LA VEDOVA
Fiona Barton
Traduzione di Carla Palmieri
Einaudi
Cap.1-9
Einaudi
Cap.1-9
Cap.1-9
1.
La vedova
Mercoledí, 9 giugno 2010
Sento scricchiolare la ghiaia del vialetto. Passi pesanti, tacchi alti. È quasi alla porta, esita, si scosta i capelli dalla faccia. Elegante. Giacca coi bottoni grandi, un bel vestito, occhiali sulla fronte. Non è una testimone di Geova, non è del Labour Party. Forse è una giornalista un po’ diversa dal solito. E con questa oggi siamo a due, che fanno quattro dall’inizio della settimana: ed è solo mercoledí! Adesso dirà: «Mi spiace disturbarla in un momento cosí difficile, e bla bla, e bla bla...» Scommettiamo che indovino? Dicono sempre cosí, e fanno quella faccia da scemi. Manco gli importasse davvero.
Vediamo un po’ se suona una seconda volta. Quello di stamattina, per esempio, non l’ha mica fatto. A volte glielo leggi in faccia che sono stufi marci di provare e riprovare. Staccano il dito dal pulsante e fanno subito dietro front, trottano lungo il vialetto piú in fretta che possono, salgono in macchina e via. Vanno dai loro capi a dirgli che hanno provato a suonare, ma non c’era nessuno. Fanno solo pena.
Lei invece suona due volte. E bussa: un toc-toc-totoc svelto svelto, stile poliziotta. Mi vede sbirciare da dietro le tendine e fa un gran sorriso. Un sorriso hollywoodiano, come diceva mia mamma. Poi bussa un’altra volta.
Quando apro la porta mi passa la bottiglia del latte che stava sul gradino e dice: – Meglio non lasciarla fuori, altrimenti va a male. Posso entrare? Il bollitore è già acceso?
Io non riesco neanche a prender fiato, figuriamoci parlare. Lei sorride ancora, piega un po’ il collo. – Sono Kate, – dice. – Kate Waters, del «Daily Post».
– Piacere, sono... – Ah, già, non me l’ha chiesto.
– Lei è la signora Taylor, lo so –. Che deve scrivere un articolo su di me non lo dice, ma si capisce benissimo. – Non stiamo qui fuori, – aggiunge. E un attimo dopo, chissà come, è già nell’ingresso.
Io sono cosí stordita che non riesco a spiccicare una parola, ma lei ha deciso che chi tace acconsente, quindi si fionda in cucina con la bottiglia del latte ancora in mano e mi prepara una tazza di tè. La seguo: siamo un po’ allo stretto, la mia cucina non è grande, ma lei armeggia qua e là, riempie il bollitore, apre tutti gli armadietti per cercare le tazze e lo zucchero. Io sto ferma, la lascio fare.
– Ma che bei mobili allegri, – dice. – Mi piacerebbe tanto, una cucina cosí. Era già in casa o l’avete comprata voi?
Sarà anche una giornalista, ma per adesso mi sembra di chiacchierare con un’amica. Io credevo che un’intervista fosse un po’ come un interrogatorio. Gli interrogatori della polizia sono un supplizio, diceva mio marito Glen. Le interviste no, a quanto pare.
– Sí, l’abbiamo scelta noi, – rispondo. – Abbiamo preso gli sportelli bianchi e le maniglie rosse perché davano un’idea di pulito –. Non mi sembra vero, ho una giornalista in casa e parliamo di mobili da cucina. A Glen sarebbe venuto un colpo.
– Per di qua, giusto? – indica lei, e aspetta che le apra la porta del salotto.
Non ho ancora capito se la voglio in casa o no: insomma, non so cosa pensare. Cacciarla via adesso sarebbe maleducazione: non fa niente di male, sta solo seduta in salotto a chiacchierare con una tazza di tè in mano. Quasi quasi mi fa piacere avere un po’ di attenzione. Mi sento sola, a stare qui dentro senza Glen.
E poi ormai ha la situazione in mano. È bello avere di nuovo qualcuno che decide per me. L’idea di dovermi arrangiare da sola in tutto mi faceva venire il panico, ma adesso ci pensa Kate Waters, almeno cosí dice.
Non devo fare niente, solo raccontarle la mia vita.
La mia vita? Figuriamoci, non sono mica io che le interesso. Non è venuta fin qui per sentire la storia di Jean Taylor. È di lui che vuol sapere. Vuole la verità su Glen, mio marito.
Glen è morto, sapete? Tre settimane fa. Investito da un autobus appena fuori dal supermercato. Un minuto prima era lí a stressarmi perché non avevo comprato i cereali giusti, e poi bum, lungo e disteso sull’asfalto. Trauma cranico, hanno detto. Insomma, morto. Io stavo lí impalata, lo guardavo e basta. Gente che correva qua e là in cerca di coperte, il marciapiede un po’ sporco di sangue. Non tanto, eh. Lui sarebbe stato contento: odiava il disordine.
Erano tutti molto gentili con me e cercavano di non farmi vedere il cadavere, e io non è che potessi dirglielo, ma ero cosí contenta che se ne fosse andato. Niente piú sciocchezze.
Sento scricchiolare la ghiaia del vialetto. Passi pesanti, tacchi alti. È quasi alla porta, esita, si scosta i capelli dalla faccia. Elegante. Giacca coi bottoni grandi, un bel vestito, occhiali sulla fronte. Non è una testimone di Geova, non è del Labour Party. Forse è una giornalista un po’ diversa dal solito. E con questa oggi siamo a due, che fanno quattro dall’inizio della settimana: ed è solo mercoledí! Adesso dirà: «Mi spiace disturbarla in un momento cosí difficile, e bla bla, e bla bla...» Scommettiamo che indovino? Dicono sempre cosí, e fanno quella faccia da scemi. Manco gli importasse davvero.
Vediamo un po’ se suona una seconda volta. Quello di stamattina, per esempio, non l’ha mica fatto. A volte glielo leggi in faccia che sono stufi marci di provare e riprovare. Staccano il dito dal pulsante e fanno subito dietro front, trottano lungo il vialetto piú in fretta che possono, salgono in macchina e via. Vanno dai loro capi a dirgli che hanno provato a suonare, ma non c’era nessuno. Fanno solo pena.
Lei invece suona due volte. E bussa: un toc-toc-totoc svelto svelto, stile poliziotta. Mi vede sbirciare da dietro le tendine e fa un gran sorriso. Un sorriso hollywoodiano, come diceva mia mamma. Poi bussa un’altra volta.
Quando apro la porta mi passa la bottiglia del latte che stava sul gradino e dice: – Meglio non lasciarla fuori, altrimenti va a male. Posso entrare? Il bollitore è già acceso?
Io non riesco neanche a prender fiato, figuriamoci parlare. Lei sorride ancora, piega un po’ il collo. – Sono Kate, – dice. – Kate Waters, del «Daily Post».
– Piacere, sono... – Ah, già, non me l’ha chiesto.
– Lei è la signora Taylor, lo so –. Che deve scrivere un articolo su di me non lo dice, ma si capisce benissimo. – Non stiamo qui fuori, – aggiunge. E un attimo dopo, chissà come, è già nell’ingresso.
Io sono cosí stordita che non riesco a spiccicare una parola, ma lei ha deciso che chi tace acconsente, quindi si fionda in cucina con la bottiglia del latte ancora in mano e mi prepara una tazza di tè. La seguo: siamo un po’ allo stretto, la mia cucina non è grande, ma lei armeggia qua e là, riempie il bollitore, apre tutti gli armadietti per cercare le tazze e lo zucchero. Io sto ferma, la lascio fare.
– Ma che bei mobili allegri, – dice. – Mi piacerebbe tanto, una cucina cosí. Era già in casa o l’avete comprata voi?
Sarà anche una giornalista, ma per adesso mi sembra di chiacchierare con un’amica. Io credevo che un’intervista fosse un po’ come un interrogatorio. Gli interrogatori della polizia sono un supplizio, diceva mio marito Glen. Le interviste no, a quanto pare.
– Sí, l’abbiamo scelta noi, – rispondo. – Abbiamo preso gli sportelli bianchi e le maniglie rosse perché davano un’idea di pulito –. Non mi sembra vero, ho una giornalista in casa e parliamo di mobili da cucina. A Glen sarebbe venuto un colpo.
– Per di qua, giusto? – indica lei, e aspetta che le apra la porta del salotto.
Non ho ancora capito se la voglio in casa o no: insomma, non so cosa pensare. Cacciarla via adesso sarebbe maleducazione: non fa niente di male, sta solo seduta in salotto a chiacchierare con una tazza di tè in mano. Quasi quasi mi fa piacere avere un po’ di attenzione. Mi sento sola, a stare qui dentro senza Glen.
E poi ormai ha la situazione in mano. È bello avere di nuovo qualcuno che decide per me. L’idea di dovermi arrangiare da sola in tutto mi faceva venire il panico, ma adesso ci pensa Kate Waters, almeno cosí dice.
Non devo fare niente, solo raccontarle la mia vita.
La mia vita? Figuriamoci, non sono mica io che le interesso. Non è venuta fin qui per sentire la storia di Jean Taylor. È di lui che vuol sapere. Vuole la verità su Glen, mio marito.
Glen è morto, sapete? Tre settimane fa. Investito da un autobus appena fuori dal supermercato. Un minuto prima era lí a stressarmi perché non avevo comprato i cereali giusti, e poi bum, lungo e disteso sull’asfalto. Trauma cranico, hanno detto. Insomma, morto. Io stavo lí impalata, lo guardavo e basta. Gente che correva qua e là in cerca di coperte, il marciapiede un po’ sporco di sangue. Non tanto, eh. Lui sarebbe stato contento: odiava il disordine.
Erano tutti molto gentili con me e cercavano di non farmi vedere il cadavere, e io non è che potessi dirglielo, ma ero cosí contenta che se ne fosse andato. Niente piú sciocchezze.
2.
La vedova
Mercoledí, 9 giugno 2010
In ospedale sono arrivati anche i poliziotti, si capisce. L’ispettore Bob Sparkes in persona è venuto al pronto soccorso per sapere di Glen.
Io non ho detto niente, né a lui né agli altri. Non c’era niente da dire, ho spiegato: ero troppo sconvolta. Ho pianto un po’, in compenso.
Con l’ispettore Sparkes ci conosciamo da tanto – piú di tre anni, ormai – ma credo che a questo punto sparirà dalla mia vita insieme a te, caro Glen.
A Kate Waters non dico niente di tutto questo. È seduta nell’altra poltrona con la tazza del tè tra le mani, agita il piede della gamba accavallata.
– Jean, – mi dice (dov’è finita la «signora Taylor»?) – Jean, quest’ultima settimana dev’essere stata tremenda per lei. Senza contare quello che aveva già passato prima.
Io non rispondo e tengo gli occhi bassi. Questa qui non sa un bel niente di cosa ho passato. Nessuno lo sa, in effetti. Non ho mai potuto raccontarlo. Meglio di no, diceva Glen.
Stiamo zitte, aspettiamo, poi lei cambia tattica. Si alza, va alla mensola del camino e prende la foto di me e Glen che ridiamo insieme.
– Qui sembrate cosí giovani, – dice. – Era prima che vi sposaste?
Faccio sí con la testa.
– Vi conoscevate da molto quando vi siete sposati? Eravate compagni di scuola?
– No. Ci siamo conosciuti alla fermata dell’autobus. Lui era bello e mi faceva ridere. Avevo diciassette anni, ero apprendista da una parrucchiera di Greenwich e lui lavorava già in banca. Era un po’ piú vecchio di me, vestiva sempre in giacca e cravatta, aveva delle belle scarpe. Insomma, era diverso.
Le propino una storia romantica e Kate Waters se la sorbisce tutta, scarabocchia sul suo taccuino e mi guarda al di sopra degli occhialetti, fa sí con la testa come se capisse. Ma io non ci casco.
All’inizio, in effetti, non è che Glen fosse questo gran romanticone. La corte ce la siamo fatta soprattutto al buio – al cinema, o nel sedile di dietro della sua Escort, oppure al parco – e dopo non ci restava tempo per le chiacchiere. Però la prima volta che ha detto di amarmi, quella sí me la ricordo bene. Mi è venuto come un pizzicorino su tutta la pelle. Mi sono sentita viva, e non mi era mai successo. Ho detto che l’amavo anch’io, che l’amavo da morire. Che a furia di pensare a lui mi scordavo di mangiare e di dormire.
Infatti mia mamma, quando mi vedeva ciondolare per casa, diceva che ero «ammaliata». Io non sapevo cosa volesse dire, però non riuscivo a stare senza Glen e lui allora diceva che anche per lui era cosí. Mamma era un po’ gelosa, credo. Lei contava su di me.
«Conta troppo su di te, Jeanie, – diceva Glen. – Non è sano portarsi sempre appresso la figlia».
Io cercavo di spiegargli che mamma aveva paura a uscire da sola, ma Glen diceva che era solo un’egoista.
Lui era sempre cosí protettivo, al pub mi sceglieva un posto lontano dal bancone – «Non voglio portarti nella confusione», diceva – e al ristorante ordinava per me, cosí assaggiavo cose nuove – «Questo ti piacerà, Jeanie. Provalo». Io lo provavo, e a volte mi piaceva, e se non mi piaceva non dicevo niente per paura di offenderlo. Se gli davo contro, lui non parlava piú. Era una cosa insopportabile. Sentivo di averlo deluso.
Non ero mai uscita con uno come lui, uno che sapesse già cosa voleva dalla vita. Gli altri ragazzi erano... ragazzi, tutto qui.
Dopo due anni mi ha chiesto di sposarlo, ma non si è messo in ginocchio. Mi ha abbracciata forte forte e ha detto: «Tu sei mia, Jeanie. Noi due siamo fatti per stare insieme, perciò sposiamoci».
Nel frattempo era riuscito a conquistarsi anche la mamma. Si presentava a casa con un bel mazzo di fiori e diceva: «Un pensierino per l’altra donna della mia vita!» E poi la faceva ridere, parlava di Coronation Street, della famiglia reale, e mamma si divertiva un mondo. Diceva che ero fortunata. Che Glen mi aveva tirata fuori dal bozzolo, che mi avrebbe fatta diventare qualcuno e si sarebbe preso cura di me. In effetti.
– E quindi? Lui com’era, a quei tempi? – mi chiede Kate Waters, sporgendosi in avanti per farmi coraggio. A quei tempi. Prima delle cose brutte, intende.
– Oh, era un uomo adorabile. Molto tenero, pieno di premure. Fiori, regali. Diceva che ero la donna giusta per lui. Io ero sulle nuvolette: capirà, avevo solo diciassette anni.
Questo le piace. Prende appunti con dei buffi scarabocchi, poi alza lo sguardo dal taccuino. Io mi sforzo di restare seria. Sento salire la ridarella ma mi trattengo e mi scappa una specie di singhiozzo. Lei allunga una mano e mi tocca il braccio.
– Non sia triste, – dice. – Ormai è tutto finito.
Proprio cosí. Niente piú polizia, niente piú Glen. Niente piú sciocchezze.
Non mi ricordo bene quando ho deciso di chiamarle cosí, fatto sta che la cosa andava avanti da un bel po’. E io nel frattempo ero troppo occupata a giocare al matrimonio perfetto.
I miei pensavano che a diciannove anni ero troppo giovane per sposarmi, ma alla fine li abbiamo convinti. Ha fatto tutto Glen, in realtà. Era talmente deciso, talmente devoto, che alla fine papà ha detto di sí e per festeggiare abbiamo stappato una bottiglia di Lambrusco.
Per la cerimonia di nozze alla Charlton House, i miei hanno pagato una fortuna: avevano solo me, e io passavo i giorni a sfogliare riviste di abiti da sposa insieme a mamma, sognando il gran giorno. Il mio gran giorno. Mi aggrappavo a quel pensiero, mi ci riempivo la vita. Glen non si è mai messo in mezzo.
«Questo è campo tuo», diceva, e si metteva a ridere.
Lo diceva come per far intendere che anche lui aveva un suo campo. Il suo lavoro, magari: del resto lo diceva sempre, che era lui a portare a casa la pagnotta. «So che sembra fuori moda, Jeanie, ma voglio essere io a provvedere a te. Sei ancora molto giovane, abbiamo tutta la vita davanti».
Pensava sempre in grande, a sentirlo parlare restavi senza fiato. Per prima cosa sarebbe diventato direttore di filiale, poi si sarebbe messo in proprio e avrebbe fatto soldi a palate, senza nessuno a dargli ordini. Me lo vedevo già tutto tirato a lucido, con la segretaria e il macchinone. E io sempre lí, al suo fianco. «Non cambiare mai, Jeanie. Mi piaci come sei», diceva.
E cosí abbiamo comprato casa al numero 12 e siamo venuti a stare qui subito dopo il matrimonio. In tanti anni non ci siamo mai spostati.
La casa aveva un giardino sul davanti, ma l’abbiamo coperto di ghiaia «per risparmiarci la fatica di tagliare l’erba», diceva Glen. A me l’erba piaceva, ma Glen voleva sempre tutto in ordine. E siccome ero un po’ pasticciona, all’inizio è stata durissima. Quando abitavo ancora coi miei, la mamma diceva che sotto il mio letto si trovava di tutto: piatti sporchi, calzini spaiati, roba che Glen ci sarebbe rimasto secco, se avesse guardato.
Lo vedo ancora come se fosse ieri, con i denti stretti e quello sguardo truce solo perché avevo buttato a terra le briciole della cena, una sera di tanti anni fa. Non me n’ero neanche resa conto, e chissà quante volte l’avevo già fatto: ma da allora in poi, per carità! Era questo che faceva per me, mi insegnava a tener bene la casa. Gli piaceva che fosse ben tenuta.
Nei primi tempi mi raccontava tutto del suo lavoro in banca: per esempio che aveva tante responsabilità, e gli impiegati piú giovani venivano sempre a chiedergli consigli, ma il suo capo gli stava proprio antipatico. «Crede di essere il piú bravo di tutti, Jeanie», mi diceva. Parlava anche dei suoi colleghi: Joy e Liz dell’amministrazione, Scott che lavorava allo sportello ma aveva un’acne tremenda e arrossiva sempre, May la stagista che ne combinava sempre una. Ogni tanto si facevano degli scherzi. Mi piaceva ascoltarlo, mi piaceva avere notizie dal suo mondo.
Anch’io gli raccontavo del mio lavoro, mi pare. Appena due parole, poi si tornava a parlare della banca.
«Pettinare le signore non è il piú affascinante dei mestieri, – diceva, – ma tu sei bravissima, Jeanie. Sono molto orgoglioso di te».
Cercava di darmi fiducia, il mio Glen. E ci riusciva. Il suo amore mi faceva sentire sicura.
Kate Waters mi guarda con la testa piegata di lato: brava è brava, non c’è che dire. Coi giornalisti non ci ho mai parlato, li ho sempre cacciati via. Ormai sono anni che mi stanno addosso; ogni tanto se ne vanno, poi ritornano, ma nessuno era mai entrato in casa. Ci pensava Glen a tenerli lontani.
Ma adesso Glen non c’è, e questa Kate Waters sembra diversa dagli altri. Dice di sentirsi «tanto vicina» a me, come se ci conoscessimo da una vita. Oh, se la capisco.
– La sua morte dev’essere stata un colpo terribile, – dice, strizzandomi un po’ il braccio. Io faccio sí con la testa e non dico niente.
Mica posso raccontarle che passavo le notti in bianco a immaginarmelo morto, no? Insomma, morto: non è che gli augurassi di star male o soffrire o cose del genere. Volevo solo che non ci fosse piú, e fantasticavo su quando mi avrebbero dato la notizia.
Squilla il telefono, e un poliziotto con la voce cupa dice: «Mi spiace tanto, signora Taylor, c’è stato un grave incidente». E poi: «Purtroppo suo marito è morto». Mi scappava da ridere solo a pensarci.
Come in un film, mi vedevo scoppiare in singhiozzi e subito dopo riprendere in mano il telefono per chiamare sua madre. «Mary, perdonami, ma devo darti una brutta notizia. Si tratta di Glen. È morto».
Mia suocera è sconvolta, le manca il respiro. Sento il suo dolore, l’affetto degli amici, la famiglia che mi si stringe intorno. E quel brivido segreto.
Vedova affranta, io? Ma non fatemi ridere.
Quando poi è successo, è sembrato meno vero di come me l’ero immaginato. Lí per lí anche sua madre mi è parsa contenta che fosse tutto finito; dopo però ha riattaccato e si è messa a piangere. Ma di amici da avvertire non ce n’erano, e i familiari erano solo quattro gatti.
Kate Waters cinguetta che deve andare alla toilette e magari ne approfitta per fare un altro po’ di tè. Nessun problema: le allungo la mia tazza e le spiego dov’è il bagno. Appena esce mi guardo intorno per controllare che non ci siano cose di Glen in giro per la stanza. Non vorrei che si portasse via qualche souvenir! Io lo so come sono fatti i giornalisti, mio marito mi ha avvertita. Dopo un po’ sento scorrere lo sciacquone, ed ecco che torna con un vassoio in mano e ricomincia la tiritera su quanto sono straordinaria, che grande esempio di fedeltà, eccetera eccetera.
Sopra la mensola del caminetto a gas c’è la foto del nostro matrimonio. Come eravamo giovani! Due ragazzini che giocano ai grandi coi vestiti di mamma e papà. Kate si è accorta che la cerco sempre con gli occhi, e va a staccarla dal muro.
Si siede in bilico sul bracciolo della mia poltrona e la guardiamo insieme. 6 settembre 1989, il nostro grande giorno. Non so perché ma scoppio a piangere, e sono le prime lacrime vere da quando Glen è morto. La giornalista mi mette un braccio intorno alle spalle.
In ospedale sono arrivati anche i poliziotti, si capisce. L’ispettore Bob Sparkes in persona è venuto al pronto soccorso per sapere di Glen.
Io non ho detto niente, né a lui né agli altri. Non c’era niente da dire, ho spiegato: ero troppo sconvolta. Ho pianto un po’, in compenso.
Con l’ispettore Sparkes ci conosciamo da tanto – piú di tre anni, ormai – ma credo che a questo punto sparirà dalla mia vita insieme a te, caro Glen.
A Kate Waters non dico niente di tutto questo. È seduta nell’altra poltrona con la tazza del tè tra le mani, agita il piede della gamba accavallata.
– Jean, – mi dice (dov’è finita la «signora Taylor»?) – Jean, quest’ultima settimana dev’essere stata tremenda per lei. Senza contare quello che aveva già passato prima.
Io non rispondo e tengo gli occhi bassi. Questa qui non sa un bel niente di cosa ho passato. Nessuno lo sa, in effetti. Non ho mai potuto raccontarlo. Meglio di no, diceva Glen.
Stiamo zitte, aspettiamo, poi lei cambia tattica. Si alza, va alla mensola del camino e prende la foto di me e Glen che ridiamo insieme.
– Qui sembrate cosí giovani, – dice. – Era prima che vi sposaste?
Faccio sí con la testa.
– Vi conoscevate da molto quando vi siete sposati? Eravate compagni di scuola?
– No. Ci siamo conosciuti alla fermata dell’autobus. Lui era bello e mi faceva ridere. Avevo diciassette anni, ero apprendista da una parrucchiera di Greenwich e lui lavorava già in banca. Era un po’ piú vecchio di me, vestiva sempre in giacca e cravatta, aveva delle belle scarpe. Insomma, era diverso.
Le propino una storia romantica e Kate Waters se la sorbisce tutta, scarabocchia sul suo taccuino e mi guarda al di sopra degli occhialetti, fa sí con la testa come se capisse. Ma io non ci casco.
All’inizio, in effetti, non è che Glen fosse questo gran romanticone. La corte ce la siamo fatta soprattutto al buio – al cinema, o nel sedile di dietro della sua Escort, oppure al parco – e dopo non ci restava tempo per le chiacchiere. Però la prima volta che ha detto di amarmi, quella sí me la ricordo bene. Mi è venuto come un pizzicorino su tutta la pelle. Mi sono sentita viva, e non mi era mai successo. Ho detto che l’amavo anch’io, che l’amavo da morire. Che a furia di pensare a lui mi scordavo di mangiare e di dormire.
Infatti mia mamma, quando mi vedeva ciondolare per casa, diceva che ero «ammaliata». Io non sapevo cosa volesse dire, però non riuscivo a stare senza Glen e lui allora diceva che anche per lui era cosí. Mamma era un po’ gelosa, credo. Lei contava su di me.
«Conta troppo su di te, Jeanie, – diceva Glen. – Non è sano portarsi sempre appresso la figlia».
Io cercavo di spiegargli che mamma aveva paura a uscire da sola, ma Glen diceva che era solo un’egoista.
Lui era sempre cosí protettivo, al pub mi sceglieva un posto lontano dal bancone – «Non voglio portarti nella confusione», diceva – e al ristorante ordinava per me, cosí assaggiavo cose nuove – «Questo ti piacerà, Jeanie. Provalo». Io lo provavo, e a volte mi piaceva, e se non mi piaceva non dicevo niente per paura di offenderlo. Se gli davo contro, lui non parlava piú. Era una cosa insopportabile. Sentivo di averlo deluso.
Non ero mai uscita con uno come lui, uno che sapesse già cosa voleva dalla vita. Gli altri ragazzi erano... ragazzi, tutto qui.
Dopo due anni mi ha chiesto di sposarlo, ma non si è messo in ginocchio. Mi ha abbracciata forte forte e ha detto: «Tu sei mia, Jeanie. Noi due siamo fatti per stare insieme, perciò sposiamoci».
Nel frattempo era riuscito a conquistarsi anche la mamma. Si presentava a casa con un bel mazzo di fiori e diceva: «Un pensierino per l’altra donna della mia vita!» E poi la faceva ridere, parlava di Coronation Street, della famiglia reale, e mamma si divertiva un mondo. Diceva che ero fortunata. Che Glen mi aveva tirata fuori dal bozzolo, che mi avrebbe fatta diventare qualcuno e si sarebbe preso cura di me. In effetti.
– E quindi? Lui com’era, a quei tempi? – mi chiede Kate Waters, sporgendosi in avanti per farmi coraggio. A quei tempi. Prima delle cose brutte, intende.
– Oh, era un uomo adorabile. Molto tenero, pieno di premure. Fiori, regali. Diceva che ero la donna giusta per lui. Io ero sulle nuvolette: capirà, avevo solo diciassette anni.
Questo le piace. Prende appunti con dei buffi scarabocchi, poi alza lo sguardo dal taccuino. Io mi sforzo di restare seria. Sento salire la ridarella ma mi trattengo e mi scappa una specie di singhiozzo. Lei allunga una mano e mi tocca il braccio.
– Non sia triste, – dice. – Ormai è tutto finito.
Proprio cosí. Niente piú polizia, niente piú Glen. Niente piú sciocchezze.
Non mi ricordo bene quando ho deciso di chiamarle cosí, fatto sta che la cosa andava avanti da un bel po’. E io nel frattempo ero troppo occupata a giocare al matrimonio perfetto.
I miei pensavano che a diciannove anni ero troppo giovane per sposarmi, ma alla fine li abbiamo convinti. Ha fatto tutto Glen, in realtà. Era talmente deciso, talmente devoto, che alla fine papà ha detto di sí e per festeggiare abbiamo stappato una bottiglia di Lambrusco.
Per la cerimonia di nozze alla Charlton House, i miei hanno pagato una fortuna: avevano solo me, e io passavo i giorni a sfogliare riviste di abiti da sposa insieme a mamma, sognando il gran giorno. Il mio gran giorno. Mi aggrappavo a quel pensiero, mi ci riempivo la vita. Glen non si è mai messo in mezzo.
«Questo è campo tuo», diceva, e si metteva a ridere.
Lo diceva come per far intendere che anche lui aveva un suo campo. Il suo lavoro, magari: del resto lo diceva sempre, che era lui a portare a casa la pagnotta. «So che sembra fuori moda, Jeanie, ma voglio essere io a provvedere a te. Sei ancora molto giovane, abbiamo tutta la vita davanti».
Pensava sempre in grande, a sentirlo parlare restavi senza fiato. Per prima cosa sarebbe diventato direttore di filiale, poi si sarebbe messo in proprio e avrebbe fatto soldi a palate, senza nessuno a dargli ordini. Me lo vedevo già tutto tirato a lucido, con la segretaria e il macchinone. E io sempre lí, al suo fianco. «Non cambiare mai, Jeanie. Mi piaci come sei», diceva.
E cosí abbiamo comprato casa al numero 12 e siamo venuti a stare qui subito dopo il matrimonio. In tanti anni non ci siamo mai spostati.
La casa aveva un giardino sul davanti, ma l’abbiamo coperto di ghiaia «per risparmiarci la fatica di tagliare l’erba», diceva Glen. A me l’erba piaceva, ma Glen voleva sempre tutto in ordine. E siccome ero un po’ pasticciona, all’inizio è stata durissima. Quando abitavo ancora coi miei, la mamma diceva che sotto il mio letto si trovava di tutto: piatti sporchi, calzini spaiati, roba che Glen ci sarebbe rimasto secco, se avesse guardato.
