roba era buona, mi feci la convinzione che spacciava anfe e Percodan. Era già un buon punto di partenza, ma volevo pizzicarlo, cioè, pizzicarla, in flagrante. Il pomeriggio seguente il caro Arthur-Arlene uscì dall'appartamento con una grande borsa colorata e raggiunse Westwood, quindi entrò in un grande edificio commerciale a due isolati dall'UCLA. Quattro ore dopo, circa un'ora dopo il tramonto, dal palazzo uscì un mostro vestito da infermiera che aveva con sé una borsa identica. Io tiro fuori il distintivo, urlo: "Polizia!" e mi butto su Arthur-Arlene, che si mette a strillare: "Maschilista! " e mi dà addosso. Ma non è in grado di farmi del male, e io sto per prendere le manette quando ad Arthur-Arlene saltano fuori dalla camicetta le tette finte. Io lo ammanetto e fermo un'autopattuglia di passaggio. Arthur-Arlene si mette a urlare: "La sorellanza è potente!" e "Gli sbirri sono dei violenti!", e a quel punto un gruppo di studenti dell'UCLA comincia a urlarmi parolacce. Io riesco a malapena a salire sull'auto della polizia. Il primo tumulto transessuale di Los Angeles.»
Penny rise istericamente, gettandosi sul letto e battendo i pugni sulla coperta. Affondò la testa nel cuscino per asciugarsi le lacrime e disse: «Ancora, papà, ancora. Raccontamene ancora una prima di andare a letto.»
Lloyd si avvicinò a Penny e le scompigliò i capelli. «Divertente o seria?»
«Seria» rispose Penny. «Raccontami una storia lugubre per soddisfare la mia curiosità morbosa. Altrimenti starò su tutta la notte a pensare alle tette finte di Arthur-Arlene.»
Lloyd disegnò cerchi immaginari sulla coperta. «Una storia di paladini?»
Penny si fece seria in volto. Prese la mano di suo padre e andò in fondo al letto in modo che Lloyd potesse appoggiarle la testa in grembo. Quando padre e figlia si sentirono a loro agio, Lloyd fissò la coperta scozzese appesa al soffitto e disse: «Il valoroso paladino era vittima di un dilemma. In una giornata aveva due anniversari: uno personale, l'altro professionale.
Quello professionale ha avuto la precedenza, e il paladino ha sparato a un uomo, ferendolo. Un'oretta più tardi, portato l'uomo sotto custodia, il paladino ha cominciato a tremare, come sempre dopo aver usato la pistola. E si è sentito cadere addosso tutte le domande che vengono in seguito: che suc-cederebbe se una volta o l'altra facesse fuori qualcuno? Se una volta avesse delle informazioni sbagliate e mandasse all'altro mondo uno che non c'entra? Se cominciasse a vedere rosso da tutte le parti e il suo buon senso andasse a quel paese? Là fuori il mondo è uno schifo. Lo sai, vero, Pinguino?»
«Sì» sussurrò Penny.
«Lo sai che devi farti crescere gli artigli per combatterlo?»
«Sì, papà, tanto affilati.»
«Sai cosa c'è di strano nella storia del paladino? Che più aumentano i suoi dubbi e le domande che si fa e più si sente deciso. Solo che a volte le cose si fanno complicate. Tu cosa faresti se le cose si facessero davvero difficili?»
Penny giocherellò coi capelli di Lloyd. «Mi affilerei gli artigli» disse, e affondò le dita nella testa del padre.
Lloyd fece una finta smorfia di dolore. «Sai, a volte il paladino vorrebbe tanto non essere un fottuto protestante. Se fosse cattolico almeno avrebbe un'assoluzione formale.»
«Io ti assolverò sempre, papà» disse Penny mentre Lloyd si alzava in piedi. «Sai come dice la canzone: "Io non ho pretese".»
Lloyd guardò sua figlia. «Ti voglio tanto bene» disse.
«Anche io. Una domanda prima che vai via: pensi che avrei abbastanza pelo sullo stomaco per entrare nella Omicidi?»
Lloyd rise. «Per la Divisione rapine e omicidi sei perfetta anche senza peli.»
Janice guardò Penny squittire di gioia, e improvvisamente si sentì profondamente violentata. Tornò nella camera da letto che divideva col marito e gettò via la vestaglia, preparandosi a combattere nuda la sua lotta. Qualche istante dopo Lloyd entrò, sentì il profumo della candela e sussurrò:
«Jan? Ne hai voglia a quest'ora, amore? È passata mezzanotte.»
Mentre allungava la mano verso l'interruttore della luce, Janice scagliò il portacenere traboccante contro la parete opposta e sibilò: «Brutto figlio di puttana egoista e malato, possibile che non vedi quello che stai facendo a quella bambina? Per te essere un padre vuol dire riversare addosso alle tue figlie tutta quella violenza?» Impietrito in quell'istante tremendo, Lloyd premette l'interruttore, illuminando Janice che rabbrividiva, nuda. «È così, Lloyd, maledetto? È così?»
Lloyd si avvicinò a sua moglie a braccia tese, in un gesto di supplica, nella speranza che il contatto fisico placasse la tempesta.
«No!» esclamò Janice indietreggiando. «Questa volta no! Stavolta voglio che tu mi prometta, che tu mi giuri che non racconterai mai più alle nostre bambine quelle storie orribili!»
Lloyd allungò il braccio sottile e prese il polso a Janice. Lei si divincolò e sbatté per terra il comodino che si trovava fra loro.
«No, Lloyd. Non ti permetto di desiderarmi, o di calmarmi, o di toccar-mi, finché non avrai giurato.»
Lui si passò una mano fra i capelli e cominciò a tremare. Ricacciando indietro l'impulso di prendere a pugni la parete, si chinò e rimise a posto il comodino. «Penny è una bambina molto sensibile, Jan, forse un genio in erba» disse. «Cosa dovrei fare, secondo te? Raccontarle la storia dei tre...»
Janice lanciò la sua lampada di porcellana preferita contro l'armadio e strillò: «È solo una bambina! Una bambina di dodici anni! Possibile che non lo capisci?»
Lloyd attraversò il letto saltandoci sopra e la afferrò per la vita, nascon-dendole la testa contro il ventre, sussurrando: «Deve saperlo. Deve, o morirà. Deve saperlo.»
Janice alzò le braccia e strinse i pugni. Cominciò a tempestare di colpi la schiena di Lloyd, ma poi esitò nel sentirsi sommergere da tutte le mutevoli passioni dell'uomo, che si unirono a formare un epigramma troppo tremendo per poterlo recitare.
Abbassò le mani sul volto del marito e lo allontanò gentilmente. «Voglio vedere come stanno le bambine» disse. «Dovrò dire loro che abbiamo liti-gato. Credo che sia meglio che dorma da sola.»
Lloyd si alzò in piedi. «Mi spiace di essere arrivato così tardi.»
Janice annuì, assente, nel vedere confermate le sue previsioni. Poi si mi-se la vestaglia e uscì nel corridoio per andare dalle ragazze.
Lloyd capì che non sarebbe riuscito a dormire. Dopo aver dato la buona-notte alle bambine, gironzolò al piano terra in cerca di qualcosa da fare.
Ma non c'era altro da fare che pensare a Janice e a come non poteva avere lei senza rinunciare a qualcosa che gli era caro e alle sue figlie era essen-ziale. Non c'era altro luogo dove andare che indietro nel tempo.
Lloyd si sistemò il cinturone con la pistola e salì in macchina, diretto al vecchio quartiere.
Gli parve quasi che stesse aspettando solo lui, immutabile alle prime luci dell'alba, con la familiarità di un vecchio amante. Lloyd percorse il Sunset Boulevard, sicuro che fosse suo dovere usurpare l'innocenza con quelle parabole. "Che imparino lentamente" pensava "non come ho imparato io.
Devono conoscere il mostro per mezzo di racconti, non di esempi continui.
Sarà questa la nuova linea della mia trasgressione all'etica irlandese protestante."
