LE CONFESSIONI
Sant'Agostino d'Ippona
"Noli foras ire. Intus redi: in interiore homine habitat veritas”, ossia: “non uscire da te stesso, rientra in tenell’intimo dell’uomo risiede la verità"
È uno studio dell’Io, dell’uomo, della persona.
Per cui l’uomo, scavando a fondo, impara a conoscersi e a riconoscere i segni del bene, sicchè il male non è il contrario del bene, ma una sorta di grado zero del bene, il luogo in cui lo stesso non si completa.
LIBRO PRIMO
[L'INFANZIA]
1.1. Sei grande, Signore, e degno di altissima lode: grande è la tua potenza e incommensurabile la tua sapienza. E vuole celebrarti l'uomo, questa particella della tua creazione, l'uomo che si porta dietro la sua morte, che si porta dietro la testimonianza del suo peccato, e della tua resistenza ai superbi: eppure vuole celebrarti l'uomo, questa particella della tua creazione. Tu lo risvegli al piacere di cantare le tue lodi, perché per te ci hai fatti e il nostro cuore è inquieto finché in te non trovi pace. Di questo, mio Signore, concedimi intelligenza e conoscenza: bisogna invocarti prima di renderti lode? E bisogna invocarti prima di incontrarti? Come si può invocarti senza conoscerti? Si rischia, non sapendolo, di invocare una cosa per un'altra, e cader nell'equivoco. O piuttosto bisogna invocarti, per incontrarti? Ma come invocheranno quello in cui non hanno ancora creduto? E come credere, se nessuno l'annuncia?Loderà Dio chi ne sente la mancanza. Perché chi lo cerca lo troverà e chi lo trova gli renderà lode. Voglio cercarti, mio Signore, invocandoti, e invocarti credendo in te: perché l'annuncio di te ci è dato. Ti invoca, mio signore, la mia fede - quella che tu mi hai dato, che l'umanità del tuo figlio e l'ufficio di chi ti annuncia mi hanno ispirato.
2.2. E come invocherò il mio Dio, il mio Dio e Signore, se in-vocarlo è chiamarlo entro di me? E dov'è in me lo spazio per accogliere il mio Dio? Dio entrare in me, quel Dio che ha fatto il cielo e la terra? Come? C'è in me un luogo capace di comprenderti, mio Dio e Signore? Il cielo e la terra, che tu hai fatto e in cui hai fatto anche me, ti comprendono forse? O forse perché senza di te non sarebbe cosa alcuna, avviene che ogni cosa ti comprenda? Ma se anche io per questo esisto, perché mai ti chiedo di venire in me, io che non sarei io, se tu non fossi in me? Già: io non sono ancora all'inferno, eppure tu sei anche là. Sì, quando sarò disceso all'inferno, tu sei là. Io dunque non esisterei, mio Dio, non sarei assolutamente nulla, se tu non fossi in me. O piuttosto, non esisterei se io non fossi in te: perché da te, per te, in te ogni cosa esiste. Sì, mio Signore, eppure, eppure... Dove mi volgerò a invocarti se sono già in te, e tu da dove mai verresti in me? In che recessi oltre la terra e il cielo ritirarmi, perché da loro venga in me il mio Dio, che ha detto: io riempio il cielo e la terra?
3.3. Ti comprendono forse il cielo e la terra, perché tu li riempi? O non li riempi piuttosto eccedendoli, perché non ti comprendono? E dove riversi tutto ciò che resta di te quando hai riempito cielo e terra? O forse non hai bisogno di essere in alcun modo contenuto, tu che contieni ogni cosa, perché per te riempire è contenere? Certo non sono i vasi pieni di te a renderti stabile, perché se anche si spezzassero tu non ti verseresti. E quando ti riversi su di noi tu non ti spandi a terra, ma sollevi noi invece; e non vai perduto tu: ma fai che noi siamo raccolti in te. Pure, ciascuna cosa che riempi, la riempi di tutto te stesso. Forse allora, non potendo ciascuna cosa comprenderti intero, tutte comprendono di te solo una parte, e la stessa? Oppure ciascuna comprende di te una parte maggiore o minore a seconda della sua grandezza? Allora vi sarebbero parti di te maggiori e minori? O sei tutto intero in ogni punto, e nulla ti comprende tutto?
4.4. Dio mio, che cosa sei dunque? Che cosa se non un Dio che è signore? Già - chi è signore oltre al Signore? E chi è dio oltre al nostro Dio? Tu - il supremo, il migliore, il più potente - sì, l'onnipotente - il più misericordioso e il più giusto, il più segreto e il più presente, il più bello e il più forte, immobile e inafferrabile, immutabile che tutto muti, mai nuovo e mai vecchio, che ogni cosa rinnovi e porti a vecchiezza i superbi e non s'accorgono; tu che sei sempre in atto e sempre in quiete, senza bisogno accumuli, sostieni e riempi e proteggi, crei e nutri e porti a compimento, tu cercatore che di nulla manca. Ami e non ti scomponi, sei geloso e imperturbabile, ti penti e non provi rimorso, ti infurii e resti in pace, muti le opere ma non l'idea; accogli ciò che trovi senza aver mai perduto, ignori la miseria e godi dei guadagni, ignori l'avarizia e pretendi ad usura. Ti si dà oltremisura per farti debitore: eppure, chi ha una sola cosa che non ti appartenga? Tu paghi i debiti senza dovere nulla, e li condoni senza perder nulla. E noi - mio Dio, mia vita, mia divina dolcezza, che cosa abbiamo detto? Che cosa può mai dire, chi parla di te? Eppure guai a chi di te non parla, perché parla, ed è muto.
5.5. Chi mi farà trovare quiete in te, chi ti farà venire nel mio cuore a ubriacarlo? Che io dimentichi i miei mali e abbracci l'unico mio bene: te. Che cosa sei per me? Abbi pietà di me, lascia che parli. Che cosa sono io per te, perché tu mi ingiunga di amarti e t'accenda d'ira contro di me se non lo faccio, fino a lanciarmi la minaccia di tristezze enormi? Come fosse da poco già quella di non amarti. Un po' di indulgenza, ti supplico: mio Signore, dimmi che cosa sei per me. Dillo a quest'anima: sono la tua salvezza. Dillo in modo che io l'oda. Ecco, sono davanti a te le orecchie del mio cuore: aprile e dillo all'anima, sono la tua salvezza. E io correrò dietro a questa voce e ti troverò. Non celarmi il tuo volto: io morirò per non morire, e vederlo.
- 6. Angusta è la casa dell'anima perché tu venga da lei: falla più ampia. È in rovina: rimettila tu in piedi. Ha di che
offendere i tuoi occhi, lo so e lo confesso. Ma chi la ripulirà - a chi, se non a te, potrò gridare: liberami, Signore, dalle cose nascoste anche a me stesso, e proteggi il tuo servo dagli altrui segreti. Credo, e per questo parlo. Signore, tu sai. Di fronte a te non ho forse accusato me stesso dei miei delitti, Dio mio, e tu non hai assolto l'empietà del mio cuore? Io non discuto con te che sei la verità; e non voglio ingannarmi, perché la mia iniquità non menta a se stessa. No, non discuto con te, perché se terrai conto dei torti, Signore, Signore, chi potrà resistere?
[Nascita e infanzia]
6.7. E tuttavia consentimi di parlare davanti alla tua misericordia: sono terra e cenere, eppure consentimi di parlare - perché è alla tua misericordia che parlo, non a un uomo, che riderebbe di me. Anche tu forse ridi di me, ma se ti volgerai a guardarmi avrai pietà. Perché in fondo altro non voglio dire se non che io non so da dove son venuto - qui, in questa vita mortale dico, o morte vitale. Non lo so. E mi accolsero i conforti della tua compassione, per quanto ho appreso dai genitori della mia carne, che tu hai formato nel tempo da lui, in lei: non ne ho memoria, io. Mi accolsero dunque i conforti del latte umano: ma non erano mia madre o le mie balie a riempirsi da sé le poppe - eri tu che per mezzo loro nutrivi la mia infanzia secondo la regola che hai stabilito e le risorse che hai disposto sin nel fondo delle cose. E anche per tua volontà era dato a me di non voler di più di quanto davi, e a quelle che mi nutrivano di voler dare a me ciò che tu davi loro: perché era nell'ordine delle cose il desiderio che avevano di darmi ciò che avevano in abbondanza da te. Era un bene per loro il bene che da loro traevo, e che non da loro, ma per loro mezzo era fatto. Perché da te vengono tutti i beni, Dio, dal mio Dio mi viene tutta intera la salute. E me ne sono accorto poi, quando hai cominciato a gridarmelo proprio attraverso queste tue elargizioni, interiori ed esterne. Sì, perché tutto quello che sapevo fare allora era succhiare e godermi in pace i piaceri o piangere dei fastidi della mia carne, nient'altro.
- 8. Poi cominciai anche a sorridere, dapprima nel sonno, più tardi da sveglio. Così almeno mi dissero, e io ci credo, perché è quello che vediamo negli altri bambini: io di tutto questo non ho memoria. Ed ecco che a poco a poco mi rendevo conto del luogo in cui mi trovavo, e volevo manifestare i miei desideri alle persone capaci di soddisfarli, e non ci riuscivo, perché gli uni erano dentro e le altre fuori di me, e quelle persone non avevano un senso che le facesse accedere all'anima mia. E così mi mettevo a lanciare in aria braccia e gambe e grida, segnali con cui per poco che mi riuscisse esprimevo i miei desideri, e che erano simili a questi, in qualche modo, non al vero. E se non mi davano soddisfazione, o per non riuscire a intendermi o per non farmi danno, montavo su tutte le furie: solo perché i grandi non si piegavano ai miei capricci e delle persone libere rifiutavano d'essere schiavizzate, e a forza di pianti mi vendicavo di loro. Così son fatti i bambini: l'ho imparato più tardi, da quelli che ho conosciuto, e che cosí fossi anch'io me l'hanno rivelato meglio loro senza saperlo, che i miei educatori con tutto il loro sapere.
- 9. Ecco: è morta tanto tempo fa la mia infanzia, e io vivo. Tu invece mio Signore sempre vivi e nulla muore in te, perché prima dei primordi dei secoli e prima di ogni cosa che può dirsi prima, tu sei e sei Dio e Signore di tutte le cose che hai creato. Ferme in te stanno le cause di tutte le cose instabili e restano immutabili le origini di tutte le cose mutevoli e vivono eterne le ragioni di tutte le cose irrazionali e temporali. Tu parla dunque a uno che ti supplica e abbi pietà di un miserabile e dimmi: è a un'altra età, già morta anch'essa, che seguì la mia infanzia? Quella che ho vissuto nelle viscere di mia madre? Qualcosa me ne fu detto invero, e donne incinte ne ho vedute io stesso. Ma prima ancora, mia dolcezza, dimmi... Ero da qualche parte, ero qualcuno? Non ho nessun testimone di questo: né mio padre e mia madre, né l'esperienza d'altri né la mia memoria. Ma forse tu ridi di me che ti faccio queste domande, e vuoi piuttosto che io ti renda lode e testimonianza per quello che so?
- 10. Ti riconosco, Signore del cielo e della terra, e ti rendo lode per i primordi della mia infanzia. Io non ne ho memoria, ma tu hai dato all'uomo di farsene un'idea ricavandola dall'infanzia di altri, e di formarsi molte opinioni sul proprio conto perfino in base all'autorità di qualche vecchia serva. Sì, esistevo, e anche allora ero un essere vivente, e già verso la fine dell'infanzia ero alla ricerca dei segni con cui farmi comprendere dagli altri. Da dove viene un essere vivente come questo se non da te, Signore? A meno che qualcuno possa esser l'artefice di se stesso. O l'esistenza e la vita scorrono in noi per una sola vena che abbia origine diversa da te, nostro autore? Da te per cui esistere non è altro che vivere, perché l'esistenza al suo massimo è il colmo della vita, non altro. E tu esisti in grado sommo: non muti, e in te l'oggi non ha termine, eppure ha termine in te, perché in te sono anche tutte le cose di quaggiù: non avrebbero vie per cui passare, se tu non le contenessi. E poiché non vengono meno, sono l'oggi i tuoi anni: e quanti giorni nostri e dei nostri padri sono già passati attraverso il tuo oggi e da esso han ricevuto il modo e la misura in cui sono esistiti, eppure altri ne passeranno ancora per riceverne quel tanto d'esistenza, a loro volta. Tu invece sei sempre il medesimo e tutte le cose di domani e dopo, e tutte quelle di ieri e di prima ancora, oggi le compirai, oggi le hai già compiute. Che posso farci, se c'è chi non capisce? Si rallegri anche lui e dica che significa questo? Si rallegri anche così e gli sia più caro trovarti senza fare scoperte che farne senza trovarti.
[L'innocenza dei bambini: un'illusione]
7.11. Dio, ascolta. Maledetti i peccati degli uomini! È l'uomo che lo dice, e tu hai pietà di lui, perché tu lo hai fatto, ma non hai fatto anche il peccato che ha in sé. Chi mi rammenterà il peccato della mia infanzia, se nessuno è innocente davanti a te, neppure il neonato che ha un giorno solo di vita sulla terra? E chi, se non qualunque bimbo piccolissimo, in cui vedo quello che non ricordo di me stesso? Qual era dunque il mio peccato, allora? Forse l'avidità con cui boccheggiavo piangendo per il seno? Se lo facessi ora, boccheggiando a quel modo non per poppare ma per un'esca adeguata ai miei anni, mi farei ridere in faccia e riprovare, e giustissimamente. Dunque era riprovevole anche quello che facevo allora, e solo perché non ero in grado di capirle le riprovazioni erano fuori luogo, e sarebbero state irragionevoli. Queste sono in effetti abitudini che la crescita stessa sradica ed elimina: e non s'è mai visto che uno facendo pulizia getti via deliberatamente quello che ha di buono. A meno che non fossero buoni per quell'età anche altri vezzi: come quello di strepitare per cose che a ottenerle ci avrebbero fatto male o di montare su tutte le furie se delle persone libere e adulte, magari i nostri stessi genitori e le persone più autorevoli non si facevano tiranneggiare, o non erano lì, pronti al minimo cenno della propria volontà; e gli sforzi per vendicarsi per quanto possibile di loro picchiandoli, solo perché non obbedivano a degli ordini che sarebbe stato pericoloso per noi eseguire? Dunque è nella debolezza del corpo infantile l'innocenza dei bambini, non nell'anima. Io ho visto e conosciuto bene un bambino geloso: non parlava ancora e già guardava livido, con occhi torvi il suo fratello di latte. Chi non le sa, queste cose? Le madri e le balie si vantano d'averci chissà quali rimedi: ma non la si può chiamare innocente questa insofferenza, questo rifiuto di condividere con altri il latte per abbondante e ricco che fluisca alla fonte, e per bisognoso che altri sia di quell'aiuto, il solo alimento da cui trae la vita. Ma a questo riguardo si è tolleranti e indulgenti, non perché sian cose da nulla o da poco, ma perché son destinate a venir meno coll'avanzare dell'età. Lo prova il fatto che questi stessi atteggiamenti non si possono più sopportare tranquillamente, quando li si riscontrano in una persona più matura.
- 12. Tu dunque, mio Dio e Signore, che hai dato al bambino vita e corpo, che come vediamo lo hai dotato di sensi e di membra ben compaginate, hai reso grazioso il suo aspetto e hai insinuato in lui tutti gli impulsi vitali adatti a preservarne l'incolumità in ogni condizione, tu mi ordini di renderti lode per tutto questo e di riconoscerti e di inneggiare al tuo nome, Altissimo. Perché sei un Dio onnipotente e buono e lo saresti anche se questa fosse la tua sola opera, che non poteva esser compiuta da alcuno se non da te, unico, da cui viene ogni misura, modello di bellezza che ogni cosa modelli e ordini secondo la tua norma. Ebbene, mio Signore: questa età, che non ricordo di aver vissuta, riguardo alla quale mi affido ad altrui resoconti e che solo osservando altri bimbi arguisco di aver avuto anch'io, per affidabile che sia questa congettura, ecco: mi pesa doverla considerare parte di questa mia vita che sto vivendo, quaggiù nel secolo. Quanto a tenebre d'oblio in effetti è pari a quella che ho vissuto nell'utero di mia madre. Ma se son stato perfino concepito nella colpa, e mia madre mi ha nutrito nell'utero fra i peccati, dove, ti chiedo, dove, mio Signore, io servo tuo, dove o quando sono stato innocente? Ma via, di quel tempo io non mi occuperò: che cosa posso avere in comune, oggi, con qualcosa di cui non trovo traccia nella memoria?
[L'apprendimento della lingua]
8.13. È proseguendo dall'infanzia a qui che sono arrivato alla fanciullezza? O piuttosto è questa che è venuta a compiersi in me succedendo all'infanzia? Del resto quest'ultima non se ne era andata: e dove, andava? Eppure non c'era più. Non ero più un infante, privo della parola, ma un bambino parlante, ormai. E di questo mi ricordo bene, mentre del modo in cui avevo appreso a parlare mi sono reso conto solo più tardi. Non erano gli adulti, in effetti, a insegnarmi le parole presentandomele con un qualche ordine didattico, come poco più tardi fecero con l'alfabeto; ma ero io che me le insegnavo da solo con l'intelligenza che tu mi hai dato, Dio mio. Perché a forza di gemiti e gorgheggi e gesti mi sforzavo di manifestare i miei stati d'animo, in modo da farmi obbedire: ma non riuscivo a esprimere tutto quello che volevo, e neppure ci riuscivo con chi volessi. Ma la memoria era come prensile: quando gli adulti menzionavano qualche oggetto e in base a quel suono protendevano il corpo nella sua direzione, io osservavo e tenevo a mente che così, con quel suono, che emettevano quando volevano indicare l'oggetto, essi lo chiamavano. E che fosse questo ciò che volevano si capiva chiaramente dal movimento del corpo come pure da quella sorta di linguaggio naturale di tutti i popoli, fatto di espressioni del volto e cenni degli occhi e di gesti delle altre membra e di toni di voce, sintomi questi dei diversi affetti che accompagnano lo sforzo di acquisire qualcosa o il suo possesso, la ripulsa o la fuga. Così a poco a poco, a furia di udire le stesse parole ricorrere in una certa posizione in diverse frasi, capivo quali fossero le cose di cui quelle parole erano segni, e ormai vi avevo addestrato abbastanza gli organi della bocca per riuscire a formulare i miei desideri col loro aiuto. E così arrivai a comunicare con le persone circostanti mediante i segni che danno espressione verbale alla volontà, ed entrai più profondamente nella tempestosa comunità della vita umana, senza cessar di dipendere dall'autorità dei genitori e dal minimo cenno degli adulti.
[La vuota disciplina della scuola]
9.14. Dio, Dio mio, quante ne ho viste di miserie e di raggiri allora, quando ancora bambino mi proponevano come ideale di vita l'obbedienza a quelli che volevano fare di me un uomo di successo e un vincitore nelle arti della chiacchiera, che servono a procacciare prestigio fra gli uomini e false ricchezze. Fui mandato a scuola, a imparare a leggere e a scrivere, senza avere la minima idea, infelice, di che uso se ne potesse fare. E tuttavia, se ero tardo nell'apprendere, mi battevano. Perché era un metodo approvato dagli adulti, e molti venuti al mondo prima di noi avevano aperto le dolorose vie per cui ci costringevano a passare, tanto per accrescere un po' la dose di fatica e affanno riservata ai figli di Adamo. Là però trovammo anche, mio Signore, persone che pregavano te, e da loro venimmo a sapere, per quanto era nelle nostre possibilità, che tu esistevi: eri grande, un personaggio capace di ascoltarci e soccorrerci anche senza apparire ai nostri sensi. E da bambino infatti cominciai a pregare te, soccorso e rifugio mio, e sfrenavo del tutto la mia lingua quando ti invocavo: e ti pregavo, per piccolo che fossi, con passione non piccola, di fare che non mi battessero. E siccome non mi esaudivi, a tutto svantaggio della mia ignoranza, gli adulti e perfino i miei genitori, che pure non volevano mi accadesse nulla di male, ridevano delle botte che mi toccavano: come non fossero allora, per me, un male grande e angoscioso.
- 15. Esiste, mio Signore, un animo così grande, capace di un'adesione cosí appassionata al tuo essere? Esiste, dico - perché a tanto può condurre anche un certo genere di insensatezza - un animo che in questo suo religioso aderire a te sia preso da una passione tanto sublime da fargli ritener cosa da poco cavalletti e unghioni e simili forme di tortura, che in tutti i paesi della terra la gente ti supplica terrorizzata di tener lontane? E che per giunta li ami teneramente, questi altri che ne hanno una tremenda paura? Come facevano i nostri genitori: i quali sorridevano delle torture che i nostri maestri infliggevano a noi bambini? Ma non per questo noi ne avevamo meno paura, e non erano meno ferventi le suppliche che ti rivolgevamo perché ce ne scampassi. Certo, avevamo la nostra colpa, che era di scrivere o leggere o studiare di meno di quanto si esigeva da noi. Perché non erano la memoria o l'ingegno a farci difetto: di questi, mio Signore, hai voluto dotarci a sufficienza per quell'età. Ma ci piaceva giocare, e questo era motivo per esser puniti da persone che poi si comportavano proprio come noi. Ma i giochi degli adulti si chiamano occupazioni, mentre quelli dei bambini, che lo sono anch'essi, sono puniti dagli adulti: e nessuno ha pietà degli adulti o dei bambini, o di entrambi. Magari un giudice onesto approverebbe le busse che mi venivano date, perché giocavo a pallone da bambino e il gioco m'impediva di imparare rapidamente le lettere, grazie alle quali da grande avrei giocato giochi più vituperandi. Ma si comportava diversamente proprio la persona da cui venivo percosso? Se in qualche discussioncella era vinto da un suo collega d'insegnamento, si rodeva per la bile e l'invidia più di me quando in una partita di pallone venivo sconfitto da un mio compagno di giochi.
10.16. Eppure io peccavo, Signore Dio, ordinatore e creatore di tutte le cose in natura, ma dei peccati solo ordinatore, Signore Dio mio, peccavo perché facevo il contrario di quello che i genitori e quei maestri mi imponevano. Perché più tardi avrei saputo come far buon uso della grammatica, quale che fosse l'intento che i miei perseguivano nel volermela fare apprendere. Io poi non disubbidivo perché mi garbasse far di meglio, ma per amore del gioco: mi piaceva vincere le gare - lo trovavo esaltante - e farmi solleticare le orecchie dalle storie fantastiche, e farne crescere il prurito: con la stessa curiosità, sempre più intensa, che mi faceva scintillare gli occhi di fronte agli spettacoli, questi giochi degli adulti. Eppure chi li fa, gli spettacoli, ne acquista un prestigio tale che quasi tutti lo augurerebbero ai propri figli: salvo consentire volentieri che questi siano puniti se gli spettacoli li distolgono dallo studio - che pure, nei loro desideri, è il mezzo per arrivare a produrne di propri. Guarda tutto questo, Signore, con cuore indulgente, e libera noi che ti invochiamo ormai, e libera anche chi ancora non invoca te, perché ti invochi e sia liberato.
[La religione materna. Una grave malattia]
11.17. Ancora bambino avevo sentito parlare della vita eterna che ci era stata promessa per l'umiliazione del Signore Dio nostro, disceso fino a noi e al nostro orgoglio: e già ero stato segnato col segno della sua croce e spruzzato del suo sale, appena uscito dall'utero di mia madre, che aveva molto sperato in te. Tu lo vedesti, Signore, quando ero ancora un bambino e un giorno improvvisamente un'occlusione di stomaco mi fece venire una febbre altissima e quasi stavo per morire, vedesti, Dio mio, tu che fin d'allora m'eri custode, con che emozione e con che fede chiesi il battesimo del tuo Cristo, del mio Dio e Signore, alla devozione di mia madre e della madre di noi tutti, la tua Chiesa. E la mia madre secondo la carne, che più di ogni altra cosa desiderava partorire ancora la mia salvezza eterna dal fondo puro del suo cuore, nella tua fede, già si apprestava con angoscia ad affrettare la mia iniziazione ai sacramenti della salvezza, in modo che ne fossi lavato e ti glorificassi, Signore Gesù, per la remissione dei miei peccati, quando improvvisamente guarii. E così la mia purificazione fu differita, quasi fosse stato inevitabile che mi insozzassi ancora continuando a vivere: perché certamente ritrovarsi nel fango di ogni colpa dopo quel lavacro avrebbe comportato uno stato d'accusa più grave e più pericoloso. Dunque anch'io già credevo, come lei e tutti, in casa, salvo mio padre, che tuttavia non riuscì a soffocare in me i diritti dell'amore materno fino a impedirmi di credere in Cristo, come non ci credeva - ancora - lui. Ella infatti faceva il possibile perché tu mi fossi padre, Dio mio, invece di lui, e in questo tu l'aiutavi ad essere da più del marito - che ella pur essendo migliore di lui serviva: e in questo servizio, che tu hai comandato, era ancora te che serviva.
- 18. Lo chiedo a te, Dio mio: vorrei sapere - purché anche tu lo voglia - per quale disegno fu allora differito il mio battesimo: e se fu per il mio bene che mi furono per così dire allentate le briglie al peccato, o se non è vero che lo furono. Ma se no, perché ancora oggi sentiamo dire dappertutto, a proposito di questi o di quelli: "E lascialo fare, tanto non è ancora battezzato!" Eppure se è in questione la salute fisica non diciamo: "E lascia che si ferisca ancora, tanto non è ancora guarito!" In quella circostanza dunque sarebbe stato meglio per me essere guarito, e subito, e che si provvedesse a me con tutta la premura del caso, da parte mia e dei miei, in modo che una volta ricevuta, la salute dell'anima mia restasse sicura, affidata alla cura di chi l'aveva data. Sì, meglio davvero.
Ma quante onde di tentazioni, altissime, si profilavano già minacciose, oltre l'infanzia! E lei, mia madre, lo sapeva bene: e preferiva arrischiarvi la terra che solo più tardi avrebbe preso la mia forma, piuttosto che la forma già restaurata a tua immagine.
12.19. Eppure proprio durante l'infanzia, che suscitava meno apprensioni al mio riguardo dell'adolescenza, io non amavo lo studio e detestavo d'esservi costretto: e vi ero tuttavia costretto e mi faceva bene, pur se non facevo bene io: non avrei studiato, senza costrizione. Perché nessuno fa bene controvoglia, anche se è bene che lo faccia. Neppure quelli che mi costringevano facevano bene, ma mi faceva bene lo stesso, Dio mio, per opera tua. Loro infatti non vedevano altro fine agli studi cui mi costringevano che quello di saziare un insaziabile desiderio di miserabili ricchezze e d'ingloriosa fama. Ma tu - per cui sono contati i capelli sulla nostra testa - impiegavi a mio vantaggio l'errore di tutti quelli che mi assillavano perché studiassi, e quello mio di non voler studiare lo usavi a mio castigo: e non ingiustamente ne ero oppresso, da quel ragazzino e grande peccatore che ero. E così tu da chi non faceva bene traevi del bene per me, e la mia giusta pena era quello stesso me che peccava. Perché tu hai stabilito che ogni anima che è nel disordine sia la sua propria pena: e così è.
[Prime passioni letterarie: Virgilio]
13.20. Per quale ragione poi odiassi il greco, di cui mi riempivano la testa da bambino, non mi è chiaro ancora oggi. Mi ero infatti appassionato al latino, non quello dei maestri elementari, ma quello insegnato dai cosiddetti grammatici. Perché le prime classi, dove si insegna a leggere e scrivere e far di conto, mi erano un peso e un supplizio non minore di tutte quante le classi di greco. Ma anche questo rifiuto da cosa derivava se non dal peccato e dalla frivolezza... per la quale ero carne e soffio che vaga e non ritorna? Dopotutto quei primi rudimenti, coi quali si formava in me la capacità di leggere tutto ciò che è scritto e di scrivere io stesso tutto ciò che mi aggrada - e l'ho acquisita e la posseggo ora, questa capacità - erano quelli che valevano di più, perché più certi. Di più, dico di tutta quella letteratura, a cominciare dalle avventure di un tale che andava errando, un certo Enea: e dovevo imparare a memoria quelle, e dimenticare che anch'io andavo errando, e piangere la morte di Didone che si uccide per amore, mentre intanto nella mia estrema infelicità morivo in queste storie lontano da te, Dio, vita mia, senza versare una lacrima sola.
- 21. Niente è più triste di un miserabile che non si commisera e piange la morte di Didone per l'amore di Enea, e non piange la sua propria morte per il disamore di te, Dio, lume del mio cuore e pane nella bocca dell'anima, potenza che sposa la mia mente e seme nel ventre dei pensieri. Io non ti amavo e ti tradivo da lontano, e mentre lo facevo un coro di "bravo! bravo!" mi risuonava tutt'intorno. Sì, l'amicizia di questo mondo è un modo di prostituirsi via da te, e "bravo! bravo!" lo si dice perché l'uomo si vergogni se non lo fa. E io non piangevo su tutto questo, ma piangevo sulla morte di Didone che a spada tratta inseguiva gli estremi mentre io stesso inseguivo le cose estreme della creazione, lontano da te, terra che torna in terra: e se mi fosse stata proibita, questa lettura, me ne sarei rattristato: per non poter leggere di che rattristarmi! E questa follia passa per essere un livello di istruzione letteraria superiore, e più proficuo di quello che mi servì a imparare a leggere e scrivere.
- 22. Ma ora il mio Dio me lo gridi nell'anima, e la tua stessa verità mi dica: no, no, non è così, son molto meglio i primi rudimenti. Sì, perché adesso sono più disposto a dimenticare le avventure di Enea e tutte le cose di quel genere, piuttosto che come si fa a leggere e scrivere. Sulla soglia delle scuole di grammatica pendono dei veli: ma più che il prestigio dei loro misteri stanno a indicare la copertura dei loro errori. E non si mettano a gridarmi contro adesso, che tanto non ne ho più paura ora che ti confesso i desideri dell'anima, Dio mio, e ritrovo la calma nel condannare le mie torte vie, per apprezzare le tue che son buone. Non si mettano a gridarmi contro i venditori e compratori di grammatica: perché se li interrogo su questo punto - è vero o no che Enea venne a Cartagine, come dice il poeta? - i meno dotti risponderanno di non saperlo, e i più dotti negheranno addirittura che sia vero. Ma se chiedo come si scriva il nome di Enea, con quali lettere, tutti quelli che hanno studiato mi risponderanno dicendo il vero - secondo la convenzione arbitraria con cui gli uomini hanno convenuto di fissarne i segni. E così se chiedo quale di queste due cose sia peggio dimenticare, agli scopi di questa vita, il saper leggere e scrivere o quelle finzioni poetiche, chi non vedrebbe che cosa deve rispondere uno che non abbia smarrito la memoria di se stesso? Dunque peccavo da bambino, con la mia predilezione per quelle frivolezze, che preferivo a queste più utili nozioni: o piuttosto queste le odiavo, e amavo quelle. E già: l'"uno e uno due, due più due fa quattro" m'era una cantilena odiosa, e adoravo quello spettacolo di leggerezza che è il cavallo di legno pieno di guerrieri e l'incendio di Troia e l'ombra stessa di Creusa.
["Una sapiente alchimia di amarezze"]
14.23. Perché dunque odiavo la letteratura greca, che pure non è da meno quanto a poemi? Indubbiamente anche Omero è un sapiente tessitore di favole, deliziosamente leggero. Eppure da bambino mi riusciva indigesto. Credo che questo succeda anche ai bambini greci con Virgilio, se sono costretti a studiarlo come lo ero io con Omero. Era la difficoltà, nient'altro che la difficoltà di apprendere una lingua straniera a cospargere come di fiele tutte le greche delizie di quelle narrazioni favolose. Io non sapevo una parola di greco, e mi assillavano furiosamente perché lo imparassi, torturandomi con la minaccia di terribili castighi. C'è stato un tempo, nella primissima infanzia, in cui neppure di latino sapevo una parola: e tuttavia m'è bastata un po' d'attenzione a impararlo, senza spaventi e torture, anzi fra le carezze delle balie e i loro giochi e le risa. L'ho imparato senza esservi incalzato sotto il giogo della disciplina, quando era il mio cuore a incalzarmi perché dessi alla luce quello che concepiva: il che non sarebbe avvenuto, se alcune parole non le avessi imparate non dagli insegnanti, ma da altri parlanti con le orecchie pronte ad accogliere tutto ciò che mi veniva in mente e che io vi riversavo. E questa è un'illustrazione abbastanza chiara della maggior efficacia che la libera curiosità ha rispetto a un pavido affannarsi sotto costrizione, per quanto riguarda questo genere di apprendimento. D'altra parte è questa costrizione a ridurre sotto le tue leggi, Dio, il flusso dispersivo di quella: sì, sotto le tue leggi, le tue leggi che dalla frusta dei maestri alle prove dei mártiri dispensano una sapiente alchimia di amarezze. Salutari: perché ci richiamano a te dalla pestifera gaiezza che da te ci ha allontanati.
15.24. Ascolta, Signore, la mia preghiera, che quest'anima non crolli sotto la tua disciplina e io non cessi di renderti lode per l'indulgenza che mi hai dimostrato strappandomi dalle mie perfide vie. Perché tu mi sia più dolce di tutte le seduzioni di cui ero preda, e io ti ami profondamente e mi stringa alla tua mano con tutte le viscere e tu mi strappi a ogni tentazione, fino all'ultimo. Ecco Signore, sei tu il mio re e il mio Dio: se da bambino ho appreso qualcosa di utile, sia posto al tuo servizio, e al tuo servizio sia tutto il mio parlare e scrivere e leggere e calcolare, perché quando studiavo cose vane tu mi imponevi una disciplina e il peccato di appassionarmi a quelle fatuità lo perdonavi. Sì, in fondo studiandole ho imparato molte parole utili; benché le si possano imparare anche occupandosi di cose meno vane, ed è una via più sicura da far percorrere a dei bambini.
16.25. Ma guai a te, fiumana del vivere umano! Chi ti resisterà? Quando sarai a secco, finalmente? Fino a quando trascinerai i figli di Eva nel gran mare irto d'angosce, che a malapena riesce a traversare chi s'è imbarcato sul legno? Non è dentro di te che ho letto un Giove tonante e adultero? E che sia tutt'e due le cose, è impossibile: ma così lo si fa apparire sulle scene, per avere un modello da imitare in un vero adulterio, con la ruffianata di un tuono finto. E quale dei togati professori diede ascolto - senza infuriarsi - a quell'uomo che dalla loro stessa arena proclamava a gran voce: È la fantasia di Omero, che prestava agli dèi qualità umane: vorrei ne avesse piuttosto prestate a noi divine? Comunque è più vero che erano sì fantasie, ma attribuivano qualità divine a uomini viziosi, in modo che i vizi non paressero vizi, e chi li praticava sembrasse avere a modello non uomini perduti, ma gli dèi del cielo.
[Il teatro e la cultura pagana]
- 26. Fiume infernale, eppure si gettano dentro di te i figli degli uomini, e pagano per imparare tutto questo, e passa per una cosa seria, dato che si rappresenta pubblicamente in piazza, sotto la tutela delle leggi che stanziano uno stipendio in aggiunta ai compensi privati: e nel fragore dei sassi che urti vai gridando: "Qui si imparano le parole, qui s'acquista l'eloquenza indispensabile a persuadere e a esprimere il proprio pensiero." Perché, non le conosceremmo queste espressioni, "pioggia d'oro" e "grembo" e "trucco" e "templi del cielo", e altre che stanno scritte in questo passo di Terenzio? Macché, per questo bisognava che costui mettesse in scena il suo giovinastro che prende Giove a modello di seduttore, mentre osserva un quadro alla parete, dove era raffigurata questa scena: Giove che, come si narra, fa cadere una pioggia d'oro in grembo a Danae, un trucco per ingannare la donna. E guarda come si eccita al piacere, imparando per così dire alla scuola celeste:
E che dio! - dice - Sì, quello che i templi del cielo scuote con fragore immenso.
E io che sono un pover'uomo no?
Anch'io l'ho fatto, e molto volentieri.
Non è vero, non è affatto vero che questa spudoratezza aiuti ad apprendere più facilmente queste parole: sono queste parole che invitano a concedersi più leggermente questa spudoratezza. Non accuso le parole, che sono come vasi eletti e preziosi, ma il vino dell'errore che in essi ci veniva propinato da quegli ebbri dottori, e che dovevamo sorbire per non esser picchiati, e non c'era un giudice sobrio cui appellarsi. Eppure io, Dio mio, al cui cospetto ormai pacificato è il mio ricordo, amavo quegli studi e - infelice - ne ricavavo un gran piacere e per questo ero giudicato un ragazzo di belle speranze.
[Prime glorie scolastiche]
17.27. Consentimi, mio Dio, di dire qualche cosa anche del mio ingegno, questo tuo dono, e dei vaneggiamenti in cui lo consumavo. Mi assegnavano un compito che bastava a mettere in ansia quest'anima, fra la speranza di un riconoscimento e il timore delle busse, come ad esempio quello di esporre il discorso di Giunone furente e addolorata di non poter stornare dall'Italia il re dei teucri, un discorso che non le avevo mai sentito fare. Ma eravamo costretti anche noi ad andare errando dietro alle fantasie dei poeti, e a dire in prosa quello che il poeta aveva detto in versi: e più lodato era chi più plausibilmente, tenendo conto del rango del personaggio abbozzato, sapeva interpretarne l'ira e il dolore, scegliendo adeguatamente le parole con cui rivestire questi sentimenti. Ah vita vera, Dio mio, che vantaggio ricavavo io dagli applausi tributati alla mia recitazione, davanti a molti coetanei e condiscepoli? Eccoli lì, era tutto fumo e vento. Dunque non c'era altro mezzo di esercitare il mio ingegno e la lingua? Le tue lodi, Signore, stese da un capo all'altro delle tue scritture: le tue lodi mi avrebbero sorretto il vitigno del cuore: e non mi sarebbe stato razziato e trascinato via per i deserti della frivolezza, come preda sconciata dagli uccelli. Già: in molti modi si sacrifica agli angeli caduti.
18.28. Ma che c'è di strano se mi lasciavo trascinare a questo modo fra le vanità e uscivo sempre più da te, Dio mio, quando mi si proponevano a modello degli uomini che, se li si rimproverava di essere incorsi in qualche barbarismo o solecismo nel raccontare qualche loro azione per nulla indegna, restavano confusi, ma andavano ben fieri dei complimenti che ricevevano se riuscivano a parlare dei loro impulsi viziosi in una lingua da puristi, costruendo le frasi a regola d'arte "con facondia ed eleganza". Tu vedi tutto questo Signore, e sei longanime, molto pietoso e veridico, e taci. Ma tacerai per sempre? E ora strappi da questa vertiginosa profondità l'anima che ti cerca e ha sete dei tuoi piaceri, mentre ti dice il cuore: Ho cercato il tuo volto; il tuo volto mi manca, signore: lontano dal tuo volto nel buio degli affetti. Già: non è a piedi o attraversando lo spazio che ci sia allontana da te e a te si ritorna. Non aveva bisogno di cavalli e di carri o di navi, non prese il volo con un vistoso sbatter d'ali, non consumò la strada a forza di garretti quel tuo figlio minore, quello prodigo, per andare a vivere in un paese lontano, dove dissipare quello che alla partenza tu gli avevi dato. Tenero padre che molto gli desti, e più tenero ancora quando ritornò, povero ormai. Perché chi vive fra gli impulsi del desiderio è nel buio degli affetti, cioè lontano dal tuo volto.
- 29. Vedi, Signore Dio, vedi con la pazienza del tuo sguardo con quanta diligenza i figli degli uomini osservano gli accordi sanciti dai parlanti più antichi in materia di lettere e sillabe, riservando un'estrema noncuranza agli accordi per la salute perpetua da te sanciti in eterno. Così che se uno di quelli che custodiscono o insegnano quelle vecchie convenzioni sui suoni pronunciasse la parola homo senza aspirazione della prima sillaba, contro la regola grammaticale, sarebbe riprovato più che se, essendo un uomo, odiasse un uomo, contro i tuoi precetti.
Come se ci fosse nemico più pericoloso dell'odio suscitato contro un nemico, anche il peggiore, o se perseguitando un altro gli si potesse mai procurare una rovina più grave di quella che l'inimicizia stessa provoca nel proprio cuore. E certo la conoscenza della grammatica non è iscritta più profondamente nell'intimo della coscienza, in cui sta scritto di non fare agli altri quello che non si vuol soffrire per sé. E come sei segreto tu che abiti nell'alto, nel silenzio, grande Dio solo, che con legge implacabile spargi sui desideri di seduzione la pena d'esser ciechi! Ecco invece un uomo in cerca di gloria, quella dei rètori, davanti a un giudice umano, circondato da una folla: e mentre attacca con odio ferocissimo il suo avversario pone la massima attenzione a evitare che gli sfugga un errore nella pronuncia della parola "uomo", ma non che un uomo, per un accesso di follia, sia cancellato dal consorzio umano.
[Alle soglie dell'adolescenza: passioni e talento]
19.30. E io bambino me ne stavo infelice sulla soglia di quella vita, ed era degna palestra di quel genere di competizioni la scuola dove più ansiosamente mi guardavo dai barbarismi che dall'invidia verso quelli che non ne commettevano, se capitava a me. E per questo, Dio mio, lo dico e lo confesso a te, ero apprezzato da quelle persone la cui approvazione allora costituiva tutto l'onore della mia vita. Non la vedevo, la voragine di bruttura in cui m'ero sprofondato lontano dai tuoi occhi. E nella loro luce nulla, ne sono certo, fu allora più detestabile di me, se riuscivo a dispiacere perfino a quella gente, a furia di bugie con cui ingannavo l'istitutore e i maestri e i genitori: per la voglia che avevo di giocare, e la passione per gli spettacoli leggeri, con l'istrionica smania di imitarli che mi mettevano addosso. Rubavo anche, dalla dispensa di casa e da tavola, o per gola o per avere di che far doni agli altri bambini: perché la loro compagnia per giocare, benché ci si divertissero quanto me, me la vendevano. Nel gioco poi ero dominato dalla vana ambizione di eccellere, al punto che spesso rapinavo vittorie fraudolente. Lo facevo agli altri, ma non lo sopportavo da parte loro: e se li coglievo in fallo protestavo fierissimamente: ma se ero io ad essere colto in fallo e redarguito, preferivo arrivare alla violenza piuttosto che cedere. E questa sarebbe l'innocenza dei bambini? No, non esiste, Signore, non esiste: ma figuriamoci, Dio mio! Sempre la stessa storia, prima per noci e palline e passeri, sotto gli istitutori e i maestri, e poi sotto i prefetti e i re per l'oro, i poderi, gli schiavi: sempre la stessa storia mentre le età si succedono sempre più avanzate, come alla verga succedono più gravi supplizi. Per questo tu che sei il nostro re non hai voluto approvare, nella statura infantile, che il simbolo dell'umiltà, quando hai detto: È di chi assomiglia a loro, il regno dei cieli.
20.31. E tuttavia, Signore che altissimo e ottimo fondi e governi tutto ciò che esiste, a te, Dio nostro, grazie: anche se mi avessi voluto davvero soltanto bambino. Sì, anche allora esistevo, vivevo e sentivo, e mi prendevo cura della mia conservazione, questo ricordo o traccia della tua misteriosa unità, da cui venivo; e avevo l'intima percezione dei miei sensi per custodirne l'integrità, e anche in quei miei piccoli pensieri di piccole cose prendevo gusto alla verità. Non volevo essere ingannato, avevo una memoria vivida, ero dotato della parola, mi lasciavo intenerire dall'amicizia, fuggivo il dolore, l'avvilimento, l'ignoranza. Che cosa c'era in quell'essere vivo che non fosse mirabile e degno di lode? Ma tutti questi sono doni del mio Dio. Non sono stato io a darmeli: e sono beni, e tutto questo sono io. Dunque è buono quello che ha fatto me, ed è lui il mio bene, e rendo onore a lui per tutti i beni che costituivano il mio essere, anche da bambino. Il mio peccato era soltanto di non cercare in lui, ma nelle sue creature, in me stesso e negli altri, piaceri, distinzioni, verità: e così precipitavo incontro a dolori, equivoci ed errori. Grazie, mia dolcezza e mia gloria, mia fiducia. Grazie Dio mio dei tuoi doni: ma tu conservameli. E così mi salverai, e crescerà e si compirà quello che tu mi hai dato, e io sarò con te, perché se sono è soltanto per te.
LIBRO SECONDO
[A SEDICI ANNI]
1.1. Voglio ricordare le passate brutture e le devastazioni inflitte dalla carne all'anima: non perché io le ami ma per amare te, Dio mio. È per amore del tuo amore che lo faccio, e ripercorro le vie della mia infamia nell'amarezza di questa rimemorazione: perché tu possa addolcirmela, dolcezza senza inganno, tu felice dolcezza senza angosce. Che mi raccogli dalla dispersione e ricomponi i mille pezzi in cui mi sono frantumato, quando volgendo le spalle all'uno - a te - sono svanito nel molteplice. Vi fu un tempo, l'adolescenza, in cui bruciavo dalla voglia di provare le cose più basse, e fino in fondo: e mi lasciai pullulare una selva di ombrosi amori, e la mia bella forma ne fu devastata e qualcosa marcì dentro di me ai tuoi occhi, mentre a me stesso piacevo e volevo piacere agli occhi degli uomini.
[Gli amori dell'adolescenza]
2.2. Niente mi deliziava quanto amare ed essere amato. Ma non ne mantenevo la misura, da anima ad anima, il luminoso limite dell'amicizia. Come una nebbia saliva dal limo del desiderio sensuale e dagli umori della pubertà e mi oscurava, mi offuscava il cuore, fino a che il chiaro cielo dell'affetto si confondeva alla foschia dell'erotismo. E tutt'e due m'accendevano dentro un solo incendio e cacciavano allo sbaraglio improvviso delle passioni quella malcerta età e la sprofondavano in un pozzo di vergogna. La tua collera era cresciuta sopra di me, e non me ne accorgevo. Mi lasciavo assordare dallo stridore di catena della mia mortalità, pena per l'orgoglio dell'anima, e andavo via più lontano da te che mi lasciavi andare, ed ero agitato e traboccante e colavo fuori ribollendo di voglie, e tu tacevi. Mia tardiva allegrezza! Tacevi allora, e io lontano da te sempre più mi perdevo in mille e mille sterili semi di dolori, superbo nell'abiezione e nella fatica inquieto.
- 3. Nessuno avrebbe potuto porre un limite alla mia affannosa tristezza e volgere a buon uso le fugaci bellezze delle infime cose, e indicare una meta al piacere che mi davano, fino a che i marosi della mia età si frangessero sulla spiaggia del matrimonio, se non potevano placarsi e contenersi entro i limiti della procreazione di figli. Come prescrive la tua legge, Signore che plasmi perfino la propaggine della nostra morte, tu che puoi temperare con mano leggera le spine che nel tuo paradiso non c'erano. Perché non è lontana da noi la tua onnipotenza, anche quando siamo lontani da te. Fossi stato più lucido! Avrei certo avvertito il tuono delle tue nubi: Costoro avranno tribolazioni nella carne, e io vorrei risparmiarvele, e: È bene per l'uomo non toccare donna! E: Chi è senza moglie pensa alle cose di Dio, e a piacere a Dio; ma chi è vincolato dal matrimonio pensa alle cose del mondo, e a piacere alla moglie. Sì, fossi stato più lucido avrei prestato ascolto a queste voci, e una volta castrato per amore del regno dei cieli più felice mi sarebbe stata l'attesa dei tuoi abbracci.
- 4. Infelice: invece ruppi gli argini, abbandonandomi a quel mio impeto fluviale, e ti lasciai e oltrepassai tutti i limiti della tua legge e non scampai al tuo staffile - e chi vi scampa fra i mortali? Tu eri sempre là, con feroce tenerezza, a tormentarmi, a cospargere di amarezza e disgusto tutte le mie allegrie di seduttore, perché cercassi l'allegria che non disgusta. E ci fossi riuscito, là niente avrei trovato all'infuori di te, Signore, di te che mascheri di dolore la legge e ci colpisci per guarirci e ci uccidi per non lasciarci morire lontano da te. Dov'ero, in quale esilio lontano dalle dolcezze della tua casa, in quel sedicesimo anno d'età della mia carne? Fu allora che si impadronì di me (e io mi ero consegnato con le mani legate) una frenesia di piacere amoroso, disonore dell'uomo quando è sfrenato, illecito per le tue leggi. I miei non si curarono di arginare col matrimonio quel fiume in piena che ero: la loro unica preoccupazione era che imparassi a comporre i discorsi migliori e a persuadere con l'arte oratoria.
[Interruzione degli studi]
3.5. E proprio quell'anno i miei studi erano stati interrotti. Ero stato richiamato da Madaura, vicina città dove già mi ero trasferito per studiare letteratura e retorica, e ora si tentava di trovare il denaro per un mio soggiorno molto più lontano, a Cartagine. E questo era più consono all'ambizione che ai mezzi di mio padre, assai modesto cittadino di Tagaste. A chi racconto tutto questo? No, non a te, Dio mio, ma alla tua presenza io lo racconto al genere umano, al genere che è mio, per quanto piccola sia la parte di esso che si imbatterà in queste mie pagine. E a che scopo? Perché io stesso e chiunque mi legge consideriamo da che profondità debba levarsi a te il nostro grido. Eppure che cos'è più vicino al tuo orecchio di un cuore che ti riconosce, di un vivere di fede? Allora non c'era nessuno che non approvasse incondizionatamente un uomo come mio padre, che per mantenere agli studi lontano da casa il figlio non badava a spendere al di là delle sue possibilità patrimoniali. Molti concittadini assai più ricchi si guardavano bene dall'affrontare per i loro figli un impegno del genere. E intanto quello stesso padre non si preoccupava di come io crescessi ai tuoi occhi, o di quanto fossi casto, purché fossi un coltivato oratore - cioè del tutto incolto nelle cose tue, Dio che sei l'unico, vero e buon padrone del tuo campo, del mio cuore.
- 6. Ma quando - ero appunto nel sedicesimo anno - dovetti interrompere la scuola per queste ragioni familiari, e nell'intermezzo di vacanza tornai a stare coi miei genitori, altissimi mi crebbero i rovi della libidine, tanto che ne fui soverchiato: e non c'era mano che li sradicasse. Anzi mio padre, una volta che, ai bagni, si accorse guardandomi che ero già in piena pubertà, con tutti i segni di un'adolescenza inquieta, preso da una specie di esaltazione all'idea dei futuri nipoti, lo fece notare a mia madre: ed era pieno di gioia, di quella sbornia di gioia in cui questo mondo s'è dimenticato di te, del suo creatore, e s'è innamorato delle tue creature, ubriaco di un vino invisibile: la sua volontà perversa, incline a ciò che è più basso. Però nel cuore di mia madre tu avevi già gettato le fondamenta del tuo tempio, della tua sacra dimora: mentre lui era soltanto un catecumeno, e per di più di fresca data. Fu un duro colpo per lei, che fu presa da trepidazione e religioso timore: benché ancora non fossi battezzato paventava le vie tortuose in cui cammina chi volge a te la schiena e non la faccia.
- 7. Infelice! E oso dire che tu tacevi, Dio mio, mentre mi allontanavo da te? Tacevi davvero, allora, per me? E di chi erano se non tue le parole che mi cantavi nelle orecchie per bocca di mia madre, a te fedele? Ma non mi scendevano in cuore, nemmeno una ci arrivava per tradursi in fatti. Lei voleva che io rinunciassi agli amorazzi - e mi ricordo l'ansia enorme con cui mi ammoniva in segreto - soprattutto di guardarmi dall'adulterio con qualunque donna sposata. E a me parevano consigli da donne, che mi sarei vergognato di seguire. E invece erano i tuoi, e io non lo sapevo e credevo che tu tacessi e che a parlare fosse solo lei, quella di cui tu ti servivi per non tacere: e in lei io disprezzavo te, io, sì, suo figlio, figlio della tua ancella, servo tuo. Ma lo ignoravo e correvo a precipizio, talmente cieco da vergognarmi di esser meno svergognato dei miei coetanei. Li stavo a sentire mentre si vantavano dei loro vizi e più erano brutti più se ne gloriavano, e quel che piaceva era fare non solo per il piacere del fatto, ma anche per il prestigio che ne conseguiva. Che cosa meriterebbe di esser biasimato più del vizio? Ma io diventavo più vizioso per non essere biasimato, e quando per difetto di colpe non arrivavo alla pari coi peggiori, mi inventavo azioni che non avevo commesso, per paura di apparire tanto più meschino quanto meno ero colpevole, e di esser giudicato tanto più vile quanto più ero casto.
- 8. Erano questi i miei compagni di vagabondaggio per le piazze di Babilonia: e io mi rotolavo in quel fango come fosse un balsamo o un profumo prezioso. E per incollarmi ancora più tenacemente al suo ombelico mi cavalcava l'avversario invisibile e mi seduceva - e facilmente mi lasciavo sedurre. Perché perfino lei che era già fuggita dal centro di Babilonia, e però si attardava ancora alla sua periferia, dico la madre della mia carne, mi aveva sì raccomandato il pudore, ma poi non si preoccupava abbastanza della cosa che da suo marito era venuta a sapere di me: e se non poteva eliminarla tagliando nel vivo, arginarla nei limiti di un affetto coniugale le pareva fin d'allora devastante e pericoloso per il mio futuro. Non se ne preoccupò perché temeva che l'impaccio di una moglie potesse frustrare le mie speranze. Non la speranza della vita futura, che mia madre riponeva in te, ma quelle degli studi letterari, che entrambi i genitori erano troppo desiderosi di vedermi portare a compimento: lui, perché su di te non nutriva alcun pensiero o quasi, e su di me solo pensieri fatui; lei, perché riteneva che l'educazione letteraria tradizionale non solo non sarebbe stata un ostacolo, ma anzi in qualche misura un aiuto, nel mio cammino verso di te. Questa è almeno la congettura che posso avanzare, in questo tentativo di richiamare alla mente il carattere dei miei genitori. E mi allentavano anche le briglie ai divertimenti, ben oltre il tenore di una severità moderata, fino a dare via libera a tutta la varietà delle mie passioni. E su tutte le cose gravava una foschia che mi precludeva il cielo sereno della tua verità, mio Dio. E come dal grasso mi spuntava l'occhio della malignità.
[Il furto di pere]
4.9. Certamente la tua legge punisce il furto, Signore, e così la legge scritta nel cuore degli uomini, che neppure la loro ingiustizia può cancellare. Non a caso non c'è ladro che si lasci derubare senza batter ciglio! Neppure se è ricco e l'altro ruba per sfamarsi. E io volli commettere un furto, e lo commisi senza essere in miseria: o forse sì, povero com'ero di giustizia, che avevo a noia, e straricco di iniquità. Rubai quello che avevo in abbondanza e di qualità molto migliore, e del resto non era per goderne che volevo rubarlo, ma per il furto stesso, per il peccato. C'era un pero nelle vicinanze della nostra vigna, carico di frutti non particolarmente invitanti all'aspetto o al sapore. Era una notte fosca, e noi giovani banditi avevamo tirato così in lungo i nostri scherzi per le strade, secondo un'abitudine infame: e ce ne andammo a scuotere la pianta per portar via le pere. Ce ne caricammo addosso una quantità enorme, e non per farne un'abbuffata noi, ma per gettarle ai porci - e se anche ne assaggiammo qualcuna fu solo per il gusto della cosa proibita. Ecco il mio cuore, Dio, ecco il cuore che in fondo all'abisso ha suscitato la tua pietà. E questo cuore ora ti deve dire che cosa andava cercando laggiù: volevo fare una cattiveria gratuita, senza avere altra ragione d'essere malvagio che la malvagità. Era brutta, e l'ho amata: ho amato la mia morte, il venire a mancare - e non l'oggetto di questa mancanza, no, ma la mia mancanza stessa ho amato, anima vergognosa che si schioda dal tuo fondamento per annientarsi, e non per qualche bruttura particolare, ma per il suo desiderio del brutto.
5.10. I corpi belli, l'oro e l'argento e tutte le cose colpiscono per l'aspetto visibile; nel tatto ciò che conta di più è la proporzione, e a ciascuno degli altri sensi corrisponde un particolare aspetto dei corpi. Anche il prestigio temporale e il potere e il prevalere hanno un loro pregio, da cui nasce anche la voglia di vendetta: tuttavia nel perseguire tutti questi beni non c'è bisogno di uscire da te, Signore, né di trasgredire la tua legge. E la vita che viviamo qui ha un suo fascino, dovuto a una certa misura di dignità e di accordo con tutte queste bellezze inferiori. E anche l'amicizia degli uomini è dolce nel suo caro nodo che stringe molte anime in una. Per tutte queste cose, o altre del genere, si commette peccato soltanto se una immoderata inclinazione verso di esse induce ad abbandonare per loro, che sono beni infimi, i migliori o i supremi. Cioè te, nostro Signore e Dio, e la tua verità e la tua legge. Anche le cose più basse hanno le loro attrattive, ma non come il mio Dio che di tutte è l'autore, perché in lui trova il suo piacere il giusto, ed è lui la delizia dei puri di cuore.
- 11. Quando si cerca il movente di un delitto, di solito non si resta convinti finché non viene in luce la possibilità almeno che si tratti del desiderio di uno di quei beni che abbiamo definito inferiori, o la paura di perderlo. Son pur sempre cose belle e degne, ancorché spregevoli e basse di fronte a quelle fonti di beatitudine che sono i beni superiori. Uno ha ammazzato un uomo. Perché l'ha fatto? Desiderava sua moglie o il suo podere, o voleva procurarsi di che vivere con una rapina, o temeva di perdere una di queste cose per colpa della vittima, o si è lasciato infiammare dal desiderio di vendicarsi di un'offesa. Avrebbe mai ammazzato un uomo senza una ragione, per il puro piacere dell'omicidio? E chi potrebbe crederlo? Di un uomo crudele fino alla pazzia è stato scritto che era malvagio e crudele in modo gratuito: ma perfino in questo caso viene data una ragione, subito prima: perché, diceva, non gli si intorpidisse la mano o la mente, nell'ozio. E anche questo, a che scopo? Perché? È evidente: quell'allenamento ai delitti gli serviva per impadronirsi di Roma, ottenere cariche pubbliche, potere e ricchezze; per liberarsi dal timore delle leggi e dai problemi derivanti dalla povertà della sua famiglia e dal rimorso per i delitti compiuti. In conclusione, perfino Catilina non amava i propri delitti, ma un'altra cosa: il fine per cui li perpetrava.
[Un gesto gratuito]
6.12. E a me, infelice, cosa piaceva in te, mio furto, notturna bravata dei miei sedici anni? Non eri bello, dato che eri un furto. Ma sei qualcosa tu, perché io ti rivolga la parola? Erano belli i frutti che rubammo perché erano creature tue, bellissimo fra tutte le cose, loro autore, Dio buono, Dio sommo bene e mio bene vero; erano belli quei frutti, ma non erano la cosa desiderata da quest'anima miserabile. Perché io ne avevo in abbondanza di migliori, ma colsi proprio quelli, soltanto per rubare. E infatti una volta che li ebbi colti li gettai per abbuffarmi soltanto della mia ingiustizia, che mi dava un grande piacere. E se qualcuno di quei frutti mi finì sotto i denti, era la brutta azione che gli faceva da condimento. E ora, mio Signore e Dio, io mi chiedo che cosa mi piacesse tanto in quel furto, e non ci vedo un'ombra di bellezza: non dico di quella che si trova nella giustizia e nella saggezza, ma neppure di quella che sta nella mente dell'uomo e nella sua memoria, nei suoi sensi e nella vita vegetativa. Non un'ombra: non lo splendido rango delle stelle, non la bellezza della terra e del mare folti di vite in potenza, nella vicenda di nascite e morti; neppure, infine, quella bellezza evanescente e umbratile che è il fascino ingannevole dei vizi.
[La perversa imitazione di Dio]
- 13. In fondo, l'orgoglio è un omaggio alla grandezza, quando tu solo sei l'eccelso Dio al di sopra del tutto. E l'ambizione che cosa cerca se non onori e gloria, quando a te solo fra tutte le cose sono dovuti onori e gloria eterna? E la ferocia dei potenti vuol essere temuta: ma di chi è che bisogna aver timore se non del solo Dio? Al suo potere chi è che può strapparsi o comunque sottrarsi, quando, dove, da chi, per fuggir dove? E le carezze degli amanti vogliono farsi amare: ma non c'è carezza più lieve del tuo amore e non c'è passione più salutare di quella per la tua verità, lucente e bella sopra ogni altra cosa. E la curiosità si atteggia a brama di conoscenza, quando il conoscitore massimo di tutto sei tu. Perfino l'ignoranza e l'idiozia si coprono col nome di semplicità e innocenza, perché nulla c'è di più semplice di te. E nulla di più innocente, se sono le azioni dei malvagi a rivoltarsi contro di loro. E l'ignavia è una sorta di aspirazione alla quiete: ma c'è una quiete certa come Dio? Il lusso poi si fa chiamare soddisfazione e abbondanza: ma sei tu la pienezza e ricchezza senza fine di un indistruttibile benessere. Lo sperpero si nasconde all'ombra della generosità: ma sei tu il più abbondante dispensatore di ogni bene. L'avidità vuol molto possedere: e tu possiedi tutto. L'invidia contende il primato: e cosa è migliore di te? L'ira cerca vendetta: chi nella vendetta è più giusto di te? La paura si sgomenta d'ogni insolita e repentina minaccia all'integrità delle cose amate: e cerca nella prevenzione la sua sicurezza. E cosa c'è di insolito per te? Di repentino? Chi può togliere a te quello che ami? Dove se non da te è la vera sicurezza? La tristezza si strugge per le cose perdute che lusingavano il desiderio, perché vorrebbe che nulla le si potesse strappare, come a te.
- 14. Ed è così che l'anima tradisce, quando ti volta le spalle per cercare fuori di te qualcosa che non trova puro e limpido se non tornando a te. Ti scimmiottano tutti, quelli che si allontanano da te e ti si levano contro. Ma anche scimmiottandoti mostrano che sei tu il creatore di ogni genere di cose, e che perciò non c'è luogo a sfuggirti. Che cosa mi piaceva in quel mio furto dunque, e in che cosa imitai, sia pure colpevolmente e a rovescio, il mio Signore? Forse prendevo gusto a violare la tua legge almeno con la frode, visto che con la forza non potevo? Per imitare, prigioniero com'ero, un'azzoppata libertà facendo impunemente una cosa proibita, buia caricatura d'onnipotenza? Eccolo qui lo schiavo fuggitivo, che lasciò il suo padrone e trovò l'ombra. O putredine, bestia mostruosa della vita, profondità della morte. È possibile che mi attirasse una cosa proibita, solo perché proibita, e niente altro?
7.15. Come ricambierò il Signore del fatto che la mia memoria rievoca tutto questo senza che l'anima se ne sgomenti? Io saprò amarti Signore, e ringraziarti e riconoscere il tuo nome, perché mi hai perdonato azioni tanto malvagie e brutte. Lo debbo alla tua grazia e alla tua compassione, che tu abbia sciolto il ghiaccio dei miei peccati. Alla tua grazia debbo anche il male che non ho fatto: perché cosa non avrei potuto fare io che ho amato persino la colpa gratuita? Eppure sento che tutto è stato perdonato, il male che spontaneamente ho fatto e quello che mi hai indotto a non commettere. E poi qual è quell'uomo che considerando la propria incostanza osa attribuire alle proprie forze la propria castità e incolpevolezza? Per poi amarti di meno, quasi gli fosse stata meno necessaria la compassione con cui condoni i peccati a chi si ti si rivolge. E allora se qualcuno ha udito il tuo richiamo e ha seguito la tua voce e ha evitato il male di cui legge in queste pagine il mio ricordo e la mia confessione, non voglia ridere di me: ero malato e fui guarito da quel medico stesso cui deve di non essersi ammalato, o forse d'essersi ammalato meno. E voglia amarti altrettanto, anzi di più, vedendo me liberato da tanta malinconia di colpe in grazia di colui che non volle ne fosse egli stesso avviluppato.
[Complicità di gruppo]
8.16. Povero me: che frutto raccolsi allora dalle cose che ora mi fanno arrossire a ricordarle? E soprattutto, dico, da quel furto: commesso per amore del furto e per nient'altro, dunque per niente, niente essendo il furto, così da farmi più povero ancora. Eppure non l'avrei fatto da solo - se ricordo l'animo mio di allora - da solo non l'avrei compiuto affatto. Dunque era anche la complicità dei miei compagni d'avventura ad attrarmi.
Dunque non è vero che era il furto in se stesso a piacermi, e nient'altro. Ma sì invece: nient'altro, perché anche quella complicità non era niente. Già, che cos'è in realtà? Che cosa sia può insegnarmelo solo colui che illumina il mio cuore e discerne le sue ombre. Che significa questo, che mi viene in mente di indagare e discutere e valutare quel fatto? Se allora fossi stato attratto dai frutti che rubai, e avessi desiderato di godermeli, avrei potuto compiere anche da solo quell'ingiustizia - ammesso che uno solo bastasse - e arrivare così a cavarmene la voglia, senza star lì a sfregarci le coscienze per infiammare il mio prurito di arraffare. Ma siccome non era in quei frutti, il mio piacere era solo nella colpa, e a suscitarlo era la complicità.
9.17. Che stato d'animo era quello? Il meno che si possa dire è che era brutto: guai a me che lo provavo. Ma pure in che cosa consisteva? I peccati chi li capisce? Un riso ci solleticava il cuore all'idea di far torto a della gente che non se l'aspettava proprio da parte nostra, e si sarebbe infuriata. Perché allora mi divertiva tanto non farlo da solo? Forse perché non è facile ridere da soli? Non è facile, eppure capita anche a singole persone quando son sole e nessun altro è presente, di scoppiare a ridere se vedono o gli viene in mente qualcosa di irresistibilmente comico. Però io non l'avrei fatto da solo, da solo no, assolutamente. Eccolo davanti a te, mio Dio, il vivido ricordo di quest'anima. Da solo non l'avrei compiuto, quel furto commesso non per la cosa rubata, ma per il piacere di rubare: a farlo da solo non c'era nessun gusto, e non lo avrei mai fatto. Inimicissima amicizia, inspiegabile seduzione della mente, ansia di male nata dal gioco e dallo scherzo e desiderio di far danno agli altri senza frenesia di guadagno o di vendetta, quando qualcuno dice "andiamo, facciamo", e si ha pudore a non essere impudenti.
10.18. Chi scioglierà questo groviglio tanto intricato e attorto? È brutto: non voglio più rivolgergli il pensiero, non voglio più vederlo. Te voglio, innocenza e giustizia, bella e preziosa di nobili luci, di sazietà insaziabile. Da te c'è grande quiete, e vita ignara d'ogni turbamento. Chi entra in te, entra nella gioia del suo Signore e non avrà più paura e si troverà sovranamente bene nel bene sovrano. Come acqua mi sono dissipato, scorrendo via da te e ho errato per tutta la mia adolescenza, Dio mio, troppo lontano dalla tua immobilità. E sono divenuto a me stesso un paese di miseria.
LIBRO TERZO
[A CARTAGINE: GLI STUDI]
1.1. Arrivai a Cartagine e mi trovai a bagno in una caldaia ribollente di amori colpevoli. Io non amavo ancora e amavo l'amore: e una più segreta povertà mi faceva odiare in me stesso proprio questo non esser povero abbastanza. Cercavo qualcosa da amare, amando l'amore, e odiavo la serenità di una via senza trappole. Avevo fame e rifiutavo il nutrimento interiore, cioè te, Dio mio: non era quello il cibo per cui mi consumavo, ma se non smaniavo per un cibo eterno non era perché ne fossi sazio: anzi più digiuno ne ero, e più nausea mi dava. Non era in buona salute l'anima, era come esulcerata e si gettava fuori, infelice, nel desiderio di farsi toccare e graffiare dai corpi: che nessuno amerebbe, se non avessero un'anima. Amare ed essere amato mi era più dolce se possedevo anche nel corpo la persona amata. E così inquinavo la sorgente dell'amicizia con i veleni della passione e offuscavo la sua chiarezza con l'inferno del sesso. Eppure, sgraziato e volgare com'ero, mi studiavo follemente, nella mia straripante vanità, d'essere raffinato ed elegante. Infine precipitai nell'amore, da cui volevo esser fatto prigioniero. Dio mio di compassione, di quanto fiele mi hai cosparso quella dolcezza! Tale è la tua bontà. Fui amato, giunsi a un segreto vincolo di intimità, e mi avvolgevo voluttuosamente in grovigli d'angoscia per cedere ai colpi delle fruste di fuoco: sì, gelosie e sospetti e paure e rabbie e litigi.
[Il teatro: una passione. Psicologia dello spettatore]
2.2. Mi affascinavano gli spettacoli teatrali, pieni di immagini delle mie angosce e di paglia per il mio fuoco. Come mai vuole piangere l'uomo in questi luoghi, davanti agli spettacoli di tragedie e morti che mai vorrebbe egli stesso soffrire? Pure, soffrire è proprio quello che lo spettatore vuole, e questa sofferenza gli è un piacere. Cos'è, se non la nostra povera follia? Meno si è immuni da quelle passioni, e più ci si commuove: anche se il proprio soffrire si chiama passione, e il soffrire per gli altri compassione. Ma infine che razza di compassione è se son solo finzioni, effetti da teatro? Al punto che lo spettatore non è indotto a portare soccorso, ma viene solo invitato a una dolorosa immedesimazione, e apprezza tanto più l'attore tragico quanto più questa riesce. E se la recitazione di quelle disgrazie antiche o immaginarie non fa soffrire abbastanza lo spettatore, quello se ne va annoiato e protesta; se invece soffre, rimane attento e piange, e così si diverte.
- 3. Dunque amiamo le lacrime e il dolore. Senza dubbio ogni uomo desidera la gioia. E se a nessuno piace essere infelice, forse è il piacere della compassione, che non può esser senza qualche dolore, la sola ragione di amare il dolore? E anche questo è un rivolo di quella sorgente, l'amicizia. Ma dove va? Dove scorre? E perché sfocia in un fiume di pece bollente, nei gorghi di un piacere malinconico, in cui la stessa amicizia si muta e si stravolge, sviandosi e precipitando di propria iniziativa dalla sua limpida serenità? E allora bisogna rifiutare la compassione? Niente affatto. Si ami pure la sofferenza, talvolta. Ma guardati dall'impurità anima mia! Resta sotto la protezione del mio Dio, il Dio dei nostri padri glorificato e celebrato in ogni tempo, guardati dall'impurità. Non sono privo di compassione, ora: ma allora a teatro io godevo insieme con gli amanti stretti nei loro abbracci colpevoli anche se simulati soltanto per il gioco della scena, e in una sorta di compassione mi rattristavo delle loro separazioni; e in tutt'e due i modi mi divertivo. Oggi veramente provo maggior compassione di chi sguazza nelle gioie colpevoli che non di chi soffre duramente per la privazione di un piacere distruttivo e di una felicità grama. E questa è certo compassione più autentica, ma in questo caso non è un piacere rattristarsi. Anche se si approva per dovere di carità chi soffre per gli infelici, uno che abbia una compassione genuina preferirebbe che non ci fosse di che soffrire. Se esiste una benevolenza maligna - che è impossibile - allora anche chi prova vera e sincera compassione può desiderare che esistano degli infelici di cui avere compassione. La sofferenza dunque a volte la si può approvare: amarla, mai. Tu, Dio che ami le anime, senti per loro una compassione tanto più pura e incorruttibile della nostra, quanto sei invulnerabile al dolore. Ma chi può tanto?
- 4. Ma io allora amavo quella pena, infelice, e cercavo di che procurarmela: e in quelle angosce estranee e immaginarie, da commediante, più lacrime riusciva a strapparmi l'attore e più mi piaceva la sua recitazione, e tanto più fortemente subivo il suo potere di seduzione. Non c'è da meravigliarsene, perché la povera pecora che ero, smarrita lontano dal tuo gregge e insofferente della tua sorveglianza, era deturpata da una volgarissima scabia. E perciò questo amore della pena - non per farmene penetrare molto in profondità, perché certo non avrei amato patire io stesso quello che amavo negli spettacoli - ma quasi per farmene sfiorare l'epidermide, da quelle pene immaginarie e teatrali che erano. Ma come quando ci si gratta la scabia, le conseguenze erano infiammazioni, gonfiori e infezioni disgustose. Ma era vita quella vita, Dio mio?
[Vita studentesca. Il piacere delle trasgressioni]
3.5. Ma alta su di me, lontana, fedele, volteggiava la tua misericordia. In che malvagie cose mi sono disperso. Ho ceduto a una curiosità sacrilega, fino a farmi trascinare, dimentico di te verso le cose più basse e infide, e a un insidioso culto dei demoni, ai quali offrivo le mie peggiori azioni in sacrificio. Ma intanto tu continuavi a fustigarmi! Perfino in mezzo alla folla delle tue cerimonie, fra le pareti della tua chiesa ho osato desiderare il frutto della morte, e darmi da fare per ottenerlo. E allora tu mi hai staffilato duramente, ed era ancora nulla in confronto alla mia colpa, o tu grandiosa misericordia mia, mio Dio, rifugio che mi scampi alla gente nefasta e devastante fra cui vagavo carico di boria, e sempre più lontano per le mie vie che amavo invece delle tue: mia fuggitiva libertà, che amavo.
- 6. Anche gli studi cosiddetti liberali avevano il loro sbocco nei fori litigiosi dove avrei dovuto eccellere: e dove la gloria è proporzionale all'abilità negli imbrogli. Tale è la cecità degli uomini, che perfino della cecità si gloriano. Ormai ero fra i primi alla scuola di retorica e ne andavo superbo: gonfio di vento ero, benché di gran lunga più tranquillo - Signore, tu lo sai - e del tutto estraneo alle gazzarre dei "perturbatori" - già, questo soprannome sinistro e diabolico è come una patente di snobismo - fra i quali vivevo. Serbavo dunque un certo pudore nell'impudenza, perché io non ero come loro: stavo con loro a volte, e mi divertiva la loro amicizia, ma evitavo sempre con orrore di partecipare alle loro imprese, cioè alle gazzarre prepotenti con cui aggredivano la timidezza dei nuovi arrivati e li spaventavano a furia di scherzi gratuiti, giusto per sfogare la loro maligna allegria. Niente è più simile alle azioni dei demoni. Non ci sarebbe stato nomignolo più adatto di "perturbatori", perturbati com'erano essi stessi per primi e pervertiti da quegli spiriti beffardi: vittime delle loro seduzioni e dei loro raggiri, per il solo fatto di prender tanto gusto alle beffe e ai raggiri.
[L'incontro con la filosofia]
4.7. Erano questi i compagni di un'età ancora oscillante, che trascorsi studiando i libri d'arte oratoria: in cui aspiravo a emergere, col fine fatuo e deplorevole di godermi i fasti della vanità umana. E già, secondo il consueto ordine degli studi, mi era venuto in mano un libro di un certo Cicerone, la cui lingua è oggetto di universale ammirazione: cosa che non si può dire del suo spirito. Ma quel suo libro contiene un'esortazione alla filosofia: Ortensio, è intitolato. Ed è proprio quel libro che ha mutato il mio modo di sentire: ha convogliato verso di te, mio signore, tutte le mie suppliche e mi ha fatto nascere altre ambizioni, altri progetti. Erano all'improvviso senza alcun valore, tutte quelle speranze della mia vanità: e nel mio cuore divampò un'incredibile passione per l'immortalità della sapienza. Cominciava il risveglio che mi avrebbe ricondotto a te. Quel libro io non lo usai per affinare il mio linguaggio, cioè per l'acquisto cui parevano destinati i soldi di mia madre: avevo diciott'anni, e mio padre era morto due anni prima. Non lo usai per affinare il mio linguaggio: perché era ciò che diceva ad avermi persuaso, e non come lo diceva.
- 8. Che incendio, mio Dio, che incendio questo in cui mi struggevo di levarmi in volo per ritornare a te, via dalle cose terrene, e non sapevo cosa volevi far di me! Sta presso di te la Sapienza. Ma l'amore della sapienza ha il nome greco di filosofia, e per quel nome mi accendevo, leggendo. Si può sedurre, con la filosofia: c'è gente che usa il suo grande nome affascinante e nobile per imbellettare e mascherare i propri errori, e quasi tutti quelli di questa razza, contemporanei o precedenti all'autore, sono segnalati e bollati in quel libro. Là si mostra salutare il consiglio donato dal tuo spirito per bocca del tuo buon servo devoto: Badate che nessuno vi inganni con la filosofia e la vana seduzione conforme alla tradizione umana, conforme agli elementi di questo mondo e non conforme a Cristo, perché in lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità. A quel tempo, lo sai, lume del mio cuore, ancora non conoscevo queste parole dell'Apostolo: ma in quell'esortazione bastava ad avvincermi l'invito, che il discorso mi faceva, ad amare non questa o quella setta ma la sapienza stessa, dovunque fosse: e a cercarla, conseguirla, possederla e stringerla a sé con forza. Quel discorso mi accendeva e mi faceva ardere, e in tanto fuoco una cosa sola mi raffreddava, che non vi comparisse il nome di Cristo, perché questo nome - secondo la tua bontà, Signore - questo nome del mio Salvatore, tuo figlio, il mio cuore ancora intatto l'aveva fiduciosamente succhiato col latte materno e lo conservava nel profondo. E senza questo nome qualunque opera, per quanto dotta e raffinata e veridica, non mi conquistava del tutto.
[Primo approccio alla Bibbia...]
5.9. Così decisi di mettermi a leggere le Sacre Scritture, per vedere com'erano. E cosa mi trovo davanti? Qualcosa di oscuro ai superbi ma non più accessibile ai piccoli, basso all'approccio e sublime a procedere e velato di misteri: e io non ero il tipo da riuscire a passarci, magari chinando la testa, per quel suo ingresso. Perché quello che sto dicendo non ha niente a che fare con l'impressione che quel modo di scrivere mi fece allora, quando mi misi a occuparmene: ma mi sembrò semplicemente indegna del confronto con la dignità ciceroniana. La mia tronfiaggine rifuggiva dalla sua misura, e tutto il mio acume non riusciva a penetrare al suo interno. E invece era fatta per crescere coi piccoli, ma io disdegnavo di farmi piccolo, ed ero gonfio di boria a furia di darmi delle arie.