Lo vedo ancora come se fosse ieri, con i denti stretti e quello sguardo truce solo perché avevo buttato a terra le briciole della cena, una sera di tanti anni fa. Non me n’ero neanche resa conto, e chissà quante volte l’avevo già fatto: ma da allora in poi, per carità! Era questo che faceva per me, mi insegnava a tener bene la casa. Gli piaceva che fosse ben tenuta.
Nei primi tempi mi raccontava tutto del suo lavoro in banca: per esempio che aveva tante responsabilità, e gli impiegati piú giovani venivano sempre a chiedergli consigli, ma il suo capo gli stava proprio antipatico. «Crede di essere il piú bravo di tutti, Jeanie», mi diceva. Parlava anche dei suoi colleghi: Joy e Liz dell’amministrazione, Scott che lavorava allo sportello ma aveva un’acne tremenda e arrossiva sempre, May la stagista che ne combinava sempre una. Ogni tanto si facevano degli scherzi. Mi piaceva ascoltarlo, mi piaceva avere notizie dal suo mondo.
Anch’io gli raccontavo del mio lavoro, mi pare. Appena due parole, poi si tornava a parlare della banca.
«Pettinare le signore non è il piú affascinante dei mestieri, – diceva, – ma tu sei bravissima, Jeanie. Sono molto orgoglioso di te».
Cercava di darmi fiducia, il mio Glen. E ci riusciva. Il suo amore mi faceva sentire sicura.
Kate Waters mi guarda con la testa piegata di lato: brava è brava, non c’è che dire. Coi giornalisti non ci ho mai parlato, li ho sempre cacciati via. Ormai sono anni che mi stanno addosso; ogni tanto se ne vanno, poi ritornano, ma nessuno era mai entrato in casa. Ci pensava Glen a tenerli lontani.
Ma adesso Glen non c’è, e questa Kate Waters sembra diversa dagli altri. Dice di sentirsi «tanto vicina» a me, come se ci conoscessimo da una vita. Oh, se la capisco.
– La sua morte dev’essere stata un colpo terribile, – dice, strizzandomi un po’ il braccio. Io faccio sí con la testa e non dico niente.
Mica posso raccontarle che passavo le notti in bianco a immaginarmelo morto, no? Insomma, morto: non è che gli augurassi di star male o soffrire o cose del genere. Volevo solo che non ci fosse piú, e fantasticavo su quando mi avrebbero dato la notizia.
Squilla il telefono, e un poliziotto con la voce cupa dice: «Mi spiace tanto, signora Taylor, c’è stato un grave incidente». E poi: «Purtroppo suo marito è morto». Mi scappava da ridere solo a pensarci.
Come in un film, mi vedevo scoppiare in singhiozzi e subito dopo riprendere in mano il telefono per chiamare sua madre. «Mary, perdonami, ma devo darti una brutta notizia. Si tratta di Glen. È morto».
Mia suocera è sconvolta, le manca il respiro. Sento il suo dolore, l’affetto degli amici, la famiglia che mi si stringe intorno. E quel brivido segreto.
Vedova affranta, io? Ma non fatemi ridere.
Quando poi è successo, è sembrato meno vero di come me l’ero immaginato. Lí per lí anche sua madre mi è parsa contenta che fosse tutto finito; dopo però ha riattaccato e si è messa a piangere. Ma di amici da avvertire non ce n’erano, e i familiari erano solo quattro gatti.
Kate Waters cinguetta che deve andare alla toilette e magari ne approfitta per fare un altro po’ di tè. Nessun problema: le allungo la mia tazza e le spiego dov’è il bagno. Appena esce mi guardo intorno per controllare che non ci siano cose di Glen in giro per la stanza. Non vorrei che si portasse via qualche souvenir! Io lo so come sono fatti i giornalisti, mio marito mi ha avvertita. Dopo un po’ sento scorrere lo sciacquone, ed ecco che torna con un vassoio in mano e ricomincia la tiritera su quanto sono straordinaria, che grande esempio di fedeltà, eccetera eccetera.
Sopra la mensola del caminetto a gas c’è la foto del nostro matrimonio. Come eravamo giovani! Due ragazzini che giocano ai grandi coi vestiti di mamma e papà. Kate si è accorta che la cerco sempre con gli occhi, e va a staccarla dal muro.
Si siede in bilico sul bracciolo della mia poltrona e la guardiamo insieme. 6 settembre 1989, il nostro grande giorno. Non so perché ma scoppio a piangere, e sono le prime lacrime vere da quando Glen è morto. La giornalista mi mette un braccio intorno alle spalle.
3.
La giornalista
Mercoledí, 9 giugno 2010
Kate Waters si agita sulla sedia. Bere un caffè prima di venire qui non è stata una buona idea: tra quello e le due tazze di tè, la sua vescica manda segnali d’allarme, e va a finire che le tocca lasciare Jean Taylor in compagnia dei suoi pensieri. Non sarebbe proprio il caso, soprattutto ora che Jean si è fatta piú taciturna e sorseggia il suo tè con lo sguardo perso nel vuoto. Kate non vuole assolutamente compromettere il rapporto che sta costruendo tra loro due. Il momento è delicatissimo: perdi il contatto visivo e l’atmosfera cambia in un attimo.
Una volta il marito di Kate ha detto che fare un’intervista è un po’ come braccare una preda. Avevano gente a cena, Steve aveva esagerato con il Rioja e stava facendo il buffone.
«Kate fa cosí: si avvicina pian piano porgendo bocconcini di gentilezza e battute spiritose; poi accenna vagamente a un compenso in denaro, all’occasione di raccontare la loro versione della storia, finché quelli non vengono a mangiarle sul palmo della mano. È un’arte vera e propria», aveva detto agli ospiti radunati a tavola.
E siccome gli ospiti erano colleghi del reparto di oncologia di Steve, Kate era rimasta lí a sfoderare il suo sorriso professionale: «Dài, tesoro, lo sai che non è vero», aveva mormorato, mentre gli invitati ridacchiavano nervosi e sorseggiavano il vino. La rabbia le era esplosa piú tardi, al momento di lavare i piatti: aveva cominciato a scaraventare casseruole nell’acquaio schizzando tutt’intorno, ma Steve si era avvicinato e l’aveva convinta a fare pace con un bacio.
«Tu sai quanto ti ammiro, Kate, – aveva detto. – Sei bravissima nel tuo lavoro».
E sí, lei aveva ricambiato il bacio, ma in realtà aveva ragione Steve. Certe volte era proprio un gioco, una danza di corteggiamento: ti trovavi di fronte a un estraneo diffidente, se non addirittura ostile, e dovevi stabilire un contatto immediato. Dio, quanto le piaceva. L’ansia di arrivare per prima alla porta lasciandosi alle spalle il resto del branco, il trillo del campanello, i suoni della vita all’interno della casa, la luce che cambia dietro i vetri smerigliati, la porta che si apre, e tu che cominci a recitare la tua parte.
Ognuno aveva le sue tecniche: l’amica con cui aveva fatto pratica tirava fuori uno sguardo da cucciolotto abbandonato, un’altra dava la colpa al capocronista che l’aveva mandata lí, e c’era persino una collega che si era infilata un cuscino sotto il maglione e aveva chiesto di poter usare il bagno, fingendo di essere incinta.
Kate aveva un altro stile. Le sue regole erano: sorridi sempre, non stare troppo appiccicata alla porta, non chiedere subito scusa, fagli dimenticare che sei lí per scrivere un articolo. Il trucco della bottiglia di latte l’aveva già usato altre volte, ma ormai i lattai che consegnavano a domicilio erano una razza in estinzione. Comunque sia, quel giorno era contenta di essere entrata in casa di Jean Taylor in modo cosí apparentemente disinvolto.
A dirla proprio tutta, ne avrebbe anche fatto a meno. Era uscita per andare in ufficio a compilare la sua nota spese prima che la carta di credito le ripulisse il conto in banca, ma il capocronista non aveva sentito ragioni.
– Passa dalla vedova e vedi se è in casa: tanto sei di strada, no? – le aveva detto Terry Deacon, strillando nella cornetta per sovrastare la voce tonante del notiziario radio. – Magari oggi è il tuo giorno fortunato.
Kate aveva sospirato. Chi fosse la vedova, l’aveva capito al volo. C’era una sola vedova che tutti, ma proprio tutti, volevano intervistare: dunque il sentiero era già abbondantemente battuto, e soltanto in quella settimana ben tre colleghi del «Post» erano tornati con le pive nel sacco. Sarebbe stata l’ultima a bussare alla porta della vedova.
L’ultima, o quasi.
Prima di svoltare nella via di Jean Taylor, Kate aveva come al solito verificato l’eventuale presenza di altri giornalisti, e infatti eccolo lí: un collega del «Times», fermo accanto a una macchina. Cravatta insipida, giacca con le toppe sui gomiti, capelli con la riga di lato: un superclassico. Invece di fermarsi, Kate aveva seguito il flusso del traffico ed era passata oltre, senza mai perdere d’occhio il nemico. Data la situazione, non c’era altra scelta fuorché girare l’angolo e aspettare che se ne andasse.
– Merda, – aveva mormorato, segnalando la svolta a sinistra e infilandosi in una stradina laterale in cerca di un parcheggio.
Quindici minuti e una scorsa ai giornali piú tardi, quando aveva già riallacciato la cintura e girato la chiavetta di accensione, il suo cellulare si era messo a squillare. Vedendo sullo schermo il nome di Bob Sparkes, Kate aveva spento il motore.
– Ciao Bob, come va? Che succede?
L’ispettore Sparkes voleva qualcosa, di sicuro. Non era il tipo che chiama per fare due chiacchiere, e Kate era già abituata alle sue conversazioni telegrafiche. «Durerà meno di un minuto», aveva azzardato tra sé.
– Ciao Kate. Tutto bene, grazie. Un sacco di lavoro, sai com’è: un paio di indagini, ma niente di eccezionale. Volevo solo chiederti se per caso ti occupi ancora del caso Glen Taylor.
– Cazzo, Bob, mi hai messo le telecamere in macchina? Stavo giusto andando a suonare a casa della moglie.
Sparkes si era fatto una risata. – Naaa, tranquilla: non sei ancora sulla lista dei sorvegliati.
– C’è qualcosa che devo sapere prima di andare a parlare con lei? – aveva domandato Kate. – È successo qualcosa dopo la morte di Glen?
– Niente di che, – aveva risposto Bob, con un tono che tradiva la delusione. – Infatti mi domandavo se tu avessi novità. E comunque, se Jean ti dice qualcosa di interessante tienimi informato.
– Sí, ti chiamo dopo, – aveva promesso Kate. – Ma scommetto che mi sbatte la porta in faccia come a tutti gli altri.
– Okay, ci sentiamo.
Fine. Kate aveva sorriso al display del telefono: quarantun secondi, nuovo record. Buono per prenderlo in giro al prossimo incontro.
Cinque minuti piú tardi aveva svoltato pian piano nella via ora nuovamente sgombra di pennivendoli, e si era incamminata lungo il vialetto di casa Taylor.
E adesso che era dentro doveva guadagnarsela, l’intervista.
«Concentrati, Kate, concentrati!» pensò, affondando le unghie nei palmi delle mani per mettere a fuoco i pensieri. Inutile, non serviva.
– Mi perdoni, Jean, le dispiace se uso il suo bagno? – chiese infine con un sorrisetto. – Il tè arriva subito a destinazione, vero? Intanto ne preparo un’altra tazza, se le va.
Jean annuí e si alzò dalla poltrona per indicarle la strada. – Da questa parte, – disse, scostandosi per far entrare Kate nel piccolo nido color pesca.
Mentre si lavava le mani con il sapone profumato messo lí per gli ospiti, Kate alzò lo sguardo e si vide riflessa nello specchio. «Ho l’aria un po’ stanca», pensò, lisciandosi i capelli e picchiettando i polpastrelli sulle occhiaie come le aveva insegnato l’estetista.
Sola in cucina ad aspettare il fischio del bollitore, Kate studiò oziosamente i magneti e i foglietti attaccati al frigo. Liste della spesa, ricordi delle vacanze, nulla di interessante. Una foto di Kate e Glen in qualche ristorante sulla spiaggia, sorrisi radiosi e calici levati in direzione della macchina fotografica. Lui con il ciuffo nero spettinato e il sorriso delle vacanze, lei bionda e fresca di messa in piega, capelli ordinatamente trattenuti dietro le orecchie, trucco delle grandi occasioni un po’ impiastrato dal caldo, sguardo obliquo rivolto al marito.
Adorante o timorosa?, si domandò Kate.
Certo che gli ultimi due anni dovevano esserle costati cari, povera donna. La Jean di adesso era quella che la aspettava di là in salotto: pantaloni con tasche a metà gamba, maglietta e cardigan sformati, capelli stopposi raccolti alla meno peggio in una coda. «Ho l’occhio allenato», diceva sempre Kate quando Steve la prendeva in giro per quella sua attenzione ai minimi dettagli: ma si divertiva un mondo a guardare la gente, e dopo tutto faceva parte del mestiere. Aveva subito notato, per esempio, le mani ruvide e screpolate di Jean – «mani da parrucchiera», si era detta – e la pelle consumata ai bordi delle unghie troppo masticate.
Le rughe intorno agli occhi, poi, parlavano da sole.
Kate prese il telefono e fotografò la foto delle vacanze. Tutto era immacolato in quella cucina, a differenza della sua, che in quel momento era quasi certamente invasa dai detriti di una colazione adolescenziale: tazze sporche di caffè, latte lasciato fuori a inacidire, avanzi di pane tostato, un vasetto senza coperchio con un coltello piantato nella marmellata. E sul pavimento, l’immancabile divisa da calcio in putrefazione.
Il fischio del bollitore la scosse dai pensieri casalinghi: preparò il tè e uscí dalla cucina con le due tazze su un vassoio.
Jean fissava il vuoto, mangiucchiandosi un pollice.
– Ora va meglio, – disse Kate, lasciandosi cadere in poltrona. – Mi scusi tanto. Dove eravamo rimaste?
La situazione, bisognava ammetterlo, stava diventando preoccupante. In poco meno di un’ora il suo taccuino aveva registrato un’accozzaglia di ricordi dell’infanzia e dei primi anni di matrimonio di Jean Taylor, ma all’infuori di quelli non c’era nient’altro. Ogni volta che Kate tentava di avvicinarsi al bersaglio, la vedova cambiava discorso. Qualche minuto prima, dopo una lunga discussione su gioie e dolori della maternità, il dialogo si era brevemente interrotto per dare a Kate il tempo di rispondere a una delle tante, ossessive chiamate della redazione.
Quando Terry aveva saputo dov’era, era andato in visibilio. – Fantastico! – aveva strillato. – Bravissima! Cosa ti sta raccontando? Quando mi mandi l’articolo?
Sotto lo sguardo vigile di Jean, Kate aveva borbottato: – Aspetta un secondo, Terry: qui c’è poco segnale, – dopodiché se l’era svignata nel cortile sul retro, gesticolando stancamente per simulare irritazione a uso e consumo di Jean.
– Dio santo, Terry, era seduta vicino a me! Non posso parlare adesso, – aveva sibilato. – Mi sembra un po’ tonta, se devo essere sincera, ma credo che stia cominciando a fidarsi. Dammi tempo.
– Le hai mostrato il contratto? – aveva chiesto Terry. – Falle firmare il contratto di esclusiva, cosí possiamo prendercela comoda e aspettare che ci dica tutto.
– Non voglio spaventarla mettendole dei fogli sotto il naso, Terry. Faccio del mio meglio, sta’ tranquillo. Ci sentiamo piú tardi.
Dopo aver premuto con decisione il tasto che spegneva il telefono, Kate si era fermata a riflettere sulla prossima mossa. Magari era davvero il momento di parlare di soldi. Il tè gliel’aveva fatto, le condoglianze pure: non c’era piú tempo per tergiversare.
Magari Jean era in bolletta, ora che suo marito non c’era piú.
Glen non poteva piú provvedere a lei. E nemmeno impedirle di parlare.
Kate Waters si agita sulla sedia. Bere un caffè prima di venire qui non è stata una buona idea: tra quello e le due tazze di tè, la sua vescica manda segnali d’allarme, e va a finire che le tocca lasciare Jean Taylor in compagnia dei suoi pensieri. Non sarebbe proprio il caso, soprattutto ora che Jean si è fatta piú taciturna e sorseggia il suo tè con lo sguardo perso nel vuoto. Kate non vuole assolutamente compromettere il rapporto che sta costruendo tra loro due. Il momento è delicatissimo: perdi il contatto visivo e l’atmosfera cambia in un attimo.
Una volta il marito di Kate ha detto che fare un’intervista è un po’ come braccare una preda. Avevano gente a cena, Steve aveva esagerato con il Rioja e stava facendo il buffone.
«Kate fa cosí: si avvicina pian piano porgendo bocconcini di gentilezza e battute spiritose; poi accenna vagamente a un compenso in denaro, all’occasione di raccontare la loro versione della storia, finché quelli non vengono a mangiarle sul palmo della mano. È un’arte vera e propria», aveva detto agli ospiti radunati a tavola.
E siccome gli ospiti erano colleghi del reparto di oncologia di Steve, Kate era rimasta lí a sfoderare il suo sorriso professionale: «Dài, tesoro, lo sai che non è vero», aveva mormorato, mentre gli invitati ridacchiavano nervosi e sorseggiavano il vino. La rabbia le era esplosa piú tardi, al momento di lavare i piatti: aveva cominciato a scaraventare casseruole nell’acquaio schizzando tutt’intorno, ma Steve si era avvicinato e l’aveva convinta a fare pace con un bacio.
«Tu sai quanto ti ammiro, Kate, – aveva detto. – Sei bravissima nel tuo lavoro».
E sí, lei aveva ricambiato il bacio, ma in realtà aveva ragione Steve. Certe volte era proprio un gioco, una danza di corteggiamento: ti trovavi di fronte a un estraneo diffidente, se non addirittura ostile, e dovevi stabilire un contatto immediato. Dio, quanto le piaceva. L’ansia di arrivare per prima alla porta lasciandosi alle spalle il resto del branco, il trillo del campanello, i suoni della vita all’interno della casa, la luce che cambia dietro i vetri smerigliati, la porta che si apre, e tu che cominci a recitare la tua parte.
Ognuno aveva le sue tecniche: l’amica con cui aveva fatto pratica tirava fuori uno sguardo da cucciolotto abbandonato, un’altra dava la colpa al capocronista che l’aveva mandata lí, e c’era persino una collega che si era infilata un cuscino sotto il maglione e aveva chiesto di poter usare il bagno, fingendo di essere incinta.
Kate aveva un altro stile. Le sue regole erano: sorridi sempre, non stare troppo appiccicata alla porta, non chiedere subito scusa, fagli dimenticare che sei lí per scrivere un articolo. Il trucco della bottiglia di latte l’aveva già usato altre volte, ma ormai i lattai che consegnavano a domicilio erano una razza in estinzione. Comunque sia, quel giorno era contenta di essere entrata in casa di Jean Taylor in modo cosí apparentemente disinvolto.
A dirla proprio tutta, ne avrebbe anche fatto a meno. Era uscita per andare in ufficio a compilare la sua nota spese prima che la carta di credito le ripulisse il conto in banca, ma il capocronista non aveva sentito ragioni.
– Passa dalla vedova e vedi se è in casa: tanto sei di strada, no? – le aveva detto Terry Deacon, strillando nella cornetta per sovrastare la voce tonante del notiziario radio. – Magari oggi è il tuo giorno fortunato.
Kate aveva sospirato. Chi fosse la vedova, l’aveva capito al volo. C’era una sola vedova che tutti, ma proprio tutti, volevano intervistare: dunque il sentiero era già abbondantemente battuto, e soltanto in quella settimana ben tre colleghi del «Post» erano tornati con le pive nel sacco. Sarebbe stata l’ultima a bussare alla porta della vedova.
L’ultima, o quasi.
Prima di svoltare nella via di Jean Taylor, Kate aveva come al solito verificato l’eventuale presenza di altri giornalisti, e infatti eccolo lí: un collega del «Times», fermo accanto a una macchina. Cravatta insipida, giacca con le toppe sui gomiti, capelli con la riga di lato: un superclassico. Invece di fermarsi, Kate aveva seguito il flusso del traffico ed era passata oltre, senza mai perdere d’occhio il nemico. Data la situazione, non c’era altra scelta fuorché girare l’angolo e aspettare che se ne andasse.
– Merda, – aveva mormorato, segnalando la svolta a sinistra e infilandosi in una stradina laterale in cerca di un parcheggio.
Quindici minuti e una scorsa ai giornali piú tardi, quando aveva già riallacciato la cintura e girato la chiavetta di accensione, il suo cellulare si era messo a squillare. Vedendo sullo schermo il nome di Bob Sparkes, Kate aveva spento il motore.
– Ciao Bob, come va? Che succede?
L’ispettore Sparkes voleva qualcosa, di sicuro. Non era il tipo che chiama per fare due chiacchiere, e Kate era già abituata alle sue conversazioni telegrafiche. «Durerà meno di un minuto», aveva azzardato tra sé.
– Ciao Kate. Tutto bene, grazie. Un sacco di lavoro, sai com’è: un paio di indagini, ma niente di eccezionale. Volevo solo chiederti se per caso ti occupi ancora del caso Glen Taylor.
– Cazzo, Bob, mi hai messo le telecamere in macchina? Stavo giusto andando a suonare a casa della moglie.
Sparkes si era fatto una risata. – Naaa, tranquilla: non sei ancora sulla lista dei sorvegliati.
– C’è qualcosa che devo sapere prima di andare a parlare con lei? – aveva domandato Kate. – È successo qualcosa dopo la morte di Glen?
– Niente di che, – aveva risposto Bob, con un tono che tradiva la delusione. – Infatti mi domandavo se tu avessi novità. E comunque, se Jean ti dice qualcosa di interessante tienimi informato.
– Sí, ti chiamo dopo, – aveva promesso Kate. – Ma scommetto che mi sbatte la porta in faccia come a tutti gli altri.
– Okay, ci sentiamo.
Fine. Kate aveva sorriso al display del telefono: quarantun secondi, nuovo record. Buono per prenderlo in giro al prossimo incontro.
Cinque minuti piú tardi aveva svoltato pian piano nella via ora nuovamente sgombra di pennivendoli, e si era incamminata lungo il vialetto di casa Taylor.
E adesso che era dentro doveva guadagnarsela, l’intervista.
«Concentrati, Kate, concentrati!» pensò, affondando le unghie nei palmi delle mani per mettere a fuoco i pensieri. Inutile, non serviva.
– Mi perdoni, Jean, le dispiace se uso il suo bagno? – chiese infine con un sorrisetto. – Il tè arriva subito a destinazione, vero? Intanto ne preparo un’altra tazza, se le va.
Jean annuí e si alzò dalla poltrona per indicarle la strada. – Da questa parte, – disse, scostandosi per far entrare Kate nel piccolo nido color pesca.
Mentre si lavava le mani con il sapone profumato messo lí per gli ospiti, Kate alzò lo sguardo e si vide riflessa nello specchio. «Ho l’aria un po’ stanca», pensò, lisciandosi i capelli e picchiettando i polpastrelli sulle occhiaie come le aveva insegnato l’estetista.
Sola in cucina ad aspettare il fischio del bollitore, Kate studiò oziosamente i magneti e i foglietti attaccati al frigo. Liste della spesa, ricordi delle vacanze, nulla di interessante. Una foto di Kate e Glen in qualche ristorante sulla spiaggia, sorrisi radiosi e calici levati in direzione della macchina fotografica. Lui con il ciuffo nero spettinato e il sorriso delle vacanze, lei bionda e fresca di messa in piega, capelli ordinatamente trattenuti dietro le orecchie, trucco delle grandi occasioni un po’ impiastrato dal caldo, sguardo obliquo rivolto al marito.
Adorante o timorosa?, si domandò Kate.
Certo che gli ultimi due anni dovevano esserle costati cari, povera donna. La Jean di adesso era quella che la aspettava di là in salotto: pantaloni con tasche a metà gamba, maglietta e cardigan sformati, capelli stopposi raccolti alla meno peggio in una coda. «Ho l’occhio allenato», diceva sempre Kate quando Steve la prendeva in giro per quella sua attenzione ai minimi dettagli: ma si divertiva un mondo a guardare la gente, e dopo tutto faceva parte del mestiere. Aveva subito notato, per esempio, le mani ruvide e screpolate di Jean – «mani da parrucchiera», si era detta – e la pelle consumata ai bordi delle unghie troppo masticate.
Le rughe intorno agli occhi, poi, parlavano da sole.
Kate prese il telefono e fotografò la foto delle vacanze. Tutto era immacolato in quella cucina, a differenza della sua, che in quel momento era quasi certamente invasa dai detriti di una colazione adolescenziale: tazze sporche di caffè, latte lasciato fuori a inacidire, avanzi di pane tostato, un vasetto senza coperchio con un coltello piantato nella marmellata. E sul pavimento, l’immancabile divisa da calcio in putrefazione.
Il fischio del bollitore la scosse dai pensieri casalinghi: preparò il tè e uscí dalla cucina con le due tazze su un vassoio.
Jean fissava il vuoto, mangiucchiandosi un pollice.
– Ora va meglio, – disse Kate, lasciandosi cadere in poltrona. – Mi scusi tanto. Dove eravamo rimaste?
La situazione, bisognava ammetterlo, stava diventando preoccupante. In poco meno di un’ora il suo taccuino aveva registrato un’accozzaglia di ricordi dell’infanzia e dei primi anni di matrimonio di Jean Taylor, ma all’infuori di quelli non c’era nient’altro. Ogni volta che Kate tentava di avvicinarsi al bersaglio, la vedova cambiava discorso. Qualche minuto prima, dopo una lunga discussione su gioie e dolori della maternità, il dialogo si era brevemente interrotto per dare a Kate il tempo di rispondere a una delle tante, ossessive chiamate della redazione.
Quando Terry aveva saputo dov’era, era andato in visibilio. – Fantastico! – aveva strillato. – Bravissima! Cosa ti sta raccontando? Quando mi mandi l’articolo?
Sotto lo sguardo vigile di Jean, Kate aveva borbottato: – Aspetta un secondo, Terry: qui c’è poco segnale, – dopodiché se l’era svignata nel cortile sul retro, gesticolando stancamente per simulare irritazione a uso e consumo di Jean.
– Dio santo, Terry, era seduta vicino a me! Non posso parlare adesso, – aveva sibilato. – Mi sembra un po’ tonta, se devo essere sincera, ma credo che stia cominciando a fidarsi. Dammi tempo.
– Le hai mostrato il contratto? – aveva chiesto Terry. – Falle firmare il contratto di esclusiva, cosí possiamo prendercela comoda e aspettare che ci dica tutto.
– Non voglio spaventarla mettendole dei fogli sotto il naso, Terry. Faccio del mio meglio, sta’ tranquillo. Ci sentiamo piú tardi.
Dopo aver premuto con decisione il tasto che spegneva il telefono, Kate si era fermata a riflettere sulla prossima mossa. Magari era davvero il momento di parlare di soldi. Il tè gliel’aveva fatto, le condoglianze pure: non c’era piú tempo per tergiversare.
Magari Jean era in bolletta, ora che suo marito non c’era piú.
Glen non poteva piú provvedere a lei. E nemmeno impedirle di parlare.
4.
La vedova
Mercoledí, 9 giugno 2010
È già passata un’ora, ed è sempre qui. Fosse stato ieri le avrei già detto di andarsene. Non ho mai avuto problemi a mandare a stendere i giornalisti. Anzi, sono talmente maleducati che ti facilitano il compito. Salutano a malapena, e poi via con le domande, sempre cosí orribili, cosí sfacciate. Kate Waters invece non è ancora stata indiscreta. Per ora.
Abbiamo parlato di tutto: di quando io e Glen abbiamo comprato casa, dei prezzi degli immobili in questa zona, dei lavori che abbiamo fatto, di quanto costa imbiancare, dei vicini, di dove abitavo da bambina, dove ho fatto le medie e via dicendo. Kate è sempre in sintonia con me: «È vero, anche alla mia scuola era lo stesso. Avevo delle prof cosí odiose! E le sue?» Cose cosí. Mi sembra di chiacchierare con un’amica. Mi sembra che siamo uguali in tutto. Furba, non c’è che dire: farà sempre cosí, quando vuole un’intervista?
In effetti non sembra cattiva. Quasi quasi direi che mi è simpatica. È spiritosa, gentile, ma chissà: magari finge. Adesso mi parla di suo marito – «il mio ex fidanzato», lo chiama lei – e dice che fra un po’ dovrà telefonargli per avvisare che fa tardi a pranzo. A me sembra ancora prestino, tanto piú che abitano a mezz’oretta da qui, ma le dico di chiamarlo subito perché non vorrei che si preoccupasse. Glen l’avrebbe fatto. Se avessi tardato senza avvertirlo mi avrebbe fatto una scenata.