Con questa nuova decisione, Lloyd schiacciò l'acceleratore e guardò il Sunset Boulevard esplodere nelle luci dei neon che sfrecciavano via come per risucchiarlo in una scia vorticosa. Guardò il contachilometri: 180 all'o-ra. Non bastava. Premette il pedale con tutta la forza che aveva, e i neon diventarono un biancore continuo. Poi chiuse gli occhi e decelerò finché l'auto non raggiunse una salita e le leggi della natura la costrinsero a ral-lentare gradualmente.
Lloyd riaprì gli occhi e li sentì pieni di lacrime, e si chiese per un lun-ghissimo istante dove diavolo fosse finito. Poi gli tornarono alla mente mille ricordi diversi, e si rese conto che il destino lo aveva portato all'angolo fra il Sunset e Silverlake, il cuore del vecchio quartiere. Spinto da un fa-to servizievole proseguì a piedi.
Le colline a terrazzi attirarono Lloyd dove passato, presente e futuro si fondevano.
Corse su per i gradini di Vendome, notando soddisfatto che la terra sui due lati dei pilastri di cemento era morbida come sempre. Le colline di Silverlake erano state date da Dìo come nutrimento. Che rimanessero i poveri messicani felici e sazi, che si lamentasse pure la gente di quanto erano ripide, ma senza mai andarsene. Che venisse pure il terremoto previsto dai poveri scienziati deficienti. Silverlake, quell'anomalia conservatrice e sprezzante, avrebbe resistito con orgoglio a qualsiasi devastazione mentre Los Angeles sarebbe caduta a pezzi come un guscio d'uovo.
In cima alla collina, Lloyd lasciò focalizzare la propria fantasia sulle poche case che avevano ancora le luci accese. Immaginò una grande solitudine tutto intorno, e gli parve che quelle luci gli chiedessero insistentemente amore. Lui aspirò quell'amore e lo soffiò fuori insieme a ogni grammo di quello che aveva, poi si voltò verso ovest a guardare oltre la collina che lo separava dalla vecchissima casa in cui quel pazzoide di suo fratello ac-cudiva i loro genitori. Lloyd rabbrividì nel sentire la nota stonata in mezzo ai suoi ricordi. L'unica persona che odiava, a guardia delle due persone a-dorate che lo avevano dato alla luce. L'unico suo compromesso consapevole. Inevitabile, ma...
Lloyd rammentò come era successo. Era la primavera del 1971. Lavorava alla stazione Hollywood e arrivava a Silverlake due volte la settimana per far visita ai suoi genitori mentre Tom era al lavoro. Suo padre aveva raggiunto uno stato di calma tranquilla e immemore e passava giornate intere nel capanno del cortile ad armeggiare con decine e decine di televisori e radio che occupavano quasi ogni centimetro quadrato di spazio; e sua madre, muta ormai da otto anni, fissava il vuoto e sognava in silenzio, e doveva venire portata tre volte al giorno in cucina, altrimenti si sarebbe dimenticata di mangiare.
Tom viveva con loro, come aveva fatto per tutta la vita, aspettando che morissero e gli lasciassero la casa, già registrata a suo nome. Cucinava per i genitori e incassava gli assegni della previdenza sociale, e gli leggeva gli squallidi libri illustrati sulla Germania nazista che riempivano gli scaffali della sua camera da letto. Morgan Hopkins aveva espressamente chiesto a Lloyd di poter trascorrere il resto dei suoi giorni insieme alla moglie nella vecchia casa di Griffith Park Boulevard. Lloyd rassicurava più volte suo padre: "La casa l'avrai sempre, papà. Lascia che sia Tom a pagare le tasse, tu non preoccupartene. Come uomo non vale niente, ma guadagna, e sa occuparsi bene di te e di mamma. Lasciagli pure la casa, a me non interessa.
Cerca di essere felice e non pensare a niente".
C'era un tacito accordo fra Lloyd e suo fratello, che allora aveva 36 anni e lavorava come imprenditore telefonico ai margini della legalità. Tom sarebbe rimasto a casa e avrebbe vissuto insieme ai genitori, e Lloyd avrebbe fatto finta di non vedere il cumulo di armi automatiche sepolte nel cortile dietro al capanno degli Hopkins. Lloyd rideva nel pensare alla sproporzio-ne dell'accordo: Tom era vigliacco oltre ogni limite, e non avrebbe mai avuto il fegato di usare quelle armi, che sarebbero comunque arrugginite ir-rimediabilmente dopo pochi mesi.
Ma un giorno di aprile del 1971 Lloyd aveva ricevuto una telefonata con cui era stato informato che nei suoi grandi sogni si era aperta una falla. Un vecchio amico dell'Accademia che lavorava alla stazione Rampart aveva fatto un giro dalle parti di casa Hopkins e aveva notato nel giardino un cartello che diceva IN VENDITA. Perplesso, dato che aveva sentito Lloyd di-re spesso che i suoi genitori sarebbero morti piuttosto che vendere la casa, aveva chiamato Lloyd alla stazione Hollywood per metterlo al corrente.
Lloyd ascoltò quelle parole sentendosi pervadere da una rabbia silenziosa che gli diede le vertigini e gli fece sembrare che lo spogliatoio gli roteasse davanti agli occhi. Con ancora addosso l'uniforme, era andato a prendere l'auto nel parcheggio ed era partito alla volta dell'ufficio di Tom, a Glendale.
L'"ufficio" era una cantina restaurata con una cinquantina di tavolini appiccicati l'uno all'altro contro le pareti, e Lloyd vi entrò senza far caso al venditore che annunciava urlando in un telefono panacee fatte di ri-vestimenti in alluminio e lezioni a domicilio di studi biblici.
La scrivania di Tom era nella parte frontale della stanza, accanto a una grande boccia di vetro piena di caffè alla benzedrina. Lloyd picchiò il manganello imbottito di piombo contro la boccia, incrinandola e facendo schizzare il liquido scuro e bollente in aria. Tom uscì dal gabinetto, vide la furia negli occhi del fratello e il manganello, e indietreggiò con la schiena alla parete. Lloyd avanzò, e stava per far calare il manganello in un arco che terminava proprio sulla testa di Tom quando il terrore che vedeva in quegli occhi grigi tanto simili ai suoi lo arrestò. Gettò il manganello per terra e corse alla prima fila di tavoli, mentre il rappresentante schizzava via in preda al terrore e cercava rifugio in fondo allo scantinato.
Lloyd cominciò a strappare i cavi del telefono dalle spine alla parete e a lanciare gli apparecchi per tutta la stanza. Una fila, poi due, poi tre. Quando tutti i rappresentanti se ne furono andati dall'ufficio, e il pavimento fu coperto di frammenti di vetro, moduli per ordinazioni sparpagliati e telefoni muti, lui si era avvicinato al fratello maggiore, che tremava come una foglia, e aveva detto: "Oggi stesso toglierai la casa dall'asta e non lascerai mai più soli mamma e papà".
Tom aveva annuito senza dire una parola ed era svenuto, cadendo in una pozzanghera di caffè drogato.
Lloyd guardò la collina scura. Tutto ciò era accaduto più di dieci anni prima. Sua madre e suo padre vivevano ancora le loro solitudini separate, e Tom era ancora il loro custode. Era uno stallo di cui non era felice, ma non poteva farci niente.
Rammentò la sua ultima conversazione con Tom. Lui era andato a far visita ai genitori e aveva trovato Tom nel cortile sul retro, intento a seppel-lire fucili con la protezione del buio.
"Parlami" aveva detto Lloyd.
"Di che, Lloydy?" aveva domandato Tom.
"Di' qualcosa di vero. Insultami. Domandami qualcosa. Non ti farò niente."
Tom era indietreggiato di qualche passo. "Mi ucciderai quando non ci saranno più mamma e papà?"
Lloyd era rimasto di sasso. "Perché dovrei ucciderti?"
Tom era indietreggiato ancora. "Per quello che è successo a Natale quando avevi otto anni."