[...e incontro col manicheismo]
6.10. Fu così che mi trovai in mezzo a persone pazze d'orgoglio, eccessivamente attaccate alla carne e alla chiacchiera, che in bocca avevano i lacci del diavolo e il vischio di una rimasticatura di sillabe: mozziconi del tuo nome, e di quelli del signore Gesù Cristo e del Paracleto nostro consolatore, lo Spirito Santo. Li avevano sempre sulle labbra, questi nomi: ma non erano che strepito e vento. Del resto avevano il cuore vuoto - di verità.
"Verità, verità" ripetevano, e ne facevano un gran parlare con me, e in loro non ce n'era un'ombra. E ne facevano tante di asserzioni false: e non soltanto su di te, che veramente sei la verità, ma anche sugli elementi di questo mondo, creatura tua: e figuriamoci che su questo punto son dovuto passare oltre i filosofi che ne parlavano in modo veridico, per amor tuo, padre mio e bene sommo, bellezza di ogni cosa bella. O verità, verità, come si struggevano per te fin da allora le viscere della mia mente, mentre quelli mi rintronavano continuamente e in tutte le maniere col suono del tuo nome e il peso enorme dei loro numerosi libri! E quelli erano i vassoi in cui al posto di te si offriva alla mia fame il sole e la luna, opere tue: belle, sì, ma pur sempre tue creature, ben diverse da te e anche dalle prime cose. Perché prima di questi corpi per quanto luminosi e celesti vengono le tue creature spirituali. E io neppure di quelle, ma di te sola avevo fame e sete, verità in cui non c'è mutamento né passa l'ombra delle stagioni. E invece mi ammannivano su quei vassoi splendidi fantasmi, così che tanto valeva amare questo sole che almeno per questi occhi è vero, piuttosto che quelle fantasie di una mente incline a farsi illudere dagli occhi. Eppure le prendevo per te e le bevevo: non avidamente però, perché in bocca poi non era quello il tuo sapore - infatti con quelle vacue invenzioni tu non avevi nulla a che fare - e non me ne sentivo nutrito, ma sempre più affamato. Il cibo dei sogni è quanto di più simile a quello degli uomini desti: ma i dormienti non ne sono nutriti, perché dormono. Ma quei sogni non erano neppure affatto simili a te che mi parli ora: perché erano fantasmi di corpi, corpi immaginari, meno certi di questi veri corpi che vediamo con occhi di carne, celesti o terreni. Li vediamo e come noi li vedono le bestie e gli uccelli, e sono più certi di quando li immaginiamo. E questi corpi immaginati a loro volta son più certi di quelli più grandi, infiniti, che immaginiamo per analogia, e che non sono più niente del tutto. Come quelle vuotaggini appunto di cui allora mi nutrivo, senza nutrirmi affatto. Ma tu, amore mio, cui m'abbandono per essere forte, tu non sei questi corpi che vediamo, e sia pure in cielo, e nemmeno sei quelli che lassù non vediamo: perché ne sei l'autore e neppure li annoveri fra le tue opere più alte. E allora quanto più lontano sei da quelle mie immaginazioni, fantasmi di corpi che non esistono affatto! Son più certe di loro le immagini fantastiche dei corpi che esistono, e più certi di queste i corpi stessi: ma non sono te. Ma neppure sei l'anima, che è la vita dei corpi - e indubbiamente vale più dei corpi, la loro vita. Tu sei la vita delle anime, vita delle vite, che vivi di te stessa e non ti muti, tu vita di quest'anima.
[Il Dio dell'intimo e le favole]
- 11. Dov'eri allora, e quanto eri lontano? E io vagavo lontano da te, respinto perfino dalle ghiande dei porci, che di ghiande nutrivo. Già: quant'eran meglio le favole dei letterati e dei poeti di quelle trappole! I versi e la poesia e il volo di Medea servono certo più dei cinque elementi variamente cucinati per i cinque antri delle tenebre, che non hanno nemmeno un'ombra di esistenza e uccidono chi ci crede. Perché da versi e poesia io traggo anche un vero nutrimento: ma se cantavo il volo di Medea non pretendevo di asserirlo, e se lo udivo cantare non ci credevo: a quelle fantasie invece credetti. E guai a me! Quanti gradini ho disceso verso il fondo dell'inferno, affannato e riarso dalla carestia del vero, al tempo in cui, Dio mio - io lo confesso a te che allora fosti indulgente, quando non ti confessavo ancora - ti cercavo con gli occhi della carne. Non con l'intelligenza della mente, per cui tu m'hai voluto superiore alle bestie. Ma tu m'eri più interno del mio intimo stesso, e superiore al sommo di me stesso. Su quella via incontrai la donna sfrontata e sprovveduta, l'allegoria di Salomone che siede alla porta di casa e va dicendo: il pane nascosto è più buono, più dolce è l'acqua rubata. Costei mi sedusse, perché mi trovò allo scoperto, insediato nell'occhio della carne, a ruminare quello che attraverso di lui avevo divorato.
7.12. Ignaro dell'Altro, che solo è vero, ero quasi capziosamente indotto ad approvare i miei stolti ingannatori, quando mi interrogavano sull'origine del male e se Dio fosse delimitato da una forma corporea e avesse capelli e unghie, e se si dovessero stimare giuste persone che avevano molte mogli contemporaneamente e ammazzavano altri uomini e facevano sacrifici animali. Io che ignoravo tutto questo ne restavo scosso: e mi sembrava di avvicinarmi alla verità proprio mentre me ne allontanavo, perché non sapevo che il male non è che privazione di bene fino al nulla assoluto. E come avrei potuto vederlo, se i miei occhi non vedevano oltre i corpi e la mia mente oltre i fantasmi? Non sapevo che Dio è spirito, e non ha lunghezza e larghezza di corpo e non ha massa: perché la parte di una massa è minore del tutto, e se la massa è infinita, la parte delimitata entro un certo spazio è minore del tutto illimitato, e non è tutta intera dappertutto come lo spirito, come Dio. E che cosa sia in noi che ci fa essere, e come dice giustamente la Scrittura, a immagine di Dio, lo ignoravo del tutto.
[La Legge e le leggi]
- 13. Neppure conoscevo la giustizia vera, interiore, che non giudica in base alle consuetudini, ma secondo la legge rettissima di Dio onnipotente, da cui ricevono forma gli usi dei paesi e dei giorni, che a questi appunto sono relativi, mentre quella è la stessa sempre e dovunque e non varia nello spazio e nel tempo. In base a quella legge sono giusti Abramo e Isacco e Giacobbe e Mosè e Davide e tutti quelli lodati per bocca di Dio; ma gli ignoranti li giudicano ingiusti perché giudicano in base alla giornata umana e la totalità delle usanze del genere umano la misurano con la parte che è toccata a loro. Come se uno che ignora a quali parti del corpo si adattino i vari pezzi di un'armatura volesse ficcarsi in testa un gambale e calzare l'elmo ai piedi, e poi si lamentasse che non vanno bene. Come se in un pomeriggio dichiarato festivo uno si irritasse di non avere il permesso di girare con la sua mercanzia, solo perché di mattina l'aveva; o se uno vedendo in una stessa casa un servo che mette le mani dove al coppiere è proibito di metterle, o vede fare dietro le stalle cose vietate davanti alla mensa, si indignasse perché nella stessa abitazione e nella stessa famiglia non si danno a tutti e in ogni luogo le stesse funzioni. Così si comportano costoro, indignandosi quando vengono a sapere che a quel tempo era lecito ai giusti qualcosa che oggi non lo è, e che Dio ha imposto a quelli una condotta, a questi un'altra, per ragioni determinate dalle circostanze: mentre gli uni e gli altri servono la medesima giustizia. Come in uno stesso uomo, in uno stesso giorno, in una stessa casa a ciascun membro si addice una diversa funzione; e un comportamento che era lecito fino a una certa ora non è più consentito scaduta quella, e un'azione è consentita o addirittura comandata in un angolo, e nell'angolo vicino è vietata e punita. Forse che la giustizia è varia e mutevole per questo? Ma i tempi cui essa presiede non vanno di pari passo: altrimenti non sarebbero diversi tempi. E gli uomini hanno vita breve sopra la terra, e non riescono a vedere i nessi fra le loro ragioni, di cui hanno esperienza, e quelle di epoche passate e di altri popoli, perché non le hanno vissute. Eppure in un corpo, in un giorno, in una casa possono facilmente vedere che ogni membro, ogni momento, ogni locale o persona hanno quello che loro conviene: ma in questo caso son pronti a sottomettersi, mentre nell'altro restano urtati.
- 14. Io stesso allora ignoravo tutto questo e non me ne rendevo conto, e benché l'avessi dappertutto sotto gli occhi non lo vedevo. E componevo poesie e non mi permettevo di collocare un piede qualunque in una qualunque posizione: ma a seconda della forma metrica dovevo adoperare piedi diversi in diverse sedi, e anche nel corpo dello stesso verso non potevo collocare lo stesso piede in qualunque posizione; eppure l'arte che seguivo nel comporre non era distribuita in pezzi diversi da caso a caso, ma li contemplava tutti simultaneamente. Però non vedevo che quella giustizia al cui servizio erano uomini di Dio, uomini dabbene, contemplava anch'essa simultaneamente - e da una posizione molto più elevata e sublime - tutte le sue prescrizioni: e senza variazioni in alcuna delle sue parti impartiva comportamenti appropriati alle varie epoche; non tutti in una volta, ma a ciascuna i suoi. E nella mia cecità criticavo i nostri padri devoti, che non soltanto si adeguavano alle necessità del presente secondo la legge e l'ispirazione divina, ma preannunziavano gli eventi futuri, secondo le rivelazioni di Dio.
[I generi di infrazioni]
8.15. C'è forse un tempo o un luogo in cui sia ingiusto amare Dio con tutto il cuore e tutta l'anima e tutta la mente, e amare il prossimo come se stessi? Così le azioni contro natura, com'erano quelle dei sodomiti, dovunque e sempre vanno odiate e punite. E se anche tutti i popoli le praticassero, sarebbero imputati dello stesso reato dalla legge divina, che non ha fatto gli uomini come sono perché facessero di se stessi un uso simile. Si viola l'accordo che deve sussistere fra noi e Dio quando si inquina la natura di cui egli è l'autore con passioni che la sovvertono. Quanto poi alle azioni contro le usanze degli uomini, queste vanno evitate dove le usanze le proibiscano, affinché il patto che la legge o la consuetudine stabilisce fra gli abitanti di una città o di una nazione non sia violato dall'arbitrio di un cittadino, o di uno straniero. Perché ogni parte che non s'accorda col suo intero è brutta. Ma se è Dio a imporre un comportamento contrario a qualunque usanza o patto, anche se in quel luogo non s'era mai visto, bisogna adottarlo, e se lo si era tralasciato, instaurarlo, e stabilirlo se non era stabilito. Infatti è lecito a un re nel suo regno emettere un decreto che non era mai stato emesso prima né dai suoi predecessori né da lui, e obbedirvi non è rompere gli accordi di una società civile, anzi lo è disobbedirvi: perché il patto su cui si regge in generale una società umana è l'obbedienza al suo re. Dunque a maggior ragione bisognerà sottomettersi senza esitare ai decreti del Dio che regna sull'universo creato.
Come nella gerarchia delle società umane il potere maggiore impone obbedienza al minore, così Dio la impone a tutti.
- 16. Lo stesso dicasi per i crimini riconducibili alla volontà di offendere con parole o con azioni o con entrambi, quale che ne sia il movente: quello di vendicarsi, come avviene fra nemici, o di impadronirsi di un bene altrui, come fa il bandito da strada, o di evitare un danno, come accade a chi incute paura, o il movente dell'invidia, che l'infelice prova nei confronti del più felice, e chi ha avuto successo in qualche cosa prova verso un temuto o mal tollerato concorrente; o anche il semplice gusto del male altrui, tipico di chi assiste agli spettacoli dei gladiatori o anche di chi si diverte a schernire il suo prossimo o a prendersene gioco. Sono questi i capi dell'ingiustizia che rampollano dalle passioni del potere, del vedere e del godere - da una o due di esse o da tutt'e tre insieme - e con loro si vive male, stonando sulle tre e sulle sette corde della tua arpa, il decalogo, Dio altissimo e dolcissimo. Ma quali vizi possono offendere te, che non sei intaccabile? E che delitti si possono compiere contro di te, cui nessuno può nuocere? Ma tu vendichi appunto il male che gli uomini fanno a se stessi, perché anche quando peccano contro di te agiscono spietatamente contro le proprie anime: e la loro iniquità mente a se stessa, intaccando e sovvertendo la loro natura, da te creata e ordinata, o usando senza misura del lecito o bruciando dalla voglia dell'illecito per farne un uso che è contro natura.
Colpevoli sono al tuo cospetto anche quelli che con la mente e il linguaggio si rivoltano contro di te e tentano di sfuggire al tuo pungolo scalciando, o quelli che infrangono le barriere della società umana per godersi sfrontatamente i loro accordi o i loro tradimenti privati, senza altra legge che i propri gusti o disgusti. E tutto questo avviene quando si abbandona te, fonte di vita, unico e vero autore e principe dell'universo: e nel proprio orgoglio solitario ci si apparta ad amarne uno solo, ma falso. Così è con la devozione degli umili che si ritorna a te, e tu ci liberi dall'abitudine al male e sei indulgente verso i peccati che si confessano e ascolti i lamenti di chi giace in ceppi e ci sciogli dai nodi con cui noi stessi ci siamo legati, purché non leviamo più contro di te le corna di una falsa libertà, nella nostra avidità di possedere di più e nel rischio di perdere tutto, per amare il nostro bene particolare più di te, che sei il bene universale.
9.17. Ma accanto a vizi, infrazioni e torti di tanti generi ci sono i peccati di chi progredisce verso la perfezione, che col metro di questa vengono biasimati dai buoni giudici, ma anche apprezzati nella speranza del raccolto, come l'erba in vista del grano. E ci sono azioni che somigliano a vizi e a infrazioni e tuttavia non sono peccati, perché non offendono né te, Signore Dio nostro, né il consorzio civile. Ad esempio l'accumulazione di beni d'uso corrente, quando è dubbio che si tratti di avidità di possesso, o la punizione ordinata dall'autorità con intento correttivo, quando è dubbio che si tratti del piacere di infliggere una sofferenza. E così molte azioni che agli uomini sembrano riprovevoli trovano approvazione ai tuoi occhi, e molte che gli uomini lodano sono condannate dalla tua testimonianza. Perché spesso l'apparenza dell'azione è diversa dall'intenzione dell'agente e diversa l'opportunità dell'attimo, che ci resta segreta. Ma accade che tu all'improvviso dia un ordine inconsueto e inatteso, rovesciando un divieto che avevi imposto in altri tempi, e mettiamo pure che al momento tu mantenga segreta la ragione di quest'ordine, e mettiamo pure che esso sia contro il patto che ha riunito un gruppo di uomini in una società. Bene: chi avrebbe un dubbio che bisogna obbedire, quando giusta è solo quella società umana che serve te! Ma beati quelli che sanno che da te viene l'ordine. Perché tutte le azioni di chi serve te si compiono per rivelare ciò che il presente richiede, o per preannunziare il futuro.
[Il fico e le scintille divine]
10.18. Ignaro di tutto questo io ridevo di quei santi servi e profeti tuoi. E con che risultato, se non quello di farti ridere di me, che a poco a poco mi lasciavo infarcire di sciocchezze fino al punto di credere che il fico piange quando lo si coglie, e anche la pianta sua madre: lacrime di latte. Però se un santo lo mangiasse, quel fico - una volta commesso il delitto di coglierlo, da un altro, non da lui, s'intende - e lo digerisse ben bene, fra i gemiti dell'orazione farebbe venir su fiati e rutti d'angeli, o addirittura particelle di Dio: le quali particelle sarebbero rimaste imprigionate in quel frutto, se non ne fossero state liberate dai denti e dallo stomaco dell'eletto. E arrivai al punto di credere, infelice, che bisognasse esser più pietosi coi frutti della terra che con gli uomini, per i quali essi nascono. Se uno che moriva di fame ma non era manicheo avesse chiesto aiuto, il boccone concesso mi sarebbe sembrato condannato alla pena capitale.
[Il sogno di Monica. Una donna tenace]
11.19. E tu stendesti la tua mano dall'alto e strappasti l'anima mia a questa nebulosa profondità. Intanto mia madre che credeva in te piangeva per amor mio più di quanto una madre piangerebbe la morte fisica di suo figlio. Vedeva la mia morte grazie alla fede e allo spirito ricevuto da te, e tu le porgesti ascolto, Signore. L'hai ascoltata e non hai disprezzato i fiumi di lacrime di cui rigava il terreno sotto i suoi occhi in ogni luogo di preghiera: l'hai ascoltata. Perché da dove le venne il sogno con cui l'hai confortata nella decisione di vivere con me e dividere la mensa nella stessa casa? Dopo che inizialmente aveva rifiutato di farlo, non potendo tollerare i miei blasfemi errori. Si vide in piedi sopra un metro di legno, e le veniva incontro un giovane luminoso e lieto e le sorrideva, a lei che era afflitta e anzi sopraffatta dall'afflizione. E questi le chiese le ragioni della sua tristezza e delle sue lacrime quotidiane: più per darle un consiglio che per sapere, come spesso accade: e lei rispose che piangeva sulla mia rovina. Al che l'altro per tranquillizzarla la esortò a guardar bene: non vedeva che dove era lei ero anch'io? Ella allora guardò bene e mi vide accanto a sé, in piedi sulla stessa asta. Qual era l'origine di questo sogno, se non che il tuo orecchio era sul suo cuore, o bene onnipotente che ti prendi cura di ciascuno di noi come se avessi solo lui da curare, e di tutti come di ciascuno.
- 20. E come si spiega anche questo, che avendomi raccontato il sogno, e tentando io di dedurne che era lei piuttosto ad apprestarsi a divenire quale io ero, e non doveva disperarsene, subito senza un attimo di esitazione "No," replicò "perché non mi ha detto: dove è lui sei anche tu, ma dove sei tu è anche lui". Ti confesso, Signore, quello che mi riaffiora alla memoria, e non ne ho mai fatto mistero: ancora più del sogno mi colpì questo tuo responso che mia madre mi diede a mente desta, quando, senza lasciarsi per nulla turbare da un'interpretazione falsa ma plausibile come la mia, vide tanto prontamente quello che era da vedere - e che io certo non avevo visto prima che lei me lo dicesse. Un sogno che con tanto anticipo annunciava a quella religiosa donna, a consolarla dell'angoscia presente, la gioia che tanto più tardi doveva toccarle. Ben nove anni passarono infatti: e io continuavo a rivoltarmi nel fango di un abisso e nel buio dei pensieri falsi, e spesso tentai di rialzarmi per ricadere più pesantemente. Intanto lei, che era una di quelle vedove caste, devote e sobrie che tu ami, sempre pronta alle lacrime e ai sospiri anche se ora aveva un po' di sollievo dalla speranza, non tralasciava mai durante le sue preghiere di invocare il tuo aiuto per me, e le sue preghiere giungevano al tuo cospetto: eppure ancora mi lasciavi avvolgere e rivoltare nella nebbia.
12.21. E un altro responso mi hai dato a quell'epoca, che ora torna alla memoria (molte cose tralascio nella fretta di arrivare a ciò che più mi preme confessarti, e molte altre non le ricordo). Un responso, dunque, dato attraverso un tuo sacerdote, un vescovo allevato nella chiesa ed esperto dei tuoi libri. Quando quella donna lo pregò - come era solita fare con tutte le persone che le parevano adatte allo scopo - perché si degnasse di parlare con me e di confutare i miei errori e di distogliermi dalle male dottrine per insegnarmi quelle giuste, quello rifiutò, e saggiamente, come capii più tardi. Rispose infatti che ero ancora sordo a ogni insegnamento, perché tutto gonfio della novità di quell'eresia, e con le mie sottigliezze avevo già messo in agitazione parecchi sprovveduti, come aveva saputo da lei. "Ma," disse, "lascialo stare dov'è. Prega soltanto il Signore per lui. Troverà da solo, leggendo, che errore sia quello e quanto grande la sua empietà". Poi le raccontò come anche lui da ragazzino fosse stato affidato ai Manichei da sua madre, che ne era rimasta affascinata, e disse che non solo aveva letto quasi tutti i loro libri, ma se li era anche trascritti, e mentre lo faceva gli si era reso evidente, senza che nessuno discutesse con lui e cercasse di convincerlo, che bisognava fuggirla, quella setta. E così aveva fatto. Ma lei nonostante queste parole non voleva rassegnarsi e insisteva, con implorazioni e lacrime sempre più abbondanti, perché mi vedesse e parlasse con me: e quello, che ormai non ne poteva più, concluse: "Lasciami in pace e continua a vivere così, non è possibile che il figlio di tante lacrime perisca". Parole che ella, nelle nostre conversazioni, ricordava spesso di aver accolto come se fossero risuonate dal cielo.
LIBRO QUARTO
[LA RETORICA COME PROFESSIONE]
1.1. Per tutto questo tempo - nove anni, dai miei diciotto ai miei ventisette anni - fummo sedotti e seduttori, ingannati e ingannatori in preda alle passioni più svariate: e pubblicamente lo eravamo attraverso le discipline cosiddette liberali, ma in segreto nel falso nome della religione: coltivando con quelle l'orgoglio, con questa la superstizione, la vanità in ogni caso. Da una parte, sempre all'inseguimento di una vacua popolarità - sì, fino a cercare l'applauso delle platee, a scendere in lizza per i premi letterari con le loro corone di paglia, fra le frivolezze degli spettacoli e i più sregolati capricci. Dall'altra, in un continuo desiderio di espiazione, non si faceva che portare ai santi e agli eletti, come li chiamavano, alimenti da cui costoro nell'officina della loro pancia potessero fabbricare angeli e dèi, a nostra liberazione. E io correvo dietro a cose simili, e lo facevo con i miei amici, da me e come me illusi. Ridano pure di me gli arroganti, ancora non atterrati e schiacciati da te, Dio mio, e ignari della tua salvezza: io ti confesserò lo stesso le mie vergogne a tua gloria. Concedimi, ti prego, di ripercorrere nel presente della memoria il circolo vizioso del passato, e di offrirti una vittima di gioia. Già, io stesso per me che cosa sono senza di te - solo una guida al precipizio. E se sto bene cosa sono se non un poppante che succhia il tuo latte e si nutre di te, vivanda incorruttibile. E chi è un uomo, uno qualunque, dato che è un uomo? Ma ridano di noi i forti e i potenti: noi deboli, noi poveri, ci confessiamo a te.
[L'insegnamento. Fedeltà a una donna]
2.2. In quegli anni insegnavo retorica e vendevo l'arte di vincere con le chiacchiere, io che ero vinto dalla mia ambizione. Tuttavia preferivo, tu lo sai, Signore, quelli che si chiamano buoni allievi: e senza imbroglio insegnavo loro gli imbrogli con cui potevano, non dico far condannare un innocente, ma se capitava difendere un colpevole. Dio, tu vedevi da lontano scivolare sul viscido e scintillare in mezzo al fumo la mia buona fede, che in quell'insegnamento offrivo a gente attaccata alla vanità, in cerca di menzogne, e in questo io ero come loro. In quegli anni avevo una donna, che non avevo conosciuta in quello che si dice un connubio legittimo: ma me l'aveva procurata la mia furia errabonda e del tutto sprovveduta. Una sola, comunque: e per di più le ero fedele come un marito. Eppure con lei ho sperimentato di persona tutta la distanza che c'è fra la misura di un patto coniugale, stretto in vista della procreazione, e l'intesa di un amore arbitrario, dove i figli vengono benché indesiderati, anche se una volta al mondo non si può non amarli.
- 3. Ricordo anche di una volta che avevo deciso di partecipare a un concorso di composizioni poetiche per il teatro e una specie di mago mi mandò a chiedere che cosa fossi disposto a pagarlo per farmi vincere: gli risposi che detestavo e aborrivo quegli sporchi sortilegi, e neppure se quella corona fosse stata d'oro e immortale avrei permesso che si ammazzasse una mosca per la mia vittoria. Perché mi era chiaro che costui nei suoi riti propiziatori avrebbe sacrificato degli animali e con simili omaggi attirato il favore dei démoni. Rifiutai dunque questa azione malvagia: ma non per amore della tua purezza, Dio del mio cuore. Non sapevo amare te, io che non sapevo concepire che splendori di corpi. E non tradisce, svendendosi, te l'anima che sospira dietro a quelle fantasie, confida in cose false e nutre i venti? Io non volevo che per me si facessero sacrifici ai démoni, e poi mi offrivo loro in sacrificio con quella mia superstizione. Che altro è infatti nutrire i venti se non nutrire i démoni, cioè farsi loro zimbello e spasso con il proprio errare?
[L'arte divinatoria]
3.4. E neppure desistevo dal consultare quei ciarlatani, i cosiddetti "matematici", con la scusa che non praticavano sacrifici e non rivolgevano preghiere agli spiriti per la divinazione. Che tuttavia la vera e cristiana devozione respinge e condanna, coerentemente. Perché è bello riconoscere il tuo nome, signore, e dire: Abbi pietà di me: guariscimi quest'anima, perché ho peccato contro di te. E non abusare della tua indulgenza per farsene licenza di peccare, ma ricordare le parole divine: Ecco, sei guarito. Ora non peccare più, perché non ti accada di peggio. Una salute che quelli fanno di tutto per distruggere quando dicono: "È scritto in cielo che tu debba peccare, è inevitabile", oppure "È colpa di Venere, o di Saturno, o di Marte". Come a dire che l'uomo è senza colpa, lui carne e sangue e orgogliosa putredine, ma colpevole è il creatore e ordinatore del cielo e delle stelle. E questo chi è se non il nostro Dio, dolcezza e origine della giustizia, che rendi a ciascuno secondo le sue opere e non disprezzi il cuore avvilito e dolente?
- 5. C'era, a quei tempi, un uomo di spirito, bravissimo medico di gran fama, che da proconsole mi aveva con le sue stesse mani imposto la corona di uno di quei concorsi letterari sulla testa malata: e non da medico. Di quel genere di malattia sei tu il guaritore, che resisti ai superbi, ma agli umili doni la grazia. Eppure anche attraverso quel vecchio tu continuavi a esserci, e non cessavi di medicarmi l'anima. Avevo preso a frequentarlo più assiduamente, lui e la sua conversazione - che era senza pretese di eleganza, ma vivace, e insieme sorridente e seria - e quando parlando con me venne a sapere che mi appassionavo ai libri degli oroscopi mi consigliò, con paterna benevolenza, di buttarli via, e di non sprecare dietro a quelle cose vacue la fatica e il lavoro necessari per quelle utili. Diceva di avere egli stesso studiato quei libri, al punto che nei primi anni della sua vita aveva voluto farsene una professione di cui vivere: e se aveva capito Ippocrate, certo poteva capire anche quei testi. E invece poi li aveva lasciati perdere e si era messo a studiare medicina, per il semplice motivo che, come aveva potuto constatare, erano falsissimi: e lui che era una persona seria non voleva guadagnarsi la vita imbrogliando la gente. "Ma tu," mi disse, "per farti un posto nel mondo possiedi la retorica: e questo imbroglio lo coltivi liberamente, per tuo interesse, non per bisogno di soldi. A maggior ragione in questa materia devi dar credito a me, che l'avevo studiata tanto a fondo da voler vivere solo di quella." E siccome io gli chiedevo perché allora molti responsi risultavano veri, rispose molto plausibilmente che era un effetto del caso, così diffuso ovunque, in natura. Aprendo a caso il libro di un poeta che contiene tutt'altre canzoni e riflessioni, spesso vien fuori un verso mirabilmente consono alla questione che ci occupa: e allora nessuna meraviglia, diceva, se per una sorta di istinto superiore l'anima umana, senza sapere cosa avvenga in lei, dà voce qualche volta a parole che per caso, e non per qualche arte, si accordano con la situazione di chi chiede un responso.
- 6. E anche questo consiglio tu mi hai procurato da parte sua o per suo mezzo, abbozzando nella mia memoria le linee di una ricerca che più tardi avrei per mio conto intrapreso. Ma allora non riuscì a persuadermi a gettar via quella roba: e neppure ci riuscì il mio carissimo Nebridio, ragazzo limpido e di indole felice, con tutto il ridere che faceva di quella sorta di oracoli. Perché l'autorità dei miei autori aveva maggior presa su di me, e non avevo ancora trovato la prova irrefutabile che andavo cercando, per convincermi al di là di ogni dubbio che le predizioni vere fornite su consultazione erano dovute solo al caso o alla fortuna, e non all'arte di osservare gli astri.
[Un grande amico]
4.7. In quegli anni, in cui avevo cominciato a insegnare nella mia città natale, m'ero fatto un amico che gli studi comuni mi rendevano particolarmente caro, mio coetaneo e come me nel fiore della giovinezza. Da bambini eravamo cresciuti insieme, insieme eravamo andati a scuola e insieme avevamo sempre giocato. Ma così amici come allora non eravamo stati mai - un'amicizia, certo, che non era ancora quella vera, perché vera è solo quella che tu stringi fra persone unite a te dall'amore diffuso nei nostri cuori tramite lo Spirito Santo, che ci è stato dato. Eppure era così dolce, come fusa nel fuoco di studi tanto simili. Perché io lo avevo perfino distolto dalla vera fede, che professava da ragazzo benché senza profonda convinzione, per introdurlo a quelle favole ossessive e nefaste che facevano piangere mia madre. Ormai la mente di quella persona andava errando con me, e non poteva stare senza lui, il mio cuore. E all'improvviso tu c'eri alle spalle e la fuga era vana, Dio delle vendette e insieme fonte di accorate tenerezze, che ci converti a te per vie mirabili: e l'hai spazzato via da questa vita quando durava solo da un anno la nostra amicizia, dolce per me più di ogni altra dolce cosa di quegli anni.
- 8. Chi può contare da solo tutte le tue grazie che in sé solo ha provato? Dio mio, cosa facesti allora? Come è insondabile l'abisso dei tuoi giudizi! Bruciava di febbre, e restò a lungo incosciente in un sudore d'agonia: siccome non c'era più speranza lo si fece battezzare in stato di incoscienza. Io non me ne curai, nella presunzione che la sua anima avrebbe ritenuto quello che aveva appreso da me, piuttosto che un'operazione fatta sul suo corpo privo di sensi. Ma le cose stavano in tutt'altro modo. Infatti si riprese e sembrò fuori pericolo: e subito, appena potei parlargli - e fu molto presto, appena anche lui fu in grado di farlo, perché non mi allontanavo da lui, eravamo troppo legati - tentai, come se anche lui ne avesse voglia quanto me, di farlo ridere di quel battesimo che aveva ricevuto mentre era del tutto privo di sensi e di coscienza. Ma lui aveva già saputo di averlo ricevuto. E trasalendo inorridito come di fronte a un nemico, con una improvvisa libertà di giudizio in lui insospettabile mi avvertì che, se volevo rimanergli amico, dovevo smetterla di parlargli a quel modo. Da parte mia rimasi stupefatto e sconvolto, e trattenni per allora tutti i miei impulsi, per dargli il tempo di guarire e riacquistare le forze, e poi trattarlo come avessi voluto. Ma fu strappato alla mia demenza, per conservarsi in te a mia consolazione. Pochi giorni dopo, in mia assenza, è nuovamente assalito dalla febbre, e muore.
- 9. La tristezza calò buia sul cuore, e dovunque guardavo era la morte. E il mio paese divenne un patibolo, e la casa paterna m'era penosa e strana, e tutto quello che avevo condiviso con lui, senza di lui si convertiva in uno strazio enorme. I miei occhi lo cercavano invano dappertutto, e odiavo tutte le cose perché non lo tenevano fra loro e non potevano più dirmi "eccolo, viene", come quando era in vita e mi mancava. Ero divenuto un enigma angoscioso a me stesso e chiedevo a quest'anima perché fosse triste e mi opprimesse tanto e lei non sapeva rispondermi. E se dicevo: "Spera in Dio" lei non ubbidiva, giustamente, perché quella persona concreta che le era tanto cara e che aveva perduta era migliore e più vera del fantasma in cui le si ordinava di sperare. Solo il pianto mi era gradito e aveva preso il posto del mio amico fra i piaceri dell'anima.
[Psicologia del lutto]
5.10. E ora, Signore, tutto questo è ormai passato e il tempo ha lenito la mia ferita. Posso sapere da te che sei la verità perché il pianto sia dolce a chi è infelice, posso accostare alla tua bocca l'orecchio del cuore, perché tu me lo dica? O forse tu, per quanto onnipresente, hai respinto lontano la nostra tristezza, e te ne resti in te stesso mentre noi rotoliamo di prova in prova? E tuttavia se non potessimo piangere alle tue orecchie, non resterebbe nulla della nostra speranza. Da dove viene questo frutto delicato dell'amaro di vivere, che si coglie nel pianto e nei sospiri, nei lamenti e nei gemiti? Forse è nella speranza che tu ci ascolti, la dolcezza? Nelle preghiere, è giusto che sia così, perché il desiderio che ti raggiungano ne è parte costitutiva. Ma nel dolore di una cosa perduta e nel lutto che allora mi opprimeva? Certo non speravo di farlo rivivere e non chiedevo questo fra le lacrime: mi limitavo al dolore e al pianto. Ero infelice e avevo perduto la mia gioia. Forse anche il pianto è cosa amara, e ci solleva solo in confronto alla nausea delle cose godute un tempo, e ora aborrite?
6.11. Ma perché dico questo? Non è tempo di indagini questo, ma di confessioni. Ero infelice, come è infelice ogni mente conquistata dall'amicizia di cose mortali, che è fatta a pezzi quando poi le perde. E solo allora sente tutta l'infelicità di cui soffriva anche prima di perderle. Così mi accadeva a quel tempo e molto amaro era il mio pianto e solo nell'amarezza trovavo pace. Ero così infelice, eppure più del mio amico avevo cara la mia stessa vita infelice. Certo, desideravo che mutasse, ma non di perderla in vece sua: non so se avrei accettato anche soltanto di morire per lui, come fecero a quanto si racconta Oreste e Pilade, che vollero - se non è solo una favola - morire almeno insieme, uno per l'altro, perché per tutt'e due peggiore della morte era il non poter vivere con l'altro. Ma in me era nato come un sentimento contrario a questo, e la noia di vivere m'era non meno opprimente della paura di morire. E quanto più lo amavo, credo, tanto più odiavo come nemica atroce la morte che me lo aveva rubato e la temevo e mi pareva sul punto di polverizzare all'improvviso ogni uomo, come aveva potuto far con quello. Sì, ero proprio in questo stato, ricordo. Tu vedi il mio cuore, mio Dio, lo vedi dentro: vedi come ricordo, speranza mia, che spazzi via questi miei sentimenti in ciò che hanno di impuro, dirigendo verso di te i miei occhi e liberando i miei piedi dal laccio. Ero stupito che vivessero ancora gli altri mortali, quando era morto lui che avevo amato come fosse immortale, e ancor più ero stupito di vivere io stesso, che ero un altro lui, quando lui era morto. Qualcuno ha detto bene del suo amico, che era metà dell'anima sua. Io sentivo infatti che la mia e la sua erano un'anima sola in due corpi: perciò la vita mi faceva orrore - io non volevo vivere a metà - e perciò mi faceva paura la morte, con cui sarebbe morto ormai del tutto anche lui, lui che avevo molto amato.
7.12. Che follia non saper amare gli uomini come uomini! E sciocco l'uomo che non ha misura, insofferente dei limiti umani. L'uomo che allora ero: tutto furori e sospiri e pianti e turbamenti, senza pace e senza equilibrio. E mi portavo dietro l'anima mutilata e sanguinante, che ormai non ne poteva più di farsi trascinare in giro, e non trovavo modo di metterla giù, da qualche parte. No, non trovava pace: non nella frescura dei boschi, negli svaghi e nei canti, non nei giardini profumati o nell'eleganza delle feste, non nei piaceri dell'amore e del sonno, neppure infine nei libri e nella poesia. Tutto mi faceva orrore, perfino la luce, e qualunque cosa non fosse lui era opprimente e odiosa oltre ogni sfogo di pianto: l'unica cosa in cui l'anima trovava un po' di requie. Ma quando la si distoglieva da quello, subito mi schiacciava sotto il peso della tristezza. Verso di te, signore, avrei dovuto sollevarla per curarla: lo sapevo, ma non volevo e non ce la facevo, tanto più in quanto se pensavo a te non mi eri niente di solido e fermo. Perché non eri tu, era un vuoto fantasma, era il mio errore il mio Dio. E se tentavo di appoggiarla lì, l'anima, per farla riposare, scivolava nel vuoto e di nuovo mi crollava addosso, e per me io restavo un luogo gramo, dove non potevo stare e da cui non potevo allontanarmi. Dove, via dal mio cuore, poteva fuggire il mio cuore? Dove fuggire io, via da me stesso? Dove non esser braccato da me stesso? Dal mio paese sì, però, riuscii a fuggire. I miei occhi l'avrebbero cercato meno, dove non eran soliti vederlo: e così dal borgo di Tagaste me ne venni a Cartagine.
[Il dolore, il tempo, l'amicizia]
8.13. Non passa invano il tempo e non gira a vuoto sui nostri sentimenti: ha strani effetti sull'anima. E venivano i giorni e passavano uno dopo l'altro, e venendo e passando mi insinuavano dentro altre speranze, altri ricordi: e a poco a poco mi restituivano agli antichi piaceri, e a questi il mio dolore ormai cedeva il passo. Ma gli succedevano, se non altri dolori, altre cause di dolore. E del resto perché quello era penetrato in me tanto facilmente e tanto in profondità, se non perché avevo fondato l'anima sulla sabbia, affezionandomi a un uomo destinato a morte come se non dovesse mai morire. Soprattutto mi aiutava a riprendermi il conforto di altri amici: con loro amavo ciò che amavo in vece tua, cioè una sterminata favola e una lunga bugia, che con le sue lusinghe e seduzioni ci solleticava le orecchie e ci corrompeva la mente. E quella favola non mi moriva: era sopravvissuta alla morte di uno dei miei amici. Altre erano le cose che sempre più mi stringevano a loro: il riso e il conversare insieme, e le reciproche affettuose cortesie, e il fascino dei libri letti insieme, gli scherzi e i nobili svaghi comuni, e il dissentire a volte, ma senza rancore, come succede con se stessi, e con questi rarissimi dissensi fare più intenso il gusto dei molti consensi, e l'insegnare e l'imparare a turno, la nostalgia impaziente per chi manca, le festose accoglienze a chi ritorna: son questi o simili, i segni che dal cuore di chi ama ed è riamato giungono tramite il volto, la bocca, gli occhi e mille graziosissimi gesti, quasi ad alimentare il fuoco che divampa e fonde molte anime in una.
9.14. Questo è ciò che si ama negli amici, e lo si ama al punto che la coscienza rimorde se non si ama quando si è riamati o se non si ricambia l'amore di un altro, senza altro chiedere al suo corpo che qualche indizio di affetto. Di qui viene il cordoglio per l'amico che muore, e il buio della tristezza e il cuore madido di una dolcezza mutata in amaro: e la vita perduta dei morti che si fa morte dei vivi. Beato chi ama te e ha te per amico e nemici per te. Il solo che non perde chi gli è caro è quello al quale tutti sono cari, in Uno che non si perde. E questo chi è se non il nostro Dio, che fece il cielo e la terra e li riempie, e riempiendoli li crea. Nessuno perde te a meno che ti lasci, e dove va, dove fugge, se non dal tuo sorriso al tuo furore. Dovunque in fondo alla sua pena troverà la tua legge. E la tua legge è verità, e la verità sei tu.
10.15. Dio delle potenze, facci volgere a te e mostraci il tuo volto, e noi saremo salvi. Da qualunque parte si volti, è in un dolore che s'imbatte l'anima dell'uomo: dovunque tranne che in te, perfino se fissa lo sguardo su ciò che di bello esiste fuori di te e di se stessa. E nulla di bello esisterebbe se non venisse da te. Ciò che nasce e declina, nascendo quasi comincia a essere e cresce per giungere a compiutezza, e quando l'ha toccata invecchia e muore. Non tutto invecchia, ma ogni cosa muore. Perciò nel nascere, nella tensione a esistere, le cose più in fretta crescono all'essere e più si affrettano a non essere. Questa è la loro misura. Questa e non altra hai concesso alle cose, in quanto fanno parte di altre cose che non esistono tutte in una volta, ma cedono e succedono le une alle altre per formare l'universo, di cui tutte son parti. E così accade anche ai nostri discorsi, che si realizzano in suoni significanti. Un discorso non potrebbe esistere nella sua totalità se una parola, risuonata che sia nelle sue parti, non cedesse a un'altra che la segue. Canti pure le tue lodi per la bellezza delle cose l'anima mia, Dio creatore di tutto, ma non si attacchi a loro con la colla dell'amore, attraverso i sensi. Dove dovevano andare se ne vanno, verso l'inesistenza, e la straziano di nostalgie mortifere, perché lei vuole esistere e ama riposare fra le cose amate. Ma non c'è luogo a farlo: non consistono. Fuggono, e chi le segue! Coi sensi del corpo non si può, e neppure le si può afferrare, quand'anche sian vicine. È tarda la carne a percepire, perché è carne: è questa la sua misura. Basta per altre cose, quelle per cui è fatta: non basta a questo, a trattenere le cose che dal principio loro fissato trascorrono al loro fissato termine. Nella tua parola, in cui sono create, ascoltano il loro limite: "Di qui, fino a qui".
[Il paese della morte e la felicità]
11.16. Non essere vana anima mia, non assordare le orecchie del cuore col frastuono della tua vanità. Tu pure ascolta: la parola stessa ti chiama per farti tornare: là, al luogo della quiete imperturbabile, dove l'amore non è tradito se non è lui che tradisce. Vedi le cose: quelle se ne vanno per lasciare il posto ad altre e costituire nella sua totalità la parte inferiore dell'universo. "Me ne vado io?" domanda la parola di Dio. Stabiliscila lì la tua dimora, affida a lei quanto da lei ti viene, anima mia stanca di delusioni. Affida alla verità tutto quello che dalla verità ti viene, e non perderai nulla, e ciò che era appassito in te rifiorirà e saranno guarite le tue malinconie e il flusso del tuo vivere sarà ricostituito e rinnovato e si conterrà in te: e non precipiterà per deporti in fondo alla cascata ma resterà con te: durando immobile, rivolto al Dio che è sempre perdurante e immobile.
- 17. A che scopo ti stravolgi a seguir la tua carne? È lei che deve volgersi verso te e seguirti. Qualunque cosa lei ti faccia sentire, non è che parte: e ignori il tutto di cui è parte, e tuttavia ti dà piacere. Ma se la sensibilità della tua carne fosse fatta per afferrare il tutto e non fosse per tua pena giustamente stata confinata nei limiti di una parte dell'universo, tu vorresti che ciascuna delle cose esistenti e presenti passasse, per meglio apprezzarle tutte. Così è la stessa sensibilità che ti fa udire ciò che diciamo: ma non vuoi che le sillabe restino immobili, ma che volino via lasciando il posto ad altre e tu possa udire l'intera frase. E così è sempre per tutte le parti che costituiscono un intero e non hanno tutte un'esistenza simultanea: il tutto è più apprezzato delle singole parti, quando può essere percepito. Ma ancora meglio è chi tutto ha fatto, e questo è il nostro Dio che non dilegua, perché nulla gli succede.
12.18. Se sono i corpi a piacerti tu ringraziane Dio e raddrizza il tuo amore rivolgendolo al loro artefice: evita che nel tuo piacere sia tu a spiacere. Se a piacerti sono le anime, amale in Dio, perché anche loro sono mutevoli e in lui si fissano e son fatte stabili: altrimenti se ne andrebbero a morire. Tu dunque amale in lui e strappale con te verso di lui, più numerose che puoi e dì loro: "Lui, lui bisogna amare: Lui ha fatto tutto questo, e non è lontano. Non se ne è andato dopo averle fatte, ma vengono da lui e in lui sussistono. Dov'è la verità, dov'è il suo gusto? Nell'intimo del cuore: ma il cuore vaga lontano da lui. Tornate al vostro cuore voi che gli avete fatto violenza, e stringetevi a quello che vi ha fatti. State con lui e consisterete, riposate in lui e troverete pace. Dove andate, per faticose strade? Dove andate? Tutto il bene che amate è da lui: ma in quanto riconduce a lui è una carezza e un bene, e sarà invece giustamente amaro per chi ama qualunque cosa sia da lui, abbandonando, ingiustamente, lui. Che guadagnate a camminare ancora e sempre per vie ardue e penose? No, non c'è pace dove la cercate. Cercate pure quello che cercate: non è dove voi lo cercate. Cercate la felicità nel paese della morte: non è lì. E come può esserci vita felice dove non c'è neppure vita?
- 19. E discese quaggiù la vita vera a caricarsi della nostra morte e la uccise con la sovrabbondanza della sua vita e tuonò il suo richiamo: perché da qui ritornassimo a lui, a quel mistero da cui venne a noi, prima in quell'utero di vergine dove sposò la natura umana, carne mortale, perché non rimanesse per sempre mortale; e poi come sposo che esce dal talamo si avviò con un balzo da gigante a traversare di corsa la terra. E senza indugio corse gridando con parole e fatti e con la vita e la morte, la caduta e l'ascesa, gridando che tornassimo da lui. E scomparve alla vista, perché rientrassimo nel cuore a trovarlo. Se ne è andato, ed eccolo qui. Non volle restare a lungo con noi eppure non ci abbandonò. Se ne è andato in un luogo da cui mai si era allontanato, perché il mondo è stato fatto attraverso di lui, ed era in questo mondo, e venne in questo mondo a salvare i peccatori. A lui si confessa quest'anima, e ne è guarita, perché ha peccato contro di lui. Figli dell'uomo, fino a quando questa oppressione del cuore? Come, la vita è discesa quaggiù, e voi non volete salire a viverla? Ma dove salirete, voi che siete già in alto e avete messo la bocca in cielo? Dovete scendere, per salire a Dio. Perché siete caduti dando la scalata al cielo suo malgrado. Tu di' queste parole anima mia, che piangano anche loro nella valle del pianto e rapiscili a Dio così, con te. Queste parole è lui che te le ispira, se le dici nel fuoco dell'amore.
[Ambizioni letterarie: il primo libro]
13.20. Tutto questo non lo sapevo allora, e amavo la bellezza delle cose inferiori e camminavo verso il vuoto. E agli amici dicevo: "Noi non amiamo che le cose belle. Ma che cos'è bello? E cos'è la bellezza? Cos'è che ci seduce e ci attrae, nelle cose che amiamo? Perché se non avessero qualche fascino e splendore non ci attirerebbero affatto." E avvertivo, anzi mi era evidente, che nei corpi stessi una cosa è per così dire l'insieme e cioè quel che è bello, un'altra la perfetta adattabilità ad altro, come una parte dell'organismo al suo complesso, o una scarpa al piede: vale a dire, la convenienza. E questa riflessione mi scaturì dall'intimo del cuore e allora scrissi sul tema Bellezza e convenienza: due o tre libri, credo. Tu lo sai, Dio: a me è uscito di mente. Noi non li abbiamo più: si sono smarriti, non so come.
14.21. Che cosa poi mi mosse, mio Signore e Dio, a dedicare quei libri a Gerio, un oratore di Roma? Neppure lo conoscevo di persona, ma mi piaceva l'uomo: per la sua chiara fama di erudito, e per certe parole sue che mi erano state riportate, e che apprezzavo. Ma soprattutto mi piaceva perché piaceva agli altri: suscitava ammirazione e lodi il fatto che da un siriano d'origine, già profondo conoscitore dell'eloquenza greca, fosse venuto fuori anche uno straordinario dicitore latino, e per di più estremamente addentro agli studi di filosofia. Si sente lodare qualcuno, e lo si ama senza averlo mai visto: capita. Forse questo amore passa dalla bocca di chi loda al cuore di chi gli presta orecchio? No certo. È solo un amore che ne accende un altro. Si ama chi ha successo quando si crede alla sincerità delle lodi: cioè quando la lode proviene già dall'amore.
- 22. Così appunto amavo gli uomini allora: in base al giudizio degli uomini, e non al tuo, Dio mio, che non è mai fallace. Non però come si loda un auriga famoso, o un cacciatore che sia oggetto delle passioni popolari: ma in modo molto diverso e più serio, come io pure avrei voluto esser lodato. Mentre non avrei voluto essere lodato e amato al modo degli attori, per quanto poi li amassi e li lodassi anch'io. Ma preferivo l'oscurità a una notorietà del genere, e piuttosto che farmi amare a quel modo avrei voluto farmi detestare. Dove si distribuiscono in una sola anima i diversi pesi di questi vari amori? Cos'è che amo in un altro, quando se non l'odiassi non lo rifiuterei con orrore per me stesso? Eppure siamo uomini entrambi. Voglio dire: per l'attore, che condivide la nostra natura, non è come per un buon cavallo, che uno può amare senza desiderare d'esserlo egli stesso, anche se fosse possibile. Dunque amo in un uomo ciò che mi farebbe orrore in me, come uomo? Profondo abisso è l'uomo stesso, al quale tu hai contato perfino i capelli, e non uno di essi lasci andar perduto:
eppure è più facile contare i suoi capelli che i sentimenti e i moti del suo cuore.
- 23. Ma quel retore era del genere di persone che amavo nel senso che io stesso avrei voluto esser così: ero sviato dalla superbia, ero una banderuola a tutti i venti, eppure in segreto eri tu che mi guidavi. E come so, come faccio a confessartelo con certezza che lo amavo più per la devozione dei suoi ammiratori che per le cose che gliela procuravano? Se invece di lodarlo quelle stesse persone ne avessero parlato male, raccontando le stesse cose ma con disprezzo e biasimo, non mi sarei acceso d'entusiasmo per lui: e certo i suoi meriti non sarebbero stati minori né diverso l'uomo - sarebbe bastata la diversità dei sentimenti di chi ne parlava. Ecco qual è lo stato di un'anima vacillante, non ancora piantata sul solido della verità. A seconda di come soffia il fiato delle chiacchiere che fanno opinione si fa trasportare e rigirare, voltare e rivoltare, e le si annebbia la luce e non discerne la verità. Eppure ce l'ha davanti! Per me poi era un gran risultato che quell'uomo venisse a conoscenza della mia prosa e dei miei studi: se li avesse apprezzati, il mio entusiasmo sarebbe divampato anche più forte, e se invece li avesse giudicati negativamente ne sarebbe stato spezzato il cuore, vano e vuoto della tua forza. E intanto Bellezza e Convenienza di cui gli avevo scritto mi divertivo a rigirarmele nella mente e stavo lì incantato a rimasticarmele e ad ammirarle tutto da solo, in mancanza di uno che applaudisse.
[L'anima e la bellezza]
15.24. Ma come una cosa tanto grande fosse incardinata nell'arte che è tua, io ancora non lo vedevo, onnipotente unico autore delle meraviglie: e la mente percorreva le forme dei corpi, e bello io definivo ciò che ha in sé la sua grazia, conveniente ciò che la trova adattandosi ad altro, e questa distinzione argomentavo con esempi dal mondo dei corpi. E mi rivolsi alla natura del mentale, e la falsa opinione che avevo delle cose spirituali mi impediva di distinguere il vero. La verità mi balzava agli occhi con tutta la sua forza: ma distoglievo la mente palpitante dalla realtà incorporea per rivolgerla alle linee, ai colori, ai volumi, e non potendoli vedere nell'anima, ritenevo mi fosse impossibile vedere l'anima stessa. E siccome nella forza morale amavo la pace, nel vizio detestavo la discordia, osservando in quella l'unità, in questa invece una certa divisione, e in quell'unità mi parevano consistere la mente razionale e la natura della verità e del sommo bene, in quella divisione non so che sostanza della vita irragionevole e la natura del sommo male. Io, infelice, nutrivo l'opinione che quest'ultima fosse non solo sostanza, ma a tutti gli effetti vita e tuttavia non venuta da te, Dio mio, da cui viene tutto. E la prima io la chiamavo "monade", sorta di intelligenza asessuata, l'altra "diade", cioè violenza nei delitti contro la società e arbitrio negli atti contro la morale: e non sapevo quello che dicevo. Ancora non sapevo, non avevo imparato che il male non è una sostanza, né la nostra mente è il bene supremo e immutabile.
- 25. Sono delitti le azioni compiute sotto un impulso della psiche che è vizioso, e si scatena con una opaca violenza; e vizi le abitudini contratte quando è senza misura l'inclinazione al piacere fisico. In modo analogo gli errori e le false opinioni inquinano la vita quando la stessa mente razionale è viziosa. Qual era allora in me, che ignoravo che un'altra luce deve illuminarla perché sia partecipe della verità, non essendo di per se stessa sostanza della verità. Poiché alla mia lucerna darai luce tu, Signore: Dio mio, darai luce al mio buio. Tutti abbiamo attinto dalla tua pienezza. Perché sei tu la luce vera, che illumina ogni uomo venuto a questo mondo, tu che non sei soggetto a mutamento né all'ombra alterna dei giorni.
- 26. Eppure io tendevo a te e tu mi respingevi per farmi assaporare la morte, perché resisti ai superbi. Ma cosa era più superbo di quella strana pazzia che mi induceva ad asserire di essere io stesso per natura ciò che tu sei? Io ero soggetto a mutamento e questo mi era evidente già dal fatto che desideravo la sapienza, per passare da una condizione peggiore a una migliore: eppure preferivo credere mutevole anche te, piuttosto che riconoscere la mia diversità da te. Perciò mi respingevi e resistevi alla mia cocciutaggine piena di vento e io continuavo a immaginare forme di corpi e la mia carne accusava la carne, ero un soffio vagante e non sapevo ritornare a te, e girovagando mi perdevo fra cose che non esistono: né in te né in me né nel mondo fisico. Cose che non era la tua verità a creare, ma la mia vanità a inventare fantasticando sui corpi, e dicevo ai tuoi piccoli, a quei miei concittadini che credevano in te, senza neppur sapere di esiliarmi lontano da loro, dicevo con petulanza cretina: "Perché è soggetta all'errore l'anima, se l'ha fatta Dio?" E non tolleravo che mi si ribattesse: "Ma perché poi dovrebbe errare Dio?" E preferivo sostenere che la tua sostanza immutabile era costretta a errare piuttosto di ammettere che la mia, mutevole, spontaneamente avesse deviato e si fosse condannata a errare.
- 27. Avevo forse ventisei o ventisette anni quando scrissi quei libri, rimuginando le fantasticherie materialistiche che mi rintronavano le orecchie del cuore: eppure io le tendevo, dolce verità, verso la tua interiore melodia, riflettendo sul bello e il conveniente, in un profondo desiderio di fermarmi ad ascoltarti, a esultare di gioia per la voce dello sposo, e non potevo, perché le grida del mio errore mi trascinavano fuori e il peso del mio orgoglio mi precipitava in basso. Già: tu non davi gioia e letizia al mio orecchio, e non esultavano le mie ossa, che ancora non erano state umiliate.
[Le Categorie di Aristotele]
16.28. E a che mi serviva aver letto e capito da solo, a circa vent'anni, un'opera aristotelica che m'era capitata fra le mani, le cosiddette Dieci categorie? Un titolo di cui il retore mio maestro a Cartagine si riempiva boriosamente la bocca fino a farla scoppiare, come del resto facevano altri che passavano per dotti: al punto che io restavo a bocca aperta come di fronte a un che di grande e divino. Più tardi ne discussi con persone che dicevano di averle capite a fatica, con l'aiuto di maestri che non si limitavano a spiegarle a voce, ma le illustravano addirittura con schemi tracciati nella polvere. Ma costoro non furono in grado di dirmi nulla di più di quanto avevo appreso io stesso leggendolo semplicemente per conto mio: mi pareva che l'opera parlasse abbastanza chiaramente delle sostanze - come l'uomo, ad esempio, e delle loro proprietà: come l'aspetto, quale sia; la statura, di quanti piedi; la parentela, di chi sia fratello; o dove risieda o quando sia nato, se sia in piedi o seduto, se abbia calzature o armi indosso, o se faccia o subisca qualcosa. Insomma, di tutte le innumerevoli determinazioni che cadono sotto questi nove generi, di cui ho specificato qualche esempio, o sotto lo stesso genere della sostanza.
- 29. A che mi serviva? Se anzi addirittura mi ostacolava, visto che mi sforzavo di intendere perfino te, Dio mio, meravigliosamente semplice e immutabile, mediante quei dieci predicamenti, nella convinzione che essi comprendessero assolutamente tutto ciò che esiste, quasi fossi tu pure soggetto alla tua grandezza e bellezza, quasi queste fossero in te come in un soggetto, al modo in cui ineriscono ai corpi. E invece tu sei la tua grandezza e bellezza, mentre un corpo non è grande e bello per il semplice fatto d'essere un corpo: e se anche fosse meno grande e meno bello, resterebbe sempre un corpo. Era il falso quello che pensavo di te, non il vero, erano le invenzioni della mia infelicità, non le stellate fortezze della tua beatitudine. Tu l'avevi ordinato: e così accadeva in me, che la terra mi producesse spine e tribolazioni e con dura fatica mi guadagnassi il pane.
[Una formazione enciclopedica]
- 30. E a cosa mi serviva aver letto e capito da solo tutti i libri che potevo delle arti cosiddette liberali, servo senza misura come ero allora di desideri malvagi? E mi ci appassionavo, e ignoravo l'origine di quanto di vero e certo contenessero. Volgevo le spalle alla luce e il viso alle cose illuminate: così che il viso stesso che osservava le cose illuminate restava in ombra. Tutto quello che intesi - senza gran fatica e senza maestri umani - dell'arte dell'espressione e dell'argomentazione, delle proprietà geometriche delle figure e delle cose musicali e dei numeri tu lo sai, Signore Dio, perché anche un'intelligenza rapida e un acuto discernimento sono doni tuoi. Ma io non te li offrivo in sacrificio. E così non mi tornavano utili, ma piuttosto rovinosi: perché mi sforzai di tenere strettamente in mio possesso una parte così buona della mia sostanza, e non ti affidavo in custodia la mia forza, ma me ne andai da te in un paese lontano, per dissiparla e svenderla nei bordelli del desiderio. A che mi serviva una cosa buona se non ne facevo buon uso? Neppure mi rendevo conto delle grandi difficoltà di comprensione che quelle arti oppongono anche a chi studia e ha ingegno, se non quando tentavo di esporle a persone del genere: e se uno non risultava eccessivamente tardo nel seguirmi, era il più bravo di loro.
- 31. A che mi serviva tutto ciò quando credevo che tu, Signore e Dio-verità, fossi un corpo luminoso e immenso e io una briciola di quel corpo? Enorme stortura! Eppure ero così e non arrossisco, Dio mio, di confessarti i tuoi gesti di bontà nei miei confronti, e di invocarti, io che non arrossivo allora di professare in pubblico le mie idee blasfeme e di abbaiarti contro. A che mi serviva dunque tutta l'agilità mentale con cui mi muovevo per quelle dottrine? O i tanti libri intricatissimi e districati senza alcun ausilio di insegnamento umano, se poi erravo in modo vergognoso, mostruoso, sacrilego nei concetti della mia devozione? Li ostacolava poi tanto, i tuoi piccoli, una mente assai più tarda della mia? Anzi, impediva loro di allontanarsi di molto da te, in modo che potessero metter su le piume, sicuri nel nido della tua chiesa, mentre col nutrimento di una sana fede si facevano crescere le ali dell'amore. Signore nostro Dio, all'ombra delle tue ali si rifugi la nostra speranza, e tu proteggi e sorreggi noi. Tu lo farai, sorreggerai i tuoi piccoli, tu li sorreggerai finché saranno bianchi di capelli: perché la nostra fermezza sei tu: se è solo nostra, è fragilità. Il nostro bene vive eterno in te, ed è perché gli abbiamo rivolto la schiena che siamo stravolti. È tempo di tornare a volgere la faccia a te, Signore, per non essere travolti. Vive in te, indeperibile, il nostro bene: che sei tu stesso. E non abbiamo paura che non ci sia più luogo a ritornare, là da dove siamo precipitati: anche in nostra assenza non crolla la nostra casa, la tua eternità.
LIBRO QUINTO
[A ROMA E A MILANO]
1.1. Accetta in sacrificio queste confessioni che ti porge di sua propria mano la mia lingua, da te formata e risvegliata a celebrare il tuo nome, e guarisci tutte le mie ossa, che dicano: signore, chi è simile a te? Già, non è per informarti di quello che ci passa dentro che ci si confessa a te - un cuore chiuso non sfugge ai tuoi occhi e la durezza umana non basta a respingerti: e tu la sciogli quando vuoi, a forza di vendetta o di pietà, e non c'è riparo alcuno alla tua vampa. Ti renda lode per amarti, l'anima, e ti confessi i tuoi gesti di pietà per lodarti. L'universo non cessa di cantare le tue lodi: né gli spiriti tutti che levano verso di te la bocca, né gli animali né i semplici corpi, attraverso la bocca di chi li contempla. Così in te l'anima si risvegli dalla sua stanchezza, e delle tue creature si faccia un valico per passare a te, loro meraviglioso autore: e lì trovare il suo ristoro e la sua vera forza.
2.2. Vadano, fuggano via da te gli inquieti, iniqui. E tu li vedi e distingui le ombre, ed ecco: l'insieme delle cose, loro inclusi, è bello: eppure di per sé son brutti. E quale danno mai ti hanno arrecato? In cosa hanno potuto macchiare lo splendore del tuo impero, che dai cieli agli estremi del creato è intatto e giusto? E dove son fuggiti, quando sono fuggiti dal tuo volto? Dov'è che non li troveresti? Ma sono fuggiti per non vedere te che li vedevi e così accecati andare a schiantarsi contro di te - che non lasci una sola delle cose che hai creato. A schiantarsi contro di te, gli ingiusti: giusto supplizio, per gente che si sottrae alla tua mitezza per scontrarsi con il tuo rigore, fino a provare tutta la tua durezza. Non sanno, a quanto pare, che sei dappertutto e non circoscritto nello spazio, tu, il solo essere presente anche a chi si allontana da te. Tornino dunque a rivolgersi a te, a cercarti, perché se hanno abbandonato il loro autore, tu non l'hai abbandonata, la creatura. Che siano loro a rivolgersi a te: e lì nel loro cuore ti ritroveranno, nel cuore di chi ti riconosce e si abbandona a te e piange in braccio a te, stanco delle sue vie difficili. E facilmente asciugherai le loro lacrime, e piangeranno ancora ma di gioia: perché tu, Signore, non un uomo, che è sempre carne e sangue, ma tu, Signore che li hai creati, li ricrei e li consoli. E io dov'ero quando ti cercavo? E tu eri davanti a me, io invece ero fuggito anche da me stesso e non mi ritrovavo: e ancora meno ritrovavo te.
[I manichei e il sapere profano]
3.3. E parlerò al cospetto del mio Dio di quell'anno, il mio ventinovesimo. Era arrivato a Cartagine un vescovo manicheo di nome Fausto, gran laccio del demonio: molti vi incappavano, attratti dalla soavità del suo eloquio. E anch'io la ammiravo, distinguendola però dalla verità sostanziale, che ero avido di apprendere: perciò non badavo al recipiente del suo ragionamento ma al contenuto di conoscenza che quel Fausto, di cui parlavano tanto i suoi seguaci, aveva da offrire alla mia fame. La sua fama lo annunciava come uomo assai esperto negli studi letterari e dottissimo nelle discipline liberali. E poiché avevo letto molte pagine dei filosofi e le avevo imparate a memoria, ne confrontavo qualcuna con le lunghe favole dei manichei, e mi pareva più plausibile, il pensiero di quelli che furono capaci di calcolare il corso del mondo, anche se non di trovare il suo Signore. Perché sei grande, Signore, e posi lo sguardo sulle cose vicine alla terra, e quelle eccelse le osservi da lontano, e non ti avvicini che a un cuore avvilito e dai superbi non ti fai trovare, neppure se la loro avida scienza sa contare le stelle e i grani della sabbia e misurar gli spazi siderali e investigare le strade degli astri.
- 4. In questa ricerca investono tutta l'intelligenza e l'ingegno che tu hai dato loro, e hanno fatto molte scoperte e predizioni in anticipo di molti anni, ad esempio sulle eclissi del sole e della luna: il giorno e l'ora e la misura in cui sarebbero avvenute, e i loro calcoli erano esatti. È accaduto proprio come avevano predetto: misero per iscritto le regolarità scoperte e oggi si possono leggere in queste loro predizioni l'anno e il mese dell'anno e il giorno del mese e l'ora del giorno e la misura in cui si eclisserà il disco luminoso del sole o della luna: e avverrà tutto come è già predetto. E gli uomini ne restano ammirati, e i profani ne sono stupefatti, mentre gli esperti esultano e si esaltano, e il loro orgoglio dissacrante li toglie alla tua luce e li eclissa: ma prevedono con tanto anticipo l'eclissi di sole e il loro presente non lo vedono - perché non indagano con mente religiosa l'origine dell'intelligenza indagatrice - o se scoprono che sei tu il loro autore non si danno a te perché li conservi come tu li hai fatti, e ciò che loro han fatto di se stessi non lo annientano per te e non abbattono come uccelli in volo i loro entusiasmi e le loro avide curiosità, questi pesci del mare che vagano per i segreti sentieri del profondo, e neppure ammazzano le loro lussurie, bestiame da pascolo, perché tu, fuoco che divora, Dio, consumi in loro la morte e l'angoscia e li ricrei, immortali.
- 5. Ma non conoscono la via, la tua Parola, per mezzo della quale hai fatto le cose che essi calcolano, e loro stessi che calcolano: e la tua sapienza è incalcolabile. L'unigenito stesso s'è fatto per noi sapienza e giustizia e santificazione, fu annoverato fra noi e pagò il tributo a Cesare. Non conoscono questa via per cui discendere da sé a lui, e a lui attraverso di lui risalire. Non conoscono questa via e si credono alti e scintillanti come le stelle, e invece son precipitati in terra, e il buio è sceso loro sul cuore insipiente. E dicono molte cose vere sul creato eppure non hanno abbastanza pietà per cercare la verità stessa, che del creato è artefice: e perciò non la trovano, o se la trovano conoscono Dio ma non gli rendono onore e grazie come a Dio, e si svaniscono nei loro pensieri e si proclamano sapienti, attribuendo a se stessi ciò che è tuo e la loro cecità li stravolge al punto che si sforzano anche di attribuire prerogative loro a te: ad esempio conferiscono una natura capace di menzogna a te, che sei la verità, trasformando la gloria di Dio incorruttibile nell'immagine dell'uomo corruttibile e degli uccelli e dei quadrupedi e dei serpenti, e convertono la tua verità in menzogna e adorano e servono la creatura invece del creatore.
- 6. Tuttavia molte cose vere appresi da loro, ricavate dal creato stesso: e me ne rendevo razionalmente conto attraverso i calcoli e l'ordine delle stagioni e la testimonianza visibile delle stelle, e confrontavo tutto questo con le proposizioni di Mani, che scrisse di questi argomenti con delirante abbondanza. E non vi trovavo alcuna spiegazione razionale né dei solstizi e degli equinozi né delle eclissi dei corpi celesti né alcunché di simile a quello che avevo appreso nei libri della sapienza profana. E tuttavia mi si imponeva di credervi, anche se non trovava alcun riscontro nei calcoli e nei dati della vista, da cui divergeva ampiamente.
4.7. Signore Dio di verità, basta sapere questo genere di cose per piacerti? Veramente infelice è l'uomo che sa tutto questo e non conosce te: beato chi ti conosce invece, anche se ignora quelle verità. Chi poi conosce sia te sia quelle non è per questo più felice, ma per te solo è felice, se oltre a conoscerti ti rende gloria e grazie per quello che sei e non si svaga via nei suoi pensieri. Chi sa di possedere un albero e ti rende grazie dell'usufrutto che ne ha, anche se ignora quanti cubiti misura in altezza o quale è l'ampiezza della sua chioma, è migliore di chi lo misura e conta tutti i suoi rami ma non lo possiede, e neppure conosce e ama il suo autore. Così l'uomo di fede, che ha per sé tutte le ricchezze del mondo, e senza nulla avere tutto possiede nell'unione con te, che hai tutte le cose al tuo servizio: anche se ignora perfino il giro dell'Orsa maggiore, è da sciocchi dubitare che sia in assoluto migliore di chi sa misurare il cielo e contare le stelle e pesare gli elementi, e non si cura di te, che di ogni cosa hai stabilito misura, numero e peso.
[La presunzione di Mani]
5.8. Eppure chi lo chiedeva a un Mani qualunque di mettersi a scrivere di questi argomenti, la competenza nei quali non è necessaria ad apprendere la pietà? Tu hai detto all'uomo: temere Dio: è questa la sapienza. Dunque poteva anche non saper nulla di questa, anche se avesse posseduto perfettamente quella competenza: ma siccome per giunta non l'aveva, dato che il suo insegnamento era il colmo dell'impudenza, a maggior ragione non poteva conoscere la sapienza. È vanità far professione di questa conoscenza mondana, anche quando la si possiede: pietà è farne confessione come di cosa tua. Dunque egli ne ha parlato molto e a sproposito affinché, una volta confutato dai veri esperti di queste materie, risultasse ben chiaro quale poteva essere la sua penetrazione in argomenti ancor meno accessibili. Non intese infatti aver piccola stima di sé, dato che tentò di far credere che lo Spirito Santo, il consolatore e il tesoro di chi ha fede in te, risiedeva in lui stesso con autorità plenaria. Così quando si scopriva che aveva detto il falso a proposito del cielo e delle stelle, e del moto del sole e della luna, quantunque questi non siano argomenti pertinenti all'insegnamento religioso, emergeva con molta evidenza che la sua temerarietà era stata sacrilega. Non solo spacciava per verità la propria ignoranza, ma anche proposizioni positivamente false, e il delirio della sua superbia era tale che si ingegnava di contrabbandarle in base all'autorità divina della propria persona.
- 9. Quando sento che l'uno o l'altro dei miei fratelli cristiani non conosce questa materia e piglia lucciole per lanterne, io guardo con una certa pazienza alle sue convinzioni, e non vedo che gli possa nuocere l'ignoranza della posizione o del comportamento di qualche corpo nel creato, purché non abbia su di te, creatore di ogni cosa, opinioni sconvenienti. Gli nuocerebbe invece se pensasse che questo tipo di conoscenze debba essere di specifica pertinenza dell'insegnamento religioso, e si ostinasse a fare affermazioni temerarie su ciò che non conosce. Ma anche questa debolezza è protetta nella culla della fede dall'amore materno, finché si levi l'uomo nuovo nella sua compiutezza virile e non si lasci più trascinare da ogni vento di dottrina. Ma pensa a quell'uomo che come maestro e autorità, guida e principe di tutti i discepoli che aveva persuaso ebbe addirittura l'audacia di far credere ai suoi seguaci che non correvano dietro a un uomo qualunque, ma al tuo Spirito Santo! Una tale follia, una volta dimostrato che faceva asserzioni false, chi non l'avrebbe giudicata odiosa e assolutamente inaccettabile? E tuttavia io non riuscivo ancora a rendermi chiaramente conto se fosse o no possibile spiegare nei suoi termini l'alternarsi di giorni e notti di diversa lunghezza, o di giorno e notte semplicemente, e gli svanimenti dei corpi celesti, e quant'altro del genere avevo letto in altri libri. Perché se per caso era possibile sarei rimasto in dubbio su come stavano veramente le cose, ma in quel caso avrei creduto a lui, e preferito la sua autorità per la fama di santo che lo circondava.
[L'incontro con Fausto, vescovo manicheo]
6.10. E per tutti i nove anni di vagabondaggio mentale durante i quali prestai loro ascolto, aspettavo e desideravo con un'incredibile tensione che venisse finalmente questo Fausto. Se per caso mi imbattevo in qualcuno di loro e non sapeva rispondere alle mie obiezioni su quegli argomenti - e non ce n'era uno che fosse in grado di farlo - invariabilmente mi rinviavano a un colloquio diretto con lui: bastava che lui arrivasse, mi assicuravano, e in men che non si dica avrebbe sbrogliato perfettamente le mie perplessità, e altre anche più gravi, se ne avevo. Venne finalmente, e mi trovai di fronte un uomo gradevole, conversatore affascinante, che gorgheggiava sui soliti temi dei loro discorsi, ma con molta più grazia. Ma che cosa se ne faceva la mia sete di un garbatissimo servitore, con tutte le sue coppe preziose? Avevo già le orecchie sazie di roba del genere, e non mi sembrava migliore solo perché detta meglio, o più vera perché meglio ornata. E neppure mi pareva sapiente il suo cuore solo perché la sua espressione era composta ed elegante il suo eloquio. Quelli poi che me lo vantavano non erano buoni estimatori, e il piacere che provavano ad ascoltarlo bastava a farglielo sembrare saggio e sapiente. Ho conosciuto del resto un altro genere di persone, pronte a diffidare perfino della verità e non disposte a consentire se gliela si presentava con parole ornate e ricchezza d'eloquio. Quanto a me, la mia lezione già l'avevo ricevuta dal mio Dio per vie strane e segrete - e credo che sia stato tu a insegnarmelo perché è vero, e non c'è al di fuori di te alcun maestro di verità. Avevo già appreso da te, dunque, che se non si deve credere vera una cosa perché è detta con eloquenza, neppure bisogna ritenerla falsa perché suona male all'orecchio; e neppure vera, però, soltanto perché è detta senz'arte, o falsa perché il discorso è brillante. Ma sapienza e idiozia sono esattamente come i cibi nutrienti e quelli nocivi: possono esser servite con parole eleganti o disadorne né più né meno che entrambe le sorte di cibo in recipienti raffinati o rustici.
- 11. L'ansia dunque con la quale per tanto tempo avevo atteso quell'uomo era in qualche modo piacevolmente placata dalla vivacità e dalla passione che egli metteva nelle discussioni, e dall'eleganza e facilità con cui rivestiva di parole i suoi pensieri. Sì, ne ero compiaciuto, ed ero come gli altri e più degli altri prodigo di lodi e ammirazione; però mi seccava che la folla degli uditori non mi consentisse di farlo partecipe dei problemi che mi stavano a cuore, in una conversazione privata in cui potessi dialogare con lui, punto per punto. Quando poi questo fu possibile e cominciai - insieme coi miei amici - ad assediare le sue orecchie, in un momento in cui non era disdicevole una conversazione a botta e risposta, e gli proposi i dubbi che mi inquietavano, mi trovai per la prima volta di fronte a un uomo che nelle arti liberali era un profano, eccetto per la grammatica, dove comunque le sue conoscenze non uscivano dall'ordinario. Aveva letto alcune orazioni ciceroniane e pochissimi libri di Seneca e qualche poeta, e forse qualcosa dei suoi correligionari, il poco che c'era di scritto in buon latino: il resto era quotidiano esercizio di oratore. Erano queste le fonti da cui attingeva tutta la sua eloquenza, che il suo ingegno e una certa innata grazia rendevano più gradevole e seducente. Non è così come ricordo mio Signore e Dio, arbitro della mia coscienza? Cuore e ricordo stanno davanti a te, che allora mi muovevi nel segreto misterioso della tua provvidenza, e già rivoltavi sotto i miei occhi la vergogna dei miei errori, perché potessi vederla, e odiarla.
7.12. Quando mi fu ben chiaro che quell'uomo era inesperto in quelle discipline in cui l'avevo creduto eccellente, presi a disperare che egli fosse in grado di chiarire e dissolvere i problemi che mi agitavano. È vero, avrebbe potuto, pur nella sua ignoranza, possedere la verità religiosa: ma solo se non fosse stato manicheo. I loro libri sono pieni di favole lunghissime sul cielo e le stelle e il sole e la luna. Ora, che egli fosse sottile abbastanza da spiegarmi - secondo il mio profondo desiderio - se, dati i risultati dei calcoli che avevo letto altrove, le cose stessero veramente come nei libri di Mani, o almeno si potessero con pari evidenza descrivere in quei termini: no, questo ormai non lo speravo più. Ma quando sottoposi questi dubbi alla sua attenzione, per discuterli con lui, con vera modestia ricusò un carico così pesante e rischioso. Sapeva infatti di non conoscere quegli argomenti, e non si vergognò a confessarlo. Non era della razza di quei chiacchieroni che avevo dovuto sopportare, e che tentavano di farmi lezione e non dicevano nulla. Questo se non altro aveva un cuore, se non retto verso di te, almeno non troppo incauto verso se stesso. Non era a tal punto ignaro della sua ignoranza da volersi arrischiare con una discussione in una situazione da cui non c'era per lui né via d'uscita né facile ritorno. E per questo mi piacque anche di più. Infatti la modestia di una mente che ammette i suoi limiti è più bella della conoscenza che io desideravo. E quell'uomo lo trovavo tale in tutte le questioni un po' difficili e sottili.
[Delusione e crisi]
- 13. E così si infranse la passione di cui avevo investito le dottrine di Mani: e ancor meno speranza riponevo negli altri loro maestri, quando il più famoso di loro aveva fatto una figura del genere sulle molte questioni che mi agitavano. Cominciai a frequentarlo in grazia della passione ardente che egli nutriva per quegli studi letterari che erano allora materia del mio insegnamento di retorica a Cartagine, e a leggere con lui le cose che si struggeva di conoscere, per averne sentito parlare, o quelle che io stesso stimavo congeniali a un talento come il suo. Per il resto ogni mio tentativo di salire di grado, come mi ero proposto, in quella setta, fu completamente stroncato dall'incontro con quell'uomo: non che per questo io tagliassi completamente i ponti con loro, ma, non trovando di meglio, avevo deciso di accontentarmi per ora della situazione in cui m'ero bene o male cacciato, finché non si chiarisse che cosa era meglio fare. Così quel Fausto, che per molti era stato un cappio mortale, aveva già cominciato senza saperlo né volerlo a sciogliere quello in cui ero preso io. Perché le tue mani, Dio mio, nel segreto della tua provvidenza non abbandonavano quest'anima, e giorno e notte mia madre ti offriva di cuore in sacrificio lacrime e sangue per me: e tu hai agito su di me per vie mirabili. Sì, eri tu ad agire, Dio mio. Perché il signore dirige i passi dell'uomo, e sceglie la sua strada. Che altra salvezza c'è se non è la tua mano a ricreare quello che tu hai creato?