«Non è onesto nei miei confronti, Jeanie», avrebbe detto. Ma questa non gliela racconto, a Kate.
Lei sta ridendo, dice che ormai il suo ex fidanzato ci ha fatto l’abitudine ma si lamenta lo stesso, perché gli tocca spupazzarsi i ragazzi. Hanno due maschi, dice, Jake e Freddie: due buzzurri insolenti.
– Dovrebbe cucinargli qualcosa, – dice, – ma so già che alla fine ordinerà le pizze, cosí sono contenti tutti.
Quei due li fanno impazzire, spiega, perché vivono nel disordine.
– Le loro camere sono un porcile, Jean. Lei non si immagina quante scodelle di cereali avrò trovato in camera di Jake: un intero servizio, in pratica. E i calzini che perdono! Casa nostra è il Triangolo delle Bermude del calzino –. Ride di nuovo perché gli vuole bene, porcile o non porcile.
Jake e Freddie, che nomi adorabili. Li metto via per dopo, per la mia collezione, e faccio sí con la testa come se capissi il problema. È solo una finta, okay? Però quanto mi sarebbe piaciuto avere quel tipo di problemi. Mi sarebbe piaciuto, un adolescente da sgridare.
Senza stare a pensarci, le dico: – Glen diventava un po’ pesante, se lasciavo la casa in disordine –. Solo per dimostrarle che anch’io ho avuto la mia parte di difficoltà, che in fondo sono come lei. Che stupida, eh? Come se davvero la mia vita potesse somigliare alla sua, o a quella di chiunque altro. Ma chi, io?
Glen lo diceva sempre, che ero diversa. Quando uscivamo coi suoi amici mi metteva sul piedistallo, diceva che ero una ragazza speciale. Vai a sapere perché. A quei tempi lavoravo in un negozio di parrucchiere che si chiamava My Hair Lady (un giochetto di parole inventato da Lesley, la proprietaria) e passavo le mie giornate a fare gli shampoo e portare i caffè alle signore in menopausa. Mi immaginavo che il mestiere di parrucchiera fosse divertente, persino chic. Sognavo di imparare a tagliare i capelli, di creare i miei stili, ma avevo solo diciassette anni ed ero l’ultima ruota del carro.
«Jean, – diceva Lesley, – mi lavi la signora, poi mi spazzi il pavimento?» Senza un «per favore», senza un «grazie».
Le clienti non erano male, però. Mi raccontavano sempre i fatti loro, perché le stavo a sentire e non dispensavo consigli come Lesley. Facevo sí con la testa, sorridevo, poi mi perdevo nei miei sogni a occhi aperti e intanto loro si sfogavano: il nipote che sniffava colla, la vicina che gli buttava le cacche del cane in giardino, cose cosí. Passavo giornate intere a dire «Oh, che bello!», a inventarmi progetti di vacanze giusto per tenere viva la conversazione. Ma mi piaceva, ero contenta. Poi ho fatto dei corsi, ho imparato a tagliare e a tingere, e poco alla volta ho cominciato ad avere le mie clienti. Guadagnavo poco, è vero, ma non è che avessi molta scelta. A scuola ero un disastro, la mamma diceva a tutti che ero dislessica ma in effetti ero solo una scansafatiche.
Poi arriva Glen, ed ecco che ti divento «una ragazza speciale».
Sul lavoro non è cambiato granché, dopo che ci siamo conosciuti. Però Glen non voleva che uscissi per conto mio, quindi non andavo mai a divertirmi con le altre ragazze del negozio. Siccome non avevano il fidanzato, diceva Glen, quelle tre uscivano solo per sbronzarsi e scopare, e a sentire i racconti del lunedí mattina era proprio cosí. Perciò quando mi invitavano a uscire io tiravo fuori mille scuse, finché un bel giorno hanno smesso di chiedermelo.
Il lavoro mi piaceva perché potevo starmene con la testa tra le nuvole e nessuno mi stressava. Odore di prodotti chimici e capelli stirati, rumore di voci e di acqua corrente, il ruggito dei phon e mai una sorpresa: tutto questo mi dava sicurezza. L’agenda degli appuntamenti, coi nomi scritti a matita spuntata, misurava le mie giornate.
Tutto era già deciso, persino l’uniforme: maglietta bianca e pantaloni neri, tranne il sabato che ci mettevamo i jeans. «Per una donna con la tua esperienza è un’umiliazione, – diceva Glen. – Tu sei una stilista, Jeanie, mica una sciampista qualsiasi». Fatto sta che per la maggior parte del tempo non dovevo neanche preoccuparmi di cosa fare o cosa mettermi. Tanto meglio.
Glen era simpatico a tutte. Ogni tanto passava a prendermi in negozio il sabato sera e mi aspettava appoggiato al bancone della cassa, chiacchierando con Lesley. Sapeva tante cose, il mio Glen. Vedeva sempre il lato pratico. E riusciva a far ridere la gente anche quando parlava di argomenti seri.
«È in gamba, tuo marito, – mi diceva Lesley. – Ed è anche un bell’uomo! Sei proprio fortunata, Jean».
Non le sembrava vero che Glen avesse scelto proprio me. A volte non ci credevo neanch’io, in effetti. Cosí glielo dicevo, e lui si metteva a ridere e mi abbracciava forte. «Voglio te e nient’altro», diceva. Mi faceva vedere le cose nel modo giusto. Mi aiutava a crescere, in un certo senso.
Mi ero sposata senza avere la piú pallida idea di cosa significava tenere i conti e mandare avanti una casa, perciò tutte le settimane Glen mi dava un po’ di soldi per le piccole spese e io dovevo segnare tutto su un taccuino. Poi ci sedevamo insieme e lui tirava le somme. Imparavo tante cose, grazie a lui.
Kate ha ripreso a parlare, ma ero distratta e mi sono persa l’inizio. Sta parlando di soldi, di non so quale accordo.
– Mi scusi, – le dico. – Avevo la testa da un’altra parte.
Lei sorride pazientemente e si sporge di nuovo verso di me. – So quanto tutto questo sia difficile, Jean. Non è facile avere i giornalisti fuori dalla porta notte e giorno. Ma mi creda, l’unico modo per liberarsene è concedere un’intervista in esclusiva. Solo cosí si stancheranno e la lasceranno in pace.
Muovo la testa per dirle che ho capito e lei si illumina tutta, crede che abbia detto di sí. – Aspetti un attimo, – balbetto, un po’ affannata. – Non ho ancora deciso niente. Voglio pensarci.
– Saremmo pronti a offrirle un piccolo compenso, per risarcirla del tempo che ci dedica e darle una mano in questo momento difficile, – spara lei tutto d’un fiato. Buffo, no?, come infiorettano sempre tutto. Risarcirmi del tempo che gli dedico! Mi pagheranno per vuotare il sacco, questo vuol dire, ma non osa: ha paura di offendermi.
Di proposte me ne hanno già fatte tante, e pure generose: tipo premi della lotteria, per dire. E dovreste vedere che lettere mi hanno infilato nella buca certi scribacchini: talmente false che arrossivo di vergogna. Sempre meglio delle lettere di insulti, però.
Ci sono persone capaci di ritagliare dal giornale un articolo su Glen e scriverci sopra MOSTRO tutto maiuscolo e sottolineato. A volte premono cosí forte con la penna che la carta si strappa.
I giornalisti usano il metodo opposto, ma anche loro ti fanno venire la nausea, giuro.
Scrivono cose tipo «Cara signora Taylor, – a volte semplicemente “Cara Jean”, – spero che questa mia lettera non le sembri troppo inopportuna in un momento cosí difficile, e bla bla e bla bla. Su di lei sono state scritte molte cose, ma noi vorremmo darle la possibilità di raccontare la sua versione dei fatti, e bla bla e bla bla».
Glen me le leggeva facendo le voci buffe, poi ci mettevamo a ridere e le conservavamo tutte in un cassetto. Questo quand’era ancora vivo. Adesso ho un’altra offerta, ma non posso piú parlarne con nessuno.
Abbasso gli occhi sulla mia tazza di tè. Ormai è freddo, ha fatto un po’ di pellicola in superficie. È per via del latte intero che Glen mi fa sempre comprare. Anzi, faceva. Adesso posso comprarmi il latte scremato, se voglio. Mi scappa un sorriso.
Kate sta facendo una gran sviolinata su quanto il suo giornale è sensibile e responsabile e via dicendo, e vedendomi sorridere lo prende come un buon segno. Propone di sistemarmi in un albergo per un paio di notti, «per togliersi di torno gli altri giornalisti e tutta questa confusione», dice. – Per prendere un po’ fiato, Jean.
Ne avrei bisogno, mi sa.
Proprio allora, neanche a farlo apposta, qualcuno suona il campanello. Kate va a sbirciare dietro le tendine poi bisbiglia: – Merda, Jean, è il tizio di una tivú locale. Se stiamo ferme e zitte magari se ne va.
Obbedisco, come al solito. Ecco, vedete, questa Kate sta proprio riprendendo da dove Glen ha lasciato. Ha la situazione in mano. Mi protegge dai giornalisti là fuori. Peccato che sia una di loro. Oh, santo cielo, sono in casa con il nemico.
Mi giro per dirle qualcosa ma il campanello suona un’altra volta. Nell’ingresso deserto, il coperchio della buca delle lettere si alza con un colpo secco. – Signora Taylor? – grida una voce. – Signora Taylor, sono Jim Wilson di Capital TV. Le chiedo solo un minuto di tempo, due paroline veloci. È in casa?
Kate e io restiamo sedute a guardarci. Lei è tesissima. È strano vedere un altro provare la stessa cosa che provo io almeno due o tre volte al giorno. Vorrei dirle che ormai sono bravissima a stare ferma e zitta. A volte trattengo persino il fiato, per fargli credere che non c’è nessuno in casa. Ma Kate non è capace di stare ferma e zitta. A un certo punto tira fuori il telefono.
– Cosa fa, chiama un amico? – chiedo, per spezzare un po’ la tensione; ma ovviamente il tizio della tivú mi sente.
– Signora Taylor, lo so che è in casa. Per favore, mi apra. Ci vorrà solo un minuto, glielo giuro. Devo parlarle un attimo. Capital TV vorrebbe offrirle una tribuna...
Poi di colpo Kate strilla: – Togliti dal cazzo! – e io la guardo con due occhi cosí. Glen non avrebbe mai permesso a una donna di dire certe cose in casa sua. Lei muove le labbra per dire «mi scusi», poi si chiude la bocca con un dito. E in effetti il tizio della tivú si toglie dal cazzo.
– Funziona, – dico.
Kate si mette a ridere. – Chiedo scusa, ma è l’unico linguaggio che capiscono –. Mi piace la sua risata: sembra sincera, ed è un bel po’ che in questa casa non ride piú nessuno. – Senta, Jean: sistemiamo questa faccenda dell’hotel prima che arrivi qualche altro giornalista.
Non dico niente, faccio solo sí con la testa. L’ultima volta che sono stata in albergo era il 2004, ed ero con Glen. Eravamo andati a Whitstable per il fine settimana, a festeggiare il nostro quindicesimo anniversario.
«È un bel traguardo, Jeanie, – aveva detto Glen. – Per una rapina a mano armata ti dànno molto meno». Scherzava sempre, lui.
E comunque Whitstable era solo a un’ora da casa, ma ci siamo presi una stanza in un bell’alberghetto davanti al mare, abbiamo mangiato del fish and chips molto stiloso e passeggiato sulla spiaggia di ciottoli. Io cercavo le pietre piatte, Glen le faceva saltare sull’acqua e contavamo i rimbalzi. Il vento faceva sbattere le vele contro gli alberi delle barche e mi scompigliava tutti i capelli, ma ero felice lo stesso, o almeno credo. Glen non parlava granché. Voleva solo passeggiare, e io ero contenta di stare un po’ con lui.
Sí, perché negli ultimi tempi Glen stava un po’ sparendo dalla mia vita. Come dire, c’era ma non c’era. Sembrava piú sposato col computer che con me: in tutti i sensi, come si è visto poi. Aveva anche una specie di telecamerina per farsi vedere dai suoi amici e vedere loro quando chattavano. Quegli aggeggi fanno una luce che sembrano tutti dei cadaveri. Degli zombie, proprio. Io ormai ero rassegnata, lo lasciavo alle sue sciocchezze.
«Cosa ci fai al computer tutta la sera?» gli chiedevo. Lui alzava le spalle e diceva: «Parlo con gli amici, niente di che». Ma ci passava ore, davanti a quel coso. Ore.
A volte mi svegliavo in piena notte e mi accorgevo che non era nel letto. Lo sentivo parlottare nella camera degli ospiti, ma mi guardavo bene dal disturbarlo. Quand’era al computer non dovevo stargli tra i piedi. Se gli portavo il caffè dovevo bussare prima di entrare. Se entravo all’improvviso lo facevo spaventare, diceva. Perciò bussavo, lui spegneva lo schermo e veniva a prendersi la tazza.
«Grazie», diceva.
«Qualcosa di interessante al computer, stasera?»
«No, solite cose», faceva lui. Fine della conversazione.
Io non lo usavo mai, il computer. Era campo suo, decisamente.
Ma credo di averlo sempre saputo, che là dentro succedevano delle cose. È stato allora che ho cominciato a chiamarle sciocchezze, cosí almeno potevo parlarne ad alta voce. Lui non era contento, ma mica poteva impedirmelo, no? Una parola cosí innocente! Sciocchezze: vuol dire tutto e niente. Ma le sue sciocchezze non erano «niente», erano porcherie belle e buone. Cose che nessuno dovrebbe mai vedere, figuriamoci pagare per vederle.
Quando la polizia gliele ha trovate sul computer, mi ha detto che non era stato lui.
«Hanno trovato roba che io non ho mai scaricato: cose orribili che ti entrano nell’hard disk mentre stai cercando tutt’altro». Io non ne sapevo niente di Internet e di hard disk. Magari era vero, no?
«Non sono certo il primo a essere accusato ingiustamente, Jeanie, – diceva lui. – Ogni settimana c’è un articolo sui giornali. C’è gente che ruba le carte di credito e le usa per comprarsi quella roba. Non sono stato io, l’ho spiegato ai poliziotti».
E se io non dicevo nulla, lui andava avanti: «Non puoi immaginare cosa si provi a essere accusati di una cosa del genere quando si è del tutto innocenti. È straziante».
Allora gli accarezzavo un braccio e lui mi prendeva la mano.
«Prepariamoci una tazza di tè, Jeanie», diceva. E andavamo in cucina ad accendere il bollitore.
Quando aprivo il frigo per prendere il latte mi fermavo sempre a guardare le foto sulla porta: noi due tutti in ghingheri a una festa di capodanno, noi due che tinteggiamo il soffitto del salotto coi vestiti macchiati di bianco, noi due in vacanza, noi due al luna park. Eravamo una squadra, io e Glen.
Se tornavo dal lavoro ed era stata una giornataccia lui mi diceva: «Non preoccuparti, Jeanie. Io sono qui con te. Siamo una squadra, noi due». Ed era vero. C’erano troppe cose in gioco per dividerci.
Ormai c’eravamo dentro fino al collo, e io non potevo piú andarmene. Avevo mentito per lui.
E non una volta sola. All’inizio mi chiedeva di telefonare in banca per avvertire che era ammalato, quando in realtà non aveva voglia di andare al lavoro. E poi un giorno mi aveva fatto dire che avevo perso la carta di credito, perché a sentire lui eravamo in ristrettezze e dovevamo farci cancellare qualche pagamento.
«Non fa danno a nessuno, Jeanie, – diceva lui. – Ti prego, una volta sola».
Ma poi col cavolo che era stata una volta sola.
Forse Kate Waters sarebbe contenta, se glielo raccontassi.
Sento che dice il mio nome nell’ingresso, e quando vado a vedere scopro che parla al telefono con qualcuno. Gli sta chiedendo di venirci a soccorrere.
A volte Glen mi chiamava la sua principessa, ma mi sa che per oggi posso scordarmelo, il principe sul cavallo bianco.
Torno a sedermi in poltrona e aspetto di vedere che succede.
È già passata un’ora, ed è sempre qui. Fosse stato ieri le avrei già detto di andarsene. Non ho mai avuto problemi a mandare a stendere i giornalisti. Anzi, sono talmente maleducati che ti facilitano il compito. Salutano a malapena, e poi via con le domande, sempre cosí orribili, cosí sfacciate. Kate Waters invece non è ancora stata indiscreta. Per ora.
Abbiamo parlato di tutto: di quando io e Glen abbiamo comprato casa, dei prezzi degli immobili in questa zona, dei lavori che abbiamo fatto, di quanto costa imbiancare, dei vicini, di dove abitavo da bambina, dove ho fatto le medie e via dicendo. Kate è sempre in sintonia con me: «È vero, anche alla mia scuola era lo stesso. Avevo delle prof cosí odiose! E le sue?» Cose cosí. Mi sembra di chiacchierare con un’amica. Mi sembra che siamo uguali in tutto. Furba, non c’è che dire: farà sempre cosí, quando vuole un’intervista?
In effetti non sembra cattiva. Quasi quasi direi che mi è simpatica. È spiritosa, gentile, ma chissà: magari finge. Adesso mi parla di suo marito – «il mio ex fidanzato», lo chiama lei – e dice che fra un po’ dovrà telefonargli per avvisare che fa tardi a pranzo. A me sembra ancora prestino, tanto piú che abitano a mezz’oretta da qui, ma le dico di chiamarlo subito perché non vorrei che si preoccupasse. Glen l’avrebbe fatto. Se avessi tardato senza avvertirlo mi avrebbe fatto una scenata.
«Non è onesto nei miei confronti, Jeanie», avrebbe detto. Ma questa non gliela racconto, a Kate.
Lei sta ridendo, dice che ormai il suo ex fidanzato ci ha fatto l’abitudine ma si lamenta lo stesso, perché gli tocca spupazzarsi i ragazzi. Hanno due maschi, dice, Jake e Freddie: due buzzurri insolenti.
– Dovrebbe cucinargli qualcosa, – dice, – ma so già che alla fine ordinerà le pizze, cosí sono contenti tutti.
Quei due li fanno impazzire, spiega, perché vivono nel disordine.
– Le loro camere sono un porcile, Jean. Lei non si immagina quante scodelle di cereali avrò trovato in camera di Jake: un intero servizio, in pratica. E i calzini che perdono! Casa nostra è il Triangolo delle Bermude del calzino –. Ride di nuovo perché gli vuole bene, porcile o non porcile.
Jake e Freddie, che nomi adorabili. Li metto via per dopo, per la mia collezione, e faccio sí con la testa come se capissi il problema. È solo una finta, okay? Però quanto mi sarebbe piaciuto avere quel tipo di problemi. Mi sarebbe piaciuto, un adolescente da sgridare.
Senza stare a pensarci, le dico: – Glen diventava un po’ pesante, se lasciavo la casa in disordine –. Solo per dimostrarle che anch’io ho avuto la mia parte di difficoltà, che in fondo sono come lei. Che stupida, eh? Come se davvero la mia vita potesse somigliare alla sua, o a quella di chiunque altro. Ma chi, io?
Glen lo diceva sempre, che ero diversa. Quando uscivamo coi suoi amici mi metteva sul piedistallo, diceva che ero una ragazza speciale. Vai a sapere perché. A quei tempi lavoravo in un negozio di parrucchiere che si chiamava My Hair Lady (un giochetto di parole inventato da Lesley, la proprietaria) e passavo le mie giornate a fare gli shampoo e portare i caffè alle signore in menopausa. Mi immaginavo che il mestiere di parrucchiera fosse divertente, persino chic. Sognavo di imparare a tagliare i capelli, di creare i miei stili, ma avevo solo diciassette anni ed ero l’ultima ruota del carro.
«Jean, – diceva Lesley, – mi lavi la signora, poi mi spazzi il pavimento?» Senza un «per favore», senza un «grazie».
Le clienti non erano male, però. Mi raccontavano sempre i fatti loro, perché le stavo a sentire e non dispensavo consigli come Lesley. Facevo sí con la testa, sorridevo, poi mi perdevo nei miei sogni a occhi aperti e intanto loro si sfogavano: il nipote che sniffava colla, la vicina che gli buttava le cacche del cane in giardino, cose cosí. Passavo giornate intere a dire «Oh, che bello!», a inventarmi progetti di vacanze giusto per tenere viva la conversazione. Ma mi piaceva, ero contenta. Poi ho fatto dei corsi, ho imparato a tagliare e a tingere, e poco alla volta ho cominciato ad avere le mie clienti. Guadagnavo poco, è vero, ma non è che avessi molta scelta. A scuola ero un disastro, la mamma diceva a tutti che ero dislessica ma in effetti ero solo una scansafatiche.
Poi arriva Glen, ed ecco che ti divento «una ragazza speciale».
Sul lavoro non è cambiato granché, dopo che ci siamo conosciuti. Però Glen non voleva che uscissi per conto mio, quindi non andavo mai a divertirmi con le altre ragazze del negozio. Siccome non avevano il fidanzato, diceva Glen, quelle tre uscivano solo per sbronzarsi e scopare, e a sentire i racconti del lunedí mattina era proprio cosí. Perciò quando mi invitavano a uscire io tiravo fuori mille scuse, finché un bel giorno hanno smesso di chiedermelo.
Il lavoro mi piaceva perché potevo starmene con la testa tra le nuvole e nessuno mi stressava. Odore di prodotti chimici e capelli stirati, rumore di voci e di acqua corrente, il ruggito dei phon e mai una sorpresa: tutto questo mi dava sicurezza. L’agenda degli appuntamenti, coi nomi scritti a matita spuntata, misurava le mie giornate.
Tutto era già deciso, persino l’uniforme: maglietta bianca e pantaloni neri, tranne il sabato che ci mettevamo i jeans. «Per una donna con la tua esperienza è un’umiliazione, – diceva Glen. – Tu sei una stilista, Jeanie, mica una sciampista qualsiasi». Fatto sta che per la maggior parte del tempo non dovevo neanche preoccuparmi di cosa fare o cosa mettermi. Tanto meglio.
Glen era simpatico a tutte. Ogni tanto passava a prendermi in negozio il sabato sera e mi aspettava appoggiato al bancone della cassa, chiacchierando con Lesley. Sapeva tante cose, il mio Glen. Vedeva sempre il lato pratico. E riusciva a far ridere la gente anche quando parlava di argomenti seri.
«È in gamba, tuo marito, – mi diceva Lesley. – Ed è anche un bell’uomo! Sei proprio fortunata, Jean».
Non le sembrava vero che Glen avesse scelto proprio me. A volte non ci credevo neanch’io, in effetti. Cosí glielo dicevo, e lui si metteva a ridere e mi abbracciava forte. «Voglio te e nient’altro», diceva. Mi faceva vedere le cose nel modo giusto. Mi aiutava a crescere, in un certo senso.
Mi ero sposata senza avere la piú pallida idea di cosa significava tenere i conti e mandare avanti una casa, perciò tutte le settimane Glen mi dava un po’ di soldi per le piccole spese e io dovevo segnare tutto su un taccuino. Poi ci sedevamo insieme e lui tirava le somme. Imparavo tante cose, grazie a lui.
Kate ha ripreso a parlare, ma ero distratta e mi sono persa l’inizio. Sta parlando di soldi, di non so quale accordo.
– Mi scusi, – le dico. – Avevo la testa da un’altra parte.
Lei sorride pazientemente e si sporge di nuovo verso di me. – So quanto tutto questo sia difficile, Jean. Non è facile avere i giornalisti fuori dalla porta notte e giorno. Ma mi creda, l’unico modo per liberarsene è concedere un’intervista in esclusiva. Solo cosí si stancheranno e la lasceranno in pace.
Muovo la testa per dirle che ho capito e lei si illumina tutta, crede che abbia detto di sí. – Aspetti un attimo, – balbetto, un po’ affannata. – Non ho ancora deciso niente. Voglio pensarci.
– Saremmo pronti a offrirle un piccolo compenso, per risarcirla del tempo che ci dedica e darle una mano in questo momento difficile, – spara lei tutto d’un fiato. Buffo, no?, come infiorettano sempre tutto. Risarcirmi del tempo che gli dedico! Mi pagheranno per vuotare il sacco, questo vuol dire, ma non osa: ha paura di offendermi.
Di proposte me ne hanno già fatte tante, e pure generose: tipo premi della lotteria, per dire. E dovreste vedere che lettere mi hanno infilato nella buca certi scribacchini: talmente false che arrossivo di vergogna. Sempre meglio delle lettere di insulti, però.
Ci sono persone capaci di ritagliare dal giornale un articolo su Glen e scriverci sopra MOSTRO tutto maiuscolo e sottolineato. A volte premono cosí forte con la penna che la carta si strappa.
I giornalisti usano il metodo opposto, ma anche loro ti fanno venire la nausea, giuro.
Scrivono cose tipo «Cara signora Taylor, – a volte semplicemente “Cara Jean”, – spero che questa mia lettera non le sembri troppo inopportuna in un momento cosí difficile, e bla bla e bla bla. Su di lei sono state scritte molte cose, ma noi vorremmo darle la possibilità di raccontare la sua versione dei fatti, e bla bla e bla bla».
Glen me le leggeva facendo le voci buffe, poi ci mettevamo a ridere e le conservavamo tutte in un cassetto. Questo quand’era ancora vivo. Adesso ho un’altra offerta, ma non posso piú parlarne con nessuno.
Abbasso gli occhi sulla mia tazza di tè. Ormai è freddo, ha fatto un po’ di pellicola in superficie. È per via del latte intero che Glen mi fa sempre comprare. Anzi, faceva. Adesso posso comprarmi il latte scremato, se voglio. Mi scappa un sorriso.
Kate sta facendo una gran sviolinata su quanto il suo giornale è sensibile e responsabile e via dicendo, e vedendomi sorridere lo prende come un buon segno. Propone di sistemarmi in un albergo per un paio di notti, «per togliersi di torno gli altri giornalisti e tutta questa confusione», dice. – Per prendere un po’ fiato, Jean.
Ne avrei bisogno, mi sa.
Proprio allora, neanche a farlo apposta, qualcuno suona il campanello. Kate va a sbirciare dietro le tendine poi bisbiglia: – Merda, Jean, è il tizio di una tivú locale. Se stiamo ferme e zitte magari se ne va.
Obbedisco, come al solito. Ecco, vedete, questa Kate sta proprio riprendendo da dove Glen ha lasciato. Ha la situazione in mano. Mi protegge dai giornalisti là fuori. Peccato che sia una di loro. Oh, santo cielo, sono in casa con il nemico.
Mi giro per dirle qualcosa ma il campanello suona un’altra volta. Nell’ingresso deserto, il coperchio della buca delle lettere si alza con un colpo secco. – Signora Taylor? – grida una voce. – Signora Taylor, sono Jim Wilson di Capital TV. Le chiedo solo un minuto di tempo, due paroline veloci. È in casa?
Kate e io restiamo sedute a guardarci. Lei è tesissima. È strano vedere un altro provare la stessa cosa che provo io almeno due o tre volte al giorno. Vorrei dirle che ormai sono bravissima a stare ferma e zitta. A volte trattengo persino il fiato, per fargli credere che non c’è nessuno in casa. Ma Kate non è capace di stare ferma e zitta. A un certo punto tira fuori il telefono.
– Cosa fa, chiama un amico? – chiedo, per spezzare un po’ la tensione; ma ovviamente il tizio della tivú mi sente.
– Signora Taylor, lo so che è in casa. Per favore, mi apra. Ci vorrà solo un minuto, glielo giuro. Devo parlarle un attimo. Capital TV vorrebbe offrirle una tribuna...
Poi di colpo Kate strilla: – Togliti dal cazzo! – e io la guardo con due occhi cosí. Glen non avrebbe mai permesso a una donna di dire certe cose in casa sua. Lei muove le labbra per dire «mi scusi», poi si chiude la bocca con un dito. E in effetti il tizio della tivú si toglie dal cazzo.
– Funziona, – dico.
Kate si mette a ridere. – Chiedo scusa, ma è l’unico linguaggio che capiscono –. Mi piace la sua risata: sembra sincera, ed è un bel po’ che in questa casa non ride piú nessuno. – Senta, Jean: sistemiamo questa faccenda dell’hotel prima che arrivi qualche altro giornalista.
Non dico niente, faccio solo sí con la testa. L’ultima volta che sono stata in albergo era il 2004, ed ero con Glen. Eravamo andati a Whitstable per il fine settimana, a festeggiare il nostro quindicesimo anniversario.
«È un bel traguardo, Jeanie, – aveva detto Glen. – Per una rapina a mano armata ti dànno molto meno». Scherzava sempre, lui.