Lloyd si era sentito sopraffare da mostri antichi, morti da più di trent'an-ni all'ombra dell'uomo forte che era divenuto. Aveva rivolto lo sguardo al capanno dei televisori del padre, e la potenza di quei ricordi orripilanti era tale che aveva dovuto fare uno sforzo per ritornare al presente. "Tu sei pazzo, Tom. Lo sei sempre stato. Non mi piaci, ma non ti ucciderei mai."
Lloyd guardò l'alba che saliva all'orizzonte orientale, delineando Los Angeles in un profilo dorato. D'improvviso si sentì solo, e desiderò di essere con una donna. Si sedette sui gradini e meditò sulle possibilità che aveva. C'era Sybil, ma probabilmente era tornata da suo marito. Ricordò che ci stava pensando l'ultima volta che avevano parlato. O Colleen, ma doveva avere il turno infrasettimanale di vendite a Santa Barbara. Leah? Meg?
Con loro era tutto finito, e volerlo riportare in vita nella ferocia di quel desiderio mattutino non avrebbe fatto altro che causare dolore in seguito.
Rimaneva solo l'incertezza di Sarah Smith.
Tre quarti d'ora dopo Lloyd bussò alla sua porta. Lei aprì, ancora con gli occhi gonfi di sonno, con addosso un accappatoio di cotone. Quando lo mise a fuoco cominciò a ridere.
«Sono tanto buffo?» domandò Lloyd.
Sarah scosse il capo. «Che è successo, tua moglie ti ha cacciato via?»
«Più o meno. Ha scoperto che in realtà sono un vampiro camuffato da poliziotto. Mi aggiro all'alba tra le strade di Los Angeles in cerca di donne belle e giovani che mi concedano una trasfusione. Sii la mia saggia musa.»
Sarah fece una risatina. «Io non sono mica bella.»
«Invece sì. Devi andare a lavorare?»
Sarah disse: «Sì, ma posso marcare visita. Non sono mai stata con un vampiro...»
Lloyd le prese la mano mentre lei lo faceva entrare «Allora concedimi di presentarmi» disse.
PARTE TERZA
Convergenza
5
Lloyd sedeva nel suo ufficio al Parker Center, scarabocchiando campa-nili e giocando all'impiccato sulle carte che ingombravano la scrivania. Era il 3 gennaio 1983, e dal suo cubicolo al sesto piano vedeva nuvole scure, cariche di pioggia, dirigersi verso nord. Sperò in cuore suo nell'arrivo di una tempesta purificatrice. Si sentiva soddisfatto e pieno di istinto paterno quando infuriava il brutto tempo.
La relativa solitudine dell'ufficio, fra il deposito delle macchine da scrivere e le sale delle fotocopiatrici, era piacevole, ma la ragione principale per cui Lloyd l'aveva voluto era la sua vicinanza all'ufficio ricevimento messaggi, a tre porte di distanza. Prima o poi, tutte le denunce di omicidio sotto la giurisdizione del Dipartimento di polizia di Los Angeles passavano per le linee telefoniche dell'ufficio, provenienti dagli agenti investigativi che chiedevano assistenza o dalle parti in causa che chiamavano aiuto.
Lloyd aveva collegato il telefono a una derivazione, e ogni volta che al centralino arrivava una chiamata una spia rossa si accendeva sulla sua segreteria telefonica, in modo che lui potesse alzare la cornetta e ascoltare.
Grazie a quel sistema era spesso il primo poliziotto del Dipartimento di polizia di Los Angeles a ottenere informazioni vitali riguardo certi omicidi.
Era un ottimo antidoto alle pratiche, al dover scrivere pesanti verbali e comparire in tribunale; così, quando Lloyd vide lampeggiare la spia sull'apparecchio, il cuore gli diede un piccolo balzo. Sollevò la cornetta e ascoltò.
«Dipartimento di polizia di Los Angeles, Divisione rapine e omicidi»
disse la centralinista.
«È qui che si denuncia un omicidio?» balbettò in risposta una voce d'uomo.
«Sì, signore» rispose la donna. «Si trova a Los Angeles?»
«Sto a Hollywood. Merda, non ci crederete mai a quello che ho visto...»
Lloyd era incuriosito. L'uomo sembrava completamente scoppiato.
«Desidera denunciare un omicidio, signore?» La donna era brusca, addirittura un po' maleducata.
«Figa, non lo so mica se era vero o una di quelle allucinazioni del cazzo.
Sono tre giorni che mi strafaccio di polvere e pillole.»
«Posso sapere dove si trova, signore?»
«Un cazzo. Spedite gli sbirri agli appartamenti Aloha, incrocio fra Leland e Las Palmas. Stanza 406. Merda, sembra di vedere un film di Pe-ckinpah. So un cazzo io, ma o devo piantarla di tirare polvere o avete per le mani un casino che metà basta.» L'uomo che aveva chiamato venne preso da un attacco di tosse, poi mormorò: «Hollywood di merda, figa, casino di merda» e sbatté giù la cornetta.
A Lloyd parve quasi di sentire la perplessità della centralinista. Non capiva se quel tizio dicesse sul serio o no. Borbottò «Brutto coglione» e riag-ganciò. Lloyd balzò in piedi e si gettò sulle spalle la giacca sportiva. Lui sapeva che era vero. Corse in macchina e schizzò via alla volta di Hollywood.
L'Aloha Regency era un grande condominio di quattro piani in stile spa-gnolo, coperto di rampicanti, dipinto di blu elettrico brillante. Lloyd attraversò l'atrio trascurato e raggiunse l'ascensore, capendo subito che una volta quello doveva essere un grande palazzo di Hollywood caduto in deca-denza. Sapeva bene che nell'Aloha Regency abitavano sicuramente un branco di immigrati clandestini, alcolizzati e famiglie che vivevano di sus-sidio. Nei corridoi coperti da moquette consunte aleggiava una tristezza quasi palpabile.
Salì sull'ascensore e premette il pulsante 4, poi tolse la calibro 38 dalla fondina, sentendo il tipico formicolio di quando si avvicinava alla morte.
L'ascensore si arrestò con un sussulto e Lloyd uscì. Controllò il corridoio, notando segni di piede di porco sulle porte verso il numero 406, dal lato dei numeri pari. Dopo il 406 le scalfitture cessavano. Il legno sugli stipiti era scheggiato di fresco, con i bordi taglienti, il che significava che le porte dovevano essere state forzate non più tardi di quella stessa mattina. Lloyd si era già fatto un'idea sua. Puntò la calibro 38 direttamente sulla porta del numero 406 e spalancò quest'ultima con un calcio.
Tenendo l'arma di fronte a sé per indicarsi la direzione, entrò in un piccolo soggiorno rettangolare alle cui pareti c'erano scaffali pieni di libri e alte piante in vaso. In un angolo c'era una scrivania posta in diagonale, tre poltrone sistemate a semicerchio col diametro rivolto verso la vetrata principale. Lloyd attraversò la stanza, assaporandone il gusto. Si girò lentamente verso il cucinino sulla sinistra. Piastrelle e linoleum, tutto appena pulito. Piatti impilati vicino al lavello. Rimaneva solo la camera da letto, separata dal resto dell'appartamento da una porta dipinta di verde brillante a cui era attaccato un poster di Rod Stewart.
Lloyd abbassò gli occhi sul pavimento e si sentì rivoltare lo stomaco. Di fronte alla fessura tra la porta e il pavimento c'era un cumulo di scarafaggi morti, incollati l'uno all'altro in una pozza di sangue raggrumato. Aprì la porta con un calcio, mormorando: "Coniglio nella tana", chiudendo gli occhi finché non riuscì a sopportare il puzzo terribile della carne in putrefa-zione. Quando fu riuscito a interiorizzare il tremito ed ebbe capito che non avrebbe vomitato, aprì gli occhi e disse: «Oh Dio, ti prego, no.»
Una donna nuda era appesa per una gamba a una trave del soffitto, proprio sopra la trapunta che copriva il letto. Aveva il ventre squarciato dal bacino al costato, e gli intestini le si erano rovesciati sul torace, fino a co-prirle il volto rosso di sangue. Lloyd memorizzò tutta la scena: la gamba libera della donna gonfia e violacea, distorta ad angolo retto rispetto al corpo, sangue coagulato sui seni, il colore bluastro della pelle, la coperta così fradicia di sangue da esserne incrostata, sangue sul pavimento e sui mobili e sullo specchio, tutto che incorniciava il cadavere della donna in una perfetta simmetria di devastazione.