8.14. Agisti dunque su di me fino a farmi maturare la decisione di partire alla volta di Roma, per insegnare là invece che a Cartagine la mia disciplina. Come poi venni a questa convinzione io non te lo voglio tacere, dato che anche in questi fatti bisogna riconoscere e celebrare le tue profondità segrete e la tua attenzione costante e tenerissima per noi. Non volevo andare a Roma per le prospettive di maggiori guadagni e maggior prestigio con cui gli amici volevano allettarmi - benché anche queste cose allora avessero peso sulle mie decisioni. Ma la ragione prima e forse unica era la fama che gli studenti di là avevano d'essere più tranquilli, e disciplinati da un ordinamento più rigoroso: e non avevano l'abitudine di irrompere alla spicciolata e alla rinfusa in una scuola se non erano allievi di quel maestro, anzi non vi erano affatto ammessi senza il suo permesso. A Cartagine invece l'indisciplina degli studenti è vergognosa e sfrenata: hanno l'impudenza di cacciarsi dove vogliono, sono come furie che turbano l'ordine istituito per il profitto degli allievi. Commettono ogni sorta di insolenze di una scempiaggine incredibile, che le leggi dovrebbero punire, se l'usanza non li proteggesse. E si rivelano tanto più miserabili, in quanto agiscono come se ciò che fanno fosse lecito, mentre per la tua legge non lo sarà mai; e credono di passare impuniti quando è la stessa cecità del loro agire la pena, e soffrono cose incomparabilmente peggiori di quelle che fanno. E io che da studente m'ero sempre rifiutato di indulgere a quegli usi, adesso da professore ero costretto a sopportarli da parte altrui: per questo aspiravo ad andarmene dove questo, stando a chi ne era informato, non sarebbe accaduto. Ma eri tu, speranza e parte mia sulla terra dei vivi, che mi spingevi per la mia salvezza a cambiare il mio luogo in terra: e a Cartagine mi pungolavi a strapparmi di lì, mentre a Roma mi allettavi a forza di lusinghe: e tutto servendoti di uomini attaccati a questo vivere già morto, che qui imperversavano nella loro demenza, là prodigavano vacue promesse, e per correggere i miei passi sfruttavi segretamente la perversità: la mia e la loro. Perché se quelli che turbavano la mia pace contemplativa erano ciechi come cani rabbiosi e quelli che mi invitavano a un'altra vita assaporavano il gusto della terra, io a mia volta odiavo un'infelicità reale per agognare a una felicità fasulla.
[Fuga a Roma]
- 15. Ma la vera ragione di questo mutamento di luogo tu la sapevi, Dio, e non la palesavi né a me né a mia madre, che pianse disperatamente la mia partenza e mi seguì fino al mare. Dovetti ingannarla, perché cercava di trattenermi con la forza e costringermi o a rinunciare o a prenderla con me: e finsi di voler solo andare a tener compagnia a un amico che stava per partire, in attesa che si levasse il vento. Ho mentito a mia madre, a quella madre: e sono fuggito. Sì, e anche questo tu mi hai condonato se la tua indulgenza poi mi salvò dalle acque del mare, pieno di sozzure com'ero, per preservarmi all'acqua della tua grazia: quando scorrendo su di me fece asciugare i fiumi di lacrime di cui mia madre ogni giorno ti irrigava il suolo ai suoi piedi. Eppure, poiché si rifiutava di tornare a casa senza di me, io la convinsi a fatica a passare la notte in un luogo vicino alla nostra nave, una cappella dedicata al beato Cipriano. Ma quella notte io partii clandestinamente e lei rimase a piangere e a pregare. E cosa ti chiedeva, Dio mio, fra tante lacrime, se non che tu mi impedissi di prendere il mare? Ma nella profondità del tuo pensiero tu esaudisti la sostanza del suo desiderio, senza curarti della preghiera del momento, per far di me quello che lei ti aveva sempre chiesto. Il vento si levò e ci gonfiò le vele, e il lido scompariva ai nostri occhi, quel mattino, quando lei pazza di dolore ti tempestava le orecchie di lamenti e gemiti. Tu nella tua sprezzante indifferenza intanto mi strappavi alle mie passioni per stroncarle, e lasciare che un giusto staffile di dolore punisse quel suo carnale struggimento. Amava avermi con sé, come tutte le madri, ma molto più della gran maggioranza di loro; e non sapeva quali gioie tu le avresti fatto nascere dalla mia assenza. Non lo sapeva e perciò si scioglieva in gemiti e singhiozzi, e questo tormento rivelava in lei l'eredità di Eva, che cercava fra i lamenti quello che fra i lamenti aveva partorito. E però dopo aver maledetto la mia slealtà e crudeltà ricominciò a supplicarti per me: lei se ne andava di nuovo alla sua solita vita, io a Roma.
9.16. E là mi piomba addosso la mazzata di una malattia che per poco non mi trascina all'inferno con tutto il male che avevo commesso contro di te e di me e contro gli altri, tanto e grave, oltre alla catena del peccato originale, per cui tutti moriamo in Adamo. Non una sola di queste colpe ancora mi avevi condonato nel Cristo, che ancora non aveva sciolto sulla sua croce le inimicizie nei tuoi confronti, i miei peccati. E come poteva scioglierle sulla croce con le fantasticherie che mi facevo sul suo conto? Quanto credevo falsa la sua morte carnale, tanto era vera la mia spirituale, e quanto era vera la morte della sua carne, tanto era falsa la vita di quest'anima incredula. E la febbre cresceva, e già me ne andavo. In rovina, certo: se quella fosse stata la mia ora, dove sarei andato se non al fuoco di tormenti degni delle mie azioni, nella verità del tuo ordine. E lei non lo sapeva e pregava lontano per me. Ma tu, ovunque presente, laggiù l'esaudivi e lì dov'ero io t'impietosivi di me: tanto che recuperai la salute del corpo quand'ero ancora malato nel cuore sacrilego. Perché anche in un pericolo così grande io non volevo il tuo battesimo: ero stato migliore da bambino, quando lo avevo affannosamente richiesto alla devozione di mia madre, come ho già ricordato in questa confessione. Ma ero cresciuto a mia vergogna ed ero pazzo al punto di ridere delle ricette della tua medicina: e tu non hai permesso che morissi due volte in quello stato. Da una ferita così il cuore di mia madre non sarebbe più guarito. Non mi basta il linguaggio a dire che cosa provava per me e come fu più grande la sua angoscia nel farmi nascere allo spirito di quella che aveva provato nel partorirmi.
- 17. No, non vedo come sarebbe guarita, se la mia morte, una morte così, avesse trafitto le viscere del suo affetto. E che ne sarebbe stato di tante preghiere, e tanto ardenti, che recitava senza interruzione? Sarebbero tornate a te. Ma tu, Dio delle misericordie potevi diprezzare il cuore avvilito e umiliato di una vedova casta e sobria, assidua nelle elemosine, piena di devozione e rispetto per i tuoi santi, che non lasciava passare giorno senza portare un'offerta al tuo altare, che due volte al giorno, mattino e sera, veniva senza fallo alla tua chiesa, e non per amor di chiacchiere e tiritere da vecchie donnette ma per ascoltare le tue parole e farti ascoltare le sue preghiere? Le sue lacrime, che non versava per chiederti oro e argento né qualche bene mutevole e caduco, ma la salvezza dell'anima di suo figlio, tu che l'avevi fatta tale col tuo dono, potevi disprezzarle, e negarle il tuo aiuto? No mio Signore, non era possibile. Tu eri con lei e le prestavi ascolto e agivi secondo l'ordine predestinato del tuo agire. È inconcepibile che tu abbia potuto ingannarla in quelle visioni e in quei responsi che le inviasti, quelli che ho già ricordato e quelli che non ho ricordato, e che lei serbava nel suo petto fedele e ti ripresentava ogni volta nelle sue suppliche, quasi impegni firmati di tua mano. Perché eterna è la tua fedeltà, e ti degni di farti debitore degli uomini, dopo aver condonato tutti i loro debiti.
[Lento distacco dai manichei]
10.18. Tu dunque mi rendesti la vita e la salute, salvando il figlio della tua ancella: solo fisicamente per allora, per avere poi l'uomo a cui donare una salute migliore e più certa. Anche allora, a Roma, mantenevo contatti con quei falsi santi, quei falsari: non soltanto con i loro uditori, fra i quali si contava anche la persona che mi aveva ospitato durante la malattia e la convalescenza; ma anche con i cosiddetti eletti. Ero infatti ancora dell'opinione che non fossimo noi a peccare, ma fosse una qualche altra natura a farlo, in noi: e piaceva al mio orgoglio, sentirmi estraneo alla colpa, e se facevo del male, non ammettere di averne fatto - perché tu salvassi quest'anima, colpevole verso di te - ma preferivo scusarla per accusare non so che altra entità che sarebbe stata in me senza esser me. E invece io ero un unico tutto, era la mia empietà a scindermi in due, mettendomi contro me stesso. Ed era il peccato più inguaribile, quello di non considerarmi in colpa: com'era condannabile perversione preferire che tu, Dio onnipotente, fossi sconfitto a mia rovina in me piuttosto che lo fossi io da te, e per la mia salvezza. Ancora non mi avevi posto una guardia alla bocca, e la porta della continenza attorno alle mie labbra, perché il mio cuore non indulgesse alle parole inique, a offrire scuse per giustificare i peccati, con gli uomini che fanno il male: e perciò ancora frequentavo i loro eletti. E tuttavia disperavo ormai di fare qualche progresso in quella falsa dottrina, e anche quei principi dei quali avevo deciso di ritenermi pago finché non avessi trovato di meglio, li conservavo in modo sempre più fiacco e distratto.
[La fase scettica]
- 19. In realtà mi si era insinuata in mente anche l'idea che più saggi degli altri fossero quei filosofi detti accademici, i quali avevano sostenuto che si dovesse dubitare di tutto ed erano giunti alla conclusione che l'uomo non potesse afferrare alcunché di vero. Allora credevo anch'io che fosse semplicemente questa la loro tesi, com'è opinione comune, perché neanch'io avevo compreso la loro vera intenzione. E non mi peritai di scoraggiare l'eccessiva fiducia che il mio ospite, come mi avvidi, prestava alle cose favolose di cui sono pieni i libri manichei. Tuttavia ero in rapporti di amicizia più con i loro iniziati che con altre persone, estranee a quell'eresia. E non la difendevo più con l'animosità di un tempo, ma la loro familiarità - perché Roma ne nasconde molti - mi rendeva meno intraprendente nella ricerca d'altre cose, visto che allora disperavo che nella tua Chiesa, Signore del cielo e della terra, creatore di tutte le cose visibili e invisibili, potesse trovarsi la verità: quest'avversione me l'avevano inculcata loro, e mi sembrava molto indecoroso credere che tu avessi una figura di carne umana e fossi circoscritto nei lineamenti materiali del nostro corpo. E siccome, volendo farmi un'idea del mio Dio, non riuscivo a pensare se non a masse corporee - né d'altra parte credevo esistesse qualcosa di diverso - era questa la maggiore e forse la sola causa del mio inevitabile errore.
- 20. Perciò credevo che tale fosse anche la sostanza del male, e avesse una sua massa tetra e informe, qui densa - quella che chiamano terra - là tenue e sottile, come è il corpo dell'aria, che loro immaginano come spirito maligno strisciante sopra la terra. E poiché la pietà mi costringeva a credere che un Dio buono non poteva aver creato alcun genere di male sostanziale, mi costruivo due masse contrarie, due infinità, ma più limitata quella del male, più pervasiva quella del bene, e da questo principio maligno conseguivano le altre mie convinzioni sacrileghe. Se la mente si sforzava di ritornare alla fede cattolica se ne sentiva respinta, perché la fede cattolica non era quella che credevo io. Mi pareva vi fosse maggior senso del divino, Dio mio, che ora ricevi il grazie delle tue indulgenze per me, nel crederti infinito in tutte le dimensioni eccetto quella in cui ti si opponeva la massa del male, piuttosto che ritenerti limitato tutt'intorno dalla figura del corpo umano. E meglio mi pareva credere che tu non avessi creato nessun male - che alla mia ignoranza appariva non solo come una sostanza, ma addirittura di natura materiale, dato che perfino la mente non sapevo pensarla se non come un corpo sottile, diffuso tuttavia per lo spazio - piuttosto che credere derivata da te la natura del male, quale la immaginavo. Perfino il nostro salvatore, tuo unigenito, lo consideravo come emanato dalla tua luminosissima massa per la nostra salvezza: al punto che non credevo di lui che quanto la mia vanità riusciva a immaginare. Ritenevo tale la sua natura che non avrebbe potuto nascere dalla vergine Maria, se non andandosi a compromettere con la carne. Ma compromettervisi senza restarne contaminato non vedevo come si potesse, perché me lo figuravo come ho detto. Avevo ritegno a crederlo nato nella carne, per non esser costretto a crederlo contaminato dalla carne. Ora gli uomini del tuo spirito rideranno di me con tenera indulgenza, se leggeranno queste mie confessioni: ma io ero proprio così.
11.21. Inoltre non ritenevo difendibili i luoghi delle tue Scritture che erano oggetto delle loro critiche. Ma a volte provavo il desiderio di sottoporre certi passi a qualche espertissimo conoscitore di quei libri, e conoscere la sua opinione in proposito. Già a Cartagine mi avevano fatto una certa impressione i discorsi di un tale Elpidio che teneva in pubblico conferenze e discorsi contro gli stessi manichei: egli allegava passi dalle Scritture da cui non era facile difendersi. E la risposta di costoro m'era parsa debole: tanto più che essi non la proponevano apertamente e in pubblico, ma soltanto a noi iniziati, sostenendo che i testi del Nuovo Testamento erano stati falsificati non si sa bene da chi, con l'intenzione di innestare la fede cristiana sul tronco della legge ebraica; peraltro non erano in grado di esibire di quei testi almeno un esemplare senza manomissioni. Ma io ero talmente impedito, schiacciato e come soffocato dalle masse materiali che mi occupavano il pensiero che ansavo sotto il loro peso senza riuscire a respirare l'aria limpida e pura della tua verità.
[L'ambiente studentesco romano]
12.22. Con impegno dunque cominciai a svolgere l'attività per cui ero venuto a Roma, cioè a insegnare retorica: e in un primo tempo raccoglievo a casa un certo numero di persone, alle quali e grazie alle quali cominciavo a farmi conoscere. A questo punto vengo a sapere che a Roma succedono cose che non avevo dovuto subire in Africa. Mi confermarono, sì, che qui non c'erano quei dannati ragazzi sempre pronti a creare disordini. "Ma all'improvviso ti capita," mi dicevano, "che un bel po' di ragazzi si mettono d'accordo per non pagare il compenso al maestro, e ti piantano in asso passando a un altro: gente che tradisce la tua buona fede e che per amor del denaro non fa gran conto della giustizia". Il mio cuore provò dell'odio per questa gente, benché non un odio perfetto: perché li odiavo probabilmente più per il torto che avrei dovuto subire io da parte loro che per gli illeciti di cui si rendevano colpevoli verso il prossimo in generale. Certo però che sono brutte persone queste che se ne vanno via da te a prostituirsi dietro ai loro amori sfarfallanti, di cui riderà il tempo, e al loro fangoso guadagno che ad afferrarlo insudicia la mano, tentando d'abbracciare il mondo che fugge e disprezzando te che resti e chiami e la perdoni, questa donna di strada, l'anima umana che ritorna a te. Anche ora la odio questa gente torta e ignobile, benché mi stia a cuore correggerla e indurla a preferire al denaro la disciplina che impara, e a questa te, Dio, verità feconda di un bene certo e castissima pace. Ma allora mi stava più a cuore al mio amor proprio sfuggire alle angherie di quella mala specie d'uomini, che renderla buona per amor tuo.
[A Milano: l'incontro con Ambrogio]
13.23. E così quando da Milano giunse a Roma, al prefetto dell'urbe, il mandato per la nomina di un maestro di retorica da assegnare a quella città, addirittura col viaggio compreso, a spese pubbliche, io mi diedi personalmente da fare proprio servendomi di quei vacui esaltati dei manichei - e il bello è che me ne andavo per liberarmi di loro, ma né io né loro lo sapevamo - perché il prefetto allora in carica, Simmaco, una volta superata la consueta prova di tecnica oratoria, nominasse me. E arrivai a Milano dal vescovo Ambrogio, noto a tutto il mondo come uno dei migliori, tuo devoto cultore, la cui eloquenza dispensava allora con vigore al tuo popolo il fiore del tuo frumento e la gioia del tuo olio e la sobria ebbrezza del tuo vino. A lui eri tu a guidarmi, inconsapevole, perché da lui fossi consapevolmente guidato a te. Mi accolse paternamente, quell'uomo di Dio, e quel mio pellegrinaggio gli fu gradito come si conviene a un vescovo. E io presi dapprima ad amarlo non come maestro di una verità che disperavo di trovare nella tua Chiesa, ma come un uomo che aveva per me dell'affetto. E con interesse lo ascoltavo parlare al popolo, non con l'atteggiamento che avrei dovuto avere, ma come per vedere se la sua eloquenza fosse all'altezza della sua fama, e scorresse più o meno abbondante di come si diceva: pendevo dalle sue labbra con tutta l'attenzione rivolta alle parole che usava, ma senza curarmi del contenuto, che anzi disdegnavo, mentre restavo lì incantato, preso nella fascinazione del suo eloquio: più dotto, benché meno spiritoso e seducente di quello di Fausto, quanto al modo di porgere. Ma quanto al contenuto non c'era confronto: l'uno si perdeva per le inconseguenze manichee, l'altro insegnava la salvezza, nel modo più salutare. Ma la salvezza è lontana dai peccatori come ero io che pure ascoltavo, allora. E tuttavia, senza saperlo, sensibilmente mi ci avvicinavo.
14.24. È vero, non ponevo mente, nell'ascoltare, a ciò che diceva, ma al modo in cui lo diceva - già, era tutta qui la vana occupazione che mi restava, perduta ormai la speranza che all'uomo fosse data una via verso di te. Alla mente però con le parole, di cui mi curavo, mi venivano anche le cose, che trascuravo. Non potevo staccare le une dalle altre. E mentre aprivo il cuore all'eleganza delle sue parole, parimenti vi entrava, a poco a poco, il vero che esprimevano. Dapprima infatti cominciai a rendermi conto che quelle opinioni si potevano difendere, e a pensare che non fosse poi così impudente sostenere la fede cattolica, che avevo ritenuto impossibile salvare dalle obiezioni dei manichei. Soprattutto dopo aver sentito risolvere uno dopo l'altro quegli enigmi dell'Antico Testamento di fronte ai quali, presi alla lettera, mi sentivo morire. Una volta intesa l'interpretazione spirituale della maggior parte di quei passi ero già disposto a riprovare quella disperazione di prima, almeno in quanto m'aveva indotto a credere che fosse impossibile per i libri della Legge e dei Profeti resistere a quelli che li trovavavano odiosi e ridicoli. Tuttavia non mi sentivo di seguire la via cattolica solo perché anche questa risultava in grado di avere i suoi dotti sostenitori, capaci di respingere con eloquenza e ragionevolezza le obiezioni. O di condannare la posizione su cui m'ero attestato, solo perché i due partiti si difendevano ad armi pari. In conclusione la fede cattolica non mi appariva sconfitta, benché ancora non mi sembrasse vincitrice.
- 25. Allora impegnai tutta la mia intelligenza nella ricerca di una prova certa con cui confutare i manichei. Se solo fossi riuscito a concepire una sostanza dello spirito, subito tutte le loro macchine mentali sarebbero state abbattute e spazzate via dalla mia mente. Ma non ci riuscivo. È vero però che riguardo al mondo fisico e a ogni cosa del genere sensibile, propendevo ormai a credere, a forza di riflessioni e di confronti, che le opinioni della maggior parte dei filosofi fossero molto più verosimili. E così dubitando di tutto al modo degli Accademici - o a quello che gli si attribuisce - e oscillando a ogni proposito, decisi che bisognava comunque abbandonare i manichei. Mi pareva di non potere, in quella mia stagione di dubbi, restare in seno a quella setta, se ormai le preferivo alcuni filosofi. Filosofi ai quali d'altra parte ricusavo di affidare completamente la cura dell'anima nello stato di depressione in cui versava: perché facevano a meno del nome salutare di Cristo. Risolsi perciò di essere catecumeno della Chiesa cattolica, raccomandatami dai genitori, fino a quando non fossi illuminato da qualche certezza in base a cui orientare i miei passi.
LIBRO SESTO
[A TRENT'ANNI]
1.1. Speranza mia venuta dalla giovinezza, dov'eri allora, dove eri nascosta? Non eri stato tu a farmi come sono, distinto dai quadrupedi, più sapiente degli uccelli del cielo? E camminavo nel buio sopra il viscido e ti cercavo fuori di me e non trovavo il Dio del mio cuore, ed ero sceso fino in fondo al mare e non avevo più fiducia e disperavo di trovare il vero. Già mi aveva raggiunto, forte di devozione, mia madre che mi seguiva per terra e per mare, in te sicura anche in mezzo ai pericoli. Lei che in ogni frangente avventuroso confortava i marinai, invece di riceverne conforto, come succede ai viaggiatori inesperti ancora dell'abisso quando li prende la paura: e prometteva loro che sarebbero approdati sani e salvi, perché tu stesso glielo avevi promesso mandandole una visione. E mi trovò nel mezzo del pericolo estremo, che disperavo fosse possibile la ricerca della verità: e tuttavia quando le accennai al fatto che non ero più manicheo, ma neppure cristiano cattolico, non esultò come di una bellissima sorpresa: già si sentiva tranquilla, per quella parte della mia condizione infelice, dato che mi piangeva come un morto in attesa di resurrezione, e mi offriva a te sul catafalco del suo pensiero, perché dicessi al figlio della vedova: Giovane, dico a te, alzati - ed egli tornasse a vivere e prendesse a parlare e tu lo rendessi a sua madre. Non si lasciò dunque sconvolgere da una gioia violenta alla notizia che già in così buona parte era accaduto ciò che ogni giorno ti implorava di far accadere: non avevo ancora conseguito la verità, ma ero ormai stato sottratto alla menzogna. Anzi poiché era certa che anche il resto lo avresti concesso, tu che tutto avevi promesso, mi rispose tranquillissima che riponeva piena fiducia nel Cristo e credeva che prima di andarsene da questa vita mi avrebbe visto cattolico credente. E questo fu ciò che disse a me: a te, fonte di accorate dolcezze, offrì tanto più fitte lacrime e preghiere, perché affrettassi il tuo aiuto e illuminassi la mia oscurità. E con maggior passione correva in chiesa e pendeva dalle labbra di Ambrogio, questa fonte d'acqua che zampilla verso la vita eterna. Amava quell'uomo come un angelo di Dio, da quando aveva saputo che era stato lui a guidarmi nel frattempo almeno fino a quella perplessità oscillante attraverso la quale - ne era certa - sarei passato dalla malattia alla salute, superando, per dirla coi medici, il rischio più grave di un accesso critico.
2.2. Una volta portò della farinata, del pane e del vino per la commemorazione funebre dei santi, come aveva l'abitudine di fare in Africa. Si trovò di fronte al divieto del custode: alla notizia che era stato il vescovo a imporlo, lo accettò con tanta devozione e obbedienza che io stesso restai meravigliato dalla prontezza con cui ripudiò la propria consuetudine piuttosto di contestare quella proibizione. Certo il suo spirito non si lasciava offuscare dal gusto del bere fino a indurla a odiare il vero per amor del vino, come accade a molti uomini e donne che a sentire un inno alla sobrietà si fanno prendere dalla nausea come gli ubriachi davanti a una bevanda annacquata. Mia madre, quando portava il paniere con le vivande rituali da assaggiare e offrire, non brindava che con un bicchierino di vino diluito a misura del suo palato davvero sobrio, tanto per cortesia; e se erano molti i defunti da commemorare a quel modo, lei si portava in giro e levava sempre quell'unico bicchiere, ormai non solo annacquatissimo ma anche affatto tiepido, e a piccoli sorsi se lo divideva con gli altri astanti: perché era pietà questa, non piacere. Così quando seppe che quel predicatore famoso, quel maestro di fede aveva ordinato di evitare quei riti anche a quelli che li avrebbero eseguiti con sobrietà, per non dare ai bevitori occasione di ubriacarsi solennemente, e per l'estrema somiglianza che quella sorta di parentali avevano con le cerimonie dei gentili, mia madre fu ben lieta di astenersene. In luogo di un canestro pieno di frutti della terra aveva imparato a portare alle commemorazioni dei martiri un cuore pieno di desideri più puri, e dava ai poveri quanto poteva, così che là venisse celebrata la comunione del corpo del Signore: perché fu a imitazione della sua passione che si immolarono e ottennero la loro corona i martiri. Eppure io credo, mio Signore e Dio - e la mia convinzione è davanti ai tuoi occhi - che forse non sarebbe stato così facile a mia madre rinunciare a questa sua consuetudine se a proibirla fosse stato un altro, uno meno caro al suo cuore di Ambrogio. E Ambrogio lo amava soprattutto per amor mio, della mia salute: e lui amava lei per il suo religiosissimo modo di vivere, che la induceva a tante buone opere e all'ardore di spirito con cui frequentava la chiesa: tanto che spesso, vedendomi, nel bel mezzo di un sermone non si peritava di congratularsi con me per avere una madre come quella: non sapendo quale figlio lei aveva in me, che dubitavo di tutto questo ed ero assai scarsamente convinto si potesse trovare la via della vita.
[La figura di Ambrogio]
3.3. Ancora non gemevo implorando il tuo aiuto, avevo la mente intenta alla ricerca e inquieta per le dispute. Lo stesso Ambrogio lo ritenevo un uomo fortunato in questo mondo, dato il prestigio di cui godeva presso le più alte istanze del potere: la sua unica tribolazione mi pareva fosse il celibato che osservava. Quale speranza si portasse dentro, che lotte dovesse sostenere contro le tentazioni stesse della sua eccellenza o che conforti avesse nelle situazioni avverse, e come la segreta bocca del suo cuore, poi, assaporasse le delizie del tuo pane, io tutto questo non solo non lo conoscevo per esperienza, ma non ero neppure in grado di supporlo. Neppure lui sapeva delle mie tempeste né del burrone sopra il quale mi trovavo in bilico. Non gli potevo chiedere quello che volevo e come volevo, date le caterve di gente affannata che con tutte le loro magagne mi bloccavano l'accesso alle sue orecchie e alla sua bocca, e al cui servizio egli viveva. E il pochissimo tempo che non passava con loro lo impiegava a ricrearsi il fisico con il minimo indispensabile, o la mente con la lettura. Leggeva scorrendo le pagine con gli occhi, il cuore intento a penetrare il senso, mentre voce e lingua riposavano. Spesso eravamo presenti (a nessuno era proibito entrare e non c'era l'uso di farsi annunciare) e lo vedevamo leggere in silenzio, mai in altro modo: e restavamo magari seduti a lungo, muti - chi avrebbe osato disturbare una persona così concentrata? - e poi ce ne andavamo, pensando che egli disponeva di quel poco tempo per dare alla mente un po' di riposo e vacanza dallo strepito degli affari altrui: certo non avrebbe gradito d'essere nuovamente distratto; e forse tentava di evitare d'esser costretto da un uditore attento e curioso a spiegare qualche passo oscuro che stava leggendo o a discutere qualche questione un po' difficile, così che questa perdita di tempo gli avrebbe impedito di scorrere tutti i volumi che desiderava.
Benché anche per conservare la voce, che facilmente gli si abbassava, poteva esser più conveniente leggere in silenzio. Insomma qualunque fosse la sua intenzione in questo comportamento, non poteva che essere buona, dato l'uomo.
[La lezione di Ambrogio: lo spirito e la lettera]
- 4. Certo è che non avevo grandi occasioni di interrogare a mio talento quel tuo santo oracolo, nel suo intimo - a meno di non fare domande assai brevi. Ma quelle mie tempeste lo volevano veramente libero e disponibile per potersi riversare su di lui, e tale non lo trovavano mai. E ogni domenica l'ascoltavo spiegare bene la parola della verità in mezzo al popolo, e sempre più mi confermavo nella convinzione che tutti i grovigli di malizia e calunnie stretti intorno ai libri divini da quei nostri ingannatori potevano esser sciolti. Infine appresi che la creazione dell'uomo a tua immagine non è intesa dai tuoi figli spirituali, che tu hai rigenerato per mezzo della grazia dalla madre cattolica, nel senso che essi credano te delimitato dalla forma del corpo umano: anche se non avevo la minima idea, neppure oscura come in un enigma, di cosa fosse una sostanza spirituale. Questo mi riempì di gioia e di vergogna per aver abbaiato tanti anni non contro la fede cattolica, ma contro le fantasticherie di un pensiero inchiodato alla carne. Certo io ero stato temerario ed empio, perché avevo fatto asserzioni e accuse là dove avrei dovuto invece fare domande e studi. Perché tu, altissimo e vicinissimo, mistero ed evidenza assoluti, che non hai membra più piccole e più grandi, ma sei ovunque tutto e non sei in nessun luogo, non certo per aver tu questa forma corporea hai fatto l'uomo a tua immagine e somiglianza: l'hai fatto, ed eccolo lì da capo a piedi nello spazio.
4.5. Siccome ignoravo il modo in cui bisognava intendere questa tua immagine, avrei dovuto, bussando, porre questo problema di quale fosse il modo giusto di credere, non sbattere la porta con disprezzo contro la credenza che immaginavo io. Tanto più mi rodeva, dunque, l'angoscioso bisogno di qualcosa che potessi ritenere certo, quanto più mi vergognavo di essermi fatto per tanto tempo illudere e ingannare da una promessa di certezze e di aver commesso l'errore puerile di spacciare per certe, con tanto entusiasmo, tutte quelle dottrine malcerte. Che fossero positivamente false mi si chiarì solo più tardi. Era però certo almeno che erano incerte e che io le avevo una volta ritenute certe, al tempo delle mie cieche requisitorie contro la tua chiesa cattolica, e per quanto ignorassi i suoi insegnamenti veri certo non insegnava ciò di cui la rimproveravano le mie gravi accuse. Mi sentivo confuso e prossimo a una svolta: e anche pieno di gioia, Dio mio, che l'unica Chiesa, il corpo del tuo unigenito, in cui da bambino mi fu inculcato il nome di Cristo, non prendeva gusto a delle sciocchezze infantili, e non era un articolo della sua sana dottrina che tu, creatore dell'universo, fossi confinato in uno spazio, alto e largo quanto si voglia, e tuttavia limitato tutt'intorno dalla figura del corpo umano.
- 6. Un altro motivo di gioia era che i libri della Legge e dei Profeti non mi venivano più proposti alla lettura in quella visuale che me li aveva fatti parere assurdi, quando li attaccavo per le concezioni che falsamente attribuivo ai tuoi santi: in realtà non era affatto quello il loro modo di pensare. Ero ben contento di sentire Ambrogio raccomandare così spesso e colla massima sollecitudine nel corso dei suoi pubblici sermoni, come una regola, la massima che la lettera uccide, lo spirito invece vivifica. E quando, rimuovendo il loro velo mistico, dava un'interpretazione spirituale a certi passi che presi alla lettera sembravano insegnamenti perversi, faceva asserzioni che riuscivano a non ferirmi, benché ancora ignorassi se erano vere. Trattenevo il mio cuore da ogni assenso per paura del precipizio, eppure restando così sospeso mi sentivo morire anche di più. Già: volevo aver sulle cose invisibili una certezza pari a quella che due più due fa quattro. Non ero infatti così pazzo da credere che neppure questo si potesse afferrare, ma volevo afferrare allo stesso modo tutte le altre verità: sia quelle concernenti cose tangibili ma non attualmente sotto i miei occhi, sia quelle relative alle cose dello spirito, di cui non ero capace di farmi un'idea se non in termini materiali. E avrei potuto esser guarito dalla fede, così che lo sguardo dell'intelligenza potesse dirigersi più puro verso la tua verità che dura eterna senza venir meno: ma, come spesso succede a chi ha avuto esperienza di un cattivo medico, che ha paura di affidarsi anche a uno buono, così quel mio male dell'anima era tale che da una parte non poteva esser guarito che dal credere, dall'altra per paura di prestar fede al falso ricusava di farsi curare e resisteva alle tue mani. A te che pure hai preparato i rimedi della fede e li hai sparsi sulle malattie del mondo, dotandoli di tanto potere.
[Meditazioni sulla natura del credere]
5.7. Da quel momento però cominciai a rendermi conto che una preferenza per l'insegnamento cattolico mi avrebbe imposto di credere a cose non dimostrate (sia che una dimostrazione ci fosse ma non apparisse convincente, sia che non ci fosse del tutto) in misura minore e con rischio d'errore trascurabile in confronto all'insegnamento manicheo. Il quale prima si prendeva gioco della credulità con temerarie promesse di conoscenza, e poi imponeva di credere a tante fantasie favolose ed assurde, dato che non poteva dimostrarle. A poco a poco, mio Signore, mentre con mano dolcissima e pietosa lavoravi e riordinavi questo cuore, mi inducevi a considerare che erano innumerevoli i fatti a cui credevo senza vederli e senza esser presente mentre accadevano: tanti avvenimenti della storia umana, tante notizie di luoghi e paesi mai visti, tante cose sentite dire dagli amici, dai medici, da questa o quella persona, che bisogna credere se non si vuole rinunciare del tutto ad agire in questa vita. Infine pensavo alla fede incrollabile che avevo nell'identità dei miei genitori, che pure non conoscevo se non per aver creduto a ciò che m'avevano detto. Mi persuadesti che colpevoli e inattendibili non erano quelli che prestavano fede ai tuoi libri, la cui autorità hai stabilito in quasi tutto il mondo, ma quelli che non credendovi venivano a dirmi: "Come fai a sapere che quei libri sono stati trasmessi al genere umano dallo spirito dell'unico Dio vero e assolutamente veritiero?" Proprio questo bisognava soprattutto credere, e nessuna battaglia di calunnie e dispute menate attraverso i tanti libri che avevo letto dai filosofi in conflitto fra loro poté impedirmi anche solo per un attimo di credere alla tua esistenza, qualunque cosa tu fossi, o che a te appartenesse il governo delle cose umane.
- 8. Ma era una fede, questa, robusta a volte, a volte assai più esile. E tuttavia in un modo o nell'altro ci credevo, che tu esistessi e ti prendessi cura di noi, anche se ignoravo tanto il concetto che bisognava farsi della tua sostanza quanto la via che conduceva o riconduceva a te. E appunto in considerazione di questo nostro tentennare senza la forza di scoprire la verità con la chiara ragione, e del conseguente bisogno che abbiamo dell'autorità dei sacri testi, io avevo cominciato a credere che mai tu avresti conferito un'autorità così grande su tutta la terra a quelle scritture, se non avessi voluto che proprio per loro mezzo si credesse a te e attraverso di loro ti si cercasse. E ormai l'assurdità da cui una volta mi sentivo ferito, dopo aver ascoltato tante plausibili interpretazioni di quei testi, me la spiegavo con la profondità dei sacri simboli. Tanto più degna di venerazione e di sacrosanta fiducia mi pareva la loro autorità: era una lettura alla portata di tutti, che allo stesso tempo custodiva per un'intelligenza più profonda tutta la dignità del suo mistero: si offriva a tutti con parole chiarissime e nei registri più bassi dello stile e metteva alla prova l'attenzione di quelli che non sono leggeri di cuore, accoglieva tutti nel suo democratico abbraccio e solo a pochi concedeva accesso fino a te per angusti spiragli. E ancora meno sarebbero stati se la scrittura non avesse raggiunto un così alto prestigio d'autorità da attrarre le folle nel suo grembo, umile e sacro. Andavo così riflettendo e tu m'eri vicino, sospiravo e mi prestavi ascolto, beccheggiavo e tu mi timonavi, andavo per le larghe vie del mondo e non m'abbandonavi.
[L'allegro bevitore]
6.9. Aspiravo al successo, ai soldi, al matrimonio, e tu te ne ridevi. Per queste mie passioni soffrivo tutto l'amaro delle contrarietà, ed era tuo favore questo, tanto più grande quanto era minore la dolcezza che mi lasciavi assaporare in cose diverse da te. Guarda il mio cuore, Signore, se al tuo volere devo queste memorie e queste confessioni. Si stringa a te quest'anima, che hai liberato dal tenacissimo vischio della morte. Com'era infelice! E il tuo pungolo acuiva il senso della sua ferita, perché lasciasse tutto e si rivolgesse a te che sei sopra ogni cosa e senza cui tutto sarebbe nulla, si rivolgesse a te e fosse guarita. Quanto ero infelice e cosa hai fatto tu per farmela sentire tutta, la mia infelicità. Come quel giorno in cui mi preparavo a un discorso in lode dell'imperatore: avrei detto un mucchio di bugie e sarei stato applaudito da gente che lo sapeva. Col cuore affannato e febbricitante di pensieri nefasti passavo per un certo vicolo di Milano, quando notai un pezzente che credo fosse già gonfio di vino, tanto era allegro e in vena di scherzare. Trassi un profondo sospiro e agli amici che mi accompagnavano presi a dire dei molti dispiaceri che la nostra follia ci procurava: perché tutti i nostri sforzi - quelli che ora mi angustiavano ad esempio, mentre sotto la sferza delle mie ambizioni trascinavo il carico della mia infelicità, e trascinandolo lo ingrossavo - non miravano ad altro che ad arrivare a quella spensierata contentezza dove quel pezzente ci aveva già preceduto, mentre forse noi non ci saremmo arrivati mai. Quello che lui s'era già guadagnato con pochi spiccioli avuti in elemosina, io lo inseguivo per vie scoscese e torte, a gran fatica: era questa, la soddisfazione di una felicità terrena. Non era vera gioia la sua: ma io con quelle mie ambizioni ne cercavo una assai più falsa. E lui comunque era contento, io pieno d'ansia; lui era spensierato, io tesissimo. E se qualcuno mi avesse domandato se preferivo l'euforia o la paura, avrei risposto: "L'euforia"; se poi mi avessero chiesto come avrei preferito essere, come lui o come me allora, avrei scelto me stesso, con tutte le mie ansie e le paure. Scelta perversa, che non faceva onore al vero. Non dovevo preferirmi a lui perché avevo maggiore cultura, dato che non ne traevo motivo di gioia, ma solo un mezzo per cercar di piacere alla gente: e per di più non per indurla a imparare, ma soltanto per piacere. Perciò anche tu col bastone della tua disciplina mi spaccavi le ossa.
- 10. Via, lontano dall'anima chi dice: "Ciò che conta è il motivo della gioia. Quel pezzente la trovava nella sua sbornia, tu la cercavi nella gloria". Quale gloria, Signore? Quella che non è in te. E come quella non era vera gioia, così anche questa non era vera gloria e fuorviava ancor più la mia mente. E quel poveraccio la notte stessa avrebbe smaltito la sua sbronza, io dovevo dormire e levarmi con la mia, e poi ancora dormire e levarmi, vedi quanti giorni! Certo che conta il motivo della gioia, lo so, e la gioia che l'uomo di fede trova nella speranza è incomparabilmente al di sopra di quella vana esaltazione. Ma anche fra noi allora c'era una differenza: che lui era senza dubbio più felice. Non solo perché affogava nella sua allegria, mentre io mi facevo ulcerare dall'ansia, ma anche perché lui s'era guadagnato il suo vino in cambio di buoni auguri, io inseguivo la mia boria a furia di menzogne. Parlai a lungo su questo tono con gli amici, quel giorno, e spesso in seguito era in questi termini che percepivo la mia condizione: e stavo male, lo sentivo, e me ne affliggevo e così raddoppiavo il mio male, e se la fortuna mi sorrideva per un attimo, quasi mi dispiaceva coglierlo: perché io non facevo in tempo a stringerlo che era già volato via.
[Alipio: storia di un'amicizia]
7.11. Condividevo angoscia e lamenti con le persone con cui vivevo in amicizia, e soprattutto coi miei veramente intimi Alipio e Nebridio. Alipio, nato nella mia stessa cittadina - dove i suoi genitori erano fra i notabili - era più giovane di me. E infatti era venuto alla mia scuola quando avevo cominciato a insegnare a Tagaste, e poi a Cartagine, e mi amava molto, perché mi credeva uomo nobile e colto, e io amavo lui per la sua grandezza d'animo, che saltava agli occhi nonostante la giovane età. Ma la vorticosa vita di Cartagine, scintillante di spettacoli frivoli, lo aveva risucchiato in una folle passione per i giochi del circo. Ma al tempo in cui ne era infelicemente travolto, e io tenevo una pubblica scuola di retorica, ancora non frequentava le mie lezioni, a causa di una contesa che era sorta fra me e suo padre. Ero venuto a conoscenza della sua rovinosa passione per il circo, e ne ero molto angustiato, perché mi pareva che avrebbe compromesso, se non l'aveva già fatto, tutta la speranza che si riponeva in lui. Ma di avvertirlo o richiamarlo con qualche forma di disciplina non avevo modo: né per via d'amicizia e d'affetto, né in veste di maestro. Supponevo infatti che su di me la pensasse come suo padre, il che non era vero. Tanto che su questo punto mise da parte la volontà di suo padre e prese a salutarmi: veniva nella mia classe, ascoltava per un po' e se ne andava.
- 12. Intanto però a me era uscito di mente il proposito di comportarmi con lui in modo da impedirgli di dissipare il suo bel talento in una passione così cieca e impetuosa per degli spettacoli fatui. Ma tu, Signore, tu che governi il timone di ogni tua creatura, non dimenticavi che sarebbe stato fra i tuoi figli ministro del tuo sacro simbolo, e perché la sua correzione ti venisse attribuita senz'ombra di dubbio, la operasti attraverso di me, ma a mia insaputa. Un giorno me ne stavo nel solito posto con gli allievi davanti: lui arriva, saluta, si siede e si mette a seguire con attenzione l'argomento che trattavo. Avevo per mano un certo testo, e mentre lo spiegavo mi parve opportuno usare una similitudine tratta dai giochi del circo, per rendere più piacevole e più chiaro quello che era mia intenzione suggerire: con una pungente derisione di quelli che erano incappati nella rete di quella follia. E tu lo sai, Dio nostro, che in quel momento non pensavo affatto a guarire Alipio da quella sua malattia mortale. Ma lui riferì subito la cosa a se stesso e credette che io non l'avessi detta che per lui: e dove un altro se la sarebbe presa con me, quel leale ragazzo incassò per prendersela con se stesso e amarmi anche di più. Tu l'avevi già detto un tempo, e accolto nelle tue scritture: Rimprovera il sapiente, e ti amerà. Ma non ero stato io a rimproverarlo: tu, che ti servi di chiunque, consapevole o ignaro, in vista dell'ordine noto a te solo - e quell'ordine è giusto - hai fatto del mio cuore e della lingua carboni ardenti, con cui cauterizzare il marcio di quella intelligenza piena di speranze, e guarirla. Non canti le tue lodi chi trascura i tuoi gesti di pietà, che ti celebrano dal fondo delle mie ossa. È un fatto che Alipio, dopo quel discorso, si lanciò fuori dalla fossa così profonda in cui stava lietamente affondando, vinto da una strana voluttà d'accecamento; si scosse l'anima col vigore della rinuncia e ne schizzarono via tutte le sozzure del circo, dove non mise più piede. Poi vinse la riluttanza del padre ad avermi come suo maestro: quello cedette e concedette. E riprendendo a frequentarmi, fu con me irretito in quella superstizione, apprezzando nei manichei la continenza che ostentavano, e che lui credeva vera e genuina. E invece era vile seduzione, fatta per catturare le anime preziose non ancora capaci di saggiare la profondità del valore, e facilmente ingannate dalla sua superficie, dall'ombra e dalla contraffazione del valore.
[Una passione oscura]
8.13. Senza per questo abbandonare, è vero, la via del mondo, di cui i genitori gli avevano magnificato l'incanto, mi aveva preceduto a Roma per studiare diritto, e là in circostanze incredibili fu ripreso da un' incredibile passione per gli spettacoli gladiatori. Lui rifiutava di andarci e li aveva in odio, quando un giorno incontrò dei suoi amici e condiscepoli, forse di ritorno da un pranzo, e quelli, nonostante le sue vigorose proteste e i tentativi di resistere a quella cameratesca violenza, lo trascinarono in teatro: erano giorni di giochi crudeli, mortali. Diceva: "Sì, trascinate pure il mio corpo e mettetelo lì: potete forse rivolger la mia mente e gli occhi a quegli spettacoli? Ci sarò senza esserci, l'avrò vinta su di voi e di quelli". Non per questo rinunciarono a tirarselo dietro, forse desiderosi di metterlo alla prova. Una volta arrivati si sistemarono nei posti che riuscirono a trovare: ovunque imperversava già il piacere della ferocia. Serrò le porte degli occhi e proibì all'anima di uscire in mezzo a tanto male. Magari si fosse turato anche le orecchie! A un certo punto del combattimento, l'immane boato della folla ruppe le sue difese: vinto dalla curiosità e come fosse stato pronto, qualunque cosa fosse accaduta, a disdegnare quello spettacolo e ad averne ragione, aprì gli occhi. E soffrì nell'anima una ferita più grave di quella inferta al corpo del gladiatore che aveva voluto vedere; e cadde, più infelice di lui che con la sua caduta aveva scatenato quell'urlo. Il quale gli era penetrato per le orecchie e gli spalancò gli occhi, per aprire un varco al colpo che avrebbe ferito e abbattuto quell'animo ancora più temerario che forte, e tanto più debole quanto più s'era fidato di sé, quando la fiducia doveva riporla in te. Veduto che ebbe quel sangue, già ne aveva bevuta la ferocia e non se ne distolse: tenne lo sguardo fisso e assorbiva il furore e non sapeva, e prendeva gusto a quel combattimento atroce e s'ubriacava di un piacere crudele. E già non era più quello che era stato entrando, ma uno della folla alla quale s'era unito, vero complice di quelli che l'avevano prima trascinato. Che altro dire? Guardò, gridò, prese fuoco e si portò via con sé quella pazzia che lo avrebbe pungolato a tornarci con quelli che prima lo avevano trascinato, anzi di più, davanti a loro, trascinandone altri a sua volta. E tuttavia lo hai strappato di là con tutta la forza e la tenerezza della tua mano, e gli hai insegnato a non avere fiducia in sé, ma in te: questo però molto più tardi.
9.14. Comunque questo fatto gli si impresse nella memoria come una medicina per il futuro. Lo stesso si può dire della disavventura in cui incappò quando ancora era mio allievo a Cartagine. Passeggiava nel foro verso mezzogiorno, imparando a memoria un discorso da recitare, come fanno di solito gli studenti per esercizio, quando fu arrestato come un ladro dai guardiani del foro. Io credo che tu l'abbia permesso, Dio nostro, al solo scopo che quell'uomo destinato a diventare così importante cominciasse a capire quanta cautela deve usare chi istruisce un processo prima di condannare un uomo sulla base di accuse incerte e di una convinzione arbitraria. Alipio passeggiava da solo davanti al tribunale con stilo e tavolette, quand'ecco un altro studente, un ragazzo, il vero ladro, senza farsi scorgere da lui si avvicina con una scure che teneva nascosta ai cancelli di piombo che dominano dalla parte superiore il vicolo dei banchieri, e comincia a tagliare il piombo. Al suono della scure un mormorio corre per i banchi sottostanti dei cambiavaluta, e quelli mandano gente ad arrestare chiunque si fosse trovato sul posto. Il ladro sente la loro voce e scappa abbandonando il suo strumento, per paura di farselo trovare in mano. Alipio, che non lo aveva visto entrare, lo scorge all'uscita e lo vede allontanarsi di corsa, e incuriosito entra per scoprirne la causa e trova la scure. Stava lì a osservarla meravigliato quando piombano dentro quelli mandati alla ricerca del ladro e lo trovano solo con in mano il ferro che col suo fragore li aveva spaventati e fatti accorrere: lo afferrano, lo trascinano via, e di fronte alla gente del foro che faceva capannello si vantano di aver preso il ladro in flagrante, e si avviano a consegnarlo nelle mani della giustizia.
- 15. Ma la lezione doveva finire qui. Perché subito intervenisti, Signore, a sostegno della sua innocenza, di cui eri il solo testimone. Mentre veniva condotto alla prigione o alla gogna, si fa incontro a loro un tale, un architetto che era il sovraintendente massimo agli edifici pubblici. Quelli si rallegrano moltissimo di aver incontrato proprio lui, che li sospettava di aver parte in certi furti avvenuti nel foro: così finalmente avrebbe constatato coi suoi occhi chi era, il ladro. Ma l'uomo aveva visto spesso Alipio in casa di un certo senatore, al quale usava portare i suoi omaggi, e appena lo ebbe riconosciuto lo prese per mano e portandolo in disparte gli chiese la ragione di un fatto così grave. Apprese l'accaduto e ordinò alla folla in subbuglio, che premeva minacciosa, di seguirlo. E li guidò alla casa di quel giovane, il vero colpevole. C'era un ragazzo davanti alla porta, quasi un bambino: tanto che non sospettò di nuocere al padrone se diceva tutto, e che lo aveva accompagnato al foro. E poi anche Alipio l'aveva riconosciuto, e ne avvertì l'architetto. Quello mostrò la scure al ragazzo e gli chiese di chi fosse. "Nostra" rispose immediatamente: e poi interrogato svelò il resto. Così l'accusa fu trasferita sopra quella casa e la folla, che già credeva di trionfare di Alipio, ne restò confusa: e il futuro dispensatore della tua parola, che tante cause avrebbe esaminato nella tua Chiesa, se ne andò, e quell'esperienza gli servì da lezione.
[Un funzionario incorruttibile]
10.16. Lo ritrovai a Roma, e si strinse a me di un legame fortissimo e partì con me alla volta di Milano, un po' per non abbandonarmi e un po' per mettere a frutto i suoi studi di diritto, secondo un desiderio che era più dei suoi che suo. E già tre volte era stato assessore in tribunale facendo meravigliare gli altri con la sua integrità, meno di quanto si meravigliava lui di vederli anteporre l'oro all'innocenza. Il suo temperamento fu messo alla prova non soltanto con le seduzioni dell'avidità, ma anche col pungolo della paura. A Roma era assessore presso il conte amministratore delle finanze italiche. C'era a quel tempo un senatore potentissimo, che aveva obbligato molte persone a forza di favori e molte altre se le era assoggettate col sistema del terrore. Voleva concedersi non so che azione illecita per le leggi, secondo l'abitudine dei potenti come lui: Alipio resistette. Gli fu promesso un premio: rise di cuore. Gli furono fatte delle minacce: le calpestò fra lo stupore di tutti: con inusitato coraggio rifiutava l'amicizia e non temeva l'avversione di un uomo tanto importante, famosissimo per gli innumerevoli mezzi di cui disponeva per arrecare vantaggi o rovina. Il giudice stesso di cui Alipio era consigliere, quantunque fosse anch'egli contrario a concedere quel favore, non osava ricusarlo apertamente, e ne scaricava la responsabilità su Alipio, affermando che era lui a non permetterglielo, perché - e questo era vero - se l'avesse fatto, se ne sarebbe andato. La sola passione da cui si lasciò quasi sedurre era quella per la letteratura: avrebbe potuto farsi copiare alcuni codici a spese della prefettura: ma rifletté sulla giustizia di quell'azione e decise per il meglio. Più del potere che lo permetteva gli parve utile l'equità che lo proibiva. È una piccola cosa: ma chi è fedele nel piccolo è fedele anche nel grande, e non saranno mai vane le parole che uscirono dalla bocca della tua verità: Se non siete stati affidabili con le false ricchezze, chi vi darà quelle vere? E se non siete stati affidabili con la proprietà altrui, chi vi affiderà la vostra? Tale l'uomo che allora m'era vicino, e con me ondeggiava nell'incertezza sul modo in cui bisognava decidersi a vivere.
[Nebridio. Gli amici riuniti a Milano]
- 17. Anche Nebridio aveva lasciato il suo paese vicino a Cartagine e la stessa Cartagine, che frequentava moltissimo, e la splendida tenuta paterna e casa sua e sua madre che non lo avrebbe seguito: ed era venuto a Milano senz'altro scopo che quello di vivere con me nella passione di cercare il vero e la sapienza. E anche lui sospirava e ondeggiava come me, da quel furioso indagatore della vita felice che era, e acutissimo analista delle più ardue questioni. Ed erano le bocche di tre poveri, che pendevano l'una dall'altra per una boccata di povertà e sospiravano che tu dessi loro il cibo a tempo opportuno. E nelle amarezze che la tua bontà faceva sempre seguire alle nostre azioni mondane, ci sforzavamo di vedere un fine per soffrirle e non c'era che il buio, e allora ci rivolgevamo indietro piangendo a chiederci "fino a quando?". E ce lo ripetevamo spesso e non la troncavamo quella vita, perché non s'accendeva il lume d'una sola certezza cui aggrapparci dopo averla troncata.
[Angoscia]
11.18. E uno stupore grande mi prendeva e un'angoscia, quando pensavo al tempo che era passato dai miei diciott'anni, dal giorno in cui m'aveva preso la passione per la ricerca della sapienza e avevo deciso, appena l'avessi trovata, di farla finita con le speranze vacue e le follie bugiarde dell'ambizione. Quanto tempo! E ormai avevo trent'anni e ancora mi dimenavo nello stesso fango con l'ansia di godere le gioie presenti che fuggivano e mi dissipavano...E io mi dico "domani, domani troverò, tutto mi sarà chiaro, l'avrò in pugno... domani verrà Fausto e spiegherà ogni cosa... O grandi uomini dell'Accademia! Non c'è alcuna certezza cui ci si possa attenere a guida della vita... Ma no, cerchiamo con più impegno e senza disperare... Guarda, non sono assurdi questi passi dei libri della chiesa, che parevano assurdi, c'è un'altra interpretazione possibile e degna. Ma dove cercarla? Quando? Ambrogio non ha tempo, di leggere non c'è il tempo... E i libri stessi, dove cercarli? Dove procurarseli, quando? Da chi farseli prestare? Bisogna trovarlo, il tempo, bisogna dedicarla qualche ora alla salute dell'anima! È nata una speranza enorme: e non insegna, la fede cattolica, quello di cui stupidamente noi l'accusavamo. Per i suoi dotti è sacrilego credere Dio limitato dalla figura del corpo umano. E tu esiti a bussare perché le altre verità ti siano aperte? Gli studenti ti prendono le ore del mattino: delle altre che fai? Perché non occuparti di questo? E quando andremo a rendere omaggio agli amici importanti, il cui appoggio ci serve? Quando prepareremo la merce da vendere a scuola? Quando potremo riposarci e concedere alla mente qualche attimo di distensione fra le ansie e le fatiche?
- 19. E vada tutto alla malora, basta con questi giorni vuoti e insulsi. Votarsi solo alla ricerca della verità... La vita è triste, la morte incerta; venisse all'improvviso, come te ne andresti di qui? E dove imparerai ciò che hai trascurato qui? O non dovrai piuttosto scontarla, questa negligenza? E se la stessa morte coi sensi tagliasse via ogni angoscia, e le mettesse fine? Anche su questo bisogna indagare... Ah no, non deve, non voglio credere che sia così. Non è senza significato, non è invano che la fede cristiana ha raggiunto un prestigio così alto da diffondersi su tutta la terra. Mai tali e tante opere divine si sarebbero compiute per noi se con la morte del corpo si consumasse anche la vita dell'anima. E cosa aspetti allora a lasciare le speranze del mondo per dedicarti completamente alla ricerca di Dio e della felicità? No, un momento: è pur lieto questo mondo, ce l'ha una sua dolcezza, sì, non piccola... no, sta attento, non essere impulsivo nello stroncare così lo slancio di tutta la tua vita, ché sarebbe avvilente poi tornare indietro... Ormai hai tutto ciò che occorre per una buona carriera. E cosa si può desiderare di più? Hai molti amici importanti. Anche senza darti troppo da fare per avere di meglio, una presidenza puoi ottenerla senz'altro. E sposare una donna con un po' di soldi, che non ti pesi troppo a mantenerla, e il desiderio vedrai troverà una misura. Molti grandi uomini più che degni d'essere imitati si sono dedicati alla filosofia con la loro donna accanto".
- 20. E mi dicevo tutto questo e il mio cuore oscillava ai venti alterni, e intanto il tempo passava, e io tardavo a convertirmi al Signore e differivo di giorno in giorno la vita in te e non differivo la morte quotidiana in me stesso: l'amavo, sì, la felicità, ma mi faceva paura, là dov'era, e la cercavo fuggendola. Mi pareva che sarei stato troppo infelice senza l'amore di una donna, e non pensavo che a guarire questa debolezza c'era la medicina della tua indulgenza, perché non l'avevo provata, e credevo che la continenza la si dovesse alle proprie forze, forze che a me non risultava di avere: perché ero tanto stupido da ignorare che, come sta scritto, nessuno può essere continente se tu non lo concedi. E certamente l'avresti concessa, se avessi bussato alle tue orecchie col mio pianto segreto, e con fede robusta lanciato contro di te la mia angoscia.
[L'amicizia e le donne]
12.21. Alipio, in verità, faceva di tutto per impedirmi di prendere moglie. Sempre lo stesso ritornello: non avremmo assolutamente avuto l'agio necessario per vivere insieme nel culto della sapienza come già da tempo desideravamo fare, se io mi fossi sposato. A questo riguardo in effetti lui era castissimo, e in maniera stupefacente se si pensa che nella sua prima giovinezza aveva conosciuto l'amore di una donna. Ma non era rimasto attaccato a tutto questo, anzi caso mai ne aveva provato dolore e disgusto, e da allora in poi era vissuto in perfetta continenza. Io gli resistevo opponendogli l'esempio di quelli che anche da sposati avevano coltivato la sapienza e acquistato meriti presso Dio e conservato fedeltà e affetto verso gli amici. Anche se io ero ben lontano dalla loro grandezza d'animo, ero solo prigioniero della carne e del suo male e questa mia catena era per me una mortale dolcezza: e avevo paura di esserne sciolto e respingevo i buoni consigli come la mano capace di scioglierla, simile a uno che non vuole farsi toccare una ferita. E oltretutto chi per bocca mia parlava ad Alipio era il serpente che nelle mie parole gli insinuava lungo la strada altrettante dolci insidie di lacci in cui si sarebbero impigliati i suoi piedi leali e liberi.
- 22. Era stupito che io, per cui egli nutriva non poca stima, fossi invischiato in quel genere di piaceri al punto da affermare, ogni volta che se ne discuteva tra noi, che non avrei potuto assolutamente menare una vita da scapolo: e vedendolo stupefatto mi difendevo sostenendo che c'era una bella differenza fra l'amore che aveva conosciuto lui, tanto breve e furtivo che quasi ormai non se ne ricordava più - e allora non era un gran merito disprezzarlo, da parte sua - e i miei piaceri abituali: e se per di più a questi si fosse aggiunto l'onorato nome di matrimonio non avrebbe più avuto ragione di stupirsi, se quella vita io non riuscivo a disprezzarla. E così aveva preso anche lui a desiderare il matrimonio, e non certo perché fosse sopraffatto dalla voglia di questo piacere, ma per curiosità. Voleva sapere, diceva, che cosa fosse mai quella cosa senza cui la mia vita, che a lui piaceva tanto, per me non era vita, ma castigo. La sua mente libera da quel legame restava stupefatta della mia schiavitù, e nello stupore si avventurava anche lui a precipizio in quella stessa esperienza, per un'avidità di sapere: destinato forse a cadere di lì in quella schiavitù che lo lasciava stupefatto, perché voleva stringere un patto con la morte e chi ama il pericolo ne resta vittima. Se il matrimonio acquista una sua dignità nell'impegno di governare la vita coniugale e di allevare i figli, nessuno dei due ne era attratto se non in misura minima. Io che ero già prigioniero ero soprattutto e furiosamente tormentato dalla consuetudine di saziare una sensualità insaziabile, lui che stava per diventarlo era trascinato dalla meraviglia. Così eravamo, finché tu, Altissimo, che non abbandoni la terra di cui siamo fatti non prendesti pietà della nostra miseria, venendoci in aiuto per vie mirabili e segrete.
[Matrimonio o vita in comune?]
13.23. E intanto mi assillavano perché prendessi moglie. Già avevo fatto la mia domanda, e già la ragazza mi era stata promessa, soprattutto per il gran da fare che si dava mia madre in questo senso: con lo scopo di vedermi lavato con l'acqua salutare del battesimo, una volta sposato. Vedeva che me ne rendevo di giorno in giorno più degno e ne era felice, e sentiva che le sue preghiere e le tue promesse si compivano nella mia fede. Per mia richiesta e per suo desiderio ogni giorno ti rivolgeva una supplica, levando a te l'applauso alto del cuore, perché le rivelassi qualche cosa a proposito del mio futuro matrimonio: ma questo tu non volevi concederlo. Aveva delle visioni evanescenti e bizzarre, prodotte dall'impulso di uno spirito umano fortemente occupato da questo argomento: e me le raccontava, ma non con la fiducia che le era abituale quando eri tu a inviargliele, ma con una sorta di disprezzo. La capiva da qualcosa come un sapore, diceva, che non era in grado di descrivere a parole, la differenza fra le tue rivelazioni e i sogni dell'anima sua. Non per questo la smettevano di assillarmi. E la ragazza fu domandata, e siccome le mancavano ancora due anni interi all'età nubile, e questo stato di cose non dispiaceva a nessuno, si aspettava.
14.24. Eravamo in molti amici a odiare le tempeste e le noie della vita umana, tanto che a forza di rimuginarla e di parlarne fra noi quasi avevamo preso la decisione di ritirarci a una vita di contemplazione, lontani dalle folle: una vita che avevamo pensato di organizzare in modo che ciascuno contribuisse per quanto poteva alla sostanza comune, così da mettere insieme fra tutti un patrimonio. L'autenticità dell'amicizia comportava che non si distinguesse fra il tuo e il mio, ma che fosse una sola la ricchezza di tutti e tutto fosse di ciascuno e ogni cosa di tutti. Ci pareva di poter costituire una comunità di una decina di persone e fra noi ce n'erano di veramente molto ricche: soprattutto il nostro concittadino Romaniano, che in quel momento arrivava a corte sulla gran piena dei suoi affari, e che conoscevo tanto bene fin dalla mia infanzia. Era lui soprattutto a insistere per questo progetto e il suo parere aveva grande influenza, perché il suo vasto patrimonio era di molto superiore a quelli degli altri. E avevamo anche pensato che due di noi ogni anno avrebbero a mo' di magistrati provveduto alla necessaria gestione di ogni cosa, perché gli altri potessero starsene in pace. Ma quando ci si cominciò a chiedere se le donnette che volevamo avere, e che alcuni di noi già avevano, ci avrebbero mai permesso tutto questo, il nostro bel progetto così ben architettato ci crollò fra le mani e andò a pezzi e fu gettato via. E tornammo ai sospiri e ai pianti e alle larghe battute vie del mondo, in fila, al passo: perché molti pensieri ci affollavano il cuore, ma il tuo disegno permane in eterno. Un disegno dall'alto del quale tu ridevi dei nostri progetti e preparavi i tuoi, pronto a darci il cibo al momento opportuno e ad aprire la mano e a riempirci l'anima della tua benedizione.
[Un'altra donna]
15.25. Intanto i miei peccati si moltiplicavano. E quando mi fu strappata dal fianco la donna con la quale ero solito andare a letto, dovettero tagliarmi via il pezzo di cuore che le era attaccato: e la ferita sanguinò molto. Se ne tornò in Africa, facendo voto a te di non conoscere mai altro uomo, e lasciando con me il figlio naturale che da lei avevo avuto. Ma io sventurato, incapace perfino di imitare una femmina, non ebbi la pazienza di aspettare ancora due anni per prendermi in casa quella che avevo domandato in moglie: e siccome non ero tanto desideroso di nozze quanto servo delle voglie, me ne procurai un'altra: e non certo come sposa, ma per alimentare e prolungare, sotto la scorta di una ininterrotta consuetudine, fino al regno di una moglie legittima, quella malattia della mia anima. Ma non guariva la ferita di quell'amputazione: solo, dopo il furore e il dolore acutissimo, andava in cancrena e faceva un male come più freddo: ma più disperato.
16.26. Lode a te, gloria a te, fonte di misericordie! Io mi facevo più infelice, e tu più vicino. Era già quasi su di me la tua destra pronta a rapirmi e ripulirmi dal fango, e io non lo sapevo. A trattenermi dallo sprofondare ancora nel vortice dei piaceri sensuali non era se non la paura della morte e del tuo futuro giudizio, che per quanto mutassero le mie opinioni non aveva mai lasciato il mio cuore. E discutevo coi miei amici Alipio e Nebridio Sul massimo dei beni e dei mali. In cuor mio avrei dato la preferenza a Epicuro, se non avessi creduto alla vita che resta all'anima dopo la morte, e alla retribuzione delle sue azioni, cosa che Epicuro si rifiutò di credere. E mi domandavo: se fossimo immortali e vivessimo in un perpetuo stato di piacere fisico senza il minimo terrore di perderlo, perché mai non dovremmo essere felici o che altro dovremmo cercare? E non sapevo che era di per sé un segno di grande infelicità quel mio essere tanto affogato e cieco da non poter concepire la luce di quella nobiltà e bellezza per se stesse amabili, che l'occhio della carne non vede, ma è visibile dall'intimo di sé. Infelice! Neppure mi chiedevo da che sorgente venisse la dolcezza che trovavo nel conversare con gli amici sia pure di queste laide cose, o l'impossibilità che avevo di essere felice senza amici, felice anche secondo il senso che attribuivo alla parola, cioè immerso nell'abbondanza di ogni sorta di piaceri sensuali. Certo, li amavo disinteressatamente gli amici, e a mia volta sentivo il loro disinteressato amore per me. Vie tortuose! Guai all'anima avventurosa che s'allontanò da te nella speranza di trovare di meglio. Voltati e rivoltati, sui fianchi e sulla schiena e sulla pancia: è sempre duro, e il riposo sei tu solo. Ecco, sei qui e ci liberi dagli errori della nostra miseria e ci metti sulla tua strada e ci consoli e dici: "Correte, io vi sosterrò, vi guiderò al traguardo e lì vi sosterrò ancora."
LIBRO SETTIMO
[L'INCONTRO COL NEOPLATONISMO]
1.1. Era già morta la mia giovinezza trista e dannata, e mi avviavo alla maturità: e più gli anni crescevano e più la mia vanità si faceva impudente. Tanto che non riuscivo a concepire una sostanza che non fosse visibile dagli occhi. Non ti pensavo, Dio, sotto l'aspetto di un corpo umano, da quando avevo cominciato a intender qualche cosa della sapienza: questa tentazione l'avevo d'altra parte sempre respinta, e ora mi riempiva di gioia ritrovare questo atteggiamento nella fede della nostra madre di spirito, la tua chiesa cattolica; ma non sapevo che altro concetto dovessi formarmi di te. E mi sforzavo di concepirti: io, uomo - e che uomo - concepire te, il sommo e unico e vero Dio! E con tutte le mie viscere ti credevo incorruttibile e inviolabile e immutabile, perché pur ignorando come e perché potessi esserlo, era per me evidente e certo che le cose corruttibili sono peggiori di quelle incorruttibili, e non esitavo a preferire le cose inviolabili a quelle che si possono violare, e a ritenere quelle che non subiscono mutamenti migliori di quelle che possono mutare. Il mio cuore protestava a gran voce contro tutti i miei fantasmi, ed era solo su questa base che mi sforzavo di sgombrare in un solo colpo l'orizzonte mentale dalla loro folla impura e svolazzante: e appena scacciata in un batter d'occhio si ricomponeva fittissima per avventarsi contro i miei occhi e offuscarli. E mi costringeva a pensarti, se non nella forma di un corpo umano, pur sempre come un che di corporeo, che fosse interno al mondo, permeandone lo spazio, oppure esterno a questo, illimitatamente diffuso. Qualcosa appunto di incorruttibile e inviolabile e immutabile, che anteponevo a ogni cosa passibile di corruzione e violenza e mutamento. Perché senza queste dimensioni spaziali qualunque ente mi pareva un niente: niente del tutto, non un semplice spazio vuoto, come quando si rimuove un corpo dal luogo che occupava e resta il luogo che è sì svuotato di ogni corpo, di terra o d'acqua, aereo o etereo che sia, ma che è pur sempre un luogo vuoto, un nulla esteso.
[Vani sforzi di pensare Dio]
- 2. Tardo di mente, oscuro anche a me stesso, io ritenevo che un ente che non avesse né estensione né diffusione né concentrazione né espansione spaziale, e neppure assumesse o potesse assumere una qualità simile, fosse un assoluto non ente. Le forme che l'occhio incontrava lungo la sua via erano le immagini per cui vagava il cuore: e non vedevo che l'atto mentale con cui formavo quelle immagini non era a sua volta una di esse; eppure era qualcosa di grande, se aveva questa capacità di formarle. E così pensavo anche te, vita della mia vita, come qualcosa di immenso che attraversava illimitati spazi penetrando dappertutto l'intera massa del mondo, e ne tracimava di fuori in ogni direzione, smisuratamente, interminabilmente esteso: in modo che la terra ti accogliesse, ti accogliesse il cielo e ogni cosa, e tutte trovassero in te il loro limite, e tu in nessuna cosa il tuo. Ma come alla luce del sole non fa ostacolo il corpo dell'aria, di quest'aria che è sopra la terra, o almeno se ne lascia attraversare senza esserne lacerata o squarciata, anzi se ne lascia interamente pervadere, così pensavo fossero a te permeabili non solo cielo e aria e mare ma anche il corpo della terra: penetrabile lo pensavo, e fatto per accogliere in ogni sua massima e minima parte la tua presenza, respiro segreto di ogni cosa creata, che dall'interno o dall'esterno tutte le governa. Erano queste le mie congetture, perché io non sapevo pensare in altro modo: e tutte false. Perché a quella stregua più o meno estesa era la porzione di terra, e maggiore o minore parte di te avrebbe contenuto, e avresti riempito sì ogni cosa, ma in modo che il corpo di un elefante contenesse rispetto a quello di un passero una parte di te tanto più grande, quanto il primo è più grande del secondo e maggiore lo spazio che occupa. Così tu saresti immanente all'universo a pezzi, più grandi o più piccoli secondo la dimensione delle sue parti. E invece non è così. Ma tu non avevi ancora illuminato la mia oscurità.
2.3. Quanto a quegli illusi illusionisti - che parlano e parlano e son muti, perché non è alla tua parola che prestano voce - contro di loro sarebbe bastato l'argomento che già dai tempi di Cartagine Nebridio soleva avanzare, e che aveva colpito tutti noi, all'udirlo: che cosa ti avrebbe fatto quel supposto popolo delle tenebre, che ti oppongono come una sorta di massa contraria, se tu non avessi voluto combattere contro di lui? Se si rispondeva che in qualche maniera del male te l'avrebbe fatto, allora tu saresti stato violabile e corruttibile. Ma se si sosteneva che non avrebbe potuto farti alcun male, allora non ci sarebbe stata alcuna ragione di guerra, e di una guerra tale che una parte di te, delle tue membra, o qualcosa di generato dalla tua stessa sostanza si mescolasse alle potenze avverse e alle nature non create da te e ne fosse corrotto e deteriorato al punto da passare dalla beatitudine all'infelicità e da aver bisogno di un soccorso per esserne liberato e purificato. E questa filiazione della tua sostanza sarebbe l'anima, che il tuo logos dovrebbe liberare da questa servitù, contaminazione e corruzione: lui libero e puro e integro, e tuttavia corruttibile, perché derivato da una sola e identica sostanza. Insomma, in qualunque modo ti concepissero: se sostenevano la tua incorruttibilità, cioè quella della sostanza del tuo essere, allora tutto questo sarebbe stato falso e condannabile; se invece ti ritenevano corruttibile, già in partenza affermavano una proposizione falsa e da rigettarsi fin dalla prima parola. Bastava questo argomento a liberare il petto del loro peso e a vomitarli fuori: perché con queste opinioni e asserzioni sul tuo conto non c'era altra via per cui farli uscire, senza mostruosa profanazione del cuore e della lingua.
[Il problema del male]
3.4. Eppure anch'io, quantunque sostenessi e fossi fermamente convinto che tu non sei soggetto ad alcuna contaminazione e trasformazione e mutamento, in nessuna tua parte, Dio nostro, Dio vero autore non solo dell'anima ma anche del corpo che abbiamo, e non solo di anima e corpo ma di tutte le persone e di tutte le cose, anch'io non disponevo di una spiegazione chiara e lineare della causa del male. Ma, qualunque fosse, mi pareva si dovesse cercarla evitando ipotesi che mi obbligassero a ritenere mutevole il Dio immutabile, se non volevo divenire io stesso quello che cercavo. Così cercavo senza affanno, sicuro almeno che non fosse vero quello che sostenevano loro: ne rifuggivo con tutto il mio cuore, perché cercando l'origine del male vedevo in loro la malignità: che li riempiva al punto da indurli a credere capace di subire il male la tua sostanza, piuttosto che la loro di farne.
- 5. E mi sforzavo di vedere chiaro in quello che m'ero sentito dire, che cioè la causa del male fosse il libero arbitrio della volontà, e il tuo giusto giudizio quella della nostra sofferenza, e questo no, non mi era trasparente. E allora tentavo di far affiorare dall'abisso la punta almeno dell'intelligenza e di nuovo affondavo, e ritentavo con accanimento ed affondavo un'altra volta, e un'altra ancora. Mi sollevava nella tua luce una cosa: che sapevo di avere una volontà, almeno quanto sapevo di vivere. Se volevo una cosa o non ne volevo un'altra ero certissimo d'esser io e non un altro a volere e non volere, e a poco a poco mi rendevo conto che era lì, la causa del mio peccato. Quello che io facevo mio malgrado, io lo subivo piuttosto che farlo, questo mi era evidente, e piuttosto che una colpa lo giudicavo una pena di cui non ingiustamente mi affliggevi, come subito riconoscevo riflettendo sulla tua giustizia. Ma poi ricominciavo a chiedermi: "Chi mi ha fatto? Non è il mio Dio, che non è solo buono, è il bene stesso? Da dove viene allora questo mio volere il male e non volere il bene, se dev'essere giusto scontarne la pena? Chi ha deposto e seminato in me questo vivaio d'amarezze, se io derivo tutto dal mio dolcissimo Dio? Se è il diavolo il suo autore, da dove viene il diavolo? E se anche nel suo caso è la volontà perversa che di un angelo buono ha fatto il diavolo, donde veniva all'angelo quel malvolere che ne avrebbe fatto il diavolo, se l'angelo era interamente opera dell'ottimo creatore?" E di nuovo mi sentivo oppresso e soffocato da questi pensieri, ma non fino a sprofondare in quell'inferno dove nessuno ti riconosce, perché si è disposti a credere che tu subisca il male piuttosto di ammettere che sia l'uomo a farlo.
4.6. C'erano altre verità che mi sforzavo di trovare, analoghe a quelle che avevo già trovato: come ad esempio che una natura incorruttibile è migliore di una corruttibile, ragione per professare, qualunque cosa tu fossi, la tua incorruttibilità. Perché nessun'anima mai ha potuto o potrà concepire qualcosa che sia migliore di te, il sommo bene, l'ottimo. Dunque, poiché è verissimo e certissimo che una cosa incorruttibile è da preferirsi a una corruttibile, e io così facevo, se tu non fossi stato incorruttibile avrei potuto arrivare a concepire qualcosa di migliore del mio Dio. Poiché dunque vedevo l'essere incorruttibile superiore a quello corruttibile, in quello appunto dovevo cercarti e quindi rendermi conto di dove sia il male, cioè da dove provenga la corruzione stessa, se la tua sostanza non può in alcun modo esserne violata. In nessun modo appunto la corruzione viola il nostro Dio: non c'è volontà né necessità né imprevisto caso per cui possa intaccarlo. Appunto perché è Dio e ciò che egli vuole è buono, anzi è lui il bene stesso: e la corruzione non è un bene. E non ti si può costringere ad agire controvoglia, perché la tua volontà non è più grande della tua potenza. Lo sarebbe, se tu fossi più grande di te stesso: perché la volontà e la potenza di Dio sono Dio stesso. E cosa c'è di imprevisto per te che sai tutto? Nessuna cosa è se tu non la conosci. Ma perché infine dilungarsi tanto sulle ragioni per cui la sostanza che è Dio non è corruttibile, quando se lo fosse non sarebbe Dio?
5.7. E cercavo l'origine del male: e la cercavo male, e non vedevo il male della mia stessa indagine. E squadernavo il creato, l'universo davanti agli occhi della mente: quello che ci è visibile, come la terra e il mare e l'aria e gli astri e gli alberi e gli animali mortali, e le cose invisibili, come il firmamento del cielo superiore e tutti gli angeli e gli altri spiriti dell'universo: ma questi, la mia immaginazione li distribuiva in vari luoghi, come fossero corpi. E facevo della tua creazione un'unica enorme massa distinta in vari generi di corpi, comprendenti tanto i corpi reali quanto quelli che io mi inventavo in luogo degli spiriti: e me l'immaginavo grande a piacere - non come era di fatto, non potevo saperlo - ma pur sempre finita in ogni direzione. Te, invece, Signore, immaginavo come un che di avvolgente che la penetrava in ogni punto, ma infinito in tutti i sensi, come un mare che fosse ovunque e fluisse unico e infinito da ogni punto dello spazio immenso e contenesse una sorta di spugna grande a piacere ma sempre finita, e quella spugna fosse pregna di quel mare immenso, fino all'ultimo poro: così mi figuravo la tua creazione finita e piena dell'infinito che tu sei. E dicevo: "Eccolo Dio, ecco le cose che ha creato Dio, Dio che è buono, è incomparabilmente migliore di esse, certo, ma pur sempre buone devono essere se lui così buono ne è autore: ed ecco come le avvolge e le riempie di sé. E allora dov'è il male, e come e da dove ha potuto insinuarsi fin qui?