E comunque Whitstable era solo a un’ora da casa, ma ci siamo presi una stanza in un bell’alberghetto davanti al mare, abbiamo mangiato del fish and chips molto stiloso e passeggiato sulla spiaggia di ciottoli. Io cercavo le pietre piatte, Glen le faceva saltare sull’acqua e contavamo i rimbalzi. Il vento faceva sbattere le vele contro gli alberi delle barche e mi scompigliava tutti i capelli, ma ero felice lo stesso, o almeno credo. Glen non parlava granché. Voleva solo passeggiare, e io ero contenta di stare un po’ con lui.
Sí, perché negli ultimi tempi Glen stava un po’ sparendo dalla mia vita. Come dire, c’era ma non c’era. Sembrava piú sposato col computer che con me: in tutti i sensi, come si è visto poi. Aveva anche una specie di telecamerina per farsi vedere dai suoi amici e vedere loro quando chattavano. Quegli aggeggi fanno una luce che sembrano tutti dei cadaveri. Degli zombie, proprio. Io ormai ero rassegnata, lo lasciavo alle sue sciocchezze.
«Cosa ci fai al computer tutta la sera?» gli chiedevo. Lui alzava le spalle e diceva: «Parlo con gli amici, niente di che». Ma ci passava ore, davanti a quel coso. Ore.
A volte mi svegliavo in piena notte e mi accorgevo che non era nel letto. Lo sentivo parlottare nella camera degli ospiti, ma mi guardavo bene dal disturbarlo. Quand’era al computer non dovevo stargli tra i piedi. Se gli portavo il caffè dovevo bussare prima di entrare. Se entravo all’improvviso lo facevo spaventare, diceva. Perciò bussavo, lui spegneva lo schermo e veniva a prendersi la tazza.
«Grazie», diceva.
«Qualcosa di interessante al computer, stasera?»
«No, solite cose», faceva lui. Fine della conversazione.
Io non lo usavo mai, il computer. Era campo suo, decisamente.
Ma credo di averlo sempre saputo, che là dentro succedevano delle cose. È stato allora che ho cominciato a chiamarle sciocchezze, cosí almeno potevo parlarne ad alta voce. Lui non era contento, ma mica poteva impedirmelo, no? Una parola cosí innocente! Sciocchezze: vuol dire tutto e niente. Ma le sue sciocchezze non erano «niente», erano porcherie belle e buone. Cose che nessuno dovrebbe mai vedere, figuriamoci pagare per vederle.
Quando la polizia gliele ha trovate sul computer, mi ha detto che non era stato lui.
«Hanno trovato roba che io non ho mai scaricato: cose orribili che ti entrano nell’hard disk mentre stai cercando tutt’altro». Io non ne sapevo niente di Internet e di hard disk. Magari era vero, no?
«Non sono certo il primo a essere accusato ingiustamente, Jeanie, – diceva lui. – Ogni settimana c’è un articolo sui giornali. C’è gente che ruba le carte di credito e le usa per comprarsi quella roba. Non sono stato io, l’ho spiegato ai poliziotti».
E se io non dicevo nulla, lui andava avanti: «Non puoi immaginare cosa si provi a essere accusati di una cosa del genere quando si è del tutto innocenti. È straziante».
Allora gli accarezzavo un braccio e lui mi prendeva la mano.
«Prepariamoci una tazza di tè, Jeanie», diceva. E andavamo in cucina ad accendere il bollitore.
Quando aprivo il frigo per prendere il latte mi fermavo sempre a guardare le foto sulla porta: noi due tutti in ghingheri a una festa di capodanno, noi due che tinteggiamo il soffitto del salotto coi vestiti macchiati di bianco, noi due in vacanza, noi due al luna park. Eravamo una squadra, io e Glen.
Se tornavo dal lavoro ed era stata una giornataccia lui mi diceva: «Non preoccuparti, Jeanie. Io sono qui con te. Siamo una squadra, noi due». Ed era vero. C’erano troppe cose in gioco per dividerci.
Ormai c’eravamo dentro fino al collo, e io non potevo piú andarmene. Avevo mentito per lui.
E non una volta sola. All’inizio mi chiedeva di telefonare in banca per avvertire che era ammalato, quando in realtà non aveva voglia di andare al lavoro. E poi un giorno mi aveva fatto dire che avevo perso la carta di credito, perché a sentire lui eravamo in ristrettezze e dovevamo farci cancellare qualche pagamento.
«Non fa danno a nessuno, Jeanie, – diceva lui. – Ti prego, una volta sola».
Ma poi col cavolo che era stata una volta sola.
Forse Kate Waters sarebbe contenta, se glielo raccontassi.
Sento che dice il mio nome nell’ingresso, e quando vado a vedere scopro che parla al telefono con qualcuno. Gli sta chiedendo di venirci a soccorrere.
A volte Glen mi chiamava la sua principessa, ma mi sa che per oggi posso scordarmelo, il principe sul cavallo bianco.
Torno a sedermi in poltrona e aspetto di vedere che succede.
5.
L’ispettore
Lunedí, 2 ottobre 2006
Quando aveva sentito per la prima volta il nome di Bella Elliott, a Bob Sparkes era venuto da sorridere. La sua zia preferita – una delle tante sorelle di sua madre, la piú estrosa della nidiata – si chiamava proprio cosí, Bella. L’ispettore non poteva saperlo, ma la voglia di sorridere non sarebbe piú tornata per molte settimane.
Il centralino del 999 aveva ricevuto la chiamata alle quindici e trentotto. Una voce femminile, il respiro spezzato dall’angoscia.
– L’hanno portata via, – diceva. – Ha solo due anni, qualcuno me l’ha portata via!
Nella registrazione, ascoltata un milione di volte nei giorni successivi, il carezzevole timbro da tenore del centralinista duettava con gli acuti laceranti della donna.
– Come si chiama la bambina, signora?
– Bella, si chiama Bella.
– E lei è...
– La madre. Mi chiamo Dawn Elliott. Era in giardino, proprio qui, nel giardino di casa: Manor Road 44a, Westland. Aiutatemi, vi prego!
– L’aiutiamo, Dawn, ma deve ascoltarmi. So che è difficile, ma ci serve qualche informazione in piú per avviare le ricerche. Quando ha visto la bambina per l’ultima volta? Era sola in giardino?
– Stava giocando col gatto. Sí, era da sola. Si era appena alzata dal pisolino. Non era fuori da tanto, appena qualche minuto. Verso le tre e mezzo sono uscita a chiamarla e lei non c’era piú. Abbiamo guardato dappertutto. La prego, mi aiuti a trovarla!
– Okay. Un attimo solo, Dawn. Può descrivermi Bella? Cosa indossava quando è scomparsa?
– Ha i capelli biondi; legati a coda, quest’oggi. È piccolina, è solo una bimba... i vestiti non riesco a ricordarmeli. Una maglietta, dei pantaloni, credo. Oddio, non riesco a pensare! Gli occhiali, sí, aveva gli occhiali. Rosa, con la montatura rotonda. Ha un occhio pigro. Per favore, trovatela. Per favore!
Una trentina di minuti piú tardi, dopo che due agenti del comando dello Hampshire erano andati a controllare la dichiarazione di Dawn Elliott e a perquisire la casa, Sparkes aveva sentito pronunciare il nome di Bella.
– Una bambina di due anni è scomparsa, Bob, – aveva detto Matthews entrando di furia nell’ufficio dell’ispettore. – Bella Elliott. Manca all’appello da quasi due ore. Stava giocando nel giardino di casa, poi è sparita. Abita nelle case popolari alla periferia di Southampton. La madre è sconvolta: il dottore la sta visitando.
Il sergente Ian Matthews posò una smilza cartellina sulla scrivania del suo capo. Sul frontespizio c’era il nome di Bella scritto a pennarello nero; in alto, fissata con una graffetta, una fotografia a colori della bambina.
Sparkes ci tamburellò sopra con le dita, cercando di memorizzare la fisionomia prima di aprire l’incartamento. – Cosa stiamo facendo? Dove la cerchiamo? Dov’è il padre?
Il sergente Matthews crollò sulla sedia. – Casa, soffitta, giardino: niente, finora. Non si mette bene. Non c’è neanche una traccia. Il padre è delle Midlands, o almeno cosí pensa la mamma. Un incontro occasionale, se n’è andato prima che la bambina nascesse. Stiamo cercando di rintracciarlo, ma la madre non ci è stata d’aiuto. Dice che non è necessario farglielo sapere.
– E di lei che mi dici? Come ti è sembrata? Cosa stava facendo mentre sua figlia giocava da sola in giardino? – chiese Sparkes.
– Dice che le stava preparando la cena. La cucina si affaccia sul cortile posteriore, perciò anche volendo non avrebbe potuto sorvegliarla. Non c’è recinzione, solo un muretto basso ai margini del marciapiede: lo si scavalca come niente.
– Un po’ azzardato lasciare incustodita una bambina cosí piccola, – brontolò Sparkes tra sé, cercando di ricordare come fossero i suoi figli a quell’età. Ormai James aveva trent’anni e faceva – che razza di lavoro! – il ragioniere, mentre Samantha ne aveva ventisei e si era appena fidanzata. Lui ed Eileen li avevano mai lasciati soli a giocare in giardino quand’erano piccoli? Onestamente non ricordava. All’epoca non passava molto tempo in casa, era sempre fuori per lavoro. Mise da parte la domanda per rivolgerla a Eileen piú tardi, una volta rientrato. Sempre ammesso di riuscirci, a rientrare.
L’ispettore Sparkes allungò una mano verso la giacca appesa a un gancio alle sue spalle e pescò in una tasca le chiavi dell’auto. – Meglio che vada laggiú a dare un’occhiata, Matthews. Cosí annuso l’aria e scambio due parole con la madre. Tu resta qui e prepara tutto, nel caso si debba allestire una centrale operativa. Ti chiamo prima delle sette.
Durante il viaggio verso Westland l’ispettore accese la radio per ascoltare il bollettino locale. La scomparsa di Bella era la notizia di apertura, ma a quanto pareva i giornalisti non avevano ancora scoperto nulla che lui non sapesse già.
E meno male, pensò. Aveva una relazione complicata con i mass media locali: una sorta di amore-odio.
Era già successo che in un caso analogo i reporter della zona si fossero messi a indagare per conto loro, calpestando tutte le prove. Alla fine Laura Simpson, una bambina di cinque anni di Gosport, era stata ritrovata, sporca e impaurita, dentro un armadio in casa dello zio acquisito. «Hai presente, una di quelle famiglie enormi con parenti dappertutto», aveva raccontato l’ispettore a Eileen.
Peccato però che qualche giorno prima un reporter che era andato a intervistare la madre si fosse portato via l’album delle foto di famiglia, impedendo alla polizia di riconoscere lo zio Jim – già schedato per reati sessuali – e di scoprirne i legami con la bambina scomparsa.
Aveva cercato di abusare della bambina ma non ci era riuscito, e Sparkes era convinto che avrebbe finito per ucciderla, se avesse visto i poliziotti aggirarsi intorno a casa sua. Per fortuna un altro membro della famiglia allargata si era sbronzato alla grande e aveva telefonato in centrale facendo il nome di Jim. Laura se l’era cavata con qualche ammaccatura nel corpo e nella mente, ma l’espressione dei suoi occhi quando aveva aperto l’armadio, quella, Sparkes non se la sarebbe mai scordata. Puro e semplice terrore. Terrore alla vista di uno sconosciuto che poteva anche essere uguale allo zio Jim. Sparkes aveva fatto venire un’ispettrice perché la prendesse in braccio e la tirasse fuori da lí. Al sicuro, finalmente. Tutti avevano le lacrime agli occhi, tranne Laura. Lei sembrava soltanto inebetita.
Sparkes era sempre stato convinto di averla in qualche modo tradita. Avrebbe dovuto scoprirlo prima, il nesso tra lei e quell’uomo spregevole. Avrebbe dovuto fare altre domande. Trovarla piú in fretta. Per il suo capo e per la stampa quel ritrovamento era stato un trionfo, ma l’ispettore non era affatto in vena di festeggiare. Impossibile, dopo aver visto quegli occhi.
E adesso dove sarà finita Laura?, si chiese. E lo zio Jim?
Manor Road era gremita di reporter, curiosi e poliziotti, tutti lí a intervistarsi a vicenda in una specie di orgia verbale.
Sparkes si fece largo tra la folla fino all’ingresso del 44a, salutando i giornalisti che conosceva con un cenno del capo.
A un tratto si sentí chiamare da una voce femminile. – Ciao, Bob! Novità? Indizi? – Kate Waters sgomitava per raggiungerlo e gli sorrideva con aria di finta sopportazione. L’ultima volta che l’aveva vista era per quell’orribile omicidio nella New Forest: settimane di indagini per inchiodare il marito, e nel frattempo lui e Kate si erano visti un paio di volte per chiacchierare e bere qualcosa.
Si conoscevano da un mucchio di tempo; si erano ritrovati e persi di vista nel corso di molte indagini, e a ogni nuovo incontro ricominciavano esattamente da dove erano rimasti. Non si poteva definirla un’amicizia, pensava Sparkes. Piú che altro un rapporto di lavoro, ma Kate era una in gamba. L’ultima volta aveva evitato di rendere pubblica una certa informazione un po’ delicata finché lui non le aveva dato il via libera. E dunque l’ispettore era in debito con lei.
– Oh, ciao, Kate! Sono appena arrivato, ma magari potrei avere qualcosa piú tardi, – disse Sparkes, oltrepassando l’agente che piantonava la casa.
Nel salotto c’era puzza di gatto e di sigarette. Dawn Elliott, raggomitolata sul sofà, stringeva tra le dita tremanti una bambola e un cellulare. I capelli biondi erano precariamente raccolti in una coda di cavallo che la faceva sembrare ancor piú giovane della sua età. Guardò con aria sconfortata quell’uomo alto e serio che era comparso sulla soglia del salotto, poi mormorò con un filo di voce: – L’avete trovata?
– Signora Elliott, sono l’ispettore Bob Sparkes. Sono qui per indagare sulla scomparsa di Bella, e ho bisogno del suo aiuto.
– Ma ho già detto tutto agli agenti! Che senso ha rifare mille volte le stesse domande? Ora basta, dovete trovarla! Trovate la mia bambina! – gridò la donna con voce arrochita.
Bob annuí e si sedette accanto a lei sul divano. – Abbia pazienza, Dawn, ricapitoliamo tutto ancora una volta, – le disse con gentilezza. – Magari le viene in mente un dettaglio che non ci ha ancora detto.
Dawn gli raccontò tutto per l’ennesima volta, senza piangere, anche se la voce era rotta dai singhiozzi. Bella era la sua unica figlia, frutto di una relazione fallimentare con un uomo sposato conosciuto in un locale notturno. Una bimba dolcissima, che adorava la danza e i cartoni animati. Quanto a Dawn, non aveva grandi rapporti con il vicinato. – Mi guardano tutti dall’alto in basso perché non ho un marito e vivo di sussidi. Pensano che sono una scroccona, – disse a Bob.
Nel frattempo gli uomini della squadra di Sparkes, aiutati da decine di volontari della zona, molti ancora in abiti da lavoro, perlustravano cortili, siepi, cassonetti della spazzatura, soffitte, cantine, tettoie, auto, cucce dei cani e mucchi di rifiuti organici. Mentre la luce del giorno cominciava a offuscarsi, qualcuno in strada chiamò all’improvviso: – Bella! Bella, dove sei, tesoro? – Dawn Elliott scattò in piedi e corse alla finestra.
– Venga qui, Dawn, si sieda, – disse Sparkes. – Mi dica ancora una cosa: Bella si è comportata male quest’oggi?
Lei scosse la testa.
– L’ha per caso sgridata per qualche monelleria? – seguitò Bob. – Le bambine di quell’età possono essere esasperanti, non è vero? L’ha sculacciata, o qualcosa del genere?
Il senso di quelle domande affiorò pian piano nella mente della giovane donna, che protestò la sua innocenza con voce stridula.
– Mannò, certo che no. Non la sculaccio mai. Be’, insomma, quasi mai. Solo a volte, quando fa i capricci. Ma non le ho mai fatto del male. Ispettore, qualcuno l’ha presa, me lo sento...
Sparkes le diede dei colpetti sulla mano e chiese al piantone di preparare un’altra tazza di tè.
Un giovane agente fece capolino dall’ingresso e comunicò a gesti che aveva bisogno di parlare con il capo.
– Qualcuno ha visto un tizio aggirarsi in zona verso il primo pomeriggio, – disse poi a Sparkes. – È stato un vicino a notarlo, ma non ha saputo riconoscerlo.
– Descrizione?
– Era da solo, pare. Capelli lunghi, aspetto trasandato. Il vicino l’ha visto sbirciare dentro le auto parcheggiate.
Sparkes tirò fuori il cellulare e chiamò il suo sergente. – Qui la faccenda scotta, – disse. – Della bambina non c’è traccia, ma abbiamo la descrizione di un sospetto che circolava nei paraggi. Ti mando i dettagli, tu trasmettili al resto della squadra. Io vado a parlare con il testimone.
– E poi andiamo a bussare alla porta di tutti gli abitanti delle case popolari di Westland che abbiano precedenti per reati sessuali, – aggiunse, con lo stomaco in rivolta al solo pensiero di una bambina cosí piccola nelle grinfie di uno qualsiasi dei ventidue individui già segnalati per quel genere di reati.
Il comando di polizia dello Hampshire aveva circa trecento pregiudicati sul suo territorio di competenza: una variegata popolazione di esibizionisti, voyeur, pedinatori, pedofili e violentatori che si annidavano all’interno di comunità inconsapevoli travestendosi da vicini simpatici.
Sul lato opposto della strada, affacciato alla finestra del suo grazioso villino, Stan Spencer aspettava il detective. Come Sparkes già sapeva, da qualche anno il signor Spencer aveva istituito una specie di ronda di quartiere, il cui scopo principale era impedire che gli automobilisti di passaggio gli fregassero il posto in cui si credeva in diritto di parcheggiare la sua Volvo. Gli Spencer erano pensionati e non avevano granché da fare, eccetto – nel caso di Stan – assaporare il senso di potere conferito da un portablocco e da un turno di pattuglia notturna.
Sparkes gli strinse la mano, e il signor Spencer lo fece accomodare al tavolo della sala da pranzo.
– Ispettore, le faccio una sintesi degli appunti che ho preso in tempo reale, – disse il pensionato consultando i suoi fogli, mentre Sparkes cercava di trattenere un sorriso. – Stavo aspettando che Susan tornasse dal suo giro di commissioni pomeridiane, quando ho visto avvicinarsi un tizio. Era sul nostro lato del marciapiede, e aveva un aspetto trasandato, un po’ ispido, ha presente? Temevo che volesse spaccare il finestrino di un’auto o qualcosa del genere. Bisogna stare attenti, di questi tempi, sa com’è. A un certo punto lo vedo passare accanto al furgone di Peter Tredwell...
Sparkes alzò le sopracciglia.
– Ah, mi scusi, ispettore. Peter Tredwell è l’idraulico che abita qui vicino, e gli hanno già scassinato il furgone diverse volte. L’ultimo tentativo l’ho mandato a monte io, personalmente. Quindi, le dicevo, sono uscito a sorvegliare quel tizio, ma ormai si era allontanato. Purtroppo l’ho solo visto di schiena: capelli lunghi e unti, jeans, giaccone nero col cappuccio. Un attimo dopo sono dovuto rientrare perché il telefono di casa stava squillando, e quando sono tornato fuori lui non c’era piú.
Il signor Spencer era molto soddisfatto: l’ispettore prendeva nota di ogni sua parola.
– Quando è uscito sul vialetto, ha notato per caso se Bella era in giardino?
Spencer esitò un istante, poi scosse la testa. – No. Era già qualche giorno che non la vedevo. Una bimbetta cosí graziosa!
Cinque minuti dopo, Sparkes era rientrato in casa di Dawn Elliott: appollaiato su una sedia nell’ingresso, buttò giú un rapido comunicato stampa. Quand’ebbe finito tornò in salotto e si sedette sul divano.
– C’è qualche notizia? – chiese Dawn.
– Nessuna novità, per ora, ma diremo ai giornali che abbiamo bisogno del loro aiuto per trovare Bella. E...
– E cosa? – lo incalzò lei.
– E che vogliamo identificare tutte le persone che sono transitate in questa zona oggi pomeriggio. Chiunque sia passato da Manor Road, a piedi o in auto. Lei ha visto qualcuno, Dawn? Il signor Spencer, che abita di fronte, dice di aver visto un tizio con i capelli lunghi e un giaccone scuro, e sostiene di non averlo mai incontrato prima. Potrebbe essere irrilevante, ma...
Dawn fece segno di no con la testa, mentre le lacrime le rigavano le guance. – È stato lui a portare via Bella? – domandò. – L’ha presa lui la mia bambina?
Quando aveva sentito per la prima volta il nome di Bella Elliott, a Bob Sparkes era venuto da sorridere. La sua zia preferita – una delle tante sorelle di sua madre, la piú estrosa della nidiata – si chiamava proprio cosí, Bella. L’ispettore non poteva saperlo, ma la voglia di sorridere non sarebbe piú tornata per molte settimane.
Il centralino del 999 aveva ricevuto la chiamata alle quindici e trentotto. Una voce femminile, il respiro spezzato dall’angoscia.
– L’hanno portata via, – diceva. – Ha solo due anni, qualcuno me l’ha portata via!
Nella registrazione, ascoltata un milione di volte nei giorni successivi, il carezzevole timbro da tenore del centralinista duettava con gli acuti laceranti della donna.
– Come si chiama la bambina, signora?
– Bella, si chiama Bella.
– E lei è...
– La madre. Mi chiamo Dawn Elliott. Era in giardino, proprio qui, nel giardino di casa: Manor Road 44a, Westland. Aiutatemi, vi prego!
– L’aiutiamo, Dawn, ma deve ascoltarmi. So che è difficile, ma ci serve qualche informazione in piú per avviare le ricerche. Quando ha visto la bambina per l’ultima volta? Era sola in giardino?
– Stava giocando col gatto. Sí, era da sola. Si era appena alzata dal pisolino. Non era fuori da tanto, appena qualche minuto. Verso le tre e mezzo sono uscita a chiamarla e lei non c’era piú. Abbiamo guardato dappertutto. La prego, mi aiuti a trovarla!
– Okay. Un attimo solo, Dawn. Può descrivermi Bella? Cosa indossava quando è scomparsa?
– Ha i capelli biondi; legati a coda, quest’oggi. È piccolina, è solo una bimba... i vestiti non riesco a ricordarmeli. Una maglietta, dei pantaloni, credo. Oddio, non riesco a pensare! Gli occhiali, sí, aveva gli occhiali. Rosa, con la montatura rotonda. Ha un occhio pigro. Per favore, trovatela. Per favore!
Una trentina di minuti piú tardi, dopo che due agenti del comando dello Hampshire erano andati a controllare la dichiarazione di Dawn Elliott e a perquisire la casa, Sparkes aveva sentito pronunciare il nome di Bella.
– Una bambina di due anni è scomparsa, Bob, – aveva detto Matthews entrando di furia nell’ufficio dell’ispettore. – Bella Elliott. Manca all’appello da quasi due ore. Stava giocando nel giardino di casa, poi è sparita. Abita nelle case popolari alla periferia di Southampton. La madre è sconvolta: il dottore la sta visitando.
Il sergente Ian Matthews posò una smilza cartellina sulla scrivania del suo capo. Sul frontespizio c’era il nome di Bella scritto a pennarello nero; in alto, fissata con una graffetta, una fotografia a colori della bambina.
Sparkes ci tamburellò sopra con le dita, cercando di memorizzare la fisionomia prima di aprire l’incartamento. – Cosa stiamo facendo? Dove la cerchiamo? Dov’è il padre?
Il sergente Matthews crollò sulla sedia. – Casa, soffitta, giardino: niente, finora. Non si mette bene. Non c’è neanche una traccia. Il padre è delle Midlands, o almeno cosí pensa la mamma. Un incontro occasionale, se n’è andato prima che la bambina nascesse. Stiamo cercando di rintracciarlo, ma la madre non ci è stata d’aiuto. Dice che non è necessario farglielo sapere.
– E di lei che mi dici? Come ti è sembrata? Cosa stava facendo mentre sua figlia giocava da sola in giardino? – chiese Sparkes.
– Dice che le stava preparando la cena. La cucina si affaccia sul cortile posteriore, perciò anche volendo non avrebbe potuto sorvegliarla. Non c’è recinzione, solo un muretto basso ai margini del marciapiede: lo si scavalca come niente.
– Un po’ azzardato lasciare incustodita una bambina cosí piccola, – brontolò Sparkes tra sé, cercando di ricordare come fossero i suoi figli a quell’età. Ormai James aveva trent’anni e faceva – che razza di lavoro! – il ragioniere, mentre Samantha ne aveva ventisei e si era appena fidanzata. Lui ed Eileen li avevano mai lasciati soli a giocare in giardino quand’erano piccoli? Onestamente non ricordava. All’epoca non passava molto tempo in casa, era sempre fuori per lavoro. Mise da parte la domanda per rivolgerla a Eileen piú tardi, una volta rientrato. Sempre ammesso di riuscirci, a rientrare.
L’ispettore Sparkes allungò una mano verso la giacca appesa a un gancio alle sue spalle e pescò in una tasca le chiavi dell’auto. – Meglio che vada laggiú a dare un’occhiata, Matthews. Cosí annuso l’aria e scambio due parole con la madre. Tu resta qui e prepara tutto, nel caso si debba allestire una centrale operativa. Ti chiamo prima delle sette.
Durante il viaggio verso Westland l’ispettore accese la radio per ascoltare il bollettino locale. La scomparsa di Bella era la notizia di apertura, ma a quanto pareva i giornalisti non avevano ancora scoperto nulla che lui non sapesse già.
E meno male, pensò. Aveva una relazione complicata con i mass media locali: una sorta di amore-odio.
Era già successo che in un caso analogo i reporter della zona si fossero messi a indagare per conto loro, calpestando tutte le prove. Alla fine Laura Simpson, una bambina di cinque anni di Gosport, era stata ritrovata, sporca e impaurita, dentro un armadio in casa dello zio acquisito. «Hai presente, una di quelle famiglie enormi con parenti dappertutto», aveva raccontato l’ispettore a Eileen.
Peccato però che qualche giorno prima un reporter che era andato a intervistare la madre si fosse portato via l’album delle foto di famiglia, impedendo alla polizia di riconoscere lo zio Jim – già schedato per reati sessuali – e di scoprirne i legami con la bambina scomparsa.
Aveva cercato di abusare della bambina ma non ci era riuscito, e Sparkes era convinto che avrebbe finito per ucciderla, se avesse visto i poliziotti aggirarsi intorno a casa sua. Per fortuna un altro membro della famiglia allargata si era sbronzato alla grande e aveva telefonato in centrale facendo il nome di Jim. Laura se l’era cavata con qualche ammaccatura nel corpo e nella mente, ma l’espressione dei suoi occhi quando aveva aperto l’armadio, quella, Sparkes non se la sarebbe mai scordata. Puro e semplice terrore. Terrore alla vista di uno sconosciuto che poteva anche essere uguale allo zio Jim. Sparkes aveva fatto venire un’ispettrice perché la prendesse in braccio e la tirasse fuori da lí. Al sicuro, finalmente. Tutti avevano le lacrime agli occhi, tranne Laura. Lei sembrava soltanto inebetita.
Sparkes era sempre stato convinto di averla in qualche modo tradita. Avrebbe dovuto scoprirlo prima, il nesso tra lei e quell’uomo spregevole. Avrebbe dovuto fare altre domande. Trovarla piú in fretta. Per il suo capo e per la stampa quel ritrovamento era stato un trionfo, ma l’ispettore non era affatto in vena di festeggiare. Impossibile, dopo aver visto quegli occhi.
E adesso dove sarà finita Laura?, si chiese. E lo zio Jim?
Manor Road era gremita di reporter, curiosi e poliziotti, tutti lí a intervistarsi a vicenda in una specie di orgia verbale.
Sparkes si fece largo tra la folla fino all’ingresso del 44a, salutando i giornalisti che conosceva con un cenno del capo.
A un tratto si sentí chiamare da una voce femminile. – Ciao, Bob! Novità? Indizi? – Kate Waters sgomitava per raggiungerlo e gli sorrideva con aria di finta sopportazione. L’ultima volta che l’aveva vista era per quell’orribile omicidio nella New Forest: settimane di indagini per inchiodare il marito, e nel frattempo lui e Kate si erano visti un paio di volte per chiacchierare e bere qualcosa.
Si conoscevano da un mucchio di tempo; si erano ritrovati e persi di vista nel corso di molte indagini, e a ogni nuovo incontro ricominciavano esattamente da dove erano rimasti. Non si poteva definirla un’amicizia, pensava Sparkes. Piú che altro un rapporto di lavoro, ma Kate era una in gamba. L’ultima volta aveva evitato di rendere pubblica una certa informazione un po’ delicata finché lui non le aveva dato il via libera. E dunque l’ispettore era in debito con lei.
– Oh, ciao, Kate! Sono appena arrivato, ma magari potrei avere qualcosa piú tardi, – disse Sparkes, oltrepassando l’agente che piantonava la casa.