Lloyd andò in soggiorno e trovò il telefono. Chiamò Dutch Peltz alla stazione Hollywood, dicendo solo: «Leland 6819 appartamento 406. Omicidi, ambulanza, medico. Ti chiamo più tardi per dirti tutto.»
Dutch disse: «Okay, Lloyd» e riappese.
Lloyd girò l'appartamento una seconda volta, cancellando dalla mente ogni pensiero in modo da lasciare che tutto gli arrivasse gradualmente, scrutando il soggiorno con lo sguardo finché non vide una borsa di cuoio accanto a una pianta grassa. Si chinò a prenderla, poi ne rovesciò il contenuto per terra. Scatoletta da trucco, Exedrina, spiccioli. Aprì il portafogli inciso a mano. La donna era Julia Lynn Niemeyer. Nel vedere la fotografia e i dati della patente di guida gli si strinse il cuore: graziosa, un metro e 62, 60 chili. Nata il 2 febbraio '54. Il mese successivo avrebbe compiuto 29
anni.
Lloyd lasciò cadere il portafogli e passò a esaminare gli scaffali della libreria. Netta predominanza di romanzi sentimentali e narrativa popolare.
Notò che i libri sulle mensole in cima erano coperti di polvere, mentre quelli in fondo erano puliti.
Si abbassò per esaminarli più da vicino. Sulla mensola in fondo c'erano volumi di poesia, da Shakespeare a Byron a edizioni economiche di poetesse femministe. LÌoyd tirò fuori tre libri a caso e li sfogliò, sentendo crescere il rispetto che già provava per Julia Lynn Niemeyer. Nei giorni precedenti alla morte stava leggendo cose buone. Finì di sfogliare i classici e prese una grande brossura intitolata La furia in seno: Antologia di prosa femminista. Aprì alla pagina dell'indice, e si sentì mancare quando vide delle macchie brune sulla copertina interna. Continuando a sfogliare il libro, trovò le pagine incollate di sangue raggrumato e sbavature insanguinate che si affievolivano a mano a mano che arrivava alla fine del libro. Quando arrivò alla quarta di copertina patinata, diede un ansito. C'erano due impronte digitali parziali sanguinolente, nettamente delineate sulla carta bianca. Indice e mignolo, quanto bastava per fare un controllo.
Lloyd esultò, avvolse il libro nel suo fazzoletto e lo posò con cautela su una delle poltrone. D'istinto, tornò alla libreria e fece passare la mano nella fessura tra l'ultima mensola e il pavimento. Prese alcune riviste por-nografiche comprate ai distributori automatici: "Notti a L.A.", "Linea Calda L.A.", "L.A. proibita".
Si sedette a sfogliarle, rattristato dalle lettere di squallide fantasie e dagli annunci che chiedevano disperatamente un rapporto. "Attraente divorziata quarantenne cerca bendotati razza bianca per ore liete pomeridiane. Mandare foto in erezione e lettera a C.P. 5816, Gardena, 90808, California",
"Gay carino, 24 anni, esperto giochi di bocca, incontrerebbe giovani universitari atletici, no baffi. Chiamate a qualsiasi ora, 7096404"; "Mi chiamano Puttaniere, e chiavare è il mio mestiere! Tutte le donne faccio gode-re! Passiamo insieme una sera perfetta, ho il cazzo duro se hai la fica stretta! Mandare foto a gambe larghe a C.P. 6969, L.A. 90069, California."
Lloyd stava per rimettere a posto le riviste chiedendo perdono per la razza umana, quando la sua attenzione venne attratta da un annuncio cerchiato in rosso. "Chi ha più fantasie, voi o io? Troviamoci a parlarne. Tutte le persone sessualmente disinibite possono scrivermi alla C.P. 7512, Hollywood, 90036 California. (Sono una ragazza attraente sulla trentina.)" Mi-se la rivista da parte e sfogliò le altre due. In entrambe c'era lo stesso annuncio, identico.
Si infilò le riviste nella tasca della giacca, tornò nella camera da letto e aprì le finestre. Julia Lynn Niemeyer ondeggiò alla brezza, roteando sull'asse della gamba appesa alla trave del soffitto, che scricchiolava per il pe-so. Lloyd le strinse dolcemente le braccia. "Oh, piccola" sussurrò "oh, bambina, cosa stavi cercando? Ti sei battuta? Hai urlato?"
Come in risposta, il braccio gelato della donna gli venne strappato di mano da una folata improvvisa. Lui lo afferrò e lo tenne stretto, spostando lo sguardo sulle vene bluastre nell'incavo del gomito. Due punture di ago, nette, in mezzo alla vena più grande. Controllò l'altro braccio. Niente. Raschiò via il sangue secco dalle caviglie e dietro le ginocchia. Non c'erano altri segni: la donna era stata abilmente narcotizzata prima di venire viola-ta.
Lloyd sentì rumore di passi nel corridoio, e qualche secondo più tardi un poliziotto in borghese e due agenti di pattuglia in uniforme irruppero nell'appartamento. Lui tornò nel soggiorno per riceverli, indicando col pollice dietro di sé e disse: «Da quella parte, ragazzi.» Stava fissando il cielo scuro dalla finestra quando sentì le prime esclamazioni di orrore, e poi il rumore di qualcuno che vomitava.
Il poliziotto in borghese fu il primo a riprendersi, tornando da Lloyd e balbettando con falsa baldanza: «Perdio, certo che è un bel macello! Lei è Lloyd Hopkins, no? Io sono Lundquist della Omicidi di Hollywood.»
Lloyd si voltò a guardare il giovane alto e prematuramente ingrigito, i-gnorando la mano che gli porgeva. Lo esaminò attentamente e giunse alla conclusione che era stupido e inesperto.
Lundquist si agitò, a disagio, sotto lo sguardo di Lloyd. «Per me è un ca-so di furto con scasso, sergente» disse. «Ho visto segni di grimaldelli sulla porta. Credo che dovremmo iniziare l'indagine fermando tutti gli scassina-tori con precedenti per vio...»
Lloyd scosse il capo, zittendo il giovane agente investigativo. «Si sbaglia. I segni del piede di porco sono freschi. I bordi si sarebbero smussati per l'umidità se il tentativo di furto fosse coinciso con l'assassinio. No, lo scassinatore era quello che ha denunciato l'omicidio. Senta, la borsa della donna sta su quella poltrona là. Identificazione accertata. C'è anche un libro in brossura con due impronte parziali insanguinate. Portate tutto al laboratorio e fatemi chiamare a casa dai tecnici quando avranno qualcosa di concreto, in un senso o nell'altro. Voglio che perquisiate tutto quanto e chiudiate bene. Niente giornalisti o stronzi della televisione. Chiaro?»
Lundquist annuì.
«Bene. Adesso chiami il medico e la Scientifica, che portino qui una squadra per la rilevazione delle impronte e frughino questo posto da cima a fondo. Voglio un rapporto legale completo. Dica al medico di telefonarmi a casa con il rapporto dell'autopsia. Chi è il capo della squadra di Hollywood?»
«Il tenente Perkins.»
«Bene. Mi metterò io in contatto con lui. Gli dica che mi occupo io del caso, per la Divisione rapine e omicidi.»
«Va bene, sergente.»
Lloyd tornò nella camera da letto. I due agenti di pattuglia stavano fissando il cadavere e facendo battute. «Una volta avevo una ragazza un po'
così» stava dicendo il poliziotto più anziano. «Bloody Mary. Le sue cose duravano così tanto che potevamo uscire insieme solo due settimane al mese.»
«Non è niente» disse il più giovane. «Una volta conoscevo un funzionario dell'obitorio che si era innamorato di un cadavere. Non lasciava mai fa-re l'autopsia al medico legale, perché diceva che le avrebbe tolto il sex appeal.»