Qual è la sua radice, il suo seme? O forse non esiste affatto? E come mai allora evitiamo e temiamo ciò che non esiste? E poi se anche la paura è vana, un male è la paura stessa, che invano pungola e tormenta il cuore: e un male tanto più grave in quanto ciò di cui abbiamo paura non esiste, e noi ne abbiamo paura lo stesso. Perciò o c'è il male di cui abbiamo paura, oppure la stessa paura è il male. Dunque da dove viene, se Dio che è buono ha fatto buona ogni cosa? Certo, un bene maggiore, anzi il sommo, deve aver fatto beni inferiori, e tuttavia beni sono tutti, creatore e creature. Da dove viene il male? Forse da ciò che usò per farle? Che fosse un materiale cattivo, cui egli diede forma e ordine, ma lasciandovi un residuo incapace di esser trasformato in bene? E anche questo, perché? Era impotente a elaborarlo e trasformarlo completamente, senza residuo di male, lui che è onnipotente? Infine perché proprio da quella materia volle ricavare qualcosa invece di usare la sua onnipotenza per non farla esistere affatto? O forse essa poteva esistere contro la sua volontà? Oppure, se era eterna, perché l'ha lasciata esistere per infiniti intervalli di tempo prima di decidersi a farne qualcosa? O ancora, se volle compiere un'azione improvvisa, perché non quella - vista la sua onnipotenza - di annientarla per conservarsi in essere da solo, come l'intero e vero e sommo e infinito bene? O se non era bene che rinunciasse a edificare e fondare qualcosa di buono lui che era buono, perché non levar di mezzo e distruggere quella materia cattiva per produrne egli stesso di buona, con cui creare tutto? Non sarebbe stato onnipotente, se non avesse potuto conferire esistenza a qualcosa di buono senza l'aiuto di una materia non creata da lui". Di questo genere erano le cose che rimuginavo dentro il cuore triste, penetrato dai denti dell'angoscia di morire senza aver trovato il vero; però vi era saldamente ancorata anche la fede nella chiesa cattolica del tuo Cristo, Signore e Salvatore nostro. Una fede per molti aspetti ancora informe e fluida, non soggetta alla norma del suo insegnamento, che tuttavia la mente non abbandonava, rimanendone anzi di giorno in giorno più pregna.
[La libertà e il fatalismo astrale]
6.8. Ormai avevo respinto anche i falsi oracoli degli astrologi e i loro sacrileghi deliri. Anche di questo ti rendano gloria dalle profonde viscere di quest'anima i favori della tua compassione. Dio mio! Tu, sì, tu solo - e chi mai ci richiama da quella morte che è ogni errore, se non una vita incapace di morire, una sapienza che illumina le menti affamate e non consuma luce, e governa il mondo fino al tonfo leggero delle foglie! Tu provvedesti alla mia pervicacia, che m'aveva fatto resistere a Vindiciano, vecchio signore di mente sottile, e a Nebridio, giovane anima meravigliosa, quando il primo affermava con vigore, il secondo invece con qualche esitazione e tuttavia sovente, che non c'è un'arte di prevedere il futuro, ma accade spesso che le congetture umane sian favorite dal caso e che a furia di far previsioni se ne azzecchino parecchie: non perché si sia a conoscenza delle cose a venire, ma perché le si imbroccano semplicemente a furia di parlarne. Mi procurasti dunque un amico, grande appassionato di consulti astrologici, non addentro egli stesso in quella letteratura, ma, come ho detto, pieno di un'avida curiosità per i responsi. Ebbene, costui sapeva un fatto che diceva di aver sentito raccontare da suo padre, anche se ignorava quanto fosse efficace per sradicare la fama di quell'arte. Quest'uomo, dunque, di nome Firmino, colto umanista e fine conversatore, venne a chiedermi consiglio - come si fa con un amico carissimo - a proposito di certe questioni cui erano legate le sue speranze terrene: voleva sapere quale fosse il mio parere relativamente all'oroscopo basato sulle sue cosiddette costellazioni. Ma io, che avevo ormai una certa propensione verso il punto di vista di Nebridio, pur senza rifiutarmi di avanzare qualche congettura e dirgli quello che mi veniva alla mente perplessa, gli feci capire che ormai ero quasi convinto fossero tutte sciocchezze e ridicolaggini. Allora mi raccontò che suo padre aveva una sfrenata curiosità per i libri di quel genere, e un amico altrettanto appassionato a quegli studi, che vi si dedicava insieme con lui. Con pari entusiasmo e interesse i due alimentavano l'intimo fuoco con quelle sciocchezze, al punto che osservavano perfino i parti delle bestie di casa, prendendo nota delle posizioni celesti, in modo da raccogliere dati per la loro arte - per così dire. E diceva di aver sentito raccontare dal padre che mentre sua madre era incinta di lui, Firmino, anche una donna dell'amico paterno, una della servitù, si gonfiava nell'attesa di un figlio. Il che non poteva sfuggire al padrone, abituato a seguire scrupolosamente in ogni particolare i parti delle sue cagne. E così avvenne che entrambi calcolarono con minuziosa precisione, l'uno per la moglie e l'altro per la serva, il giorno, l'ora e il minuto di sgravarsi. E partorirono entrambe nello stesso momento, così che furono costretti ad assegnare rispettivamente al figlio e al piccolo servo le stesse identiche costellazioni fino al più minuto dettaglio. Infatti quando tutt'e due le donne entrarono in travaglio, i due padroni di casa si fecero reciprocamente sapere a che punto stavano le cose in casa propria, e disposero di servi da mandarsi l'un l'altro, appena fosse stata loro annunciata la nascita dei piccoli: cosa di cui non era loro difficile venire immediatamente informati, poiché ciascuno dei due era come un re nel proprio regno. E così, diceva, i messaggeri delle due parti si erano incontrati tanto esattamente a metà strada che i due padroni di casa non avrebbero assolutamente potuto registrare la minima differenza nella posizione delle stelle e nel computo degli istanti. Eppure Firmino, nato signore, se ne andava spedito e brillante per le vie del secolo, vedeva accrescersi il patrimonio, saliva di successo in successo: e quel servo, che non si era per nulla scrollato di dosso il giogo della sua condizione, continuava a servire i suoi padroni: era Firmino stesso, che l'aveva conosciuto, a confermarlo.
- 9. Dopo questo racconto - al quale non potevo che prestar fede, visto il narratore - tutte le mie resistenze crollarono e per prima cosa tentai di levar dalla mente quella curiosità allo stesso Firmino. Nel suo oroscopo, gli dicevo, per dargli un responso veridico avrei dovuto leggere la posizione primaria dei suoi genitori fra i concittadini, il prestigio della famiglia, la sua stessa origine nobiliare, l'educazione aristocratica e gli studi liberali: ma se quel servo mi avesse consultato sullo stesso oroscopo - perché era appunto identico - per dare anche a lui un responso veridico avrei questa volta dovuto leggervi la famiglia umilissima, la condizione servile e tutte le altre caratteristiche, ben diverse e lontane da quelle del primo caso. Ne conseguiva che osservando uno stesso stato di cose ne avrei fornito descrizioni diverse, se dovevano esser vere; se invece avessi dato descrizioni identiche, dovevano essere false. E ne dedussi senza più incertezza che i responsi veri ottenuti consultando gli oroscopi non sono opera d'arte ma di sorte, come quelli falsi non sono effetto dell'incompetenza ma dell'infido caso.
- 10. Da quel momento in poi diedi via libera alle mie elucubrazioni di argomenti irrefutabili contro i folli che ricavano un lucro da un imbroglio simile: ormai cresceva in me la voglia di attaccarli, ridicolizzarli e confutarli. Per far fronte all'eventuale insinuazione che il racconto di Firmino o di suo padre non fosse vero, presi a considerare il caso dei gemelli, che per la maggior parte escono dall'utero a distanza tanto breve l'uno dall'altro, che per quanto ci si sforzi di prestare a questo intervallo di tempo un potere sul corso naturale delle cose, l'osservazione umana non riesce assolutamente a rilevarlo. E neppure trova posto nelle tabelle che l'astrologo consulterà per le sue previsioni vere. Vere non saranno allora, perché osservando simboli identici dovrebbe fare identiche predizioni su Esaù e Giacobbe: ma non sono identiche le cose capitate a ciascuno dei due. L'astrologo direbbe dunque il falso: o, se dicesse il vero, non farebbe predizioni identiche; eppure identici sono i dati che osserva. Se dicesse il vero dunque non sarebbe in virtù dell'arte, ma della buona sorte. Infatti tu, Signore, regolatore giustissimo dell'universo, all'insaputa di chi chiede e di chi offre responsi ti servi di un segreto istinto per far sentire dall'abisso del tuo giusto giudizio a chi è in cerca di un responso quello che gli si confà, secondo i meriti segreti delle anime. E nessun uomo allora si domandi "Che significa questo?" , "A che scopo?" Non lo chieda, non lo chieda: perché non è che un uomo.
[Soffrire una metafisica]
7.11. Mio difensore, mi avevi ormai sciolto dalle catene: e cercavo l'origine del male, senza fine. Ma tu non mi lasciavi strappar via dalle onde del pensiero a quella fede che mi faceva credere alla tua esistenza e all'immutabilità del tuo essere e al tuo governo e giudizio sugli uomini e alla via da te stabilita per la salvezza umana. La via per quella vita che sarà dopo la morte, e che passa per Cristo, figlio tuo e nostro Signore, e per le Sacre Scritture, garantite dall'autorità della tua Chiesa cattolica. Dati questi incrollabili principi, salvi in fondo alla mente, io cercavo furioso l'origine del male. Che tormenti, Dio mio, questo parto del cuore, che lungo pianto. E le tue orecchie erano lì, e non lo sapevo. E quando ritrovavo la forza di cercare in silenzio, era la mente coi suoi muti spasimi che chiamava a gran voce la tua compassione. Tu lo sapevi quello che soffrivo: gli uomini no, nessuno. Quanta vuoi che la mia lingua potesse scaricarne, di questa sofferenza, dentro alle orecchie degli amici intimi? Gli arrivava forse il frastuono di tutta quella rivoluzione dell'anima, che a dirla non bastava né il tempo né la bocca? Al tuo orecchio però arrivava tutto, il ruggito del cuore, del mio pianto, davanti a te moriva il desiderio e non era con me il lume dei miei occhi. Era dentro di me, ma io ero fuori; dentro, ma non come in un luogo. E io tendevo lo sguardo alle cose che occupano un luogo, senza trovarne uno in cui posare, e quelli che trovavo non m'accoglievano tutto, finché potessi dire "Basta", e "Sto bene", e neppure mi lasciavano tornare dove abbastanza bene sarei stato. Ero al di sopra di loro ma al di sotto di te: mia vera gioia - se a te mi fossi assoggettato, come tu avevi assoggettato a me ciò che avevi creato a me inferiore. Sarebbe stata questa la giusta misura e il paese mediano della mia salvezza: continuare a esistere a tua immagine, servire te e dominare il corpo. Ma l'orgoglio mi sollevava contro di te e mi lanciavo a collo duro contro il mio Signore: e così anche le infime cose m'erano sopra, e mi schiacciavano, fino a non lasciarmi più tregua e respiro. Ce n'erano a caterve, mi venivano incontro da ogni parte, affollavano tutto il visibile: e se mi mettevo a pensare erano le immagini stesse dei corpi che mi sbarravano la via del ritorno, quasi dicessero: "Dove vai, così sordido e indegno?" E anche queste immagini crescevano dalla mia ferita, perché come un ferito hai umiliato il superbo: era il tumore della mia superbia a separarmi da te, a farmi la faccia gonfia fino a chiudermi gli occhi.
8.12. Ma tu, Signore, permani in eterno, e non dura in eterno la tua ira, perché hai preso pietà della terra e della cenere, e ai tuoi occhi è piaciuto riformare le mie deformità. E a furia di spronarmi interiormente mi facevi impazzire d'inquietudine, perché non mi dessi per vinto finché la vista interiore non m'avesse fatto certo di te. E sotto la segreta potenza della tua medicina quel mio tumore si sgonfiava, e alla vista offuscata e ottenebrata della mia mente l'aspro collirio del dolore rendeva di giorno in giorno la salute.
[I libri dei Platonici e Il Prologo di Giovanni]
9.13. E in primo luogo volevi mostrarmi come tu resisti ai superbi, ma agli umili doni la grazia, e l'accorato amore con cui hai indicato agli uomini la via dell'umiltà, poiché la tua parola si fece carne e abitò fra gli uomini. Così attraverso un uomo che scoppiava di boria, un pallone gonfiato, mi procurasti alcuni libri di platonici in versione latina dal greco originale: e in quei libri trovai scritto, non con queste parole ma in un senso identico e sostenuto da molte e varie argomentazioni, che in principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio: esso era in principio presso Dio; tutto fu fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla fu fatto; ciò che fu fatto in lui è vita, e vita era la luce degli uomini; e la luce risplende nelle tenebre, e le tenebre non l'hanno compresa; e come l'anima dell'uomo, benché renda testimonianza del lume non è il lume stesso, ma Dio-Verbo è il lume vero che illumina ogni uomo venuto a questo mondo; e come era in questo mondo, e il mondo fu fatto per mezzo suo, e il mondo non lo conobbe. Ma che egli venne in casa sua, e i suoi non lo accolsero, e a tutti quelli che lo accolsero diede il potere di diventare figli di Dio, a loro che avevano creduto nel suo nome: questo non lo lessi in quei libri.
- 14. E anche vi lessi che la Parola, Dio, nasce non dalla volontà dell'uomo né dalla volontà della carne, ma da Dio; però non vi trovai che la Parola fu fatta carne e abitò in noi. In quei testi scopersi anche, è vero, variamente e diversamente formulato, il pensiero che il figlio essendo conforme al Padre non ritenne usurpata la sua parità a Dio, poiché è per natura a lui identico. Ma non sanno, quei libri, perché annichilò se stesso / prese forma di servo / fatto simile all'uomo / uomo fin nell'aspetto / e si umiliò ubbidendo / fino a morire: / e a morire in croce. / Perciò Dio l'ha levato / dai morti, e gli ha donato un nome / sopra ogni nome / perché nel nome di Gesù si pieghi / il ginocchio a ciascuno dei viventi / del cielo, della terra e dell'inferno / e ogni lingua proclami / che vive nella gloria di Dio padre / Gesù, il Signore. Che prima del tempo e al di sopra del tempo permane immutabile il tuo figlio unigenito a te coeterno; che le anime attingono la propria beatitudine dalla sua pienezza, e che partecipando di quella sapienza che in se sola siede si rinnovano per divenir sapienti, questo sì, c'è scritto. Ma che morì per gli empi al tempo stabilito e tu non risparmiasti il tuo unico figlio, ma lo consegnasti prigioniero per amore di tutti noi, questo non c'è scritto. Già, queste cose le hai nascoste ai sapienti e rivelate ai piccoli, perché venissero da lui quelli che portano il peso del dolore e della fatica e trovassero conforto in lui che è mite e umile di cuore, e conduce i miti alla giustizia e indica ai mansueti la via, e vede la nostra miseria e la nostra pena e ci condona tutti i peccati. Ma quelli che dall'alto dei loro coturni di dottrina vanno insegnando cose più sublimi non ascoltano le sue parole: Imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete riposo per l'anima. Costoro, è vero, conoscono Dio, ma non gli rendono la gloria e le grazie dovute a Dio, e si svagano nei loro pensieri e il loro cuore insipiente si fa buio, e proclamando la propria sapienza diventano pazzi .
- 15. E in quei libri leggevo dunque anche la tua gloria incorruttibile trasformata in idoli e simulacri di ogni genere, nelle sembianze di uomo corruttibile, di volatili, quadrupedi e serpenti. Tutto cibo d'Egitto questo, per il quale Esaù perdette la sua primogenitura, come fece il tuo popolo primogenito che adorò in tua vece una testa di quadrupede, col cuore rivolto all'Egitto e l'anima, immagine tua, piegata davanti all'immagine di un vitello ruminante. Anche questo ho trovato in quei libri, ma non ne ho mangiato. Infatti piacque a te, Signore, liberare Giacobbe dal disprezzo della sua inferiorità, perché il maggiore servisse il minore, e chiamasti i pagani a raccogliere la tua eredità. E io che dai pagani ero venuto a te puntai lo sguardo sull'oro che hai voluto il tuo popolo portasse dall'Egitto, perché era tuo, dovunque fosse. E hai detto agli Ateniesi per bocca dell'Apostolo che in te viviamo, ci muoviamo e siamo, come disse anche qualcuno dei loro autori: e senza dubbio di là venivano anche quei libri. E io non degnai di uno sguardo gli idoli degli egiziani, ai quali sacrificavano il tuo oro quelli che trasformarono la verità di Dio in menzogna e prestarono culto e servizio alla creatura invece che al creatore.
[Lezione platonica: il ritorno a se stessi]
10.16. Ne accolsi il consiglio di tornare a me stesso e con la tua guida entrai nel mio mondo interiore: e ci riuscii perché t'eri fatto mio sostegno. Vi entrai, e con l'occhio di quest'anima, quale che fosse, vidi al di sopra dell'occhio stesso di quest'anima, al di sopra di questa mente, la luce che non muta. Non era questa ordinaria e visibile a ogni carne, e neppure era una luce più intensa ma dello stesso genere, come se questa facendosi molto, ma molto più chiara si diffondesse con la sua potenza per l'universo intero. Altro era, ben altra cosa che tutte queste luci... E non era al di sopra della mia mente come sta l'olio sopra l'acqua, o anche il cielo sopra la terra: era più in alto di me perché era lei ad avermi fatto, e io ero più in basso, perché fatto da lei. Conoscere la verità è conoscer lei, conoscer lei è conoscere l'eternità. L'amore la conosce. Eterna verità e amore vero e amata eternità! Tu sei il mio Dio, per te sospiro giorno e notte. La prima volta che ti ho conosciuto tu mi hai raccolto, perché vedessi che c'era da vedere, e che ancora non ero io a vedere. E m'hai abbacinato gli occhi incerti con il fulgore del tuo raggio, e ho tremato d'amore e di spavento: e ho scoperto che ero lontano da te nel paese della difformità, e mi pareva di udire la tua voce dall'alto: "Sono il cibo dei grandi: cresci e mi mangerai. E non io sarò assimilato a te come cibo della tua carne, ma tu sarai assimilato a me". E capii che per punire la sua malvagità hai istruito l'uomo e come ragnatela hai ridotto quest'anima, e domandai: "La verità non esiste, se non occupa lo spazio finito o infinito?" - E tu gridasti da lontano: "Sono io, io che sono" . Udii, con l'udito del cuore: e non avevo più ragione di dubitare, e mi sarebbe stato più facile dubitare della mia esistenza che di quella della verità, la quale si rende visibile all'intelligenza mediante le cose che per suo mezzo furono fatte.
11.17. E considerai tutte le cose che sono al di sotto di te e vidi che non si può dire in modo assoluto né che esistono né che non esistono: a loro modo esistono, perché derivano da te, non esistono perché non sono ciò che sei tu: ed esiste veramente ciò che permane immutabile. Ma il mio bene è l'adesione a Dio: perché se non durerò in lui, neppure in me potrò durare. Invece lui tutto rinnova restando in se stesso: e sei tu il mio Signore, perché non hai bisogno dei miei beni.
[Valore di tutto ciò che esiste]
12.18. E mi fu chiaro che sono buone le cose soggette a corruzione: perché non potrebbero corrompersi né se fossero beni sommi né se non fossero beni. Se fossero sommi beni sarebbero incorruttibili, ma se non fossero beni affatto non avrebbero in sé di che farsi corrompere. La corruzione infatti è un danno: e se non c'è diminuzione di bene non c'è danno. Dunque o la corruzione non arreca alcun danno, il che è impossibile, oppure - il che è certissimo - tutto ciò che si corrompe subisce una privazione di valore. Ma se la privazione di valore è totale, una cosa cesserà di esistere. Se infatti una cosa continua a esistere senza poter più essere corrotta, allora sarà migliore, perché perdurerà incorruttibile. E che cosa è più mostruoso dell'asserzione che una cosa diventa migliore per aver perduto ogni valore? Dunque se un ente sarà privato di ogni valore, sarà un assoluto niente: dunque in quanto esiste, è buono. Dunque tutto ciò che esiste è buono, e quel male di cui io cercavo l'origine non è una sostanza, perché se fosse una sostanza sarebbe un bene. Infatti sarebbe o una sostanza incorruttibile, certamente quindi un grande bene, o una sostanza corruttibile, che se non fosse buona non potrebbe essere corrotta. E così mi fu chiaro ed evidente che tu hai fatto buone tutte le cose, e non esistono assolutamente sostanze che non abbia fatto tu. E poiché non le hai fatte tutte uguali, tutte esistono in quanto sono singolarmente buone e tutte insieme molto buone. Già, il nostro Dio fece tutte le cose molto buone.
13.19. E in te il male non esiste affatto: e non soltanto in te, ma neppure in tutto l'universo creato, perché nulla può irrompere da fuori e corrompere l'ordine che tu gli hai imposto. Tra le parti dell'universo poi alcune, solo perché non si adattano ad altre, sono ritenute cattive; eppure ad altre si adattano, queste stesse cose, e per loro sono buone, e sono buone in se stesse. E tutte queste che non s'adattano a vicenda si adattano alla parte inferiore delle cose, che chiamiamo terra, e che ha un suo cielo pieno di nuvole e vento, a lei congruo. Ormai mi guarderò bene dal dire "Ah se non esistessero cose del genere!" Perché se anche non potessi vederne altre, certo sentirei la mancanza di cose migliori, ma anche così dovrei renderti lode per queste sole. Perché ti additano a lode su dalla terra i draghi e il fondo di tutti gli abissi, / e fuoco e grandine e neve e ghiacci / e il soffio di tempesta in cui tu parli / e i monti e le colline e gli alberi da frutta, / e tutti i cedri, le fiere e il bestiame, / e i rettili e i volatili pennuti, / e tutti i re della terra e i popoli, / tutti i principi e i giudici, / le vergini e i ragazzi, / i giovani coi vecchi / lodino il nome, il tuo. Ma anche dai cieli salgono a te le lodi: e allora ti lodino, Dio nostro, tutti i tuoi angeli dalle case celesti, / tutte le tue potenze, e sole e luna, / tutte le luminarie delle stelle, / e il cielo estremo dei cieli, e le acque / che stanno in alto, al di sopra dei cieli / lodino il nome, il tuo. E ormai non la sentivo, la mancanza di cose migliori, perché tutte le contemplavo col pensiero: e certamente stimavo le cose più alte migliori di quelle più basse, ma anche il tutto migliore delle sole più alte. Questo era il mio più ponderato giudizio.
[Il dualismo e la superbia]
14.20. Non c'è niente di sano in quelli a cui qualcosa dispiace nel creato: come non c'era in me quando non mi piacevano molte delle tue opere. E poiché quest'anima non osava avere a fastidio il mio Dio, non voleva fosse tuo ciò che le dispiaceva. Ed era questo che l'aveva indotta a credere in due sostanze, e a non trovare requie e a usare un linguaggio non suo. E poi, ritornando sui suoi passi, si era fabbricata un dio nello spazio illimitato dell'universo e s'era immaginata che questo fossi tu e se l'era insediato in cuore e s'era ricostituita diventando un tempio del suo idolo, abominio ai tuoi occhi. Ma dopo che posasti sul tuo petto la mia testa ignara, e mi chiudesti gli occhi, che non vedessero più cose vane, mi ritirai un poco da me stesso, e si assopì la mia pazzia. E in te mi risvegliai, e ti vidi infinito in altro modo, di una visione che non era la carne a portare.
15.21. E posi mente alle altre cose e vidi che a te debbono l'esistenza e tutte hanno in te il loro limite, ma non in senso spaziale: bensì in quanto sei tu che tieni in mano il tutto nella verità: e ogni cosa è vera in quanto è, e non esiste il falso se non in quanto si crede che sia ciò che non è. E vidi che ogni cosa non soltanto ha il suo posto, ma il suo tempo: e che tu, il solo essere eterno, non hai dato inizio alla tua opera dopo un intervallo di tempo incalcolabile e vuoto, perché nessun intervallo di tempo passato sarebbe passato, e nessuno a venire verrebbe, se non sul fondamento del tuo operare e permanere.
16.22. E capii per esperienza che non c'è da stupirsi se al palato non sano riesce penoso il pane, che a quello sano è gradevole, e agli occhi ammalati riesce odiosa la luce, che quelli limpidi trovano amabile. La tua giustizia dispiace ai malvagi: figuriamoci poi la vipera e il verme, che tu hai creato buoni, adatti alle parti più basse del creato. Come vi si adattano i malvagi, del resto, quanto più dissimili sono da te - essi che pure sono adatti alle parti più alte, quanto più simili si fanno a te. E ricercai l'essenza della malvagità, e non trovai una sostanza, ma la perversione della volontà che si distoglie dalla sostanza somma, la tua, Dio, per torcersi verso le cose più basse, con le viscere proiettate fuori e il ventre gonfio.
[Trascendenza della verità]
17.23. Ed ero meravigliato di amarti già, te e non un fantasma. Eppure non pervenivo a un possesso stabile del mio Dio: il tuo fascino mi rapiva a te e subito mi strappava da te il mio peso, e ripiombavo quaggiù, piangendo. E questo peso era fatto di consuetudini della carne. Ma in me viveva la memoria di te, e non avevo alcun dubbio che ci fosse, un essere che richiedeva la mia più profonda adesione: ma ancora non c'ero io, per aderirvi. Perché un corpo corruttibile pesa sull'anima, e la dimora terrena deprime la coscienza affollata di pensieri. E io ero certissimo che dalla fondazione del mondo le tue proprietà invisibili si rendono visibili all'intelligenza mediante le tue opere, e così la tua divinità e potenza eterna. Infatti nell'indagare la ragione per cui apprezzavo la bellezza dei corpi, celesti o terrestri, e la regola in base a cui senza esitare emettevo giudizi sulle cose soggette a mutamento: "Questo dev'esser così, quello no", nell'indagare dunque la regola di questi apprezzamenti e giudizi, avevo trovato l'immutabile e vera eternità del vero al di sopra della mia mente mutevole. Così salivo di grado in grado, dai corpi all'anima che del corpo si serve per sentire e di lì al senso interno, che i sensi del corpo informano sul mondo esterno - il massimo cui giungono le bestie, e di lì ancora alla facoltà razionale, al cui giudizio si propone il contenuto delle percezioni sensoriali; e quando in me anche questa si scoprì mutevole, si sollevò all'intelligenza di sé e distolse il pensiero dalle sue abitudini, sottraendosi a una folla di immagini fantastiche e contradditorie. E ritrovò la luce che l'aveva inondata quando senza esitare aveva dichiarato l'immutabile migliore di ciò che muta: la luce in cui l'aveva conosciuto, l'immutabile - perché se non ne aveva alcuna idea non poteva esser così certa di preferirlo al mutevole. E giunse infine a ciò che è, nel lampo in cui la vista si smarrisce: e allora sì, vidi la tua invisibile potenza attraverso le tue opere, e compresi... ma non riuscii a fissarvi lo sguardo e ricaddi spossato nei soliti giorni, senz'altro portare con me che la memoria innamorata e struggente: come di un profumo di cose che ancora non potevo gustare.
[Necessità del Cristo mediatore]
18.24. E cercavo la via per acquistare la forza necessaria a godere di te, e non l'avrei trovata finché non avessi abbracciato il mediatore fra Dio e gli uomini, l'uomo Gesù Cristo, che è sopra ogni cosa Dio benedetto nei secoli, e chiama dicendo: Io sono la via e la verità e la vita e fonde alla sua carne il cibo che non ero in grado di prendere. Infatti la Parola s'è fatta carne, perché la sapienza con cui creasti ogni cosa divenisse latte per la nostra infanzia. Non ero ancora umile abbastanza per possedere il mio umiliato Dio, Gesù, e non sapevo quale scuola fosse la sua fragilità. La tua Parola, eterna verità, che svetta alta sopra le parti più alte del creato, innalza fino a sé chi le è soggetto, ma nelle regioni più basse s'è costruita un'umile dimora col nostro fango, per poter tirar giù dal loro io quelli da assoggettare, e attirarli a sé, guarendoli della loro tronfiaggine col nutrirli d'amore. Così che la fiducia in se stessi non li portasse troppo lontano, e anzi vacillassero alla vista della divinità vacillante ai loro piedi, per essersi addossato il peso del nostro abito di pelle. E cadessero infine stanchi ai piedi di lei, che rialzandosi li avrebbe sollevati con sé.
19.25. Io però avevo altre opinioni, e Cristo, il mio Signore, lo stimavo come un uomo di sapienza sublime, un uomo senza pari. Tanto più che con la sua nascita meravigliosa da una vergine - emblema questo del disprezzo per le leggi del mondo, di fronte alla prospettiva di conquistare l'immortalità - sembrava avesse avuto in sorte il magistero di un'autorità tanto grande dalla divinità, sempre sollecita del nostro destino. Ma il sacro mistero di quella Parola fatta carne, neppure potevo sospettarlo. Sapevo solo, da tutto ciò che su di lui si trova nella tradizione scritta - e cioè che mangiò e bevve, dormì, se ne andò in giro, rise e provò tristezza e tenne discorsi - che quella carne non avrebbe potuto unirsi alla tua parola se non con un'anima e una mente umane. Questo lo sa chiunque sa che la tua Parola è immutabile, come io già sapevo sia pur nei limiti delle mie possibilità, senza comunque metterlo minimamente in dubbio. In effetti cose come muovere o no, a seconda dei momenti, le membra volontariamente, trovarsi ora in questo ora in quello stato d'animo, servirsi di una lingua per esprimere pensieri o restarsene in silenzio a seconda dei casi: sono caratteristiche di una psiche e di una mente soggette a mutamento. E se queste testimonianze della tradizione scritta fossero false, rischierebbe di passare per falso anche tutto il resto, e al genere umano non resterebbe per la sua salvezza più ombra di fede in quei libri. Ma, poiché invece sono veridici, ero così portato a riconoscere in Cristo tutto l'uomo, non soltanto il corpo di un uomo o il corpo e l'anima ma non l'intelligenza; ma quest'uomo lo ritenevo superiore a tutti gli altri non perché fosse la verità in persona, ma per una particolare eccellenza della natura umana in lui, che lo faceva più compiutamente partecipe della sapienza. Alipio dal canto suo pensava che per i cattolici Dio s'era incarnato in modo che nel Cristo non ci fosse che Dio e la carne, e non riteneva che essi gli attribuissero anima e intelligenza umana. E siccome era ben persuaso che le azioni a lui ascritte dalla tradizione non possono compiersi che da una creatura animata e razionale, era piuttosto restio ad abbracciare la fede cristiana. Più tardi però, quando venne a sapere che questo era l'errore degli eretici apollinaristi, fu ben lieto di adeguarsi alla fede cattolica. Quanto a me, confesso di aver imparato un po' più tardi a dirimere, nella proposizione che la Parola si fece carne, la verità cattolica dalla falsa concezione di Fotino. È proprio vero che la confutazione degli eretici fa risaltare più netto il pensiero e il retto insegnamento della tua Chiesa. Furono necessarie anche le eresie, perché fra i deboli emergessero gli uomini di provata fede.
20.26. Ma allora, dopo aver letto quei libri dei platonici e averne accolto l'invito a cercare una verità incorporea vidi e compresi attraverso le cose create la tua potenza invisibile: e pur essendone respinto sentii di cosa il buio di quest'anima mi impediva la visione. Fui certo che esistevi ed eri infinito, ma senza occupare lo spazio, finito o infinito che fosse, che anzi esistevi in senso proprio, tu che eri sempre identico a te stesso, e per nessunissimo aspetto o movimento mai diverso o altrimenti atteggiato, mentre tutte le altre cose avevano da te l'esistenza, in base a quest'unica certissima prova, che esistevano. Certo di tutto questo ero, eppure ancora troppo malfermo per possederti. Anzi ero garrulo come un vero esperto, e se non avessi cercato la via verso di te in Cristo, nostro salvatore, sarei stato perituro più che perito. Già avevo cominciato a voler apparire sapiente, pieno com'ero della mia pena, e invece di piangere mi inorgoglivo addirittura di questa consapevolezza. Dov'era quell'amore che costruisce sul fondamento dell'umiltà, cioè Gesù Cristo? E come avrebbero potuto insegnarmelo, quei libri? In quelle pagine credo tu abbia voluto che mi imbattessi prima di meditare le tue scritture, perché l'eccitazione che suscitarono in me mi si imprimesse nella memoria, così che più tardi, quando sotto l'effetto calmante dei tuoi libri e la medicante carezza delle tue dita le mie ferite avrebbero cominciato a rimarginarsi, potessi afferrare bene la differenza che passa fra presunzione e confessione, fra il vedere dove bisogna andare senza vedere come, e la via che conduce al felice paese dell'origine, per abitarlo e non solo vederlo. Se mi fossi dapprima formato sulle tue Sacre Scritture e nella loro assidua pratica tu m'avessi lasciato assaporare tutta la tua dolcezza, e poi mi fossi imbattuto in quei volumi, forse mi avrebbero strappato via dalla solida base della devozione; o forse, se fossi perdurato nella salute dei sentimenti che avevo assorbito, avrei creduto che a concepirli sarebbe bastato anche lo studio di quei libri, da soli.
[Lettura di Paolo]
21.27. E così mi gettai con avidità grandissima sulle preziose pagine dettate dal tuo spirito, e soprattutto sull'apostolo Paolo: ed erano svanite le difficoltà che mi erano parse a volte metterlo in contraddizione con se stesso e in contrasto con le testimonianze della legge e dei profeti. Vidi nell'oro puro delle sue parole un solo volto e imparai una gioia che spaventa. Fin dalla prima pagina scoprii che tutto quanto di vero avevo letto là qua era detto con la garanzia della tua grazia, perché chi vede non se ne vanti: come se non fosse un dono ricevuto, non solo ciò che vede, ma lo stesso vedere - e che cosa possiede che non abbia ricevuto? E perché vi trovi non soltanto istruzioni per imparare a vedere te, che sei sempre lo stesso, ma anche la guarigione senza cui non si può possederti. E perché si metta in cammino chi è troppo lontano per vederti, finché arrivi a vederti e a possederti. Infatti, anche se l'uomo si rallegra della legge di Dio secondo l'uomo interiore, che cosa farà di quell'altra legge del suo corpo che osteggia quella della sua mente e lo rende prigioniero della legge del peccato, che dimora nel suo corpo? Perché tu sei giusto, Signore: ma noi abbiamo peccato, agito da ingiusti, con malvagità, e la tua mano è gravata su di noi, e giustamente siamo stati consegnati al peccatore antico, il ministro della morte, che ha persuaso la nostra volontà perché si uniformasse alla sua, a causa della quale non permase nella tua verità. Che farà, pover'uomo? Chi lo libererà dal corpo che porta questa morte? Solo la tua grazia attraverso Gesù Cristo, il nostro signore, che hai generato a te coeterno e posto al principio delle vie della tua creazione, nel quale il principe di questo mondo non trovò cosa degna di morire: e tuttavia l'uccise; e così fu cancellato il memoriale che era contro di noi. Tutto questo non c'è in quegli altri libri. Quelle pagine non hanno il volto di questa pietà, il pianto di una confessione, il tuo sacrificio, l'angoscia della mente, il cuore avvilito e umiliato, e poi la salvezza delle masse, la città sposa, il pegno dello Spirito Santo, il calice del nostro riscatto. Là non si sente cantare E non si piegherà l'anima a Dio / a Dio da cui mi viene ogni salvezza? / Solo lui è mia rupe e mia salvezza / Io non mi lascerò spostare. E non si sente chiamare Venite a me, voi che soffrite. Là si disdegna anzi il suo insegnamento, perché è mite e umile di cuore. Già, hai nascosto queste verità ai sapienti e agli avveduti, e le hai rivelate ai piccoli. Altro è vedere dal ciglio di una selva il paese della pace e non trovare la strada che vi conduce e invano arrancare per impervie pendici, braccati dai disertori di Dio, in fuga dietro al loro principe drago e leone; altro è trovarsi sulla giusta via, sorvegliata e difesa dall'imperatore del cielo contro le razzie degli angeli fuggiaschi dall'esercito celeste: che ne stanno alla larga come dal supplizio. Così per vie mirabili tutto questo m'entrava nelle viscere, mentre leggevo l'ultimo dei tuoi apostoli e meditavo sulle tue opere, sgomento.
LIBRO OTTAVO
[LA CONVERSIONE]
1.1. Dio mio, ti renda grazie la mia memoria nel confessarti la tua bontà verso di me. Penetra le mie ossa del tuo amore, fino a che dicano: Chi è come te, Signore? Hai spezzato le mie catene: ti offrirò un sacrificio di lode. Io narrerò come tu le hai spezzate, e tutti quelli che adorano te ascolteranno, e poi diranno: Benedetto il signore in cielo e in terra! Grande e meraviglioso è il suo nome. Le tue parole mi s'erano conficcate nelle viscere, la muraglia di te mi circondava da ogni parte. Della tua vita eterna ero certo, benché l'avessi vista soltanto in enigma e come in uno specchio; ma ogni dubbio riguardo alla sostanza incorruttibile come origine di ogni sostanza era svanito. E non desideravo esser più certo di te, ma più stabile in te. Ma appunto dal lato della mia vita temporale tutto vacillava e bisognava ripulire il cuore dal lievito vecchio; la via, il Salvatore stesso mi piaceva e ancora mi dispiaceva passare per le sue strettoie. E mi ispirasti l'idea che avrei fatto bene ad andare a trovare Simpliciano, che mi pareva un tuo buon servitore: in lui riluceva la tua grazia. Avevo anche sentito dire che fin dalla sua giovinezza aveva interamente consacrato a te la sua vita; ormai era vecchio e mi pareva che in tanti anni così ben spesi nella ricerca appassionata della tua vita dovesse aver acquistato molta esperienza, molta dottrina: e così era infatti. Perciò volevo confidargli i miei turbamenti, perché mi suggerisse il modo di mettermi per la tua via che riteneva più adatto a uno nella mia condizione.
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2. Vedevo infatti la chiesa piena, ma chi ci andava in un modo, chi in un altro. E d'altra parte la mia attività professionale ormai mi disgustava, e m'era di peso da quando le aspirazioni di una volta, come le speranze di carriera e di guadagno, non erano più abbastanza ardenti da farmi sopportare quel giogo così oneroso. Ormai tutto questo non mi attirava più della tua dolcezza e dello splendore della tua casa, che avevo cara; ma ancora mi teneva stretto col suo forte legame la donna. Certo, l'Apostolo non si opponeva a che io mi sposassi, nonostante me ne sentissi esortato a una condizione migliore, non foss'altro del suo desiderio che tutti gli uomini fossero come lui. Ma io, più debole, preferivo una posizione più confortevole, e per quest'unica ragione finivo per strascicarmi fiaccamente anche nel resto e per farmi consumare dalle ansie più verminose: perché mi vedevo costretto a compromessi intollerabili dalle esigenze di quella vita coniugale da cui ero così fortemente attratto.
Avevo udito dalla bocca della verità che esistono eunuchi che si evirarono di mano propria per il regno dei cieli; ma lì si dice anche, chi può intendere, intenda! Sono certamente vani tutti gli uomini in cui non abita la conoscenza di Dio, e che partendo dalle cose che ci appaiono buone non hanno saputo trovare colui che è. Ma vano in questo senso io non lo ero più: m'ero sollevato al di sopra di quella condizione e nella testimonianza dell'universo creato avevo trovato te, nostro creatore, e il tuo Verbo, Dio presso di te e con te unico Dio, per cui mezzo hai creato ogni cosa. E c'è un altro genere di uomini irreligiosi, quelli che, pur conoscendo Dio, non lo glorificarono come Dio né gli resero grazie. Anche in questo errore ero incorso, ma la tua destra mi raccolse: mi levasti di là e mi posasti dove potessi guarire. Perché hai detto all'uomo: Ecco, temere Dio è sapienza, e: Non cercare di apparire sapiente, perché proclamandosi sapienti sono divenuti pazzi. E avevo ormai trovato la perla preziosa, e avrei dovuto vendere tutto quello che avevo per comprarla: ed esitavo.
[Visita a Simpliciano. La conversione di Vittorino]
2.3. Andai dunque a trovare Simpliciano, padre dell'allora vescovo Ambrogio per la grazia che questi ne aveva ricevuta, tanto che lo amava veramente come un padre. Gli raccontai del mio vizioso girovagare. Ma appena allusi alla mia lettura di alcuni libri di platonici, che Vittorino - già retore a Roma, e a quanto avevo appreso morto cristiano - aveva tradotto in latino, si congratulò con me che non mi fossi imbattuto negli scritti di altri filosofi, pieni di sofismi e illusioni in base ai principi di questo mondo, mentre in questi veniva suggerita in tutti i modi l'idea di Dio e della sua Parola. Poi, per incoraggiarmi all'umiltà di Cristo nascosta ai sapienti e rivelata ai piccoli, si mise a rievocare lo stesso Vittorino, che aveva conosciuto benissimo quando stava a Roma, e mi raccontò di lui particolari che non passerò sotto silenzio. Perché offre occasione di rendere grande lode alla tua grazia la storia di quel vecchio dottissimo, gran conoscitore di tutte le arti liberali, che aveva letto e meditato tante opere di filosofia, che era stato maestro di tanti senatori famosi, e anche per il prestigio del suo luminoso insegnamento aveva meritato e accettato che gli fosse dedicata una statua nel foro romano (premio veramente insigne per i cittadini di questo mondo). Quel vecchio era stato fino ad allora devoto agli idoli e coinvolto in cerimonie sacrileghe, nel fervore delle quali quasi tutta la nobiltà romana insufflava nel popolo il culto di Osiride e di ogni razza di strambi dei, come il latrante Anubi, i quali avevano preso le armi contro Nettuno e Venere e Minerva
tanto che Roma dopo averli vinti li supplicava. Questo vecchio Vittorino, che per tanti anni aveva tuonato in loro difesa, non s'era vergognato di farsi bambino di Cristo e infante alla tua fonte, di piegare il collo al giogo dell'umiltà e di chinare la fronte allo scandalo della croce.
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4. Mio Signore, Signore che hai inclinato i cieli per scendere quaggiù, che hai toccato i monti e li hai fatti fumare, per quali vie ti insinuasti in quel cuore? Leggeva, a detta di Simpliciano, le Sacre Scritture, e studiava con grandissima passione tutti i testi cristiani, e diceva a Simpliciano, non in pubblico ma in privato e in gran confidenza: "Lo sai che sono già cristiano". E quello ribatteva: "Non ci crederò e non ti conterò fra i cristiani finché non ti avrò visto nella chiesa di Cristo". Allora quello sorrideva: "Sono i muri dunque a fare i cristiani?" E lo diceva spesso, di essere già cristiano, e Simpliciano gli rispondeva ogni volta a quel modo e l'altro da capo con la sua battuta dei muri. In realtà temeva di dispiacere i suoi amici, quegli orgogliosi cultori del demonio, supponendo che dall'alto dei loro babilonici fasti, quasi cedri del Libano non ancora abbattuti dal Signore, gli sarebbe piombata addosso la loro ostilità. Ma poi dalle sue avide letture ricavò la fermezza necessaria, e il timore di essere respinto da Cristo di fronte agli angeli santi, se a sua volta avesse avuto paura di riconoscerlo di fronte agli uomini, e sentì che commetteva una colpa grave a vergognarsi dei sacri misteri dell'umiltà del tuo verbo, e a non vergognarsi delle cerimonie sacrileghe dei demoni superbi, che da superbo imitatore accettava; allora di colpo depose la sua reverenza per la vanità e arrossì di fronte alla verità, e all'improvviso piombò inaspettato da Simpliciano per dirgli, come lui stesso raccontava: "Andiamo in chiesa: voglio farmi cristiano". E quello, che non stava più in sé dalla gioia, ve lo accompagnò. Là ricevette la prima iniziazione ai sacri misteri, e non molto tempo dopo diede il suo nome per essere rigenerato col battesimo, mentre Roma guardava stupefatta e la chiesa esultava. I superbi andavano su tutte le furie a quella vista, digrignavano i denti e si rodevano. Ma il tuo servo aveva il signore Dio per sua speranza e non guardava quei vani e bugiardi deliri.
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5. Venne infine il momento della professione di fede. Che a Roma è d'uso sia resa da coloro che stanno per accedere alla tua grazia con le parole di una formula fissa e appresa a memoria, da un luogo ben visibile, davanti alla massa dei fedeli. A Vittorino, a quanto pare, i preti avevano offerto di fare la sua dichiarazione a porte chiuse, secondo la possibilità offerta come di consueto a quei pochi che la loro riservatezza esponeva a una crisi di panico. Ma lui aveva preferito professare la sua salvezza di fronte a quella santa folla. Perché non era la salvezza quella che insegnava dalla sua cattedra di retorica, eppure l'aveva professata in pubblico. A maggior ragione non doveva aver paura di pronunciare di fronte al tuo gregge mansueto la tua parola, uno che pronunciava senza paura le sue proprie di fronte a pubblici deliranti. E così mentre saliva per fare la sua professione, il suo nome corse in un mormorio di approvazione fra i presenti che lo conoscevano, passando di bocca in bocca. Ma chi non lo conosceva, a Roma? E un sommesso grido di gioia risuonò sulle labbra di tutti: "Vittorino, Vittorino!" Si levò dalla folla improvviso questo grido di giubilo alla sua vista, e altrettanto improvviso fu il silenzio con cui la folla si dispose ad ascoltarlo. Con luminosa sicurezza egli recitò la sua professione di vera fede, e ciascuno avrebbe voluto portarselo via, nel proprio cuore. E se lo presero infatti, con mani d'amore e di gioia, mani rapaci.
[Sul valore di ciò che era perduto]
3.6. Buon Dio, che cosa c'è nell'uomo, che lo fa più felice quando un'anima già data per perduta si salva e viene liberata da un pericolo più grande, che quando non aveva mai smesso di sperare e il pericolo era minore? E anche tu, padre misericordioso, gioisci più di un solo uomo che si pente che di novantanove giusti che non hanno bisogno di pentirsi. E anche noi proviamo una grande allegria ogni volta che ascoltiamo raccontare quanto erano felici le spalle del pastore che riportava a casa la pecora smarrita, e come fra le congratulazioni delle vicine la dracma perduta dalla donna sia riposta di nuovo fra i tuoi tesori, e ci fa piangere di gioia la festa della tua casa, ogni volta che nella tua casa leggiamo del tuo figlio minore che era morto ed è tornato a vivere, era perduto ed è stato ritrovato. Certo è in noi che tu gioisci, e nei tuoi angeli accesi di amore sacro: perché tu sei sempre uguale a te stesso, e le cose che non sono eterne e non sono sempre nello stesso stato tu sempre tutte e allo stesso modo le conosci.
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7. Cosa c'è dunque nell'anima, che le fa provare per le cose amate e ritrovate o restituite una gioia maggiore che se le avesse sempre conservate? Ogni altra cosa lo attesta, il mondo è pieno di testimoni che affermano: "È così". Trionfa il generale vittorioso, e non avrebbe vinto se non avesse combattuto, e quanto maggiore è stato il pericolo in battaglia tanto maggiore è la gioia del trionfo. Travolge i naviganti la tempesta, e minaccia il naufragio: e tutti impallidiscono in faccia alla morte: il cielo e il mare si rasserenano, e troppa esultanza nasce da troppa paura. Si ammala chi ci è caro e il suo polso rivela che sta male: tutti quelli che lo vorrebbero salvo s'ammalano con lui nel loro cuore: si rimette e ancora non si regge in piedi con la forza di prima, e ne nasce una gioia che non esisteva quando era ben salvo e saldo sulle gambe. E gli stessi piaceri della vita ce li si guadagna al prezzo di fastidi non soltanto imprevisti e involontari, ma addirittura procurati ad arte e volontari. Il piacere di mangiare e bere si riduce a niente se non è preceduto dal fastidio della fame e della sete. I buoni bevitori stuzzicano la sete con qualche spuntino salato, per provocare una fastidiosa arsura, nell'estinguere la quale sta il piacere della bevuta. E si è perfino stabilita l'usanza di non consegnare subito la sposa già promessa, perché il marito l'apprezzerebbe meno, se da fidanzato non avesse dovuto sospirarla un po'.
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8. Così è delle gioie brutte e riprovevoli, così di quelle consentite e lecite, così perfino della più schietta e nobile amicizia, così di colui che era morto ed è tornato a vivere, era perduto ed è stato ritrovato: sempre la gioia è tanto maggiore quanto più grande è il disagio che la precede. Cos'è mai, mio Signore Dio, se tu stesso sei, nella tua eternità, la gioia, e ci sono creature intorno a te per le quali sei fonte di godimento eterno? Cos'è questa alternanza di declino e ascesa, di contese e accordi che vige in una parte della natura? O forse è questo appunto il limite che le hai assegnato, e la sorte che hai dato a ogni cosa, quando dal sommo dei cieli alle profondità della terra, dal principio alla fine dei secoli, dall'angelo al vermiciattolo, dal primo moto all'ultimo hai insediato al suo posto ciascuna sorta di valori e hai attuato le tue giuste opere ciascuna a suo tempo. Ah, come sei alto sopra le altezze e profondo oltre ogni abisso! Eppure non arretri di un passo da noi, e a fatica noi torniamo a te.
4.9. E allora agisci tu signore, fatti per noi risveglio e richiamo e incendio e rapimento e soave profumo... amiamo, corriamo. Non sono in molti a ritornare a te da un Tartaro di cecità profondo più di quello dov'era Vittorino? Eppure si avvicinano e restano inondati dalla luce con cui ricevono da te il potere di diventare figli tuoi. Ma se non sono molto noti alle folle anche la gioia di chi li conosce è minore. Una gioia condivisa da molti, anche nei singoli è più prorompente, perché ci si eccita ed esalta a vicenda. E poi perché chi è noto ha influenza su molti come guida alla salvezza, e molti lo seguiranno sulla stessa via: il che procura una gioia più grande a quelli che lo hanno preceduto, perché non solo per lui si rallegrano. Non già che nella tua tenda i ricchi vengano accolti a preferenza dei poveri, o i notabili della gente oscura: anzi, semmai tu hai scelto ciò che nel mondo è debole per confondere le cose forti, ciò che nel mondo è oscuro e disprezzabile e stimato da nulla, come non esistesse, per toglier peso a ciò che esiste. E tuttavia perfino quell'ultimo fra i tuoi apostoli, che hai usato per dar voce a queste parole, una volta che con le sue stesse armi ebbe abbattuta la superbia del proconsole Paolo e lo ebbe fatto passare sotto il giogo lieve del tuo Cristo - e ridotto a semplice suddito di un grande re - perfino lui volle chiamarsi Paolo da Saulo che era, in segno di una così grande vittoria. Perché più il nemico ci domina, e più prigionieri si prende, maggiore è la sua sconfitta. Tanto più se con il prestigio della notorietà conquistava più gente superba, e da questi ricavava il prestigio dell'autorità per fare prigionieri ancora più numerosi. Tanto maggiore era la gratitudine che accompagnava il pensiero di Vittorino, del suo cuore che il diavolo aveva occupato come un presidio inespugnabile, della sua lingua, quella gran freccia acuminata che aveva già colpito molti a morte. E tanto più abbondante doveva essere l'esultanza dei tuoi figli, perché il nostro re aveva incatenato un forte, e si vedeva il bottino dei suoi vasi ripulito e reso adatto a renderti onore, a servire il Signore per ogni opera buona.
[Il conflitto della volontà]
5.10. Ma quando quell'uomo tuo, Simpliciano, finì di raccontarmi la storia di Vittorino, mi sentii bruciare dalla voglia di emularlo: non ad altro fine, del resto, me l'aveva raccontata. Ma quando poi aggiunse che secondo la legge promulgata al tempo dell'imperatore Giuliano era proibito ai cristiani insegnare letteratura e oratoria, e Vittorino s'era inchinato a questa legge, e aveva preferito abbandonare la scuola della chiacchiera piuttosto che la tua Parola, che rende persuasiva la lingua degli infanti, la sua fortuna mi parve grande quanto la sua forza d'animo, perché aveva trovato l'occasione di essere libero per te soltanto. Stato per cui io sospiravo, benché non fosse una catena estranea quella che mi stringeva, ma solo la mia volontà di ferro. Il nemico occupava il mio volere e ne aveva fatto una catena con cui costringermi. Già, dalla rivolta della volontà nasce il capriccio e questo a furia d'essere obbedito si fa abitudine, e a furia di non resistere alla abitudine si crea una necessità. Era una dura schiavitù che con questa sorta di anelli fra loro connessi - perciò ho parlato di una catena - mi vincolava fino a soffocarmi. E la volontà nuova, appena nata, per cui desideravo offrirti un culto disinteressato, e godere di te, Dio, sola allegria sicura, non era ancora in grado di battere l'antica, rafforzata dagli anni. Così le mie due volontà, una antica e l'altra nuova, una della carne e l'altra dello spirito lottavano, e nella loro discordia mi dissipavano l'anima.
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11. Ero così a me stesso la prova d'esperienza per intendere quel che avevo letto: come i desideri della carne siano contro lo spirito, e quelli dello spirito contro la carne. Certo ero sempre io, nell'una e nell'altro: ma ero più io in quello che approvavo, che in quello che disapprovavo in me. Là anzi non ero già più io, perché in gran parte il mio era un subire contro la mia volontà più che un fare volontario. Tuttavia l'abitudine era per mia colpa divenuta più tenace nel darmi contro, perché era per mia volontà che ero arrivato dove non avrei voluto. E chi a buon diritto si sarebbe opposto alla giusta pena che seguiva il peccato? E poi non c'era più la scusa di prima, quando potevo convincermi che ancora esitavo a respingere il mondo per servire te perché la percezione che avevo della verità era incerta: ormai anche questa era certa. Ma io, ancora avvinto com'ero alla terra, rifiutavo di arruolarmi al tuo servizio, e la paura che bisogna avere d'essere impediti, io l'avevo d'esser liberato dagli impedimenti.
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12. E così il carico del secolo mi pesava addosso dolce come il sonno, e i pensieri che nelle mie meditazioni rivolgevo a te erano simili agli sforzi di uno che tenta di svegliarsi, e di nuovo viene sopraffatto e scivola nelle profondità del sonno. Non c'è nessuno che voglia dormire per sempre, e se non ha perduto il senno uno preferisce la veglia, eppure l'uomo spesso rinvia il momento di riscuotersi dal sonno, quando le membra sono pesanti per il torpore, e tanto maggiore è il piacere di soccombergli anche se non si vorrebbe ed è già ora di alzarsi. Allo stesso modo io ero ben certo che fosse meglio rassegnarmi al tuo amore che consegnarmi alle mie voglie - ma se la prima cosa l'apprezzavo fino a esserne convinto, l'altra mi appassionava, e ne ero avvinto. Non avevo risposta alle tue parole: alzati tu che dormi e risorgi dai morti, e Cristo ti illuminerà, e mentre in mille modi mi mostravi la verità di quelle parole, io convinto com'ero non trovavo di meglio che uscire in lenti e sonnolenti "Adesso", "sì, adesso", "ancora un momentino"... Ma gli "adesso, adesso" non finivano mai, e il momentino andava per le lunghe. Invano l'uomo interiore si rallegrava della tua legge, quando un'altra legge, nel corpo, si opponeva a quella della mente, e mi trascinava prigioniero sotto la legge del peccato, iscritta nel mio corpo. Perché la legge del peccato è la forza dell'abitudine, che domina il cuore e lo trascina anche suo malgrado, e meritatamente, perché è per suo volere che se ne è fatto prendere. Infelice che ero: chi mi avrebbe liberato da questo corpo di morte se non la tua grazia attraverso Gesù Cristo, il nostro signore?
6.13. E narrerò come tu m'abbia liberato dalla catena del desiderio sessuale, che mi stringeva fortissima, e dalla schiavitù delle occupazioni mondane, e canterò lode al tuo nome, mio sostegno e mia salvezza. Facevo le solite cose con ansia crescente, e ogni giorno levavo i miei sospiri verso di te e frequentavo la tua chiesa, per quanto me lo consentivano quelle occupazioni che mi facevano gemere sotto il loro peso. Era con me Alipio, libero dall'attività giuridica dopo il terzo assessorato, e in attesa di clienti cui vendere le sue consulenze, così come io vendevo l'eloquenza, ammesso che la si possa insegnare. Nebridio invece s'era lasciato convincere dalla nostra amicizia ad aiutare nell'insegnamento Verecondo, intimo di noi tutti, che a Milano abitava e teneva scuola di grammatica, e ne aveva un vivo desiderio, tanto da richiederci insistentemente in nome dell'amicizia qualcuno del nostro gruppo, che fosse per lui quell'assistente fidato di cui aveva tanto bisogno. Non fu dunque un desiderio interessato ad attrarre Nebridio in quella posizione - vantaggi anche maggiori in effetti avrebbe potuto ricavare dai suoi studi letterari - ma il dovere dell'affetto: da quell'amico dolcissimo e infinitamente arrendevole che era, non volle rifiutarci un favore. Sbrigava l'incarico con grande avvedutezza, guardandosi bene dal farsi notare dai personaggi in vista secondo questo mondo: e così facendo evitava anche ogni inquietudine del cuore, che voleva avere libero e disimpegnato per il maggior numero possibile di ore al giorno, per fare qualche ricerca intorno alla sapienza, o leggere o sentir parlare in proposito.
[I racconti di Ponticiano. Antonio del deserto]
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14. Un giorno - Nebridio non c'era, non ricordo perché - viene a trovarci, Alipio e me, un certo Ponticiano, nostro concittadino, un africano, che aveva una posizione molto importante a palazzo. Ci mettemmo a sedere per fare un po' di conversazione. E per caso sopra un tavolo da gioco che avevamo davanti notò un codice: lo prese, lo aprì e trovò l'Apostolo Paolo. Con sua grande sorpresa, perché pensava fosse uno dei testi che mi consumavo a spiegare nelle mie lezioni. Allora sorrise e mi guardò negli occhi e si congratulò con me: pieno di meraviglia per essersi improvvisamente reso conto che avevo sempre sott'occhio quello scritto, e solo quello. Era cristiano e battezzato, e spesso si prosternava in chiesa davanti a te, Dio nostro, con fitte e prolungate preghiere. Allora gli dissi che dedicavo a quei testi i miei studi più attenti, e fu così che iniziò la conversazione. Lui si mise a raccontare di Antonio, il monaco egiziano, il cui nome godeva di altissima fama presso i tuoi servi, ma che a noi era fino a quel momento ancora ignoto. Quando se ne rese conto, indugiò su quell'argomento, per istruirci un po' su quel grand'uomo, stupito della nostra stessa ignoranza. E anche noi eravamo stupefatti nell'apprendere le tue meraviglie nella vera fede e nella chiesa cattolica, tanto bene attestate da una tradizione così recente, quasi a noi contemporanea. Tutti eravamo meravigliati: noi, perché erano così grandi, lui, perché ci erano ignote.
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15. Allora si mise a parlare delle schiere di monaci dalla vita che distilla il tuo profumo e dei loro fecondi deserti di eremiti, di cui non sapevamo nulla. Perfino a Milano, fuori le mura, c'era un monastero pieno di buoni fratelli, mantenuto da Ambrogio, e non lo sapevamo. Continuava a parlare, sempre più infervorato, e noi muti, ad ascoltarlo. Così venne a dire che un giorno si trovava a Treviri con altri tre suoi colleghi, e mentre l'imperatore se ne stava a vedere i circensi, durante lo spettacolo pomeridiano, erano usciti a passeggio nei giardini adiacenti alle mura. E lì mentre casualmente passeggiavano a due a due, uno con lui, gli altri due insieme, le due coppie si persero di vista. Gli altri due continuando a girovagare si imbattono in una capanna dove abitavano dei servi tuoi poveri di spirito, quelli ai quali appartiene il regno dei cieli, e vi trovarono un libro in cui era scritta la vita di Antonio. Uno di loro cominciò a leggerla e ne restò ammirato, anzi se ne innamorò a tal punto che mentre leggeva già meditava di darsi a quella vita e di lasciare la carriera secolare per dedicarsi al tuo servizio. Erano, quei due, funzionari dell'amministrazione. Allora, preso da un improvvisa passione divina e da un'ira contro se stesso che era fatta di sobria vergogna, sbarrò gli occhi sull'amico: "Dimmi, ti prego, dimmi dove vogliamo arrivare con tutte queste nostre fatiche? Che cosa cerchiamo? Qual è la causa che serviamo? Potremmo avere speranza più grande a palazzo, che di essere un giorno amici dell'imperatore? E comunque che cosa c'è che non sia precario e azzardato in questa carriera? E quanti pericoli non bisogna attraversare per arrivare a uno anche più grande? E quando verrà quel giorno? Amico di Dio, invece, se voglio lo divento subito, ecco!" Parlava, e nel travaglio di far nascere questa vita nuova tornò con gli occhi alle pagine: e leggeva e si trasformava nell'intimo, dove tu lo guardavi, e la sua mente si spogliava del mondo, come poco dopo si vide. Mentre leggeva rotolando con le onde del cuore ebbe un brivido, e vide il meglio e decise. Era già tuo. "Io ho rotto ormai con quella nostra speranza," dice all'amico, "e ho deciso di servire Dio, e a partire da questo momento. Comincio in questo luogo. Se non hai voglia di imitarmi, almeno non mi ostacolare". L'altro rispose che lo seguiva, per condividere una ricompensa e una carriera così grandiose. Erano entrambi tuoi. E già costruivano la torre: al giusto prezzo di abbandonare ogni loro bene per seguire te. A quel punto Ponticiano e l'amico che passeggiava con lui da un'altra parte del giardino, a furia di cercarli capitarono nello stesso luogo e ve li trovarono, e li esortavano a tornare, perché il giorno ormai tramontava. Ma quelli, dopo aver raccontato della decisione che avevano presa per il futuro, e del modo in cui era nata e si era affermata in loro quella volontà, li pregarono di non esser loro di impedimento, se pure non volevano essere della partita. E questi, pur persistendo nella vita di prima, piansero tuttavia sopra se stessi, diceva Ponticiano, e si rallegrarono devotamente con loro e si raccomandarono alle loro preghiere, e trascinando il cuore in terra tornarono a palazzo: mentre quelli rimasero nella capanna, fissando il cuore al cielo. Entrambi erano fidanzati: e quando seppero dell'accaduto, anche le loro promesse spose ti dedicarono la loro verginità.
[Esasperazione del conflitto interiore]
7.16. Questo il racconto di Ponticiano. Ma tu, Signore, mentre parlava mi torcevi su me stesso, mi strappavi da dietro le mie spalle, dove m'ero rifugiato per non guardarmi in faccia, e mi denunciavi ai miei stessi occhi, perché lo vedessi, quant'ero brutto, torto e sordido, butterato e piagato. E io vedevo e ne provavo orrore, e non trovavo scampo da me stesso. E se tentavo di distogliere lo sguardo da me stesso, Ponticiano era sempre lì e parlava, parlava e tu di nuovo mi mettevi di fronte a me stesso e mi cacciavi sotto i miei occhi, perché scoprissi la mia malvagità e l'odiassi. La conoscevo: ma me la dissimulavo, ne reprimevo l'idea e ne rimuovevo il ricordo.
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17. Ma ora più ardente era l'amore che sentivo per i due protagonisti dell'esperienza di salvezza che avevo appena sentito narrare, e più intenso era l'odio che provavo per me confrontandomi a loro, che per la loro guarigione si erano totalmente affidati a te. Mentre molti anni della mia vita erano scivolati via con me - forse dodici - da quando a diciott'anni avevo letto l'Ortensio di Cicerone e ne ero stato risvegliato alla filosofia, e ancora non mi decidevo a liberarmi, a trovare il tempo per ricercare, nel disprezzo della felicità terrena, la sapienza: quando questa semplice ricerca - per non parlare della sua scoperta - già era da preferire alla scoperta di tesori e regni, o di una marea di piaceri sensuali tutt'intorno crescente, a un solo cenno... Ma l'infelice ragazzo che ero, infelice già sulla soglia della giovinezza, te l'aveva pur chiesta la castità. Sì : "Dammi la castità e la continenza, ma non subito", dicevo. Avevo paura che tu mi esaudissi troppo presto, e troppo presto mi guarissi dal male del desiderio, che preferivo vedere soddisfatto piuttosto che estinto. E andavo per le male vie di una falsa religiosità, non perché fosse per me una certezza, ma per farmene schermo in qualche modo a tutte le altre fedi: che non interrogavo con devozione, ma polemicamente attaccavo.
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18. E avevo creduto che la ragione per cui differivo di giorno in giorno la rinuncia alle speranze del secolo e la decisione di seguire te soltanto fosse che non vedevo nulla di certo, per orientarmi nel cammino. Ed era venuto il giorno che mi spogliava nudo di fronte a me stesso, mentre la mia coscienza gridava a gran morsi: "Dov'è la tua lingua? Non dicevi che era l'incertezza a impedirti di liberarti dal carico delle nullità? Guarda, adesso la verità è certa, e tu lo porti ancora addosso: a spalle più libere delle tue spuntano le ali, eppure non si sono consumate a questo modo nella ricerca e non hanno passato dieci e più anni curve a meditarci su!" Così mi rodevo nell'intimo, in uno spaventoso marasma di confusione e vergogna, mentre Ponticiano faceva questo suo racconto. Finito che ebbe di parlare e sbrigata la faccenda per cui era venuto, se ne andò, e io tornai a me stesso. Che cosa non dissi contro di me? Che frustate di parole risparmiai a quest'anima, perché mi seguisse nei miei sforzi di tenerti dietro? E resisteva, ricusava e non si scusava. Tutti gli argomenti erano consumati e confutati. Le restava un tremito silenzioso, il terrore che aveva - come si teme la morte - d'esser sottratta al corso dell'abitudine che la consumava a morte.
[Crisi finale. In giardino]
8.19. Allora nel mezzo di quella rissa violenta che nella mia casa interiore avevo ingaggiato con l'anima qui nella stanza più segreta, il cuore, con la faccia e la mente sconvolte, irrompo da Alipio: "Non se ne può più!" grido. "Cos'è che si sente? Gli ignoranti si alzano e ci rubano il cielo, e noi con tutta la nostra erudizione senz'anima, guardaci qui, a rivoltarci nella carne e nel sangue! Cos'è, vergogna di andargli dietro la nostra, di non essere i primi? E non ci vergognamo a non seguirli neppure?" Cose del genere dissi, e poi la piena del cuore mi strappò via da lui, che mi fissava attonito, in silenzio. Neppure la mia voce era più la stessa. E più che le parole era la fronte, erano gli occhi e la faccia, il suo colore, il tono della voce a dire quello che provavo. La nostra casa aveva un piccolo giardino, di cui avevamo l'uso come di tutto il resto, perché il nostro ospite, il padrone di casa, non abitava lì. Là mi spinse quella sommossa del cuore, dove nessuno avrebbe posto freno alla furiosa lite che avevo ingaggiato con me stesso, finché avesse il suo esito: che tu conoscevi, io no. Io stavo semplicemente impazzendo per salvarmi e morivo per vivere. Sapendo cos'ero di male e ignorando cosa sarei divenuto di buono poco dopo. Mi rifugiai in giardino, dicevo, e Alipio dietro, passo dopo passo. Non c'era alcuna indiscrezione nella sua presenza, e poi come avrebbe potuto lasciarmi solo in quello stato. Ci sedemmo il più lontano possibile dalla casa. Io fremevo nell'intimo, sdegnato fino al furore più incontenibile, per non riuscire a venire incontro a te, al tuo piacere come alla tua alleanza, Dio mio, quando tutte le mie ossa gridavano sì e li esaltavano fino al cielo. Non era un viaggio con navi o quadrighe, e neppure a piedi, non richiedeva neppure quei pochi passi che separavano da casa il luogo dove eravamo seduti. Perché non solo l'andare, ma anche l'arrivare là non era altro che voler andare: ma volere con forza e integralmente, non coi rigiri e le impennate di una volontà mezzo acciaccata dalla lotta, una volontà che si rialza da una parte per crollare dall'altra.
[Il paradosso della volontà]
- 20. Insomma fra i marosi dell'indecisione mi trovavo a fare tutti i gesti caratteristici della volontà impotente, che gli uomini a volte sperimentano o perché privati di qualche loro membro, o perché legati o estremamente indeboliti o in qualche modo impediti. Se mi strappai i capelli, se mi battei la fronte, se mi abbracciai le ginocchia con le dita intrecciate, lo feci di mia volontà. Ma avrebbe anche potuto accadere che volessi senza riuscirci, se non fossi stato assecondato dalla mobilità degli arti. Dunque compii molte azioni per le quali volere non è potere: e non facevo quello che mi sarebbe stato incomparabilmente più caro, e che appena avessi voluto avrei potuto fare: perché appena avessi voluto avrei senza dubbio voluto. In quel caso infatti aver volontà era lo stesso che aver facoltà, e lo stesso volere era già fare; eppure non si faceva. Ed era più facile al corpo obbedire alla volontà dell'anima, per debole che fosse, e far muovere gli arti a un solo cenno, che all'anima obbedire a se stessa, alla sua propria volontà intensissima, per realizzarla semplicemente volendo.
9.21. Come nasce questo paradosso? E perché? Accendi il sole della compassione, e io lo chiederò ai recessi del dolore umano, al buio folto, avvilito in cui s'aggirano i figli di Adamo. Chissà che non mi possano rispondere. Come nasce questo paradosso? E perché? Comanda al corpo, la mente, e viene subito obbedita: comanda a se stessa, e incontra resistenza. La mente ordina alla mano di muoversi, e la cosa è così presto fatta che a fatica si distingue il comando dal servizio: e la mente è mente, la mano è corpo. La mente ordina di volere alla mente: non è altra cosa, eppure non lo fa. Come nasce questo paradosso? E perché? Chi ordina di volere non l'ordinerebbe se non volesse: eppure non esegue l'ordine. Ma il fatto è che non vuole del tutto: e perciò non comanda del tutto. Perché in tanto comanda, in quanto vuole, e in tanto il comando non viene eseguito, in quanto non vuole. Infatti la volontà comanda proprio che la volontà ci sia, e sia quella, non un'altra. Dunque non è già tutta intera a comandare: e per questo il suo comando non viene eseguito. Se fosse tutta intera, non comanderebbe di essere, perché già sarebbe. Non è dunque un paradosso volere in parte e in parte non volere, ma è una malattia della mente, che la verità solleva ma non fa alzare del tutto, accasciata com'è sotto il peso dell'abitudine. E perciò ci sono due volontà, perché nessuna è tutta intera, e ciò che ha l'una manca all'altra.
[Natura di ogni scissione interiore]
10.22. Siano spazzati via dalla tua vista, Dio, come i ciarlatani e i seduttori della mente, quelli che si rendono conto, sì, della presenza di due volontà nel corso di una deliberazione, ma affermano l'esistenza di due menti distinte per natura, una buona, l'altra maligna. Loro sì sono maligni, malpensanti come sono. Come saranno buoni essi stessi, ritrovando il senso della verità e solo a questa accordando il consenso. Allora anche di loro potrà dire il tuo Apostolo: Un tempo foste tenebre, e ora siete luce nel Signore. Già: vogliono esser luce non nel Signore ma in se stessi, perché ritengono che l'anima sia fatta della sostanza di Dio: e così diventano tenebre più fitte, via via che la loro arroganza spaventosa li allontana da te. Da te, vero lume che illumina ogni uomo venuto a questo mondo. Fate attenzione a ciò che dite e vergognatevi: e accostatevi a lui, sarete illuminati e i vostri volti non arrossiranno. Mentre deliberavo se mettermi finalmente al servizio del mio Signore, come da un pezzo progettavo di fare, ero io a volere, io a non volere: io, sempre io. Non ero tutto nel volere e non ero tutto nel non volere. Per questo lottavo con me stesso e da me stesso mi spaccavo, e questa spaccatura avveniva senza dubbio mio malgrado: ma non per questo rivelava la sostanza di una mente estranea, bensì la pena della mia. E in questo senso non ero io a produrla, quella spaccatura, ma il peccato che abitava in me dalla condanna di un peccato più libero, perché ero figlio di Adamo.
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23. Infatti se ci sono tante nature contrastanti quante sono le volontà contrapposte, non ce ne saranno due, ma molte. Supponiamo che uno stia deliberando se recarsi a un loro convegno oppure a teatro: subito si mettono a gridare: "Eccole le due nature, una buona che porta qui, l'altra cattiva che spinge là". Ma io le chiamo cattive tutt'e due, quella che porta da loro quanto quella che spinge a teatro. Essi però non possono credere che non sia buona quella per cui si va da loro. Bene, allora supponiamo che sia uno dei nostri a deliberare e nell'alterco di due volontà contrastanti oscilli nel dubbio se recarsi a teatro o alla nostra chiesa. Non saranno anche loro in dubbio, adesso, sulla risposta da dare? Perché o dovranno ammettere, e non vogliono, che è buona la volontà di recarsi alla nostra chiesa, almeno se ci si va come quelli che sono stati iniziati ai suoi sacri riti e vi partecipano; oppure dovranno credere che in un solo uomo si combattano due cattive nature e due cattive menti, e non sarà più vera la loro tesi solita, che una è buona e l'altra cattiva. O infine si convertiranno alla verità e smetteranno di negare che nel corso di una deliberazione sia un'anima sola a dibattersi fra volontà diverse.
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24. E allora quando si avvedono che in un uomo solo si combattono due avverse volontà la smettano di dire che si tratta di una lotta fra due opposte menti, fatte di opposte sostanze e originate da opposti principi, una buona e l'altra cattiva. Perché sei tu, Dio di verità, a condannarli, riprovarli e confutarli. Prendiamo il caso di due volontà entrambe maligne, come quando uno delibera se uccidere un uomo col veleno o con la spada, se occupare questo o quel terreno altrui, dato che non può prenderseli entrambi, se comprarsi il piacere per la lussuria o serbare il denaro per l'avarizia, se andare al circo o a teatro quando entrambi danno spettacolo lo stesso giorno; o - aggiungiamo pure una terza possibilità - se andare a rubare in casa altrui, dato che se ne presenti l'occasione; oppure - aggiungiamone una quarta - a commettere adulterio, se anche da quella parte, contemporaneamente, gliene è data la possibilità. Ora, se tutte queste alternative si presentano insieme nello stesso momento e sono tutte egualmente desiderate, e d'altra parte non è possibile attuarle tutte simultaneamente, ci saranno quattro volontà contrastanti a straziare un'anima, o anche di più data la quantità di cose che la gente desidera. Eppure quelli non arrivano a sostenere che ci sia un così gran numero di sostanze diverse. Analogamente per le volontà buone. Chiedo loro se sia bene intrattenersi con la lettura dell'Apostolo, e con quella di un salmo devoto, e se sia bene ragionare sul Vangelo. A ciascuna domanda risponderanno di sì. E allora? Se tutte queste alternative piacciono ugualmente e si offrono contemporaneamente, non si disperderà, il cuore dell'uomo, in diverse volontà, mentre delibera su cosa intraprendere prima di tutto? E sono tutte buone queste alternative e sono in competizione, finché ne venga scelta una, che riporti a una sola volontà intera quella che era divisa in molte. Così, essendo l'eternità un'attrattiva superiore, e il piacere di un bene terreno pur sempre attraente benché inferiore, la stessa anima si trova a volere - ma non del tutto - ora questo ora quella, e quindi si sente dilaniare dall'angoscia se la verità si oppone a ciò che l'abitudine le impone.
[Il parossismo dell'indecisione]
11.25. Così mi torturava la malattia e accusavo me stesso molto più aspramente del solito, rigirandomi e dibattendomi nel groviglio che mi stringeva per finire di strapparlo, perché ormai era tenue la sua stretta. Tuttavia stringeva ancora. E tu incombevi nelle mie profondità segrete, Signore, con severa tenerezza raddoppiando le frustate di paura e di vergogna, perché non cedessi un'altra volta a quel legame debole e sottile che era rimasto invece di spezzarlo: si sarebbe rinforzato allora, e più forte sarebbe stata la sua presa su di me. Dicevo fra me e me: "Sì, adesso, adesso è tempo", e a parole ormai m'avviavo a decidere. E quasi agivo, e ancora non agivo: e tuttavia non ricadevo indietro al punto di prima, ma mi fermavo appena un passo indietro, a prender fiato. Ancora uno sforzo, mancava poco, mancava poco e c'ero, ero lì lì per farcela, arrivavo... e non c'ero, no, non ce la facevo, non ci arrivavo. Non mi decidevo a morire alla morte, a vivere alla vita. Il peggio incancrenito aveva più potere su di me del meglio ignoto: e il punto stesso del tempo, in cui io sarei stato un'altra cosa, più mi si avvicinava e più mi faceva terrore. Eppure non potevo fuggire e ritornare indietro: restavo sospeso.
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26. A trattenermi erano le più vacue frivolezze e vanità di vanità, mie vecchie amiche, che mi tiravano per la veste di carne e sussurravano di sotto in su: "Non vorrai lasciarci?" e "D'ora in poi non staremo più con te, mai più!" "D'ora in poi non potrai più fare questo e quello, mai più!" E che insinuazioni sotto ciò che ho chiamato "questo e quello", che insinuazioni, mio Dio! La tua pietà le rimuova dall'anima del tuo servo. Che cose sordide, laide! Ma io le udivo ormai a metà o molto meno: non mi venivano incontro con le loro obiezioni a viso aperto, ma bisbigliavano dietro le spalle come stuzzicandomi furtivamente, perché mi voltassi a guardare mentre fuggivo. Per colpa loro però mi attardavo, ed esitavo a strapparmele, a scuotermele di dosso e a volare in un salto là dove ero chiamato, mentre l'abitudine con tutta la sua forza insisteva: "E pensi di poterne fare a meno?"
[Una figura lieve e sorridente]
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27. Ma ormai parlava senza più calore. Ormai da quella parte a cui guardavo e fremevo di passare qualcuno mi si stava rivelando: era la sobria distinzione della Continenza, con il suo sorriso luminoso e discreto, e il cenno carezzevole e il contegno con cui pareva invitarmi a venire da lei senza esitare più. E protendeva verso me devote mani, quasi a ricevermi e abbracciarmi, piene di buoni esempi, a grappoli. Tanti bambini e bambine, e poi ragazzi e giovani e gente d'ogni età, e vedove posate e antiche vergini: e in tutti questi la continenza non era affatto sterile, ma generava figli di gioia da te, Signore, loro sposo. E il suo sorriso era insieme di invito e d'ironia, quasi dicesse: "Non avresti il potere che hanno questi ragazzi, queste donne? E loro lo trovano in se stessi, e non nel loro Dio e Signore? Il loro Dio e Signore me li ha dati. Perché ti tieni a te stesso, e non ti contieni? Gettati in lui, senza paura: non si ritirerà perché tu cada! Gettati senza angoscia, ti accoglierà e tu sarai guarito". E la vergogna mi faceva paonazzo, perché intanto continuavo a udire il sussurro di quelle fantasticherie, ed ero ancora esitante, sospeso. E lei di nuovo pareva riprendere a parlare: "Fatti sordo alla voce impura del tuo corpo sopra la terra, per mortificarlo. Ti parlano del piacere, ma non conforme alla legge del tuo Dio e Signore." Questa controversia era tutta nel mio cuore, c'ero soltanto io contro me stesso. Alipio, immobile al mio fianco, attendeva in silenzio l'esito della mia inusitata agitazione.