Nel salotto c’era puzza di gatto e di sigarette. Dawn Elliott, raggomitolata sul sofà, stringeva tra le dita tremanti una bambola e un cellulare. I capelli biondi erano precariamente raccolti in una coda di cavallo che la faceva sembrare ancor piú giovane della sua età. Guardò con aria sconfortata quell’uomo alto e serio che era comparso sulla soglia del salotto, poi mormorò con un filo di voce: – L’avete trovata?
– Signora Elliott, sono l’ispettore Bob Sparkes. Sono qui per indagare sulla scomparsa di Bella, e ho bisogno del suo aiuto.
– Ma ho già detto tutto agli agenti! Che senso ha rifare mille volte le stesse domande? Ora basta, dovete trovarla! Trovate la mia bambina! – gridò la donna con voce arrochita.
Bob annuí e si sedette accanto a lei sul divano. – Abbia pazienza, Dawn, ricapitoliamo tutto ancora una volta, – le disse con gentilezza. – Magari le viene in mente un dettaglio che non ci ha ancora detto.
Dawn gli raccontò tutto per l’ennesima volta, senza piangere, anche se la voce era rotta dai singhiozzi. Bella era la sua unica figlia, frutto di una relazione fallimentare con un uomo sposato conosciuto in un locale notturno. Una bimba dolcissima, che adorava la danza e i cartoni animati. Quanto a Dawn, non aveva grandi rapporti con il vicinato. – Mi guardano tutti dall’alto in basso perché non ho un marito e vivo di sussidi. Pensano che sono una scroccona, – disse a Bob.
Nel frattempo gli uomini della squadra di Sparkes, aiutati da decine di volontari della zona, molti ancora in abiti da lavoro, perlustravano cortili, siepi, cassonetti della spazzatura, soffitte, cantine, tettoie, auto, cucce dei cani e mucchi di rifiuti organici. Mentre la luce del giorno cominciava a offuscarsi, qualcuno in strada chiamò all’improvviso: – Bella! Bella, dove sei, tesoro? – Dawn Elliott scattò in piedi e corse alla finestra.
– Venga qui, Dawn, si sieda, – disse Sparkes. – Mi dica ancora una cosa: Bella si è comportata male quest’oggi?
Lei scosse la testa.
– L’ha per caso sgridata per qualche monelleria? – seguitò Bob. – Le bambine di quell’età possono essere esasperanti, non è vero? L’ha sculacciata, o qualcosa del genere?
Il senso di quelle domande affiorò pian piano nella mente della giovane donna, che protestò la sua innocenza con voce stridula.
– Mannò, certo che no. Non la sculaccio mai. Be’, insomma, quasi mai. Solo a volte, quando fa i capricci. Ma non le ho mai fatto del male. Ispettore, qualcuno l’ha presa, me lo sento...
Sparkes le diede dei colpetti sulla mano e chiese al piantone di preparare un’altra tazza di tè.
Un giovane agente fece capolino dall’ingresso e comunicò a gesti che aveva bisogno di parlare con il capo.
– Qualcuno ha visto un tizio aggirarsi in zona verso il primo pomeriggio, – disse poi a Sparkes. – È stato un vicino a notarlo, ma non ha saputo riconoscerlo.
– Descrizione?
– Era da solo, pare. Capelli lunghi, aspetto trasandato. Il vicino l’ha visto sbirciare dentro le auto parcheggiate.
Sparkes tirò fuori il cellulare e chiamò il suo sergente. – Qui la faccenda scotta, – disse. – Della bambina non c’è traccia, ma abbiamo la descrizione di un sospetto che circolava nei paraggi. Ti mando i dettagli, tu trasmettili al resto della squadra. Io vado a parlare con il testimone.
– E poi andiamo a bussare alla porta di tutti gli abitanti delle case popolari di Westland che abbiano precedenti per reati sessuali, – aggiunse, con lo stomaco in rivolta al solo pensiero di una bambina cosí piccola nelle grinfie di uno qualsiasi dei ventidue individui già segnalati per quel genere di reati.
Il comando di polizia dello Hampshire aveva circa trecento pregiudicati sul suo territorio di competenza: una variegata popolazione di esibizionisti, voyeur, pedinatori, pedofili e violentatori che si annidavano all’interno di comunità inconsapevoli travestendosi da vicini simpatici.
Sul lato opposto della strada, affacciato alla finestra del suo grazioso villino, Stan Spencer aspettava il detective. Come Sparkes già sapeva, da qualche anno il signor Spencer aveva istituito una specie di ronda di quartiere, il cui scopo principale era impedire che gli automobilisti di passaggio gli fregassero il posto in cui si credeva in diritto di parcheggiare la sua Volvo. Gli Spencer erano pensionati e non avevano granché da fare, eccetto – nel caso di Stan – assaporare il senso di potere conferito da un portablocco e da un turno di pattuglia notturna.
Sparkes gli strinse la mano, e il signor Spencer lo fece accomodare al tavolo della sala da pranzo.
– Ispettore, le faccio una sintesi degli appunti che ho preso in tempo reale, – disse il pensionato consultando i suoi fogli, mentre Sparkes cercava di trattenere un sorriso. – Stavo aspettando che Susan tornasse dal suo giro di commissioni pomeridiane, quando ho visto avvicinarsi un tizio. Era sul nostro lato del marciapiede, e aveva un aspetto trasandato, un po’ ispido, ha presente? Temevo che volesse spaccare il finestrino di un’auto o qualcosa del genere. Bisogna stare attenti, di questi tempi, sa com’è. A un certo punto lo vedo passare accanto al furgone di Peter Tredwell...
Sparkes alzò le sopracciglia.
– Ah, mi scusi, ispettore. Peter Tredwell è l’idraulico che abita qui vicino, e gli hanno già scassinato il furgone diverse volte. L’ultimo tentativo l’ho mandato a monte io, personalmente. Quindi, le dicevo, sono uscito a sorvegliare quel tizio, ma ormai si era allontanato. Purtroppo l’ho solo visto di schiena: capelli lunghi e unti, jeans, giaccone nero col cappuccio. Un attimo dopo sono dovuto rientrare perché il telefono di casa stava squillando, e quando sono tornato fuori lui non c’era piú.
Il signor Spencer era molto soddisfatto: l’ispettore prendeva nota di ogni sua parola.
– Quando è uscito sul vialetto, ha notato per caso se Bella era in giardino?
Spencer esitò un istante, poi scosse la testa. – No. Era già qualche giorno che non la vedevo. Una bimbetta cosí graziosa!
Cinque minuti dopo, Sparkes era rientrato in casa di Dawn Elliott: appollaiato su una sedia nell’ingresso, buttò giú un rapido comunicato stampa. Quand’ebbe finito tornò in salotto e si sedette sul divano.
– C’è qualche notizia? – chiese Dawn.
– Nessuna novità, per ora, ma diremo ai giornali che abbiamo bisogno del loro aiuto per trovare Bella. E...
– E cosa? – lo incalzò lei.
– E che vogliamo identificare tutte le persone che sono transitate in questa zona oggi pomeriggio. Chiunque sia passato da Manor Road, a piedi o in auto. Lei ha visto qualcuno, Dawn? Il signor Spencer, che abita di fronte, dice di aver visto un tizio con i capelli lunghi e un giaccone scuro, e sostiene di non averlo mai incontrato prima. Potrebbe essere irrilevante, ma...
Dawn fece segno di no con la testa, mentre le lacrime le rigavano le guance. – È stato lui a portare via Bella? – domandò. – L’ha presa lui la mia bambina?
6.
La vedova
Mercoledí, 9 giugno 2010
Altri passi sulla ghiaia. Il telefono di Kate fa due squilli, poi smette. Dev’essere una specie di segnale, perché lei corre ad aprire e fa entrare un tizio con un borsone a tracolla.
– Questo è Mick, – dice. – Il mio fotografo.
Mick sorride e mi tende la mano. – Piacere, signora Taylor –. È venuto a prenderci, e ci porterà in albergo. – Un bel posticino tranquillo, – dice, ma io non sono mica convinta. Succede tutto troppo in fretta.
– No, aspettate un minuto, – dico io. Ma quei due non mi dànno ascolto.
Kate e Mick stanno discutendo su come superare la barriera dei reporter davanti al cancelletto. Il tizio della televisione deve aver detto a qualcuno che non ero sola in casa, e adesso quelli là fanno a turno per bussare, e si affacciano alla buca delle lettere gridando il mio nome. È terribile, è un incubo: come all’inizio.
Ce l’avevano con Glen, allora. Lo accusavano di cose orribili.
«Che cosa ha fatto, signor Taylor?» urlavano.
«Hai le mani sporche di sangue, brutto pervertito?» aveva detto il tizio del «Sun» una sera che Glen era uscito a portare fuori la spazzatura. Cosí, davanti a tutti. E un altro aveva sputato per terra.
Glen era rientrato tutto tremante.
Povero Glen. Per fortuna c’ero io ad aiutarlo. Gli accarezzavo una mano, gli dicevo di non badare a quelli là. Adesso però sono sola, e non so mica se posso farcela.
Sento una voce che grida cose orribili al di là della porta: – Lo so che è in casa, signora Taylor. Hanno detto che la pagano per farsi intervistare? Sono soldi sporchi di sangue, lo sa? E cosa dirà la gente, quando saprà che li ha presi?
Mi sento come se mi avessero presa a schiaffi. Kate si gira e mi accarezza la mano. Dice di non starli a sentire, che ci penserà lei a farli smettere.
Io vorrei tanto fidarmi, ma ho una gran confusione in testa. Cosa significa «farli smettere»? L’unica è nascondersi da qualche parte, diceva Glen.
«Dobbiamo aspettare che passi», diceva.
Kate però ha un’altra teoria: secondo lei bisogna partire all’attacco. Dice che per metterli a tacere dovrei reagire, raccontare la mia versione della storia. Io sarei contentissima di metterli a tacere, ma non mi va di stare sotto i riflettori. Solo a pensarci mi sento paralizzata.
– Su, forza, Jean, – mi dice Kate, vedendomi ancora seduta in poltrona. – Ce la possiamo fare. Noi due insieme, un passetto per volta. Tra cinque minuti sarà tutto finito, nessuno saprà piú dov’è.
A parte lei, certo.
Ma siccome non ce la faccio piú a reggere gli insulti di quelle bestie là fuori, decido che va bene e comincio a raccogliere le mie cose. Tiro fuori un po’ di mutande dall’asciugatrice e le caccio dentro la borsa. Salgo su a prendere lo spazzolino da denti. Le chiavi, dove sono le chiavi?
– Solo lo stretto indispensabile, Jean, – si raccomanda Kate. Dice che appena saremo arrivate andrà a comprarmi tutto quel che serve. «Arrivate dove?» vorrei chiederle, ma si è di nuovo girata dall’altra parte. È al telefono, parla con «la redazione».
Quando parla con la redazione ha una voce diversa. Tesa, un po’ affannata, come se avesse appena fatto le scale.
– Okay, Terry, – dice. – No, Jean è qui con noi. Ti chiamo dopo –. Capisco, non vuole parlargli in mia presenza. Cosa vorranno sapere quelli della redazione? Quanti soldi ha promesso di darmi? Se sono fotogenica?
«Be’, è un attimino sconvolta, ma possiamo renderla presentabile». Chissà, magari voleva rispondergli cosí. Mi viene di nuovo il panico e sto quasi per dirgli che ho cambiato idea, ma succede tutto cosí in fretta.
Kate dice che andrà fuori a distrarre «quelli là». E mentre lei esce dalla porta principale e finge di preparare la macchina, io e Mick usciamo dal retro e ce la filiamo via scavalcando lo steccato. Non riesco a credere che sto per fare una cosa cosí assurda. Riprovo a dire: – Ehi, un momento! – ma Kate mi spinge verso la porta che dà sul cortile.
Aspettiamo che esca. All’improvviso c’è un rumore assordante, come uno stormo di uccelli che si alzi in volo dal mio giardino.
– Paparazzi, – mormora Mick. Ce l’ha coi suoi colleghi, credo. Poi mi butta la sua giacca sulla testa, mi prende per mano e mi tira. Siamo in cortile. Non vedo granché da sotto la giacca, e soprattutto sono in ciabatte. Faccio per correre, ma mi scivolano i piedi. Tutto questo è ridicolo! La giacca cade, non vuole star su. Oh, santo cielo, c’è Lisa! Mi guarda a bocca aperta da dietro una finestra. La saluto cosí, con la mano un po’ moscia. Chissà perché, poi: non ci parliamo da secoli.
Arriviamo allo steccato e Mick mi aiuta a scavalcare. Non è cosí alto, in effetti: piú che altro serve per bellezza. Ho i pantaloni, per fortuna, ma passarlo è comunque un’impresa. La macchina è parcheggiata all’angolo, dice Mick, perciò camminiamo lentamente fino in fondo al vicolo, sperando di non trovare dei giornalisti anche lí. All’improvviso mi viene da piangere. Sto per salire in auto con della gente che non conosco, per andare Dio solo sa dove. Una pazzia cosí non l’avevo mai fatta.
A Glen sarebbe venuto un colpo. A lui piaceva stare abbottonato, anche prima di avere a che fare con la polizia. Abitiamo qui da una vita, da quando ci siamo sposati, cioè, ma ce ne siamo sempre stati per conto nostro, e ai vicini non è parso vero di poterlo raccontare ai giornalisti. È cosí, no? Quando la polizia trova un cadavere, o un bimbo maltrattato, i vicini dicono: «Oh, era gente che se ne stava per conto proprio». Nel nostro caso era vero, però. E c’è stato qualcuno – non so piú chi, forse la signora Grange della casa di fronte – che ha osato dire a tutti che Glen aveva uno sguardo cattivo. Macché, aveva dei begli occhi, invece. Azzurri, con le ciglia un po’ lunghe. Occhi da ragazzino. Occhi che mi frugavano dentro.
E comunque lui diceva sempre: «Noi ci facciamo gli affari nostri e basta, Jeanie». Ma poi a un certo punto i nostri affari sono diventati gli affari di tutti, ed è stato tremendo.
Il furgone di Mick è luridissimo. Non si riesce neanche a vedere il pavimento per via di tutti quei giornali vecchi, sacchetti di patatine, incarti di hamburger. C’è un rasoio attaccato alla presa dell’accendino, una bottiglia grossa di Coca-Cola che rotola davanti al sedile del passeggero.
– Scusi il disordine, – dice lui. – Praticamente ci abito, qui dentro.
Non posso neanche sedermi davanti: Mick mi fa fare il giro e apre le porte di dietro. – Salga, Jean, – mi dice, tenendomi per un braccio. Mi mette una mano sulla testa e me la fa abbassare, altrimenti rischio di sbattere. – Stia giú per un po’, quando siamo lontani le do il via libera per alzarsi.
Faccio appena in tempo a dire «Ma...» che lui ha già chiuso le porte; e mi ritrovo al buio, seduta per terra, fra attrezzi fotografici e sacchetti della spazzatura.
Altri passi sulla ghiaia. Il telefono di Kate fa due squilli, poi smette. Dev’essere una specie di segnale, perché lei corre ad aprire e fa entrare un tizio con un borsone a tracolla.
– Questo è Mick, – dice. – Il mio fotografo.
Mick sorride e mi tende la mano. – Piacere, signora Taylor –. È venuto a prenderci, e ci porterà in albergo. – Un bel posticino tranquillo, – dice, ma io non sono mica convinta. Succede tutto troppo in fretta.
– No, aspettate un minuto, – dico io. Ma quei due non mi dànno ascolto.
Kate e Mick stanno discutendo su come superare la barriera dei reporter davanti al cancelletto. Il tizio della televisione deve aver detto a qualcuno che non ero sola in casa, e adesso quelli là fanno a turno per bussare, e si affacciano alla buca delle lettere gridando il mio nome. È terribile, è un incubo: come all’inizio.
Ce l’avevano con Glen, allora. Lo accusavano di cose orribili.
«Che cosa ha fatto, signor Taylor?» urlavano.
«Hai le mani sporche di sangue, brutto pervertito?» aveva detto il tizio del «Sun» una sera che Glen era uscito a portare fuori la spazzatura. Cosí, davanti a tutti. E un altro aveva sputato per terra.
Glen era rientrato tutto tremante.
Povero Glen. Per fortuna c’ero io ad aiutarlo. Gli accarezzavo una mano, gli dicevo di non badare a quelli là. Adesso però sono sola, e non so mica se posso farcela.
Sento una voce che grida cose orribili al di là della porta: – Lo so che è in casa, signora Taylor. Hanno detto che la pagano per farsi intervistare? Sono soldi sporchi di sangue, lo sa? E cosa dirà la gente, quando saprà che li ha presi?
Mi sento come se mi avessero presa a schiaffi. Kate si gira e mi accarezza la mano. Dice di non starli a sentire, che ci penserà lei a farli smettere.
Io vorrei tanto fidarmi, ma ho una gran confusione in testa. Cosa significa «farli smettere»? L’unica è nascondersi da qualche parte, diceva Glen.
«Dobbiamo aspettare che passi», diceva.
Kate però ha un’altra teoria: secondo lei bisogna partire all’attacco. Dice che per metterli a tacere dovrei reagire, raccontare la mia versione della storia. Io sarei contentissima di metterli a tacere, ma non mi va di stare sotto i riflettori. Solo a pensarci mi sento paralizzata.
– Su, forza, Jean, – mi dice Kate, vedendomi ancora seduta in poltrona. – Ce la possiamo fare. Noi due insieme, un passetto per volta. Tra cinque minuti sarà tutto finito, nessuno saprà piú dov’è.
A parte lei, certo.
Ma siccome non ce la faccio piú a reggere gli insulti di quelle bestie là fuori, decido che va bene e comincio a raccogliere le mie cose. Tiro fuori un po’ di mutande dall’asciugatrice e le caccio dentro la borsa. Salgo su a prendere lo spazzolino da denti. Le chiavi, dove sono le chiavi?
– Solo lo stretto indispensabile, Jean, – si raccomanda Kate. Dice che appena saremo arrivate andrà a comprarmi tutto quel che serve. «Arrivate dove?» vorrei chiederle, ma si è di nuovo girata dall’altra parte. È al telefono, parla con «la redazione».
Quando parla con la redazione ha una voce diversa. Tesa, un po’ affannata, come se avesse appena fatto le scale.
– Okay, Terry, – dice. – No, Jean è qui con noi. Ti chiamo dopo –. Capisco, non vuole parlargli in mia presenza. Cosa vorranno sapere quelli della redazione? Quanti soldi ha promesso di darmi? Se sono fotogenica?
«Be’, è un attimino sconvolta, ma possiamo renderla presentabile». Chissà, magari voleva rispondergli cosí. Mi viene di nuovo il panico e sto quasi per dirgli che ho cambiato idea, ma succede tutto cosí in fretta.
Kate dice che andrà fuori a distrarre «quelli là». E mentre lei esce dalla porta principale e finge di preparare la macchina, io e Mick usciamo dal retro e ce la filiamo via scavalcando lo steccato. Non riesco a credere che sto per fare una cosa cosí assurda. Riprovo a dire: – Ehi, un momento! – ma Kate mi spinge verso la porta che dà sul cortile.
Aspettiamo che esca. All’improvviso c’è un rumore assordante, come uno stormo di uccelli che si alzi in volo dal mio giardino.
– Paparazzi, – mormora Mick. Ce l’ha coi suoi colleghi, credo. Poi mi butta la sua giacca sulla testa, mi prende per mano e mi tira. Siamo in cortile. Non vedo granché da sotto la giacca, e soprattutto sono in ciabatte. Faccio per correre, ma mi scivolano i piedi. Tutto questo è ridicolo! La giacca cade, non vuole star su. Oh, santo cielo, c’è Lisa! Mi guarda a bocca aperta da dietro una finestra. La saluto cosí, con la mano un po’ moscia. Chissà perché, poi: non ci parliamo da secoli.
Arriviamo allo steccato e Mick mi aiuta a scavalcare. Non è cosí alto, in effetti: piú che altro serve per bellezza. Ho i pantaloni, per fortuna, ma passarlo è comunque un’impresa. La macchina è parcheggiata all’angolo, dice Mick, perciò camminiamo lentamente fino in fondo al vicolo, sperando di non trovare dei giornalisti anche lí. All’improvviso mi viene da piangere. Sto per salire in auto con della gente che non conosco, per andare Dio solo sa dove. Una pazzia cosí non l’avevo mai fatta.
A Glen sarebbe venuto un colpo. A lui piaceva stare abbottonato, anche prima di avere a che fare con la polizia. Abitiamo qui da una vita, da quando ci siamo sposati, cioè, ma ce ne siamo sempre stati per conto nostro, e ai vicini non è parso vero di poterlo raccontare ai giornalisti. È cosí, no? Quando la polizia trova un cadavere, o un bimbo maltrattato, i vicini dicono: «Oh, era gente che se ne stava per conto proprio». Nel nostro caso era vero, però. E c’è stato qualcuno – non so piú chi, forse la signora Grange della casa di fronte – che ha osato dire a tutti che Glen aveva uno sguardo cattivo. Macché, aveva dei begli occhi, invece. Azzurri, con le ciglia un po’ lunghe. Occhi da ragazzino. Occhi che mi frugavano dentro.
E comunque lui diceva sempre: «Noi ci facciamo gli affari nostri e basta, Jeanie». Ma poi a un certo punto i nostri affari sono diventati gli affari di tutti, ed è stato tremendo.
Il furgone di Mick è luridissimo. Non si riesce neanche a vedere il pavimento per via di tutti quei giornali vecchi, sacchetti di patatine, incarti di hamburger. C’è un rasoio attaccato alla presa dell’accendino, una bottiglia grossa di Coca-Cola che rotola davanti al sedile del passeggero.
– Scusi il disordine, – dice lui. – Praticamente ci abito, qui dentro.
Non posso neanche sedermi davanti: Mick mi fa fare il giro e apre le porte di dietro. – Salga, Jean, – mi dice, tenendomi per un braccio. Mi mette una mano sulla testa e me la fa abbassare, altrimenti rischio di sbattere. – Stia giú per un po’, quando siamo lontani le do il via libera per alzarsi.
Faccio appena in tempo a dire «Ma...» che lui ha già chiuso le porte; e mi ritrovo al buio, seduta per terra, fra attrezzi fotografici e sacchetti della spazzatura.
7.
L’ispettore
Giovedí, 5 ottobre 2006
Bob Sparkes sbadigliò rumorosamente, stirò le braccia in alto e inarcò la schiena dolorante. Cercava di non guardare l’orologio sulla scrivania, ma quello continuava a fargli l’occhiolino, e alla fine fu costretto a cedere. Le due del mattino. Tre giorni di ricerche, e di Bella neanche una traccia.
Avevano verificato decine e decine di segnalazioni di individui trasandati con i capelli lunghi, allontanandosi sempre piú dal luogo della scomparsa, ma era un lavoro minuzioso e troppo lento.
Sparkes cercava di non domandarsi cosa stesse succedendo a Bella Elliott in quel momento – o cosa forse le era già successo. Doveva assolutamente trovarla.
– Dove sei, Bella? – chiese al ritratto della bambina che teneva sulla scrivania. La faccia di Bella era ovunque: nella stanza adibita a centrale operativa sorrideva ai poliziotti chini sulle scrivanie da almeno una decina di foto, come una piccola divinità benedicente. Anche i giornali traboccavano di immagini della piccola Bella.
Sparkes si passò una mano sulla testa, prendendo nota dell’incipiente calvizie. «Forza, su, pensa qualcosa!» si disse, sporgendosi verso lo schermo del computer. Ripassò per l’ennesima volta i profili e le dichiarazioni dei vari pregiudicati per reati sessuali della zona, cercando di scoprirvi una minima incrinatura, ma niente: neanche l’ombra di una pista.
Che individui patetici, tutti quanti. Creature solitarie dai denti guasti e dai corpi maleodoranti che vivevano le loro fantasie in un universo virtuale, avventurandosi ogni tanto nella realtà alla ricerca di occasioni fortunate.
E poi c’erano i recidivi: gente come Paul Silver, che aveva abusato dei figli per anni ed era finito in gattabuia. Gli agenti erano passati da casa sua, ma la moglie (la terza moglie?, si domandò Sparkes. O era sempre Diane?) aveva stancamente confermato che sí, Paul era di nuovo dentro, condannato a cinque anni per rapina. Ha cambiato settore, a quanto pare, aveva detto Sparkes al suo sergente.
E naturalmente Bella era stata avvistata praticamente dappertutto nelle ultime quarantott’ore. Gli agenti erano corsi a verificare, e certe segnalazioni gli avevano persino procurato qualche brivido.
Una donna che abitava nei dintorni di Newark aveva chiamato per dire che la sua nuova vicina aveva passato il pomeriggio a giocare in giardino con una bambina. – Una bimba bionda, piccolina. Non avevo mai visto dei bambini in casa sua. Pensavo non ne avesse –. Sparkes aveva allertato il comando di zona ed era rimasto ad aspettare notizie.
– È sua nipote, venuta a trovarla dalla Scozia, – gli aveva riferito piú tardi il collega di zona, deluso quanto lui. – Mi spiace. Magari la prossima volta andrà meglio.
Eh, già, magari. Il problema era che la maggior parte delle persone che chiamavano la centrale operativa erano opportunisti o gente in cerca di notorietà, che non vedeva l’ora di aggiudicarsi una particina nel dramma.
L’unica cosa certa era che l’ultima persona a vedere Bella, a parte sua madre, era stata la proprietaria dell’edicola-tabaccheria poco lontano da casa. Una vecchietta piuttosto loquace che ricordava benissimo di aver visto madre e figlia entrare in negozio intorno alle undici e trenta. Erano clienti regolari, soprattutto Dawn, che veniva a comprarsi le sigarette. Quell’ultima visita di Bella e di sua madre era immortalata nelle immagini sgranate e intermittenti della vecchia telecamera che sorvegliava il negozio.
Ecco la piccola che si avvicina al bancone, tenuta per mano da sua madre; primo piano sul viso della bambina, lineamenti nebulosi e indistinti come se stesse già cominciando a scomparire, un sacchetto di carta in mano; e nell’immagine successiva, la porta del negozio che si chiude alle loro spalle.
La madre di Dawn aveva chiamato la figlia dopo pranzo, alle due e diciassette, secondo i tabulati telefonici: ai poliziotti aveva detto di aver sentito in sottofondo la voce della nipotina, e di aver chiesto a Dawn di passargliela. Ma Bella, a quanto risultava, si era allontanata per andare a prendere un giocattolo.
L’unica ricostruzione dei sessantotto minuti successivi era quella di Dawn. Vaga, e intervallata dalle incombenze domestiche. Gli agenti le avevano chiesto di ripetere gli stessi gesti (la preparazione della cena, l’estrazione del bucato dall’asciugatrice) per farsi un’idea dei minuti trascorsi dal momento in cui Bella era uscita a giocare in giardino, poco dopo le tre.
Margaret Emerson, della casa accanto, era uscita a prendere qualcosa in macchina intorno alle tre e venticinque, ed era sicura di non aver visto nessuno nel giardino di Dawn. – Bella mi faceva sempre «Cucú!» quando mi vedeva. Si divertiva cosí, povera piccina: le piaceva essere al centro dell’attenzione, e non è che sua madre fosse sempre disponibile, – aveva osservato la signora Emerson con un certo puntiglio. – Giocava spesso da sola: si portava appresso la bambola, oppure inseguiva il suo gatto, Timmy. Le solite cose che fanno i bimbi, sa.
– Piangeva spesso, Bella?
La domanda aveva comportato una breve pausa di riflessione, ma la risposta era stata inequivocabile: – No, era una creaturina felice.
Il medico di famiglia e l’assistente sanitaria avevano confermato. – Una bellissima bambina... Un tesorino, – avevano sentenziato in coro. – La mamma ha avuto i suoi guai... Capirà, non è semplice tirare su una figlia da sola, – aveva aggiunto il medico. Sparkes aveva annuito, fingendo di capire. Tutte le dichiarazioni erano state annotate negli ormai gonfi fascicoli delle testimonianze, prova tangibile dell’impegno profuso dai tutori dell’ordine; ma erano solo chiacchiere senza costrutto, e Sparkes lo sapeva benissimo. Erano inchiodati, e non c’era verso di andare avanti.
L’uomo dai capelli lunghi era la chiave del mistero, disse tra sé spegnendo il computer e impilando con cura i fascicoli sulla scrivania, prima di andare a casa e concedersi cinque ore di sonno.
– Chissà, magari domani la troviamo, – sussurrò alla moglie già addormentata mentre si infilava sotto le coperte.
Una settimana dopo, ancora nessuna notizia, e al telefono c’era Kate Waters.
– Ciao Bob, volevo dirti che il nostro direttore ha deciso di offrire una ricompensa a chiunque fornisca informazioni utili per ritrovare Bella. Ventimila sterline: mica poco, eh?