L'altro fece una risata e si accese una sigaretta con mani tremanti. «Se è per quello, mia moglie non ce l'ha mai.»
Lloyd si schiarì la gola. Sapeva che i due facevano quelle battute per non lasciarsi sopraffare dall'orrore, ma si sentì comunque offeso, e non voleva che Julia Lynn Niemeyer sentisse quelle cose. Frugò nell'armadio in camera da letto finché non trovò un accappatoio di spugna, poi andò in cucina e prese un coltello da carne a lama seghettata. Quando rientrò nella camera da letto e salì sul letto insanguinato, il poliziotto più giovane disse: «È meglio se la lascia com'è per il medico legale, sergente.»
Lloyd disse: «Chiudi quella fogna» e tagliò il cavo di nylon a cui Julia Lynn Niemeyer era appesa per la caviglia. Prese il fardello martoriato fra le braccia e scese dal letto, appoggiandole la testa alla propria spalla. Gli occhi gli si riempirono di lacrime. «Dormi, tesoro» disse. «Sta' tranquilla, troverò chi ti ha ammazzato.» Lloyd la depose a terra e la coprì con l'accappatoio. I tre poliziotti lo fissavano a occhi sgranati.
«Sigillate l'appartamento» disse Lloyd.
Tre giorni più tardi, Lloyd era nella sede principale dell'Ufficio postale di Hollywood, con gli occhi incollati alla parete su cui si trovavano le caselle dalla 7500 alla 7550, armato della notizia che Julia Lynn Niemeyer era andata a dettare gli annunci per le riviste in compagnia di una donna al-ta e bionda sulla quarantina. Il personale della redazione di "Notti a L.A."
e "Linea Calda L.A." aveva identificato con certezza la donna morta dalla fotografia della patente, e ricordava bene la sua compagna.
Lloyd era agitato, e cercò di ricacciare indietro rabbia e impazienza ricapitolando tutte le prove concrete che aveva sull'assassinio. Primo: Julia Lynn Niemeyer era stata uccisa da una dose massiccia di eroina, poi mutilata dopo la morte. Secondo: il medico legale aveva stimato il delitto a circa 72 ore prima del ritrovamento del cadavere. Terzo: nessuno, all'Aloha Regency, aveva sentito rumori strani, né sapeva molto della vittima, che viveva della rendita di un fondo fiduciario istituito dai genitori morti in un incidente stradale nel 1978. L'ultima informazione era stata data dallo zio, che aveva letto della morte sui giornali di San Francisco e aveva descritto Julia Niemeyer come "una ragazza molto sensibile, molto tranquilla e intelligente, che non si lasciava mai avvicinare da nessuno".
Sui giornali c'erano stati molti articoli sull'uccisione, ed erano state evi-denziate in dettaglio certe similitudini con gli omicidi Tate-La Bianca del 1969. Tutto ciò aveva fatto sì che i centralini del Dipartimento di polizia di Los Angeles fossero assaliti da un fiume di informazioni non richieste, e Lloyd aveva assegnato a tre agenti il compito di interrogare tutti quelli che chiamavano e non sembravano platealmente svitati. Le impronte insanguinate sul libro in brossura, l'unico vero elemento concreto, erano state esaminate da esperti, quindi trasmesse via computer e telex a tutte le agenzie di polizia del territorio continentale degli Stati Uniti, con risultati di una negatività sconcertante: le impronte parziali di indice e mignolo non erano attribuibili a nessuno in nessun luogo, e questo significava che l'assassino non era mai stato arrestato, non era mai stato membro delle forze armate o in servizio civile, non aveva mai assunto obbligazioni e non aveva preso la patente in almeno 37 dei 50 Stati.
La tesi di Lloyd prese forma sulla base di quella che chiamava "Sindro-me della Dalia Nera", facendo riferimento al famoso caso del 1947 di omicidio con mutilazione mai risolto. Era sicuro che Julia Lynn Niemeyer fosse stata uccisa da un uomo di mezz'età molto intelligente e che non aveva mai ucciso prima, un uomo con una debole carica sessuale la cui personalità era stata in qualche modo sopraffatta dalle sue psicosi latenti e alla fine lo aveva spinto a pianificare l'omicidio con estrema cura. Sapeva anche che l'uomo doveva avere una certa forza fisica ed essere in grado di opera-re su ampio livello sociale: un cittadino al di sopra di ogni sospetto in grado allo stesso tempo di acquistare eroina.
Lloyd era colpito sia dall'assassino sia dalla sfida che gli si presentava.
Scrutò l'ufficio postale a caso, poi riportò lo sguardo sulla casella 7512.
Sentì crescere l'impazienza. Se la "donna alta e bionda" non si fosse mostrata entro mezzogiorno avrebbe spaccato la casella postale e l'avrebbe scardinata
La vide un'ora più tardi. Lloyd capì che era lei non appena varcò le grandi porte a vetri e si avvicinò alle caselle. Una donna alta e dai lineamenti forti che sembrava fremere di ansia repressa. Lloyd sentì la tensione in lei mentre si guardava attorno in tutte le direzioni, inseriva la chiave e ritirava un pacchetto di lettere, poi correva fuori.
Lloyd la raggiunse mentre stava aprendo la portiera di una Pinto Ha-tchback parcheggiata in doppia fila. Lei si voltò nel sentire i passi, portandosi subito la mano alla bocca nel vedere il distintivo che lui le mise davanti agli occhi. Sconvolta, la donna si abbandonò contro la macchina e lasciò cadere il pacco di lettere sulla strada.
Lloyd si chinò e le raccolse. «Polizia» disse con calma.
«Oh Cristo» disse lei. «Buoncostume? Narcotici?»
Lloyd disse: «No, Squadra omicidi. Sono qui per Julia Niemeyer.»
Sul volto della donna comparve un'espressione irosa. «Dio Cristo» esalò
«che sollievo. Avevo intenzione di chiamarvi. Immagino che lei voglia parlare.»
Lloyd sorrise. La donna esibiva una certa spavalderia. «Non possiamo parlare qui» disse «e non voglio costringerla a venire al Dipartimento. Le dà fastidio andare da qualche parte?»
«No» disse la donna, aggiungendo poi: «agente» con una lieve sfumatu-ra di disprezzo nella voce.
Lloyd le disse di andare verso l'Hancock Park. En route venne a sapere che la donna si chiamava Joanie Pratt, 42 anni, ex ballerina, cantante, attrice, cameriera, coniglietta del Playboy Club, modella e mantenuta.
«E adesso di che si occupa?» le domandò mentre lei parcheggiava nello spiazzo dell'Hancock Park.
«È illegale» disse Joanie Pratt con un sorriso.
«Non mi importa» disse Lloyd restituendo il sorriso.
«Okay, smercio anfetamine e puttane per clientela selezionata e anziana che non vuole farsi coinvolgere.»
Lloyd rise e le indicò una serie di dinosauri di gesso che si trovavano su una collinetta a qualche metro dai Tar Pits. «Andiamo lì a fare quattro chiacchiere» disse.
Quando furono seduti sull'erba, Lloyd cominciò a descriverle il cadavere di Julia Niemeyer con tutti i macabri dettagli. Joanie Pratt diventò pallida, poi rossa in viso e cominciò a singhiozzare. Lloyd non fece nulla per con-fortarla. Quando la donna ebbe smesso di piangere, lui disse piano: «Io voglio questo animale. So degli annunci che lei e Julia avete fatto pubbli-care su quelle riviste porno. Non m'importa se avete scopato mezza Los Angeles, né se avete scopato con i canguri dello Zoo di San Diego o vi siete scopate fra di voi. Non me ne sbatte un cazzo se spacciate droga, se ve la sniffate, la tirate in vena o la offrite ai bambini. Voglio sapere tutto quello che lei sa su Julia Niemeyer: la sua vita sentimentale, quella sessuale, e perché ha fatto uscire quegli annunci. Sa dirmelo?»