12.28. Quando da un fondo arcano la profonda meditazione ebbe scavata tutta la mia tristezza e l'ebbe accumulata sotto gli occhi del cuore, una tempesta si scatenò violenta, e greve d'un diluvio di lacrime. E mi levai, perché fluisse libero e alto il suono di quel grande pianto. Ma il pianto consigliava solitudine, e mi scostai da Alipio di quel tanto che bastava perché la sua presenza non mi fosse gravosa. Io ero in quello stato, e lui se ne rendeva conto: forse perché sentiva in qualche mia parola una voce già carica di pianto. Rimase dunque dove eravamo seduti, muto di meraviglia. Io mi trovai non so come disteso sotto un albero di fico, e diedi libero sfogo alle lacrime, due fiumi in piena nel cavo degli occhi, come un'offerta che forse apprezzavi. E a lungo ti parlai, se non con queste esatte parole, in questo spirito: E tu, Signore, fino a quando? E durerà per sempre la tua ira, Signore? Non ricordare le colpe degli avi! Perché sentivo che eran quelle a possedermi. Rompevo in poveri singhiozzi: "Quanto tempo ancora, per quanto tempo 'domani e domani'? Perché non oggi, perché non adesso farla finita con questa abiezione?"
[Una canzone infantile]
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29. Così parlavo e piangevo, il cuore a piombo nella tristezza più amara. Ed ecco all'improvviso dalla casa vicina il canto di una voce come di bambino, o di bambina forse, lenta cantilena: "Prendi e leggi, prendi e leggi"... Mutai subito in volto e mi raccolsi in uno sforzo estremo di ricordare se in un qualche gioco di ragazzi c'era una cantilena come quella, e non mi sovveniva affatto d'aver udito mai niente del genere: e allora soffocai il mio pianto e mi levai in piedi. Non altro, interpretai, era il comando divino, che di aprire un libro e leggere il primo capoverso che trovassi. Così sapevo di Antonio che sopraggiungendo per caso durante una lettura del Vangelo si sentì personalmente chiamato, come si rivolgessero proprio a lui quelle parole: Vai, vendi tutte le cose che hai, dalle ai poveri e avrai un tesoro nei cieli: e poi vieni, seguimi. E quella voce divina l'aveva immediatamente indotto a convertirsi a te. Così tornai con emozione grande al luogo dove era seduto Alipio: era lì infatti che avevo posato il libro dell'Apostolo, alzandomi. Lo afferrai e lo apersi e in silenzio lessi il primo passo sul quale mi caddero gli occhi: Non piú bagordi e gozzoviglie, letti e lascivie, contese e invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non fate caso alla carne e ai suoi desideri. Non volli leggere oltre e neppure occorreva. Con le parole finali di questa proposizione una luce come fatta di calma mi fu distillata in cuore e ne cacciò quel buio folto di incertezze.
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30. Chiusi allora il libro tenendoci un dito o non so che cos'altro come segno, e ormai rasserenato in volto lo mostrai ad Alipio. Ma in questo stesso modo lui mostrò quello che succedeva a lui - a mia insaputa. Volle vedere che cosa leggevo: glielo mostrai, e lui portò la sua attenzione anche sul seguito di quello che avevo letto io. Io lo ignoravo, ma quel passo proseguiva: E accogliete chi è incerto nella fede. Lo riferì a se stesso, e me lo disse. L'esortazione lo incoraggiò nel suo proponimento, buono e quanto mai rispondente al suo modo di vivere, per cui già era da tempo ben più avanti di me. E senza tormento, senza esitazione mi seguì. Subito entriamo da mia madre, le parliamo: grande gioia per lei. Le raccontiamo come sia accaduto: esultanza e trionfo. Benediceva te, che puoi fare ben oltre ciò che noi chiediamo e comprendiamo. Perché riguardo a me si vedeva concesso molto di più di quello che chiedeva tutto il suo povero piangere sommesso. Infatti avevi convertito a te il mio essere al punto che non cercavo più moglie né tenevo più ad alcuna speranza del mondo, posando ormai su quel metro di fede sul quale tanti anni prima mi avevi in sogno rivelato a lei. E convertisti il suo dolore in gioia molto più grande di quanto sperava, e molto più cara e più pura di quella che attendeva dai nipoti del mio sangue.
LIBRO NONO
[BATTESIMO DI AGOSTINO E MORTE DI MONICA]
1.1. Mio Signore, io sono servo tuo, servo tuo e figlio della tua ancella. Hai spezzato le mie catene: ti offrirò un sacrificio di lode. Canterò le tue lodi col cuore e con la lingua, e grideranno tutte le mie ossa: chi è come te, Signore? Parlino, e tu rispondi e dí a quest'anima: la tua salvezza sono io. Io chi? Già, quale io? Cos'era senza male in me, nelle mie azioni, o se non nelle azioni nei discorsi, o se non nei discorsi nel volere? No Signore, eri tu, tua la bontà accorata e tua la destra che saggiava il mare della mia morte e raschiava dal fondo del mio cuore, dalle sue buie voragini, il marcio. Eri tu: nel no integrale a quello che volevo, e nel sì a quello che volevi tu. Ma dov'era per tutto quel tempo, tutti quegli anni, il mio libero arbitrio? E da che misteriose profondità fu evocato in quell'attimo, perché piegassi il collo alla carezza del tuo giogo e le spalle alla tua soma leggera, Cristo Gesù, mio soccorso e mia salvezza? Strano com'era dolce, all'improvviso, fare a meno di quelle mie fatue dolcezze, e come la paura di perderle ormai era gioia d'averle lasciate. Perché eri tu a cacciarle via da me, tu vera e somma dolcezza: le cacciavi ed entravi al loro posto, più intenso di ogni piacere, ma non per la carne e il sangue; più chiaro d'ogni luce e più riposto di ogni segreto, apice d'ogni cosa sublime, ma non per chi fa se stesso sublime. Avevo il cuore libero ormai dai morsi ansiosi dell'ambizione e dell'avidità e dalla rogna assillante delle voglie: e ti parlavo garrulo e beato, mia chiarità, mio tesoro e salvezza, mio Signore e mio Dio.
[Professione e vocazione]
2.2. E di fronte a te presi la decisione di evitare una clamorosa rottura con la fiera delle chiacchiere, ma di sottrarle a poco a poco il servizio della mia lingua. Là ci si esercitava non alla tua legge, non alla tua pace, ma ai bugiardi deliri e alle battaglie avvocatesche: a quei ragazzi, alla loro furia, io non volevo più vendere armi con la mia stessa bocca. E per fortuna mancavano ormai pochi giorni alle vacanze d'autunno: decisi di pazientare ancora un po' per congedarmi secondo le regole, e non tornare mai più a vendermi ora che tu m'avevi riscattato. Una decisione, dunque, presa davanti a te, ma che noi non rendemmo nota se non a pochi intimi, con l'accordo di non parlarne in giro. Per quanto a noi che salivamo dalla valle del pianto e cantavamo un canto d'ascensione tu avessi dato acuminate frecce e carboni roventi contro la lingua subdola dei falsi consiglieri che ci aggrediscono e ci amano come si ama il cibo: per consumarci.
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3. Tu stesso ci avevi folgorati con le frecce del tuo amore, e portavamo conficcati nel ventre gli arpioni delle tue parole e gli esempi dei tuoi servi, che da oscuri avevi reso splendidi e da morti, viventi. Bruciavano ammassati nel fondo della mente divorando la sua pesantezza e il torpore, per impedirci di scendere in basso, ed era un tale incendio che tutto il fiato soffiatoci contro dalle subdole lingue l'avrebbe ravvivato, non estinto. Tuttavia nel tuo nome, che hai reso sacro per tutta la terra, il nostro proponimento avrebbe certamente incontrato il plauso di alcuni, e quindi poteva sembrare ostentazione non aspettare quel poco che mancava alle vacanze, e congedarsi prima da un pubblico ufficio che era sotto gli occhi di tutti in modo da attirare sulle mie azioni l'attenzione universale. Così, se avessi dato l'impressione di non voler neppure attendere il termine tanto prossimo dei corsi, avrebbero molto chiacchierato, e sarebbe parso che volessi farmi notare. E a che pro favorire congetture e discussioni sui miei intenti e oltraggi al nostro bene?
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4. Tanto più che durante quell'estate i miei polmoni avevano cominciato a cedere all'eccessiva fatica dell'insegnamento. La difficoltà a respirare e il dolore di petto denunciavano una loro lesione, e non mi consentivano più di parlare un po' a lungo con voce chiara. Dapprima ne fui molto preoccupato, perché questo fatto mi avrebbe ben presto obbligato a deporre il carico dell'insegnamento, o, se mi era possibile curarmi e guarire, di lasciarlo almeno per qualche tempo. Ma quando in me fu nata ed ebbe preso piede la piena volontà d'essere libero da occupazioni per contemplare te che sei il Signore, allora - lo sai, Dio mio - io cominciai perfino a rallegrarmi che mi si fosse offerta anche questa scusa non falsa ad attenuare il risentimento di alcune persone che per amor dei loro figli non avrebbero voluto che io avessi un solo attimo di libertà. Così pieno di gioia sopportavo il tempo che mancava alle vacanze - una ventina di giorni, mi pare - e questo mi costava un grande sforzo, perché era venuta meno quella passione che mi alleggeriva la fatica del mestiere, tanto che ne sarei rimasto schiacciato se la pazienza non m'avesse assistito. C'è fra i tuoi servi e miei fratelli, forse, chi dirà che fu peccato da parte mia quando già avevo il cuore così impegnato al tuo servizio di restare anche soltanto un'ora di più sulla cattedra della menzogna. Io non discuto. Ma tu, Signore così pieno di misericordia, non mi hai perdonato e condonato nell'acqua santa anche questo con tutti gli altri peccati spaventosi e funesti?
3.5. Verecondo si consumava d'ansia per questo nostro bene, perché a causa dei tenacissimi legami che aveva, si vedeva già abbandonato dalla nostra piccola comunità. Non ancora cristiano, aveva una moglie battezzata, che tuttavia era proprio l'ostacolo più arduo sul cammino che avevamo intrapreso: e lui non voleva essere cristiano, diceva, in un modo diverso da quello che d'altra parte non gli era consentito. Certo, con grande generosità ci offrì di vivere nella sua villa per tutto il tempo che saremmo rimasti là. Lo ricompenserai, Signore, nella resurrezione dei giusti, tu che gli hai già ricompensato con la loro eredità. Noi già non c'eravamo più, eravamo a Roma, quando si ammalò: si fece cristiano e ottenne il battesimo, poi emigrò da questa vita. Questo fu un gesto di compassione da parte tua, non soltanto per lui ma anche per noi: sarebbe stato un gran tormento infatti pensare alla squisita umanità dell'amico verso di noi, e non poterlo annoverare nel tuo gregge. Grazie a te, Dio nostro! Siamo tuoi. Lo dimostrano i tuoi consigli e i tuoi conforti: fedele alle promesse renderai a Verecondo, in cambio della sua terra a Cassiciaco dove in te riposammo dalla furia del secolo, la primavera eterna, il tuo giardino. Perché le colpe che ebbe sulla terra tu gliele hai condonate lassù sulla montagna della gioia, bianca di latte e cacio.
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6. Ciò che angustiava Verecondo era invece per Nebridio motivo di rallegrarsi con noi. Benché neppure lui fosse ancora cristiano, e fosse caduto in quella fossa mortale, l'errore di credere mero fantasma la carne della verità da te generata, era però sul punto di cavarsene: non ancora iniziato ad alcuno dei sacri misteri della tua chiesa, questo ricercatore della verità bruciava di passione. Non molto dopo la nostra conversione e rigenerazione, mentre già cattolico e battezzato ti serviva in perfetta castità e continenza, in Africa, nella sua casa che per merito suo s'era fatta tutta cristiana, lo liberasti dalla carne. Ed ora vive in grembo ad Abramo. Qualunque cosa significhi quel grembo, là vive il mio Nebridio, dolce amico mio, e tuo figlio adottivo, mio Signore, da liberto che era: è là che vive. Che altra sede può avere un'anima così. Vive nel luogo che tanto spesso ritornava nelle sue domande rivolte a me, pover'uomo insipiente. Ormai non tende più le orecchie alle mie labbra, ma le sue labbra invisibili alla fonte che tu sei: e beve, beve perdutamente la sapienza, insaziabile fin nella sua felicità sconfinata. Eppure io non credo che se ne inebri al punto di dimenticarsi di me, se tu, Signore di cui lui si nutre, hai memoria di noi. Questo era dunque il nostro stato. Da una parte consolavamo Verecondo della tristezza che, salva la sua amicizia, gli procurava la nostra conversione, e lo incoraggiavamo alla fede secondo il grado che era il suo: la vita coniugale. Dall'altra parte aspettavamo che Nebridio si decidesse a seguirci. Cosa che al punto in cui era avrebbe ormai potuto fare, anzi già vi si accingeva quand'ecco finalmente arrivato l'ultimo di quei giorni... Tanti e così lunghi erano parsi al mio impaziente amore per il libero agio che veniva perché cantassi dal fondo delle mie ossa: Il mio cuore ha cercato il tuo volto, e ti ha detto: il tuo volto mi manca, Signore.
[Libertà: la felice vita di Cassiciaco]
4.7. E venne il giorno in cui finalmente sarei stato di fatto libero dall'impiego alla scuola di retorica, come già lo ero nel pensiero. Venne: me ne sbrogliasti la lingua, come già me ne avevi sbrogliato il cuore, e già in viaggio verso la campagna con tutti i miei amici al colmo della gioia io ti rendevo grazie. Ciò che feci laggiù, scrivendo, al tuo servizio - ma in un modo che ancora sa di scuola della superbia, come l'ansito di chi si ferma a prender fiato - lo attestano i libri delle discussioni coi presenti e con me stesso, solo davanti a te; mentre quelle che ebbi con Nebridio assente sono attestate dalle lettere relative. E quando mi basterà il tempo per evocare sulla pagina tutti i grandi privilegi che ci accordasti a quel tempo, impaziente come sono di passare ad altri e più grandi. Perché già la memoria mi richiama, e mi è dolce, Signore, confessarti gli interni colpi di sperone con cui mi hai domato, e il modo in cui mi hai spianato abbassando i monti e i colli dei miei pensieri, e raddrizzando i miei sentieri tortuosi e smussando le mie asperità. E confessarti il modo in cui hai piegato Alipio, fratello del mio cuore, al nome del tuo unigenito, nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo, che dapprima non voleva degnarsi di menzionare nei nostri scritti. Preferiva il profumo dei cedri delle scuole, ormai abbattuti dal Signore, a quello delle erbe mediche che crescon nelle chiese, buone contro i serpenti.
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8. Che sospiri Dio mio, quando leggevo i salmi di Davide, queste canzoni di fede! Musica della devozione, di fronte a cui si sgonfia ogni superbia... Ancora principiante nel tuo autentico amore ero, catecumeno ancora e in tempo di vacanza, in campagna, con Alipio catecumeno anche lui e mia madre che non si staccava da noi: con le sue maniere di donna e la sua maschia fede, la pace della sua età e il suo amore di madre, con tutta la sua cristiana devozione. Che sospiri mettevo in quei salmi e di che incendio bruciavo per te, che voglia di recitarli, se avessi potuto, in faccia al mondo intero, alla boria del genere umano! E li si canta, per il mondo intero, non c'è chi possa sfuggire alla tua vampa. E come era violento e doloroso e amaro lo sdegno che provavo verso i manichei, e poi di nuovo la pietà per loro, che ignoravano quei sacri misteri e quei farmaci e infierivano come pazzi contro una medicina in cui avrebbero ritrovato la salute! Avrei voluto allora che fossero lì, a mia insaputa, e mi guardassero in volto e mi ascoltassero leggere il salmo quarto nella pace di quel ritiro e nei miei toni di voce sentissero l'effetto che avevano su di me quelle parole: Ti ho invocato e mi hai ascoltato, Dio della mia giustizia; ero angosciato e m'hai reso ampio respiro.Abbi pietà di me Signore, ascolta se ti prego. Fossero stati lì ad ascoltarmi! Ma a mia insaputa, perché non credessero che per loro dicessi le parole che intercalavo a quelle del salmo. E non le avrei dette in effetti, o non con quel tono, se avessi sentito d'esser visto o ascoltato da loro; e se anche le avessi dette non le avrebbero accolte così come le dicevo a me stesso alla tua presenza, come mi venivano in quella nostra dimestichezza dal fondo del cuore.
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9. Rabbrividii di paura e al tempo stesso di febbrile speranza e di gioia per la tua indulgenza, Padre. E questi opposti sentimenti si aprivano un varco attraverso gli occhi e la voce quando arrivavo al punto in cui il tuo spirito buono dice rivolto a noi: Figli dell'uomo, fino a quando questo cuore pesante? Perché vi attira il vuoto e l'illusione? Certo, avevo amato il vuoto e cercato l'illusione. E tu, Signore, avevi già riempito di gloria il tuo diletto, richiamandolo dai morti e facendolo sedere alla tua destra, affinché dal cielo mantenesse la sua promessa di inviare il Paracleto, lo spirito di verità. E già l'aveva inviato, ma io non lo sapevo. L'aveva già mandato, perché già l'aveva glorificato la sua resurrezione dai morti e la sua ascesa al cielo. Prima, invece, non c'era ancora il dono dello spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato. Grida il profeta: Fino a quando questo cuore pesante? Perché vi attira il vuoto e l'illusione? E sappiate che il Signore esalterà il suo diletto. Grida fino a quando, grida sappiate, e io per tanto tempo avevo amato il vuoto e cercato l'illusione, e non sapevo, ed è per questo che tremai a sentirlo: eran parole rivolte a persone come me, come io ricordavo d'esser stato. In quei fantasmi che avevo preso per veri non c'era che vuoto e illusione. E l'angoscia della mia memoria risuonava a lungo, profonda e forte, nella mia voce. Magari l'avessero udita quelli che tuttora amano il vuoto e cercano l'illusione: forse ne sarebbero rimasti sconvolti al punto di vomitare tutto questo, e tu li avresti ascoltati levare a te il loro grido, perché di vera morte corporale è morto per noi chi intercede per noi presso di te.
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10. Leggevo: Fremete e non peccate. E come ne ero scosso, Dio mio, io che avevo appena appreso a fremere d'ira sulle colpe passate, per non peccare più in futuro, e d'ira giusta, perché non era la natura estranea di un popolo di tenebra a peccare in me, come dicono quelli che non s'infuriano con se stessi e così ammassano per sé un tesoro d'ira per il giorno dell'ira, in cui sarà svelato il tuo giusto verdetto! E ormai non eran più fuori di me i miei beni, non li cercavo più con gli occhi della carne nella luce di questo sole. Perché chi cerca gioia fuori di sé facilmente svapora e si sperde nelle cose visibili del tempo, e il pensiero affamato non arriva che a lambirne le immagini. Magari chiedessero, spossati dalla fame: chi ci mostrerà qualcosa di buono? Ascoltino la nostra risposta: stampata è in noi la luce del tuo volto, Signore. Non siamo noi infatti il lume che illumina ogni uomo venuto a questo mondo, ma da te abbiamo luce, finché saremo luce in te noi che pure un tempo eravamo oscurità. O se nel loro interno vedessero l'eterno che io gustavo! E fremevo di non poterglielo mostrare, se fossero venuti da me col loro cuore che s'affaccia agli occhi e ti volta le spalle, chiedendo: chi ci mostra qualcosa di buono? Perché là dove m'ero infuriato con me stesso, nel segreto del mio letto, dove esaminavo con dolorosa attenzione la mia coscienza, dove ammazzavo e ti sacrificavo la mia vecchiezza, e avevo incominciato la meditazione sperando in te per la mia rinascita, là per la prima volta sentii la tua dolcezza e il dono della tua contentezza nel cuore. E uscivo in grandi esclamazioni, che dentro erano riconoscimenti: e non volevo più moltiplicarmi nei beni terreni, divorando il tempo e dal tempo divorato, perché possedevo nella semplicità dell'eterno altra sorta di grano e vino e olio.
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11. E il verso successivo strappava al mio cuore un alto grido: In pace! Nell'identico! E quelle parole: mi addormenterò e prenderò sonno... Chi ci resisterà quando si attuerà la parola che fu scritta: la morte è stata assorbita nella vittoria? E tu veramente sei l'identico, tu che non sei soggetto a mutamento e in te è il riposo senza più memoria di fatica, perché non c'è un altro con te e non c'è moltitudine di cose da cercare fuori di te, ma tu, Signore, nella speranza mi hai rifatto uno. Leggevo e in quel mio fuoco non trovavo il modo di agire su quella gente assordata dalla morte in mezzo a cui ero stato, peste e cane dal latrato amaro e cieco contro il miele celeste delle tue dolci scritture, luminose del tuo lume. E il pensiero dei loro nemici mi nauseava fino a consumarmi.
[Lo staffile di Dio]
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12. Quando avrò distillata in cuore tutta la memoria di quei liberi giorni? Ma non ho dimenticato e non tacerò l'asprezza del tuo staffile e la furia mirabile della tua misericordia. Mi tormentavi in quei giorni con il male ai denti, e quando fu tanto forte che non ero più in grado di parlare, mi affiorò in cuore l'idea di invitare tutti i miei amici presenti a scongiurarti in vece mia, Dio di ogni salute. E lo scrissi su una tavoletta e la diedi loro da leggere. Avevamo appena piegate le ginocchia in atteggiamento di supplica, che il dolore era sparito. E quale dolore! E come? Ne fui spaventato, lo confesso, mio Signore e mio Dio. In vita mia non avevo provato mai nulla di simile. E questi cenni della tua potenza si insinuarono nel profondo di me stesso, e nella gioia della fede resi lode al tuo nome. E quella stessa fede non mi lasciava stare senza angoscia per i peccati commessi in passato, perché ancora non mi erano stati rimessi con il tuo battesimo.
5.13. Trascorse le vacanze vendemmiali diedi le mie dimissioni - se ne trovassero un altro di venditore di parole per i loro studenti, i milanesi, dato che io da un lato avevo scelto di servire te e dall'altro per le mie difficoltà di respirazione e il dolore al petto non sarei stato in grado di riprendere l'insegnamento. E informai per lettera il tuo vescovo, quell'uomo divino che era Ambrogio, dei miei passati errori e della mia decisione attuale, per ottenerne un consiglio su quale dei tuoi libri leggere in primo luogo per prepararmi e dispormi a ricevere tanta grazia. Ma lui mi invitò a leggere il profeta Isaia, credo perché preannuncia più apertamente di tutti gli altri il Vangelo e la chiamata dei gentili. Io però cominciai a leggere senza capire e pensando che fosse tutto come l'inizio lo lasciai per tornarvi una volta che fossi più pratico del linguaggio del Signore.
[Ritorno a Milano per il battesimo]
6.14. Poi quando venne il momento di dare il mio nome lasciammo la campagna e ritornammo a Milano. Alipio decise di rinascere anche lui in te, con me. S'era già rivestito dell'umiltà che si addice ai tuoi sacri misteri, e col perfetto dominio che aveva sul suo corpo non si peritava di camminare a piedi nudi sulla terra ghiacciata d'Italia, con audacia rara. Prendemmo con noi anche Adeodato, il ragazzo nato da me, dalla mia colpa. L'avevi fatto bene, tu. Aveva appena quindici anni, e quanto a intelligenza era meglio di molti seri e dotti signori. Riconosco i tuoi doni, mio Signore e Dio, creatore dell'universo e capacissimo di dar forma ai nostri informi atti: non c'era nulla di mio in quel ragazzo, oltre al peccato. Che poi l'avessimo allevato secondo i tuoi principi eri stato tu e nessun altro a ispirarcelo: io riconosco i tuoi doni. C'è un libro mio, intitolato Il maestro: lì è lui a dialogare con me. Tu lo sai che tutti i pensieri lì proposti dal mio interlocutore sono suoi, e aveva sedici anni. Feci in tempo a conoscere altre sue doti, molto più ammirevoli. Quella sua intelligenza mi faceva rabbrividire di spavento: e chi oltre a te può esser autore di miracoli simili? Presto lo hai tolto dalla terra, e sereno è il ricordo che ne ho, tanto più che non ho nulla da temere per la sua infanzia e la sua adolescenza, e nulla affatto per la sua età matura... Ce ne facemmo dunque un compagno e coetaneo nella tua grazia, da educare secondo la tua dottrina; e fummo battezzati e venne meno l'angoscia del passato. In quei giorni mirabili e dolcissimi non mi stancavo di considerare la profondità delle tue decisioni sulla salvezza del genere umano. Quanto piansi ascoltando l'armonioso risuonare delle voci che ti levavano inni e cantici nella tua chiesa che intensa suggestione! Quelle voci mi si insinuavano nelle orecchie e mi distillavano in cuore la verità, e sollevavano un'onda di appassionata devozione che fluiva in pianto, e mi faceva bene.
[Il rito e la basilica di Ambrogio]
7.15. Non era molto che la chiesa di Milano aveva introdotto questo rito carico di suggestione e conforto, con l'intensa partecipazione dei fratelli che cantavano in armonia di voci e sentimenti. Era un anno o poco più che Giustina, madre dell'imperatore bambino Valentiniano, perseguitava Ambrogio, quest'uomo tuo, a causa dell'eresia in cui s'era lasciata trascinare dagli ariani. Il popolo cristiano vegliava in chiesa, pronto a morire con il suo vescovo e tuo servo. Là mia madre, ancella tua, ai primi posti nelle veglie e nello zelo, viveva di preghiere. Noi, benché ancora poco sensibili al calore del tuo spirito, ci sentivamo tuttavia coinvolti nello smarrimento e nell'emozione di tutta la città. Fu allora che si introdusse l'uso delle regioni orientali di far cantare gli inni e i salmi, perché il popolo non si adagiasse nell'inerzia dello sconforto: un uso che da allora ai giorni nostri molti hanno già adottato e che quasi tutti i tuoi greggi imitano, in tutto il mondo.
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16. Tu allora con una visione rivelasti al tuo vescovo il luogo in cui erano nascosti i corpi dei martiri Protasio e Gervasio, che per tanti anni avevi conservato intatti nel tesoro del tuo segreto, per tirarli fuori al momento opportuno a mo' di argine alla rabbia di una femmina, sì, ma potente come un re. Furono esumati, e durante il trasporto che se ne fece con i dovuti onori alla basilica di Ambrogio, non solo guarivano gli indemoniati - per esplicita confessione degli stessi demoni - ma accadde anche che un uomo cieco da molti anni, conosciutissimo in città, fattasi dire la ragione di quell'esplosione di gioia popolare, balzò in piedi e si fece portare sul posto. E là ottenne di essere ammesso a toccare con un fazzoletto le spoglie della morte dei tuoi santi, preziosa ai tuoi occhi. Lo fece, si accostò il fazzoletto agli occhi, e subito questi si aprirono. La fama si diffonde, a te si leva un coro altissimo e raggiante di lodi, quell'avversaria tua si vede, se non indotta a credere, almeno a soffocare la sua furia di persecuzione. Grazie a te, Dio mio! Da dove l'hai cavato questo mio ricordo, e dove lo porti ora che anche questi eventi mi hai fatto confessare? Son grandi cose: come avevo potuto trascurarle, dimenticarle? Eppure allora, quand'era così intenso il profumo dei tuoi unguenti, non correvamo dietro a te, e perciò il mio pianto di ora, quando ascoltavo cantare i tuoi inni. Avevo sospirato per te un tempo, e ora finalmente respiravo - per poco che si possa aprire all'aria, al vento, una dimora d'erba.
[Vita di Monica]
8.17. Tu che fai abitare in una casa gli spiriti affini aggiungesti al nostro sodalizio anche Evodio, un nostro giovane concittadino. Era impiegato nell'amministrazione imperiale, e si era convertito a te prima di noi, aveva ricevuto il battesimo e lasciato il servizio nel mondo per dedicarsi al tuo. Vivevamo insieme e avremmo abitato insieme anche in futuro, questo era il nostro solenne impegno. Eravamo in cerca di un luogo in cui potessimo renderci più utili vivendo al tuo servizio: insieme facevamo ritorno in Africa. Giunti vicino a Ostia, sul Tevere, mia madre morì. Molte cose tralascio, perché ho molta fretta. Accogli le mie confessioni e la mia gratitudine, Dio mio, pur nel silenzio di infinite cose. Ma non ometterò neppure una delle parole che mi partorisce l'anima intorno a quella tua servitrice, a lei che mi partorì con la sua carne alla luce del tempo e a quella dell'eterno col suo cuore. Non dei suoi doni dirò ma di quelli che tu hai fatto a lei. Certo non s'era fatta o allevata da sola: sei tu che l'hai creata, e né suo padre né sua madre sapevano quale donna sarebbe venuta da loro. E al tuo timore l'educò il bastone del tuo Cristo, la disciplina del tuo figlio unico, in una casa di credenti che era una parte sana del corpo della tua chiesa. Tuttavia non era sua madre che lodava per la cura con cui era stata allevata, ma una sua fantesca decrepita, che aveva tenuto sulle spalle suo padre bambino come fanno le ragazze un po' più grandi cui s'affidano i piccoli. Per questo e per la sua maturità e il suo comportamento irreprensibile godeva di un certo rispetto da parte dei padroni di una casa cristiana. E perciò le era stata affidata la cura delle figlie del padrone, e lei se ne occupava con molta premura: e all'occasione sapeva essere energica quanto lo esige una sana severità, dove c'era da reprimere, pur essendo saggia e misurata come istitutrice. Così ad esempio non permetteva loro di bere al di fuori dei pasti, che prendevano a tavola molto frugalmente, con i genitori: neppure acqua, anche se ardevano di sete. E questo per prevenire una cattiva abitudine, come spiegava con parola sana: "Ora bevete acqua, perché non avete accesso al vino; ma quando avrete preso marito e sarete padrone delle dispense e delle cantine, l'acqua vi parrà sciocca, ma l'abitudine di bere vorrà essere soddisfatta". Con precetti del genere e con l'autorità di chi sa comandare moderava l'avidità tipica della prima infanzia, educando così al contegno e alla misura perfino la sete delle bambine, perché finissero col non trovare neppur piacere in quello che non stava bene.
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18. Eppure, raccontava questa tua serva a me, suo figlio, si era insinuato in lei il vizio di bere. I suoi genitori la mandavano come d'abitudine, da quella sobria ragazza che era, ad attingere vino dalla botte: e lei immergendo la brocca dall'apertura superiore, prima di versare il vino puro nel fiasco ne assaggiava appena con la punta delle labbra, perché di più il suo palato rifiutava. Il che vuol dire che non lo faceva perché ne avesse il minimo desiderio vizioso, ma per quell'esuberanza e spavalderia caratteristiche dell'età che si sfogano in gesti gratuiti, tanto che di solito nei bambini le si reprime con tutto il peso dell'età adulta. Così assaggiandone un poco di più ogni giorno - perché chi traligna anche di poco va in rovina a poco a poco - era scivolata in quell'abitudine, al punto che ormai vuotava avidamente calici quasi pieni di vino puro. Dov'era più la vecchia saggia e quel suo energico divieto? Poteva forse servire a qualcosa contro un male che era già lì, segreto, una medicina che non fosse la tua vigilanza su di noi? In assenza di padre e madre e governanti tu sei presente, tu che hai creato, che chiami, che anche attraverso le autorità umane sai agire per il bene e la salvezza delle anime. Cosa facesti allora, Dio mio? Come trovasti la cura, come ottenesti la guarigione? Non hai fatto scattare da un'altra anima la lama di bisturi di un insulto duro e affilatissimo, rimedio tratto dalle tue segrete risorse per tagliar via quel marcio in un colpo solo? La serva che l'accompagnava di solito alla botte, durante un bisticcio che ebbe con la padrona più giovane di lei, come spesso accade, mentre erano sole, le rinfacciò quella cattiva abitudine chiamandola con l'epiteto terribilmente offensivo di beona. Se ne sentì ferita, e vide come era brutto quel vizio e se ne spogliò. Come l'adulazione degli amici perverte, così spesso le parole aggressive dei nemici correggono. E tu li ripaghi non per quello che hai fatto tu attraverso di loro, ma per l'intenzione che avevano loro. Quella ad esempio nella sua collera voleva provocare la padroncina, non guarirla, e per questo l'aveva schernita in privato - forse anche perché si erano trovate a litigare proprio in quel momento e in quel luogo, o forse addirittura perché la serva stessa voleva evitare di esporsi, visto che aveva lasciato passare tanto tempo senza denunciare la cosa. Ma tu, Signore delle cose celesti e terrene, che costringi nell'alveo dei tuoi fini le acque impetuose del profondo e metti in ordine il turbinoso flusso dei secoli, tu con la furia di un'anima ne rinsavisti un'altra: perché nessuno che assista al ravvedimento di una persona dopo averle parlato con l'intenzione di correggerla, attribuisca il successo al proprio potere.
9.19. Educata dunque alla discrezione e alla sobrietà, e da te sottomessa ai genitori piuttosto che dai genitori a te, quando compì l'età da marito fu consegnata a un uomo che servì come un padrone: e fece di tutto per guadagnarlo a te, parlandogli di te con quel suo modo d'essere di cui tu la facevi bella e pur nel suo contegno amabile e ammirevole per il marito. Quanto poi agli oltraggi da lui inflitti al letto coniugale, fu così tollerante che non ebbe mai alcun diverbio con lui a questo proposito. Aspettava che su di lui scendesse la tua misercordia, e con la fede gli desse un po' di castità. Lui era del resto capace di forti attaccamenti come facile all'ira. Ma lei riusciva a non opporre resistenza, neppure verbale - per non parlare delle azioni - al marito mentre era in collera. Quando però l'ira era sbollita e lo vedeva tranquillo, coglieva il momento adatto per rendergli conto delle proprie azioni, nel caso che la sua furia fosse stata senza motivo. C'erano molte sue amiche che avevano mariti meno violenti, eppure portavano in faccia i segni delle percosse, a volta erano addirittura sfigurate: durante le loro conversazioni si lamentavano del modo di vivere dei mariti. Ma lei, quasi prendendole benevolmente in giro disapprovava il loro linguaggio - e in questo c'era qualcosa di serio: dal momento in cui, diceva, si erano sentite leggere solennemente il contratto matrimoniale, dovevano considerarsi schiave in forza di quel documento.
Ricordassero dunque la loro condizione: non era proprio il caso di alzare troppo la testa di fronte ai loro padroni. Quelle restavano ammirate, sapendo che marito irascibile doveva sopportare: non s'era mai sentito dire, anzi non c'era il minimo indizio, che Patrizio battesse la moglie o che ci fosse stata anche una sola lite coniugale fra loro. E quando le chiedevano, in confidenza, come fosse possibile lei recitava la regola che ho ricordato. Quelle che riuscivano a osservarla poi la ringraziavano dei risultati ottenuti, e quelle che non ci riuscivano continuavano a subire vessazioni.
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20. Riuscì ad averla vinta anche con la suocera, che in un primo momento i pettegolezzi di servette maligne le avevano inimicato: a furia di cortesie, pazienza e mitezza indusse addirittura la suocera ad avvertire il figlio delle calunnie di quelle malelingue, che con la pace domestica turbavano i rapporti fra sé e la nuora, e lo pregò di punirle. Così fu: un po' per obbedienza alla madre, un po' per riassestare la disciplina della casa e un po' per evitare ulteriori litigi fra i suoi fece battere le ragazze accusate, a piacimento dell'accusatrice. Dopodiché questa promise la stessa ricompensa a chiunque le avesse parlato male della nuora allo scopo di ingraziarsi lei, la suocera: nessuno osò più aprir bocca, e vissero in perfetta armonia di affetti reciproci.
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21. Anche questo gran dono avevi fatto a quella tua serva buona, nell'utero della quale mi hai creato, Dio mio di compassione. Se fra due anime, due qualunque, c'era qualche dissidio o discordia lei se appena era possibile si offriva con tanto spirito di pace che se anche coglieva da entrambe le parti durissime parole di reciproca accusa - come quelle che si vomitano di solito in un accesso di furiosa inimicizia, quando l'odio nei confronti della nemica assente investe l'amica presente in tutta la sua crudezza, e inacidisce le conversazioni - lei si guardava bene dal riportare all'una o all'altra più di quanto potesse servire a riconciliarle. Mi sembrerebbe un merito da poco, se non sapessi per dolorosa esperienza che non si conta la gente affetta da questa sorta di orrenda peste diffusissima fra i peccatori: gente che non si limita a riferire cose dette dei propri nemici negli accessi d'ira, ma ci aggiunge addirittura una frangia. Quando a un uomo degno del nome dovrebbe parere troppo poco evitare di suscitare o accrescere conflitti con le proprie maldicenze, e non sforzarsi di comporli con le sue buone parole. Come faceva lei, che aveva te per intimo maestro alla scuola del cuore.
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22. Finalmente guadagnò a te anche il marito, già quasi al limite estremo della vita temporale: e in lui che ormai era credente non rimpianse ciò che aveva tollerato nel miscredente. Era poi la serva dei tuoi servi. Chi di loro l'aveva conosciuta, in lei rendeva lode e onore e amore a te, sentendo nel suo cuore la tua presenza, testimoniata dai frutti di una vita consacrata a te. Era stata la moglie d'un solo uomo, aveva reso ai genitori il bene ricevuto, aveva retto con devozione la sua casa, a testimonio aveva le sue buone opere. Aveva allevato dei figli, partorendoli di nuovo ogni volta che li vedeva allontanarsi da te. Infine di tutti noi, Signore, che possiamo per tuo gratuito favore dirci servi tuoi, e ricevuta la grazia del tuo battesimo vivevamo già in una nostra comunità, al tempo in cui ancora lei non s'era addormentata in te, di tutti noi si prese cura quasi fossimo tutti figli suoi, e quasi fosse figlia di noi tutti ci servì.
[Un'estasi platonica]
10.23. Incombeva il giorno in cui doveva uscire da questa vita - e tu lo conoscevi quel giorno, noi no. Accadde allora per una tua misteriosa intenzione, credo, che ci trovassimo soli io e lei, affacciati a una finestra che dava sul giardino interno della casa che ci ospitava, là nei pressi di Ostia Tiberina, dove c'eravamo appartati lontano da ogni trambusto, per riposarci della fatica di un lungo viaggio e prepararci alla navigazione. Conversavamo dunque assai dolcemente noi due soli, e dimentichi del passato, protesi verso quello che ci era davanti ragionavamo fra noi, alla presenza della verità - vale a dire alla tua presenza. L'argomento era la vita eterna dei beati, la vita che occhio non vide e orecchio non udì, che non affiorò mai al cuore dell'uomo. Noi eravamo protesi con la bocca del cuore spalancata all'altissimo flusso della tua sorgente, la sorgente della vita che è in te, per esserne irrigati nel limite della nostra capacità, comunque riuscissimo a concepire una così enorme cosa.
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24. E il nostro ragionamento ci portava a questa conclusione: che la gioia dei sensi e del corpo, per quanto vivida sia in tutto lo splendore della luce visibile, di fronte alla festa di quella vita non solo non reggesse il confronto, ma non paresse neppur degna d'esser menzionata. Allora in un impeto più appassionato ci sollevammo verso l'Essere stesso attraversando di grado in grado tutto il mondo dei corpi e il cielo stesso con le luci del sole e della luna e delle stelle sopra la terra. E ascendevamo ancora entro noi stessi ragionando e discorrendo e ammirando le tue opere, e arrivammo così alle nostre menti e passammo oltre, per raggiungere infine quel paese della ricchezza inesauribile dove in eterno tu pascoli Israele sui prati della verità. Là è vita la sapienza per cui son fatte tutte le cose, quelle di ora, del passato e del futuro - la sapienza che pure non si fa, ma è: così come era e così sarà sempre. Anzi l'essere stato e l'essere venturo non sono in lei, ma solo l'essere, dato che è eterna: infatti essere stato ed essere venturo non sono eterni. Mentre così parliamo, assetati di lei, eccola... in un lampo del cuore, un barbaglio di lei. E già era tempo di sospirare e abbandonare lì le primizie dello spirito e far ritorno allo strepito della nostra bocca, dove la parola comincia e finisce. E cosa c'è di simile alla tua Parola, al Signore nostro, che perdura in se stessa senza diventar vecchia e rinnova ogni cosa?
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25. "Se calasse il silenzio, in un uomo, sopra le insurrezioni della carne, silenzio sulle fantasticherie della terra e dell'acqua e dell'aria, silenzio dei sogni e delle rivelazioni della fantasia, di ogni linguaggio e di ogni segno, silenzio assoluto di ogni cosa che si produce per svanire" - così ragionavamo - "perché ad ascoltarle, tutte queste cose dicono: 'Non ci siamo fatte da sole, ma ci ha fatte chi permane in eterno'; se detto questo dunque drizzassero le orecchie verso il loro autore, e facessero silenzio, e lui stesso parlasse non più per bocca loro, ma per sé: e noi udissimo la sua parola senza l'aiuto di lingue di carne o di voci d'angelo o di tuono o d'enigma e di similitudine, no, ma lui stesso, lui che amiamo in tutte queste cose potessimo udire, senza di loro, come or ora con un pensiero proteso e furtivo noi abbiamo sfiorato la sapienza eterna immobile sopra ogni cosa: se questo contatto perdurasse e la vista fosse sgombrata di tutte le altre visioni di genere inferiore e questa sola rapisse e assorbisse e sprofondasse nell'intima beatitudine il suo spettatore, e tale fosse la vita eterna quale è stato quell'attimo di intelligenza per cui stavamo sospirando: non sarebbe finalmente questa la ventura racchiusa in quell'invito, entra nella gioia del tuo signore? E quando? Forse quando tutti risorgeremo, ma non tutti saremo mutati?"
[Congedo e morte di Monica]
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26. Cose del genere dicevo, se non in questo modo e con queste parole: però tu lo sai, Signore, che quel giorno, mentre così ragionavamo e fra una parola e l'altra il mondo si sviliva ai nostri occhi con tutte le sue gioie, lei, mia madre, disse: "Per quanto mi riguarda, figlio mio, non trovo più piacere in questa vita. Che cosa faccia ancora qui e perché ci sia non so, ora che la speranza terrena è consumata. C'era una sola cosa per cui desideravo di restare ancora un poco in questa vita, ed era di vederti cristiano cattolico prima di morire. M'ha dato a iosa, anche di più, il mio Dio: di vederti addirittura disprezzare la fortuna terrena per servirlo. Cosa sto a fare qui?"
11.27. Quale fosse la mia risposta non ricordo bene: ma nel giro di cinque giorni o giù di lì si mise a letto con la febbre. E mentre era così ammalata un giorno ebbe uno svenimento e per breve tempo perse conoscenza. Noi accorremmo, ma presto riprese i sensi e guardando me e mio fratello che le eravamo accanto ci chiese come una che cerca qualcosa: "Dov'ero?" Poi vedendoci addolorati e sgomenti: "Seppellitela qui", disse, "vostra madre". Io tacevo e soffocavo il pianto. Mio fratello invece mormorò qualcosa come un augurio che lei non morisse per viaggio ma in patria, come fosse cosa meno triste. A queste parole si fece scura in volto e lo fissò negli occhi, aggrondata, perché nutriva sentimenti simili, e poi guardando me: "Ma guarda cosa dice". E quindi a entrambi: "Seppellite questo corpo in un luogo qualsiasi: non ve ne preoccupate affatto. Soltanto di questo vi prego: che all'altare del Signore vi ricordiate di me, dovunque sarete". Espresse questo pensiero come poteva, e poi tacque: il male s'aggravava e la metteva a dura prova.
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28. Ma io pensavo ai doni che infondi nel cuore di chi crede in te, Dio invisibile, semi di frutti mirabili, e ne gioivo e ti rendevo grazie: ricordando una cosa che sapevo bene, quanto cioè si fosse preoccupata della sua sepoltura, che si era preparata in anticipo accanto al corpo di suo marito. Erano vissuti in grande concordia: e così lei desiderava - tanto l'animo umano fatica a capire il divino - che un'altra fortuna le fosse concessa, e andasse ad aggiungersi a quella fortunata vita, nel ricordo degli uomini. Sperava che dopo il suo ritorno d'oltremare la terra ricoprisse insieme la terra di entrambi i coniugi, riuniti.
Ma quando, sotto la piena della tua bontà, anche questo vano desiderio aveva cominciato a svanirle dal cuore, non lo sapevo: fui sorpreso e felice di apprendere che le cose stavano proprio così, quantunque anche in quel nostro colloquio presso la finestra, quando aveva detto: "Cosa sto a fare qui, ormai?" non sembrava nutrisse il desiderio di morire in patria. Poi venni anche a sapere che già una volta, quando eravamo a Ostia, si era messa a conversare in materna confidenza con alcuni amici miei - io non c'ero - sul disprezzo da portarsi a questa vita e sul bene di morire: e siccome quelli si stupivano di trovare tanto coraggio in una donna - ma tu gliel'avevi dato - e chiedevano se non la spaventava l'idea di lasciare il suo corpo tanto lontano dalla sua città, "Nulla è lontano da Dio", rispose, "e non bisogna aver paura che Lui non ritrovi, alla fine del tempo, il luogo da cui resuscitarmi". Il nono giorno della sua malattia dunque, nel suo cinquantaseiesimo anno di vita, il mio trentatreesimo, quell'anima religiosa e devota fu liberata dal corpo.
12.29. Le chiudevo gli occhi e un'enorme tristezza mi affluiva in cuore e mi fluiva in pianto, e in quel momento gli occhi sotto il veto violento della mente si ribevevano le loro polle fino a disseccarle, e in questa lotta stavo molto male. Il ragazzo, Adeodato, lui sì era scoppiato in lacrime quando lei aveva esalato l'ultimo respiro: e tutti noi l'avevamo costretto al silenzio. Allo stesso modo il ragazzo che era in me e che si struggeva in pianto, sotto il rimprovero d'una voce adulta - voce del cuore - taceva, lui pure. Non ci sembrava appropriato celebrare quel trapasso con pianti e lamenti e singhiozzi, perché così di solito ci si duole di una qualche infelicità di chi è morto; o di una estinzione in qualche modo totale. Ma lei non era morta infelice, e neppure era morta del tutto. Lo attestavano con certezza assoluta i documenti del suo modo di vivere e la sua fede, non immaginaria: argomenti sicuri.
[Pietà filiale]
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30. Che cos'era dunque che mi faceva così male dentro, se non la ferita appena aperta con l'improvvisa rottura di quella dolcissima e carissima consuetudine di una vita condivisa? Mi era grata la sua testimonianza, la carezza che era stata per me, durante l'ultima malattia, fra le attenzioni che avevo per lei, sentirmi chiamare figlio buono e ricordare con grandissima tenerezza che mai aveva udito dalla mia bocca una parola pungente o offensiva nei suoi confronti. Ma che cos'era mai, Dio mio creatore nostro? Non c'era proporzione fra quel po' di onore che io le avevo reso e la vita da schiava che lei aveva fatta per me. Era un conforto grande quello che ora mi abbandonava. L'anima ne era abbattuta e la mia vita come fatta a pezzi, perché era diventata una sola con la sua.
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31. Soffocato dunque il pianto di quel ragazzo, Evodio afferrò il Salterio e intonò un salmo. E tutta la nostra casa gli rispondeva: Ti canterò tutta la tua dolcezza / tutta la tua giustizia, mio Signore. Venuti a sapere di cosa si trattava molti fratelli e donne devote accorsero. E mentre come era costume le persone incaricate di questo si occupavano di preparare il funerale, io mi ero appartato dove il decoro suggeriva, con quelli che non se la sentivano di lasciarmi solo, e discutevo di argomenti appropriati alle circostanze: era quello il balsamo di verità con cui mitigavo il mio tormento, che tu vedevi bene, ma che essi ignoravano. E mi ascoltavano attentamente e mi credevano immune dal dolore. Ma io parlandoti all'orecchio, in modo che nessuno di loro poteva udire, mi rimproveravo al contrario per la mia sensibilità eccessiva e reprimevo un fiume di tristezza, e quello si ritirava appena davanti a me: poi di nuovo cresceva con impeto sempre più violento. E tuttavia non rompeva nel pianto, non arrivava ad alterarmi il viso. Ma so ben io cosa serravo in cuore. E poiché mi mordeva anche il rammarico che avessero tanta presa su di me le vicende umane, pur necessarie nell'ordine debito e secondo la condizione che abbiamo ricevuta in sorte, al mio dolore se ne aggiungeva un altro, e doppiamente mi consumavo di tristezza.
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32. Il corpo viene sepolto: andiamo, torniamo senza lacrime. Neppure durante le preghiere che ti rivolgemmo offrendoti per lei il sacrificio del nostro riscatto, come vuole l'usanza del luogo, col feretro accanto al sepolcro, prima che vi sia deposto: neppure durante quelle preghiere piansi. Ma per tutto il giorno rimasi segretamente oppresso dal peso della tristezza, e con la mente confusa ti chiedevo, come potevo, di guarirmi da quel dolore: e tu non lo facevi, credo, per consegnare alla mia memoria almeno con questa prova la forza del vincolo che abbiamo verso ogni consuetudine, anche a dispetto di una mente che ha smesso di nutrirsi di illusioni. Mi venne perfino in mente di andare ai bagni, perché - come avevo sentito dire - furono così chiamati dal greco balanion, in quanto cacciano l'angoscia. Confesso subito anche questo alla tua tenerezza, padre degli orfani, che feci il bagno e rimasi esattamente com'ero prima di farlo. Non mi fece affatto trasudare dal cuore l'amaro dell'angoscia. Poi dormii e al risveglio trovai il mio dolore non poco addolcito. E mentre me ne stavo da solo, nel mio letto, mi riecheggiarono nella memoria quei versi così veri del tuo Ambrogio:
Dio creatore di tutto
cardine delle stelle
vesti di luce il giorno
la notte d'abbandono:
dolcezza del ristoro
in cui si scioglie il corpo
la mente si fa lieve
calmo nel cuore il lutto.
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33. E a poco a poco la mente ritrovava l'antica immagine della tua ancella e dei suoi gesti, pieni di devozione per te e di tenerezza innocente e discreta per noi... All'improvviso sentii che l'avevo perduta, ed ebbi voglia di piangere davanti a te su di lei e per lei, su di me e per me. E diedi libero corso alle lacrime che fino ad allora avevo contenuto: e sopra il loro flusso il cuore riposò come su un letto, perché lì c'era solo il tuo orecchio ad ascoltare il mio pianto, non quello di un uomo che l'avrebbe interpretato dall'alto del suo orgoglio. E ora, Signore, te lo confesso sopra queste pagine. Legga chi vuole e come vuole intenda, e se troverà che fu peccato questo, di piangere mia madre per un'ora breve, mia madre quando ai miei occhi era morta, lei che per tanti anni aveva pianto me perché potessi vivere ai tuoi occhi - non rida almeno di me. No: piuttosto, se è veramente grande il suo amore di Dio, pianga anche lui dei miei peccati, pianga davanti a te, Padre di ognuno che è fratello a Cristo.
[Ripòsino in pace]
13.34. Da parte mia ora che il cuore è guarito da quella ferita in cui si poteva vedere con riprovazione una passione troppo terrena, ora verso per quella tua serva, Dio mio, lacrime di tutt'altro genere. Nascono dallo sgomento, quando considero i rischi cui è esposta ogni anima che muore in Adamo. È vero che lei, mia madre, vivificata in Cristo, visse ancor prima di esser liberata dal corpo in modo da render lode al tuo nome con la sua fede e con la sua condotta; e tuttavia non oso affermare che dal giorno in cui la rigenerasti col battesimo non sia uscita dalle sue labbra neppure una parola contro la tua legge. E la verità stessa, da te generata, dice: Chi avrà detto a suo fratello: sciocco, sarà soggetto al fuoco della Geenna: e allora guai anche alla più lodevole delle vite umane, se la analizzi senza misericordia! Ma tu non impieghi tutta la tua energia a indagare le nostre colpe, e per questo confidiamo di trovar posto accanto a te. Ma chi conta davanti a te i suoi veri meriti, che cosa conta se non i doni che ha da te? O se gli uomini si riconoscessero uomini, e chi si gloria si gloriasse nel Signore!
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35. È per questo che io, mio vanto e vita mia, Dio del mio cuore, metto da parte per un attimo le sue buone azioni, per cui con gioia ti rendo grazie, e chiedo perdono per i peccati di mia madre. Ascoltami, in nome di chi fu appeso al legno per esser medicina alle nostre ferite, e siede alla tua destra e intercede per noi. Io so che agì con intima bontà e di cuore rimise i debiti ai suoi debitori; e tu rimetti i suoi a lei, se ne ha contratti nei lunghi anni seguiti all'acqua della salute. Rimettili, Signore, rimettili, te ne supplico, non entrare in giudizio con lei. La misericordia trionfi sulla giustizia, perché i discorsi che hai fatto sono veri e tu hai promesso misericordia ai misericordiosi. Sei tu del resto che hai concesso di esserlo a quelli di cui hai avuto compassione: perché tu hai pietà di quelli di cui hai pietà, e usi compassione con quelli con cui vuoi usarne.
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36. E già hai fatto, credo, quello che ti chiedo: pure accetta, Signore, l'offerta spontanea della mia bocca. Lei, mia madre, nell'imminenza della sua liberazione non si diede pensiero che il suo corpo venisse sepolto con cerimonie fastose o conservato con aromi, non desiderò la distinzione di un monumento e non si preoccupò di avere un sepolcro in patria; non fu questo il testamento che ci lasciò, ma il suo unico desiderio era di essere ricordata davanti al tuo altare, cui aveva prestato i suoi servizi ogni giorno senza intermissione. Sapeva che di là si dispensa la vittima innocente in forza di cui fu cancellato il documento della nostra condanna e un trionfo fu riportato sull'avversario: calcoli pure il numero delle nostre colpe e cerchi pure un capo d'imputazione, in lui che ci ha resi vincitori non troverà nulla. Chi gli rifonderà il sangue innocente? Chi gli renderà quello che ha pagato per riscattarci all'avversario? Al mistero del nostro riscatto la tua ancella si legò nell'anima col vincolo della fede. Nessuno può strapparla alla tua protezione. Non si intromettano con la forza o l'astuzia il leone o il dragone: lei non risponderà che non ha debiti, per non essere dimostrata colpevole e trattenuta da un accusatore scaltro, ma risponderà che i suoi debiti sono stati condonati da colui che nessuno potrà mai ripagare di quanto ha pagato per noi, senza nulla dovere.
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37. Riposi dunque in pace con l'uomo di cui fu sposa, il solo di cui lo fu, e che servì portandoti il suo frutto con pazienza, per guadagnare anche lui a te. E tu ispira, mio Signore e Dio mio, ispira tu i tuoi servi e miei fratelli, i tuoi figli e padroni miei, che io servo col cuore e la voce e la penna: e ogni volta che leggeranno queste pagine si ricorderanno davanti al tuo altare di Monica, tua ancella, con Patrizio che fu un tempo suo sposo. Attraverso la loro carne mi hai fatto entrare in questa vita - come, non so. Con devozione si ricorderanno di loro: genitori miei in questa luce provvisoria, e miei fratelli in te che ci sei Padre e nella madre cattolica, e miei concittadini nella Gerusalemme eterna, a cui sospira il tuo popolo lungo tutto il suo cammino dall'inizio al ritorno. Così sia meglio appagato in virtù di queste confessioni il suo estremo desiderio: lo sia nella preghiera di molti, piuttosto che nella mia soltanto.
LIBRO DECIMO
[IL PRESENTE E LA MEMORIA]
[Preambolo: ragioni di confessare il presente]
1.1. Io conoscerò te che mi conosci, io ti conoscerò come tu mi conosci. Tu, potenza dell'anima, entra in lei, portala alla tua altezza, perché senza macchia né ruga ti si offra a esser posseduta. Questa è la mia speranza e perciò parlo, è di questa speranza che gioisco, ogni volta che la mia gioia è vera. E quanto alle altre cose in questa vita, più si piange per loro e meno sono degne di rimpianto, e tanto più ne sono degne quanto meno si piange per loro. Ecco, tu ami la verità, perché chi fa la verità viene alla luce. Io la farò nel mio cuore davanti a te in questa confessione: e anche su queste pagine però, davanti a molti testimoni.
2.2. Del resto che segreti avrei per te, Signore, che coi tuoi occhi denudi l'abisso della coscienza umana, anche se non volessi confessarmi a te? Nasconderei te a me, non viceversa. Ora poi che il mio pianto testimonia il fastidio che provo per me stesso, sei tu la luce e il termine del desiderio, del piacere, dell'amore, fino a farmi arrossire di me stesso, a fuggire da me per abbracciare te, a non voler piacere né a me né a te se non per quello che ho da te. Sono tutto davanti a te, Signore, comunque io sia. E con che frutto io mi confessi a te, l'ho detto. Non con parole che hanno corpo e suono, ma con parole dell'anima e grida del pensiero, che il tuo orecchio conosce. Se son malvagio confessarmi a te altro non è che dispiacermi; se devoto, altro non è che rendertene merito, perché tu, Signore, benedici il giusto, ma prima, quando ancora è empio, lo giustifichi. Perciò la mia confessione al tuo cospetto, Dio mio, si fa in silenzio e non si fa in silenzio. Tace la voce, grida il sentimento. E io niente di vero dico agli uomini che tu non abbia saputo già prima, e tu da me niente vieni a sapere che non m'abbia tu stesso detto prima.
3.3. Ma cosa ho in comune io con la gente, per farle ascoltare le mie confessioni, come se quelli potessero guarire tutte le mie malinconie? Razza curiosa della vita altrui, tarda a correggere la propria. Ma perché vogliono sapere da me chi sono io, se non voglion sapere da te chi sono loro? E come fanno a sapere se dico il vero quando mi sentono parlare di me stesso, quando non c'è uomo che sappia quel che passa in un uomo, fuorché lo spirito dell'uomo che è in lui? Ma se ascoltassero te parlare di se stessi, non potrebbero dire: "Dio mente". Perché cos'è ascoltare da te parole su se stessi, se non conoscere se stessi? E chi poi si conosce e dice "È falso", se non mente egli stesso? Ma poiché tutto crede l'amore, almeno fra le persone che stringe in un unico vincolo, anch'io, Signore, ti faccio queste confessioni per giungere all'orecchio di uomini ai quali non posso far toccare con mano la loro verità: mi crederanno quelli cui l'amore apre le orecchie.
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4. Ma tu, mio medico interiore, fammi vedere con chiarezza il frutto di queste confessioni. Quelle dei miei mali passati, che hai condonato stendendovi un velo, perché trovassi in te la beatitudine una volta che tu m'avessi rinnovata l'anima con la tua fede e il mistero, quelle dunque a leggerle o ascoltarle risvegliano il cuore dal letargo della disperazione, perché non dica: "No, non ce la faccio". E perché in amorosa veglia attenda la bontà del tuo perdono e la carezza della tua grazia, che rende forte ogni uomo malcerto, e capace di giungere a coscienza, per mezzo suo, dell'instabilità. E a chi sta già nel bene fa piacere sentir parlare dei mali passati di persone che ormai ne sono libere: non perché sono mali fa piacere, ma perché furono, e non ci sono più. Ma io su queste pagine confesso davanti a te, anche agli uomini, chi sono ora, non più chi ero. Con quale frutto allora, mio Signore? Ogni giorno si confessa a te la mia coscienza, che s'affida alla speranza del tuo benigno perdono più che alla sua innocenza. Dimmi: con quale frutto? L'altro, quello del mio passato, l'ho visto e ne ho già detto. Ma ecco, chi sono io nello stesso momento nel quale scrivo queste confessioni, molti certo vorrebbero saperlo, che mi hanno conosciuto e non mi hanno conosciuto, che hanno sentito dire qualcosa da me o anche solo di me, ma non hanno l'orecchio appoggiato al mio cuore, dove io sono quello che sono. Vogliono dunque sentire da me, sentirmi confessare quello che io sono intimamente. Quello che sono là dove non possono arrivare con gli occhi o con le orecchie, e neppure col pensiero. Sono disposti a credere, ma potranno conoscere? L'amore che li fa ben disposti infatti glielo dice, che non mento in questa confessione di me stesso, e ancora è questo amore in loro a credermi.
4.5. Ma quale sarà il frutto di questo desiderio? Che si rallegrino con me nell'apprendere il dono che mi fai di darmi accesso a te, e preghino per me all'udire quanto mi ritarda il mio peso? A persone del genere io mostrerò me stesso. Non è un piccolo frutto, mio Signore e Dio, se molti ti ringraziano per noi e molti per noi ti pregano. Possa la loro mente fraterna amare in me quello che tu insegni ad amare, piangere in me quello che insegni a piangere. Questo farà la mente di un fratello, non quella di un estraneo, o di figli di un altro, che dalla bocca sputano vanità, e che stringono in mano l'ingiustizia. No, solo quella di un fratello, che nella sua approvazione sia felice per me, e nella disapprovazione per me si rattristi; uno che, mi approvi o mi disapprovi, mi ama tuttavia. A chi è fatto così io mostrerò me stesso: il mio bene gli allargherà il respiro, il mio male lo farà sospirare. Ciò che è bene per me sei tu che l'hai voluto, tu che me l'hai donato; ciò che è male sono peccati miei e condanne tue. Sentiranno il respiro allargarsi nel bene e per il male sospireranno, e l'inno e il pianto saliranno insieme fino a te, su da questi turiboli che sono i cuori fraterni. Ma tu, Signore, se gradisci il profumo del tuo tempio, abbi pietà di me secondo la tua misericordia immensa, in grazia del tuo nome. Tu che non abbandoni mai ciò che cominci, porta alla sua pienezza ciò che in me è incompiuto.
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6. Ecco il frutto che verrà dalle mie confessioni non di quello che ero, ma di quello che sono, se lo farò non solo davanti a te, con euforia segreta e con tremore, con segreto sconforto e con speranza, ma anche alle orecchie di quelli fra i figli degli uomini che credono, che condividono le mie gioie e la mia mortalità, dei miei concittadini e come me stranieri itineranti, di quelli venuti prima di me e di quelli che verranno dopo, e dei miei compagni di strada. Sono questi i tuoi servi, miei fratelli, i figli tuoi che tu hai voluto darmi per padroni, che tu mi hai comandato di servire, se voglio vivere con te e di te. E questa tua parola non sarebbe bastata, se ti fossi limitato a insegnarla parlando, senza mostrarmi la via con l'azione. E anch'io lo faccio con atti e con parole, lo faccio sotto le tue ali, e il rischio è immenso: se non che l'anima si ripiega sotto le tue ali e la mia instabilità ti è nota. Io sono un fanciullino ancora, ma mio padre è vivo e ho un protettore tutto per me: è lui stesso, lui che mi ha generato, a proteggermi. Tu stesso sei ogni mio bene, tu onnipotente che sei con me anche prima che io sia con te. E allora alle persone come quelle che mi comandi di servire io mostrerò non più quello che ero, ma quello che son già e che sono ancora; ma neppur io mi giudico. E così possa essere ascoltato.
5.7. Perché sei tu, Signore, a giudicarmi. Già: è vero che nessun uomo conosce ciò che riguarda un uomo se non lo spirito di quell'uomo, che è in lui; ma c'è qualcosa in un uomo che perfino lo spirito che è in lui non conosce. Ma tu, Signore, sai tutto di lui, perché sei tu che l'hai fatto. Io poi per quanto al tuo cospetto mi disprezzi e mi senta terra e cenere, so qualcosa di te che di me ignoro. E certo, ora vediamo attraverso uno specchio e in enigma, non ancora faccia a faccia; ed è per questo che finché vado errando lontano da te ho presente me stesso più che te: eppure so di te che sei assolutamente inviolabile; quanto a me invece ignoro a quali tentazioni io sia in grado di resistere, e a quali non lo sia. E speranza ce n'è, perché sei di parola tu, e non permetti che siamo tentati oltre le nostre forze, ma con la tentazione crei anche lo scampo, perché possiamo resistere. Confesserò quello che so di me, confesserò anche quello che non so, perché anche ciò che so di me lo so per tua illuminazione, e ciò che ignoro lo ignorerò fino a quando il mio buio sarà come disteso mezzogiorno alla luce del tuo volto.
[L'itinerario della mente in Dio]
6.8. Ciò di cui in coscienza io non dubito, Signore, è che amo te. La tua parola mi ha colpito in cuore, e io ti ho amato. Ma anche il cielo e la terra e tutto quello che contengono mi dicono di amarti, e non cessano di dirlo a ogni uomo, perché non ci sia scusa per nessuno. Anche se più profonda sarà la tua pietà verso chi ne godrà, più sollecito il tuo perdono per chi vorrai perdonare: altrimenti cielo e terra cantano le tue lodi ai sordi. Ma cosa amo, amando te? Non la grazia di un corpo, non il fascino del mondo, non la candida luce amica di questi occhi, non la carezza melodiosa dei canti, non il profumo dei fiori o di balsami e aromi, non la manna e il miele degli abbracci e dei desideri carnali. Non è questo che amo, quando amo il mio Dio. Eppure amo una sorta di luce, una sorta di voce e di profumo e di cibo e una sorta di abbraccio, quando amo il mio Dio: luce, voce, profumo, cibo e abbraccio dell'uomo interiore, dove ogni cosa splende e risuona e profuma per l'anima, e da lei sola si fa assaporare e stringere. Dove c'è luce non diffusa nello spazio e musica non rapita dal tempo e profumo che il vento non disperde e sapore che la nausea non scema - e un abbraccio che la sazietà non scioglie. Questo è quello che amo, quando amo il mio Dio.
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9. E che significa questo? L'ho chiesto alla terra e mi ha detto: "Non sono io": e tutte le cose che essa contiene hanno fatto la stessa confessione. L'ho chiesto al mare e ai suoi abissi e ai rettili dall'anima viva e mi hanno risposto: "Non siamo noi il tuo Dio - cerca sopra di noi". L'ho chiesto al sussurro dei venti e l'intero mondo dell'aria con i suoi abitanti mi ha risposto: "Sbaglia Anassimene: non sono Dio". L'ho chiesto al cielo, al sole, alla luna e alle stelle: "Neppure noi siamo il Dio che tu cerchi". E ho detto a tutte le cose del mondo circostante le porte della mia carne: "Parlatemi del Dio che voi non siete, parlatemi di lui". E a gran voce hanno gridato: "È lui che ci ha fatte". Le interrogavo con la mia tensione; e la loro risposta era l'idea in cui ciascuna si offriva al mio sguardo. E poi mi sono rivolto a me stesso e mi sono chiesto: "Tu chi sei?" - "Un uomo". Ecco qui: corpo e anima, l'uno esterno l'altra interiore. Quale fra queste due cose è quella con cui avrei dovuto cercare il mio Dio, che già avevo cercato col corpo dalla terra al cielo, fin dove arrivavano i messaggeri dei miei occhi? L'interiore è migliore. A questo infatti, al suo superiore giudizio, tutti i messaggeri del corpo riferivano le risposte del cielo e della terra e di tutte le cose che vi sono contenute: "Non siamo Dio", "È lui che ci ha fatte." L'uomo interiore viene a conoscenza di questo servendosi dell'uomo esteriore: io, l'io interiore, io la mente lo so mediante il mio corpo sensibile. Ho chiesto del mio Dio alla massa dell'universo, e mi ha risposto: "Non sono io, ma è lui che mi ha fatto".
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10. Non appare a chiunque abbia conservato la pienezza delle sue facoltà sensoriali, questa bellezza delle idee? Perché non a tutti parla allo stesso modo? Gli animali, piccoli e grandi, la vedono, ma non la sanno interrogare. Non c'è in loro ragione che presieda nel ruolo di giudice ai messaggi dei sensi. Gli uomini invece hanno facoltà di interrogare, per vedere e capire le invisibili cose divine attraverso quelle create, ma per amore se ne lasciano soggiogare, e dei succubi non possono fare i giudici. E tutte queste cose d'altra parte non rispondono che alle domande di chi sa giudicare: e la loro voce - cioè la loro bellezza - non muta a seconda che uno si limiti a vederla, oppure la interroghi con lo sguardo, in modo da apparire diversa a ciascuno dei due, ma pur avendo per entrambi lo stesso aspetto, per uno è muta dove all'altro parla: anzi per la verità parla a tutti, ma a intenderla sono soltanto quelli che accolgono la voce dall'esterno per confrontarla nell'intimo con la verità. Perché la verità mi dice: "Non è la terra e il cielo il tuo Dio, non è alcuno dei corpi". Lo dice la loro natura. Tutti lo vedono: è massa, dove una parte è minore del tutto. Tu sei già meglio - dico a te, anima - perché sei tu che fai fiorire il corpo, prestandogli la vita che nessun corpo presta a un altro corpo. Ma il tuo Dio è per te la vita della tua stessa vita.
7.11. Che cosa amo dunque amando il mio Dio? Chi è questo che si leva in cima all'anima, al di sopra di lei? Proprio attraverso quest'anima salirò a lui. Passerò oltre la potenza che mi tiene avvinto al corpo e fa che io ne riempia di vita la compagine. Non è in questa potenza che trovo il mio Dio: se no ce lo troverebbero anche il cavallo e il mulo, che non hanno ragione, ma hanno questa stessa potenza a far vitali anche i loro corpi. C'è un'altra potenza, la quale mi fa capace di infondere non solo vitalità, ma sensibilità a questa carne che Dio m'ha fabbricato, comandando all'occhio di non udire e all'orecchio di non vedere, ma all'uno di farmi vedere e all'altro di farmi udire, e assegnando a ciascuno dei sensi le sue proprie caratteristiche in base alla sua sede e alla sua funzione. Diverse azioni che io, l'unica mente, compio per loro mezzo. Oltrepasserò anche questa forza, che pure condivido col cavallo e col mulo: anche a loro il corpo procura sensazioni.
[Meditazione sulla memoria]
8.12. Dunque oltrepasserò anche questa mia potenza naturale, ascendendo per gradi a quello che mi ha fatto: ed eccomi giunto ai campi e ai vasti palazzi della memoria, dove si accumulano tesori di innumerevoli immagini, per ogni sorta di oggetti della percezione. Lì è custodito tutto ciò che ci avviene di pensare, amplificando o riducendo o comunque variando i dati dei sensi, e quant'altro vi sia stato riposto in consegna, purché l'oblio non l'abbia ancora inghiottito o sepolto. E lì mi basta chiedere, quando mi ci trovo, che mi si presenti qualunque cosa io desideri: alcune arrivano subito, altre si fanno cercare più a lungo, come se occorresse stanarle da più segreti ricettacoli, altre ancora irrompono in massa, e mentre non le si cerca affatto saltano quasi fuori a dire "Siamo noi per caso?" E io con la mano del cuore le caccio via dalla sua vista, dal ricordo, finché lo sguardo non si snebbi e non appaia proprio la cosa nascosta che cercavo. Altre cose si offrono docilmente e di seguito, senza interruzioni, nell'ordine in cui erano state richieste, così che le precedenti fanno posto alle successive per tornare ai loro depositi, pronte a uscirne di nuovo a mio piacere. Tutto questo avviene quando recito a memoria.
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13. Lì si conservano, distinte per genere, tutte le cose che vi sono entrate - ciascuna dall'ingresso suo proprio: la luce e tutti i colori e le forme dei corpi dagli occhi, dalle orecchie ogni sorta di suoni, tutti gli odori dalle narici e tutti i sapori dalla bocca, e attraverso la sensibilità di tutto il corpo il duro e il molle, il caldo e il freddo, il liscio quanto il ruvido, e peso e leggerezza - insomma tutte le qualità dei corpi, esterne o interne che siano. E il grande antro della memoria tutto questo accoglie in certe sue pieghe segrete e ineffabili, perché si possa all'occorrenza richiamarlo e disporne: e ciascuna cosa che vi si ripone ha il suo ingresso riservato. Certo, non sono le cose stesse a entrarvi: sono le immagini delle cose percepite che stanno lì, pronte a offrirsi al pensiero che le richiama alla mente. E chi può dire quale sia il loro segreto di fabbricazione? Palese è solo quali sono i sensi che le hanno catturate e consegnate in custodia. Io posso anche starmene in silenzio, al buio: ma se voglio rimetto a fuoco i colori nella memoria e distinguo il bianco dal nero e da qualunque altro colore: e non accade che i suoni si intromettano disturbandomi nella considerazione di ciò che ho appreso dalla vista. Eppure anch'essi si trovano lì: ma sono come latenti, in disparte. Tanto che se mi aggrada di richiamare anche loro, subito si presentano: e io senza muover la lingua, a gola muta, canto finché ne ho voglia: e a loro volta le immagini di colore, pur essendo ancora lì, non vengono a interferire e a disturbarmi nella mia rassegna di quest'altro tesoro confluito dalle orecchie. E così via, per tutte le altre cose immesse dagli altri sensi e lì ammassate: le richiamo alla memoria a mio piacimento, e senza annusarlo distinguo il profumo dei gigli da quello delle viole, e mi basta il ricordo per continuare a preferire il miele al decotto di mosto e il liscio al ruvido, senza nulla gustare né palpare al momento.
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14. E tutte queste operazioni io le eseguo al mio interno, nella corte grandiosa della mia memoria. Lì cielo e terra e mare restano a mia disposizione, con tutto ciò di cui sono riuscito ad avvertire l'esistenza - tranne quello che ho dimenticato. Là incontro anche me stesso e mi vedo rivivere nelle mie azioni, nel tempo e nel luogo e nello stato d'animo in cui le ho compiute. Là c'è tutto quello che ricordo d'aver vissuto o creduto. Da questa ricca provvista, cioè, mi vengono le immagini non solo di cose incontrate nell'esperienza, ma anche di cose semplicemente credute sulla base di queste: immagini via via sempre nuove che io vado tessendo a quelle passate, così che ne emerga anche la trama del futuro: azioni eventi e speranze. E tutto questo è come se mi fosse presente, durante la mia meditazione. "Farò questo e quello" dico fra me nel vastissimo grembo della mia mente, folto di immagini di tante e così grandi cose, e questo e quello si compie. "Oh se accadesse questo o quello!" "Dio ci scampi da questo o da quello!": così dico fra me e nel dirlo trovo già pronte a uscire dal tesoro della memoria le immagini di tutte le cose che dico: e se queste venissero a mancare, non potrei dire cosa alcuna.
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15. Grande è questa potenza della memoria, troppo, Dio mio: una cripta profonda e sconfinata. Chi può toccarne il fondo! Ed è una potenza della mia mente, fa parte della mia natura: eppure io stesso non comprendo tutto quello che sono. La mente è dunque troppo angusta per contenere se stessa! E dov'è allora ciò che non comprende di sé? Dev'essere in lei stessa, non fuori di lei. E allora in che senso non lo comprende? Una gran meraviglia mi nasce da questo pensiero, e resto stupefatto. E vanno ad ammirare le montagne altissime e le onde paurose del mare e il bacino dei grandi fiumi e l'orizzonte dell'oceano sconfinato e il girotondo delle stelle: e trascurano se stessi, gli uomini, e non si meravigliano che io parli di tutte queste cose senza vederle con gli occhi. Eppure non potrei parlarne affatto se non avessi entro di me spazi così grandiosi da spalancarmi davanti, nella memoria, le montagne e i fiumi e le onde e le stelle che vidi, e l'oceano di cui sentii parlare: come li avessi fuori di me, nel giro dello sguardo. Pure, il mio sguardo non le ha inghiottite quando con i miei occhi le ho vedute, e non sono le cose stesse che ritrovo in me, bensì le loro immagini, e di ciascuna io conosco l'origine e il senso che ne ha prodotto l'impressione.
[Memoria intellettuale]
9.16. Ma non è solo questo che si porta in grembo, questa capacità smisurata della mia memoria. Qui c'è anche tutto ciò che ho appreso delle discipline liberali e che ancora non s'è perduto: è come relegato in un più interno luogo che non ha luogo: e in questo caso ne porto non le immagini, ma le cose stesse. Cos'è la letteratura? E la dialettica? Quanti tipi di questioni ci sono? Son tutte cose che ho nella memoria, per quel tanto che ne so. Non mi sono limitato a trattenerne le immagini lasciando fuori le cose stesse: ad esempio una voce, che risuona all'orecchio e poi passa, ma imprime una traccia buona a richiamarla e quasi a farla ancora risuonare quando ormai tace; o un odore, che svanisce nel vento e mentre passa colpisce l'olfatto, e così trasmette alla memoria un'immagine di sé, revocabile a proprio piacimento; oppure un cibo, che ormai nel ventre non ha più sapore, eppure quasi lo si riassapora nella memoria, o una cosa sensibile al tatto, che anche una volta separata dal nostro corpo tocchiamo nell'immaginazione, ricordandola. Non sono le cose stesse allora a introdursi nella memoria, ma solo le loro immagini: ed è una meraviglia la rapidità con cui queste vengono afferrate, e la sorta di cellette in cui vengono riposte, e come nel ricordo si fanno presenti.
10.17. Invece, quando sento dire che tre sono i generi di questioni, e riguardano l'esistenza, l'essenza e il valore di una cosa, è certamente vero che io ritengo le immagini dei suoni di cui queste parole sono composte, e so che questi sono passati diffondendosi per l'aria e che non ci sono più. Ma le cose stesse che da quei suoni sono significate mai le ho sfiorate con un senso del corpo, né mai le ho viste fuori dalla mente, e nella memoria ho custodito non le loro immagini, ma loro stesse: ora dicano da dove sono entrate in me, se possono. E io passo in rassegna tutte le porte della mia carne e non ne trovo una per cui siano passate. Dicono gli occhi: "Se hanno colore, siamo stati noi ad annunciarle"; e le orecchie: "Se emettevano suoni, le abbiamo segnalate noi"; e le narici: "Se avevano odore, è attraverso di noi che sono passate"; e anche il gusto dice: "Se non hanno sapore, non chiedere a me". E il tatto: "Se non c'era del grosso da toccare io che ne so, se non tocco non sento". E allora da dove mi sono venute alla memoria quelle nozioni, e per dove son passate? Non lo so. So che io non le ho apprese affidandomi al cuore di un altro, ma nel mio le ho riconosciute e ho assentito alla loro verità per poi affidarle a lui come a un deposito, da cui potessi a mio piacere riportarle alla luce. Dunque erano lì anche prima che io le apprendessi, lì e non nella memoria. Ma allora dove e come le riconobbi appena udite, dicendo "Sì, è vero", se non erano già nella memoria - benché così remote e relegate in cavità tanto più inaccessibili, che forse se nessuno mi avesse insegnato a scavare per estrarle, io non avrei saputo pensarci da solo.