Sparkes trattenne un gemito. – Cazzo di ricompense, – avrebbe bofonchiato con Matthews piú tardi. – I giornali si beccano la pubblicità, e noi dobbiamo sorbirci tutti i pazzi e gli imbroglioni del Paese.
Ma a Kate disse solo: – Molto generoso da parte vostra. Siete certi che sia il momento giusto? Stiamo già lavorando su diverse...
– Esce domani in prima pagina, Bob, – tagliò corto lei. – Senti, lo so che di solito non apprezzate queste cose, ma magari c’è qualcuno che ha visto o sentito qualcosa però non ha tanta voglia di chiamarvi, e ventimila sterline potrebbero convincerlo a prendere in mano il telefono.
Sparkes sospirò. – Vado a dirlo a Dawn. Devo prepararla.
– Giusto, – fece Kate. – Ma senti, quante probabilità ho di poter fare una chiacchierata con lei? Alla conferenza stampa non è quasi riuscita ad aprir bocca, poveretta. Magari in un’intervista a quattr’occhi potrebbe dire qualcosa in piú. Ti prometto che non sarò invadente, Bob. Che ne pensi?
Bob pensava che avrebbe fatto meglio a non rispondere alla chiamata. Kate gli era simpatica, certo, e non erano molti i giornalisti di cui poteva dire altrettanto, ma quando dava la caccia a qualcosa era peggio di un terrier con un osso in bocca: non mollava finché non l’aveva vinta. Ma forse né lui né Dawn erano pronti per rispondere alle sue domande.
La madre di Bella era ancora in gran parte un’incognita: completamente frastornata, imbottita di tranquillanti per sopportare l’angoscia, incapace di concentrarsi su qualsiasi cosa per piú di trenta secondi. Bob Sparkes aveva trascorso ore e ore con lei, e sentiva di conoscerla appena. Era il caso di darla in pasto a Kate Waters?
– Parlare con qualcuno che non è nella polizia potrebbe esserle d’aiuto, Bob. Magari le torna in mente qualcosa...
– E va bene, Kate, gliene accennerò, ma non sono sicuro che possa farcela. Prende un mucchio di tranquillanti e sonniferi, e ha difficoltà a concentrarsi.
– Fantastico. Grazie, Bob –. La voce di Kate tradiva un sorriso.
– Aspetta un attimo, non c’è ancora niente di deciso. Dammi il tempo di parlarne con lei, poi ti faccio sapere.
Arrivato a casa di Dawn, Sparkes la trovò seduta esattamente nello stesso punto in cui l’aveva vista la prima volta: su quel divano che era ormai diventato la sua arca, tra giocattoli di Bella, pacchetti di sigarette vuoti e accartocciati, pagine di giornale strappate, biglietti di auguri di gente benevola, lettere grondanti di astio scritte a mano su taccuini a righe.
– Hai dormito un po’, cara? – le chiese.
Sue Blackman, la giovane poliziotta in uniforme che piantonava la casa, scosse la testa in silenzio e alzò le sopracciglia.
– Non posso dormire, – disse Dawn. – Devo essere sveglia per quando torna a casa.
Sparkes pilotò l’agente Blackman verso il corridoio. – Falla dormire un po’, altrimenti finisce in ospedale, – bisbigliò.
– Lo so, signore. Di giorno si appisola ogni tanto sul divano, ma quando fa buio non c’è verso. Dice che Bella ha paura del buio.
Bob Sparkes sbadigliò rumorosamente, stirò le braccia in alto e inarcò la schiena dolorante. Cercava di non guardare l’orologio sulla scrivania, ma quello continuava a fargli l’occhiolino, e alla fine fu costretto a cedere. Le due del mattino. Tre giorni di ricerche, e di Bella neanche una traccia.
Avevano verificato decine e decine di segnalazioni di individui trasandati con i capelli lunghi, allontanandosi sempre piú dal luogo della scomparsa, ma era un lavoro minuzioso e troppo lento.
Sparkes cercava di non domandarsi cosa stesse succedendo a Bella Elliott in quel momento – o cosa forse le era già successo. Doveva assolutamente trovarla.
– Dove sei, Bella? – chiese al ritratto della bambina che teneva sulla scrivania. La faccia di Bella era ovunque: nella stanza adibita a centrale operativa sorrideva ai poliziotti chini sulle scrivanie da almeno una decina di foto, come una piccola divinità benedicente. Anche i giornali traboccavano di immagini della piccola Bella.
Sparkes si passò una mano sulla testa, prendendo nota dell’incipiente calvizie. «Forza, su, pensa qualcosa!» si disse, sporgendosi verso lo schermo del computer. Ripassò per l’ennesima volta i profili e le dichiarazioni dei vari pregiudicati per reati sessuali della zona, cercando di scoprirvi una minima incrinatura, ma niente: neanche l’ombra di una pista.
Che individui patetici, tutti quanti. Creature solitarie dai denti guasti e dai corpi maleodoranti che vivevano le loro fantasie in un universo virtuale, avventurandosi ogni tanto nella realtà alla ricerca di occasioni fortunate.
E poi c’erano i recidivi: gente come Paul Silver, che aveva abusato dei figli per anni ed era finito in gattabuia. Gli agenti erano passati da casa sua, ma la moglie (la terza moglie?, si domandò Sparkes. O era sempre Diane?) aveva stancamente confermato che sí, Paul era di nuovo dentro, condannato a cinque anni per rapina. Ha cambiato settore, a quanto pare, aveva detto Sparkes al suo sergente.
E naturalmente Bella era stata avvistata praticamente dappertutto nelle ultime quarantott’ore. Gli agenti erano corsi a verificare, e certe segnalazioni gli avevano persino procurato qualche brivido.
Una donna che abitava nei dintorni di Newark aveva chiamato per dire che la sua nuova vicina aveva passato il pomeriggio a giocare in giardino con una bambina. – Una bimba bionda, piccolina. Non avevo mai visto dei bambini in casa sua. Pensavo non ne avesse –. Sparkes aveva allertato il comando di zona ed era rimasto ad aspettare notizie.
– È sua nipote, venuta a trovarla dalla Scozia, – gli aveva riferito piú tardi il collega di zona, deluso quanto lui. – Mi spiace. Magari la prossima volta andrà meglio.
Eh, già, magari. Il problema era che la maggior parte delle persone che chiamavano la centrale operativa erano opportunisti o gente in cerca di notorietà, che non vedeva l’ora di aggiudicarsi una particina nel dramma.
L’unica cosa certa era che l’ultima persona a vedere Bella, a parte sua madre, era stata la proprietaria dell’edicola-tabaccheria poco lontano da casa. Una vecchietta piuttosto loquace che ricordava benissimo di aver visto madre e figlia entrare in negozio intorno alle undici e trenta. Erano clienti regolari, soprattutto Dawn, che veniva a comprarsi le sigarette. Quell’ultima visita di Bella e di sua madre era immortalata nelle immagini sgranate e intermittenti della vecchia telecamera che sorvegliava il negozio.
Ecco la piccola che si avvicina al bancone, tenuta per mano da sua madre; primo piano sul viso della bambina, lineamenti nebulosi e indistinti come se stesse già cominciando a scomparire, un sacchetto di carta in mano; e nell’immagine successiva, la porta del negozio che si chiude alle loro spalle.
La madre di Dawn aveva chiamato la figlia dopo pranzo, alle due e diciassette, secondo i tabulati telefonici: ai poliziotti aveva detto di aver sentito in sottofondo la voce della nipotina, e di aver chiesto a Dawn di passargliela. Ma Bella, a quanto risultava, si era allontanata per andare a prendere un giocattolo.
L’unica ricostruzione dei sessantotto minuti successivi era quella di Dawn. Vaga, e intervallata dalle incombenze domestiche. Gli agenti le avevano chiesto di ripetere gli stessi gesti (la preparazione della cena, l’estrazione del bucato dall’asciugatrice) per farsi un’idea dei minuti trascorsi dal momento in cui Bella era uscita a giocare in giardino, poco dopo le tre.
Margaret Emerson, della casa accanto, era uscita a prendere qualcosa in macchina intorno alle tre e venticinque, ed era sicura di non aver visto nessuno nel giardino di Dawn. – Bella mi faceva sempre «Cucú!» quando mi vedeva. Si divertiva cosí, povera piccina: le piaceva essere al centro dell’attenzione, e non è che sua madre fosse sempre disponibile, – aveva osservato la signora Emerson con un certo puntiglio. – Giocava spesso da sola: si portava appresso la bambola, oppure inseguiva il suo gatto, Timmy. Le solite cose che fanno i bimbi, sa.
– Piangeva spesso, Bella?
La domanda aveva comportato una breve pausa di riflessione, ma la risposta era stata inequivocabile: – No, era una creaturina felice.
Il medico di famiglia e l’assistente sanitaria avevano confermato. – Una bellissima bambina... Un tesorino, – avevano sentenziato in coro. – La mamma ha avuto i suoi guai... Capirà, non è semplice tirare su una figlia da sola, – aveva aggiunto il medico. Sparkes aveva annuito, fingendo di capire. Tutte le dichiarazioni erano state annotate negli ormai gonfi fascicoli delle testimonianze, prova tangibile dell’impegno profuso dai tutori dell’ordine; ma erano solo chiacchiere senza costrutto, e Sparkes lo sapeva benissimo. Erano inchiodati, e non c’era verso di andare avanti.
L’uomo dai capelli lunghi era la chiave del mistero, disse tra sé spegnendo il computer e impilando con cura i fascicoli sulla scrivania, prima di andare a casa e concedersi cinque ore di sonno.
– Chissà, magari domani la troviamo, – sussurrò alla moglie già addormentata mentre si infilava sotto le coperte.
Una settimana dopo, ancora nessuna notizia, e al telefono c’era Kate Waters.
– Ciao Bob, volevo dirti che il nostro direttore ha deciso di offrire una ricompensa a chiunque fornisca informazioni utili per ritrovare Bella. Ventimila sterline: mica poco, eh?
Sparkes trattenne un gemito. – Cazzo di ricompense, – avrebbe bofonchiato con Matthews piú tardi. – I giornali si beccano la pubblicità, e noi dobbiamo sorbirci tutti i pazzi e gli imbroglioni del Paese.
Ma a Kate disse solo: – Molto generoso da parte vostra. Siete certi che sia il momento giusto? Stiamo già lavorando su diverse...
– Esce domani in prima pagina, Bob, – tagliò corto lei. – Senti, lo so che di solito non apprezzate queste cose, ma magari c’è qualcuno che ha visto o sentito qualcosa però non ha tanta voglia di chiamarvi, e ventimila sterline potrebbero convincerlo a prendere in mano il telefono.
Sparkes sospirò. – Vado a dirlo a Dawn. Devo prepararla.
– Giusto, – fece Kate. – Ma senti, quante probabilità ho di poter fare una chiacchierata con lei? Alla conferenza stampa non è quasi riuscita ad aprir bocca, poveretta. Magari in un’intervista a quattr’occhi potrebbe dire qualcosa in piú. Ti prometto che non sarò invadente, Bob. Che ne pensi?
Bob pensava che avrebbe fatto meglio a non rispondere alla chiamata. Kate gli era simpatica, certo, e non erano molti i giornalisti di cui poteva dire altrettanto, ma quando dava la caccia a qualcosa era peggio di un terrier con un osso in bocca: non mollava finché non l’aveva vinta. Ma forse né lui né Dawn erano pronti per rispondere alle sue domande.
La madre di Bella era ancora in gran parte un’incognita: completamente frastornata, imbottita di tranquillanti per sopportare l’angoscia, incapace di concentrarsi su qualsiasi cosa per piú di trenta secondi. Bob Sparkes aveva trascorso ore e ore con lei, e sentiva di conoscerla appena. Era il caso di darla in pasto a Kate Waters?
– Parlare con qualcuno che non è nella polizia potrebbe esserle d’aiuto, Bob. Magari le torna in mente qualcosa...
– E va bene, Kate, gliene accennerò, ma non sono sicuro che possa farcela. Prende un mucchio di tranquillanti e sonniferi, e ha difficoltà a concentrarsi.
– Fantastico. Grazie, Bob –. La voce di Kate tradiva un sorriso.
– Aspetta un attimo, non c’è ancora niente di deciso. Dammi il tempo di parlarne con lei, poi ti faccio sapere.
Arrivato a casa di Dawn, Sparkes la trovò seduta esattamente nello stesso punto in cui l’aveva vista la prima volta: su quel divano che era ormai diventato la sua arca, tra giocattoli di Bella, pacchetti di sigarette vuoti e accartocciati, pagine di giornale strappate, biglietti di auguri di gente benevola, lettere grondanti di astio scritte a mano su taccuini a righe.
– Hai dormito un po’, cara? – le chiese.
Sue Blackman, la giovane poliziotta in uniforme che piantonava la casa, scosse la testa in silenzio e alzò le sopracciglia.
– Non posso dormire, – disse Dawn. – Devo essere sveglia per quando torna a casa.
Sparkes pilotò l’agente Blackman verso il corridoio. – Falla dormire un po’, altrimenti finisce in ospedale, – bisbigliò.
– Lo so, signore. Di giorno si appisola ogni tanto sul divano, ma quando fa buio non c’è verso. Dice che Bella ha paura del buio.
8.
La giornalista
Mercoledí, 11 ottobre 2006
Kate Waters arrivò a casa di Dawn verso l’ora di pranzo, insieme a un fotografo e a un pretenzioso mazzo di gigli del supermercato. Aveva parcheggiato un po’ piú avanti, lontano dal branco di giornalisti che stazionava davanti al 44a, in modo da poter scendere dall’auto senza attirare troppa attenzione. Mentre passava accanto ai colleghi che masticavano hamburger seduti in auto in attesa di sviluppi, fece uno squillo a Bob Sparkes per informarlo che era arrivata. Gli altri giornalisti ebbero appena il tempo di saltare fuori dalle macchine e vederla entrare in casa di Dawn. Qualcuno imprecò a voce alta, altri brontolarono; lei si sforzò di non sorridere.
Mentre l’ispettore le faceva strada, Kate notò ogni dettaglio del disordine e dell’incuria che rispecchiavano il dolore della casa: il giaccone azzurro di Bella, con il cappuccio bordato di pelo, era abbandonato sul corrimano accanto a un piccolo zaino a forma di orsacchiotto; i suoi stivaletti da pioggia rossi luccicavano accanto alla porta.
– Fammi una foto di questi, Mick, – sussurrò al fotografo che la seguiva.
Il salotto era disseminato di giocattoli e foto di Bella: Kate ricordò come in un lampo l’infanzia dei suoi figli e la sua lotta disperata contro la marea del caos. Al suo ritorno dall’ospedale, con Jake appena nato in braccio, era scoppiata in lacrime appena entrata in casa, frastornata dalla tempesta ormonale e dall’improvvisa consapevolezza della nuova responsabilità. E pensare che il giorno dopo il parto aveva addirittura chiesto all’ostetrica se poteva prendere in braccio il suo bambino, neanche Jake fosse una proprietà dell’ospedale.
La madre di Bella, con la faccia raggrinzita e invecchiata dal pianto, guardò la giornalista. Kate sorrise, le prese la mano e la strinse brevemente, senza muovere il braccio.
– Buongiorno, Dawn, – disse. – Grazie per aver accettato. So quanto dev’essere difficile per lei, ma spero che quest’intervista possa aiutare in qualche modo le indagini.
Dawn annuí torpidamente, come in un film al rallentatore.
Cazzo, Bob diceva sul serio, pensò Kate.
Raccolse dal divano un Teletubby rosso. – Questo chi è, Po? I miei andavano matti per i Power Rangers.
Dawn la guardò con una scintilla d’interesse. – A Bella piace tanto Po. Ma il suo gioco preferito è fare le bolle di sapone e poi prenderle con le mani.
Su un tavolino c’era una foto di Bella impegnata proprio in quel gioco, e Kate si alzò per portarla a Dawn. – Come qui, – disse, e Dawn prese la foto tra le mani. – È davvero bellissima, – aggiunse Kate. – Sarà anche un bel peperino, eh?
La maternità era il loro territorio comune. Dawn sorrise riconoscente e cominciò a raccontare piccoli episodi della vita di Bella.
È la prima volta che parla di sua figlia come una bambina e non come la vittima di un crimine, pensò tra sé l’ispettore Sparkes.
«Kate è brava, non c’è che dire. Sa entrare nella testa degli altri, e lo fa molto prima dei miei agenti», aveva dichiarato tempo addietro l’ispettore, parlando con la moglie. Eileen aveva fatto spallucce ed era tornata al suo cruciverba senza fare commenti. Per quanto la riguardava, suo marito lavorava su un altro pianeta.
Kate continuava a mostrare foto e giocattoli per tener viva la conversazione, lasciando che Dawn prendesse spunto da ogni oggetto senza mai interromperla con domande. Un piccolo registratore era appoggiato con discrezione sul cuscino in mezzo a loro. In certe situazioni i taccuini non erano adatti: sembravano uno strumento poliziesco, e Kate voleva che Dawn parlasse a ruota libera. Voleva conoscere gioie e dolori della sua vita di madre: sapere con cosa giocavano durante il bagnetto, cosa faceva Bella al mattino prima di andare al nido, quanto era stata felice di andare a comprare quegli stivaletti rossi.
– Le piacciono tanto gli animali. Il giorno che siamo andate allo zoo sarebbe rimasta tutto il tempo a guardare le scimmie. Quante risate si è fatta! – disse Dawn, rifugiandosi brevemente nei ricordi.
Quelle istantanee della vita di Bella e di Dawn avrebbero scaraventato il pubblico dentro l’incubo che la giovane madre stava affrontando, pensò Kate, abbozzando mentalmente una frase introduttiva.
«Nel corridoio della casa di Dawn Elliott c’è un paio di stivaletti da pioggia rossi. Sua figlia Bella li ha scelti in un negozio due settimane fa, ma non li ha ancora indossati».
Era questo che volevano i lettori: rabbrividire nelle loro vestaglie, tra una tazza di tè e una fetta di pane tostato. E poter dire al marito o alla moglie: «Meno male che non è successo a noi».
Il capo sarebbe stato entusiasta. «Brava, Kate: un ottimo strappabudella», avrebbe detto, liberando un po’ di spazio in prima pagina e al centro del giornale.
Venti minuti dopo, Dawn cominciò a dare segni di stanchezza. L’effetto dei tranquillanti era quasi esaurito, il terrore tornava a invadere la stanza. Kate diede un’occhiata fugace a Mick, che si alzò e disse gentilmente: – Facciamo una foto, Dawn: prenda in mano il ritratto della sua bimba che gioca con le bolle.
Dawn obbedí, da brava bambina.
– Non me lo perdonerò mai, – mormorò un minuto dopo, tra gli scatti dell’otturatore. – Non avrei dovuto lasciarla uscire in giardino. Ma le stavo preparando la cena, l’ho persa di vista per un minuto solo. Farei qualsiasi cosa per tornare indietro a quel momento.
Poi scoppiò a piangere: tutto il suo corpo era scosso da singhiozzi convulsi e senza lacrime, e mentre Kate le stringeva forte la mano, la dura realtà si rimise lentamente a fuoco.
Kate non smetteva mai di meravigliarsi dello straordinario potere delle interviste. «A volte capita che le persone vere, quelle che non hanno nulla da venderti, ti si svelino completamente: tra te e loro si crea un legame cosí forte da escludere tutto e tutti». Non ricordava piú a chi avesse confidato quel pensiero: una frase a effetto, certo, ma lei davvero ricordava ogni parola delle poche interviste che l’avevano toccata nel profondo. Come questa, per esempio.
– È stata molto coraggiosa, Dawn, – disse alla madre, stringendole la mano per l’ennesima volta. – Grazie molte per aver parlato con me e avermi dedicato tanto tempo. Mi metterò in contatto con l’ispettore Sparkes per farle sapere quando pubblicheremo l’intervista. Le lascio anche il mio biglietto da visita, cosí può chiamarmi, se le va.
Kate raccolse in fretta le sue cose, fece scivolare il registratore nella borsa e lasciò il posto sul divano all’agente di piantone.
Sparkes accompagnò lei e Mick alla porta.
– È andata benissimo. Grazie, Bob, – sussurrò Kate all’ispettore. – Ti chiamo quando il pezzo è pronto –. Sparkes annuí; Kate, sfiorandolo lievemente, gli passò davanti e uscí ad affrontare i colleghi furibondi.
Raggiunta la macchina, rimase ferma un minuto a ripassare le frasi che aveva già in mente. L’intensità dell’incontro l’aveva prosciugata e, doveva ammetterlo, un po’ scossa. Peccato aver smesso di fumare, pensò mentre chiamava il numero di Steve. Probabilmente era in reparto, perché rispose la segreteria telefonica, ma Kate lasciò comunque un messaggio. – Tutto benissimo, – disse. – Povera ragazza, che pena: non si riprenderà mai. Ci sentiamo piú tardi. Ah, ho scongelato le lasagne per stasera.
Si accorse di avere un’ombra di commozione nella voce.
«Oh, santo cielo, Kate, riprenditi un po’! È lavoro, solo lavoro, – si disse, accendendo il motore e allontanandosi in cerca di un parcheggio tranquillo dove cominciare a scrivere. – Stai decisamente invecchiando».
L’articolo uscí l’indomani, e quello stesso giorno Kate ricevette la prima telefonata di Dawn Elliott. Chiamava dal bagno di casa sua, usando il cellulare per sottrarsi all’incessante vigilanza dell’agente Blackman. Segretezza del tutto immotivata, se non dall’esigenza di tenersi qualcosa per sé. Gli agenti le stavano smontando la vita pezzo per pezzo, ma Dawn aveva ancora bisogno di qualche spazio di normalità. Di farsi una chiacchierata, e basta.
Kate era elettrizzata: una specie di filo diretto con la madre della vittima era proprio il risultato in cui sperava, e anche se non era affatto certa di ottenerlo ce l’aveva messa tutta. Durante il colloquio con Dawn aveva evitato ogni riferimento diretto alle indagini, si era tenuta alla larga dalle domande insistenti o troppo curiose. Non bisognava assolutamente spaventarla! E cosí l’aveva trattata da amica, le aveva raccontato un po’ della sua vita – i ragazzi, il traffico del centro, i vestiti che si era comprata, qualche pettegolezzo sui vip. E Dawn aveva risposto come lei si aspettava, confidandole le sue angosce e gli ultimi sviluppi delle ricerche.
Era arrivata una chiamata dall’estero. Dalle parti di Malaga, forse? Un turista in vacanza aveva visto in un parco giochi una bambina che poteva essere Bella. – Ti sembra possibile? – aveva chiesto Dawn.
Kate si era segnata tutto, e mormorando qualche rassicurazione aveva immediatamente scritto un sms al collega della Nera, un oscuro cronista che beveva un po’ troppo e negli ultimi tempi aveva preso un paio di cantonate. Grato di essere stato accolto nel club esclusivo di quelli che ricevevano le dritte di Kate, il cronista aveva chiamato un suo contatto alla centrale operativa della polizia e chiesto al suo capo di prenotargli all’istante un volo per la Spagna.
Non era Bella. Ma il giornale ci aveva guadagnato un’accorata intervista con i solerti vacanzieri e un’ottima scusa per pubblicare l’ennesimo paginone di foto.
– Be’, ne è valsa la pena, – aveva detto il capocronista durante la riunione. – Brava, Kate, stai facendo un ottimo lavoro, – aveva aggiunto poi, prima di passarle la parola.
Kate era sul pezzo, certo, ma doveva stare attenta. Se l’ispettore veniva a sapere che Dawn la chiamava di nascosto erano guai.
Eppure le era simpatico, Bob Sparkes. Si erano dati man forte a vicenda in un paio di occasioni: lui l’aveva messa al corrente di certi piccoli particolari che avevano fatto la differenza tra i suoi articoli e quelli dei colleghi, e lei aveva ricambiato passandogli tutte le dritte che riteneva interessanti. Insomma, tra loro c’era una specie di amicizia, un patto di reciproca utilità. E se la intendevano bene, ma niente di piú. Okay, all’inizio si era quasi presa una cotta per l’ispettore, e ancora adesso non riusciva a pensarci senza arrossire, ma erano gli anni Novanta: acqua passata, ormai. Ai tempi in cui era invaghita dei silenzi di Bob e dei suoi occhi marroni, lui le aveva offerto da bere un paio di volte e lei si era sentita molto lusingata, ma tutto era finito lí.
Quando lavorava ancora nell’altro giornale, il collega della Nera la prendeva sempre in giro per quel suo rapporto quasi intimo con Sparkes. A differenza di tanti suoi colleghi, però, l’ispettore non era un assatanato: al contrario, andava famoso per la sua integrità. Del resto anche Kate non aveva né tempo né voglia per le avventure extraconiugali.
– È un poliziotto tutto d’un pezzo, – diceva sempre il suo collega. – Uno degli ultimi.
Kate si rendeva conto che continuando a parlare con Dawn di nascosto da Sparkes rischiava di compromettere i rapporti con una preziosissima fonte di informazioni, ma tutto sommato le sembrava un rischio da correre, pur di accaparrarsi un punto di vista interno alla vicenda. Chissà, magari il caso Bella Elliott avrebbe cambiato la sua vita professionale.
Quella mattina, mentre si destreggiava nel traffico per andare in redazione, Kate passò in rassegna gli argomenti a propria difesa: «È un Paese libero, Dawn può parlare con chi le pare, Bob... Non posso mica impedirglielo! E poi non sono io a chiamarla, e non le faccio mai domande sulle indagini. Mi racconta delle cose, tutto qui». Ma Sparkes non se la sarebbe mai bevuta, e lei lo sapeva benissimo. Dopo tutto era stato lui a farla entrare in quella casa.
«E vabbe’, pace», si disse spazientita, ripromettendosi in cuor suo di passargli qualsiasi informazione utile alle indagini. Ma era una promessa a dita incrociate.
La chiamata di Sparkes non ci mise molto ad arrivare.
Kate prese il telefono e andò a cercare un po’ di privacy nel corridoio.
– Ciao, Bob, come stai?
– Stressato, – disse. E siccome l’agente di piantone aveva captato per puro caso l’ultima chiacchierata dal bagno tra Dawn e la sua giornalista preferita, Sparkes era anche molto deluso dalla slealtà di Kate. La quale avrebbe quasi quasi preferito una bella sfuriata.
– Aspetta un attimo, Bob! Dawn Elliott è una donna adulta, può parlare con chi le pare. È stata lei a cercarmi.
– E ci credo, Kate, però gli accordi non erano questi. Ma come, ti faccio entrare in casa sua per intervistarla e tu manovri alle mie spalle? Potresti cambiare il corso delle indagini, te ne rendi conto?
– Ascolta, Bob, lei mi chiama per fare due chiacchiere, ma non parliamo mai delle indagini. Dawn ha solo bisogno di staccare un po’, fossero anche due minuti.
– Eh già, come no. Non farmi il predicozzo da assistente sociale, Kate: non è da te.
Infatti. Non era da lei, e si vergognava moltissimo.
– Mi spiace averti fatto arrabbiare, Bob. Senti, che ne dici se vengo lí e ne parliamo? Magari scendi un attimo al bar...
– In questo momento non ho proprio tempo, Kate. La settimana prossima, magari. Però...
– Sí, sí. Tu le avrai certamente detto di non chiamarmi piú, ma sappi che se per caso dovesse farlo io non la ignorerò.
– Fa’ come credi, Kate. Spero che almeno Dawn ci metta un po’ di buon senso. Qualcuno dovrà pur comportarsi da adulto responsabile, ti pare?
– Io faccio il mio lavoro, Bob, e tu fai il tuo. Non sto affatto compromettendo le indagini: mi limito a scrivere articoli per tenere alta l’attenzione sulla vicenda.
– E va bene, Kate, spero che tu abbia ragione. Ora devo andare, ciao.
Kate si appoggiò alla parete. Si era immaginata tutta un’altra conversazione: una in cui lei si ergeva sul piedistallo della propria superiorità morale e l’ispettore Sparkes si prostrava ai suoi piedi.
«Quando sarà piú calmo capirà», si disse Kate, poi cercò il numero di Dawn e le mandò un messaggio di scuse.
Lei rispose immediatamente, concludendo con un inequivocabile «Ci sentiamo dopo». Il gioco continuava, dunque. Kate sorrise al display del cellulare e scese in mensa per festeggiare con un doppio espresso e un muffin.
– Ai piccoli trionfi della vita, – disse, sollevando la sua tazza di cartone. L’indomani mattina aveva appuntamento con Dawn a Southampton, per un panino e un giretto al centro commerciale.
Kate Waters arrivò a casa di Dawn verso l’ora di pranzo, insieme a un fotografo e a un pretenzioso mazzo di gigli del supermercato. Aveva parcheggiato un po’ piú avanti, lontano dal branco di giornalisti che stazionava davanti al 44a, in modo da poter scendere dall’auto senza attirare troppa attenzione. Mentre passava accanto ai colleghi che masticavano hamburger seduti in auto in attesa di sviluppi, fece uno squillo a Bob Sparkes per informarlo che era arrivata. Gli altri giornalisti ebbero appena il tempo di saltare fuori dalle macchine e vederla entrare in casa di Dawn. Qualcuno imprecò a voce alta, altri brontolarono; lei si sforzò di non sorridere.