Joanie annuì in silenzio. Poi si asciugò la faccia e disse: «Va bene, le co-se stanno così. Circa tre mesi fa ero alla Biblioteca di Hollywood per restituire dei libri. Vedo una bella topina in coda vicino a me che ha preso a prestito tutti quei saggi divulgativi sul sesso, sa, Kraft-Ebbing, Kinsey, il Rapporto Hite. Faccio una battuta alla ragazza, che poi è Julia. Alla fine usciamo a fumare una sigaretta e a fare quattro chiacchiere, sul sesso. Julia mi racconta che sta facendo una ricerca sulla sessualità, che vuole scrivere un libro. Io le racconto del mio passato burrascoso e le dico che ho in ballo una storia, che organizzo orge. È una specie di truffa. Conosco gente che si occupa di vendite immobiliari ad alto livello, e gli fornisco la roba, chiedendo in cambio che mi subaffittino degli appartamenti di gran classe quando i proprietari sono fuori città. Poi metto degli annunci nelle riviste porno, in cui si offrono orge di prima qualità. Duecento dollari a coppia, in modo da tenere fuori la teppa. Io fornisco roba da mangiare e droga, musica e impianto luci. Be', comunque, questa Julia... è fissata col sesso, ma non è una che scopa. È come una studiosa...»
Joanie fece una pausa e si accese una sigaretta. Quando Lloyd disse nervosamente: «Vada avanti» lei disse «Be', questa Julia mi chiede di intervistare la gente che viene alle feste che organizzo. Io le dico: "Cazzo, non se ne parla neanche! Quella gente paga bene per entrare, non vogliono certo farsi infastidire da una che gli viene a fare domande sul sesso". Così Julia mi fa: "Guarda, io ho un sacco di soldi. Pagherò io per far venire della gente ai party, e come tariffa d'ammissione chiederò che si lascino intervistare.
Così potrò guardare mentre scopano". È per quello che Julia ha messo gli annunci. La gente la contattava, e lei si offriva di pagare loro l'ingresso alle orge se acconsentivano a farsi intervistare.»
Lloyd era impietrito, e fissò gli occhi azzurri di Joanie Pratt finché la donna non cominciò ad agitargli una mano davanti alla faccia. «Torni sulla terra, sergente. Sembra che sia appena andato su Marte.»
Lloyd allontanò gentilmente la mano di Joanie. «Vada avanti.»
«Okay, bel marziano. Julia faceva le sue interviste e guardava la gente che trombava finché non le uscivano gli occhi dalle orbite. Aveva scritto quintali di appunti e aveva già completato la prima bozza del libro, quando il suo appartamento è stato svaligiato, e il manoscritto e tutti i suoi appunti e le schede sono stati rubati. Mi ha de...»
«Cosa?» urlò Lloyd.
Joanie fece un balzo indietro, stupita. «Un momento, sergente. Mi lasci finire. Questo è successo circa un mese fa. Qualcuno è entrato nell'appartamento e l'ha saccheggiato. Le mancavano stereo, televisione e mille dollari in contanti. Ha...»
Lloyd la interruppe. «Lo ha denunciato alla polizia?»
Joanie scosse il capo. «No, le ho detto io di non farlo. Le ho detto che poteva comunque riscrivere il libro a memoria e fare qualche altra intervista. Non volevo che venissero gli sbirri a ficcare il naso: hanno la fama di essere puritani, e avrebbero subodorato i miei traffici. Ma senta qua. Circa una settimana prima di morire, Julia mi diceva che aveva la sensazione di essere seguita. C'era un uomo che vedeva spesso in tanti posti diversi: per strada, al ristorante, al mercato. Non faceva mai niente, tipo fissarla o altro, ma aveva come la sensazione che la stesse osservando.»
Lloyd si sentì gelare. «Aveva visto l'uomo alle orge?»
«Mi diceva che non ne era sicura.»
Lloyd rimase in silenzio a lungo. «Ha qualcuna delle lettere che Julia ri-ceveva?»
Joanie scosse il capo. «No, solo quelle che ho ritirato poco fa.»
Lloyd allungò la mano, e Joanie prese le lettere dalla borsetta. Lui la fissò, battendosi piano il pacco di buste contro la gamba. «Quando c'è la prossima festicciola?»
Joanie abbassò gli occhi. «Stasera.»
Lloyd disse: «Ottimo, verrò anche io. Sarò il suo cavaliere.»
La festa era in una villetta a tre piani che si trovava in fondo a una strada chiusa dalla parte delle Hollywood Hills che dava sulla Valle. Lloyd indossava pantaloni di cotone con risvolti, mocassini, camicia polo a righe e maglione a girocollo sotto il quale teneva la calibro 38 a canna corta, e quando lo vide Joanie Pratt esclamò: «Cristo Dio, sergente! Siamo a un'orgia, mica a una festa di laurea! Dove hai messo il mazzolino di fiori per me?»
«Ce l'ho nelle mutande» disse lui.
Joanie rise, poi lo squadrò a occhi socchiusi. «Niente male. Vuoi scopare stasera? Avrai delle richieste.»
«No, mi tengo in serbo per la padrona di casa. Ti va di mostrarmi l'am-biente?»
Fecero il giro della casa. Tutti i mobili del soggiorno e della sala da pranzo erano stati spinti contro le pareti, e i tappeti arrotolati e ammucchia-ti in una catasta alta fino al soffitto, accanto a una fila di tavolini su cui erano pronti piatti freddi, antipasti e cocktail in coppe ghiacciate. Joanie disse: «Buffet e pista da ballo. Megaimpianto stereo collegato ad altoparlanti sistemati dappertutto.» Indicò le luci appese al soffitto. «Lo stereo è collegato all'illuminazione, per cui musica e luci vanno insieme. Da brivido.» Gli prese la mano e lo condusse di sopra. Ai piani superiori c'erano camere da letto e saloni da parti opposte rispetto a un lungo corridoio. Sopra le porte aperte si accendevano a intermittenza luci rosse, e Lloyd vide che i pavimenti delle stanze erano coperti da materassi e lenzuola di seta rosa.
Joanie gli diede di gomito nelle costole. «Assumo sempre dei gorilla al mercato degli schiavi di Skid Row. Sono loro che si occupano del lavoro pesante. Gli allungo dieci dollari prima della festa, poi altri venti e una bottiglia di tequila quando portano via tutto quanto a cose fatte. Che c'è, sergente? Hai una faccia così scura...»
«Non so» fece Lloyd «ma è buffo. Io sto cercando un assassino, questa
"festa" è con ogni probabilità illegale, eppure credo di essere più felice di quanto lo sia mai stato da anni a questa parte.»
I convitati cominciarono ad arrivare una mezz'ora dopo. Lloyd mise Joanie al corrente di quello che voleva: lei doveva girare e indicargli tutte le persone che ricordava intervistate o anche apparentemente interessate a Julia Niemeyer. Doveva riferirgli di tutti gli uomini che avevano anche solo nominato Julia o accennato alla recente disgrazia. Doveva inoltre riferirgli di quello che le sembrasse diverso dal solito o allarmante, qualsiasi cosa andasse contro l'etica da lei stessa descritta per le orge: "Buona musica, buona roba, buone scopate". Assolutamente nessuno doveva sapere che lui era un agente di polizia.
Lloyd si mise dietro ai due muscolosi buttafuori che esaminavano gli ospiti in arrivo e prendevano gli inviti. I convitati, accoppiati per assicurare una giusta proporzione fra i partecipanti, gli parvero quasi un vero e proprio microcosmo di gente tediata dal denaro: abiti raffinatissimi e all'ultima moda su corpi tesi e flaccidi. Uomini di mezza età senza un briciolo di grinta, donne dall'aspetto duro e combattivo, sfrontate e tanto affettate da sembrare finocchi della peggior specie. Mentre i gorilla chiudevano e sbarravano la porta dopo l'arrivo degli ultimi ospiti, Lloyd si sentì come se avesse appena assistito a una perfetta rappresentazione impressionista dell'inferno. Per reazione gli venne un tic al ginocchio sinistro, e quando fece ritorno al buffet si rese conto che gli ci sarebbe voluto ogni grammo della sua etica irlandese protestante per impedirsi di odiarli tutti.