11.18. Abbiamo dunque fatto una scoperta, che riguarda le cose di cui non otteniamo immagini attraverso i sensi, ma che vediamo distintamente e direttamente in noi stessi, esattamente come sono. Apprendere queste cose altro non è che raccoglierne col pensiero i frammenti sparsi disordinatamente nella memoria, e in certo modo prendersene cura, prestando loro attenzione: in modo da poterle poi avere come a portata di mano nella memoria stessa, docili all'intenzione consueta, invece di lasciarle soltanto latenti, disperse e trascurate. E quante cose di questo genere porta in sé la mia memoria, già ritrovate e come ho detto quasi messe a portata di mano, cose che abbiamo appreso e conosciamo, come si usa dire. Eppure se smetto di richiamarle alla mente anche per brevi periodi, affondano di nuovo e paiono svanire in recessi remotissimi, tanto che occorre di nuovo es-cogitarle, cioè cavarle fuori col pensiero - da lì, dalla loro regione d'origine, ché altra non ne hanno - come se fosse la prima volta: e di nuovo raccoglierle, per poterle conoscere. Raccoglierle cioè come se fossero disperse - da cui l'origine del verbo cogitare. Cogito infatti sta a cogo (raccolgo) come agito ad ago, factito (pratico, faccio abitualmente) a facio. Ma di questo verbo la mente si è riservata la proprietà esclusiva, così che nel significato proprio cogitare vuol dire raccogliere, cioè cogere, nella mente soltanto, e non altrove.
12.19. In questo stesso senso la memoria contiene le relazioni e le leggi innumerevoli dei numeri e delle misure, che non sono in alcun modo derivate da impressioni sensoriali, visto che non hanno colore suono odore, non si gustano e non si palpano. Ho udito il suono delle parole con cui si designano queste relazioni e leggi, quando se ne disserta, ma altro sono le parole, altro le cose. Quelle suonano in greco e in latino diverse, queste non sono né greche né latine né di qualunque altra razza di idiomi. Ho visto artefici operare con strutture di fili sottilissime, simili a tele di ragno: ma le dimensioni di cui parlo sono altra cosa, non sono immagini di quelle di cui mi informa l'occhio della carne. Le conosce chiunque in se stesso le ha riconosciute senza affatto pensare a qualche corpo. Ho anche percepito, e con tutti i sensi del corpo, gli insiemi che contiamo: ma altra cosa sono quelli con cui contiamo, i numeri stessi, e non sono immagini dei primi e proprio per questo hanno vera consistenza. Rida pure delle mie parole chi non li vede: a me farà pena il suo riso.
13.20. Di tutto questo ho memoria, e ho memoria anche di come l'ho appreso. E così pure di molte falsissime obiezioni che ho udito avanzare in proposito, ho memoria: son false, certo, ma non è falso che me ne ricordi. E ricordo anche di aver distinto la verità di quelle asserzioni dalla falsità di queste che le contraddicevano; e vedo che una cosa è il discernimento attuale di queste questioni, altra cosa è il ricordo del discernimento che ne avevo ogni volta che ci pensavo. Dunque ricordo anche di averle capite parecchie volte: non solo, ma affido ancora in custodia alla memoria ciò che distinguo e capisco ora, per poi ricordarmi di averlo ora capito. Dunque ricordo anche di essermi ricordato; e parimenti in seguito, se riuscirò a richiamare alla mente di aver potuto ora ricordare questo, è in virtù della memoria che ci riuscirò.
[Memoria affettiva]
14.21. Anche le mie emozioni contiene, questa stessa memoria: non come son vissute dalla mente quando ne è presa, ma in un modo assai diverso, caratteristico della memoria. Così io senza gioia mi ricordo di aver gioito e senza tristezza rievoco la mia passata tristezza e senza paura richiamo alla mente le paure che talvolta ho avuto e serbo ancora memoria dei desideri antichi, senza più averne. Anzi al contrario, talvolta mi rallegra il ricordo della mia tristezza, e quello della gioia passata mi rattrista. Questo non deve sorprendere se si tratta del corpo, perché il corpo è una cosa e un'altra la mente. Ma che dire nel caso di cui parliamo ora, se la mente altro non è che la memoria stessa? E infatti assegnando il compito di mandare a memoria qualcosa noi diciamo: "Cerca di tenerlo a mente", e quando dimentichiamo: "Non l'ho tenuto a mente" o "M'è uscito di mente", chiamando mente la memoria stessa: se così è, che significa questo? Perché nel lieto ricordo della mia passata tristezza la mente ha piacere e la memoria contiene tristezza, eppure la mente è lieta di questo piacere che ha, mentre la memoria non si lascia rattristare dalla tristezza che contiene? Che la memoria non appartenga alla mente? È una tesi insostenibile. No, la memoria è in un certo senso il ventre della mente, e cibo dolce o amaro la gioia e la tristezza: una volta affidate alla memoria possono esservi custodite, ma come cose passate nel ventre non possono più aver sapore. Credere che i due processi siano proprio simili sarebbe ridicolo: ma non sono neppure completamente diversi.
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22. Ma ecco, ricorro alla memoria anche quando dico che quattro sono le turbe della mente: desiderio, gioia, paura, tristezza. E per quanto io possa discuterne, analizzando ciascuna secondo le specie del suo genere d'appartenenza e dandone le definizioni, è lì che trovo le cose da dire e di lì le traggo. E tuttavia non mi sento affatto sconvolto o turbato, quando le richiamo alla mente per passarle in rassegna. È pur lì che si trovavano prima d'esser rievocate e riprese in considerazione da parte mia: di lì appunto per questo il ricordo ha potuto cavarle. E forse allora ricordare è come ruminare, far tornare su dalla memoria cose del genere come cibo dal ventre. Ma allora perché il dolce sapore della gioia o quello amaro della tristezza non lo si sente in bocca al pensiero quando le si rievoca per discuterne? È per questo che l'analogia è solo parziale, è qui la differenza? Già, chi ne parlerebbe volentieri, se ogni volta che uno nomina la tristezza o la paura dovesse per forza rattristarsi o rabbrividire? E tuttavia non ne parleremmo, se non trovassimo registrati nella nostra memoria non solo i suoni dei loro nomi, cioè le immagini che ne sono state impresse dai sensi, ma anche le nozioni delle cose stesse. E queste non vi sono certamente entrate per le porte della carne, ma le sono state affidate dalla mente stessa che le ha apprese attraverso le passioni vissute, o vi si sono conservate anche involontariamente.
15.23. Ma se è mediante immagini o no che si conservano, non è facile dirlo. Certo, di una pietra o del sole mi basta dire il nome per suscitarne le immagini nella memoria, anche quando le cose stesse non mi sono sensibilmente presenti. Nomino il dolore fisico in sua assenza, mentre non lo provo: ma se non avessi presente alla memoria una sua immagine non saprei di che cosa parlo, e nel disquisirne non sarei neppure in grado di distinguerlo dal piacere. Nomino la salute fisica, mentre sono fisicamente sano; la cosa stessa mi è presente: ma se non ne avessi anche un'immagine nella memoria non ricorderei affatto il significato di quel nome, di quella sequenza di suoni, e così i malati sentendo nominare la salute non capirebbero di che cosa si parla, se pur nella mancanza fisica della cosa stessa non avessero il potere di conservarne viva e inalterata l'immagine nella memoria. Pronuncio i nomi dei numeri che usiamo per contare: ed essi stessi, non le loro immagini, mi si presentano alla memoria. Nomino l'immagine del sole, ed eccola presente: non l'immagine di questa immagine, ma essa stessa ho evocato, è proprio questa che si offre prontamente al mio richiamo. Nomino la memoria e riconosco ciò che nomino, e dove lo riconosco, se non nella memoria stessa? E anche lei sarebbe presente a sé solo in immagine? O non piuttosto in se stessa?
[Memoria e oblio]
16.24. Sì, ma anche quando nomino l'oblio riconosco la cosa di cui parlo: e come farei se non me ne ricordassi? Non semplicemente della parola, voglio dire, del suo suono: ma della cosa che essa significa. Dimenticata questa, anche il valore del suono io non varrei a riconoscerlo. Dunque quando ho memoria della memoria, questa è presente a sé in se stessa; ma quando ho memoria del'oblio entrambi sono presenti, memoria e oblio: la memoria, con cui ricordo, e l'oblio, che ricordo. Ma che cos'è l'oblio se non assenza di memoria? In che senso dunque è presente - tanto da poterlo ricordare - se lui presente è assente la memoria? Eppure se serbiamo memoria di ciò che ricordiamo, e se d'altra parte senza il ricordo dell'oblio non potremmo neppure, quando ne sentiamo il nome, riconoscerne il significato, allora anche dell'oblio si serba memoria. E così ci è presente e non la dimentichiamo, questa assenza per cui dimentichiamo. Ma questo cosa vuol dire? A quanto sembra, che quando ricordiamo l'oblio, non è la cosa stessa che si trova nella memoria, ma una sua immagine: perché la presenza essenziale dell'oblio ce lo farebbe dimenticare, e non già ricordare. Ma infine, chi saprà affrontare questa indagine? E capire come stanno le cose veramente?
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25. Che fatica mio Signore è questa di scavare in me stesso: mi son fatto a me stesso terra di pena e di sudore. E non sono le plaghe del cielo, gli spazi interstellari o le bilance su cui si libra la terra che stiamo studiando o calcolando: sono io che ricordo, io la mente. Non fa meraviglia che sia lontano da me tutto ciò che io non sono: ma che cosa mi è più vicino di me stesso? E tuttavia la potenza della mia memoria non si lascia comprendere da me, che pure senza di lei non potrei nemmeno chiamarmi "me stesso". Perché che cosa dovrei dire, quando sono certo di avere memoria dell'oblio? Che ciò che ricordo non l'ho nella memoria? O che l'oblio inerisce alla memoria proprio perché io non dimentichi? Entrambe le proposizioni sono perfettamente assurde. Ma ce n'è una terza, vediamola. La mia memoria potrebbe conservare l'immagine dell'oblio, non l'oblio stesso, quando lo ricordo. Ma come posso sostenerlo, anche questo? Quando si imprime nella memoria l'immagine di una cosa, quale che sia, è sempre necessaria la presenza della cosa stessa, perché se ne imprima l'immagine. Così ad esempio mi ricordo di Cartagine, di tutti i luoghi in cui sono stato, dei volti che ho veduto, e dei dati di tutti gli altri sensi e anche della salute e del dolore: mi si offrirono in carne ed ossa queste cose, e la memoria ne catturò le immagini, per consentirmi di averle presenti e di penetrarle e riesaminarle con lo sguardo interiore quando le avessi rievocate, ormai assenti. Se dunque l'oblio si conserva nella memoria attraverso una sua immagine e non in se stesso, bisogna che sia stato realmente presente per lasciare questa immagine. Ma se fosse stato presente come avrebbe potuto iscrivere nella memoria la sua immagine, lui che con la sua sola presenza cancella tutto ciò che vi trova già segnato? Eppure ne sono certo: in un modo o nell'altro, per incomprensibile e inesplicabile che sia, io perfino dell'oblio serbo memoria, di questa rovina dei ricordi.
17.26. Grande è questa potenza della memoria: c'è qualcosa che fa paura, mio Dio, in questa sua profonda, infinita complessità. E tutto questo è la mente, sono io stesso. Dio mio, che cosa sono io, dimmi qual è la mia natura. Un'esistenza varia e polimorfa, smisurata e veemente. Eccoli, i campi e gli antri e le caverne innumerevoli della mia memoria, stipati di ogni sorta di cose, innumerevoli: e queste son lì, presenti solo in immagine - tutti i corpi, ad esempio - o in se stesse, come le capacità professionali, o sotto qualche specie di nozione o notazione, come gli stati d'animo - perché anche quando non sono vissuti, son pure tenuti a mente, se è nella mente tutto ciò che è nella memoria. E io passo in rassegna tutte queste cose, a volo, penetrando qua e là per quanto posso, ma non finiscono mai di scorrere: tanta è la potenza della memoria, tanta la vita implicita nell'uomo, per cui vivere è morire. Che cosa devo fare allora - mia vita vera, tu dimmi, mio Dio. Passerò oltre: anche oltre questa mia potenza che si chiama memoria, io la trascenderò per protendermi verso di te, dolce lume. Che cosa dici, ora? Sì, in questa ascesa verso di te che dimori più in alto io salirò per la mia stessa mente, trascenderò anche questa mia potenza che si chiama memoria, nel desiderio di incontrarti, qualunque sia la via di questo incontro, e di aderire a te, quale che sia questa adesione. In fondo anche le bestie e gli uccelli hanno memoria, altrimenti non ritroverebbero i loro nidi e le molte altre cose consuete: e non vi sono consuetudini che si possano acquistare senza memoria. Trascenderò dunque anche la memoria, per incontrare lui che mi ha distinto dai quadrupedi e mi ha fatto più sapiente degli alati. Trascenderò anche la memoria per trovarti - ma dove, vero bene, dolcissimo riposo, dove? Se non è nel raggio della memoria che ti trovo, vuol dire che ero immemore di te. E come posso trovarti, se di te non ho memoria?
18.27. Una donna aveva perduto una dracma e la cercò con la lucerna: ma non l'avrebbe trovata se non ne avesse serbato memoria. Perché come avrebbe fatto a sapere che era quella, trovandola, se non l'aveva già in mente? Molte cose perdute mi ricordo di aver cercato e trovato. Così so anche che se durante la ricerca mi si chiedeva: "È questo per caso? È quello?", io rispondevo di no finché non mi veniva presentata proprio la cosa che stavo cercando. E se non l'avessi tenuta a mente io non l'avrei trovata neppure se me l'avessero messa sotto gli occhi, perché non l'avrei comunque riconosciuta. E accade sempre così, quando cerchiamo e ritroviamo una cosa perduta. Se ad esempio perdiamo di vista una cosa qualunque, un oggetto visibile, ma senza che ci esca di mente, la sua immagine ci si conserva dentro, e noi cerchiamo finché non ci sia restituita alla vista. Appena la si trova la si riconosce dall'immagine che se ne aveva dentro. E non si ha l'uso di chiamare "ritrovata" una cosa che pareva perduta se non la si riconosce, né si può riconoscere una cosa se non se ne ha memoria: la cosa che per gli occhi non esisteva più, era in salvo nella memoria.
19.28. E quando è la memoria stessa a smarrire qualcosa, come accade quando cerchiamo di ricordare qualcosa che avevamo dimenticato, dove cerchiamo in effetti se non nella memoria stessa? E se questa ci presenta una cosa per un'altra la respingiamo, finché non appaia quella che cercavamo. E quando appare diciamo "Eccola, è questa": cosa che non diremmo se non la riconoscessimo, e non la riconosceremmo se non ne avessimo serbato memoria. Dunque è vero, ce ne eravamo dimenticati. Ma non del tutto: come se la parte che non ci era uscita di mente cercasse l'altra, e la memoria, sapendo che un tempo l'una si tirava dietro l'altra, e quasi sentendosi azzoppata nel moncone di questa abitudine, sollecitasse la restituzione della parte mancante. Così se abbiamo sotto gli occhi o in mente una persona che ci è nota e cerchiamo di ricordarci il suo nome, non riusciremo ad associarvene un altro, per quanti ce ne possano venire in mente: e li respingiamo uno per uno, finché non si presenta quello con cui eravamo abituati a pensare a quella persona, e in quel nome la sua consueta immagine si acquieta, quasi finalmente combaciandovi. E da dove torna a presentarsi quel nome se non dalla memoria stessa? È perché viene da lì che lo riconosciamo, anche quando sono altri a suggerircelo. Non ci crediamo infatti come a cosa nuova, ma ammettiamo che è proprio quello che ci vien detto, ora che ce ne ricordiamo. Se ci fosse stato completamente cancellato dalla mente, non lo riconosceremmo neppure dietro suggerimento. E in realtà non è ancora del tutto dimenticata, una cosa che ricordiamo di aver dimenticato. Una cosa che ci manca non si può neppure cercarla, se l'abbiamo dimenticata del tutto.
[La volontà universale di felicità]
20.29. Come ti cerco dunque, mio Signore? Cercando te, mio Dio, io cerco la felicità. Ti cercherò perché l'anima viva. Perché vive dell'anima il mio corpo, e di te vive l'anima. E come la cerco, la felicità? Finché io non dica "Basta, eccola", io non ce l'ho. Ma bisogna dire come la cerco: se è perché il cuore ne ha memoria, quasi l'avessi dimenticata senza scordare di averla dimenticata, o per il desiderio di conoscere l'ignoto, sia che non l'abbia conosciuta mai, sia che a tal punto me ne sia scordato, da non aver memoria di questo oblio. Ma non è la felicità, che tutti vogliono? Non c'è assolutamente nessuno che non la desideri; e dove l'hanno conosciuta, per desiderarla così? Dove l'han vista, per innamorarsene? Eppure noi l'abbiamo, io non so come. E altro è possederla ora, e ora esser felici, altro è vivere di speranza, felicemente. Questo è un modo d'averla inferiore al primo, di chi è felice della cosa stessa, ma superiore a quello di chi non vive né la felicità vera né quella della speranza. Eppure anche questi non desidererebbero tanto la felicità se in qualche senso non l'avessero: e che la desiderino, non c'è alcun dubbio. Dunque lo sanno, cos'è: una loro idea ce l'hanno. È quest'idea che mi sto sforzando di capire se si trova nella memoria. Perché se è lì, eravamo felici, una volta. Io non mi chiedo ora se lo eravamo come individui, ciascuno per sé, o tutti nell'uomo che peccò per primo, in cui noi tutti siamo morti e da cui siamo nati, infelici: ma chiedo se è nella memoria, quella vita felice. Perché non l'ameremmo, se non sapessimo cos'è. Ne abbiamo udito il nome, e tutti confessiamo di tendere alla cosa: non la parola, è chiaro, ci è gradita. Quella non piace al greco che la sente pronunciare in latino, perché non sa che cosa significa: ma a noi piace, e anche a lui, se la sente pronunciare in greco, perché non è né greca né latina la cosa stessa: una cosa che tutti si consumano dalla voglia di avere, greci e latini o qualunque sia quella che parlano fra le lingue della terra. È cosa a tutti nota: e se in un solo colpo si potesse porla a tutti, la domanda se desiderano la felicità, risponderebbero senza alcun dubbio a una voce: sì. Così non sarebbe, se non serbassero memoria della cosa che ha questo nome.
21.30. Ma se ne ha memoria al modo in cui si ricorda di Cartagine chi l'ha veduta? No: la vita felice è invisibile agli occhi, perché non ha corpo. Allora al modo in cui ci ricordiamo i numeri? No: perché chi ne ha nozione non per questo si studia di goderne, mentre la nozione che abbiamo della felicità ci basta per amarla ma non ancora per essere felici, e però noi la vogliamo godere. Allora è come la memoria che si ha dell'eloquenza? No: perché è vero che all'udirne il nome anche quelli che ancora non sono eloquenti si ricordano della cosa, e molti di loro vorrebbero esserlo - il che dimostra che ne hanno nozione -: ma è mediante i loro sensi che costoro si sono accorti dell'eloquenza altrui e ne han provato piacere e il desiderio di possederla a loro volta. Certo, non ne avrebbero provato piacere senza l'idea che nutrivano nell'intimo, né senza piacere ne avrebbero concepito il desiderio; ma la vita felice, non ci è dato sapere cosa sia negli altri, percepirla sensibilmente. Allora è come la memoria che si ha della gioia? Sì, forse. Ricordo una gioia anche se sono triste, come anche nell'infelicità ricordo che cos'era vivere felicemente. E neppure la gioia l'ho mai vista o udita, mai ne ho sentito il profumo o l'ho toccata: non ne ho esperienza per averla conosciuta coi sensi, ma perché l'ho vissuta nell'animo ogni volta che mi sono rallegrato. E la nozione che ne ho si è ogni volta consolidata nella memoria, per consentirmi di rievocarla ora con un moto di disprezzo e ora di rimpianto, a seconda dei motivi per cui ricordo di aver gioito. Perché mi è accaduto di farmi sommergere dalla gioia per motivi vergognosi, cosa il cui ricordo mi fa fremere di sdegno e di riprovazione, ma a volte anche per cose buone e belle, che rievoco con nostalgia, se ora mi mancano: e triste, allora, è il ricordo della gioia di un tempo.
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31. Ma dove e quando ho appreso che cos'era la felicità della mia vita, per averne il ricordo e provarne amore e desiderio? E non soltanto io o poche altre persone, ma tutti vogliamo essere felici. Se non ne avessimo ben precisa nozione, non ne avremmo una volontà tanto decisa. Ma che significa questo? Prova a chiedere a due persone se vogliono arruolarsi, e uno magari risponderà di sì, l'altro di no; ma chiedi se vogliono essere felici, e subito tutti e due diranno senza dubbio di sì, e anzi non hanno altro scopo che questo, d'esser felici, nel volersi o non volersi arruolare. Chi si diletta di una cosa, chi di un'altra. E così tutti si trovano d'accordo nel desiderio di felicità, così come lo sarebbero nel rispondere all'unisono, se interrogati, che desiderano godersi la vita. È questo godimento che chiamano vita felice. E anche se ciascuno ha il suo modo di godersela, uno solo è lo scopo che tutti si sforzano di conseguire, questo. La gioia di vivere, nessuno può dire di non sapere cosa sia; e per questo la si ritrova nella memoria, e la si riconosce, al solo udire il nome della felicità.
22.32. Via, lontano dal cuore del tuo servo che a te si confida, caccialo via il pensiero che basti a farmi felice il godimento di una gioia qualunque. C'è una gioia che non è data agli atei, ma a coloro che di te si fanno un disinteressato culto: sei tu la loro gioia. Ed è già questa la vita felice, la gioia che si cerca in te e deriva da te e per te si prova: questa e non altra. Chi crede che ve ne sia un'altra cerca altre gioie, ma non quelle vere. Ma è pur sempre un'immagine di gioia a orientare la sua volontà: a questa non volta le spalle.
23.33. Non è certo, allora, che tutti vogliano essere felici: perché chi non cerca il suo piacere in te, che sei la sola vita felice, in realtà non vuole la felicità. O forse sì, tutti la vogliono, ma i desideri della carne sono opposti allo spirito, e quelli dello spirito alla carne, e così non fanno ciò che vogliono: per questo perdono forza fino ad accontentarsi di ciò che è in loro potere, perché dove non valgono non vogliono abbastanza per potere. Già, io chiedo a ciascuno: preferisci godere del falso o del vero, e nessuno ha qualche dubbio nel pronunciarsi per il vero, non più di quanti ne abbia ad ammettere che desidera essere felice. Perché è appunto il piacere del vero, la felicità. Dunque è gioire di te, che sei la verità, luce e salvezza dei miei occhi, mio Dio. Questa felicità tutti la vogliono, questa vita che è la sola felice, tutti vogliono godere del vero. Molti ho incontrato che volevano ingannare, ma che volesse farsi ingannare, nessuno. Dove hanno appreso allora che cosa sia vivere felicemente, se non dove hanno appreso anche che cos'è verità? Perché l'amano, è chiaro, se non vogliono essere ingannati: amando la felicità, che non è se non il piacere della verità, debbono pure amare anche la verità. Ma come potrebbero, se non ne avessero un'idea, nella memoria. E allora perché non riescono a goderne? Perché non sono felici? Perché si occupano troppo di altre cose: anche se non vi trovano alcuna felicità paragonabile a quella di cui conservano un ricordo così tenue. Sì, c'è ancora un po' di luce fra gli uomini: presto, presto, si mettano in cammino, affinché il buio non li sorprenda.
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34. Eppure la verità genera odio, e chi l'annuncia in tuo nome si fa nemico agli uomini. Perché, se è vero che essi amano la felicità, che è soltanto il piacere della verità? Evidentemente perché si ama la verità a tal punto che se uno ama un'altra cosa pretende che sia quella la verità: e siccome chiunque detesta ingannarsi, uno rifiuta di farsi convincere che è in errore. Perciò odiano la verità: per amore di quella che credono verità. Ne amano lo splendore, ne odiano l'accusa. Già: siccome non vogliono essere ingannati ma vogliono ingannare, l'amano quando indica se stessa, e la odiano quando punta il dito contro di loro. E lei li tratterà allo stesso modo: essi rifiutano di essere da lei scoperti, e lei li scoprirà a loro dispetto, senza farsi scoprire da loro. Così - anche così - è l'animo umano, così cieco e labile, così brutto e ignobile che vuol sì restare nascosto, ma non che qualcosa resti nascosto a lui. Ma ne viene ripagato come merita: non lui resta nascosto alla verità, ma la verità a lui. Eppure anche così, in questa sua infelice condizione, preferisce le cose vere, per goderne, a quelle false. Felice dunque sarà se mai potrà godersi senza impacci fastidiosi l'unica verità, per cui è vera ogni cosa vera.
24.35. Ecco quanto ho spaziato nella mia memoria alla ricerca di te, mio Signore, e fuori di questa non ti ho trovato. Perché di te non ho trovato altro che ricordi, da quando ho imparato a conoscerti. Già, da che ti ho conosciuto non ti ho dimenticato. Perché dove ho trovato una verità, là ho trovato il mio Dio, che è la verità stessa. E da che l'ho conosciuta, non l'ho dimenticata. Così da che ti ho conosciuto dimori nella mia memoria, ed è lì che ti trovo quando mi sovvengo di te e in te me ne delizio. Sono questi i miei divini piaceri, che per misericordia mi hai donato, tu che hai rivolto gli occhi alla mia povertà.
25.36. Ma dove nella mia memoria dimori, dimmi, dove? Che sorta di covo ti ci sei scavato, o che specie di tempio vi hai edificato? Hai concesso alla mia memoria questo onore di fartene una dimora, ma in quale sua parte tu dimori, questo è il problema. Perché senza dubbio quelle sue regioni che anche gli animali posseggono, le ho trascese nel richiamare alla memoria te, dato che non ti trovavo fra le immagini delle cose tangibili; e sono giunto alle regioni cui avevo affidato le mie emozioni, e neppure lì ti ho trovato. E sono entrato addirittura nella sede di me stesso, quella che la mente ha nella memoria, poiché ogni mente si ricorda di sé: e neppure là tu eri, perché come non sei un'immagine corporea e non sei l'emozione di un vivente, quale si prova quando ci assale la gioia o la tristezza, o il desiderio o la paura, un ricordo o l'oblio o qualunque altro stato mentale, così neppure sei la mente stessa. Perché tu sei il Signore Dio della mente, e tutti questi stati si mutano, ma tu resti immutabile al di sopra di essi e ti degni di abitare nella mia memoria dal giorno in cui ti ho conosciuto. A che cercare il luogo dove abiti, come se lì ci fossero dei luoghi. È certo che vi abiti, dato che serbo memoria di te, da che ti ho conosciuto, e là ti trovo, ogni volta che mi ricordo di te.
26.37. Ma allora dove ti ho trovato, per imparare a conoscerti? Perché non eri già nella mia memoria, prima che ti conoscessi. E dove ti ho trovato dunque per conoscerti, se non in te, sopra di me. Là dove non ci sono distanze: ci avviciniamo e ci allontaniamo, eppure non c'è distanza alcuna. Tu sovrasti dovunque, verità, chi ti consulta: e simultaneamente rispondi alle questioni che ciascuno ti pone, per disparate che siano. Limpide sono le tue risposte, ma non sempre limpido è il senso di chi ascolta. Ognuno ti consulta su ciò che vuole, ma non sempre ottiene la risposta che vorrebbe udire. Il migliore dei tuoi servitori è quello che meno si preoccupa di sentirsi dire ciò che vorrebbe, e piuttosto vuole ciò che da te si sente dire.
[Conclusione lirica]
27.38. Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato. Ecco, eri dentro di me tu, e io fuori: fuori di me ti cercavo, e informe nella mia irruenza mi gettavo su queste belle forme che tu hai dato alle cose. Eri con me, io non ero con te. Le cose mi tenevano lontano, le cose che non ci sarebbero se non fossero in te. Mi hai chiamato, e il tuo grido ha lacerato la mia sordità; hai lanciato segnali di luce e il tuo splendore ha fugato la mia cecità, ti sei effuso in essenza fragrante e ti ho aspirato e mi manca il respiro se mi manchi, ho conosciuto il tuo sapore e ora ho fame e sete, mi hai sfiorato e mi sono incendiato per la tua pace.
28.39. Quando potrò aderire a te con tutto me stesso, niente sarà per me pena e fatica, e sarà viva tutta la mia vita , piena di te. Ma ora che non sono pieno di te, sono un peso a me stesso: perché chi riempi di te, tu lo sollevi. Dura questo conflitto fra triste gioie e angosce di cui dovrei gioire, e da che parte stia la vittoria non so. Ah mio Signore abbi pietà di me... Sì, tu lo vedi: non le nascondo, le mie ferite. Sei il medico, tu, e io l'ammalato; tu hai la misericordia, io la miseria. Già: non è la vita umana sopra questa terra una prova? Chi non ne farebbe a meno, di tutti i fastidi e i problemi! Tu comandi di sopportarli, non di amarli. Nessuno ama ciò che deve sopportare, anche se sopporta con amore. E anche se è capace di gioia nella sopportazione, preferirebbe che non esistessero cose da sopportare. Io nelle circostanze avverse rimpiango il benessere, nel tempo del benessere temo le avversità. Non c'è una via di mezzo, dove la vita umana non sia una prova? Maledetto il benessere del mondo, una volta per la paura che ci mette dei rovesci di fortuna, e un'altra volta ancora perché ci avvelena la gioia. Maledetti i rovesci di fortuna, due e tre volte maledetti: per il rimpianto in cui ci lasciano del benessere, e perché le avversità son dure per se stesse, e perché rischiano di mandarci in pezzi la pazienza. Sì, non è una prova la vita umana sulla terra, e senza tregua?
[Conoscenza di sé: la triplice radice del desiderio]
29.40. E tutta la mia speranza è riposta soltanto nella grandezza della tua misericordia. Dammi ciò che comandi, e comanda ciò che vuoi. Tu ordini la continenza. "E io sapevo che nessuno può essere continente se non gli è dato esserlo da Dio" qualcuno ha detto. "E già questo era un segno di sapienza, sapere da chi viene questo dono" . È la continenza infatti che rende possibile il raccoglimento e ci restituisce all'unità da cui ci siamo riversati nei rivoli del molteplice. Meno ti ama chi con te ama altro, e non per amor tuo. Amore che ardi sempre senza estinguerti mai, divino amore, Dio, tu accendimi. Tu ordini la continenza: dammi ciò che comandi e comanda ciò che vuoi.
30.41. Tu certo mi comandi di contenere l'avidità della carne, l'avidità degli occhi e l'ambizione del mondo. Hai comandato di astenersi dal concubinato e hai indicato una condizione superiore al matrimonio stesso, che pure hai consentito. Ed è ora la mia, poiché tu l'hai concessa, fin da prima che diventassi dispensatore del tuo mistero. Ma ancora vivono nella mia memoria, di cui tanto ho parlato, immagini di quell'altro stato, che la lunga consuetudine vi ha impresso: e durante la veglia non hanno la forza di assalirmi, ma nel sonno sì, e non solo fino all'ultimo piacere, ma addirittura finché io acconsento all'atto stesso, o a qualcosa di molto simile. E tanto è il potere che ha sulla mia carne un'illusione, un'immagine della mia mente, che quando dormo delle false visioni acquistano su di me una forza di suggestione quale da sveglio non hanno neppure quelle vere. Forse allora io non sono più io, mio Dio e Signore? Eppure c'è una tale differenza fra me stesso e me, prima e dopo il momento della transizione da qui al sonno, o dal sonno a qui! Dov'è allora la ragione, con l'aiuto della quale da svegli si resiste a suggestioni del genere, e si resta imperturbati all'occorrenza dei loro stessi oggetti, in carne ed ossa? Chiusi gli occhi, si chiude anche lei? Anche lei si assopisce insieme coi sensi? Eppure spesso anche nel sonno resistiamo: memori del nostro proponimento, e persistendovi in perfetta castità, non accordiamo affatto il nostro assenso a seduzioni simili. Da dove viene questa resistenza? E tuttavia tale è la differenza che, quando le cose vanno diversamente nel sonno, una volta tornati alla calma della coscienza desta, nella distanza stessa che prendiamo dall'accaduto ci rendiamo conto di non esser stati noi a compierlo: dobbiamo pur con rammarico constatare che s'è in qualche modo compiuto in noi.
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42. Forse non ha il potere, Dio onnipotente, la tua mano di guarirmi da tutte le debolezze dell'animo e di stroncare con grazia più abbondante i miei moti lascivi anche nel sonno? Tu farai crescere in me, mio Signore, sempre di più i tuoi doni, perché mi segua verso di te l'anima, non più invischiata nella libidine: perché non si rivolti contro se stessa e anche in sonno non solo cessi di concedersi il piacere avvilente, animalesco delle sue fantasie, fino all'estremo abbandono del corpo, ma neppure vi doni il suo consenso. Via, che nulla di simile possa farci voglia, o almeno così poco che basti un cenno a reprimerla anche in un sonno ignaro d'affetti men che casti, e non dico solo in questa vita, ma per di più a quest'età - non è gran cosa per te che puoi tutto, che sei in grado di far più di quanto chiediamo e comprendiamo. Io comunque ora l'ho detto, al mio buon Signore, come tuttora sto quanto a questo aspetto del mio male: te l'ho detto esultando con tremore per ciò che mi hai donato, e piangendo per quanto sono ancora imperfetto, e sperando che tu porterai a compimento in me i tuoi gesti di misericordia fino alla pace completa che in te troverà, dall'esterno alle viscere, il mio essere, quando la morte sarà stata assorbita nella vittoria.
31.43. Il giorno ha un'altra malizia, e magari gli bastasse questa! Ogni giorno con cibo e bevande noi ripariamo il corpo dalla rovina quotidiana , fino a che tu distrugga e cibo e ventre, quando la tua favolosa abbondanza ucciderà tutta questa miseria e tu rivestirai questo corpo corruttibile d'eterna incorruttibilità. Per ora questo bisogno m'è gradito, e contro questo gradimento io lotto, per non caderne prigioniero, ed è una guerra quotidiana di digiuni, in cui spesso riduco in schiavitù il mio corpo, e i dolori li scaccio col piacere. Fame e sete sono in fondo una specie di dolori, bruciano e uccidono come la febbre, se manca il soccorso di quel farmaco che sono gli alimenti. E siccome questo farmaco è a portata di mano, grazie al conforto dei tuoi doni, a cui lavorano, a profitto della nostra fragilità, la terra e l'acqua e il cielo, questa sventura prende il nome di delizia.
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44. Me l'hai insegnato tu a prendere i cibi come fossero medicine. Ma è proprio nel passaggio dal disagio del bisogno alla quiete della sazietà che il laccio della concupiscenza mi insidia. Questo passaggio stesso è un piacere, e non c'è proprio altra via per arrivare là dove il bisogno ci spinge. E siccome è per la salute che lo si fa, al mangiare e bere si appiccica una pericolosa allegria e il più delle volte tenta anzi di far strada lei, in modo che io finisca a fare per lei quello che desidero o dico di fare per la salute. Salute e piacere non hanno la stessa misura: ciò che basta per restare sani è insufficiente al piacere e spesso non è certo se sia la necessaria cura del corpo a richiedere un sostegno o se a chiedere subdolamente d'essere servita sia invece la gola con le sue lusinghe. Questa incertezza mette allegria alla nostra povera anima, che così se ne fa in anticipo un avvocato difensore: ben lieta che non sia chiaro quanto basta alle norme del benessere fisico, per poter con il pretesto della salute ricoprire la manovra del piacere. A queste tentazioni io mi sforzo ogni giorno di resistere e invoco l'aiuto della tua mano, e ti metto a parte dei miei ondeggiamenti, perché in questa materia il mio giudizio non è ancora sicuro.
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45. Odo la voce del mio Dio comandare: Non appesantitevi nel cuore coi bagordi e l'ubriachezza. L'ubriachezza mi è del tutto estranea: la tua misericordia continuerà a tenermela lontana. L'ingordigia invece qualche volta si è insinuata in cuore al tuo servo: la tua misericordia l'allontanerà da me. Perché nessuno può essere continente, se tu non lo concedi. Molte concessioni tu accordi alle nostre preghiere, e se riceviamo un qualche bene anche prima di avertene pregato, è un dono tuo: un dono che ci fai perché più tardi veniamo a saperlo. Io non sono mai stato dedito al bere, ma ho conosciuto bevitori che tu hai reso sobri. Quindi è opera tua che non lo siano quelli che non lo sono stati mai, ed è opera tua che non restino tali quelli che lo erano, ed è opera tua che gli uni e gli altri sappiano chi ha operato in loro. Ho udito la tua voce consigliare ancora: Non correr dietro alle tue concupiscenze e non concederti il tuo piacere. E per tua grazia ho udito anche quell'altra osservazione, che ho avuto molto cara: Né il mangiare ci darà l'abbondanza, né il non mangiare la penuria: cioè né l'una cosa mi farà ricco né l'altra pezzente. Un'altra ancora ne ho udita: Ho imparato a farmi bastare ciò che ho, so vivere nell'abbondanza e so sopportare la miseria. Tutto posso in colui che mi dà forza. Ecco un guerriero dei castelli celesti, e non la polvere che siamo noi. Ma ricorda, Signore, che siamo polvere e che di polvere hai fatto l'uomo, e si era perduto e fu ritrovato. Neanche lui trovò in sé quel potere, perché era polvere anche lui, che molto ho amato per il soffio in cui tu gli ispiravi le parole: tutto posso in colui che mi dà forza. Dammi forza, così che io possa: dammi ciò che comandi, e comanda ciò che vuoi. Quest'uomo riconosce ciò che ha avuto, e se si gloria, si gloria nel Signore. Un altro udii pregare: Liberami, diceva, dalle voglie del ventre. È dunque evidente, Dio mio, che sei tu a consentire, quando si fa ciò che imponi di fare.
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46. Mi hai insegnato, Padre buono, che tutto è puro per i puri, ma fa male un uomo a mangiare in modo da recare offesa ad altri; che ogni tua creatura è buona e niente bisogna respingere di ciò che ringraziando si riceve; e che non è il cibo a raccomandarci a Dio, che nessuno ci deve giudicare dal cibo o dalla bevanda che prendiamo, e chi mangia non deve disprezzare chi non mangia, e chi non mangia giudicare chi mangia. Tutto questo ho imparato: te ne ringrazio, te ne rendo lode, Dio mio, maestro mio, tu che hai bussato alle mie orecchie e illuminato la mia intelligenza. Liberami da ogni tentazione. Io non temo l'impurità del cibo, ma quella del desiderio. So che a Noè fu permesso di mangiare ogni sorta di carne commestibile, che Elia si ristorò cibandosi di carne, che Giovanni con tutta la meravigliosa astinenza di cui era dotato non fu contaminato da quegli animali - le locuste - che gli servivano da alimento. E so che Esaù fu vittima della sua voglia di lenticchie e Davide si rimproverò per aver desiderato dell'acqua, e il nostro re fu soggetto alla tentazione non della carne, ma del pane. Dunque anche il popolo nel deserto meritava la riprovazione non per aver desiderato della carne, ma perché nel suo desiderio di cibo aveva mormorato contro il suo Signore.
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47. Circondato dunque da queste tentazioni io lotto ogni giorno contro la passione del mangiare e bere: perché non è cosa con cui io possa rompere con un taglio netto per non tornarvi mai più, come ho potuto fare con l'amore fisico. Alla gola bisogna dunque tenere le briglie sotto controllo, allentandole o stringendole con moderazione. Ma chi, Signore, non si lascia trascinare un po' oltre i confini del bisogno? Chiunque ci riesca, è grande, e deve magnificare il tuo nome. Io non sono tale, perché sono un uomo peccatore. Ma anch'io magnifico il tuo nome, e intercede presso di te per i miei peccati colui che vinse il mondo e mi annoverò fra le membra più deboli del suo corpo: perché i tuoi occhi videro in esso quello che era ancora in embrione, e nel tuo libro ognuno sarà scritto.
32.48. Le seduzioni dell'olfatto non mi preoccupano troppo: assenti, non le cerco, presenti, non le respingo, pronto come sono a farne a meno anche per sempre. Così almeno mi pare, ma può darsi che mi inganni. Perché ci sono queste tristi tenebre che mi nascondono ciò che vi è in me di potenziale, così da indurre la mia mente a non fidarsi troppo facilmente di se stessa in questa indagine sulle proprie forze. Perché il più delle volte ciò che ha dentro resta segreto, se non lo manifesta l'esperienza, e nessuno deve credersi sicuro in questa vita, che è come sta scritto tutta una prova: chissà se chi ha potuto divenire da peggiore migliore, non possa anche seguire il percorso inverso. Sola speranza, sola fiducia, sola ferma promessa la tua misericordia.
33.49. I piaceri dell'udito mi hanno coinvolto e soggiogato più tenacemente, ma tu me ne hai sciolto e liberato. Ora nella musica che anima le tue parole, quando le canta una bella voce d'artista, lo confesso, trovo un certo appagamento, ma non al punto da lasciarmene incatenare: mi riscuoto quando voglio. Tuttavia per accedere a me con i pensieri di cui la musica vive, esige che io le trovi nel mio cuore un luogo non privo di decoro: e faccio fatica a offrirgliene uno adeguato. A volte mi sembra di concederle dignità maggiore di quanta non le convenga, pur rendendomi conto che più intensa è la fiamma di devozione accesa nelle nostre menti dalle stesse parole divine quando sono cantate a quel modo, che quando non lo sono, e che tutta la gamma dei nostri sentimenti trova, nella sua varietà, una corrispondenza di ritmi nella voce e nel canto, ritmi che con la loro segreta affinità evocano i diversi sentimenti. Ma questo piacere carnale, cui non è opportuno la mente si conceda se diventa snervante, spesso mi seduce: quando la sensazione non si limita ad accompagnare pazientemente il pensiero cedendogli il passo, ma per il solo fatto di esser stata ammessa per grazia sua, tenta addirittura di precederlo e guidarlo. Qui pecco senza accorgermene, e me ne accorgo in seguito.
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50. A volte invece in uno sforzo esagerato di evitare questa seduzione erro per troppa severità: ma molto raramente. Allora vorrei bandire dalle mie orecchie e da quelle di tutta la Chiesa tutte le melodie che danno fascino al canto con cui si accompagnano i salmi davidici: e mi sembra più sicuro il sistema che ricordo di aver spesso sentito attribuire al vescovo Atanasio di Alessandria, il quale faceva modulare così poco la voce al lettore dei salmi, da far parere il suo canto più simile a un recitativo. Quando però mi ricordo le lacrime che mi fece versare il canto dei fedeli ai primordi della mia fede ritrovata, e ripenso all'emozione che non il canto, ma le cose cantate mi danno se è una voce limpida a cantarle in un registro appropriato, riconosco di nuovo la grande utilità di questa pratica. Oscillo così fra il rischio del piacere e l'esperienza del bene che fa, e propendo maggiormente anche se non irrevocabilmente verso l'opinione che approva la consuetudine del canto fra i fedeli, perché anche un cuore un po' incerto trovi in questa carezza per l'udito un incentivo a sollevarsi più in alto nella devozione. Se tuttavia mi accade di sentirmi colpito più dal canto che da ciò che si canta, io confesso il mio peccato e la pena da pagare, e allora preferirei non udire il cantore. Ecco dove mi trovo! Piangete con me e per me voi tutti che nel cuore dibattete un poco di quel bene da cui nascono le azioni. Voi che non avete di che agitarvi non vi farete certo commuovere da tutto questo. Ma tu, mio Dio e Signore, ascolta, guarda e vedi e abbi pietà e guariscimi. Vedi che sono diventato un problema per me stesso, ed è questa la mia malattia.
34.51. C'è ancora la voluttà di questi occhi della mia carne: e ne farò una confessione che vorrei giungesse alle orecchie del tuo tempio, orecchie fraterne e devote, per chiudere con le tentazioni della concupiscenza della carne, che ancora mi battono nonostante i miei sospiri e il mio desiderio di rivestirmi della mia abitazione celeste. Amano le forme belle e la loro varietà, gli occhi, e i colori brillanti e lieti. Non debbono esser loro ad avvincermi l'anima: deve esser Dio, che ha fatto queste cose molto buone, ma è lui solo il mio bene, non loro. Durante la veglia, per tutto il giorno colpiscono i miei occhi, e non mi danno tregua, come fa la voce di chi canta, e di tanto in tanto ogni voce, la tregua del silenzio. La stessa regina dei colori, la luce, che avvolge tutte le cose che vediamo, dovunque io mi trovi durante il giorno trova mille modi di insinuarsi con le sue carezze mentre sono troppo occupato per badarle. Eppure è tanto avvolgente e tenace che, se viene a mancare all'improvviso, la si ricerca con nostalgia, e la sua prolungata assenza fa triste la mente.
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52. O luce che vedeva Tobia, quando con gli occhi chiusi insegnava al figlio la via della vita e lo precedeva col piede dell'amore senza mai smarrirsi. Luce che vedeva Isacco con i lumi del corpo già gravati e velati dalla vecchiaia, quando gli fu dato di benedire i figli senza riconoscerli, e in quella benedizione tuttavia di riconoscerli. Luce che vedeva Giacobbe, quando la gran vecchiaia lo colpì negli occhi e diresse il raggio del suo cuore illuminato sulle generazioni del futuro popolo, prefigurate nei figli: e sui nipoti, figli di Giuseppe, impose le mani misteriosamente incrociate, non come il loro padre dall'esterno tentava di guidarlo, ma con il suo discernimento intimo. Sempre la stessa luce: è una soltanto, come una cosa sola sono tutti quelli che la vedono e l'amano. Ma la rischiosa dolcezza di questa luce materiale di cui stavo parlando copre di un velo di lusinghe la vita ai ciechi amanti del secolo. Quando avranno imparato a render lode a te anche di questa luce, Dio creatore del tutto, l'accoglieranno nel tuo inno invece di farsi cogliere da lei nel loro sonno: e così voglio fare anch'io. Resisto alle seduzioni degli occhi, per non restare impigliato coi piedi, con cui procedo lungo la tua via: e levo a te occhi invisibili, perché tu sciolga dal laccio i miei piedi. Tu li sciogli continuamente, perché se ne fanno sempre prendere. Tu non cessi di scioglierli, ma io a ogni passo mi lascio irretire nei tranelli sparsi dappertutto. Perché tu non ti addormenterai e non sonnecchierai, custode di Israele.
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53. Che innumerevoli allettamenti hanno saputo aggiungere gli uomini a ciò che già seduce i loro occhi! Con le diverse arti, con i vari mestieri, per vestirsi e calzarsi, per vasellame e manufatti di ogni genere, perfino nei dipinti e in ogni specie di simulacri sono andati ben oltre i limiti del bisogno, della misura e dell'espressione simbolica del sacro. Van dietro a ciò che fanno esteriormente, abbandonando intimamente chi li ha fatti, e sterminando quello che erano, l'opera del creatore. Ma io, Signore mio e mia gloria, anche di qui traggo un inno per te, e offro un sacrificio di lode a chi si sacrifica per me. Perché ogni cosa bella che attraversa l'anima per uscire dalla mano dell'artista viene da quella bellezza che sta sopra le anime, cui notte e giorno sospira la mia. Ma gli artefici e i cultori di bellezze visibili ne traggono una norma di valutazione, non una norma di comportamento. Eppure è lì e non la vedono: eviterebbero di andar lontano e accanto a te custodirebbero la loro forza, senza dissiparla in faticosi piaceri. Io stesso che così parlo e distinguo mi lascio prendere al laccio da questi oggetti belli, ma tu scioglimi Signore, scioglimi tu, perché la tua indulgenza m'è dvanti agli occhi. Io, infelice, me ne faccio prendere, e tu me ne liberi pietosamente: a volte senza che io me ne accorga, se avevo barcollato senza cadere, a volte con dolore, perché già me ne ero fatto avvincere.
[La passione degli occhi]
35.54. C'è poi un'altra specie di tentazione, per molti aspetti pericolosa. Oltre la concupiscenza della carne, che consiste nel piacere di tutti i sensi e nella loro massima soddisfazione - una servitù in cui si consumano quelli che si allontanano da te - c'è nell'anima, indotta da questi stessi sensi, una curiosità avida e vana, che si ammanta del nome di conoscenza e di scienza. Non cerca la soddisfazione della carne, ma l'esperienza per suo mezzo. Siccome fa parte dell'impulso alla conoscenza, e gli occhi sono fra i sensi lo strumento principe della conoscenza, la parola divina la definisce passione degli occhi. Agli occhi in senso proprio pertiene il vedere. Ma questo verbo lo usiamo anche per gli altri sensi, quando sono impiegati a scopo di conoscenza. Così ad esempio non diciamo: "ascolta com'è scintillante", o "annusa come è lucido" o "assaggia quanto brilla" o "tocca che splendore": son tutte cose che - noi diciamo - si vedono. D'altra parte non diciamo soltanto "vedi com'è luminoso", percezione questa che pertiene solo agli occhi, ma anche: "vedi che suono", "vedi che odore", "vedi che sapore", "vedi com'è duro". Per questo l'esperienza sensoriale in generale si chiama, come si è detto, concupiscenza degli occhi. Tutti gli altri sensi si attribuiscono per analogia la funzione visiva (della quale però gli occhi detengono il primato) quando la loro esplorazione ha scopo di conoscenza.
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55. Dal che si può distinguere con maggiore evidenza quale sia la parte del piacere e quale quella della curiosità nell'esperienza sensoriale. Il piacere insegue la bellezza, l'armonia, la fragranza, il sapore, la morbidezza: la curiosità anche i loro contrari, e non per procurarsi la nausea ma per il capriccio di fare esperienza e conoscenza. Che piacere può esserci nella vista di qualche particolare agghiacciante, in un cadavere straziato? Eppure appena ce n'è uno la gente accorre per provare sgomento e impallidire a suo agio. Hanno perfino paura di vederlo in sogno, come se qualcuno li obbligasse a vederlo da svegli, o ne avessero sentito parlare come di un bello spettacolo. E così è per tutti gli altri sensi: ma sarebbe una lunga rassegna. È per via di questo morboso desiderio che negli spettacoli vengono esibiti ogni sorta di mostri. Di qui viene anche che si proceda a esplorare i fenomeni della natura fuori di noi, che a nulla giova conoscere, e dove gli uomini altro non cercano che la conoscenza per se stessa. Di qui anche le arti magiche cui si fa appello, sempre allo stesso scopo di un sapere perverso. Di qui infine le tentazioni che perfino la religione propone a Dio, quando si chiedono segni e miracoli: non per qualche motivo di salvezza, ma solo per il gusto di un esperimento.
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56. In questa immensa foresta folta di insidie e rischi, vedi quanti rami ho tagliato ed espulso dal mio cuore, come tu m'hai concesso di fare, Dio della mia salvezza. Eppure chi si azzarderebbe, avvolti come siamo da ogni parte di tentazioni di questo genere, frastornati come ne siamo ogni giorno, chi mai si azzarderebbe ad asserire che nessuna di loro sia mai riuscita a catturare la mia attenzione e ad assorbirla in vane osservazioni e occupazioni? Certo il teatro non m'affascina più, non mi interessa studiare le congiunzioni degli astri, e quanto ai responsi delle ombre, mai ne ha cercati quest'anima: detesto tutti i misteri sacrileghi. Ma, mio Signore e Dio, io che ti devo solo essere servo umile e semplice, a che macchinazioni e suggestioni architettate dall'avversario debbo sottrarmi per non chiederti un segno! Ma ti supplico per il nostro re e per il nostro paese sincero, per la purezza di Gerusalemme: da questa tentazione tieni lontano e sempre più lontano, com'è lontano oggi, il mio consenso. Quando invece ti prego per la salute di qualcuno, la mia intenzione è ben diversa: continua a fare secondo il tuo volere, e a concedermi, come mi concedi, di accettarlo volentieri.
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57. Eppure sono innumerevoli le minuzie irrilevanti che solleticano la nostra curiosità ogni giorno: e quante volte non si cade in tentazione? Quante volte cominciamo col tollerare gente che ci racconta delle futilità, e lo facciamo per non offendere la loro inconsistenza, poi a poco a poco finiamo per ascoltare con piacere. Non vado più al circo apposta per vedere un cane all'inseguimento di una lepre; ma se mi trovo a passare per un campo dove è in corso quel tipo di caccia, può darsi che distragga la mia attenzione da qualche grande pensiero e la attragga a sé: non mi costringe a far deviare materialmente la mia cavalcatura, ma l'inclinazione del mio cuore sì, e se tu facendomi toccare ancora una volta con mano la mia inconsistenza non mi invitassi subito a riflettere su quella stessa scena per sollevarmi a te, o almeno a non curarmene e a passare oltre, resterei lì come un idiota. Addirittura spesso, a casa, mi incanto a guardare una lucertola intenta a catturare mosche, o un ragno che avvolge nelle sue reti quelle che vi sono incappate. L'azione non è diversa, per il fatto che qui si tratta di piccoli animali. Di qui passo a render lode a te, meraviglioso creatore e ordinatore di ogni cosa: ma non era questa l'intenzione iniziale. Altro è rialzarsi subito, altro è non cadere. E di cose del genere è piena la mia vita, e la mia sola, profonda speranza è la tua misericordia. Si fa ricettacolo a questa folla di minuzie il cuore, e le caterve di dettagli vacui che si porta dietro spesso interrompono e disturbano le nostre preghiere: e mentre sotto il tuo sguardo noi tentiamo di levare alle tue orecchie la voce del cuore, a distoglierci da un'attività così importante irrompono, da non so dove, pensieri futilissimi.
36.58. Anche questa dovremo reputarla un'inezia? O c'è altro in cui sperare se non la tua misericordia a noi ben nota, da quando hai cominciato a rinnovarci? E tu lo sai quanto profondamente mi abbia trasformato, tu che in primo luogo mi guarisci dalla smania di giustificarmi, per poi farti indulgente anche verso tutte le altre mie colpe e guarirmi da tutte le mie nausee e riscattare la mia vita dalla dissoluzione e incoronarmi di pietà e tenerezza e saziare di bene la mia nostalgia. Tu che dall'alto del mio timore di te hai abbattuto la mia superbia e m'hai reso le spalle docili al tuo giogo. Ora lo porto, e mi è lieve, secondo la tua promessa e la tua opera. E davvero lo era, lieve, e non lo sapevo, quando avevo paura di addossarmelo.
[La superbia e i suoi travestimenti]
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59. Ma davvero, Signore, tu che solo domini senza vanagloria, perché tu solo sei veramente Signore, tu che non hai signore sopra te, davvero sono libero anche dal terzo genere di tentazioni? Può cessarne il dominio, in questa vita? Parlo del desiderio d'esser temuto e amato dagli uomini senz'altro scopo che la gioia che se ne trae, e che non è una gioia. Vita infelice, misera iattanza. Viene da questa soprattutto, la mancanza d'amore per te e di timore puro, e perciò tu resisti ai superbi, e agli umili invece doni il tuo favore: tuoni sull'ambizione umana e fai tremare i monti dalle fondamenta.
Determinati ruoli nella società umana esigono che chi li riveste sia amato e temuto: e così noi siamo incalzati dall'Avversario della nostra vera felicità, che sparge dappertutto lacci di applausi: "Bravo! Bravo!" E mentre ci affanniamo a raccoglierli, senza accorgercene ne restiamo presi e ritiriamo la nostra gioia dalla tua verità per investirla negli imbrogli degli uomini, per il gusto di essere amati e temuti non in tuo nome, ma in tua vece. E in questo modo ci rendiamo simili a lui, che ci prende con sé, non compagni per amore ma consorti nella dannazione. Lui che volle porre il suo seggio negli antri dell'aquila, perché lo servissimo nell'oscurità e nel gelo, lungo la via torta e perversa dell'imitazione che tenta di te. Ma noi, signore, vedi, siamo il tuo piccolo gregge, conservaci tu in tuo possesso. Dispiega le tue ali, e noi sotto di esse ci rifugeremo. Sii tu la nostra gloria: per te vogliamo essere amati, e sia la tua parola a esser temuta in noi. Chi vuol esser lodato dagli uomini con il tuo biasimo non sarà difeso dagli uomini davanti al tuo giudizio, né da loro strappato alla tua condanna. E perfino quando non è un peccatore che si loda per i suoi desideri profondi e neppure si benedice un ingiusto per quello che fa, ma si loda qualcuno per un dono che tu gli hai fatto: bene, se l'uomo si rallegra più per le lodi che per il dono stesso che gliele merita, allora anche questo si fa lodare con tuo biasimo, ed è migliore chi loda che la persona lodata. Perché al primo è piaciuto nell'uomo il dono di Dio, il secondo al dono di Dio ha preferito quello dell'uomo.
37.60. Ogni giorno ci assaltano queste tentazioni, Signore, non ci lasciano tregua. Ogni giorno passiamo per quel crogiuolo che è la lingua degli uomini. Anche in questo caso ci ordini la continenza: dà ciò che comandi e comanda ciò che vuoi. Tu lo conosci il pianto del mio cuore e le fiumane scorse dai miei occhi. Non mi è facile capire quanto io mi sia davvero liberato di questa peste, e molto mi fanno paura le mie tendenze latenti, che i tuoi occhi vedono, ma non i miei. Per quanto riguarda altri generi di tentazioni ho una certa capacità di esplorare me stesso: ma in questo, quasi nessuna. Io vedo in che misura sono riuscito a trattenere la mente dai piaceri della carne e dall'avidità di conoscenze superflue, quando me ne privo volontariamente, o mi mancano. Allora mi chiedo che cosa mi metta più o meno a disagio con la sua mancanza. Quanto al denaro, che ricercavo in funzione dell'uno o dell'altro di questi generi di concupiscenze, o di tutt'e tre: può darsi che la mente non sia in grado di avvertire se lo disprezza o no, finché lo si possiede: e allora per mettersi alla prova vi si può rinunciare. Ma per privarsi della lode altrui e mettersi alla prova anche in questo caso, che cosa si può fare? Forse vivere così male, in modo così rovinoso e inumano, che chi ci conosce non possa che odiarci? Che cosa si può pensare o dire di più insensato? Ma se compagna della vita buona e delle buone opere è sempre stata e dev'essere la lode, non bisogna abbandonare la sua compagnia: non più della stessa vita buona. Comunque per sapere se la mancanza di una cosa mi riesce tollerabile o no, bisogna appunto che venga a mancarmi.
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61. Cosa confessarti allora, Signore, riguardo a questo genere di tentazioni? Cosa, se non che le lodi mi fanno piacere? Ma più delle lodi me ne fa la verità. Se mi chiedessero che cosa preferisco: essere pazzo furioso e in errore su ogni punto, ma essere lodato da tutti gli uomini, ed essere equilibrato e nel fermissimo possesso della verità ma biasimato da tutti, vedo bene che alternativa sceglierei. D'altra parte, preferirei che l'approvazione di labbra estranee non accrescesse neppure di poco la gioia di possedere un bene, qualunque esso sia. E invece l'accresce, lo ammetto, non solo: ma la disapprovazione la diminuisce. E siccome questa mia miseria mi confonde, trovo subito una scusa, che tu sai, Dio mio, quanto vale, perché mi lascia nell'incertezza. Tu ci hai ordinato non solo la continenza, che ci dice quali sono le cose da cui dobbiamo ritirare il nostro amore; ma anche la giustizia, che ci prescrive quelle a cui rivolgerlo. E hai voluto che amassimo non solo te, ma anche il prossimo. Spesso, nel piacere che mi fa la lode di uno che se ne intende, mi pare sia del progresso o delle speranze del mio prossimo che mi rallegro, come mi pare di rattristarmi per il suo male, quando lo sento biasimare una cosa che ignora o che è buona. In effetti a volte anche una lode rivolta a me mi rattrista, o perché mi lodano per cose che a me invece dispiacciono, oppure perché hanno di beni minori e superficiali più considerazione di quella che meritano. Ma anche qui: come faccio a sapere se questa mia reazione non si debba al fatto che sono contrariato per l'opinione diversa dalla mia che il mio apprezzatore ha sul mio conto, piuttosto che alla sollecitudine per il suo vantaggio: e quindi proprio al fatto che le stesse qualità che io approvo in me stesso mi sono anche più grate se piacciono anche agli altri? Altrimenti in un certo senso non sono io a essere lodato, dal momento che si lodano proprio quelle azioni che io non approvo, o che si lodano di più quelle che a me piacciono di meno. Io stesso sono incerto sul mio conto, a questo riguardo.
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62. Ora lo vedo in te, verità: non per me stesso, ma per il vantaggio del prossimo dovrei essere sensibile alle lodi che mi vengono rivolte. E se sono così, io non lo so. In questo aspetto mi conosco ancor meno di quanto conosca te. Ti supplico, mio Dio, rivelami anche me stesso, perché io confessi ai miei fratelli ogni ferita che mi scoprirò, che preghino per me. Riprenderò a indagarmi, andrò più a fondo. Se sono sensibile alle lodi per il vantaggio del prossimo, perché lo sono di meno quando un'altra persona viene ingiustamente biasimata, che quando capita a me? Perché mi riesce più pungente l'ingiuria che scagliano contro di me di quella che, alla mia presenza e con la stessa cattiveria, investe un altro? Neppure questo so? Non resta che ammettere, forse, che sia io il seduttore di me stesso, e non pratichi affatto la verità davanti a te, nel cuore e sulla lingua...No, questa è la pazzia: via, cacciala da me, Signore: che il profumo del male non mi prenda alla testa, e mi condanni la mia stessa bocca.
38.63. Io sono un povero e manco di tutto: e sono un po' migliore soltanto quando piango in segreto nel disgusto di me stesso, e cerco la tua misericordia, sola capace di riempire il vuoto che mi divora, fino alla pienezza della pace - quella che l'occhio dell'arrogante non conosce. Ma le parole che escono dalla nostra bocca e le azioni che gli uomini vedono portano in sé una tentazione pericolosissima, radicata nell'amore per la lode: che per un po' di gloria personale va mendicando consensi... C'è, questa tentazione, anche quando sono io stesso a rimproverarmela, anzi nell'atto stesso di rimproverarmela. Spesso il disprezzo della vanagloria è motivo di gloria anche più vana: e allora non c'è gloria nel disprezzo della gloria, perché non la disprezza veramente chi di quello si gloria.
39.64. Anche dentro, sì, dentro c'è un'altra tentazione maligna di questo stesso genere, che fa vaneggiare dietro a se stessi quelli che di sé si compiacciono, anche se non sono apprezzati o sono addirittura disprezzati dagli altri, e loro non si curano di piacere. Ma pur piacendo a se stessi molto dispiacciono a te: in quanto si compiacciono, non soltanto di ciò che non è bene come se lo fosse, ma anche di beni tuoi come fossero loro; o anche come li avessero da te, sì, ma per i loro meriti; o infine come grazia tua, sì, ma da non condividere con gli altri, da tenersi gelosamente per sé soli. In mezzo a tutti questi rischi e questi tormenti, lo vedi come trema questo cuore. È più facile per te guarire anche subito le mie ferite, che per me evitare di procurarmele: lo sento.
Conclusioni
40.65. Dove non sei venuta con me, verità? Camminando al mio fianco, insegnandomi le cose da evitare e quelle da cercare, mentre ti raccontavo quelle che potevo intravedere io, nei bassifondi di me stesso, e ti chiedevo consiglio... A volo ho attraversato tutto il mondo esterno, fin dove giungono i sensi ad accenderlo, ho studiato la vita e la sensibilità stessa che il mio corpo ha da me. Di lì sono entrato nei recessi della mia memoria, nei suoi saloni e corridoi meravigliosamente stipati di tesori, senza numero, e la loro considerazione mi ha lasciato sgomento, e nessuno di essi avrei potuto distinguere senza di te, ma nessuno era te. E neppure ero io che li evocavo, anche se tutti li esploravo e mi sforzavo di distinguerli e valutarli secondo il loro rango: interrogando qui le informazioni ricevute da parte dei sensi, là accogliendo percezioni fuse a quelle del mio stesso essere. Ho esaminato uno per uno i vari ricettori, per poi soffermarmi nei vasti magazzini della memoria su alcuni suoi oggetti, altri lasciarne sepolti e altri ancora scavare alla luce. E neppure quell'io che faceva tutto questo, vale a dire la potenza che me ne rendeva capace, eri tu. Perché sei la luce ferma, tu, che io consultavo riguardo all'esistenza, alla natura e al valore di ciascuna cosa. E così faccio spesso, e mi piace farlo, e appena mi è possibile distogliermi un poco dai miei obblighi mi rifugio in questo piacere. Ma in tutto questo percorso che rifaccio consultando te non trovo un luogo sicuro per l'anima - se non in te. Un luogo dove si raccolga ogni cosa perduta, dove nessuna parte di me possa sottrarsi a te. Talvolta accade che tu mi immerga in uno stato d'animo del tutto insolito, in cui affondo fino a un'indefinibile dolcezza, che se mai fosse piena io non so che sarebbe: ma non più questa vita. E in questa io ricado sotto il peso delle angosce, e le solite cose mi riassorbono e mi tengono stretto e piango molto; ma molto stretto mi tengono. Tanto può il piombo dell'abitudine! Star qui, posso e non voglio, e là, voglio e non posso: qui come là infelice.
41.66. Per questo ho esaminato le malattie dei miei peccati, riconducendole a quella triplice forma dell'avidità, e ho invocato per la mia salvezza il soccorso della tua destra. Dalla fessura del mio cuore ho visto la tua luce e ho detto, folgorato: chi può arrivarci? Cacciato via dal lume dei tuoi occhi... Tu sei la verità che presiede all'universo. Ma io nella mia voglia avara non ti volevo perdere, no, ma senza rinunciare alla menzogna. Così nessuno vuol mentire fino al punto di non sapere più egli stesso che cosa sia vero. E così ti ho perduto, perché tu non ti lasci possedere insieme alla menzogna.
42.67. Chi potevo trovare, che mi riconciliasse con te? Dovevo far la corte agli angeli? E con che preghiere, con che cerimonie? Molti nel tentativo di tornare a te, e non riuscendoci da soli, mi si dice, han voluto saggiare questa via e si sono lasciati prendere dalla mania delle visioni e sono diventati visionari: se lo meritavano. Nella loro esaltazione ti cercavano tutti impaludati nella loro dottrina, gonfiando il petto invece di batterselo. E per intima affinità hanno attirato a sé le potenze dell'aria, ispirate dal loro stesso orgoglio, per lasciarsi ingannare dai loro poteri magici. Cercavano un mediatore che li purificasse: ma non lo trovarono. Il diavolo, trovarono, trasfigurato in angelo di luce. Molto seduceva la superbia della loro carne, che lui non possedesse un corpo di carne. Ma erano mortali e peccatori, e tu, Signore, con cui cercavano di riconciliarsi, eri immortale invece e senza colpa. Il mediatore fra gli uomini e Dio bisognava che fosse per un aspetto simile a Dio e per l'altro agli uomini: simile in tutto all'uomo, sarebbe stato troppo distante da Dio, ma in tutto a Dio, troppo lo sarebbe stato dagli uomini, e così non sarebbe stato il mediatore. E così quel falso mediatore, da cui nella tua misteriosa giustizia l'orgoglio merita di farsi illudere, ha una cosa in comune con gli uomini, cioè il peccato: e un'altra vuol far credere di avere in comune con Dio, atteggiandosi a immortale, perché non è ricoperto di carne mortale. Ma siccome la morte è il compenso del peccato, ciò che ha in comune con gli uomini è sufficiente a condannarlo a morte.
43.68. Ma il vero mediatore, che nella tua misteriosa bontà hai rivelato e inviato agli uomini, perché dal suo esempio apprendessero anche la stessa umiltà, quel mediatore fra Dio e gli uomini che è l'uomo Cristo Gesù, apparve fra i mortali peccatori e la giustizia immortale, mortale come gli uomini, giusto come Dio. E questo perché, essendo vita e pace il compenso della giustizia, per la giustizia che aveva in comune con Dio annientasse la morte di quelli che pur nella loro colpevolezza furono giustificati, morte che con loro volle condividere. È lui che fu rivelato ai giusti del tempo antico, perché fossero salvati dalla fede nella sua passione a venire, come noi lo siamo dalla fede nella sua passione avvenuta. Perché in quanto è uomo è mediatore, ma in quanto è Parola non sta in mezzo, ma è uguale a Dio e Dio presso Dio e insieme unico Dio.
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69. Come ci hai amati Padre buono, tu che non hai risparmiato il tuo unico figlio, ma per noi l'hai consegnato agli empi. Come ci hai amati: perché lui non credendo usurpata / la parità con te / pure si sottomise / fino a morire in croce, lui, il solo libero fra i morti, lui che aveva il potere di lasciar l'anima e poi di riprenderla. Per noi al tuo cospetto vincitore e vittima, e vincitore proprio perché vittima; per noi al tuo cospetto sacerdote e sacrificio, e sacerdote perché sacrificio. Lui che nato da te s'è fatto nostro servo per farci figli tuoi da servi che eravamo. A ragione è ben salda in lui la mia speranza: mi guarirai da ogni malinconia attraverso di lui che siede alla tua destra e intercede per noi. Perché altrimenti sarei disperato. Son molte e grandi infatti le mie malinconie, son molte e grandi. Ma più abbondante è la tua medicina. Potevamo pensare che la tua Parola fosse lontana dall'unirsi all'uomo, e disperare di noi stessi - se non si fosse fatta carne e non avesse abitato fra noi.
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70. Atterrito dai miei peccati e dalla mole della mia miseria avevo rimuginato in cuore un' idea di fuga nella solitudine: ma tu me la vietasti, facendomi coraggio con queste parole: Cristo è morto per tutti proprio perché chi vive non viva più per sé, ma per chi morì per lui. Vedi Signore, la mia angoscia la getto su di te per poter vivere! E mi darò alla meditazione della tua legge, alle sue meraviglie. Tu sai la mia ignoranza e l'incertezza: tu insegnami, guariscimi. Il tuo unigenito, in cui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza mi riscattò col suo sangue. Via da me le calunnie dei superbi: questo fu il prezzo del mio riscatto, e a questo io penso e me ne faccio cibo e bevanda e lo dispenso, e da quel povero che sono mi struggo di saziarmi anch'io di lui in mezzo a quelli che lo sanno, che cosa sia mangiare a sazietà. Loderà Dio chi ne sente la mancanza.
LIBRO UNDICESIMO
[L'ETERNITÀ E IL TEMPO]
1.1. Forse perché è tua l'eternità tu ignori, mio Signore, ciò che ti dico, o vedi in successione temporale ciò che avviene nel tempo? Perché ti faccio allora una cronaca fitta di tanti avvenimenti? Non certo perché tu da me li apprenda: ma a questo modo io risveglio il sentimento di te in me stesso e negli altri che li leggeranno, finché diremo tutti - grande è il Signore e ben degno di lode. L'ho già detto , e lo voglio dire ancora: è per amore dell'amore di te che faccio questo. Del resto noi preghiamo anche se la verità stessa dice: il padre vostro sa cosa vi occorre prima ancora che glielo domandiate. Noi dunque riveliamo la nostra disposizione d'animo nei tuoi confronti confessando le nostre miserie e i doni della tua misericordia, perché tu porti a compimento la nostra liberazione, visto che le hai dato principio, perché cessi la miseria che troviamo in noi e cominci la felicità d'essere in te. Sei tu che ci hai chiamato a esser poveri per lo spirito e miti e piangenti e affamati e assetati di giustizia e pietosi e candidi e pacifici. Ecco, è una lunga storia che io ti ho narrato, per quanto ho potuto e voluto - perché sei stato tu il primo a volere che mi confessassi a te, Dio mio Signore, perché sei buono, perché dura nei secoli la tua misericordia.
2.2. Ma quando basterà la lingua della mia penna a dirli tutti, i tuoi conforti e i tuoi terrori e le consolazioni e le ingiunzioni con cui tu mi hai infine portato a predicare la tua parola e a dispensare il tuo sacramento al tuo popolo. E anche se io basto a dirli, e in ordine, ogni stilla di tempo mi è preziosa. E già da molto brucio dal desiderio di dedicarmi alla meditazione della tua legge, e di confessarti quanto ne conosco e quanto ne ignoro, i primi accenni delle tue illuminazioni e i resti delle mie tenebre, finché la tua forza divori l'incostanza. E non voglio vedermi scorrer via come l'acqua in altre occupazioni le ore che mi ritrovo libere: dalle necessità fisiche del riposo e da quelle dell'impegno intellettuale e dai servigi che dobbiamo agli uomini e da quelli che rendiamo loro anche senza averne affatto il dovere.
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3. Signore Dio mio, ascolta la mia preghiera, e la tua compassione presti orecchio alla mia nostalgia, di cui non per me solo mi consumo, ma per servire all'amore fraterno: e tu lo vedi nel mio cuore, che è vero. Lascia che io sacrifichi a te il mio pensiero e la mia lingua, mettendoli al tuo servizio, e fammi doni che io possa offrirti. Perché sono povero e senza mezzi, e tu hai ricchezze per tutti quelli che ti invocano, tu che stando sicuro ti prendi cura di noi. Circoncidi la mia bocca, che sia pura di ogni menzogna e di ogni presunzione, dentro e fuori. Siano le tue Scritture le mie caste delizie: fa' che io non m'inganni e non inganni gli altri nell'esporle. Presta attenzione mio Signore e abbi pietà, Dio, luce dei ciechi e potenza dei deboli che subito ti fai luce dei veggenti e potenza dei forti, presta attenzione all'anima che ti chiama dal profondo, ascolta. Perché se non avessi orecchie anche al profondo, dove andremmo noi. In quale direzione lanceremmo il nostro appello? Tuo è il giorno e tua è la notte; a un tuo cenno s'involano i minuti. Concedi dunque il tempo necessario a queste meditazioni intorno ai segreti della tua legge, e non sbarrarla di fronte a chi bussa. Perché se non invano hai voluto che fossero scritte tante pagine di misteri impenetrabili, quelle selve hanno pure i loro cervi, che vi trovano riparo e ristoro, vagando e pascolando e sdraiandosi a ruminare. Rivelami le selve, e fammi uomo compiuto. Ecco, la tua voce è la mia gioia, la tua voce che sovrasta cascate di piaceri. Dammi quello che amo: perché io amo. E già questo è tuo dono. Non dimenticare i tuoi doni, non trascurare la tua erba assetata. Che io possa confidarti ogni cosa che avrò scoperto nei tuoi libri, e udire una voce di lode, e bere del tuo essere e contemplare le meraviglie della tua legge dal principio, in cui facesti il cielo e la terra, fino al regno come te perenne della tua città santa.
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4. Abbi pietà di me mio Signore, da' ascolto alla mia nostalgia. Perché io credo che non nasca dalla terra, come quella dell'oro e dell'argento e delle pietre preziose o dell'eleganza o degli onori e del potere o dei piaceri carnali o dei beni necessari al corpo e ai vagabondaggi di questa vita: cose tutte che ci verranno date in sovrappiù se cerchiamo il regno della tua giustizia . Vedi Dio mio come nasce questa nostalgia. Uomini ingiusti mi hanno narrato i loro piaceri, ma non eran conformi alla tua legge. Ecco l'origine della mia nostalgia. Vedi, Padre, guarda e vedi e approva, e piaccia agli occhi della tua misericordia che io trovi grazia davanti a te, perché si apra al mio bussare l'interno delle tue parole. Ti porgo questa supplica mediante il Signore di noi Gesù Cristo tuo figlio, uomo della tua destra, figlio dell'uomo che hai istituito mediatore fra te e noi, per cui mezzo tu hai cercato noi che non ti cercavamo, e ci hai cercato affinché ti cercassimo; la tua parola, per cui mezzo hai fatto tutte le cose e me tra queste; il tuo Unico, per cui hai adottato il popolo dei credenti , e me fra loro. Per suo mezzo ti porgo questa supplica, per lui che siede alla tua destra e intercede per noi presso di te; in cui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza. Sono questi che cerco nei tuoi libri. Di lui scrisse Mosè, lui stesso lo dice, la verità lo dice.
[La parola e la creazione]
3.5. In principio hai fatto il cielo e la terra: fa che io intenda e comprenda come. È Mosè che lo ha scritto: l'ha scritto e se ne è andato per tornare là da dove era venuto, da te: era di passaggio in questo mondo e ora non è qui di fronte a me. Già, perché se lo fosse non me lo lascerei sfuggire e lo tempesterei di domande e nel tuo nome lo scongiurerei di spiegarmi queste parole, e starei con le mie orecchie di carne protese ad afferrare ogni suono gli uscisse dalle labbra... Ma se parlasse ebraico invano busserebbe alla porta del mio udito, e non arriverebbe quindi a sfiorarmi la mente: se parlasse latino allora sì, il senso delle sue parole lo saprei afferrare. Ma come farei a sapere se le cose dette sono anche vere? Se sapessi anche questo, è forse da lui che lo sarei venuto a sapere? No: dentro di me, nella dimora del pensiero, non ebraica né greca né latina né barbara, senza labbra né lingua, senza rumore di sillabe, la verità mi direbbe: "Dice il vero" e io subito rassicurato fiduciosamente direi a quell'uomo tuo: "Dici il vero." Dunque non potendo interrogare lui io chiedo a te, Verità, di cui doveva essere pieno lui che disse il vero, a te, Dio, chiedo: risparmiami la pena dei miei peccati, e concedi a me di comprendere queste parole, tu che hai concesso a quel tuo servo di dirle.
4.6. Ecco, il cielo e la terra esistono, e gridano che sono stati fatti, perché sono soggetti a mutamenti e variazioni. Invece tutto ciò che esiste ma non è stato fatto non ha costituenti che prima non c'erano: il che appunto vuol dire esser soggetti a mutamenti e variazioni. E gridano anche di non essersi fatti da soli: "Se esistiamo è perché siamo stati fatti: dunque prima di esserlo non c'eravamo, in modo da poterci fare da soli". È l'evidenza stessa che parla per loro. Tu dunque li hai creati, che sei bello, perché son cose belle; tu che sei buono, perché son cose buone; tu che esisti, perché esistono. Ma non sono cose belle né buone né esistenti come lo sei tu, loro autore, al cui confronto non sono belle né buone e neppure esistono. Questo sappiamo grazie a te, e il nostro sapere paragonato al tuo è ignoranza.