Mentre l’ispettore le faceva strada, Kate notò ogni dettaglio del disordine e dell’incuria che rispecchiavano il dolore della casa: il giaccone azzurro di Bella, con il cappuccio bordato di pelo, era abbandonato sul corrimano accanto a un piccolo zaino a forma di orsacchiotto; i suoi stivaletti da pioggia rossi luccicavano accanto alla porta.
– Fammi una foto di questi, Mick, – sussurrò al fotografo che la seguiva.
Il salotto era disseminato di giocattoli e foto di Bella: Kate ricordò come in un lampo l’infanzia dei suoi figli e la sua lotta disperata contro la marea del caos. Al suo ritorno dall’ospedale, con Jake appena nato in braccio, era scoppiata in lacrime appena entrata in casa, frastornata dalla tempesta ormonale e dall’improvvisa consapevolezza della nuova responsabilità. E pensare che il giorno dopo il parto aveva addirittura chiesto all’ostetrica se poteva prendere in braccio il suo bambino, neanche Jake fosse una proprietà dell’ospedale.
La madre di Bella, con la faccia raggrinzita e invecchiata dal pianto, guardò la giornalista. Kate sorrise, le prese la mano e la strinse brevemente, senza muovere il braccio.
– Buongiorno, Dawn, – disse. – Grazie per aver accettato. So quanto dev’essere difficile per lei, ma spero che quest’intervista possa aiutare in qualche modo le indagini.
Dawn annuí torpidamente, come in un film al rallentatore.
Cazzo, Bob diceva sul serio, pensò Kate.
Raccolse dal divano un Teletubby rosso. – Questo chi è, Po? I miei andavano matti per i Power Rangers.
Dawn la guardò con una scintilla d’interesse. – A Bella piace tanto Po. Ma il suo gioco preferito è fare le bolle di sapone e poi prenderle con le mani.
Su un tavolino c’era una foto di Bella impegnata proprio in quel gioco, e Kate si alzò per portarla a Dawn. – Come qui, – disse, e Dawn prese la foto tra le mani. – È davvero bellissima, – aggiunse Kate. – Sarà anche un bel peperino, eh?
La maternità era il loro territorio comune. Dawn sorrise riconoscente e cominciò a raccontare piccoli episodi della vita di Bella.
È la prima volta che parla di sua figlia come una bambina e non come la vittima di un crimine, pensò tra sé l’ispettore Sparkes.
«Kate è brava, non c’è che dire. Sa entrare nella testa degli altri, e lo fa molto prima dei miei agenti», aveva dichiarato tempo addietro l’ispettore, parlando con la moglie. Eileen aveva fatto spallucce ed era tornata al suo cruciverba senza fare commenti. Per quanto la riguardava, suo marito lavorava su un altro pianeta.
Kate continuava a mostrare foto e giocattoli per tener viva la conversazione, lasciando che Dawn prendesse spunto da ogni oggetto senza mai interromperla con domande. Un piccolo registratore era appoggiato con discrezione sul cuscino in mezzo a loro. In certe situazioni i taccuini non erano adatti: sembravano uno strumento poliziesco, e Kate voleva che Dawn parlasse a ruota libera. Voleva conoscere gioie e dolori della sua vita di madre: sapere con cosa giocavano durante il bagnetto, cosa faceva Bella al mattino prima di andare al nido, quanto era stata felice di andare a comprare quegli stivaletti rossi.
– Le piacciono tanto gli animali. Il giorno che siamo andate allo zoo sarebbe rimasta tutto il tempo a guardare le scimmie. Quante risate si è fatta! – disse Dawn, rifugiandosi brevemente nei ricordi.
Quelle istantanee della vita di Bella e di Dawn avrebbero scaraventato il pubblico dentro l’incubo che la giovane madre stava affrontando, pensò Kate, abbozzando mentalmente una frase introduttiva.
«Nel corridoio della casa di Dawn Elliott c’è un paio di stivaletti da pioggia rossi. Sua figlia Bella li ha scelti in un negozio due settimane fa, ma non li ha ancora indossati».
Era questo che volevano i lettori: rabbrividire nelle loro vestaglie, tra una tazza di tè e una fetta di pane tostato. E poter dire al marito o alla moglie: «Meno male che non è successo a noi».
Il capo sarebbe stato entusiasta. «Brava, Kate: un ottimo strappabudella», avrebbe detto, liberando un po’ di spazio in prima pagina e al centro del giornale.
Venti minuti dopo, Dawn cominciò a dare segni di stanchezza. L’effetto dei tranquillanti era quasi esaurito, il terrore tornava a invadere la stanza. Kate diede un’occhiata fugace a Mick, che si alzò e disse gentilmente: – Facciamo una foto, Dawn: prenda in mano il ritratto della sua bimba che gioca con le bolle.
Dawn obbedí, da brava bambina.
– Non me lo perdonerò mai, – mormorò un minuto dopo, tra gli scatti dell’otturatore. – Non avrei dovuto lasciarla uscire in giardino. Ma le stavo preparando la cena, l’ho persa di vista per un minuto solo. Farei qualsiasi cosa per tornare indietro a quel momento.
Poi scoppiò a piangere: tutto il suo corpo era scosso da singhiozzi convulsi e senza lacrime, e mentre Kate le stringeva forte la mano, la dura realtà si rimise lentamente a fuoco.
Kate non smetteva mai di meravigliarsi dello straordinario potere delle interviste. «A volte capita che le persone vere, quelle che non hanno nulla da venderti, ti si svelino completamente: tra te e loro si crea un legame cosí forte da escludere tutto e tutti». Non ricordava piú a chi avesse confidato quel pensiero: una frase a effetto, certo, ma lei davvero ricordava ogni parola delle poche interviste che l’avevano toccata nel profondo. Come questa, per esempio.
– È stata molto coraggiosa, Dawn, – disse alla madre, stringendole la mano per l’ennesima volta. – Grazie molte per aver parlato con me e avermi dedicato tanto tempo. Mi metterò in contatto con l’ispettore Sparkes per farle sapere quando pubblicheremo l’intervista. Le lascio anche il mio biglietto da visita, cosí può chiamarmi, se le va.
Kate raccolse in fretta le sue cose, fece scivolare il registratore nella borsa e lasciò il posto sul divano all’agente di piantone.
Sparkes accompagnò lei e Mick alla porta.
– È andata benissimo. Grazie, Bob, – sussurrò Kate all’ispettore. – Ti chiamo quando il pezzo è pronto –. Sparkes annuí; Kate, sfiorandolo lievemente, gli passò davanti e uscí ad affrontare i colleghi furibondi.
Raggiunta la macchina, rimase ferma un minuto a ripassare le frasi che aveva già in mente. L’intensità dell’incontro l’aveva prosciugata e, doveva ammetterlo, un po’ scossa. Peccato aver smesso di fumare, pensò mentre chiamava il numero di Steve. Probabilmente era in reparto, perché rispose la segreteria telefonica, ma Kate lasciò comunque un messaggio. – Tutto benissimo, – disse. – Povera ragazza, che pena: non si riprenderà mai. Ci sentiamo piú tardi. Ah, ho scongelato le lasagne per stasera.
Si accorse di avere un’ombra di commozione nella voce.
«Oh, santo cielo, Kate, riprenditi un po’! È lavoro, solo lavoro, – si disse, accendendo il motore e allontanandosi in cerca di un parcheggio tranquillo dove cominciare a scrivere. – Stai decisamente invecchiando».
L’articolo uscí l’indomani, e quello stesso giorno Kate ricevette la prima telefonata di Dawn Elliott. Chiamava dal bagno di casa sua, usando il cellulare per sottrarsi all’incessante vigilanza dell’agente Blackman. Segretezza del tutto immotivata, se non dall’esigenza di tenersi qualcosa per sé. Gli agenti le stavano smontando la vita pezzo per pezzo, ma Dawn aveva ancora bisogno di qualche spazio di normalità. Di farsi una chiacchierata, e basta.
Kate era elettrizzata: una specie di filo diretto con la madre della vittima era proprio il risultato in cui sperava, e anche se non era affatto certa di ottenerlo ce l’aveva messa tutta. Durante il colloquio con Dawn aveva evitato ogni riferimento diretto alle indagini, si era tenuta alla larga dalle domande insistenti o troppo curiose. Non bisognava assolutamente spaventarla! E cosí l’aveva trattata da amica, le aveva raccontato un po’ della sua vita – i ragazzi, il traffico del centro, i vestiti che si era comprata, qualche pettegolezzo sui vip. E Dawn aveva risposto come lei si aspettava, confidandole le sue angosce e gli ultimi sviluppi delle ricerche.
Era arrivata una chiamata dall’estero. Dalle parti di Malaga, forse? Un turista in vacanza aveva visto in un parco giochi una bambina che poteva essere Bella. – Ti sembra possibile? – aveva chiesto Dawn.
Kate si era segnata tutto, e mormorando qualche rassicurazione aveva immediatamente scritto un sms al collega della Nera, un oscuro cronista che beveva un po’ troppo e negli ultimi tempi aveva preso un paio di cantonate. Grato di essere stato accolto nel club esclusivo di quelli che ricevevano le dritte di Kate, il cronista aveva chiamato un suo contatto alla centrale operativa della polizia e chiesto al suo capo di prenotargli all’istante un volo per la Spagna.
Non era Bella. Ma il giornale ci aveva guadagnato un’accorata intervista con i solerti vacanzieri e un’ottima scusa per pubblicare l’ennesimo paginone di foto.
– Be’, ne è valsa la pena, – aveva detto il capocronista durante la riunione. – Brava, Kate, stai facendo un ottimo lavoro, – aveva aggiunto poi, prima di passarle la parola.
Kate era sul pezzo, certo, ma doveva stare attenta. Se l’ispettore veniva a sapere che Dawn la chiamava di nascosto erano guai.
Eppure le era simpatico, Bob Sparkes. Si erano dati man forte a vicenda in un paio di occasioni: lui l’aveva messa al corrente di certi piccoli particolari che avevano fatto la differenza tra i suoi articoli e quelli dei colleghi, e lei aveva ricambiato passandogli tutte le dritte che riteneva interessanti. Insomma, tra loro c’era una specie di amicizia, un patto di reciproca utilità. E se la intendevano bene, ma niente di piú. Okay, all’inizio si era quasi presa una cotta per l’ispettore, e ancora adesso non riusciva a pensarci senza arrossire, ma erano gli anni Novanta: acqua passata, ormai. Ai tempi in cui era invaghita dei silenzi di Bob e dei suoi occhi marroni, lui le aveva offerto da bere un paio di volte e lei si era sentita molto lusingata, ma tutto era finito lí.
Quando lavorava ancora nell’altro giornale, il collega della Nera la prendeva sempre in giro per quel suo rapporto quasi intimo con Sparkes. A differenza di tanti suoi colleghi, però, l’ispettore non era un assatanato: al contrario, andava famoso per la sua integrità. Del resto anche Kate non aveva né tempo né voglia per le avventure extraconiugali.
– È un poliziotto tutto d’un pezzo, – diceva sempre il suo collega. – Uno degli ultimi.
Kate si rendeva conto che continuando a parlare con Dawn di nascosto da Sparkes rischiava di compromettere i rapporti con una preziosissima fonte di informazioni, ma tutto sommato le sembrava un rischio da correre, pur di accaparrarsi un punto di vista interno alla vicenda. Chissà, magari il caso Bella Elliott avrebbe cambiato la sua vita professionale.
Quella mattina, mentre si destreggiava nel traffico per andare in redazione, Kate passò in rassegna gli argomenti a propria difesa: «È un Paese libero, Dawn può parlare con chi le pare, Bob... Non posso mica impedirglielo! E poi non sono io a chiamarla, e non le faccio mai domande sulle indagini. Mi racconta delle cose, tutto qui». Ma Sparkes non se la sarebbe mai bevuta, e lei lo sapeva benissimo. Dopo tutto era stato lui a farla entrare in quella casa.
«E vabbe’, pace», si disse spazientita, ripromettendosi in cuor suo di passargli qualsiasi informazione utile alle indagini. Ma era una promessa a dita incrociate.
La chiamata di Sparkes non ci mise molto ad arrivare.
Kate prese il telefono e andò a cercare un po’ di privacy nel corridoio.
– Ciao, Bob, come stai?
– Stressato, – disse. E siccome l’agente di piantone aveva captato per puro caso l’ultima chiacchierata dal bagno tra Dawn e la sua giornalista preferita, Sparkes era anche molto deluso dalla slealtà di Kate. La quale avrebbe quasi quasi preferito una bella sfuriata.
– Aspetta un attimo, Bob! Dawn Elliott è una donna adulta, può parlare con chi le pare. È stata lei a cercarmi.
– E ci credo, Kate, però gli accordi non erano questi. Ma come, ti faccio entrare in casa sua per intervistarla e tu manovri alle mie spalle? Potresti cambiare il corso delle indagini, te ne rendi conto?
– Ascolta, Bob, lei mi chiama per fare due chiacchiere, ma non parliamo mai delle indagini. Dawn ha solo bisogno di staccare un po’, fossero anche due minuti.
– Eh già, come no. Non farmi il predicozzo da assistente sociale, Kate: non è da te.
Infatti. Non era da lei, e si vergognava moltissimo.
– Mi spiace averti fatto arrabbiare, Bob. Senti, che ne dici se vengo lí e ne parliamo? Magari scendi un attimo al bar...
– In questo momento non ho proprio tempo, Kate. La settimana prossima, magari. Però...
– Sí, sí. Tu le avrai certamente detto di non chiamarmi piú, ma sappi che se per caso dovesse farlo io non la ignorerò.
– Fa’ come credi, Kate. Spero che almeno Dawn ci metta un po’ di buon senso. Qualcuno dovrà pur comportarsi da adulto responsabile, ti pare?
– Io faccio il mio lavoro, Bob, e tu fai il tuo. Non sto affatto compromettendo le indagini: mi limito a scrivere articoli per tenere alta l’attenzione sulla vicenda.
– E va bene, Kate, spero che tu abbia ragione. Ora devo andare, ciao.
Kate si appoggiò alla parete. Si era immaginata tutta un’altra conversazione: una in cui lei si ergeva sul piedistallo della propria superiorità morale e l’ispettore Sparkes si prostrava ai suoi piedi.
«Quando sarà piú calmo capirà», si disse Kate, poi cercò il numero di Dawn e le mandò un messaggio di scuse.
Lei rispose immediatamente, concludendo con un inequivocabile «Ci sentiamo dopo». Il gioco continuava, dunque. Kate sorrise al display del cellulare e scese in mensa per festeggiare con un doppio espresso e un muffin.
– Ai piccoli trionfi della vita, – disse, sollevando la sua tazza di cartone. L’indomani mattina aveva appuntamento con Dawn a Southampton, per un panino e un giretto al centro commerciale.
9.
La vedova
Mercoledí, 9 giugno 2010
Dopo due o tre chilometri ci fermiamo nel parcheggio di un supermercato per far salire anche Kate. Lei ride e dice che quando «il branco» l’ha vista andar via da sola sono corsi tutti a vedere se ero in casa. – Che idioti, – dice. – Si sono fatti fregare come dei novellini.
È seduta davanti, ma si gira in modo che io possa guardarla in faccia. – Tutto bene, Jean? – chiede. Adesso ha di nuovo la voce gentile, ma io non ci casco. Non le importa un fico secco di me, pensa solo alla sua intervista. Faccio sí con la testa e non dico niente.
Strada facendo, lei e Mick parlano di quel che succede «in redazione». A quanto pare il capo di Kate è un tipaccio, non fa che strillare e bestemmiare.
– Usa talmente spesso la parola con le due zeta, che ultimamente le riunioni del mattino le chiamiamo I monologhi del pene –. Ridono come dei matti, tutti e due. Io non ho la piú pallida idea di cos’è un monologo del pene, ma pazienza.
Quei due lí vivono in un mondo tutto loro. Kate dice a Mick che il capocronista – quel Terry con cui parlava al telefono prima – è molto contento. Contento che abbia acchiappato la vedova, scommetto.
– Povero diavolo: passerà la giornata a fare andirivieni tra la sua scrivania e l’ufficio del direttore, ma almeno smetterà di tormentare noialtri. Certo che è strano, Terry: se lo incontri al pub è un allegrone, ma in ufficio è capace di stare dodici ore filate davanti al computer, e se alza gli occhi è solo per fare un cazziatone a qualcuno. A volte sembra uno zombie, ti giuro.
Mick ride.
Io decido di sdraiarmi un po’ sul sacco a pelo. È sporchino, ma non puzza. Mi appisolo un attimo, le loro voci diventano confuse e lontane. Quando mi sveglio siamo arrivati.
L’albergo è grande, e sembra molto caro. Fiori enormi dappertutto, e sul bancone c’è un vassoio con delle mele. I fiori non sai mai se sono veri o finti, ma le mele sono vere, ho controllato. Si possono prendere e mangiare, se uno vuole.
Kate è padrona della situazione.
– Salve, dovreste avere una prenotazione a nome Murray: tre camere singole, – dice alla signorina della reception, che sorride e guarda il computer. – Abbiamo prenotato un paio d’ore fa, – aggiunge, un po’ nervosetta.
– Ah, eccovi qui, – dice finalmente la signorina. Murray dev’essere il cognome di Mick, perché è lui a dare la carta di credito. La signorina però guarda me.
E ci credo, guarda in che stato sono! Bello spettacolo, proprio. Capelli tutti arruffati per via della giacca sulla testa e del pisolino nel furgone, e i vestiti che ho addosso non andrebbero bene neanche per fare la spesa, figuriamoci in un posto cosí sciccoso. Quindi me ne sto lí a testa bassa, coi miei pantaloni vecchi e la maglietta decrepita, a guardarmi le infradito mentre loro compilano tutti i moduli. Al posto del mio nome scrivono Elizabeth Turner, e allora mi giro a guardare Kate.
Lei sorride e bisbiglia: «Cosí non ti trovano, Jean. Ci cercheranno dappertutto». Chissà chi è la vera Elizabeth Turner, e cosa sta facendo adesso. Starà curiosando tra gli abiti estivi da H & M, altro che nascondersi dai giornalisti.
– Avete bagagli? – chiede la signorina. Kate le dice che sono in macchina e andiamo noi a prenderli piú tardi. In ascensore la guardo con gli occhi un po’ strabuzzati. Lei mi sorride. Non parliamo: c’è il ragazzo. Non si sa bene a cosa serve, visto che non abbiamo bagagli, ma tant’è. È venuto a farci vedere le camere. Poi vorrà anche la mancia, scommetto. La mia è la 142, quella di Kate la 144. Il ragazzo è tutto salamelecchi, mi apre la porta, mi fa entrare per prima. Be’, mica male, la stanzetta. Una piazza d’armi col lampadario a gocce e tutte le luci accese. C’è persino un divano col tavolino basso, altre lampade e ancora mele. Si saranno messi d’accordo con un supermercato qui vicino, per avere tutte queste mele.
– La camera ti piace? – mi chiede Kate.
– Oh, sí, – dico, e vado a sedermi sul divano per guardarmela bene.
Quando siamo andati in Spagna per il viaggio di nozze non avevamo mica un albergo cosí sciccoso. Era solo una pensioncina familiare: carina, però. Oh, che risate! Io avevo ancora dei coriandoli in testa, ma ci hanno accolti lo stesso con tutti gli onori. In camera abbiamo trovato una bottiglia di champagne – roba spagnola, eh, sapeva di poco – e le cameriere volevano a tutti i costi baciarci sulle guance.
Passavamo le giornate in piscina, sdraiati vicini vicini a guardarci. Ad amarci. Davvero, sembra un secolo.
Kate dice che anche qui c’è la piscina. E il centro benessere, addirittura. Io il costume non ce l’ho – non ho neanche i vestiti, d’altronde – ma Kate mi chiede che taglia porto e dice che va «a prendermi qualcosa».
– Paga tutto il giornale, – spiega.
Mentre aspetto che torni, mi ha prenotato un massaggio.
– Cosí ti rilassi un po’. Sarà bello, vedrai. Ti fanno un bel massaggio con gli oli essenziali al gelsomino, o magari alla lavanda, e se hai sonno puoi anche addormentarti sul lettino. Devi farti coccolare un po’, Jean.
Io non è che sono tanto entusiasta, ma lascio fare. Non ho neanche chiesto fino a quando dobbiamo stare qui. Nessuno mi ha detto niente, e quei due la prendono come una vacanza.
Un’ora piú tardi sono distesa sul letto con la vestaglia dell’hotel, talmente rilassata che mi sembra di galleggiare nell’aria. «Profumi come il boudoir di una sgualdrina», avrebbe detto Glen, però a me piace. Profumo di roba costosa. Ma poi Kate bussa alla porta e mi ritrovo dov’ero prima. Nella realtà.
Entra, ed è carica di buste coi nomi dei negozi.
– Ecco, Jean, – dice. – Provati queste cose e vedi se vanno bene.
È buffo che dica sempre il mio nome ogni volta che mi parla. Come un’infermiera, come un’imbonitrice.
Ha scelto delle belle cose, però. Un golfino di cachemire azzurro che non avrei mai potuto permettermi, una camicetta bianca molto fine, una gonna un po’ svolazzante e dei pantaloni grigi attillati, e poi un costume da bagno, mutande, scarpe, un bagnoschiuma superlusso e una bellissima camicia da notte lunga. Mi guarda mentre apro tutti i pacchetti.
– Adoro questo colore; e tu, Jean? – dice, prendendo in mano il golfino. – Azzurro polvere.
Sa benissimo che piace anche a me, ma faccio in modo che non si veda troppo.
– Grazie tante, – dico, – ma non c’era bisogno. È solo per una notte, no? Magari dopo li riporti al negozio.
Lei non risponde, raccoglie le buste vuote e sorride.
L’ora di pranzo è passata da un pezzo, perciò decidono di farsi portare qualcosa da mangiare in camera di Kate. A me basterebbe un panino, ma Mick ordina tre bistecche e una bottiglia di vino che costa ben trentadue sterline, come scopro dopo guardando il menu. Al supermercato, con trentadue sterline ti ci compri otto bottiglie di Chardonnay. Mick dice che il vino è «fantastico, cazzarola». Anche lui usa spesso la parola con due zeta, ma Kate non ci fa caso. Ha occhi solo per me.
Portiamo il carrello fuori dalla stanza perché qualcuno venga a riprenderselo, poi Mick va in camera sua a preparare le macchine fotografiche e Kate si accomoda in una poltrona. Chiacchieriamo del piú e del meno, come quando faccio lo shampoo alle clienti. Ma prima o poi cambia, lo so.
Infatti a un certo punto mi dice: – La morte di Glen ti avrà messo addosso un bello stress, no?
Io faccio segno di sí e cerco di sembrare stressata, perché mica posso contraddirla. Ma la verità è che mi sono sentita rinascere.
– Cos’hai provato, Jean?
– Oh, è stato terribile, – dico, con la voce tutta tremante. Sono di nuovo Jeanie, come quand’ero appena sposata.
Jeanie mi ha salvato la vita. Lei tirava avanti meglio che poteva, preparava la cena, faceva gli shampoo alle clienti, spazzava per terra e rifaceva i letti. Lei pensava che Glen era vittima di un complotto della polizia. Lei stava dalla parte di suo marito, dell’uomo che si era scelta.
Nei primi tempi Jeanie si riaffacciava soltanto per rispondere alle domande dei parenti o della polizia, ma quando il puzzo delle cose brutte ha cominciato a spandersi da sotto la porta Jeanie è tornata ad abitare in casa nostra, e grazie a lei io e Glen siamo rimasti insieme.
– È stato uno shock terribile, – dico a Kate. – È finito sotto l’autobus proprio lí, davanti ai miei occhi. Non ho neanche avuto il tempo di gridare. Un attimo, e non c’era piú. Poi è arrivata dell’altra gente che ha preso il controllo della situazione, per modo di dire. Io ero talmente sbaccalita che non riuscivo a muovermi, perciò mi hanno portata all’ospedale per controllare che stessi bene. Sono stati tutti molto gentili.
Finché non hanno scoperto chi era il morto.
Perché la polizia aveva detto che era stato Glen a rapire Bella.
Quel giorno che sono venuti a casa nostra e hanno fatto il nome di Bella, mi è subito venuta in mente la foto sui giornali: il suo bel faccino, gli occhialini tondi, il cerotto sull’occhio come un cucciolo di pirata. Una bimba cosí dolce che veniva voglia di mangiarsela. Per mesi e mesi si era parlato solo di lei: le signore in negozio, la gente per strada, sugli autobus, dappertutto. La piccola Bella. Giocava nel giardino di casa sua, a Southampton, e qualcuno se l’era presa.
Io non avrei mai lasciato mia figlia da sola in giardino, poco ma sicuro. Santo cielo, aveva solo due anni e mezzo! La madre avrebbe dovuto tenerla d’occhio, ma scommetto che invece era davanti alla tele a guardarsi Chi vuol essere milionario? o qualche altra scemenza. Certe cose succedono solo alla gente cosí, dice Glen. Gente scriteriata.
E credevano che era stato Glen a rapirla. E poi l’aveva uccisa. Quando gliel’ho sentito dire mi è mancata l’aria! I primi ad accusarlo sono stati i poliziotti, si capisce; poi sono arrivati tutti gli altri.
Siamo rimasti lí come due allocchi, fermi nell’ingresso con le bocche spalancate. Dico siamo anche se, in un certo senso, Glen non c’era. La sua faccia era assente. Non sembrava piú lui.
I poliziotti sono arrivati in punta di piedi: niente pugni sulla porta o cose del genere, come si vede alla tele. Hanno bussato piano, toc-toc-toc-totoc-totoc. Glen era appena tornato dall’autolavaggio. È andato ad aprire, io mi sono affacciata dalla cucina per vedere chi era. Due tizi. Uno dei due – quello che somigliava un po’ a Harris, il mio prof di geografia – ha chiesto: «Il signor Glen Taylor?» Proprio cosí, tutto calmo e pacifico.
«Sí», ha detto Glen, e gli ha chiesto se erano dei rappresentanti. Dalla cucina non è che sentissi tanto bene, fatto sta che sono entrati. E solo allora hanno detto che erano poliziotti; l’ispettore Bob Sparkes e il sergente Nonsocosa.
«Signor Taylor, siamo venuti a parlare con lei della scomparsa di Bella Elliott», ha detto l’ispettore. Io ho aperto la bocca per dire qualcosa, per farli star zitti, ma non mi è venuta fuori neanche una parola. Invece Glen ha fatto quella faccia assente.
Finché ci sono stati i poliziotti non mi ha mai guardata, neanche una volta. Non mi ha messo un braccio intorno alle spalle, non mi ha toccato la mano. Era sotto shock, ha detto poi. Lui e i poliziotti parlavano, parlavano, ma io non ricordo niente. Li vedevo muovere le labbra, ma era come se non sentissi. Che c’entrava Glen con Bella? Lui non le avrebbe mai torto un capello. Vuole bene ai bambini, lui.
Alla fine i poliziotti se lo sono portato via. Piú tardi Glen ha detto di avermi salutata, di avermi raccomandato di non preoccuparmi: era solo uno stupido equivoco e si sarebbe risolto presto. Non mi ricordo neanche questo. Poi sono arrivati degli altri poliziotti che hanno fatto un mucchio di domande, hanno scavato nelle nostre vite, per modo di dire, ma io continuavo a pensare a quella sua faccia cosí assente, che per un secondo mi era sembrato di non conoscerlo.
Qualche tempo dopo mi ha detto che era solo andato a fare una consegna vicino a dove abitava Bella, ma che non voleva dire niente. Era solo una coincidenza, diceva lui. Chissà quante persone erano passate di là quel giorno.
Lui non si era neanche avvicinato alla zona del crimine, e il posto dove doveva scaricare era parecchie miglia piú in là. Ma la polizia controllava chiunque: non si sa mai, magari qualcuno aveva visto.
Glen lavorava nella ditta di consegne da quando era stato licenziato dalla banca. Diceva a tutti che se n’era andato di sua iniziativa, perché la banca doveva ridurre il personale e lui aveva voglia di cambiare. Aveva sempre sognato di mettersi in proprio, di non avere piú capi.
Poi una sera ho scoperto la verità. Era mercoledí, io avevo la lezione di aerobica e si cenava sempre tardi. Quando sono tornata si è messo a gridare, mi ha chiesto perché ero arrivata a quell’ora, mi ha detto delle cose orribili, volgari, rabbiose. Certe parole che non gli avevo mai sentito dire. Cosí non andava, era tutto sbagliato. La cucina era piena di accuse e di rabbia, i suoi occhi erano morti, mi guardava come si guarda un’estranea. «Adesso mi picchia», ho pensato. Mi sono messa davanti ai fornelli e ho preso in mano un cucchiaio di legno, lui mi si è piazzato di fronte con le braccia lungo i fianchi, apriva e chiudeva i pugni.