Decise di fare la parte del giocherellone. Quando Joanie Pratt gli passò accanto, lui sussurrò: «Fai sembrare che stiamo insieme.»
Joanie chiuse gli occhi. Lloyd si chinò piano per baciarla, allungando le mani a prenderla alla vita, alzandola poi in modo da sollevarla a qualche centimetro da terra. Le loro labbra e le lingue si incontrarono in perfetto sincrono. Un coro di fischi e battute scherzose soffocò il pulsare furioso del cuore di Lloyd; a bacio concluso, depose Joanie a terra e capì di avere conquistato il gruppo.
«Tutto finito, cari amici» disse con una falsa voce nasale, dando a Joanie un colpetto sulla spalla. «Voi divertitevi. Io salgo a fare un riposino.» L'ironia venne accolta da un lungo applauso, e lui corse verso la scala.
Lloyd raggiunse una camera da letto all'estremità del corridoio del terzo piano. Si chiuse dentro, orgoglioso della sua esibizione, ma vergognandosi della facilità con cui gli era venuta e perplesso nel rendersi conto che i gaudenti del piano di sotto cominciavano a piacergli. Si sedette sul materasso coperto dal lenzuolo di seta rosa e tirò fuori le lettere che Joanie gli aveva dato, l'ultima corrispondenza recapitata alla casella postale 7512.
Aveva pensato di leggerle più tardi, con l'aiuto di Joanie, ma in quel momento aveva bisogno di lavorare per ricacciare indietro quella sua ambiguità che lo aveva quasi sconvolto.
Le prime due buste contenevano annunci da quattro soldi, circolari con pubblicità di vibratori elettrici giganti e abbigliamento sadomaso. La terza busta era scritta a mano. Lloyd guardò più da vicino e notò che le vocali e le consonanti dell'indirizzo erano perfettamente allineate, evidentemente scritte con penna e righello. Qualcosa gli scattò nella mente. Strinse con dolcezza la busta per gli orli e la aprì con un colpo veloce di unghia. All'interno c'era una poesia, scritta sempre con l'aiuto del righello in inchiostro marrone. Lloyd girò il foglio di sbieco. C'era qualcosa che non gli andava di quell'inchiostro. Agitò la carta di fronte agli occhi, e si rese conto che la tinta marrone si stava scheggiando per lasciare posto a un colore più chiaro al di sotto. Sbavò di proposito col dito una strofa, poi se lo annusò e sentì scattare di nuovo qualcosa nella mente: la poesia era scritta col sangue.
Lloyd cercò di costringere il proprio cervello a rimanere tranquillo, usando il suo metodo personale di respirazione controllata e concentrandosi sulle linee verticali della coperta che Penny gli aveva fatto per Natale due anni prima. Quando nella mente gli si fu formato il vuoto per diversi minuti, cominciò a leggere le parole insanguinate:
Al tuo dolore
ti ho sottratta;
Come un ladro
ti ho rubata;
Mi lacerai il
cuore per darti
la pace;
Mi chiedesti di porre fine
al tuo tormento
E vita io ti diedi.
Il tuo corpo era
l'ellissi,
Il tuo cuore
mia moglie
I tuoi lubrici studi
mio fardello;
La tua morte, per me
vita.
Le tue parole leggo,
nel mio inferno;
Tristezza fin nel profondo
per ciò che di laido
hai trovato.
Tu mi addolorasti più
di ogni altra.
Eri la più colta,
Più gentile, peggiore
e migliore.
Il cuore mi tremò
nell'istante in cui
ti diedi il riposo.
Tributo nel passaggio
anonimo,
vita vissuta avvolto
in una cellula
cancerosa,
Solo l'amor della mia
spada lo dona:
Sollievo dai cancelli
di questo cruento
inferno.
Lloyd rilesse la poesia altre tre volte, mandandola a memoria, lasciando che le permutazioni di quelle parole lo penetrassero e imponessero il loro ritmo al battito cardiaco, al fluire del sangue nelle vene e alla carica che gli percorreva il cervello. Si alzò e cercò la propria immagine nello specchio che copriva completamente la parete di fondo. Non riusciva a capire se stava fissando un paladino protestante irlandese o un mostro, e non gli importava: era al centro di un vortice di pulsioni maligne circondate da un'au-ra di quasi divinità, e finalmente capì la ragione precisa per cui gli era stato donato il genio.
Mentre la poesia lo avviluppava sempre più, cominciò ad assumere dimensioni quasi musicali, cadenze simili a quelle delle sigle dei vecchi pro-grammi televisivi che Tom lo costringeva a...
Le cadenze crebbero, e quel "vita vissuta avvolto in una cellula cancerosa" diventò un'improvvisazione sul tema da big band diTexaco Star Thea-tre, e all'improvviso si vide accanto Milton Berle, con il suo sigaro fra i dentoni da marmotta. Lloyd cacciò un urlo e cadde in ginocchio, con le mani premute contro gli orecchi. Vi fu un rumore gracchiante, e la musica cessò. Lloyd si strinse più forte gli orecchi. "Raccontami una storia coniglio nella tana" piagnucolò più volte, sentendosi sempre meglio, finché non sentì un fruscio di fondo provenire dal grande altoparlante impiantato nella parete del letto. I singhiozzi lasciarono il passo a una risata di sollievo. Era la radio.
Lloyd si sentì invadere la mente dal desiderio razionale di combattere.
Poteva ridurre al silenzio la centrale strappando qualche filo e girando qualche commutatore. I partecipanti potevano anche scopare sans accom-pagnamento, visto che quella era oltretutto un'attività illegale.
Rimettendo con cura la poesia nella busta e sistemandosela in tasca, Lloyd scese al piano di sotto, le mani strette ai fianchi, dentro le tasche.
Non fece caso alle coppie che fornicavano in piedi sulle soglie delle camere da letto e si concentrò sulle brillanti luci cremisi che avvolgevano tutto il corridoio. Le luci erano la realtà, la benigna antitesi della musica, e se solo fosse riuscito a lasciarsi guidare da loro fino allo stereo, sarebbe stato tranquillo.
Il piano terra era un unico grande vortice di corpi che si muovevano insieme alla musica, alcuni seguendo il ritmo e altri no, membra abbandonate che si alzavano, pelle contro pelle, una brevissima carezza prima di riprendere i movimenti convulsi, quasi spastici. Lloyd si fece strada in mezzo a quel turbine, sentendosi toccare, tirare e spingere da braccia sconosciute. Vide lo stereo al capo opposto della sala e Joanie Pratt poco lontano, intenta a esaminare una pila di dischi. Completamente vestita, assomigliava quasi a un faro, unico punto fermo in un mondo di rumore allucinante.
«Joanie!»
Si stupì per primo della paura nella sua voce, e lo stupore lo allontanò dalla musica, in mezzo ai corpi nudi che si ritiravano mentre lui li attraversava come una strada. Corse alla cieca in cucina, lungo corridoi illuminati da luci stroboscopiche per finire in un cortile buio pesto in cui regnava un tremendo silenzio. Lloyd cadde in ginocchio e si lasciò abbracciare dall'aria calma e dal profumo degli eucalipti.
«Sergente?»
Joanie Pratt gli si inginocchiò a fianco. Gli accarezzò la schiena e disse:
«Cristo, stai bene? La faccia che avevi sulla pista da ballo... Non ho mai visto niente di simile.» Lloyd si costrinse a ridere. «Non preoccuparti. Non sopporto la musica o i rumori forti. Roba di molti anni fa.» Joanie si girò l'indice contro la tempia. «A te manca qualche rotella, lo sai?»
«Non parlarmi a quel modo.»
«Scusa. Sposato? Bambini?»
Lloyd annuì e si alzò in piedi. Aiutando Joanie a rialzarsi, disse: «Da diciassette anni. Ho tre figlie.»
«Va bene?»
«Le cose stanno cambiando. Le mie bambine sono meravigliose. Io gli racconto delle storie, e mia moglie mi odia per questo.»
«Perché? Che storie gli racconti?»
«Non importa. Ma quando avevo otto anni mia madre raccontava a me delle storie, e mi hanno salvato la vita.»