5.7. Ma in che modo hai fatto il cielo e la terra, qual è il meccanismo di un'operazione tanto grandiosa? Perché certo non hai fatto come l'artefice umano che forma un corpo da un altro corpo secondo il capriccio della mente, la quale è capace di riprodurre qualunque forma distingua in se stessa con l'occhio interiore - e come ne sarebbe capace, se non perché l'hai fatta tu. La mente impone appunto una forma a qualcosa di già esistente e dotato di quanto basta a sussistere, come ad esempio la terra o la pietra o il legno o l'oro o qualunque altra cosa del genere. E queste da dove verrebbero all'essere, se non ve le stabilissi tu? Tu hai fatto all'artefice un corpo e al corpo una mente atta a comandarlo, tu la materia del suo lavoro, tu l'ingegno per intender la sua arte e veder dentro di sé la cosa da attuare fuori. Tu hai fatto gli organi dei sensi per tradurre in termini materiali l'opera che ha in mente, e riferire alla mente il lavoro già fatto, perché consultando la verità che la dirige veda se è ben fatto. E tutto questo canta lode a te, creatore di ogni cosa. Ma cos'è il tuo fare? In che modo, Dio, hai fatto il cielo e la terra? Non è certo nel cielo o in terra che hai fatto il cielo e la terra, e neppure nell'aria o nell'acqua, dato che anch'esse fanno parte del cielo e della terra, e neppure è nell'universo che hai fatto l'universo, perché non c'era spazio per alcun fatto, prima che fosse un fatto anche lo spazio. E neppure avevi in mano qualche cosa, da cui ricavare il cielo e la terra: perchè da dove lo avresti preso, se non lo avessi fatto, il materiale della creazione. Ed esiste qualcosa, se non perché tu esisti? Dunque tu hai parlato ed ecco furono tutte le cose, ed è con la parola che le hai fatte.
6.8. Ma come hai parlato? Forse come quando risuonò dalle nuvole una voce che diceva: "Questo è il mio figlio diletto?" Ma il suono di quella voce si produsse e svanì, ebbe un inizio e una fine. Le sillabe risuonarono e passarono, la seconda dopo la prima, la terza dopo la seconda, e così via nel loro ordine, finché dopo tutte le altre venne l'ultima e dopo l'ultima fu silenzio. È quindi perfettamente evidente che quella voce fu una tua creatura a esprimerla, con un'azione posta al servizio della tua volontà eterna, ma di per sé temporale. E queste tue parole formate nel tempo l'orecchio esteriore le annunciò alla mente ragionevole, che protende il suo orecchio interiore alla tua parola eterna. Ma lei confrontò quelle parole risonanti nel tempo con il silenzio della tua parola eterna e disse: "Ben altra cosa è, è totalmente altra". Queste parole sono molto al di sotto di me, anzi neppure sono, perché fuggendo se ne vanno: la parola del mio Dio invece dura eterna sopra di me". Se dunque pronunciasti parole sonanti e fuggitive perché fossero fatti cielo e terra, e così li creasti, allora esisteva già prima del cielo e della terra una qualche creatura dotata di corpo, che potesse con una successione temporale di azioni protrarre nel tempo quella voce. Ma prima del cielo e della terra non esisteva alcun corpo, o se esisteva per fornirti di una voce transitoria con cui ordinare che si facessero il cielo e la terra, certo non è con una voce transitoria che l'avevi creata a sua volta. Qualunque cosa insomma potesse produrre quella voce, se non era stata fatta da te non era al mondo. E allora per creare il corpo necessario a produrre quelle parole, in che modo hai parlato?
7.9. Così ci chiami all'intelligenza della Parola, Dio presso Dio, che eternamente viene detta e per lei tutto si dice eternamente. Là nessuna cosa finisce d'esser detta perché un'altra la segua, cosí che una per una si possan dire tutte: si dicon tutte insieme, eternamente. E se così non fosse ci sarebbero già tempo e mutamento, non vera eternità e vera immortalità. Questo lo so, Dio mio, e te ne rendo grazie. Lo so e te lo confesso mio Signore, e come me lo sa e ti benedice chiunque sa apprezzare la verità accertata. Sappiamo almeno questo, sì, sappiamo che in quanto una cosa non è ciò che era ed è ciò che non era, in tanto muore e nasce. Di conseguenza nella tua parola nulla può venir meno o venir dopo, dato che è veramente immortale ed eterna. Ed è così, con questa parola a te coeterna che dici tutto insieme, eternamente ciò che dici, e che si fa tutto ciò che si fa quando parli - e tu non crei altrimenti che parlando -: e tuttavia non vengon tutte insieme all'essere, e non durano eterne le cose che parlando tu fai essere.
8.10. Perché, di grazia, mio Dio e Signore? In qualche modo lo vedo, ma non so come esprimerlo in parole, se non forse dicendo che per ogni cosa la cui esistenza ha un inizio e una fine il momento esatto in cui la sua esistenza deve cominciare o finire è conosciuto in una norma eterna, dove nulla comincia né finisce. E questa è la tua parola, che è per noi principio, perché parla anche a noi. Così nel Vangelo parlò attraverso la carne e risuonò all'esterno, alle orecchie degli uomini, perché vi credessero e la cercassero in se stessi e la ritrovassero nella verità eterna, dove tutti i discepoli apprendono da un solo buon maestro. Lì sento la tua voce dirmi che mi parla davvero soltanto chi sa illuminarmi: chi non m'insegna nulla, anche se parla non è a me che parla. Ma chi ci illumina? Soltanto la verità che permane. Perché anche quando riceviamo una lezione da una creatura mutevole, ne siamo rinviati alla verità che permane: e allora stiamo fermi ad ascoltare e impariamo davvero, e ci riempiamo di gioia alla voce dello sposo, come chi torna al suo paese d'origine. Ecco perché è detto il principio: e se non restasse saldo noi, nel nostro errare, non avremmo una casa a cui tornare. Ma quando recediamo da un errore, è perché abbiamo imparato qualcosa; e affinché noi impariamo lui ci insegna, perché è il principio e si rivolge a noi.
9.11. In questo principio, Dio, hai fatto il cielo e la terra: nella tua parola, nel figlio tuo, nella tua potenza, nella tua sapienza, nella tua verità, miracolo di un dire che è creare. Chi lo comprenderà, chi saprà raccontarlo? Che cos'è questa luce che balena e mi colpisce al cuore, senza ferire? E m'agghiaccia e mi accende: di terrore per esserne dissimile e del fuoco per cui le sono simile. È la sapienza, la sapienza stessa che balena attraverso queste nubi. E non appena da lei mi distoglie il carcere di nebbia delle mie angoscie, in queste nubi io mi riavvolgo: perché è così fiaccato dalla miseria il mio vigore che non sono in grado di sopportare il mio bene, finché tu, come Signore che si faccia indulgente verso tutte le mie ingiustizie, mi guarisca anche da tutti i miei svanimenti. Tu che riscatterai la mia vita dalla fossa e porrai sul mio capo una corona di benevolenza e di misericordia e sazierai di bene la mia nostalgia, quando sarà rinata l'aquila della mia giovinezza. Perché è la speranza che ci ha salvati e con pazienza aspettiamo quello che hai promesso. Chi può ti ascolti parlare nel suo intimo: io fiduciosamente esclamerò con il tuo oracolo: grandiose sono le tue opere, Signore, tutte le hai fatte nella tua sapienza!
[Il problema del tempo: "prima" della creazione]
10.12. Ecco: non sono carichi di vecchiaia quelli che ci chiedono: "Che cosa faceva Dio prima di fare il cielo e la terra? Se infatti non aveva occupazioni e non faceva nulla," dicono, "perché non ha anche dopo mantenuto questo stato, in cui si asteneva da ogni operazione? Ma se si è avuto un nuovo impulso in Dio e una volontà nuova, di istituire un creato che non aveva mai istituito prima, che vera eternità può essere quella in cui nasce una volontà che prima non c'era? D'altra parte la volontà di Dio non è qualcosa di creato, ma è prima di ogni creatura, perché nulla sarebbe creato se non fosse preceduto dalla volontà di un creatore. Dunque è alla stessa sostanza di Dio che appartiene la sua volontà. Ma se nella sostanza divina sorge qualcosa che non c'era prima, non è vera l'asserzione che questa sostanza è eterna; se invece la volontà divina che esistesse il creato era eterna, perché non sarebbe eterno anche il creato?"
11.13. Quelli che parlano così non ti comprendono ancora, sapienza divina, luce delle menti: non capiscono ancora in che modo si faccia ciò che per te e in te si fa, e si sforzano di giungere alla conoscenza dell'eterno, ma intanto il loro cuore ancora svolazza fra il passato e il futuro agitarsi delle cose, e ancora è vano. Chi riuscirà a tenerlo fermo un attimo, a fargli carpire un istante dello splendore dell'eterno stare, che lo confronti con il tempo instabile e veda che non hanno misura comune...
Veda che la lunghezza di un intervallo di tempo anche lunghissimo non è fatta che di molti momenti che passano, e che non possono durare simultaneamente; mentre nell'eterno nulla passa, ma tutto è presente. Che nessun intervallo di tempo può essere tutto presente: e sempre il passato è cacciato dal futuro e il futuro deriva dal passato, e che ogni passato e ogni futuro è creato da ciò che sempre è presente, e da questo decorre. Chi tratterrà il cuore dell'uomo, che stia fermo e veda come in questo stare l'eternità comandi passato e futuro, lei che non passa e non è mai a venire. E come avrà questo potere la mia mano, o la mano della mia eloquenza, per riuscire in un'impresa così grande!
12.14. Ecco come rispondo a chi domanda che cosa faceva Dio prima di fare il cielo e la terra. Non come fece quel tale che eluse con una battuta di spirito l'aggressività della domanda, rispondendo, dicono: "Preparava la Geenna per chi indaga gli abissi". Ridere non basta per capire. No, non rispondo a questo modo: preferirei allora una risposta come "Quello che non so, non lo so", che almeno risparmia la facile ironia per chi solleva una questione profonda e il plauso per chi dà una risposta falsa. Invece io affermo che tu, nostro Dio, sei il creatore d'ogni cosa creata, e se per cielo e terra s'intende ogni cosa creata, oso affermare: "Prima di fare il cielo e la terra, Dio non faceva cosa alcuna". Perché che cosa avrebbe fatto se non una cosa creata? Magari sapessi tutte le cose che vorrei, che mi sarebbe utile sapere, così come so questa: che nessuna creatura venne fatta prima che fosse fatta una qualche creatura.
13.15. Ma se qualcuno è tanto leggero di mente da fantasticare di tempi più remoti ancora, e si meraviglia che tu, un Dio che tutto può e tutto crea e sostiene, artefice del cielo e della terra, abbia atteso innumerevoli secoli prima di metter mano a un'opera così grandiosa - si svegli e apra bene gli occhi, perché è irreale ciò di cui si meraviglia. E come potevano passare innumerevoli secoli se non li avevi fatti tu, l'autore di tutti i secoli, tu che li instauri? E come può esistere un tempo che tu non hai instaurato? E come può esser passato, se non è mai esistito? Se insomma tutto il tempo è opera tua, e se c'è stato un tempo prima che tu facessi il cielo e la terra, perché si dice che ti astenevi da ogni opera? Quel tempo precedente, appunto, l'avresti istituito tu, e non un solo momento di tempo poteva passare, prima che tu istituissi il tempo. Se invece non esisteva il tempo prima che fossero fatti il cielo e la terra, perché chiedersi che cosa tu facessi allora? Non c'è un allora dove non c'è il tempo.
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16. Non è nel tempo che tu precedi il tempo: altrimenti non precederesti ogni tempo. Ma dalla vetta dell'eterno presente tu precedi tutto il passato e sovrasti tutto l'avvenire, appunto perché è avvenire, e una volta avvenuto sarà passato. Tu invece sei sempre lo stesso, e i tuoi anni non si dilegueranno. Non vanno e vengono i tuoi anni, come fanno questi nostri, che se ne vanno tutti perché ciascuno possa venire. Stanno tutti insieme, i tuoi anni: appunto perché stanno lì e non se ne vanno, non si fanno cacciare da quelli che sopravvengono, non passano. Questi nostri invece ci saranno tutti quando non ce ne sarà più alcuno. Un solo giorno sono i tuoi anni, e il tuo giorno non è ogni giorno, ma oggi, perché il tuo oggi non cede al domani, come non succede al giorno di ieri. L'oggi è l'eternità, per te: per questo generi coeterno quello a cui tu dici oggi io ti ho generato. Hai fatto tu ogni tempo e sei prima del tempo, e non c'è mai stato un tempo in cui non c'era ancora il tempo.
[Sulla natura del tempo]
14.17. Mai dunque, in nessun tempo, tu sei rimasto senza fare nulla, perché il tempo stesso sei tu che l'hai fatto. E non c'è periodo di tempo che possa dirsi a te coevo, perché tu permani: ma un tempo permanente non sarebbe tempo. Già, che cos'è il tempo? Chi ce ne darà una definizione breve e facile? Chi riuscirà ad afferrarne almeno col pensiero tanto da poterne parlare? Eppure, che cosa c'è che noi, quando parliamo, diamo per tanto scontato e familiare quanto il tempo? E senza dubbio capiamo quello che diciamo, capiamo anche quando ne sentiamo parlare da un altro. Che cos'è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più. E tuttavia io affermo tranquillamente di sapere che se nulla passasse non ci sarebbe un passato, e se nulla avvenisse non ci sarebbe un avvenire, e se nulla esistesse non ci sarebbe un presente. Ma allora in che senso esistono due di questi tempi, il passato e il futuro, se il passato non è più e il futuro non è ancora? Quanto al presente, se fosse sempre presente e non trascorresse nel passato, non sarebbe tempo, ma eternità. Se dunque il presente, per far parte del tempo, in tanto esiste in quanto trascorre nel passato, in che senso diciamo che esiste anch'esso? Se appunto la sua sola ragion d'essere è che non esisterà: in fondo è vero, come noi affermiamo, che il tempo c'è solo in quanto tende a non essere.
15.18. E tuttavia noi lo diciamo lungo o breve, il tempo, benché così chiamiamo solo il passato o il futuro. Ad esempio cent'anni passati fino a oggi fanno un passato che chiamiamo lungo, e lo stesso vale per un futuro di cent'anni a partire da oggi; invece dieci giorni - poniamo - precedenti o successivi fanno un passato e un futuro che diciamo brevi. Ma come fa a esser lungo o breve ciò che non è? Il passato non è più e il futuro non è ancora. Del passato dunque non dovremmo dire "è lungo", ma "è stato lungo", e del futuro "sarà lungo". Mio Signore, mia luce, forse anche qui la tua verità si fa beffe dell'uomo. Questo passato che è stato lungo, lo è stato una volta che era già passato o quando era ancora presente? In effetti per essere lungo doveva essere: dunque poteva esserlo solo finché c'era. Ma il passato non era più e non essendo affatto non poteva nemmeno essere lungo. Perciò non dovremmo dire neppure, del passato, "è stato lungo" - infatti non troveremo mai che cosa sarebbe stato lungo, proprio perché non è, dal momento che è passato - ma dovremmo dire, piuttosto: "È stato lungo quel tempo presente", perché era lungo mentre era presente. Finché non era ancora passato e non aveva ancora cessato di essere, era appunto qualcosa, e quindi, eventualmente, anche lungo; ma una volta che fu passato, smise anche d'essere lungo, nel momento stesso in cui smise d'essere affatto.
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19. Vediamo allora se il presente possa essere lungo, anima umana: perché a te è dato sentire e misurare la durata. Che cosa mi rispondi? Dimmi: è lungo un presente che dura cent'anni? Ma vedi prima se cento anni possano essere presenti. Dunque: se è in corso il primo di essi, è questo che è presente, gli altri novantanove son futuri e quindi non ci sono ancora; ma se è in corso il secondo, un anno è già passato, l'altro presente, i restanti futuri. E così, qualunque sia fra questi cento l'anno che supporremo presente: quelli che lo precedono nell'ordine saranno passati, quelli che lo seguono futuri. Perciò cento anni non possono essere presenti. Vedi se possa almeno esser presente l'anno che è in corso. Ora se corre, di questo, il primo mese, tutti gli altri sono futuri, se il secondo, il primo è già passato e gli altri non ci sono ancora. Dunque neppure l'anno in corso è tutto presente, e se non è tutto presente, non è l'anno che è presente. Perché un anno è fatto di dodici mesi, e di questi è presente soltanto quello in corso, quale che sia, gli altri sono passati o futuri. Benché neppure il mese che è in corso sia presente, in effetti: solo un giorno lo è, se è il primo, sono futuri tutti gli altri, se l'ultimo, sono tutti passati, e uno qualunque degli intermedi sta fra i mesi passati e quelli futuri.
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20. Eccolo qui il presente, il solo tempo che avevamo trovato possibile chiamare lungo, ridotto appena allo spazio di un giorno. Ma esaminiamo anche questo, perché neppure un giorno è mai tutto presente. Delle ventiquattr'ore che, fra notte e giorno, lo costituiscono, la prima ha tutte le altre a venire, l'ultima le ha tutte alle spalle, e ciascuna delle intermedie ne ha di precedenti, passate, e di successive, future. E ciascuna singola ora è una fuga di minute particelle: quante han già preso il volo son passate, e futuro è quel che resta. Se è concepibile una frazione di tempo che non si possa più dividere ulteriormente in parti, per piccole che siano, questa soltanto può dirsi presente: ma anche questa balza così rapida dal futuro al passato, che non ha la più piccola durata. Perché se ne avesse, si dividerebbe in passato e futuro: ma il presente non ha alcuna estensione. Dov'è insomma un tempo che possiamo chiamare lungo? Forse il futuro? Non diciamo certamente che è lungo, perché ancora non è, ciò che deve esser lungo: diciamo piuttosto "sarà lungo". Quando lo sarà? Se anche allora sarà ancora futuro, non sarà lungo, perché non sarà ancora niente del tutto. Forse sarà lungo allora, quando dal futuro che ancora non esiste avrà preso a essere e si sarà fatto presente (così da poter esser anche eventualmente lungo)? Ma se risuona ancora nelle parole appena dette la voce del presente stesso, che nega di poter durare a lungo!
16.21. E tuttavia, Signore, noi percepiamo gli intervalli di tempo, e li confrontiamo e li diciamo più lunghi o più brevi. E misuriamo anche quanto più lungo o più breve un tempo sia di un altro, e calcoliamo che sia doppio o triplo, o che l'uno sia pari all'altro. Ma noi misuriamo il tempo che passa, quando lo misuriamo a orecchio. I tempi passati invece, che non sono più, o quelli futuri, che non sono ancora, chi può misurarli: a meno che uno non abbia il coraggio di asserire che si può misurare ciò che non esiste. È insomma al suo passare che il tempo può esser sentito e misurato; una volta passato non può, perché non esiste.
17.22. Io chiedo, padre, non affermo: assistimi mio Dio, guidami tu. Chi mai si sognerebbe di venirmi a dire che non sono tre i tempi, come abbiamo imparato da bambini e ai bambini abbiamo insegnato: passato, presente e futuro - ma c'è solo il presente, perché gli altri due non esistono! O forse sì, ci sono, ma come nascondigli da cui il presente appare uscendo dal futuro, e in cui scompare quando si fa passato? E dove l'hanno visto altrimenti quelli che hanno annunciato il futuro, se non esiste ancora? Certo non si può vedere ciò che non esiste. E quelli che raccontano il passato non potrebbero mai darlo per vero, se non l'avessero ben distinto davanti agli occhi della mente: e se non esistesse affatto, non potrebbe esser visto, in alcun modo. Esistono dunque, passato e futuro.
18.23. Concedi mio Signore, speranza mia, che io cerchi ancora: fa che la mia intenzione non ne resti smarrita. Se passato e futuro esistono, io vorrei sapere dove sono. E se non arrivo a tanto, so almeno che, dovunque siano, là non sono futuro o passato, ma presente. Perché se anche là fossero futuro o passato, non ci sarebbero ancora o non ci sarebbero più. Perciò dovunque e comunque siano, non esistono che come presente. Quando si raccontano cose vere e passate, in effetti, non sono le cose stesse che son passate a esser cavate dalla memoria, ma solo le parole concepite dalle loro immagini, che si sono fissate nella mente come delle tracce, dopo esser passate per i sensi. E la mia infanzia, che non è più, è nel passato, che non è più: ma nel rievocarla e narrarla è nel presente che io vedo la sua immagine, ancora viva nella mia memoria. Se anche le predizioni del futuro abbiano una ragione analoga, se sia cioè possibile percepire in anticipo immagini esistenti delle cose che non ci sono ancora, Dio mio, confesso: questo non lo so. Questo so invece, che di solito noi premeditiamo le nostre azioni future, e mentre questa anticipazione mentale dell'azione è presente non lo è ancora l'azione stessa, che è futura: solo quando l'avremo intrapresa e avremo cominciato a fare ciò che avevamo in mente esisterà l'azione - cioè sarà presente, non futura.
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24. Comunque stiano le cose riguardo ai misteriosi presentimenti del futuro, è certo che ciò che non esiste neppure può esser visto. Ma ciò che esiste già non è futuro, è presente. Perciò chi afferma di vedere il futuro non vede le cose stesse che ancora non sono, appunto perché sono a venire, ma le loro cause o forse i loro segni, che esistono già: che quindi non sono future ma presenti a chi le vede, e può così predirne le future conseguenze, come le concepisce la sua mente. Concezioni che esistono, esse pure; e chi fa predizioni le vede dentro se stesso. Un esempio fra gli innumerevoli che mi dicono questo: l'aurora. La vedo e preannuncio il prossimo sorgere del sole. Quello che vedo è presente, quello che predico futuro: non il sole, che già esiste, è futuro, ma la sua levata, che non è ancora avvenuta. E d'altra parte non potrei predire nemmeno che il sole sorgerà se non avessi in mente un'immagine di questo evento, come ora che ne sto parlando. Eppure né l'aurora che io vedo in cielo è il sorgere del sole, sebbene lo preceda, né lo è la sua immagine nella mia mente: bisogna che siano visibili o presenti tutt'e due perché quell'evento futuro sia previsto. In conclusione il futuro non c'è ancora, e se non c'è ancora non c'è affatto, e se non c'è non si può proprio vedere: ma si può predire sulla base del presente, che già c'è e si vede.
19.25. E tu che regni sopra il tuo creato, come insegni alle anime il futuro? Perché tu l'hai insegnato, ai tuoi profeti. Che modo sarà mai di insegnare il futuro il tuo, se per te nulla è futuro? O non insegni piuttosto le tracce presenti del futuro? Perché ciò che non è neppure può essere insegnato. Troppo lontano dalla mia vista è questo tuo modo, troppo elevato, non lo potrò raggiungere da solo; ma col tuo aiuto sì, potrò, quando me lo concederai, dolce lume dei miei bui occhi.
[La trinità del presente]
20.26. Almeno questo ora è limpido e chiaro: né futuro né passato esistono, e solo impropriamente si dice che i tempi sono tre, passato, presente e futuro, ma più corretto sarebbe forse dire che i tempi sono tre in questo senso: presente di ciò che è passato, presente di ciò che è presente e presente di ciò che è futuro. Sì, questi tre sono in un certo senso nell'anima e non vedo come possano essere altrove: il presente di ciò che è passato è la memoria, di ciò che è presente la percezione, di ciò che è futuro l'aspettativa. Se ci è permesso dir così, vedo i tre tempi e ammetto che siano tre. E si dica pure che sono tre, passato, presente, futuro, come è abusata consuetudine: a me non importa, non oppongo né resistenza né rimproveri, purché si capisca ciò che si dice - che ciò che è futuro non è, come ciò che è passato. Raramente infatti parliamo con proprietà di linguaggio e il più delle volte usiamo espressioni improprie, ma si capisce quello che vogliamo dire.
21.27. Poco fa ho detto che misuriamo il passare del tempo, se è vero che siamo in grado di dire che questo intervallo di tempo è doppio di quello o pari a quello, e di render conto di ogni altra relazione fra le parti del tempo, con la misurazione. Dunque, come dicevo, noi misuriamo il passare del tempo, e se qualcuno mi chiede come faccio a saperlo rispondo: so che noi misuriamo, e so che non possiamo misurare ciò che non esiste, e il passato e il futuro non esistono. Ma il tempo presente in che modo lo misureremmo, se non ha estensione? Lo si misura dunque mentre passa, e una volta passato non lo si misura perché non c'è più nulla da misurare. Ma da dove viene e per dove passa e dove va, quando lo si misura? Da dove se non dal futuro? Per dove se non attraverso il presente? Dove se non nel passato? Dunque: da ciò che non è ancora, attraverso ciò che non ha estensione, verso ciò che non è più. Eppure sono proprio estensioni di tempo quelle che misuriamo: e che altro se no? Quelle che chiamiamo semplici e doppie e triple e uguali e in quanti altri modi le chiamiamo, non sono appunto che estensioni di tempo. E allora qual è l'estensione in rapporto alla quale misuriamo il tempo che passa? È nel futuro forse, dal quale viene? Ma ciò che ancora non è non ha misura. Allora nel presente, per cui passa? Ma ciò che non ha estensione non ha misura. O nel passato, verso cui va? Ma ciò che non è più non ha misura.
22.28. Arde la mente che vuol penetrare l'intrico foltissimo di questo enigma. Non sbarrarmi la porta al desiderio, mio Dio e Signore, lascia che penetri queste cose tanto familiari quanto misteriose, e che il raggio della tua misericordia le illumini. Chi potrò interrogare su argomenti del genere? E a chi con qualche frutto confessare la mia ignoranza se non a te, cui non son forse sgraditi gli infiammati studi e la veemenza con cui assalgo le tue Scritture. Dammi quello che amo - perché sei tu che mi hai dato d'amare. Dammi, padre che veramente sai i doni che vanno bene per i tuoi figli, dammi di conoscere, perché ho messo mano a questa impresa e ho davanti la fatica, finché tu non mi apri. Te ne prego per Cristo, in nome del santo dei santi, nessuno mi frastorni adesso. Anch'io ho creduto, ed è per questo che parlo. Questa è la mia speranza e di lei vivo, per contemplare la felicità di Dio. Hai portato a vecchiaia i miei giorni, e passano, e come, non so. E noi siam sempre lì a parlar del tempo e dei tempi: "Quanto tempo fa l'ha detto", "Quanto tempo fa l'ha fatto", "Da quanto tempo non lo vedo", e "Questa sillaba dura un tempo doppio di quell'altra breve". Facciamo e sentiamo fare queste asserzioni e capiamo e ci facciamo capire. Sono cose evidentissime e perfettamente familiari, eppure sono così oscure, e la loro scoperta è cosa nuova.
[Misura del tempo e movimento]
23.29. Ho udito dire da un dotto che i tempi altro non sono che i movimenti del sole e della luna e delle stelle: e io non ho assentito. E perché non piuttosto i movimenti di tutti i corpi, allora? Ma supponiamo che i luminari del cielo si arrestino e la ruota del vasaio continui a girare: verrebbe meno il tempo con cui misurare i suoi giri e dire o che hanno uguale durata oppure, se si compiono ora più lentamente e ora più presto, che alcuni durano più, altri meno a lungo? E nel dir questo non parleremmo noi pure nel tempo, e le nostre parole non conterrebbero sillabe lunghe e sillabe brevi? E come, se non in base al loro risuonare per un tempo più lungo o più breve? Dio, dai alla gente il dono di vedere anche nel piccolo le idee comuni a piccole e grandi cose. Ci son le stelle e i luminari del cielo a far da segni delle stagioni e dei giorni e degli anni. Ci sono, certo: ma come io non direi che il giro di quella piccola ruota di legno sia addirittura il giorno, quello non oserà negare che sia pure un periodo di tempo.
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30. Il mio desiderio è di conoscere la funzione e la natura del tempo, in quanto ci serve da misura dei movimenti dei corpi e ci consente di dire, ad esempio, che quel movimento dura il doppio di questo. Ora, si dice giorno non solo il periodo di permanenza del sole sopra l'orizzonte, in opposizione alla notte, ma anche l'intero giro che esso compie da oriente a oriente, come quando diciamo: "Passarono tanti giorni", intendendo includere le relative notti. Dato dunque che un giorno si compie in una rotazione completa del sole da oriente a oriente, io mi chiedo se il giorno sia la rotazione stessa, o la sua durata, o entrambi. Nel primo caso, anche se il sole completasse il suo corso in un intervallo di tempo pari a quello di un'ora, questo sarebbe ancora un giorno; nel secondo dato che l'intervallo di tempo fra una levata e l'altra del sole fosse di un'ora, ci vorrebbero ventiquattro rotazioni del sole perché fosse compiuto un giorno. Ma nel terzo caso non si chiamerebbe giorno né l'intero giro compiuto dal sole nello spazio di un'ora, né una pura e semplice quantità di tempo pari a quella che normalmente impiega il sole a coprire tutto il suo percorso, da un'alba alla successiva, ma trascorsa, supponiamo, a partire da un arresto del sole. Ora dunque non mi chiederò più che cosa sia ciò che chiamiamo giorno, ma che cosa sia il tempo che ci consente di misurare la rotazione del sole e di dire eventualmente che l'ha compiuta nella metà del tempo impiegato normalmente, qualora l'abbia in effetti compiuta in un intervallo di tempo pari a quello di dodici ore; che cosa sia insomma il tempo che ci consentirebbe di confrontare i due intervalli di tempo e di dire che l'uno è doppio dell'altro anche se il sole impiegasse a volte quel dato tempo, a volte il doppio a completare il suo giro da oriente a oriente. Nessuno dunque mi venga a dire che sono tempi i moti dei corpi celesti, perché quando il sole si fermò su preghiera di un uomo, per consentirgli di portare vittoriosamente a compimento una battaglia, il sole stava fermo, ma il tempo passava. Per tutto il tempo necessario, ne più né meno, quella battaglia fu combattuta, fino al suo termine. Il tempo dunque è qualcosa come un pro-trarsi, ora lo vedo. Ma lo vedo veramente, o mi pare soltanto di vedere? Me lo mostrerai tu, luce, verità.
24.31. Mi ordini di approvare chi afferma che il tempo è il movimento dei corpi? No. Sento dire piuttosto che un corpo non si muove se non nel tempo: tu lo dici. Infatti mentre il corpo si muove io misuro la durata del suo movimento, dall'inizio alla fine. E se non ho visto quando è cominciato il movimento e questo continua in modo che non vedo quando finisce, non sono in grado di misurarne la durata, a meno di non calcolarla dal momento in cui io comincio a vederlo a quello in cui non lo vedo più. Se resta a lungo in vista, posso riferire soltanto che il tempo impiegato è lungo, ma non specificare quanto, perché per dire quanto noi ci serviamo di un confronto, del tipo: "Dura tanto quanto quello" oppure "il doppio di quello" e così via. Se invece abbiamo potuto determinare le distanze dei luoghi di partenza e di arrivo del corpo in moto, o qualche punto di riferimento sul corpo stesso, nel caso si muova come su un tornio, allora possiamo specificare in quanto tempo si effettua il movimento del corpo o di una sua parte da un luogo all'altro. Altro è il movimento del corpo, altro ciò che a noi consente di misurarne la durata: e chi non vede a quale delle due cose conviene il nome di tempo? Anche se un corpo ora si muove ora sta fermo noi misuriamo quanto tempo dura non solo il movimento, ma anche la quiete, e diciamo "È stato fermo per un tempo uguale a quello che ha trascorso in moto", oppure "È stato fermo due o tre volte il tempo che ha trascorso in moto", o comunque risulti ai nostri calcoli, con precisione o, come si suol dire, più o meno. Il tempo non è dunque il movimento dei corpi.
[Il tempo e la voce. Il presente]
25.32. E ti confesso Signore che ancora non lo so, cosa sia il tempo, e ancora ti confesso, Signore, che so di fare questo discorso nel tempo e che da molto ormai sto parlando del tempo e che questo molto non è molto se non perché dura nel tempo. E come lo so allora, se non so che cos'è il tempo? O forse non so come dirlo, ciò che so? Ah, non so più neppure che cosa non so...Vedi, mio Dio, che non mento davanti a te: così come parlo è il mio cuore. L'accenderai tu la mia lucerna, mio Dio e Signore, farai un po' di luce nel mio buio.
26.33. Non è veridica la confessione in cui quest'anima lo ammette, che io misuro il tempo? Mio Dio, dunque misuro e non so cosa misuri. Misuro in termini di tempo il movimento di un corpo. Ma allora non misuro il tempo stesso? O potrei misurare quanto dura il moto del corpo e quanto questo impieghi a coprire una certa distanza, altrimenti che misurando il tempo in cui si muove? E allora il tempo stesso come lo misuro? Forse misuriamo un intervallo di tempo con uno più breve, come con la lunghezza di un cubito misuriamo quella di un asse? Sì, in questo modo a quanto pare misuriamo l'estensione temporale di una sillaba lunga con quella di una breve, e la diciamo doppia di questa. Così misuriamo l'estensione dei poemi con quella dei versi e quella dei versi con quella dei piedi, e quella dei piedi con quella delle sillabe e quella delle sillabe lunghe con quella delle sillabe brevi: non la misuriamo in pagine - perché a quel modo misureremmo l'estensione spaziale, non quella temporale - ma col passare del suono delle parole che pronunciamo, dicendo: "È un poema lungo, perché si compone del tal numero di versi; son versi lunghi perché sono costituiti da tanti piedi; piedi lunghi, perché si estendono per tante sillabe; sillaba lunga perché è doppia di una breve". Ma neppure così si afferra una determinata misura di tempo, perché può ben darsi che un verso più breve, se lo si pronuncia protraendo il suono della voce, continui a risuonare per un intervallo di tempo maggiore di quello di un verso più lungo pronunciato più in fretta. E questo vale per un poema, per un piede, per una sillaba. Perciò mi è parso che il tempo altro non fosse che una sorta di protrazione: ma di che cosa, non lo so. Della mente stessa forse? Sì, non può che esser così. Perché, mio Dio, che cosa misuro io di grazia, quando faccio un'affermazione o indeterminata come "Questo intervallo di tempo è più lungo di quello", o anche determinata come "È il doppio di quello"? Misuro il tempo, lo so: ma non misuro il futuro, perché non esiste ancora, non misuro il presente perché non occupa alcuna estensione, non misuro il passato perché non esiste più. Che cosa misuro allora? Non il passato ma il tempo che passa? Così infatti avevo affermato.
27.34. Insisti mente, intensifica ancora l'attenzione: Dio è il nostro aiuto; non ci siamo fatti da noi, lui ci ha fatto. Ecco, ad esempio, una voce umana comincia a risuonare, risuona, risuona ancora e cessa, ora è silenzio e quel suono vocale è passato e non è più. Era ancora a venire prima che risuonasse e non poteva essere misurata perché ancora non era, e ora non può esserlo perché non è più. Dunque poteva allora, mentre risuonava, perché allora c'era qualcosa da misurare. Ma allora non restava ferma, ma andava via, passava. O forse proprio per questo si poteva misurarla? È passando infatti che occupava una certa estensione temporale misurabile, mentre invece il presente non ha estensione. Ammettiamo dunque che si poteva misurarla allora, e supponiamo che un'altra cominci a risuonare e continui a farlo, con continuità e uniformità di tono; misuriamo dunque quanto dura questo suono, finché dura, perché quando il suono sarà cessato, sarà già passato e non ci sarà più niente da misurare. Misuriamo bene questa durata: ma la voce ancora risuona e bisogna misurarla dal momento iniziale, in cui ha preso a risuonare, fino a quello finale, in cui è cessata. Un dato intervallo si misura appunto dall'inizio alla fine. Ma il suono della voce non è ancora cessato, e dunque non si può misurare la sua durata e concludere che è breve o lunga o uguale a quella di un altro suono o doppia di quella o quant'altro. Ma una volta cessato, il suono non sarà più. E allora con che metro misureremo la sua durata? Eppure noi misuriamo gli intervalli di tempo: ma non quando non sono ancora in corso, né quando non lo sono già più, né quando sono privi di estensione, né quando non hanno termini. Dunque non misuriamo né il futuro né il passato né il presente né il tempo che passa: eppure misuriamo il tempo.
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35. Deus creator omnium: in questo verso di otto sillabe si alternano sillabe brevi e lunghe: quindi le quattro brevi - la prima, la terza, la quinta e la settima - durano la metà rispetto alle quattro lunghe - la seconda, la quarta, la sesta e l'ottava. Ciascuna di queste dura un tempo doppio rispetto a ciascuna delle prime: me ne convinco pronunciando il verso, che è così, almeno per quello che può rivelare l'orecchio. A quanto l'orecchio mi dice, misuro la sillaba lunga con la breve e avverto che dura due volte tanto. Ma, dato che le sillabe risuonano una dopo l'altra, se la breve vien prima della lunga come farò a trattenere la breve e ad applicarla come metro alla lunga, e a trovare che è due volte tanto, se la lunga comincia a risuonare solo quando ha smesso di farlo la breve? E a misurare la lunga mentre ancora è presente, quando non posso misurarla se non è finita? Ma quando è finita è passata. E allora che cos'è che misuro? Dov'è la breve che mi fa da metro? Dov'è la lunga che devo misurare? L'una e l'altra han finito di risuonare, sono volate via, sono passate e non ci sono più: e io misuro e rispondo tranquillamente, con tutta la confidenza che si ha in un senso esercitato, che l'una è semplice e l'altra doppia - quanto all'estensione temporale, voglio dire. Ma non sono in grado di far questo se non perché son già passate e finite. Non loro dunque, che non sono più, misuro: ma qualcosa nella mia memoria, qualcosa che vi si fissa.
[Il tempo e l'anima]
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36. In te, anima mia, misuro il tempo. Non frastornarmi coi tuoi "cosa? come?" Non frastornare te stessa con la folla delle tue impressioni. In te, dico, io misuro il tempo. Sì, l'impressione che le cose passando producono in te rimane quando le cose son passate: è questa che è presente, non quelle, che son passate perché lei ne nascesse. È questa che misuro, quando misuro il tempo. Il tempo è lei - o non è il tempo quello che misuro. E allora quando misuriamo i silenzi e diciamo che questa pausa dura quanto quel suono? Ma appunto: in questi casi per poter calcolare in qualche modo l'estensione temporale degli intervalli di silenzio, noi ci fingiamo in loro luogo il suono della voce e cerchiamo di misurare mentalmente la durata che avrebbe. Anche senza usare la voce e le labbra noi recitiamo mentalmente poemi e versi e discorsi: e siamo sempre in grado di indicare quanto durano i loro svolgimenti e che quantità di tempo occupano l'uno relativamente all'altro, non altrimenti che se li recitassimo a voce alta. Supponiamo che uno voglia emettere un suono appena un po' più lungo e abbia mentalmente prestabilito quanto dovrà esser lungo: costui avrà certamente percorso in silenzio e affidato alla memoria quel determinato lasso di tempo, e quindi avrà preso a emettere la voce, che risuona finché sia giunto il termine stabilito. Anzi, che è risuonata e risuonerà: perché quella che è già passata è senza dubbio risuonata, e quanto ne resta risuonerà. Ed è così che passa, mentre l'intenzione presente traduce il futuro in passato, e il passato cresce via via che decresce il futuro, finché consumato il futuro tutto sarà passato.
28.37. Ma come può decrescere o consumarsi il futuro che non esiste ancora, e come può crescere il passato che non esiste più, se non in quanto esistono tutti e tre nella mente che opera questo processo? Perché è la mente che ha aspettative, fa attenzione, ricorda: e quello che si aspetta le si fa oggetto di attenzione per divenire oggetto di memoria. Chi nega allora che il futuro ancora non esista? Ma c'è già l'aspettativa mentale del futuro. E chi nega che il passato non esista più? Ma nella mente ancora c'è il ricordo del passato. E chi nega che il tempo presente sia privo di estensione, poiché passa in un punto? Ma ciò che perdura è l'attenzione, attraverso la quale ogni cosa si abbia presente sconfina gradualmente nell'assenza. Quindi non è lungo il tempo futuro, che non esiste, ma un lungo futuro è una aspettativa a lungo termine di cose a venire, e non è lungo il passato, che non esiste, ma un lungo passato è una memoria di lunga durata delle cose avvenute.
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38. Mi dispongo a cantare una canzone che conosco: prima di cominciare la mia aspettativa è protesa alla composizione nel suo insieme; ma basta che cominci ed ecco, via via che faccio crescere il passato a spese dell'aspettativa, il mio ricordo si estende in proporzione: e il mio vivere in questa azione è un protrarsi nella memoria di ciò che ho già detto e nell'aspettativa di ciò che sto per dire. Ma l'attenzione è presente, ed è la sua presenza a far sì che ciò che era futuro si traduca in passato. Via via che questa azione si compie, l'aspettattiva si accorcia e il ricordo si allunga, finché l'aspettativa è tutta consumata, quando l'azione è compiuta e passata tutta nella memoria. E ciò che avviene dell'intera canzone avviene anche di ciascuna sua minima parte fino alle singole sillabe, e di un'azione più lunga di cui quella canzone può far parte, e dell'intera vita di un uomo, che è costituita da tutte le sue azioni, e dell'intera storia dei figli degli uomini, che è costituita da tutte le vite umane.
Conclusione
29.39. Ma poiché la tua grazia è al di sopra di tutte le vite, ecco: non è che distrazione la mia vita, eppure la tua destra mi ha raccolto nel mio Signore, il figlio dell'uomo, mediatore fra te, l'uno, e noi, i molti, in molte cose e per molte vie, in modo che per mezzo suo mi afferri a questo che mi ha afferrato e dai giorni antichi io torni in me seguendo l'Uno, e dimentichi il passato: non per farmi distrarre dalle cose che verranno e se ne andranno, ma per essere teso a quelle immobili davanti a me. Così, in un'attenzione ormai non più distratta inseguo la palma di chi è chiamato in alto, dove udirò risuonare le tue lodi e contemplerò la tua felicità, che non passa. Ora i miei anni piangono, e il mio conforto sei tu, padre mio eterno e Signore; e io mi sono sbriciolato nel tempo senza conoscerne l'ordine, e i miei pensieri, i visceri dell'anima, li fa a pezzi la furia del molteplice, fino a quando nella catarsi del tuo fuoco d'amore io sarò fuso e rifluito in te.
30.40. E in te troverò stanza e consistenza nella tua verità, che è la mia forma. E non dovrò più sopportare quelle persone condannate da una strana malattia ad aver voglia di bere sempre più di quanto possano contenere, con le loro questioni come "Che cosa faceva Dio prima di creare il cielo e la terra?" o "Come gli è venuto in mente di fare qualcosa se fino a quel momento non aveva mai fatto nulla?". Concedi loro, mio Signore, di pensare bene a quello che dicono e scoprire che non ha senso dire "mai" dove il tempo non esiste. Che altro vuol dire "mai" se non "in nessun tempo"? Si rendano conto che senza creato non può esservi tempo e smettano di parlare a vuoto. Rivolgano anche loro l'attenzione a ciò che sempre trovano davanti e comprendano che tu stai innanzi a tutti i tempi, loro creatore eterno, e nessun tempo ti è coeterno e nessuna creatura, benché ve ne possano essere di superiori al tempo.
31.41. Mio Dio e Signore, come è profondo e alto il tuo segreto, e quanto lontano me ne hanno gettato le conseguenze dei miei errori. Guarisci i miei occhi, e anch'io potrò godere la tua luce. Certo se c'è una mente forte di conoscenza e prescienza così grandi, che tutto il passato e il futuro le sono familiari come a me una canzone notissima, troppo meravigliosa e terrificante è questa mente, cui nulla sfugge che sia avvenuto o debba ancora avvenire in tutti i secoli. Proprio come non sfugge a me, quando canto quella canzone, quale e quanta parte di essa ho già cantato dall'esordio e quale e quanta ne resti per finire. Eppure non così, ben altrimenti tu, autore della totalità degli esseri, autore delle anime e dei corpi, ben altrimenti tu conosci tutto il futuro e tutto il passato. In modo molto, molto più mirabile e segreto... Quando uno canta o ascolta cantare una canzone nota, l'aspettativa dei suoni a venire e il ricordo di quelli passati causano variazioni nel sentimento e la percezione ne viene distratta. Niente del genere accade a te che sei immutabilmente, cioè veramente, eterno creatore delle menti. Come conoscevi in principio il cielo e la terra senza alcun mutamento nella tua coscienza, così in principio creasti il cielo e la terra senza disperdere nel tempo l'azione. Chi capisce ti renda lode, e ti renda lode anche chi non capisce. A quali altezze tu stai, tu che hai negli umili di cuore la tua casa. Perché tu risollevi chi è prostrato, e non cade chi ha in te la propria altezza.
LIBRO DODICESIMO
[LA CREAZIONE E I PRINCIPI DELL'ESEGESI]
1.1. Quante cose mi affollano il cuore colpito dalle parole della tua Sacra Scrittura, in questa povertà della mia vita. È così che la penuria dell'intelligenza umana si manifesta di solito con un fiume di parole: perché il cercare è più loquace del trovare, e il chiedere più lungo dell'ottenere e la mano più attiva nel bussare che nell'accogliere. Abbiamo una promessa: chi potrà vanificarla? Se Dio è a nostro favore, chi è contro di noi? Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché a chiunque chiede sarà dato e chi cerca troverà e a chi bussa sarà aperto. Sono promesse tue, e come temere di essere ingannato quando è la verità stessa a promettere.
2.2. Confessa alla tua sublimità l'umiltà della mia lingua che tu hai creato il cielo e la terra, questo cielo che vedo e la terra che calco, da cui viene anche questa terra che mi porto addosso. Tu li hai creati. Ma dov'è mio Signore il cielo del cieli, di cui ci è giunta la voce del salmo: Il cielo del cielo al Signore: ma la terra la diede ai figli degli uomini ? Dov'è il cielo a noi invisibile, rispetto al quale è terra tutto questo che vediamo? Questo mondo materiale che ha per fondo la nostra terra non ha ricevuto tutto e dovunque, nelle sue parti ultime, visibile bellezza: ma perfino il cielo della nostra terra è terra rispetto a quel cielo del cielo. E non sarebbe assurdo chiamare terra tutt'e due i grandi corpi, rispetto a quel cielo ignoto che appartiene al Signore, non ai figli degli uomini.
[Il cielo e la terra. La materia amorfa]
3.3. E questa terra appunto era invisibile e informe, una sorta di profondo abisso sul quale non v'era luce, perché non ne traluceva alcuna idea: perciò hai voluto fosse scritto che le tenebre erano al di sopra dell'abisso; e che cos'è questo se non l'assenza della luce? Perché dove altro sarebbe stata la luce, se ci fosse stata, che al di sopra, alto dominio della chiarità? Dove ancora non era la luce che cos'era dunque la presenza delle tenebre se non l'assenza di luce? Così al di sopra erano le tenebre perché là la luce era assente, come dove non c'è suono è il silenzio. E che altro è l'essere del silenzio se non il non essere del suono. Non sei stato tu, mio Signore, a insegnarlo a quest'anima che lo confessa, non sei stato tu a insegnarmi come prima che tu dessi forma e discretezza a questa materia amorfa non c'era singola cosa: né colore, né figura, né corpo, né spirito? E tuttavia non è che non ci fosse assolutamente nulla: c'era una sorta di caos, privo di definite sembianze.
4.4. E come chiamarlo, in modo da darne l'idea anche ai più tardi di mente, se non con un termine d'uso comune? Ma che cosa si può trovare in tutte le parti dell'universo che si avvicini a una completa assenza di forma più della terra e dell'abisso marino? Questi, occupando il grado più basso, sono infatti meno appariscenti delle cose superiori, tutte splendide e scintillanti. Perché allora non dovrei accettare che per indicare agli uomini la materia informe, da te creata priva d'ogni sembianza per farne un mondo pieno di belle forme, fosse un termine appropriato quello di terra invisibile e informe?
5.5. Così, in essa il pensiero va cercando qualcosa di afferrabile, e si dice: "Non è una forma intelligibile come la vita, come la giustizia, perché è materia di corpi, e non è una forma sensibile, perché nell'invisibile e informe non c'è alcunché da vedere o da sentire". Che, parlando a se stesso in questo modo, il pensiero umano lotti per sapere senza sapere, o per ignorare senza ignoranza?
6.6. Ma io, mio Signore, se debbo confessarti con le labbra e la penna tutto ciò che di questa materia mi hai insegnato: prima la sentivo sì nominare, ma non capivo, e siccome era gente che a sua volta non capiva a parlarmene, la pensavo sotto innumerevoli forme e aspetti e perciò non la pensavo veramente; mi vorticavano nella mente forme sconce e orrende, sconvolte nel loro proprio ordine, ma pur sempre forme: e io chiamavo informe non ciò che era privo di forma, ma ciò che ne aveva una tale da apparire strano e assurdo fino a destare ripugnanza, fino a sconvolgere la mia instabile natura d'uomo. In effetti ciò che io avevo in mente era informe non per mancanza assoluta di forma, ma solo relativamente a cose più armoniosamente conformate. E la vera ragione tentava sì di convincermi a far del tutto a meno di qualunque residuo di forma, se volevo concepire l'assolutamente informe: e però questo non mi riusciva. Mi era più facile pensare che non esistesse nulla di totalmente privo di forma, piuttosto che concepire qualcosa fra la forma e il nulla, che non fosse né l'uno né l'altro, un informe quasi niente. E la mente allora smise di interrogare lo spirito affollato di immagini e figure di corpi, che giocava a trasformare variamente a suo capriccio, e fissai l'attenzione sui corpi stessi per indagare più a fondo la loro capacità di mutamento, in virtù di cui essi cessano di essere quello che erano e cominciano ad essere quello che non erano, e cominciai a sospettare che proprio quel passaggio di forma in forma si producesse attraverso un che di informe, e non attraverso un assoluto nulla. Ma io aspiravo alla conoscenza, non a qualche sospetto: e se dovessi confessarti con la voce e con la penna tutti i nodi di questa questione che tu mi hai sbrogliato, ben pochi lettori continuerebbero a seguire. Non per questo il cuore rinuncerà a renderti l'omaggio di un canto di lode anche per quello che non saprebbe tradurre in chiare formule. Infatti è proprio la mutevolezza delle cose mutevoli che è capace di tutte le forme in cui le cose mutevoli si cambiano. Ma essa stessa che cos'è? È corpo? È mente? È un aspetto della mente o del corpo? Se si potesse dire "un niente che è qualcosa" oppure "è e non è", ne parlerei in questi termini; eppure doveva in qualche modo esistere, per assumere queste sembianze visibili e ordinate.
[La creazione dal nulla]
7.7. Ma comunque fosse, qual era l'origine del suo essere se non tu, da cui derivano tutte le cose, in quanto sono? Ma più dissimili sono da te, e più sono lontane: e non di lontananza spaziale si tratta. E tu dunque, Signore, che non sei qui una cosa e là un'altra, ma uno e identico, santo, santo, santo, Signore Dio onnipotente, nel principio, che è da te, nella sapienza nata dalla tua sostanza, tu hai fatto qualcosa e l'hai fatto dal nulla. Hai fatto il cielo e la terra: ma non traendoli da te, altrimenti ci sarebbe qualcosa di uguale al tuo unigenito e di conseguenza a te - dato che non poteva assolutamente essere giusto che ti fosse uguale qualcosa di non generato da te. E non c'era altro all'infuori di te, da cui potessi trarli, Dio, trinità unica e unità trina, e perciò appunto dal nulla hai fatto il cielo e la terra, una grande e una piccola cosa, perché tu sei onnipotente e buono fino a fare ogni cosa buona, grande il cielo e piccola la terra. C'eri tu, altro non c'era: e da questo niente hai fatto il cielo e la terra, due ben diverse cose: l'uno vicino a te, l'altra vicina al nulla, così che l'uno sopra di sé avesse te soltanto, l'altra sotto di sé soltanto il nulla.
8.8. Ma quel cielo dei cieli era per te, Signore; la terra invece, che hai dato da vedere e da toccare ai figli degli uomini, non era quale ora la possiamo vedere e toccare. Era invisibile e informe, era abisso su cui non c'era luce, e tenebre levate sull'abisso, che è più che dire nell'abisso. Perfino l'abisso marino, quello visibile di ora, anche in profondità ha una sua parvenza di luce, in qualche modo percepibile dai pesci e dagli animali che strisciano sul fondo; ma quello era un tutto prossimo al nulla, perché era ancora assolutamente informe: eppure era già un che di pronto a ricevere una forma. Infatti tu, Signore, hai fatto il mondo dalla materia amorfa, questo quasi niente che hai fatto da niente, per poi poterne trarre le grandi cose che destano meraviglia in noi, i figli degli uomini. Meraviglioso invero è questo cielo fisico, il firmamento stabilito fra le acque superiori e inferiori, che nel secondo giorno dopo la creazione della luce hai col tuo "fiat" chiamato all'essere - e quello fu. Quel firmamento l'hai chiamato cielo, ma cielo di questa terra e questo mare, che hai fatto il terzo giorno dando forma visibile alla materia informe, fatta da te prima di tutti i giorni. Prima di tutti i giorni in realtà avevi fatto anche il cielo, ma il cielo di questo cielo appunto: perché in principio avevi fatto il cielo e la terra. E quella terra che avevi fatto non era che materiale amorfo, perché era invisibile e informe e tenebre sopra l'abisso. Per fare da questa terra invisibile e informe, da questa assenza di forma, da questo quasi niente tutte le cose in cui questo universo mutevole consiste e non consiste: questo universo che mostra la sua mutevolezza, la stessa che permette di sentire e di calcolare il tempo. Perché è il mutare delle cose a generare il tempo, provocando il variare e la successione delle forme visibili, la cui materia è la terra invisibile.
9.9. E così lo spirito che il tuo servo aveva per dottore, mentre narra che in principio hai fatto cielo e terra, tace del tempo e non parla di giorni. Il fatto è che il cielo dei cieli, che hai fatto in principio, è creatura intellettuale: che pur non essendo a te, la trinità, coeterna, è tuttavia partecipe della tua eternità, e con forza contiene la sua mutevolezza, di fronte alla felicità dolcissima di immergersi nella tua contemplazione. E senza mai decadere da questa condizione, da che fu fatta, a forza di aderire intimamente a te vive oltre i vortici delle vicende temporali.
10.10. O verità, luce del mio cuore, tu non lasciare che mi parli il mio buio. Come l'acqua sono colato fin quaggiù e m'avvolge il buio. Ma anche da qui, anche da qui ti ho amato. Andavo errando, e mi sono ricordato di te. Ho udito la tua voce alle mie spalle che mi richiamava indietro: l'ho udita a malapena nel frastuono delle dispute inconcludenti. E ora eccomi, che torno arso e assetato alla tua fonte. E nessuno mi sbarri la via, io voglio bere e vivere. Non voglio essere più io la mia vita: male ho vissuto di me stesso, e a me stesso sono stato morte, e in te rivivo. Parlami tu, tu insegnami. Ho creduto ai tuoi libri, ma sono scritti in una lingua arcana.
11.11. Già me lo hai detto, con voce risonante all'orecchio interiore, che tu sei eterno: tu, mio Signore, il solo a possedere l'immortalità, poiché non muti in alcun modo aspetto né ti muovi, e la tua volontà non varia nel tempo - non è infatti immortale una volontà che sia diversa di momento in momento. Davanti ai tuoi occhi questo mi è chiaro, e ti prego di farmelo di giorno in giorno più chiaro e che io persista in questa luce di evidenza senza deliri, sotto le tue ali. Mi hai anche detto, con voce risonante all'orecchio interiore, che tutte le nature e le sostanze che pur non essendo ciò che tu sei esistono, sei stato tu a crearle: e non è da te solo ciò che non è; come pure il moto della volontà da te che sei a ciò che ha meno essere, perché questo moto è defezione e peccato, e non c'è peccato che possa nuocerti o turbare l'ordine del tuo impero, dal vertice alla base. Davanti ai tuoi occhi questo mi è chiaro, e ti prego di farmelo di giorno in giorno più chiaro e che io persista in questa luce di evidenza senza deliri, sotto le tue ali.
[La corte angelica]
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12. Ancora me lo hai detto con voce risonante all'orecchio interiore, che non ti è coeterna neppure quella creatura che ha in te il suo unico piacere, e che nell'assoluta perseveranza e purezza della sua adesione a te non tradisce mai, in nessun modo, la sua natura mutevole: ma avendoti sempre presente e tenendosi a te con totale passione, senza un futuro da attendere e un passato dove indugiare coi ricordi, non subisce mutamento di vicende né dispersione nel tempo. Felice lei, se una creatura tale esiste, aggrappata alla tua felicità, felice lei che tu perennemente abiti e illumini! E non vedo che cosa più vorrei chiamare "cielo dei cielo per il Signore" che questa tua corte assorta in contemplazione del tuo piacere, che non vien meno e non divaga in altro, intelligenza pura e unita nella perfetta concordia fondata sulla pace dei beati spiriti cittadini della tua città, negli altissimi azzurri al di sopra di questo.
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13. Mi intenda l'anima che se ne va peregrinando, lontana ormai, se ha già sete di te, se già sono il suo pane le sue lacrime, e giorno dopo giorno le dicono: "Dov'è il tuo Dio?" ; se già una sola cosa ti chiede, ed è questa, di abitare nella tua casa tutti i giorni della sua vita. E che cos'è la sua vita se non tu? E che sono i tuoi giorni se non la tua eternità, come i tuoi anni, che non vengono meno, perché tu permani identico? Intenda dunque l'anima, se può, quanto remoto e alto sopra il tempo tu viva eterno, se quella parte della tua casa che non s'è sviata all'avventura, grazie alla sua adesione a te, ininterrotta e indefettibile, non soffre le vicissitudini del tempo: eppure non ti è coeterna. Davanti ai tuoi occhi questo mi è chiaro, e ti prego di farmelo di giorno in giorno più chiaro e che io persista in questa luce di evidenza senza deliri, sotto le tue ali.
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14. Sì, c'è un che d'informe in queste mutazioni delle cose estreme e infime, e chi - se non un cuore girovago e vacuo, smarrito dietro ai suoi fantasmi - chi verrà a dirmi che una volta smangiata ogni forma visibile fino alla sua dissoluzione, quando restasse la pura assenza di forma per cui passa una cosa nel corso delle sue successive metamorfosi, questa presenterebbe qualcosa come una vicenda temporale? Non è assolutamente possibile, perché senza varietà di movimenti non si dà tempo, e non c'è varietà dove non esistono forme.
12.15. Considerato tutto questo, dato che tu, Dio mio, me lo concedi, dato che mi inviti a bussare e mi apri se busso, due cose trovo che tu hai creato non soggette al tempo, benché nessuna delle due ti sia coeterna: una, benché di natura mutevole, di forma tale da fruire - senza mai calo d'intensità contemplativa né pausa di cambiamento - della tua eternità e immutabilità; l'altra all'opposto così informe da non aver di che mutarsi da una forma all'altra, da uno stato o da una configurazione mobile a un'altra, e quindi da non esser neppur lei soggetta al tempo. Ma quest'ultima tu non hai lasciato che restasse informe, dato che prima dell'inizio dei giorni hai creato in principio il cielo e la terra: appunto le due cose che dicevo. Ma la terra era invisibile e informe e le tenebre erano al di sopra dell'abisso. Sono parole che suggeriscono l'idea dell'amorfo, per catturare a poco a poco quelli che non riescono a concepire, senza confonderla col nulla, una totale assenza di forma visibile. Ma è ben da questa che doveva generarsi un altro cielo e una terra visibile e ordinata e lo specchio delle acque e tutto ciò che in seguito, non senza successione di giorni, fu creato come si tramanda durante la costituzione di questo mondo. Cose tutte che sono soggette alle vicissitudini del tempo, in quanto lo sono a un ordine di successione dei movimenti e delle forme.
13.16. Questo intanto io credo, mio Dio, quando ascolto le parole della tua Scrittura: In principio Dio creò il cielo e la terra: e la terra era invisibile e informe e le tenebre erano al di sopra dell'abisso. Così parla, e non dice in quale giorno hai fatto questo, e così io intendo che sia il cielo dei cieli quello di cui parla, il cielo intellettuale, dove all'intelligenza è dato conoscere tutto insieme, non pezzo a pezzo, non in enigma e attraverso uno specchio, ma tutto in una volta, senza veli, faccia a faccia; conoscere non ora questo ora quello, ma come si è detto, tutto simultaneamente, senza avvicendamento temporale. E parimenti per terra invisibile e informe intendo priva di vicissitudini temporali, che di solito portano ora questo ora quello, perché dove non c'è alcuna forma non si danno particolari come questo e quello. Di queste due cose - l'una formata all'origine l'altra radicalmente informe, l'una che è il cielo, sì, ma il cielo del cielo, l'altra che è la terra, ma quella invisibile e informe - di queste due cose io intendo parli la tua Scrittura quando dice senza menzione di giorni: In principio Dio creò il cielo e la terra. Perché subito aggiunge di quale terra si tratti. E poiché nel secondo giorno è menzionata la creazione del firmamento e questo viene chiamato cielo, si suggerisce quale sia il cielo di cui si parlava prima, senza indicazione di giorni.
[Obiezioni. Sulla natura dell'esegesi]
14.17. Meravigliosa profondità delle tue parole, che ecco, in superficie sanno incantare i bambini: ma che profondità, Dio mio, che meraviglia. Sgomento di penetrarla con gli occhi, timore reverenziale e amoroso tremore. Violento è l'odio che provo per i suoi nemici: oh se tu li uccidessi con la spada a due tagli, finché di nemici non ne esistessero più! Sì, come vorrei vederli uccisi a se stessi, affinché vivano per te. Ma eccone degli altri, dei cultori e non dei detrattori del libro della Genesi: "Non è così che lo spirito di Dio, scrivendo per mezzo di Mosè suo servitore, volle essere inteso: non è così come tu dici, ma in un altro modo, come diciamo noi". A te il giudizio, Dio di tutti noi: a loro io così rispondo.
15.18. Volete forse dichiarare falso ciò che la verità mi dice ad alta voce all'orecchio dell'anima sulla vera eternità del creatore, e cioè che la sua sostanza non può mai subire variazioni nel tempo e che la sua volontà non è altra cosa dalla sua sostanza? Ma ne segue che egli non vuole ora una cosa ora l'altra, ma una volta per tutte e per sempre e tutto in una volta vuole ciò che vuole; non vuole una cosa alla volta e neppure vuole cose diverse in diversi momenti, né vuole prima e poi disvuole, o viceversa, perché una volontà simile sarebbe mutevole, e niente che sia mutevole è eterno; ma il nostro Dio è eterno. E ancora, non vorrete negare quanto mi dice all'oreccho interiore, che l'attesa delle cose a venire si fa visione, quando sono presenti, e la visione si fa memoria quando sono passate; ora ogni atto intenzionale che sia così soggetto a variazione è mutevole, e nulla di mutevole è eterno: ma il nostro Dio è eterno. Io raccolgo e connetto queste verità e vedo che il mio Dio, il Dio eterno, non ha istituito il creato con un nuovo atto di volontà, e che la sua conoscenza non ammette alcunché di transitorio.
[Ancora sugli angeli]
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19. E allora voi oppositori che cosa direte? È falso tutto questo? "No", rispondono. Ma forse è falso quest'altro: che ogni natura formata o materia formabile non ha esistenza se non da quello che è massimamente buono, perché ha il massimo di esistenza? "Neppure questo neghiamo", rispondono. E allora? Forse negate l'esistenza di un tipo sublime di creatura, unita al Dio vero e veramente eterno con amore così puro da non sciogliersi mai da lui - benché a lui non coeterna - per scorrere col fiume del tempo attraverso le sue varie vicende. Una creatura che riposa, invece, nella contemplazione di lui solo, la più veridica - perché tu, Dio, ti mostri a chi ti ama quanto esigi, e gli basti, e perciò non decade da te, verso se stesso. Questa è la casa di Dio, che non è di questa terra né della massa fisica dei cieli, ma spirituale e partecipe della tua eternità, perché non vacilla in eterno. Tu l'hai fondata per i secoli dei secoli / hai dato una legge che non passerà. Eppure non ti è coeterna, perché non è priva di inizio: è stata fatta.
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20. Anche se prima di essa non si trova alcun tempo - poiché prima di tutte le cose è stata creata la sapienza (e naturalmente non intendo quella Sapienza che è semplicemente coeterna a te, Dio nostro e padre suo, che ti è eguale e per cui mezzo sono state create tutte le cose e nel cui principio hai fatto il cielo e la terra, ma intendo quella sapienza creata che è la natura intellettuale, lume che contempla il Lume: perché anch'essa, benché creata, si chiama sapienza; ma fra la sapienza che crea e questa che è stata creata c'è la stessa differenza che intercorre fra ciò che splende di luce propria e ciò che la riflette, o fra la giustizia giustificante e la giustizia del giustificato. E in effetti anche noi siamo stati denominati "tua giustizia": dice infatti uno dei tuoi servi: ...affinché noi siamo la giustizia di Dio in lui stesso...) - poiché, dicevo, ciò che è stato fatto prima di tutte le cose è una forma di sapienza creata, la mente razionale e intellettuale della tua città pura, madre nostra, che sta in alto ed è libera ed eterna nei cieli (e quali cieli, se non quei cieli dei cieli che ti rendono lode, perché son ben questi che son detti cielo del cielo riservato al Signore); anche se non si trova tempo alcuno prima di quella sapienza, dato che se fu creata prima di tutte le cose precede anche la creazione del tempo, resta pur vero questo, in conclusione: prima di lei c'è l'eternità del creatore stesso, dal quale ebbe con la creazione il proprio esordio, non nel tempo che ancora non c'era, ma nella sua condizione stessa.
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21. Procede dunque da te, Dio nostro, ma in modo tale da esser palesemente altro da te, e non la stessa cosa: e questo anche se non si trova tempo alcuno non soltanto prima di lei, ma anche in lei stessa. Perché è fatta per vedere continuamente la tua faccia, e non se ne distoglie mai; e per questo non subisce mutamenti. Eppure la mutevolezza è insita in lei, tanto che si farebbe tenebra e gelo se non fosse per il grande amore che la tiene assorta in te e l'accende del tuo splendore e ardore come un'eterna luce meridiana. O casa luminosa e bella, ho amato la tua magnificenza e il luogo dove abita la gloria del mio Signore, tuo artefice e padrone! A te giunga il sospiro dei miei vagabondaggi, a colui che ti ha fatta chiedo d'essere in te posseduto anche io, poiché anche me egli ha fatto. Io sono andato errando come pecora smarrita, ma sulle spalle del mio pastore, di chi ti ha costruito, spero di esser riportato a te.
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22. E voi cui mi rivolgevo come a degli oppositori, ma che pure credete Mosè un servo devoto di Dio, e i suoi libri oracoli dello Spirito Santo, voi che cosa mi dite? Non è questa la dimora di Dio, non a Dio coeterna, certo, ma a suo modo eterna nei cieli, dove invano cerchereste le vicissitudini del tempo, perché non vi si trovano? Svetta al di sopra di ogni dispersione e di ogni volgere di stagioni della vita ciò che ha il suo bene nell'adesione senza fine a Dio. "È vero", rispondono. Che cosa allora dichiarate falso di quello che il mio cuore gridò al mio Dio, mentre udiva levarsi dal suo intimo una voce in sua lode? Forse che vi fosse una materia informe là dove, mancando ogni forma, non c'era ordine alcuno? Ma dove non c'era ordine non poteva esserci alcuna successione di tempi; eppure questo quasi-niente, in quanto non era un assoluto niente, veniva certo da quello da cui viene all'essere tutto ciò che in qualche modo esiste. "Anche questo", ribattono, "noi non lo contestiamo".
16.23. Sì, voglio discutere davanti a te con questi che riconoscono per vero tutto quello che la tua verità non cela nell'intimo silenzio della mente. Quanto a quelli che lo negano, che abbaino pure a piacer loro fino a stordirsi: tenterò di persuaderli, perché stiano zitti e aprano così alla tua parola la via verso se stessi. E se non vogliono e mi respingono, tu non fuggire da me col tuo silenzio, mio Dio, te ne prego. Parla dentro il mio cuore con verità, come tu solo sai parlare: e io li lascerò fuori a soffiare nella polvere e a gettarsi la terra negli occhi, e rientrerò nella mia stanza segreta a dedicarti le canzoni d'amore e i pianti inenarrabili del mio vagabondare, e mi ricorderò Gerusalemme, in alto verso lei proteso il cuore, Gerusalemme mio vero paese, Gerusalemme che è la madre mia, e te su lei sovrano, luce, padre, tutore e sposo, sua forte e pura voluttà, solida gioia e simultaneo dono di ogni bene ineffabile, tu che sei l'unico, il supremo, il vero bene. E non me ne farò strappare fin quando non avrai raccolto tutto il mio essere nella sua pace di madre dolcissima, dove son le primizie del mio spirito e queste certezze che ne traggo, e non lo avrai sottratto a questa dispersione e difformità per rendergli uniformità e fermezza in eterno, Dio mio, misericordia mia. Io mi rivolgo dunque a quelli che, pur non dichiarando false tutte le cose che abbiamo detto esser vere, anzi onorando la tua Sacra Scrittura trasmessaci dal divino Mosè, e ponendola come noi al vertice dell'autorità da seguire, hanno tuttavia qualcosa da obiettarci. Sii tu, Dio nostro, arbitro fra le mie confessioni e queste loro obiezioni.
[Principi dell'esegesi]
17.24. Dicono infatti: "Per vero che ciò sia, non erano quelle le due cose che Mosè, illuminato dallo Spirito Santo, intendeva con le parole 'In principio Dio creò il cielo e la terra'. Con la parola 'cielo' non si riferiva a quella creatura spirituale o intellettuale che contempla ininterrottamente il volto di Dio, né con la parola 'terra' alla materia informe". A che cosa, dunque? "A quello che diciamo noi", rispondono, "a questo pensava quell'uomo famoso, e questo ha voluto esprimere con quelle parole". E cioè? "Con le parole 'cielo e terra' volle riferirsi a tutto questo mondo visibile, dapprima nella sua totalità e concisamente, per poi analizzare nelle singole parti, attraverso l'enumerazione dei giorni, tutte le cose come allo Spirito Santo piacque elencarle. Tali erano infatti gli uomini di cui si componeva quel popolo rozzo e materiale, a cui si rivolgeva, da fargli credere che non si potessero proporre loro altre opere di Dio che le visibili". Però la terra invisibile e informe e l'abisso sovrastato di tenebra, da cui in seguito nel corso di quei giorni appaiono formate e ordinate tutte queste opere visibili che ciascuno conosce, essi ammettono pure che non sia assurdo intenderli come la materia informe che è in questione.
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25. Ora, altri potrebbero sostenere che a quella stessa assenza di forma e confusione proprie della materia si fosse accennato prima con le parole "il cielo e la terra", perché è a partire dalla materia appunto che fu costituito e portato a compimento questo mondo visibile con tutti i generi di cose in esso ben distinguibili, questo mondo cui spesso ci riferiamo con le parole "il cielo e la terra". Altri ancora potrebbero affermare che "cielo e terra" fu chiamata, non a sproposito, la natura invisibile e visibile delle cose, e che perciò in queste due parole era compresa l'intera creazione che Dio operò nella sapienza, vale a dire nel principio. Però, siccome tutte le cose furono fatte non della stessa sostanza divina, ma dal nulla, perché non sono identiche a Dio e tutte hanno in sé una certa tendenza al mutamento, sia che si facciano permanenti, come la corte di Dio, sia che si mutino come l'anima e il corpo dell'uomo, con quelle parole si volle indicare una materia comune alle cose visibili e invisibili, ancora informe ma certamente formabile, da cui sarebbero usciti il cielo e la terra, vale a dire entrambe le sorte di creature già formate, invisibili e visibili. Con quelle parole, appunto: "terra invisibile e informe e tenebre al di sopra dell'abisso", e con questa distinzione, che per "terra invisibile e informe" si dovrebbe intendere la materia corporea anteriore alla determinazione di qualità e forma, per "tenebre al di sopra dell'abisso" la materia spirituale anteriormente al contenimento della sua illimitata irruenza - per così dire - e all'illuminazione da parte della sapienza.
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26. Qualcuno potrebbe anche sostenere, se volesse, che nella frase "In principio Dio creò il cielo e la terra" con le parole "il cielo e la terra" non ci si riferisce a entità visibili o invisibili già dotate di forma e compiutezza, ma all'abbozzo ancora informe della realtà e alla materia ancora virtuale della sua creazione e formazione. E che in questa già esistevano, confusi e non ancora distinti per forma e qualità, quelli che ora, ripartiti nei rispettivi ordini di realtà, chiamiamo il cielo e la terra, ossia le creature spirituali e quelle corporee.
[La libertà dell'esegesi]
18.27. Viste e considerate tutte queste opinioni, non voglio far dispute di parole, a nulla utili, se non alla perdizione degli ascoltatori. La legge invece è buona perché serve a edificare, se la si usa legittimamente, e ha per fine la carità che nasce dalla purezza di cuore, da una coscienza buona e da una fede non immaginaria; e lo sa bene il nostro maestro, che sospese ai suoi due soli precetti tutta la legge e i profeti. Se io ne faccio ardente professione, Dio mio, lume segreto dei miei occhi, che male c'è se di queste parole si possono dare interpretazioni diverse, leggendovi cose che sono comunque vere? Che male c'è, dico, se io avrò in mente cose diverse da quelle che un altro pensa avesse in mente lo scrittore? Ma tutti noi che lo leggiamo ci sforziamo di ricercare e comprendere quello che l'autore voleva: e se lo crediamo veritiero, non oseremo attribuirgli nulla che sappiamo o riteniamo falso. Quando dunque ciascuno si sforza di intendere le Sacre Scritture secondo l'intenzione dello scrittore, che cosa c'è di male se intende ciò che tu, luce di tutte le intelligenze capaci di verità, mostri essere il vero, anche se non è ciò che intendeva l'autore in questione, quando, pur essendo diverso, è sempre il vero che quest'ultimo ha inteso?
19.28. Certo, è vero che tu, Signore, hai fatto il cielo e la terra. Ed è vero che il principio è la tua Sapienza, in cui hai fatto tutte le cose. È vero anche che questo mondo visibile abbraccia nella sintesi delle sue grandi parti, il cielo e la terra, tutti i generi di cose da te formati e stabiliti. Ed è vero che ogni cosa mutevole ci suggerisce l'idea di un che di informe, che proprio per questo può assumere una forma, o mutarsi e trasformarsi. È vero che non è soggetto alle peripezie del tempo ciò che aderisce talmente a una forma immutabile, da non mutarsi mai, benché soggetto al mutamento. È vero che un'assenza di forma tale da approssimarsi al nulla non può avere vicende temporali. È vero che ciò da cui una cosa deriva può, secondo certi modi di esprimersi, ricevere addirittura il nome della cosa che ne deriva: motivo per cui fu possibile chiamare cielo e terra la massa informe, quale che fosse, da cui sono derivati il cielo e la terra. È vero che di tutte le cose formate nulla si avvicina all'informe più della terra e dell'abisso. È vero che tu hai fatto non solo ogni cosa creata e dotata di forma, ma anche tutto ciò che può essere creato e dotato di forma, tu da cui tutte le cose provengono. È vero che tutto ciò che è formato dall'informe è informe prima di essere formato.
[Varietà di interpretazioni possibili]
20.29. Da tutte queste verità, di cui non dubitano quelli che ebbero da te il dono di vederle con l'occhio interiore, irremovibili nel credere che il tuo servo Mosè abbia parlato in spirito di verità, ciascuno si sceglie la propria: una cosa è intendere "In principio Dio creò il cielo e la terra" nel senso che nel Verbo a sé coeterno Dio fece il mondo delle creature intelligibili e sensibili, o spirituali e corporee; altra cosa è intendere "In principio Dio creò il cielo e la terra" nel senso che nel Verbo a sé coeterno Dio fece tutta la gran massa di questo mondo materiale con tutti i ben noti e visibili generi di cose che vi sono contenute; altra cosa ancora è intendere "In principio Dio creò il cielo e la terra" nel senso che nel Verbo a sé coeterno Dio fece la materia amorfa della creazione tanto spirituale che corporea; altro ancora è intendere "In principio Dio creò il cielo e la terra" nel senso che nel Verbo a sé coeterno Dio fece la materia amorfa della creazione corporea, in cui erano ancora confusi il cielo e la terra, che ora percepiamo nella gran massa di questo mondo come elementi distinti e dotati di forma; altro infine è intendere "In principio Dio creò il cielo e la terra" nel senso che nell'esordio stesso dell'opera della creazione Dio fece la materia amorfa contenente ancora indifferenziati il cielo e la terra, che poi da quella si sono formati fino ad apparire ben distinti e visibili con tutte le cose che appartengono loro.
21.30. E così pure per quanto concerne l'intelligenza delle parole successive: di tutte quelle verità ciascuno sceglie la propria. Altro è intendere "La terra era invisibile e informe, e le tenebre erano al di sopra dell'abisso" nel senso che quella massa corporea creata da Dio era la materia ancora informe dei corpi, senza ordine, senza luce; altro è intendere "La terra era invisibile e informe, e le tenebre erano al di sopra dell'abisso" nel senso che il tutto che poi si chiamò cielo e terra era ancora informe e tenebrosa materia, da cui sarebbero derivati il cielo fisico e la terra fisica con tutto ciò che contengono di noto ai sensi del corpo. Altro ancora è intendere "La terra era invisibile e informe, e le tenebre erano al di sopra dell'abisso" nel senso che il tutto che poi si chiamò cielo e terra era ancora informe e tenebrosa materia, da cui sarebbe derivato il cielo intelligibile - che altrove è detto cielo del cielo - e la terra, cioè tutte le cose di natura corporea, intendendo con questa parola anche il cielo fisico: insomma, da cui sarebbero derivate tutte le creature visibili e invisibili. Altra cosa ancora è affermare che con le parole "La terra era invisibile e informe, e le tenebre erano al di sopra dell'abisso" la Scrittura non si riferisce a ciò che ha chiamato cielo e terra, ma a una assenza di forma che preesisteva: alla quale appunto - ci si dice - ha dato il nome di terra invisibile e informe e tenebroso abisso: e da cui, come è scritto nel passo precedente, Dio trasse il cielo e la terra, cioè le creature spirituali e quelle materiali. Altro infine è intendere "La terra era invisibile e informe, e le tenebre erano al di sopra dell'abisso" nel senso che quell'assenza di forma era già in qualche modo la materia da cui, come la Scrittura afferma subito prima, Dio fece il cielo e la terra, vale a dire tutta la massa dell'universo fisico, divisa nelle sue due massime regioni, la superiore e l'inferiore, con tutte le creature familiari e ben note che esse contengono.