«In cucina comandano le mogli», dicevamo sempre. Ma non quel mercoledí.
La scena è finita con lui che sbatteva la porta e se ne andava a letto nella stanzetta degli ospiti perché non voleva starmi vicino. Io mi sono fermata ai piedi della scala, ancora mezza intontita, a cercare di capire. Cos’era questa storia? Cos’era successo? Che ne sarebbe stato di noi? Anzi no, a quello preferivo non pensarci.
E poi mi sono detta: «Smettila, andrà tutto bene. Avrà avuto una giornataccia, lascia che ci dorma sopra».
Ho cominciato a riordinare, ho preso dal corrimano il suo cappotto e la sciarpa, li ho portati all’attaccapanni vicino alla porta. Dentro una tasca c’era qualcosa, una lettera. Una busta bianca con la finestrella, con il suo nome e l’indirizzo. Una lettera della banca. Ufficiale, fredda come un ghiacciolo: «In seguito a nostre indagini... comportamento non professionale... inammissibile... immediata risoluzione del contratto». Il burocratese non è il mio forte, ma l’ho capito subito che era successa una disgrazia. Fine dei nostri sogni, del nostro futuro. Ho fatto le scale tutte d’un fiato, con la lettera accartocciata in mano. Sono entrata nella stanzetta e ho acceso la luce. Forse mi aveva sentita arrivare ma faceva finta di dormire, e allora ho strillato: «Cos’è questa storia?»
Lui mi ha guardata senza fare una piega. «Mi hanno licenziato», ha detto, poi si è girato dall’altra parte e ha finto di riaddormentarsi.
Il mattino dopo è entrato in camera nostra e mi ha portato il tè nella mia tazza preferita. Aveva la faccia di uno che ha passato la notte in bianco, e mi ha chiesto scusa. Si è seduto sul letto e mi ha spiegato che ultimamente si era sentito sotto pressione, che col suo capo non si erano mai presi, ma in realtà era tutto un equivoco. L’avevano incastrato, l’avevano incolpato di una certa cosa. Di un errore, diceva: lui però non aveva fatto niente di male. Il capo era invidioso, tutto qui. E comunque aveva grandi progetti per il futuro, ma non gli importava piú di nulla se io non restavo con lui.
«Tu sei il centro del mio mondo, Jeanie». Poi mi ha abbracciata forte, e anch’io l’ho abbracciato, e tutte le mie paure si sono dissolte.
Un suo amico che aveva conosciuto su Internet, un certo Mike, gli ha fatto avere quel lavoro nella ditta di trasporti – «Solo per il momento, Jeanie, finché non capisco bene in che settore voglio operare». All’inizio lo pagavano in contanti, poi l’hanno assunto coi libretti. E dopo un po’ non ha piú parlato di mettersi in proprio.
Quando andava al lavoro doveva portare l’uniforme, che però era abbastanza elegante: camicia azzurro chiaro con il logo dell’azienda sul taschino, pantaloni blu scuro. Lui non era per niente contento – «È umiliante, Jeanie. Mi sembra di essere tornato a scuola» – ma alla fine ci si è abituato. Quando usciva di casa al mattino mi salutava con la mano, poi saliva in macchina e andava a prendere il furgone nel deposito della ditta. Pronto per un nuovo viaggio, diceva.
Ho viaggiato con lui una volta sola, una domenica. Era quasi Natale, e doveva fare una consegna speciale per il suo capo a Canterbury. L’anno prima che l’arrestassero, mi pare. L’ho accompagnato volentieri: avevo proprio voglia di una bella gita. All’andata siamo stati zitti tutto il tempo. A un certo punto mi sono messa a rovistare nel vano portaoggetti. C’erano diverse cianfrusaglie e qualche dolcetto. Ho preso una caramellina per me e gliene ho offerta una, tanto per rallegrarlo un po’. Lui non l’ha voluta e mi ha detto di rimetterla a posto.
Il furgone era tutto lindo e pulito. Immacolato. Non l’avevo mai visto, perché la sera lo lasciava al deposito e al mattino andava a riprenderlo in macchina. «Che bel camioncino», gli ho detto, ma lui ha solo grugnito.
«Cosa c’è nel retro?» gli ho chiesto dopo un po’.
«Niente», ha risposto, poi ha alzato il volume della radio.
Aveva proprio ragione, era vuoto. Mentre Glen parlava con il cliente ho curiosato un po’. Anche il retro era lucido come uno specchio. Be’, quasi: da sotto la moquette spuntava un angolino di cellofan strappato da un pacchetto di dolci. L’ho tirato via con l’unghia. Era un po’ impiastricciato di lanugine e polvere, ma l’ho preso lo stesso e me lo sono infilato nella tasca del piumino. Per non fare disordine.
Noi due in gita, come la gente normale. Sembra passato un secolo.
«Glen Taylor?» ripete l’infermiera. Torno coi piedi per terra, e intanto lei scrive il nome su un modulo. Aggrotta la fronte: dove l’ha già sentito? Aspetto, tanto lo so che ci arriva.
Bingo.
«Glen Taylor? Quello che è stato accusato di aver rapito Bella?» chiede sottovoce a uno dei barellieri. Faccio finta di non sentire.
Quando si volta di nuovo verso di me, ha la faccia piú scura. «Torno subito», dice, e si allontana. Probabilmente va a fare una telefonata, perché mezz’ora dopo arrivano dei giornalisti. Si mettono a gironzolare per il pronto soccorso cercando di farsi passare per pazienti, ma io li riconosco a un miglio di distanza.
Me ne sto a testa bassa e non gli dico una parola. Non si vergognano a tormentare cosí una poveretta che ha appena visto morire suo marito?
Arrivano anche i poliziotti: dopo tutto è stato un incidente. Non quelli che vedevamo di solito: questi qui sono della polizia metropolitana. Sbrigano l’ordinaria amministrazione, raccolgono le deposizioni dei testimoni, poi la mia e quella dell’autista dell’autobus. Hanno portato al pronto soccorso anche lui. Pare che abbia preso una botta in testa quando ha frenato. Dice che Glen non l’ha neanche visto scendere dal marciapiede.
Molto probabile, è stato un attimo.
Dopo un po’ arriva anche Bob Sparkes. Sapevo già che prima o poi si sarebbe ripresentato, come una pietanza indigesta. Deve aver corso come il vento per arrivare cosí in fretta da Southampton. Ha la faccia tutta triste e mi fa le condoglianze, ma è ancor piú dispiaciuto per sé stesso. Di sicuro non voleva che Glen morisse. Adesso che lui se n’è andato il caso non potrà mai essere chiuso. Povero Bob. Questa sconfitta gli resterà addosso finché campa.
Si siede vicino a me su una sedia di plastica e mi prende la mano. Io sono talmente a disagio che lo lascio fare, anche se non mi aveva mai toccata cosí prima d’ora. Sembra quasi che gli importi qualcosa di me. Mi tiene la mano e parla sottovoce, gentilmente. Io capisco benissimo cosa sta dicendo ma non sento niente, in un certo senso. Vuole chiedermi se so cos’ha fatto Glen a Bella. Me lo chiede con garbo, dice che adesso posso liberarmi del segreto. Non c’è piú niente da nascondere, adesso. Ero una vittima anch’io, come Bella.
«Bob, io non so niente di Bella; e neanche Glen sapeva niente», rispondo, poi tiro via la mano e fingo di asciugarmi una lacrima. Dopo un po’ vado in bagno a vomitare. Poi mi pulisco e mi metto seduta sul water con la fronte appoggiata alle piastrelle, che sono belle fresche.
Dopo due o tre chilometri ci fermiamo nel parcheggio di un supermercato per far salire anche Kate. Lei ride e dice che quando «il branco» l’ha vista andar via da sola sono corsi tutti a vedere se ero in casa. – Che idioti, – dice. – Si sono fatti fregare come dei novellini.
È seduta davanti, ma si gira in modo che io possa guardarla in faccia. – Tutto bene, Jean? – chiede. Adesso ha di nuovo la voce gentile, ma io non ci casco. Non le importa un fico secco di me, pensa solo alla sua intervista. Faccio sí con la testa e non dico niente.
Strada facendo, lei e Mick parlano di quel che succede «in redazione». A quanto pare il capo di Kate è un tipaccio, non fa che strillare e bestemmiare.
– Usa talmente spesso la parola con le due zeta, che ultimamente le riunioni del mattino le chiamiamo I monologhi del pene –. Ridono come dei matti, tutti e due. Io non ho la piú pallida idea di cos’è un monologo del pene, ma pazienza.
Quei due lí vivono in un mondo tutto loro. Kate dice a Mick che il capocronista – quel Terry con cui parlava al telefono prima – è molto contento. Contento che abbia acchiappato la vedova, scommetto.
– Povero diavolo: passerà la giornata a fare andirivieni tra la sua scrivania e l’ufficio del direttore, ma almeno smetterà di tormentare noialtri. Certo che è strano, Terry: se lo incontri al pub è un allegrone, ma in ufficio è capace di stare dodici ore filate davanti al computer, e se alza gli occhi è solo per fare un cazziatone a qualcuno. A volte sembra uno zombie, ti giuro.
Mick ride.
Io decido di sdraiarmi un po’ sul sacco a pelo. È sporchino, ma non puzza. Mi appisolo un attimo, le loro voci diventano confuse e lontane. Quando mi sveglio siamo arrivati.
L’albergo è grande, e sembra molto caro. Fiori enormi dappertutto, e sul bancone c’è un vassoio con delle mele. I fiori non sai mai se sono veri o finti, ma le mele sono vere, ho controllato. Si possono prendere e mangiare, se uno vuole.
Kate è padrona della situazione.
– Salve, dovreste avere una prenotazione a nome Murray: tre camere singole, – dice alla signorina della reception, che sorride e guarda il computer. – Abbiamo prenotato un paio d’ore fa, – aggiunge, un po’ nervosetta.
– Ah, eccovi qui, – dice finalmente la signorina. Murray dev’essere il cognome di Mick, perché è lui a dare la carta di credito. La signorina però guarda me.
E ci credo, guarda in che stato sono! Bello spettacolo, proprio. Capelli tutti arruffati per via della giacca sulla testa e del pisolino nel furgone, e i vestiti che ho addosso non andrebbero bene neanche per fare la spesa, figuriamoci in un posto cosí sciccoso. Quindi me ne sto lí a testa bassa, coi miei pantaloni vecchi e la maglietta decrepita, a guardarmi le infradito mentre loro compilano tutti i moduli. Al posto del mio nome scrivono Elizabeth Turner, e allora mi giro a guardare Kate.
Lei sorride e bisbiglia: «Cosí non ti trovano, Jean. Ci cercheranno dappertutto». Chissà chi è la vera Elizabeth Turner, e cosa sta facendo adesso. Starà curiosando tra gli abiti estivi da H & M, altro che nascondersi dai giornalisti.
– Avete bagagli? – chiede la signorina. Kate le dice che sono in macchina e andiamo noi a prenderli piú tardi. In ascensore la guardo con gli occhi un po’ strabuzzati. Lei mi sorride. Non parliamo: c’è il ragazzo. Non si sa bene a cosa serve, visto che non abbiamo bagagli, ma tant’è. È venuto a farci vedere le camere. Poi vorrà anche la mancia, scommetto. La mia è la 142, quella di Kate la 144. Il ragazzo è tutto salamelecchi, mi apre la porta, mi fa entrare per prima. Be’, mica male, la stanzetta. Una piazza d’armi col lampadario a gocce e tutte le luci accese. C’è persino un divano col tavolino basso, altre lampade e ancora mele. Si saranno messi d’accordo con un supermercato qui vicino, per avere tutte queste mele.
– La camera ti piace? – mi chiede Kate.
– Oh, sí, – dico, e vado a sedermi sul divano per guardarmela bene.
Quando siamo andati in Spagna per il viaggio di nozze non avevamo mica un albergo cosí sciccoso. Era solo una pensioncina familiare: carina, però. Oh, che risate! Io avevo ancora dei coriandoli in testa, ma ci hanno accolti lo stesso con tutti gli onori. In camera abbiamo trovato una bottiglia di champagne – roba spagnola, eh, sapeva di poco – e le cameriere volevano a tutti i costi baciarci sulle guance.
Passavamo le giornate in piscina, sdraiati vicini vicini a guardarci. Ad amarci. Davvero, sembra un secolo.
Kate dice che anche qui c’è la piscina. E il centro benessere, addirittura. Io il costume non ce l’ho – non ho neanche i vestiti, d’altronde – ma Kate mi chiede che taglia porto e dice che va «a prendermi qualcosa».
– Paga tutto il giornale, – spiega.
Mentre aspetto che torni, mi ha prenotato un massaggio.
– Cosí ti rilassi un po’. Sarà bello, vedrai. Ti fanno un bel massaggio con gli oli essenziali al gelsomino, o magari alla lavanda, e se hai sonno puoi anche addormentarti sul lettino. Devi farti coccolare un po’, Jean.
Io non è che sono tanto entusiasta, ma lascio fare. Non ho neanche chiesto fino a quando dobbiamo stare qui. Nessuno mi ha detto niente, e quei due la prendono come una vacanza.
Un’ora piú tardi sono distesa sul letto con la vestaglia dell’hotel, talmente rilassata che mi sembra di galleggiare nell’aria. «Profumi come il boudoir di una sgualdrina», avrebbe detto Glen, però a me piace. Profumo di roba costosa. Ma poi Kate bussa alla porta e mi ritrovo dov’ero prima. Nella realtà.
Entra, ed è carica di buste coi nomi dei negozi.
– Ecco, Jean, – dice. – Provati queste cose e vedi se vanno bene.
È buffo che dica sempre il mio nome ogni volta che mi parla. Come un’infermiera, come un’imbonitrice.
Ha scelto delle belle cose, però. Un golfino di cachemire azzurro che non avrei mai potuto permettermi, una camicetta bianca molto fine, una gonna un po’ svolazzante e dei pantaloni grigi attillati, e poi un costume da bagno, mutande, scarpe, un bagnoschiuma superlusso e una bellissima camicia da notte lunga. Mi guarda mentre apro tutti i pacchetti.
– Adoro questo colore; e tu, Jean? – dice, prendendo in mano il golfino. – Azzurro polvere.
Sa benissimo che piace anche a me, ma faccio in modo che non si veda troppo.
– Grazie tante, – dico, – ma non c’era bisogno. È solo per una notte, no? Magari dopo li riporti al negozio.
Lei non risponde, raccoglie le buste vuote e sorride.
L’ora di pranzo è passata da un pezzo, perciò decidono di farsi portare qualcosa da mangiare in camera di Kate. A me basterebbe un panino, ma Mick ordina tre bistecche e una bottiglia di vino che costa ben trentadue sterline, come scopro dopo guardando il menu. Al supermercato, con trentadue sterline ti ci compri otto bottiglie di Chardonnay. Mick dice che il vino è «fantastico, cazzarola». Anche lui usa spesso la parola con due zeta, ma Kate non ci fa caso. Ha occhi solo per me.
Portiamo il carrello fuori dalla stanza perché qualcuno venga a riprenderselo, poi Mick va in camera sua a preparare le macchine fotografiche e Kate si accomoda in una poltrona. Chiacchieriamo del piú e del meno, come quando faccio lo shampoo alle clienti. Ma prima o poi cambia, lo so.
Infatti a un certo punto mi dice: – La morte di Glen ti avrà messo addosso un bello stress, no?
Io faccio segno di sí e cerco di sembrare stressata, perché mica posso contraddirla. Ma la verità è che mi sono sentita rinascere.
– Cos’hai provato, Jean?
– Oh, è stato terribile, – dico, con la voce tutta tremante. Sono di nuovo Jeanie, come quand’ero appena sposata.
Jeanie mi ha salvato la vita. Lei tirava avanti meglio che poteva, preparava la cena, faceva gli shampoo alle clienti, spazzava per terra e rifaceva i letti. Lei pensava che Glen era vittima di un complotto della polizia. Lei stava dalla parte di suo marito, dell’uomo che si era scelta.
Nei primi tempi Jeanie si riaffacciava soltanto per rispondere alle domande dei parenti o della polizia, ma quando il puzzo delle cose brutte ha cominciato a spandersi da sotto la porta Jeanie è tornata ad abitare in casa nostra, e grazie a lei io e Glen siamo rimasti insieme.
– È stato uno shock terribile, – dico a Kate. – È finito sotto l’autobus proprio lí, davanti ai miei occhi. Non ho neanche avuto il tempo di gridare. Un attimo, e non c’era piú. Poi è arrivata dell’altra gente che ha preso il controllo della situazione, per modo di dire. Io ero talmente sbaccalita che non riuscivo a muovermi, perciò mi hanno portata all’ospedale per controllare che stessi bene. Sono stati tutti molto gentili.
Finché non hanno scoperto chi era il morto.
Perché la polizia aveva detto che era stato Glen a rapire Bella.
Quel giorno che sono venuti a casa nostra e hanno fatto il nome di Bella, mi è subito venuta in mente la foto sui giornali: il suo bel faccino, gli occhialini tondi, il cerotto sull’occhio come un cucciolo di pirata. Una bimba cosí dolce che veniva voglia di mangiarsela. Per mesi e mesi si era parlato solo di lei: le signore in negozio, la gente per strada, sugli autobus, dappertutto. La piccola Bella. Giocava nel giardino di casa sua, a Southampton, e qualcuno se l’era presa.
Io non avrei mai lasciato mia figlia da sola in giardino, poco ma sicuro. Santo cielo, aveva solo due anni e mezzo! La madre avrebbe dovuto tenerla d’occhio, ma scommetto che invece era davanti alla tele a guardarsi Chi vuol essere milionario? o qualche altra scemenza. Certe cose succedono solo alla gente cosí, dice Glen. Gente scriteriata.
E credevano che era stato Glen a rapirla. E poi l’aveva uccisa. Quando gliel’ho sentito dire mi è mancata l’aria! I primi ad accusarlo sono stati i poliziotti, si capisce; poi sono arrivati tutti gli altri.
Siamo rimasti lí come due allocchi, fermi nell’ingresso con le bocche spalancate. Dico siamo anche se, in un certo senso, Glen non c’era. La sua faccia era assente. Non sembrava piú lui.
I poliziotti sono arrivati in punta di piedi: niente pugni sulla porta o cose del genere, come si vede alla tele. Hanno bussato piano, toc-toc-toc-totoc-totoc. Glen era appena tornato dall’autolavaggio. È andato ad aprire, io mi sono affacciata dalla cucina per vedere chi era. Due tizi. Uno dei due – quello che somigliava un po’ a Harris, il mio prof di geografia – ha chiesto: «Il signor Glen Taylor?» Proprio cosí, tutto calmo e pacifico.
«Sí», ha detto Glen, e gli ha chiesto se erano dei rappresentanti. Dalla cucina non è che sentissi tanto bene, fatto sta che sono entrati. E solo allora hanno detto che erano poliziotti; l’ispettore Bob Sparkes e il sergente Nonsocosa.
«Signor Taylor, siamo venuti a parlare con lei della scomparsa di Bella Elliott», ha detto l’ispettore. Io ho aperto la bocca per dire qualcosa, per farli star zitti, ma non mi è venuta fuori neanche una parola. Invece Glen ha fatto quella faccia assente.
Finché ci sono stati i poliziotti non mi ha mai guardata, neanche una volta. Non mi ha messo un braccio intorno alle spalle, non mi ha toccato la mano. Era sotto shock, ha detto poi. Lui e i poliziotti parlavano, parlavano, ma io non ricordo niente. Li vedevo muovere le labbra, ma era come se non sentissi. Che c’entrava Glen con Bella? Lui non le avrebbe mai torto un capello. Vuole bene ai bambini, lui.
Alla fine i poliziotti se lo sono portato via. Piú tardi Glen ha detto di avermi salutata, di avermi raccomandato di non preoccuparmi: era solo uno stupido equivoco e si sarebbe risolto presto. Non mi ricordo neanche questo. Poi sono arrivati degli altri poliziotti che hanno fatto un mucchio di domande, hanno scavato nelle nostre vite, per modo di dire, ma io continuavo a pensare a quella sua faccia cosí assente, che per un secondo mi era sembrato di non conoscerlo.
Qualche tempo dopo mi ha detto che era solo andato a fare una consegna vicino a dove abitava Bella, ma che non voleva dire niente. Era solo una coincidenza, diceva lui. Chissà quante persone erano passate di là quel giorno.
Lui non si era neanche avvicinato alla zona del crimine, e il posto dove doveva scaricare era parecchie miglia piú in là. Ma la polizia controllava chiunque: non si sa mai, magari qualcuno aveva visto.
Glen lavorava nella ditta di consegne da quando era stato licenziato dalla banca. Diceva a tutti che se n’era andato di sua iniziativa, perché la banca doveva ridurre il personale e lui aveva voglia di cambiare. Aveva sempre sognato di mettersi in proprio, di non avere piú capi.
Poi una sera ho scoperto la verità. Era mercoledí, io avevo la lezione di aerobica e si cenava sempre tardi. Quando sono tornata si è messo a gridare, mi ha chiesto perché ero arrivata a quell’ora, mi ha detto delle cose orribili, volgari, rabbiose. Certe parole che non gli avevo mai sentito dire. Cosí non andava, era tutto sbagliato. La cucina era piena di accuse e di rabbia, i suoi occhi erano morti, mi guardava come si guarda un’estranea. «Adesso mi picchia», ho pensato. Mi sono messa davanti ai fornelli e ho preso in mano un cucchiaio di legno, lui mi si è piazzato di fronte con le braccia lungo i fianchi, apriva e chiudeva i pugni.
«In cucina comandano le mogli», dicevamo sempre. Ma non quel mercoledí.
La scena è finita con lui che sbatteva la porta e se ne andava a letto nella stanzetta degli ospiti perché non voleva starmi vicino. Io mi sono fermata ai piedi della scala, ancora mezza intontita, a cercare di capire. Cos’era questa storia? Cos’era successo? Che ne sarebbe stato di noi? Anzi no, a quello preferivo non pensarci.
E poi mi sono detta: «Smettila, andrà tutto bene. Avrà avuto una giornataccia, lascia che ci dorma sopra».
Ho cominciato a riordinare, ho preso dal corrimano il suo cappotto e la sciarpa, li ho portati all’attaccapanni vicino alla porta. Dentro una tasca c’era qualcosa, una lettera. Una busta bianca con la finestrella, con il suo nome e l’indirizzo. Una lettera della banca. Ufficiale, fredda come un ghiacciolo: «In seguito a nostre indagini... comportamento non professionale... inammissibile... immediata risoluzione del contratto». Il burocratese non è il mio forte, ma l’ho capito subito che era successa una disgrazia. Fine dei nostri sogni, del nostro futuro. Ho fatto le scale tutte d’un fiato, con la lettera accartocciata in mano. Sono entrata nella stanzetta e ho acceso la luce. Forse mi aveva sentita arrivare ma faceva finta di dormire, e allora ho strillato: «Cos’è questa storia?»
Lui mi ha guardata senza fare una piega. «Mi hanno licenziato», ha detto, poi si è girato dall’altra parte e ha finto di riaddormentarsi.
Il mattino dopo è entrato in camera nostra e mi ha portato il tè nella mia tazza preferita. Aveva la faccia di uno che ha passato la notte in bianco, e mi ha chiesto scusa. Si è seduto sul letto e mi ha spiegato che ultimamente si era sentito sotto pressione, che col suo capo non si erano mai presi, ma in realtà era tutto un equivoco. L’avevano incastrato, l’avevano incolpato di una certa cosa. Di un errore, diceva: lui però non aveva fatto niente di male. Il capo era invidioso, tutto qui. E comunque aveva grandi progetti per il futuro, ma non gli importava piú di nulla se io non restavo con lui.
«Tu sei il centro del mio mondo, Jeanie». Poi mi ha abbracciata forte, e anch’io l’ho abbracciato, e tutte le mie paure si sono dissolte.
Un suo amico che aveva conosciuto su Internet, un certo Mike, gli ha fatto avere quel lavoro nella ditta di trasporti – «Solo per il momento, Jeanie, finché non capisco bene in che settore voglio operare». All’inizio lo pagavano in contanti, poi l’hanno assunto coi libretti. E dopo un po’ non ha piú parlato di mettersi in proprio.
Quando andava al lavoro doveva portare l’uniforme, che però era abbastanza elegante: camicia azzurro chiaro con il logo dell’azienda sul taschino, pantaloni blu scuro. Lui non era per niente contento – «È umiliante, Jeanie. Mi sembra di essere tornato a scuola» – ma alla fine ci si è abituato. Quando usciva di casa al mattino mi salutava con la mano, poi saliva in macchina e andava a prendere il furgone nel deposito della ditta. Pronto per un nuovo viaggio, diceva.
Ho viaggiato con lui una volta sola, una domenica. Era quasi Natale, e doveva fare una consegna speciale per il suo capo a Canterbury. L’anno prima che l’arrestassero, mi pare. L’ho accompagnato volentieri: avevo proprio voglia di una bella gita. All’andata siamo stati zitti tutto il tempo. A un certo punto mi sono messa a rovistare nel vano portaoggetti. C’erano diverse cianfrusaglie e qualche dolcetto. Ho preso una caramellina per me e gliene ho offerta una, tanto per rallegrarlo un po’. Lui non l’ha voluta e mi ha detto di rimetterla a posto.
Il furgone era tutto lindo e pulito. Immacolato. Non l’avevo mai visto, perché la sera lo lasciava al deposito e al mattino andava a riprenderlo in macchina. «Che bel camioncino», gli ho detto, ma lui ha solo grugnito.
«Cosa c’è nel retro?» gli ho chiesto dopo un po’.
«Niente», ha risposto, poi ha alzato il volume della radio.
Aveva proprio ragione, era vuoto. Mentre Glen parlava con il cliente ho curiosato un po’. Anche il retro era lucido come uno specchio. Be’, quasi: da sotto la moquette spuntava un angolino di cellofan strappato da un pacchetto di dolci. L’ho tirato via con l’unghia. Era un po’ impiastricciato di lanugine e polvere, ma l’ho preso lo stesso e me lo sono infilato nella tasca del piumino. Per non fare disordine.
Noi due in gita, come la gente normale. Sembra passato un secolo.
«Glen Taylor?» ripete l’infermiera. Torno coi piedi per terra, e intanto lei scrive il nome su un modulo. Aggrotta la fronte: dove l’ha già sentito? Aspetto, tanto lo so che ci arriva.
Bingo.
«Glen Taylor? Quello che è stato accusato di aver rapito Bella?» chiede sottovoce a uno dei barellieri. Faccio finta di non sentire.
Quando si volta di nuovo verso di me, ha la faccia piú scura. «Torno subito», dice, e si allontana. Probabilmente va a fare una telefonata, perché mezz’ora dopo arrivano dei giornalisti. Si mettono a gironzolare per il pronto soccorso cercando di farsi passare per pazienti, ma io li riconosco a un miglio di distanza.
Me ne sto a testa bassa e non gli dico una parola. Non si vergognano a tormentare cosí una poveretta che ha appena visto morire suo marito?
Arrivano anche i poliziotti: dopo tutto è stato un incidente. Non quelli che vedevamo di solito: questi qui sono della polizia metropolitana. Sbrigano l’ordinaria amministrazione, raccolgono le deposizioni dei testimoni, poi la mia e quella dell’autista dell’autobus. Hanno portato al pronto soccorso anche lui. Pare che abbia preso una botta in testa quando ha frenato. Dice che Glen non l’ha neanche visto scendere dal marciapiede.
Molto probabile, è stato un attimo.
Dopo un po’ arriva anche Bob Sparkes. Sapevo già che prima o poi si sarebbe ripresentato, come una pietanza indigesta. Deve aver corso come il vento per arrivare cosí in fretta da Southampton. Ha la faccia tutta triste e mi fa le condoglianze, ma è ancor piú dispiaciuto per sé stesso. Di sicuro non voleva che Glen morisse. Adesso che lui se n’è andato il caso non potrà mai essere chiuso. Povero Bob. Questa sconfitta gli resterà addosso finché campa.
Si siede vicino a me su una sedia di plastica e mi prende la mano. Io sono talmente a disagio che lo lascio fare, anche se non mi aveva mai toccata cosí prima d’ora. Sembra quasi che gli importi qualcosa di me. Mi tiene la mano e parla sottovoce, gentilmente. Io capisco benissimo cosa sta dicendo ma non sento niente, in un certo senso. Vuole chiedermi se so cos’ha fatto Glen a Bella. Me lo chiede con garbo, dice che adesso posso liberarmi del segreto. Non c’è piú niente da nascondere, adesso. Ero una vittima anch’io, come Bella.
«Bob, io non so niente di Bella; e neanche Glen sapeva niente», rispondo, poi tiro via la mano e fingo di asciugarmi una lacrima. Dopo un po’ vado in bagno a vomitare. Poi mi pulisco e mi metto seduta sul water con la fronte appoggiata alle piastrelle, che sono belle fresche.