«Che razza di...»
Lloyd scosse il capo. «No, cambiamo argomento. Hai sentito qualcosa alla festa? Qualcuno ha parlato di Julia? Hai notato niente di insolito?»
«No, no e no Julia dava un nome finto quando intervistava la gente, e la foto del notiziario non era venuta bene. Secondo me non se n'è neanche accorto nessuno.»
Lloyd rifletté. «La bevo» disse «L'istinto mi dice che l'assassino non verrebbe mai a un ricevimento come questo, perché lo considererebbe una depravazione. Però voglio coprire ogni pista. In una di quelle lettere che mi hai dato c'era una poesia. Scritta dall'assassino, ne sono sicuro. Nella poesia c'erano vaghi riferimenti ad altre vittime, per cui sono sicuro che ha ucciso più di una donna.» Quando Joanie gli rivolse in risposta uno sguardo inespressivo, lui continuò: «Voglio che tu mi dia un elenco di tutti i tuoi partecipanti abituali.»
Joanie stava già scuotendo freneticamente la testa. Lloyd la prese per le spalle e disse piano: «Vuoi che questa belva uccida ancora? O meglio, che è più importante, preferisci salvare delle vite innocenti o l'identità di quattro coglioni arrapati?»
Una risatina isterica dall'interno dell'abitazione fece da sfondo alla risposta di Joanie. «Direi che non ho molta scelta, sergente. Andiamo a casa mia, ho uno schedario con i nomi di tutti i clienti.»
«E la festicciola?»
«Chi se ne frega. Farò chiudere tutto dai gorilla. Prendiamo la tua macchina o la mia?»
«La mia. È un invito?»
«No, una proposta.»
Più tardi, quando furono troppo pieni l'uno dell'altra per riuscire a dormire, Lloyd si mise a giocherellare coi seni di Joanie, stringendoli con le mani e plasmandoli in forme diverse, passando le dita sull'areola dei ca-pezzoli.
Joanie rise e disse sottovoce: « Do-wah wah-wah, do-rann-rann. » Lloyd le domandò cosa significassero quegli strani versi, e lei disse: «Dimentica-vo che non ascolti mai musica.»
"Okay, senti. Io sono arrivata qui da Saint Paul nel Minnesota, nel 1958.
Avevo diciotto anni. Sapevo già cosa volevo dalla vita: essere la prima donna a sfondare nel rock and roll. Ero bionda, le tette le avevo, e secondo me sapevo cantare. Così scendo dal bus all'incrocio fra il Fountain e la Vi-ne e mi dirigo a nord. A nord del Boulevard mi capita davanti agli occhi la torre della Capitol Records, e penso che dev'essere sicuramente una specie di messaggio, così mi metto in marcia e la raggiungo, portandomi dietro una valigia di cartone, con addosso l'abito della festa tutto crinoline e tacchi alti il giorno più freddo dell'anno.
"Alla fine mi siedo nella sala d'aspetto a guardare con gli occhi di fuori tutti quei dischi d'oro appesi alle pareti. E penso 'Un giorno anche io...' Poi salta fuori un tizio che viene da me e mi fa: lo sono Pluto Maroon, faccio l'agente. La Capitol Records non ti sgrana. Teliamo'. Io dico: 'Eh?' e alla fine teliamo. Pluto mi racconta che c'è un suo amiconeheheh che sta girando un filmoneheheh a Venice. Prendiamo una Cadillac familiare e ci andiamo. Salta fuori che l'amicone di Pluto è Orson Welles. Sul serio, sergente: proprio Orson Welles in palle e ossa. Stava girandoIl tocco del ma-le. Venice è solo una cittadina al confine messicano, ma la popolazione è raddoppiata.
"Fin dall'inizio mi accorgo che il vecchio Orson tratta Pluto con una certa condiscendenza, lo tiene accanto solo come cortigiano, una specie di buffone di corte. Be', Orson dice a Pluto di tirargli su qualche tipo extra, qualcuno dei paraggi disposto a lavorare una giornata per qualche verdone e una bottiglia. Così io e Pluto andiamo a fare una passeggiata sull'Ocean Front Walk. Che scena! La piccola, innocente Joanie in mezzo a beatnik, drogati e geni!
"Alla fine entriamo in una libreria beatnik. Alla cassa c'è un tipo che sembra un lupo mannaro. Pluto fa: 'Ti gira di fare quattro colpi con Orson Welles e metterti un cinque in tasca?' Il tipo dice: 'Forte', e così teliamo per la passeggiata e raccogliamo lungo il percorso un entourage di facce da forca allucinanti.
"Il tipo lupo mannaro comincia a puntarmi. 'Io sono Marty Mason' mi fa.
'Sono un cantante.' Io penso: 'Uau!' e gli dico: 'Mi chiamo Joanie Pratt, so-no anche io una cantante.' Marty fa: 'Cantami Do-wah, wah-wah, do-rann-rann dieci volte.' Io glielo canto, e lui dice: 'Stasera ho un concerto a San Berdoo. Vuoi farmi da corista?' Io dico: 'Cosa devo fare?' Marty risponde:
'Canta Do-wah, wah-wah, do-rann-rann.'
"E le cose sono andate così. L'ho fatto. Ho cantato 'Do-wah, wah-wah, do-rann-rann' per dieci anni. Ho sposato Marty, e lui è diventato Marty
'Monster' Mason, e abbiamo incisoMonster Stomp puntando sul suo look da licantropo, e abbiamo avuto un successo bestiale per un paio d'anni, poi Marty ha cominciato a farsi e abbiamo divorziato, e oggi sono una specie di affarista, Marty è in terapia col metadone e fa il cuoco in un Burger King della Valle, e io continuo a fare'Do-wah, wah-wah, do-rann-rann'. "
Joanie sospirò, si accese una sigaretta e soffiò dei cerchi di fumo contro Lloyd, che le disegnava linee immaginarie sulle cosce, pensando che aveva appena sentito riassumere tutto l'esistenzialismo in due parole. Voleva l'in-terpretazione di Joanie, così domandò: «Che significa?»
Lei disse: «Ogni volta che sta succedendo qualcosa, o che la situazione si fa brutta, o magari tende al bello, canto "Do-wah, wah-wah, do-rann-rann" , e tutto sembra tornare a posto, o almeno non ho più tanta paura.»
Lloyd si sentì come se gli si fosse staccato un pezzetto di cuore e fosse tornato indietro a Venice, nell'inverno del '58. «Posso venire ancora a letto con te?» domandò.
Joanie gli baciò una mano. «Quando vuoi, sergente.»
Lloyd si alzò e si vestì, poi prese lo schedario portatile e se lo strinse al petto. «Userò la massima discrezione» disse. «Farò fare tutte le domande di cui c'è bisogno ad agenti in gamba e professionali.»
«Mi fido di te» disse Joanie.
Lloyd si chinò e la baciò sulla guancia. «Ho mandato a memoria il tuo numero di telefono. Ti chiamo.»
Joanie si allungò a prendere il bacio. «Stammi bene, sergente.»
Era l'alba. Lloyd raggiunse il Parker Center, in città, estasiato dalla propria determinazione. Prese l'ascensore e salì alla sala dei computer, al quarto piano. C'era solo un operatore in servizio. Quando vide Lloyd avvicinarsi l'uomo alzò gli occhi dal romanzo di fantascienza che stava leggendo e si domandò se c'era un modo di prendere un po' per il culo il corpu-lento agente investigativo che gli altri poliziotti chiamavano "la Mente".
Quando vide la faccia di Lloyd, decise che era meglio di no.
Lloyd disse seccamente: «Buongiorno. Voglio un tabulato di tutti gli omicidi irrisolti di donne nella Contea di Los Angeles negli ultimi quindici anni. Io sono in ufficio. Chiami l'interno 1179 quando avrà a disposizione le informazioni.»
Lloyd fece un'espressione di circostanza e salì le due rampe di scale che portavano al suo ufficio. La stanzetta era buia e tranquilla, pacifica, e lui si abbandonò sulla sedia, addormentandosi immediatamente.