22.31. A queste due ultime opinioni si potrebbe tentare di obiettare: "Se non ammettete che col nome di cielo e terra ci si riferisca a questa materia amorfa, esisteva dunque qualcosa di non creato da Dio, da cui egli trasse il cielo e la terra. E in effetti la Scrittura non racconta di una creazione di questa materia da parte di Dio, a meno di intendere come modi di designarla le parole 'il cielo e la terra', o forse soltanto 'la terra', là dove si dice: 'In principio Dio creò il cielo e la terra'. Così che il seguito, 'La terra era invisibile e informe, e le tenebre erano al di sopra dell'abisso', anche ammesso che sia proprio la materia amorfa a essere così chiamata, non possiamo intenderlo che riferito a quella che fu Dio a creare, secondo il passo che precede: 'creò il cielo e la terra'". Udite queste obiezioni, gli assertori dell'una o dell'altra delle due opinioni che abbiamo citato per ultime risponderanno: "Noi non neghiamo che anche questa materia amorfa sia stata fatta da Dio, da Dio dal quale derivano tutte le cose molto buone: perché, come dichiariamo bene maggiore ciò che è stato creato e dotato di forma, così concediamo che quanto è passibile di esser creato e dotato di forma sia ancora un bene, benché minore; e d'altra parte la Scrittura non fa parola della creazione di questa materia amorfa da parte di Dio, come non fa parola di molti altri enti che senza dubbio sono opera di Dio: ad esempio i Cherubini e i Serafini, e quelli esplicitamente distinti dall'Apostolo: Troni, Dominazioni, Principati, Potestà. Ma se nel passo che dice 'creò il cielo e la terra' sono comprese tutte le cose, che cosa diremo delle acque, sulle quali aleggiava lo spirito di Dio? Se infatti si intendono comprese nel nome di terra, come si può applicare quel nome anche alla materia amorfa, mentre le acque le vediamo, e sono anzi così belle a vedersi? Ma se è questa l'accezione corretta, perché da quella stessa massa amorfa sta scritto che fu fatto il firmamento e che fu chiamato cielo e non sta scritto che furono fatte le acque? Perché non sono certo ancora informi e sottratte alla vista, le acque che sono uno spettacolo così grazioso, a vederle fluire. Oppure, se questa bellezza l'assunsero allora, quando Dio disse: 'Si raccolgano le acque che sono al di sotto del firmamento', ammesso che questo confluire sia acquisire forma, che cosa si risponderà a proposito delle acque che sono al di sopra del firmamento? Perché da un lato allo stato amorfo non avrebbero meritato una sede tanto onorevole, e dall'altro non si trova cenno all'atto di parola con cui furono dotate di forma. Perciò, se la Genesi non fa parola di qualche opera di Dio che però né una sana fede né una ferma intelligenza dubitano sia tale - e nessuna teoria seria oserà sostenere che le acque in questione sono a Dio coeterne, solo perché le vediamo menzionate nel libro della Genesi ma non troviamo il punto della loro creazione - perché non intendere, alla scuola della verità, che anche quella materia amorfa chiamata in questo passo della Scrittura 'terra invisibile e informe e tenebroso abisso', Dio la fece dal nulla e perciò non gli è coeterna? Anche se il racconto in questione omette il riferimento al punto in cui fu creata."
[Principi metodologici. La "libertà del lettore"]
23.32. Bene: dopo aver ascoltato queste interpretazioni e averle esaminate per quanto mi consente l'incostanza - io la confesso a te che la conosci, mio Dio - vedo che due specie di dissenso possono insorgere quando il messaggio di un portavoce veridico viene trasmesso per mezzo di segni: l'una sulla verità dei fatti, l'altra sull'intenzione di chi lo trasmette. Altro è chiedersi che cosa sia vero riguardo alla creazione, altro che cosa con queste parole abbia voluto far intendere al lettore o all'ascoltatore Mosè, questo nobile servitore della tua fede. Quanto alla prima specie di dissenso, io prendo le distanze da tutti quelli che pretendono di conoscere ciò che in effetti è falso. E prendo le distanze anche, quanto alla seconda, da tutti quelli la cui pretesa è che Mosè abbia detto il falso. Invece vorrei unirmi in te a quelli che della tua verità si nutrono in tutta la larghezza dell'amore, e in te mio Signore goderne con loro; vorrei che avessimo comune accesso alle parole del tuo libro e vi cercassimo la tua intenzione attraverso quella del tuo servo, per la cui penna tu ce le hai donate.
24.33. Ma questa intenzione chi di noi, fra le tante verità che in questa o quella interpretazione si presentano a chi cerca, l'ha proprio scoperta, tanto da poter asserire che questo sia stato il pensiero di Mosè e questo egli abbia voluto far intendere in quel racconto, con la stessa sicurezza con cui afferma che questo è vero, qualunque cosa egli avesse in mente? Ma se io stesso, Dio mio, io servo tuo che ti offro in voto in questo scritto il sacrificio di una confessione e ti prego che la tua misericordia mi conceda di mantenere il mio voto, io affermo che tu hai creato ogni cosa, visibile e invisibile, nella tua Parola immutabile: ma affermo forse con la stessa sicurezza che Mosè non avesse altro in mente quando scrisse: "In principio Dio creò il cielo e la terra"? No, perché nella sua mente non vedo, quanto lo vedo certo nella tua verità, che proprio questo pensasse, quando così scriveva. Perché può ben darsi che dicendo "in principio" pensasse all'inizio della creazione; può darsi che per "il cielo e la terra" in quel passo non volesse intendere la realtà spirituale o materiale già formata e compiuta, ma l'una e l'altra ancora allo stato di abbozzo, ancora informi. Vedo che entrambe le cose avrebbero potuto essere dette con verità, qualunque delle due sia stata detta; ma quale appunto egli avesse in mente mentre usava quelle parole, non lo vedo così bene. Anche se, qualunque di queste due interpretazioni o di altre da me neppure menzionate un uomo così grande abbia avuto davanti agli occhi quando proferì quelle parole, vide certamente il vero e lo espresse in modo adeguato: su questo non ho nessun dubbio.
25.34. E nessuno venga più a tormentarmi con parole come: "Non questo che dici tu aveva in mente Mosè, ma quello che dico io". Ancora se uno mi chiedesse: "Come fai a sapere che Mosè aveva in mente proprio quello che tu gli fai dire?" - dovrei mantenermi calmo e tollerante e risponderei forse quello che ho risposto sopra, magari più diffusamente, se fosse un po' testardo. Ma se uno asserisce: "Non questo che dici tu aveva in mente, ma quello che dico io", senza peraltro contestare la verità di entrambe le cose che noi diciamo - o vita dei poveri, Dio mio in seno a cui non c'è contraddizione, piovimi in cuore un poco di mitezza, che io trovi la pazienza di sopportarla, gente del genere. Non me lo vengono a dire perché sono indovini e quel che dicono l'han visto in cuore al tuo servo, ma perché sono pieni di superbia, e ignorano il pensiero di Mosè ma amano il loro proprio, e non perché sia vero ma perché è il loro proprio. Altrimenti amerebbero in pari misura un'altro pensiero vero, come amo io quello che loro dicono quando dicono il vero: non perché è loro, ma perché è vero: e non è loro già solo perché è vero. Se poi lo amano proprio perché è vero, esso è già tanto loro quanto mio, poiché appartiene in comune a tutti gli amanti della verità. Ma quanto alla loro pretesa che Mosè avesse in mente non quello che dico io, ma quello che dicono loro, non ne voglio sapere e non mi piace; e se anche così fosse, questa presunzione non è effetto di scienza ma di insolenza, non nasce da un'intuizione ma dall'albagia. Tremendi, Signore, sono i tuoi giudizi: proprio perché la tua verità non è mia né di questo o di quello, ma di tutti noi che tu pubblicamente chiami a parteciparne in comune, con l'avvertimento terribile di non pretenderne il possesso privato, per non esserne privati. Perché chiunque rivendica la proprietà esclusiva di ciò che tu offri al godimento di ognuno e pretende suo quello che è di tutti, è ricacciato dal bene comune al suo proprio, cioè dalla verità alla menzogna. Chi infatti dice menzogne, dice del suo.
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35. Fa' attenzione, tu, il migliore dei giudici, Dio o la verità stessa, fa' attenzione alla risposta che dò a questo avversario, fa' attenzione: parlo davanti a te e davanti ai miei fratelli che fanno un uso legittimo della legge secondo il suo fine, l'amore. Presta attenzione e vedi se ti piace come io gli parlo. Con queste parole fraterne e serene io mi rivolgo a lui: se entrambi vediamo che è vero ciò che dici tu ed entrambi vediamo che è vero ciò che dico io, domando: dov'è che lo vediamo? Certo né io in te né tu in me, ma entrambi nella stessa verità immutabile che sta al di sopra delle nostre menti. Se dunque non c'è alcuna controversia fra noi a proposito della luce stessa del signore Dio nostro, perché ci mettiamo a disputare sul pensiero del nostro prossimo, che pure non possiamo vedere come si vede la verità immutabile? In fondo se Mosè in persona ci apparisse per dirci "Questo avevo in mente", neanche allora lo vedremmo, ma ci limiteremmo a credere. E allora non gonfiamoci d'orgoglio in favore dell'uno e contro l'altro. Amiamo il signore nostro Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutta la mente, e il prossimo nostro come noi stessi. Se non credessimo che Mosè, qualunque sia stato il suo pensiero in quei libri, sia stato mosso da questi due precetti d'amore, faremmo bugiardo il Signore, attribuendo al nostro compagno di servizio intendimenti diversi da quello che egli ha insegnato. E allora vedi quanto sia stupido, in tanta abbondanza di proposizioni verissime che si possono desumere da quelle parole, osare temerarie asserzioni su quella che Mosè in particolare avrebbe avuto in mente, e con perniciose controversie offendere quell'amore che indusse colui che stiamo cercando di interpretare a dire tutto quello che disse.
[Molteplicità dei livelli di interpretazione]
26.36. E io però Dio mio, vetta della mia umiltà e pace della mia fatica, che ascolti le mie confessioni e rimetti i miei peccati, non posso credere - dato che mi prescrivi di amare il prossimo mio come me stesso - che Mosè, il più fedele dei tuoi servitori, abbia ricevuto un dono minore di quello che io augurerei a me stesso e desidererei avere da te se fossi nato ai suoi tempi e tu mi avessi messo al suo posto. E se fossi stato io a servire con il cuore e la lingua, e a divenire mezzo di trasmissione di quelle parole scritte che tanto tempo dopo dovevano fare del bene a tutte le genti e soverchiare su tutta la terra, dall'alto di un'autorità così somma, la voce di ogni insegnamento falso e superbo. Oh, allora - se io fossi stato Mosè - perché infine veniamo tutti dalla stessa massa - e cos'è l'uomo se non ti ricordi di lui? - se fossi stato ciò che lui era e tu mi avessi incaricato di scrivere il libro della Genesi, avrei voluto ricevere da te una proprietà di parola e una sapienza di stile tali che neppure la gente non ancora in grado di intendere in che modo Dio crea rifiutasse l'opera come cosa superiore alle sue forze, e quelli che invece sono già in grado di intendere ritrovassero nelle concise parole del tuo servitore ogni proposizione vera, non una esclusa, in cui il loro pensiero si fosse imbattuto; e se altri ne avesse nella luce della verità vedute ancora, neppure queste mancassero, ma fossero anch'esse leggibili nelle stesse parole.
27.37. Come l'acqua sorgiva in luogo angusto è più abbondante, e defluendo in molti rivoli bagna più largo spazio di ciascuno dei rivoli di quell'unica sorgente, che scorrono per molti luoghi diversi, così il racconto di quel tuo amministratore, cui avrebbero attinto numerosi scrittori, fa scaturire da poche parole fiumi di limpida verità: in modo che ciascuno ne tragga tutto il vero di cui è capace in materia - ciascuno il suo - e lo faccia scorrere in discorsi dai lenti meandri.
Già: perché alcuni leggendo o ascoltando queste parole si rappresentano Dio come un uomo o come una forza dalla mole immensa, che di punto in bianco si sia arbitrariamente decisa a creare, fuori di sé e come distanti nello spazio, il cielo e la terra, due grandi corpi, sopra e sotto, contenitori di tutte le cose. E quando sentono le parole: "Dio disse: sia questo, e questo fu", pensano a parole con un principio e una fine, che risuonano per un certo tempo e passano, passate le quali improvvisamente era là ciò cui fu comandato di esistere: e a questo modo si fanno ogni sorta di immagini in base alle consuetudini della carne. Sono creature infantili, quasi animalesche ancora: in loro è con questo modo di esprimersi, il più semplice, quasi latte materno a sostegno della loro immaturità, che si costruisce per la loro salute la fede. E così tengano per certo che Dio è autore di tutti i generi di cose meravigliosamente varie che il loro occhio vede tutt'intorno. Se uno di costoro poi, come in spregio all'umile stile di discorso si lancia, superbo nella sua sprovvedutezza, fuori dalla culla che lo nutriva, oh infelice! cadrà, e tu abbi pietà Signore Dio, che il pulcino implume non sia calpestato da quelli che passano per la via, e manda il tuo angelo che lo riponga nel nido, perché viva finché sappia volare.
28.38. Ma ce ne sono altri che in quelle parole trovano non un nido ma un folto frutteto, e vi vedono nascosti i frutti e svolazzano garruli e lieti a cercarli con gli occhi e a carpirli. Vedono infatti, quando leggono o ascoltano queste tue parole, Dio eterno, che la tua immutabile permanenza è al di sopra di tutti i tempi passati e futuri, e tuttavia non c'è creatura temporale di cui tu non sia l'autore; che la tua volontà, essendo identica al tuo essere, non s'è affatto mutata, ovvero che senza dar luogo a intenti che non c'erano prima tu hai fatto essere tutte le cose; e non traendo da te stesso, a tua somiglianza, la forma di tutte le cose, ma dal nulla la dissomiglianza amorfa. Che tuttavia è capace di ricever forma, risalendo all'uno che tu sei, per assimilazione, nella misura prestabilita a ciascun essere nel suo genere. E che tutte le cose sono molto buone, sia che rimangano intorno a te, sia che per gradi allontanandosi nel tempo e nello spazio siano causa o soggetto di un'armoniosa varietà d'effetti. Tutto questo vedono, e ne godono nella luce della tua verità, per quel poco che possono quaggiù.
[Ancora sui sensi di "In principio"]
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39. E fra questi, c'è chi in quel passo, "In principio Dio creò..." intende per principio la Sapienza, poiché anch'essa ci parla. Altri, pensando a queste medesime parole, interpretano il principio come l'inizio della creazione e leggono "in principio creò" come creò dapprima. E fra quelli che interpretano in principio nel senso della Sapienza in cui hai fatto il cielo e la terra, uno crede che "cielo" e "terra" siano i nomi dati alla materia da cui furono tratti cielo e terra, un altro che si riferiscano a due generi di entità ben formate e distinte, un altro ancora che "cielo" designi un genere di entità dotate di forma e spirituali, "terra" invece uno amorfo di materia corporea. Ma neppure quelli che con "cielo" e "terra" intendono una materia ancora amorfa, da cui sarebbero stati formati il cielo e la terra, l'intendono a un modo: chi vi vede l'origine delle creature sensibili e intelligibili, chi soltanto quella di questa massa sensibile e corporea che contiene nel suo vasto seno tutti gli esseri manifesti e perspicui ai nostri sensi. Come non l'intendono a un modo quelli che in quel passo credono vengano chiamati "cielo" e "terra" le creature già distinte e ordinate, ma chi intende quelle visibili e invisibili, chi soltanto il mondo visibile, di cui indoviniamo il cielo luminoso e la buia terra - con tutto ciò che vi è.
29.40. Ma chi interpreta "In principio creò" non altrimenti che se dicesse "creò dapprima", non può ragionevolmente intendere cielo e terra se non come materia del cielo e della terra, vale a dire dell'universo tutto: intelligibile e corporeo. Perché se volesse vedervi un universo già formato, sarebbe giusto chiedergli: se Dio ha fatto prima questo, che cosa ha fatto poi? Dopo l'universo, non troverà nient'altro, e suo malgrado si sentirà chiedere: "E allora in che senso ha fatto prima quello, se poi non ha fatto nulla?" Se invece pone prima la materia amorfa, e poi quella formata, non incorre nell'assurdo, purché sia in grado di distinguere fra priorità di ciò che è eterno e priorità nel tempo, secondo la preferenza e secondo la genesi. Così nella sua eternità Dio è prima di ogni cosa; secondo il tempo, il fiore viene prima del frutto; secondo la preferenza, il frutto viene prima del fiore; geneticamente, il suono precede la melodia. Di questi quattro sensi il primo e l'ultimo menzionato sono i più difficili da capire, i due intermedi i più facili. È rara e troppo ardua, mio Signore, l'intuizione della tua eternità che crea senza mutare esseri mutevoli, e per questo appunto è prima di essi. Per non parlare poi della capacità di afferrare senza gran fatica una relazione così sottile come quella di priorità del suono rispetto alla melodia, che consiste nell'essere la melodia un suono dotato di forma: e qualcosa senza forma può ben esserci, mentre ciò che non esiste non può ricevere una forma. Allo stesso modo la materia precede ciò che ne deriva: non dunque nel senso che sia lei a operare la trasformazione, perché piuttosto la subisce, e neppure nel senso di essere temporalmente anteriore. Così non ci accade di emettere in un primo tempo suoni senza una forma o melodia e di organizzarli o modellarli in forma di canto solo in un secondo tempo - come legno da cui si fabbrica uno scrigno o argento da cui si foggia un vaso. Materiali del genere precedono certamente anche nel tempo le forme delle cose che ne vengono fatte. Ma nel canto non è così. Quando infatti si canta è il suono della melodia che si ode, e non un suono dapprima informe che solo in seguito riceve forma in una melodia. I suoni, qualunque siano, appena risuonati passano: e non lasciano nulla che tu possa recuperare per poi ricavarne una composizione a regola d'arte. Reciprocamente, è risuonando che una melodia si svolge: e questo suo suono è la sua materia. È appunto ricevendo una forma che diventa una melodia. E quindi, come dicevo, la materia sonora viene prima della forma melodica: non perché possa produrla come effetto - dato che il suono non è artefice della melodia, ma è consegnato dal corpo all'anima del cantore, perché ne faccia una melodia -; neppure viene prima in senso temporale, perché è emesso contemporaneamente alla melodia; e neppure secondo la preferenza, perché il suono non vale più della melodia, se questa non è soltanto suono, ma suono dalla bella forma. Ma viene prima geneticamente, perché non è la melodia a ricever forma per diventare suono, ma il suono per diventare melodia. Da questo esempio intenda chi può come la materia delle cose sia stata creata prima, e chiamata "cielo" e "terra," perché da essa hanno origine il cielo e la terra: non creata prima in senso temporale, perché è la forma delle cose che rivela il tempo, mentre la materia era informe ed è ormai nel tempo che se ne ha notizia. Eppure una narrazione che l'abbia a soggetto non può fare a meno di trattare questa priorità come se fosse di ordine temporale: perché quanto a valore tiene l'ultimo posto, essendo senza dubbio migliori le cose dotate di forma che le informi, e in altro senso ha prima di sé l'eternità del creatore, senza cui non poteva esser dal nulla l'origine di qualche cosa.
[Accordo di tutte le verità e fecondità dell'esegesi]
30.41. In questa varietà di proposizioni vere sia la verità stessa a portare la concordia, e il nostro Dio abbia pietà di noi, perché ci serviamo legittimamente della legge, secondo il fine delle prescrizioni che è il puro amore. E perciò se qualcuno mi domanda quale di questi fosse il vero pensiero di quel tuo servo famoso, Mosè - non lo so e lo confesso: non è argomento per le mie confessioni. So però che si tratta di proposizioni vere - fatta eccezione per quelle concepite nella carne, di cui ho già parlato abbastanza, o così m'è parso. Ma a tutti gli altri, a tutti noi - neonati della speranza, piccoli ma non atterriti da queste parole del tuo libro, che sono insieme sublimi e semplici, scarne ed eloquenti - e a tutti quelli che riconosco per interpreti del vero chiuso in quelle parole, io dico: amiamoci, ed egualmente amiamo te, Dio nostro, fonte di verità, se di verità e non di vanità abbiamo sete. E a quel tuo servitore, quel bravo economo della tua scrittura, pieno del tuo spirito, rendiamo onore con la persuasione che scrivendo come la tua rivelazione gli dettava abbia mirato al massimo e di luce e di frutto, al vero e all'utile.
31.42. Così quando uno dice: "Aveva in mente quello che penso io", e un altro ribatte "No, quello che penso io", io rispondo, credo, con maggior senso del divino: e perché non tutt'e due le cose, se entrambe sono vere? E se un altro in queste parole ne vede una terza, una quarta o qualunque altra ancora, perché non si dovrebbe credere che le abbia tutte vedute lui che fu lo strumento di cui il Dio uno si servì per adattare gli scritti sacri ai pensieri di molti, destinati a vedervi cose diverse, e vere? Io, non ho paura a dirlo dal profondo del cuore, se scrivessi qualcosa di adatto a raggiungere il vertice dell'autorevolezza, vorrei senza dubbio scrivere in modo che qualunque verità uno possa mai afferrare in questa materia, echeggi nelle mie parole: piuttosto che formulare più chiaramente una sola proposizione vera, a esclusione di tutte le altre - posto naturalmente che la loro falsità non mi balzi dolorosamente agli occhi. Mio Dio, e allora non sarò tanto sconsiderato da mettere in dubbio che tu l'abbia meritatamente concesso a quel grande uomo. Sì, in queste parole egli dovette intuire e concepire, mentre le scriveva, tutta la porzione di verità che noi siamo riusciti a scoprirvi e tutta quella che noi non abbiamo - o non abbiamo ancora - potuto, ma che si può scoprirvi.
32.43. Infine, Signore che sei Dio e non carne e sangue, se l'uomo non vide tutto, poteva sfuggire al tuo spirito buono, che mi condurrà in una terra giusta, qualcosa di ciò che tu avresti rivelato ai futuri lettori attraverso quelle parole, quand'anche il tuo portavoce avesse in mente uno solo fra i molti sensi veri? E se è così, sia dunque quello che egli aveva in mente il più eccelso di tutti: ma a noi, Signore, ti piaccia di mostrare quello o un altro pure vero, e sia la tua rivelazione la stessa concessa a quell'uomo tuo, o sia diversa per ogni diversa occorrenza delle stesse parole, dacci tu da mangiare, e non ci illuda l'errore. Ecco, mio Dio e Signore: quanto ho scritto su poche parole, quante ne ho scritte! Di questo passo come potranno bastarci le forze e il tempo per tutti i tuoi libri? Lasciami dunque abbreviare in quelle parole le mie confessioni, e sceglierne un senso che tu mi hai ispirato - vero, certo e buono, per quanti se ne possano presentare là dove molti sono ugualmente possibili. E la mia confessione ti sarà fedele al punto che se dirò quello che il tuo ministro aveva in mente, tanto meglio, perché è questo che io devo tentare; ma se non ci riuscirò, dirò comunque quello che la tua verità mediante le parole di lui ha voluto dire a me, come a lui disse quello che proprio a lui voleva dire.
LIBRO TREDICESIMO
[LA CREAZIONE E LO SPIRITO]
1.1. Io ti invoco Dio mio, somma indulgenza, che mi hai fatto essere e non hai dimenticato chi ha dimenticato te. Ti chiamo entro quest'anima che tu hai svegliato al desiderio per prepararla a contenere te. E non abbandonarla ora che chiama, tu che l'hai prevenuto, quest'appello: che con voce numerosa, in un crescendo di richiami mi hai incalzato perché ti udissi da lontano e mi volgessi a te che mi chiamavi, e ti invocassi. Perché tu, mio Signore, hai cancellato tutte le mie colpe per non retribuire l'opera delle mie mani, la defezione dal tuo essere, e hai prevenuto tutti i miei meriti per retribuire quella delle tue mani, che mi hanno fatto essere. Perché prima che io esistessi tu eri, e io non ero già prima che tu mi accordassi di esistere: eppure esisto, in grazia della tua bontà che precede tutto ciò che mi hai fatto essere e ciò da cui hai tratto questo essere. E tu non avevi bisogno di me, né io sono un bene tale che tu ne possa cavare vantaggio, tu che sei il mio Signore e mio Dio non perché il mio servizio ti risparmi la fatica di agire, o perché la tua maestà non possa fare a meno del mio ossequio, e neppure perché io ti coltivi quasi tu fossi come la terra, e restassi incolto senza il mio culto: no, ma devo servirti e coltivarti per stare bene, perché da te mi viene tutto il ben-essere di cui io sia capace.
[Creazione e formazione]
2.2. Dalla pienezza della tua bontà la tua creatura acquistò sussistenza, affinché un bene, sia pure a te non proficuo, non venisse meno - e non perché la sua provenienza da te lo rendesse pari a te, ma perché per tua grazia era venuto all'esistenza. Già, che titolo di merito avevano nei tuoi confronti il cielo e la terra, da te creati in principio? Lo dicano, le nature di spirito e di corpo, che hai fatto nella tua sapienza, che titoli di merito avevano per riceverne sia pur quell'abbozzo informe d'essere, ciascuna nel suo genere, lo spirito e il corpo, sconfinanti oltre limiti e misura fino a perdersi lontano da te, nelle regioni della difformità... Anche se essere spirito sia pur informe val sempre meglio che esser corpo pur dotato di forma, ed esser corpo informe meglio che essere nulla affatto. E così informi, appunto, rimarrebbero sospese alla tua parola, se quella stessa parola non le richiamasse alla tua unità e non ne ricevessero forma fino a essere, derivando dall'uno e bene sommo che tu sei, tutte molto buone. Che titoli di merito avevano per esistere anche allo stato amorfo, se non esistono altrimenti che per grazia tua?
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3. Che titoli di merito aveva la materia dei corpi per esistere anche solo invisibile e informe, dato che neppure questo sarebbe stata, se non fossi stato tu a crearla? E dunque non poteva, non esistendo, meritare ai tuoi occhi di esistere. E che titoli di merito aveva quell'abbozzo di creatura spirituale anche solo per fluttuare buia e simile all'abisso, dissimile da te? Se non addirittura per essere dalla parola stessa indotta a volgersi verso il suo stesso autore, e da lui illuminata farsi luce: e per uguale forma a te conforme, ancorché non eguale. Perché come per il corpo essere non è lo stesso che esser bello - altrimenti non potrebbe esser deforme - così anche per lo spirito creato la vita non è necessariamente vita sapiente - altrimenti lo spirito sarebbe in possesso di un sapere immutabile. Ma per lui è cosa buona l'adesione continua a te, per non perdere volgendoti la schiena quel lume che aveva trovato rivolgendosi a te, e non ricadere in una vita simile al buio dell'abisso. Perché ci fu una vita anche per noi creature spirituali quanto all'anima, in cui volgemmo la schiena al nostro lume, a te - e fummo un tempo tenebre, e ora ci dibattiamo fra gli avanzi della nostra oscurità, finché saremo la tua giustizia nel tuo unigenito come montagne di Dio: già fummo infatti, come abisso profondo, la tua condanna.
3.4. Le parole Sia la luce, e la luce fu, che pronunciasti all'inizio della creazione, non mi pare erroneo intenderle riferite alla dimensione spirituale del creato: infine una qualche vita c'era già perché tu la potessi illuminare. Ma come non aveva ai tuoi occhi alcun titolo per meritare di esserci, questa vita da illuminare, così neppure una volta che ci fu meritava di essere illuminata. E la sua condizione informe non avrebbe incontrato il tuo favore se non si fosse fatta luce: e non limitandosi a esistere, ma fissando la fonte della luce fino a confondersi in lei. Dovendo solo alla tua grazia e il vivere, e la felicità di vivere: per quella decisione in cui s'è volta al meglio e a quello che non muta né in meglio né in peggio. E questo sei tu solo, perché tu solo sei, semplicemente: e per te vivere non è altro che vivere felice, perché la tua felicità sei tu.
4.5. E allora che cosa mancherebbe al bene che tu sei per te stesso, anche se fossero rimaste nel nulla o informi le creature: tu non le hai fatte perché ne avessi bisogno, ma per la tua bontà sovrabbondante, con la sua forza di coesione, di organizzazione verso la forma: e non perché fosse incompleta la tua beatitudine. Già, nella tua perfezione a te dispiace la loro imperfezione, al punto di volerle rendere più compiute per fartele piacere: non certo perché tu sia imperfetto, come se nella loro perfezione tu dovessi trovare la tua. Perché il tuo spirito di bene si muoveva sopra le acque: vi si muoveva sopra, non ne era mosso, come se posasse su di loro. Quando si dice che il tuo spirito riposa in una persona, si dovrebbe dire che la fa riposare in sé. Ma era la tua volontà incorruttibile e immutabile che si muoveva, sufficiente a se stessa, sopra la vita che tu avevi creato: vita che non coincide con la felicità di vivere, onda buia di vita, che deve ancora volgersi al suo autore e avvicinarsi sempre più alla fonte della vita e vedere nella sua luce la luce per trarne perfezione, splendore e beatitudine.
[Lo Spirito Santo e il suo ruolo]
5.6. Ecco: mi appare in enigma la trinità del tuo essere, Dio: perché tu, Padre, nel principio della nostra sapienza, che è la Sapienza da te nata, a te uguale e coeterna, hai creato il cielo e la terra - nel Figlio, dunque. E a lungo abbiamo parlato del cielo dei cieli e della terra invisibile e informe e dell'abisso di buio, quasi vagando fra rigiri e svanimenti dietro lo spirito informe, - come sarebbe rimasto se non si fosse rivolto verso l'autore di ogni forma di vita, che lo investisse di luce per farne vita di splendore e cielo: cielo di quel cielo che poi fu creato a separare le acque dalle acque. E già disponevo del Padre nel nome del Dio autore del cielo e della terra, e del figlio nel nome del principio in cui li creò; e credendo come credevo nella Trinità del mio Dio, la cercavo nelle sue parole sacre... Ed eccolo, il tuo spirito, che si muoveva sopra le acque. Ecco il mio Dio Trinità, Padre e Figlio e Spirito Santo, creatore dell'universo.
6.7. Ma per quale motivo, lume di verità - e il cuore non mi sia maestro di illusioni, ora che lo avvicino a te, tu scrollane via il buio, ti prego, in nome della tenerezza sua madre - dimmi, per quale motivo la tua Scrittura fa menzione dello Spirito Santo solo dopo aver parlato del cielo e della terra invisibile e informe e delle tenebre sopra l'abisso? Forse perché occorreva suggerire l'idea del suo librarsi sopra qualche cosa? E questo non si poteva dire se prima non si fosse ricordato appunto su che cosa si dovesse intendere sospeso il tuo spirito. Perché certo non sul Padre e sul Figlio: e d'altra parte sarebbe sbagliato dire "si muoveva sopra" se non c'era niente sopra cui potesse muoversi. Prima dunque bisognava dire sopra che cosa si muoveva, e poi parlare di lui, dato che non occorreva menzionare altro che questo suo muoversi al di sopra di qualcosa. Ma perché non occorreva suggerire di lui altra idea che questa?
7.8. D'ora in avanti segua chi può con la sua intelligenza l'Apostolo che dice come il tuo amore si riversa nel centro di noi stessi per mezzo dello Spirito Santo datoci in dono, e spiega la natura dei doni dello spirito e indica la via trascendente dell'amore e piega per noi davanti a te il ginocchio perché ci conceda la conoscenza trascendente dell'amore di Cristo. Ecco perché, fin dal principio trascendente, si muoveva al di sopra delle acque. A chi, con quali parole dire il peso dell'amore di sé che pende verso il fondo dell'abisso e la levità dell'amore di te, del tuo spirito che si librava sulle acque. A chi dirlo, in che modo? Affondiamo e riemergiamo: ma non nello spazio. Niente è più simile, niente è così diverso: sono entrambe passioni, sono amori: la sporcizia del nostro spirito che scola verso il basso con le sue care angosce, la santità del tuo che ci solleva col desiderio della calma interiore, perché ci si levi in alto il cuore verso te, là dove il tuo spirito si libra sopra le acque, e giungiamo alla pace della trascendenza, quando l'anima avrà varcato le acque che non hanno sostanza.
8.9. E come l'acqua l'angelo si perse, si perse l'anima dell'uomo: e rivelarono l'abisso dell'intera dimensione spirituale del creato, il buio profondo in cui sarebbe se non avessi detto dall'inizio: sia la luce, e non si fosse fatta luce, e non si fossero tenute a te tutte le intelligenze della tua città celeste - quelle che hanno obbedito, voglio dire - per riposare nel tuo spirito, alto ed immobile sopra tutto il mutevole. Perfino il cielo dei cieli, altrimenti, sarebbe il buio abisso che è in se stesso: e ora invece è luce nel Signore. Perfino nell'inquietudine grama di quegli spiriti che si dispersero - e rivelarono l'oscurità celata sotto la veste di luce - tu mostri la grandezza cui l'avevi destinata, la creatura razionale. Perché alla sua felicità, alla pace, nulla basta che sia meno di te - tanto meno se stessa. Perché tu, il nostro Dio, inonderai di luce il nostro buio: da te sorgerà lo splendore delle nostre vesti, e quel nostro buio sarà gloria meridiana. Dammi te stesso Dio mio, restituiscimi te stesso. Io amo, e se non basta fammi amare più forte. Come faccio a sapere - non posso misurarlo, io! - quanto manca d'amore perché corra a incontrarti la mia vita, e non si strappi più dalle tue braccia, finché sarà nascosta all'ombra del tuo volto. Questo e non altro so, che mi fa male tutto: tutte le cose che non sono te, e non fuori di me soltanto, ma perfino in me, e ogni ricchezza che non sia il mio Dio m'è povertà.
9.10. Ma il Padre e il Figlio non si muovevano sopra le acque? Se si pensa a un corpo in moto nello spazio, neppure lo Spirito Santo si muoveva; se invece si intende il levarsi della divinità immutabile al di sopra di tutto il mutevole, allora Padre e Figlio e Spirito Santo si muovevano sopra le acque. Perché allora questo è detto soltanto del tuo spirito? Perché di lui soltanto si parla come fosse in qualche luogo ciò che non ha luogo, ed è il solo che viene chiamato dono tuo? È il dono in cui troviamo pace: è là che godiamo di te. È questa nostra pace, il nostro luogo. L'amore ci solleva, e il tuo spirito buono fa volare la nostra umile terra alta sopra i cancelli della morte. Nella volontà buona sta la pace. Il corpo tende con tutto il suo peso al luogo che gli è proprio. Non sempre verso il basso pende il peso, ma verso il luogo che gli è proprio. La pietra scende come il fuoco sale. Li porta il loro peso, tendono al loro luogo. L'olio versato nell'acqua risale, l'acqua versata sull'olio va a fondo: li porta il loro peso, tendono al loro luogo. Minore è l'ordine, maggiore l'inquietudine: al loro posto le cose s'acquetano. Il mio peso è il mio amore: da lui son mosso dovunque io muova. Il tuo dono ci accende e ci rapisce in alto: prendiamo fuoco e andiamo. Saliamo su per i pendii del cuore e cantiamo un canto di ascensione. È del tuo fuoco, del tuo fuoco soave che bruciamo, andando in alto, verso la pace di Gerusalemme. M'ha assalito la gioia quando mi hanno detto: andremo alla casa del Signore. Là saremo insediati dalla volontà buona: allora non avremo altro volere - che dimorarvi per l'eternità.
10.11. Felice la creatura che non conosce altro stato! Lei che in un altro stato ora sarebbe, se appena creata non l'avesse innalzata la grazia del tuo dono che si libra sopra tutto il mutevole: senza intervallo di tempo, nell'atto stesso delle tue parole: sia la luce - e se non si fosse in quell'atto fatta luce. Già, per noi il tempo in cui eravamo tenebre non è lo stesso che ci rende luce. Di lei invece si dice quello che sarebbe se non fosse illuminata, e se ne parla come se fosse stata prima labile e buia, solo per rendere evidente la causa del suo essere qual è: luce, perché rivolta al lume inestinguibile. E capisca chi può, lo chieda a te. E perché viene a importunare me, come fossi io a illuminare anche un solo uomo che viene in questo mondo!
[La Trinità e la sua immagine nell'uomo]
11.12. La Trinità onnipotente! Chi la comprenderà... Ma chi è che non ne parla - se pure è proprio di lei che si parla? In questo genere di discorsi quasi non c'è un'anima che sappia di che cosa parla. E si gettano nella mischia delle dispute: e nessuno vede questa visione se non ha pace. Vorrei che gli uomini riflettendo su se stessi considerassero tre dati. Son cose ben lontane da quella Trinità, ma io propongo appunto un esercizio e una prova per sentire quanto ne sono lontane. Ecco i dati di cui parlo: l'esistere, il conoscere, il volere. Io esisto e so e voglio: esisto sapendo e volendo e so di esistere e volere e voglio esistere e sapere. Ma non per questo è possibile dividere la vita in tre: fino a che punto si tratti di una sola vita, una mente sola e una sola essenza, e quindi di una distinzione senza separazione, ma pur sempre di una distinzione, lo veda chi sa vedere. Ora ciascuno è di fronte a se stesso: guardi con attenzione e poi mi dica se lo vede. Ma quando pure trovi qualcosa e riesca a dirlo, non creda di aver già trovato quello che sta immutabile al di sopra di tutto questo, che immutabilmente è e immutabilmente sa e immutabilmente vuole. La Trinità consiste senz'altro in queste tre cose, oppure si trovano tutte e tre in ciascuna di esse, così che ciascuna sarebbe triplice? Oppure è qualcosa che mirabilmente consiste in entrambi i modi, un infinito in se stesso semplice e molteplice che è a se stesso fine del proprio essere e si conosce e basta a se stesso restando immutabile e identico nella sovrabbondanza della sua unicità? Non è facile anche soltanto concepirlo. E come dirlo, come osare una formula, come?
[Esegesi allegorica: creazione e ricreazione]
12.13. E vai ancora oltre nella tua confessione, mia fede. Di' al tuo Dio e Signore - santo, santo santo mio Signore e Dio, nel tuo nome siamo stati battezzati, Padre e Figlio e Spirito Santo, nel tuo nome battezziamo, Padre e Figlio e Spirito Santo, perché anche in noi, nel suo Cristo, Dio creò il cielo e la terra, cioè gli uomini spirituali e quelli carnali della sua chiesa. Anche la nostra terra prima di ricevere la forma della dottrina era invisibile e informe, ed eravamo immersi nelle tenebre dell'ignoranza, perché hai istruito l'uomo per la sua ingiustizia e i tuoi giudizi sono l'abisso. Ma il tuo Spirito si librava al di sopra delle acque: vale a dire, la tua compassione non ha abbandonato la nostra miseria, e tu hai detto - sia la luce: fate pura la mente, perché il regno dei cieli è vicino. Fate pura la mente - sia la luce; e poiché l'anima nostra era turbata ci siamo ricordati di te, Signore, della terra del Giordano e del monte che si leva alla tua altezza e per noi si fece piccolo, e il nostro buio ci ha rattristati e ci siamo rivolti verso di te, e si è fatta luce. E così fummo un tempo tenebre, ma ora siamo luce nel Signore.
13.14. Ma lo siamo ancora soltanto per fede, non perché vediamo. È la speranza che ci ha salvati. Ma una speranza che si vede non è una speranza. E ancora l'abisso chiama l'abisso, ma ormai con la voce delle tue cateratte. Così anche quell'uomo che dice: non potevo parlarvi come a creature dello spirito, ma come a creature della carne, perfino lui pensa di non aver ancora capito: e dimentico di ciò che ha alle spalle si protende verso le cose che stanno davanti, e geme sotto il carico che porta, e la sua anima ha sete del Dio vivo, come il cervo sospira ai corsi d'acqua e dice: quando arriverò? E si strugge di rivestirsi della sua nicchia celeste, e grida all'abisso inferiore: non fatevi conformi a questo secolo, ma riformatevi, fate nuova la mente, e ancora: non tornate all'infanzia della mente, ma siate quanto alla malignità bambini, per esser grandi nell'intelligenza; e poi - Galati folli, chi è che vi ha incantati? Ma non è più la sua voce che parla, è la tua, perché sei tu che hai mandato il tuo spirito dalle più alte regioni del cielo attraverso colui che s'è levato in alto per aprire le cateratte dei suoi doni, così che nel suo impeto fluviale inondasse di letizia la tua città. Per lei sospira l'amico della sposa, che ha già con sé le primizie dello spirito, ma ancora intimamente geme struggendosi per l'adozione, la redenzione del suo corpo. Per lei sospira - appartiene alla sposa - per lei si affanna - è amico dello sposo - per lei, non per sé, perché è la voce delle tue cateratte e non la sua, quella con cui invoca l'altro abisso, e per lui s'affanna e teme che, come Eva fu ingannata dall'astuzia del serpente, così i nostri pensieri si perdano, lontani dalla purezza del nostro sposo e tuo unigenito. E quale non sarà la luce di visione, quando vedremo lui così come è, e saranno passate le lacrime che sono ora il mio pane, giorno e notte, mentre mi chiedono ogni giorno: dov'è il tuo Dio?
14.15. E anche io chiedo: dove sei mio Dio? Sì, ecco dove sei. Respiro un po' di te quando soffio l'anima in alto oltre me stesso, in canzoni di lode e musica di festa. E poi di nuovo è triste e affonda, l'anima, e ridiventa abisso, o sente, infine, d'esser sempre abisso. Le dice la mia fede, che tu hai acceso nella notte a lume dei miei piedi: perché sei triste, anima, e perché tu mi angosci? Spera nel tuo Signore: la sua parola è lucerna ai tuoi piedi. Spera e persevera - passerà la notte madre dei torti, passerà l'ira del tuo Signore, l'ira di cui eravamo figli anche noi che fummo un tempo tenebre, e ne portiamo ancora le tracce nel corpo morto per il peccato, finché al primo respiro del mattino dilegueranno le ombre. Spera nel tuo Signore: fin dal mattino resterò in attesa a contemplare, e ancora io lo riconoscerò. Fin dal mattino resterò in attesa e vedrò la salvezza del mio volto, il mio Dio che farà vividi di spirito anche i nostri corpi mortali. Abita in noi lo spirito, perché si lasciò portare dalla compassione sopra le onde del nostro buio interiore. E in questo nostro vagabondare ne abbiamo ricevuto un pegno - e già siamo luce, mentre ancora ci salva soltanto la speranza: siamo figli della luce e del giorno, non figli della notte e del buio, come pure fummo un tempo. E tu solo discerni noi da loro, in questa sempre incerta conoscenza umana, tu che metti alla prova il nostro cuore e chiami la luce giorno e le tenebre notte. Chi discerne fra noi, se non tu solo, e cosa possediamo, che non abbiamo avuto da te? Noi vasi d'elezione, fatti della stessa materia da cui furono ricavati gli altri, i vasi di vergogna.
[Il firmamento figura della Scrittura]
15.16. E se non tu, Dio nostro, chi stabilì sopra di noi quel firmamento d'autorità che è la tua scrittura divina? Il cielo sarà ripiegato come un libro, quello che ora è come tenda di pelle sopra di noi. Così, la tua scrittura divina è più elevata ancora nella sua autorità da quando hanno trovato morte in terra i mortali che te l'hanno amministrata. E tu lo sai, Signore, tu lo sai come hai rivestito gli uomini di pelle, quando il peccato li fece mortali. E così hai disteso come una pelle il firmamento del tuo libro, la trama compatta delle tue parole, che con l'aiuto di servitori mortali hai sospeso al di sopra di noi. Perché la loro stessa morte ha rafforzato il fondamento dell'autorità di cui godono le tue parole, che essi resero note: altissima sopra ogni cosa, mentre finché vissero qui non era così eccelsa. Già, non avevi ancora disteso il cielo come una pelle, e la fama della loro morte ancora non l'avevi diffusa ai quattro venti.
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17. Lascia, Signore, che vediamo i cieli, lavoro delle tue dita: tu ci hai velato gli occhi di nebbia, e tu rischiarali. Là c'è la tua testimonianza che fa sapienti le menti bambine. E sia completa la tua gloria nel balbettio dei lattanti e dei bimbi. Proprio non si conoscono altri libri che come questo paian fatti per stroncare l'orgoglio, per annientare l'avversario e il difensore, il difensore dei suoi peccati che resiste alla riconciliazione con te. Non conosco, mio Signore, non conosco altre parole limpide al punto da indurmi a questa confessione e piegarmi il collo al peso del tuo giogo e invitarmi al servizio della gratitudine. Fa' che io le capisca, Padre buono, concedilo a uno che abita sotto il loro firmamento, perché è bene per chi abita qua sotto che le hai fissate come sono, ferme.
[Le acque superiori e gli angeli]
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18. Altre acque ci sono sopra questo firmamento: sono immortali, credo, e custodite dalla corruzione della terra. Lodino il tuo nome, ti lodino le folle iperuranie dei tuoi angeli, che non devono alzare lo sguardo a questo firmamento e leggerlo per conoscere la tua parola. Perché loro vedono sempre il tuo volto, e vi leggono, senza bisogno di sillabarlo nel tempo, il volere della tua eterna volontà. Leggono, eleggono, dileggono: leggono sempre e ciò che leggono non passa mai. Elezione e dilezione sono nell'atto stesso di leggere l'immutabilità delle tue decisioni, per loro. Non si chiude il loro codice, il loro libro non si ripiega: questo libro per loro sei tu. E lo sei in eterno, perché il loro posto nel tuo ordine è al di sopra di questo firmamento che hai fissato alto sulla condizione inferma dei popoli inferiori, perché levassero lo sguardo e vi riconoscessero la tua benevolenza che parla nel tempo di te, il creatore del tempo. La tua benevolenza è nei cieli / Signore, e la tua verità tocca le nubi. Le nubi passano, ma il cielo resta: passano da questa a un'altra vita i profeti della tua parola: ma la tua scrittura si tende sopra i popoli fino alla fine dei tempi. E anche il cielo e la terra passeranno, ma non passeranno le tue parole: si piegherà la pelle e l'erba sopra la quale era tesa con il suo splendore, ma la tua parola perdura in eterno. E così tutto quello che ora ci appare nell'enigma delle nuvole e nello specchio del cielo e non come è: perché anche noi, benché cari al tuo figlio, ancora non si vede che cosa saremo. Ci guardò attraverso le finestre della carne, la sua carezza ci infiammò e ci mettemmo a correre dietro al suo profumo. Ma quando apparirà, saremo simili a lui, dato che lo vedremo come è: ci sarà dato vederlo come è, Signore, vederlo come non possiamo ancora.
16.19. Infatti, come tu sia in assoluto, tu solo sai: immobile nell'essere, immobile nel conoscere, immobile nel volere. E al tuo essere è propria l'immobilità del sapere e del volere, e al tuo sapere l'immobilità dell'essere e del volere, e al tuo volere l'immobilità dell'essere e del sapere. Così non pare giusto ai tuoi occhi che la fonte immobile di luce sia conosciuta dalla cosa mutevole che illumina, come lo è da se stessa. E l'anima davanti a te è come terra arida, perché come non può saziarsi da sé, così neppure da sé può illuminarsi. E come in te c'è la sorgente della vita, così nella tua luce vedremo la luce.
[Le acque amare e la terraferma: anime dannate e salve]
17.20. E chi riunì in una sola massa l'amaro delle onde? Già, il loro fine è sempre quello, è la felicità terrena e temporale, per lei fanno di tutto, pur continuando ad agitarsi fra le creste d'angoscia, innumerevoli. Chi se non tu, Signore, che alle acque hai detto di raccogliersi in una sola massa, perché apparisse l'arido della terra, assetata di te. Perché tuo è il mare, e sei tu che l'hai fatto, e le tue mani han plasmato la polvere. E infatti non è la spuma amara delle volontà a chiamarsi mare, ma la massa continua delle acque. Sei sempre tu a reprimere le male voglie in questa folla d'anime e a fissare i limiti cui è concesso alle acque di spingersi, tu fai crollare i marosi in se stessi, e così si fa il mare, secondo l'ordine del potere che hai sopra ogni cosa.
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21. Ma le anime che hanno sete di te e ti appaiono distinte per il loro fine dalla massa del mare tu le irrighi da una sorgente dolce e segreta, perché anche la terra dia il suo frutto: e dà il suo frutto, e al comando del suo Dio e Signore l'anima germoglia, e fa crescere doni di benevolenza secondo la sua specie, amando il suo prossimo e soccorrendolo nelle strette della materia, e conserva in sé il seme della somiglianza. Perché la simpatia che ci fa sovvenire dell'altrui miseria e intervenire con l'aiuto stesso che vorremmo ci fosse prestato se fossimo nella stessa condizione nasce dal nostro incerto essere. E non è solo facile germoglio d'erba, ma folta cupola generosa e robusta, come quella di un albero da frutta: carico di bene, buono a dare riparo a chi soffre ingiustizia dalla mano del potente e a offrirgli ombra e protezione e il sostegno di un giusto giudizio.
[I luminari del firmamento e i carismi dello Spirito]
18.22. Così mio Signore, così come sorride e fiorisce ciò che tu fai e doni, io te ne prego: germogli dalla terra la verità e la giustizia si affacci dal cielo, e ci siano luminari nel firmamento. Dividiamo con l'affamato il nostro pane e invitiamo a casa nostra il vagabondo senza tetto, e vestiamo l'uomo nudo e non disprezziamo la gente di casa nostra, del nostro seme. Siano questi i frutti che nascono in terra: perché tu veda che sono buoni, ed erompa la nostra breve luce. E da questa messe inferiore d'azione passando alle delizie della contemplazione e al linguaggio, che è superiore, della vita, potessimo allora risplendere come luminari del mondo, fissi nel firmamento della tua scrittura. Perché lì tu discuti con noi e impariamo a distinguere fra l'intelligibile e il sensibile come fra il giorno e la notte o fra le anime: se sono dedite al mondo intelligibile o a quello sensibile. E questo affinché tu non sia più il solo a dividere la luce dalle tenebre nel segreto del tuo discernimento, come prima che il firmamento esistesse, ma anche le tue creature spirituali, collocate nei loro ranghi distinti in quello stesso firmamento, dopo che si è manifestata la tua grazia, risplendano sopra la terra e servano a distinguere il giorno e la notte e a segnare il tempo, perché le vecchie cose sono passate, ed ecco ne nascono di nuove e la nostra salvezza è più vicina di quando abbiamo assentito alla fede, e la notte è avanzata, il giorno imminente e tu benedici e coroni il tuo anno mandando gli operai a raccogliere quello che altri hanno seminato, e anche mandando a seminare quello che sarà raccolto alla fine. Così esaudisci il desiderio e benedici l'anno del giusto, tu che sei sempre lo stesso e nei tuoi anni indeclinabili allestisci il granaio degli anni perduti. Tu, che dispensi sulla terra doni celesti, e ciascuno a suo tempo per decreto eterno.
- 23. Così alcuni hanno in dono dallo Spirito il linguaggio della sapienza, come un luminare maggiore destinato a quelli che la luce di una chiara verità rallegra come il chiaro del mattino, altri secondo il medesimo Spirito ricevono il linguaggio della conoscenza, quasi un luminare minore; altri la fede, altri il potere di guarire, altri la forza dei miracoli, altri la profezia, altri il discernimento degli spiriti, altri le diverse lingue, tutti doni che sono come stelle. Sono infatti operazioni di un unico e medesimo spirito, che dà a ciascuno il suo secondo il proprio placito e in modo che lo splendore di questi astri ne manifesti l'utilità. Ma il linguaggio della conoscenza, inclusiva di tutti i sacri simboli, che come la luna hanno le loro fasi temporali, e gli altri doni annunciati e qui ricordati con l'immagine delle stelle, quanto lontane sono dal candore di sapienza di cui sorride quel giorno a venire. Tanto che stanno al principio della notte. Son doni di cui hanno bisogno quelli cui parlava il tuo servo oculatissimo: non come a uomini spirtuali, ma carnali. Lui, che con i perfetti parla di sapienza. Ma non creda deserta la sua notte l'uomo animale, che è in Cristo come nell'infanzia, come un poppante: e finché non ha forza per il cibo solido e per fissare lo sguardo nel sole si accontenti della luce lunare e delle stelle. Di questo tu continui a discutere con noi, Dio nostro, con tutta la sapienza, nel tuo libro - questo tuo firmamento: perché possiamo discernere ogni cosa nella meraviglia della contemplazione, quantunque ancora per segni e nel tempo e lungo i giorni e gli anni.
[Uomini della carne e uomini dello spirito]
19.24. Ma prima lavatevi, tornate puri, levatevi dall'anima e togliete alla mia vista quello che è maligno, perché appaia la terra asciutta. Imparate a far bene, fate giustizia all'orfano, difendete la vedova, perché la terra faccia germogliare erba da pascolo e alberi da frutta. Venite dunque e discutiamo, dice Dio, perché ci siano dei luminari nel firmamento a risplendere sopra la terra. Quel ricco chiedeva al buon maestro che fare, per aver la vita eterna: gli dica il buon maestro, che lui credeva non esser che un uomo - ma è buono perché è Dio - gli dica, se vuol giungere alla vita, di osservare i comandamenti, di levarsi di dosso l'amaro della malignità e dell'ingiustizia, di non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, perché appaia la terra asciutta e faccia germogliare il rispetto del padre e della madre e l'amore del prossimo. Ho fatto tutto questo, rispose il ricco. Perché allora tante spine, se la terra è capace di dar frutto? Va', sradica i cespugli fitti di avarizia, vendi quello che possiedi e riempi i tuoi granai dando ai poveri, e avrai un tesoro in cielo. E segui il Signore se vuoi essere perfetto, unendoti a quelli che ascoltano l'annuncio di sapienza: lui sa che cosa va assegnato al giorno e che cosa alla notte. E allora anche tu lo saprai, e anche per te si accenderanno i luminari nel firmamento: ma questo non sarà se non avrai lasciato il tuo cuore lassù: non sarà se non avrai lasciato lassù il tuo "tesoro", come hai udito dal buon maestro. Ma la tristezza calò sopra la terra sterile, e le spine soffocarono la parola.
- 25. Ma voi, stirpe eletta, debolezza del mondo, che lasciaste ogni cosa per seguire il Signore, voi andategli dietro e confondete tutto ciò che è forte, andate dietro a lui piedi bellissimi, e brillate nel firmamento, perché i cieli narrino la sua gloria separando la luce di quelli che sono perfetti, ma non ancora come gli angeli, dal buio dell'infanzia, ma che non dispera: splendete su tutta la terra, e dal giorno candido di sole erompa nel giorno la parola della sapienza e la notte lucente di luna annunci alla notte la parola della conoscenza. La luna e le stelle rilucono di notte, ma la notte non le oscura, perché a modo loro esse l'illuminano. Ecco, quasi Dio avesse detto "ci siano luminari nel firmamento", all'improvviso si fece dal cielo un fragore, come di un vento che soffi impetuoso, e apparvero delle lingue come di fuoco, che si divisero e si posarono sopra ciascuno di loro. E divennero luminari nel firmamento, depositari della parola che è vita. Correte per tutto lo spazio fuochi divini, fuochi di magnificenza. Perché voi siete la lucerna del mondo, e non starete sotto il moggio. È stato sollevato nella gloria quello che avete seguito, e ha sollevato nella gloria voi. Correte e fatevi conoscere fra tutte le genti.
20.26. E concepisca anche il mare, e partorisca i vostri frutti, e le acque producano rettili dall'anima viva. Separando il prezioso dal vile voi siete diventati la bocca di Dio, che così parla: le acque producano... non l'anima vivente, che sarà la terra a produrre, ma rettili dall'anima viva e uccelli che volino sopra la terra. E brulicarono i tuoi sacri simboli fra le mani dei tuoi santi per i marosi delle tentazioni mondane, per sommergere le genti sotto il tuo nome, nel tuo battesimo. E intanto grandi meraviglie avvennero, grandi come balene, e si udiva la voce dei tuoi messaggeri che volavano sopra la terra, rasente al firmamento del tuo libro - questa cupola d'autorità che posero sopra se stessi, perché dovunque andassero sovrastasse i loro voli. Già, non c'è parola né discorso in cui la loro voce non s'intenda, perché se ne diffonde il suono per la terra intera: e le parole corrono fino ai limiti del mondo. Perché, Signore, la tua benedizione le ha moltiplicate.
[Un mondo di simboli]
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27. Forse io sto mentendo? O faccio confusione e non distinguo la lucida nozione di verità che valgono nel firmamento dalle vicende dei corpi fra le onde del mare e sotto la volta del cielo? In effetti, mentre le conoscenze sono stabili e delimitate, e - come le luci della dottrina e della sapienza - non subiscono l'incremento dovuto alla generazione, i loro oggetti sono i comportamenti molteplici e vari dei corpi, che crescono l'uno dall'altro moltiplicandosi nella tua benedizione, Dio che compensi il disagio dei sensi mortali concedendo alla mente che il suo concetto di una stessa cosa abbia nei movimenti dei corpi altrettanti modi di figurazione ed espressione simbolica. Così sono le acque all'origine di tutta quella proliferazione, ma lo sono nella tua parola. All'origine sono cioè le strette della miseria in cui erano i popoli esclusi dall'eterno della tua verità: ma è nel tuo vangelo che avvenne quella proliferazione. Tutti quegli effetti furono prodotti da quelle stesse acque, che erano tanto amare di malinconia da farli uscire da se stesse, nella tua parola.
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28. E tutto ciò che esiste è bello tu essendone l'autore, ma più bello sei tu, di tutto autore, incomparabilmente. E se Adamo non si fosse svanito via da te non sarebbe uscita dal suo utero la salsedine del mare, questo genere umano con la sua curiosità senza fondo e le sue onde di furia, così instabile e fluttuante: e così non sarebbe stato necessario che i tuoi dispensatori producessero materialmente e sensibilmente in questa profondità d'acque azioni e parole misteriose. Così infatti mi sono ora apparsi i rettili e i volatili: sacri simboli di natura materiale, assoggettandosi ai quali tuttavia, anche se vi fossero iniziati e ne fossero sommersi, gli uomini non saprebbero trarne ulteriore profitto se il soffio dello spirito non ravvivasse l'anima facendola salire ancora di un gradino, e dopo la parola di iniziazione non mirasse a una consumata sapienza.
[L'anima viva]
21.29. E perciò non dalla profondità del mare, ma dalla terra separata dall'amaro delle acque, in luogo di rettili guizzanti di vita e di volatili scaturì nella tua parola l'anima viva. E questa non ha più bisogno di battesimo, come i gentili, come lei stessa prima, quando era sommersa dalle onde: perché non c'è altra via per entrare nel regno dei cieli, dal momento che tu hai stabilito così. E non cerca cose grandi e straordinarie per farsi una fede: non si rifiuta di credere se non vede segni e prodigi, perché la fida terra è già distinta dalle acque del mare, amaro di sfiducia: e le lingue sono un segno, non per i credenti, ma per gli increduli. E di quel genere di volatili che le acque produssero nella tua parola, la terra, che tu fondasti sopra le acque, non ha bisogno. Infondile la tua parola tramite i tuoi messaggeri. L'opera loro noi narriamo, è vero: ma sei tu che lavori entro di loro, perché lavorino l'anima viva. È la terra a produrla, perché è la terra per cui fanno questo, come fu il mare a mettere in azione quei rettili guizzanti di vita e quegli uccelli volanti sotto il firmamento dei quali la terra ormai non ha più bisogno: sebbene mangi il pesce portato su dal profondo a quella mensa che hai preparato davanti a chi crede. Sì, portato su dal profondo per nutrire la terra arida. Anche gli uccelli nacquero dal mare, e si moltiplicano sopra la terra. Fu la sfiducia degli uomini l'origine delle prime voci di una buona novella; ma anche i credenti vi trovano conforti e auguri di giorno in giorno sempre più numerosi. Però l'anima viva ha la radice in terra, perché non giova che a chi crede già di trattenersi dall'amare il mondo, così che l'anima viva per te: lei che vivendo nei piaceri era morta. Mortiferi piaceri, mio Signore: per il puro di cuore il piacere di vivere sei tu.
[L'epoca dello Spirito e il rinnovamento interiore]
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30. È tempo dunque di operare in terra, per i tuoi ministri. Non come sul mare della sfiducia, quando predicavano col linguaggio dei miracoli e dei simboli oscuri e delle voci di mistero, cose che fan restare a bocca aperta l'ignoranza, madre della meraviglia, intimorita dai presagi arcani: questa è la via d'accesso alla fede buona per i figli di Adamo immemori di te, che si nascondono al tuo volto e si disfano in abisso. No, è tempo che lavorino come sulla terraferma, ben protetta dai gorghi dell'abisso, e siano esempio ai credenti, vivendo sotto i loro occhi e muovendoli all'emulazione. Solo così ascolteranno per agire, e non soltanto per ascoltare: cercate Dio, e vivrà l'anima vostra - e la terra farà l'anima viva. Non fatevi conformi a questo secolo, non ve ne fate coinvolgere. L'anima vive evitando le cose che cercando muore. Contenete la smisurata ferocia della superbia, l'ebete voluttà della lussuria, la vanagloria del sapere, e le belve saranno mansuete e il bestiame docile e innocui i serpenti. Perché queste non sono che allegorie dei moti dell'anima: ma il fasto dell'orgoglio e le soddisfazioni della libidine e il veleno della curiosità sono i soprassalti di un'anima morta. Per cui morire non è irrigidirsi nell'immobilità completa, è muovere via dalla sorgente del vivere. È così che muore, e il secolo che passa la raccoglie e se la fa conforme.
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31. Ma la parola, cioè Dio, è sorgente del vivere eterno, e non passa: perciò la tua parola aiuta a contenere questa fuga quando ci dice: non fatevi conformi a questo secolo, perché dalla sorgente del vivere la terra generi l'anima viva: generi dalla tua parola tramite i tuoi Evangelisti l'anima continente, a imitazione degli imitatori del tuo Cristo. Questo appunto è "secondo la specie": perché l'uomo è emulato dal suo amico: siate, dice l'Apostolo, come me, perché anche io sono come voi. Così, la mansuetudine dell'agire renderà buone anche le belve nell'anima viva. Secondo quello che tu hai prescritto: compi le tue opere con mansuetudine e sarai amato da tutti. E sarà buono il bestiame e non ne avrà di troppo se mangerà e se digiunerà non soffrirà la fame, e buoni saranno i serpenti, non pronti ad attaccare velenosamente ma astuti per cavarsela nell'avventura di esplorare il tempo - quanto basta a gettare uno sguardo sull'eternità intesa tramite il creato. Sì, tutti questi animali servono la ragione quando li si trattiene dal gettarsi in una corsa mortale, e allora vivono e sono buoni.
[L'uomo immagine di Dio: simbolo dell'uomo rinnovato]
22.32. E allora ecco, nostro Dio e Signore, creatore nostro, quando avremo impedito di dissiparsi nell'amore del mondo a quegli affetti che ci facevano vivere male fino a morire, e l'anima comincerà a esser viva e a stare bene, e sarà compiuta la parola che hai detto tramite il tuo apostolo: non fatevi conformi a questo secolo, allora giungeranno a compimento anche quelle parole immediatamente successive: riformatevi rinnovandovi la mente: e non più secondo la specie, quasi imitando i nostri simili che ci hanno preceduti, e neppure vivendo secondo l'esempio di un uomo migliore. Perché tu non hai detto "Sia fatto l'uomo secondo la sua specie", ma: facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza, appunto in modo che sperimentiamo in noi stessi la tua volontà. È per questo che quel tuo amministratore, che nel tuo buon annuncio genera i suoi figli, per non averli sempre da allattare e tenere a balia come poppanti va dicendo loro: riformatevi, rinnovate la mente, e proverete in voi stessi che cosa vuole Dio, che cosa è buono e a lui gradito e perfetto. E perciò tu non dici "sia fatto l'uomo", ma: facciamolo, e non "secondo la sua specie", ma: a nostra immagine e somiglianza. E questo è il punto. L'uomo dalla mente rinnovata, giunto all'intelligenza della tua verità, la vede, e non ha bisogno di una guida umana per imitare la sua specie, ma sotto la tua guida sperimenta egli stesso quale sia il tuo volere, e che cosa sia buono e a te gradito e perfetto. E tu gli insegni - perché ne è ormai capace - a vedere la Trinità nell'unità o l'unità nella Trinità. E infatti al plurale: facciamo l'uomo, segue il singolare: - e Dio fece l'uomo; e al plurale: a nostra immagine, segue il singolare: a immagine di Dio. Così l'uomo si rinnova quando riconosce Dio secondo l'immagine di lui che l'ha creato, e fatto uomo dello spirito giudica ogni cosa giudicabile, senza poter essere giudicato da nessuno.
23.33. Ma giudicare ogni cosa significa avere potere sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su tutte le bestie domestiche e selvatiche e su tutta la terra e su tutti i rettili che strisciano sopra la terra. Questo potere lo esercita mediante il sommo dell'intelligenza, con cui percepisce le cose dello spirito di Dio. Se non per questo, l'uomo, messo al posto d'onore, non capisce: si abbassa a competere con le stupide bestie da soma e si fa simile a loro. Perciò sono nella tua chiesa, Dio nostro, in virtù della grazia che le hai concesso, - poiché, creati come siamo a operare il bene, siamo un calco delle tue mani - non solo quelli che secondo lo spirito dirigono, ma anche chi si assoggetta loro secondo lo spirito. È in questo senso infatti che hai fatto l'uomo maschio e femmina nella tua grazia spirituale, dove non esiste maschio e femmina secondo l'anatomia, perché non esistono neppure giudeo e greco, schiavo e libero. Dunque gli uomini spirituali, sia che dirigano sia che eseguano, giudicano secondo lo spirito: ma di che cosa? Non delle conoscenze spirituali, che brillano nel firmamento: non spetta a loro il giudizio sopra un'autorità così sublime. Ma neppure dei luoghi oscuri di questo stesso libro tuo, dato che noi sottomettiamo anche la nostra intelligenza e teniamo per certo che sia giusto e vero anche quello che al nostro sguardo resta impenetrabile. Perché l'uomo, quando anche sia ormai nel mondo dello spirito, rinnovato nel riconoscimento di Dio secondo l'immagine che ha del suo creatore, deve pur sempre essere esecutore della legge, non giudice. Ma neppure giudica della distinzione stessa fra uomini di carne e uomini di spirito, che ai tuoi occhi, Dio nostro, sono noti, ma a noi non si sono ancora manifestati con l'opera loro, perché possiamo riconoscerli dai loro frutti. Invece tu, Signore, li conosci da sempre e li hai divisi e chiamati in segreto, prima che si facesse il firmamento. E neppure giudica l'uomo, benché di spirito, delle masse opache di questo secolo. Perché giudicare di quelli di fuori, quando uno ignora chi di là verrà alla dolcezza della tua grazia e chi rimarrà nell'amarezza eterna della negazione?
- 34. Dunque l'uomo, che hai fatto a tua immagine, non ebbe il potere sui luminari del cielo e neppure sullo stesso cielo segreto né sul giorno e la notte, cui desti nome prima della costituzione del cielo, né sulla massa delle acque che è il mare; ma ebbe il potere sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su tutte le bestie e su tutta la terra e su tutti i rettili che strisciano sopra la terra. Giudica, e approva ciò che trova giusto, ma ciò che trova erroneo disapprova: nella celebrazione delle cerimonie sacre, mezzo di iniziazione per quelli che la tua compassione va a cercare nel fitto delle acque; o nella cerimonia in cui si offre il pesce tratto su dal profondo, perché la terra devota lo mangi; o in quegli stormi di parole e segni soggetti all'autorità del tuo libro che svolazzano sotto la volta del firmamento in uno strepito di interpretazioni, esposizioni, disquisizioni, dispute, benedizioni e invocazioni: insomma in tutte quelle formule sonanti eruttate a bocca aperta perché il popolo risponda amen. Di tutto questo vociare e risuonare son causa l'abisso del secolo e la cecità della carne, che è incapace di vedere i pensieri e ha bisogno di farseli urlare nelle orecchie. Così, nonostante il mandato che i volatili si moltiplichino sopra la terra, essi traggono origine dalle acque. Ancora giudica, l'uomo di spirito, approvando ciò che trova giusto, ma disapprovando ciò che trova guasto nelle azioni e nei costumi dei credenti, nelle elemosine che sono come la terra fruttifera; e quanto all'anima viva, negli affetti ammansiti dalla castità, dai digiuni, dalle riflessioni devote intorno agli oggetti della percezione sensibile. Insomma si vuol dire che giudica di quelle cose che è anche in suo potere correggere.
[Il linguaggio e la proliferazione dei significati]
24.35. Ma che significa questo? E che mistero è? Ecco: tu benedici gli uomini, Signore, che crescano e si moltiplichino e popolino la terra. Non accenni con questo a qualcosa che dobbiamo intendere? Perché non hai benedetto così anche la luce, che hai chiamato giorno, o il firmamento o i luminari o le stelle o la terra o il mare? Direi che tu, Dio di noi uomini, che ci creasti a tua immagine, abbia voluto elargire il privilegio di questa benedizione all'uomo in particolare: direi così se non avessi benedetto in questo modo anche i pesci e i mostri marini perché crescessero e si moltiplicassero e popolassero le acque del mare e i volatili perché proliferassero sopra la terra. Direi parimenti che questa benedizione è riservata a quelle specie che si riproducono attraverso la generazione, se la trovassi rivolta alle piante da selva e da frutto, al bestiame della terra... Ma né all'erba né agli alberi, né alle belve o ai serpenti fu detto: crescete e moltiplicatevi, benché anche loro come i pesci e gli uccelli e gli uomini propaghino e conservino le rispettive specie attraverso la generazione.
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36. Che dirò allora, mio lume, verità? Che si tratta di una frase vuota, inutile? No certo, padre di devozione, non sarà un servo della tua parola a dir questo! E se io non capisco il significato che hai voluto dare a queste parole, possa fare di meglio chi è migliore, ossia più intelligente di me, secondo la misura di sapere che hai concesso a ciascuno. Ma trovi grazia al tuo cospetto almeno questa fede che io ti confesso: non hai parlato invano, e io non tacerò il pensiero che questa occasione di lettura mi suggerisce. Infatti è vero, e non vedo che cosa mi impedisca di intendere così le figurate affermazioni dei tuoi libri. So che il corpo può in molti modi esprimere ciò che la mente intende a un modo solo, e in molti modi la mente può intendere ciò che a un solo modo il corpo esprime. Guarda ad esempio l'amore di Dio e del prossimo: è semplice. Ma è molteplice la varietà di modi in cui lo si significa materialmente: pensa ai simboli sacri, e alle lingue innumerevoli, e in ogni lingua ai modi innumerevoli di dirlo. Ed è così che cresce e si moltiplica la vita che era in grembo al mare, in embrione. Chiunque tu sia, lettore, prova a rileggere: e non vedi in quanti modi è interpretata questa proposizione che la Scrittura ha un solo modo di presentare, e la voce di pronunciare: "In principio Dio creò il cielo e la terra"? E questo non accade per errore, ma secondo i vari generi di interpretazioni vere. È così che cresce e si moltiplica ogni embrione del genere umano.
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37. E così se pensiamo in senso proprio e non allegorico alla natura delle cose, le parole "crescete e moltiplicatevi" si addicono a tutto quello che nasce da un seme; se invece intendiamo le proposizioni in senso figurato - come credo sia intenzione della Scrittura, che certamente non elargisce del tutto a caso questa benedizione soltanto alla progenie delle acque e a quella degli uomini - noi vedremo moltiplicarsi ovunque gli esseri. Come vediamo ad esempio nella figura del cielo e della terra moltitudini di creature spirituali e materiali, e moltitudini di anime giuste o ingiuste nella luce e nelle tenebre, e di sacri autori e amministratori della legge nel firmamento stabilito fra l'una e l'altra distesa d'acqua, e nel mare folle che s'ammassano come la spuma amara delle onde, e innumerevoli anime devote e appassionate nella sabbia e innumerevoli gesti di bontà terrena nell'erba da seme e negli alberi da frutta, e varietà di doni dello spirito che brillano per noi nei luminari del cielo e varietà di affetti ben temperati all'armonia nell'anima viva. Son tutte cose in cui vediamo pluralità e fecondità e incrementi: ma questo genere di crescita e proliferazione, per cui una sola cosa si dice in molti modi e in molti modi si intende una proposizione sola, non lo troviamo che nell'emissione materiale di segni e nell'elaborazione mentale di pensieri. Segni emessi materialmente sono in base alla nostra interpretazione gli embrioni generati dalle acque, cioè quelli che nella profondità della carne hanno la loro necessaria origine; invece i pensieri elaborati mentalmente sono gli embrioni generati dagli uomini per la facoltà di concepire propria della ragione. E perciò crediamo che a ciascuna di queste due stirpi sia stato detto da te, Signore, "crescete e moltiplicatevi". Sì, in questa benedizione da te concessa a noi io vedo la capacità e il potere sia di esprimere in molti modi un solo pensiero, una volta compreso e acquisito, sia di intendere in molti modi un'unica frase che leggendo ci sia sembrata oscura. Così si affollano le acque del mare, che non sono agitate se non dalla varietà delle interpretazioni, e così si affolla di embrioni umani anche la terra, che rivela la sua aridità nello studio, e però soggiace al potere della ragione.
[L'erba e le piante:
figura dei benefici dovuti ai ministri della Parola]
25.38. Voglio anche dire, mio Signore e Dio, cosa mi suggerisce il seguito della tua Scrittura, e lo dirò senza timore. Perché dirò qualche cosa di vero se sei tu che mi ispiri a dire ciò che da quelle parole hai voluto farmi trarre. E non credo che un'ispirazione diversa dalla tua mi farebbe dire il vero, perché tu sei la verità, ma ogni uomo è mendace. E perciò chi mente dice del suo. Per dire il vero, devo dire del tuo. Ecco, tu ci hai dato per cibo ogni erba che sopra la terra nasce da seme e che produce seme, e ogni pianta che porta in sé frutto di seme. E non soltanto a noi ma anche a tutti gli uccelli del cielo e alle fiere della terra e ai serpenti: ma non le hai date, queste cose, ai pesci e ai mostri marini. Dicevamo che questi frutti della terra sono simbolo e figura allegorica dell'operosa bontà che la terra fruttifera dispiega nelle strette di questa vita. Fatto di questa terra era quell'Onesiforo devoto alla cui casa devi aver usato misericordia, perché sovente soccorse il tuo Paolo e non arrossì delle sue catene. Così fecero, e diedero frutti della stessa razza, i fratelli che dalla Macedonia lo provvidero di quanto gli mancava. Diversamente da qualche albero da cui Paolo lamenta di non aver ricevuto il frutto che gli spettava, dove dice: al tempo della mia prima difesa nessuno mi assistette, tutti mi abbandonarono. Non venga loro imputato. Son cose dovute a coloro che amministrano un insegnamento intellettuale attraverso l'intelligenza dei misteri divini: e dovute loro in quanto uomini. Ma dovute loro anche in quanto si offrono all'anima viva come modello di ogni genere di continenza. E dovute come a delle creature alate per i buoni auguri che a volo hanno disseminati sopra la terra, innumerevoli: poiché la loro voce risuonò sopra la terra intera.
26.39. Di questi cibi si nutrono quelli che sanno goderne, e non ne godono quelli che per dio hanno il ventre. Anche in chi offre, il frutto non è ciò che dona, ma l'animo con cui lo fa. Lo vedo bene io, che cosa riempie di gioia quell'uomo che serviva Dio e non il suo ventre, lo vedo e mi rallegro forte anch'io con lui. Aveva ricevuto dai Filippesi quello che tramite Epafrodito gli avevano mandato: ma che cosa veramente lo riempisse di gioia, io lo vedo. È quello che lo nutre a riempirlo di gioia, perché parlando in tutta sincerità dice: magnifica gioia ho provato nel Signore, perché finalmente ha ripreso a dar frutti il sentimento che nutrite per me, come usava: ma v'ero venuto a noia. Costoro dunque erano come marciti nell'accidia e inaridito in loro era il frutto dell'azione bella; ed è felice per loro che hanno ripreso a dar frutti, non per sé, per il soccorso che ne ha ricevuto nel bisogno. Così prosegue: Non parlo perché a me manchi qualcosa, infatti io ho imparato a bastare a me stesso in ogni caso. So essere povero, conosco l'abbondanza: in tutto e in ogni cosa mi sono avvezzato alla sazietà e alla fame, all'abbondanza e alla miseria: tutto posso in lui che mi dà forza.
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40. Grande Paolo, da dove viene la tua gioia dunque? Da dove viene, di che ti nutri, uomo rifatto nuovo in questo tuo riconoscere Dio nell'immagine del tuo creatore? Tu, anima che di tanta continenza vivi, lingua che vola e parla di misteri. Ad anime come te questo cibo è dovuto. Che cos'è che ti nutre? La gioia. Ascoltiamo ancora le sue parole: E tuttavia - dice - avete fatto bene a condividere le mie sofferenze. Di questo gioisce, questo lo nutre: che essi abbiano fatto del bene; e non perché abbia trovato sollievo alla sua propria angoscia, lui che ti dice: nella sofferenza tu mi hai allargato il cuore, perché conosce l'abbondanza e la miseria in te che gli dai forza. Sapete infatti anche voi, Filippesi, che quando cominciai a diffondere la buona novella e partii dalla Macedonia, nessuna chiesa mi diede la mia parte in ragione del dare e dell'avere, eccetto voi soli. Perché voi mi mandaste a Tessalonica per ben due volte di che far fronte ai miei bisogni. Egli gioisce del fatto che ora siano tornati a questi atti di bontà e che siano rifioriti, e se ne rallegra come di un campo che rinverdisca e ridiventi fertile.
[Il dono e il frutto]
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41. Forse è legata al suo vantaggio la sua gioia, perché dice "mandaste di che far fronte ai miei bisogni"? No, non è per questo. E come lo sappiamo? Da quello che lui stesso dice in seguito: non chiedo un dono, ma cerco un frutto. Ho imparato da te, Dio mio, a distinguere fra dono e frutto. Il dono è la cosa stessa donata da chi fornisce queste cose necessarie, come denaro, cibo, bevanda, vestiti, riparo, soccorso. Frutto invece è la volontà buona e retta del donatore. E il buon maestro non dice soltanto "Chi accoglierà un profeta" ma aggiunge: "in quanto profeta"; e non dice soltanto "chi accoglierà un giusto" ma aggiunge: "in quanto giusto". Solo così riceverà la ricompensa del profeta, o quella del giusto. E non dice solo: "chi darà da bere un bicchiere d'acqua fresca a uno dei più piccoli fra questi" ma dice ancora: "unicamente in quanto mio discepolo" e aggiunge: "in verità vi dico, non perderà la sua ricompensa" . Dono è accogliere il profeta, accogliere il giusto, offrire un bicchier d'acqua fresca al discepolo; frutto è farlo per il profeta, per il giusto, per il discepolo in quanto tali. Frutto è quello di cui la vedova nutre Elia, sapendo che nutre un uomo di Dio e per questo lo nutre; dono invece è quello con cui lo nutre il corvo. Il quale non nutriva l'Elia interiore, ma solo l'esteriore, quello che per mancanza di un tal cibo poteva deperire.
27.42. E così dirò il vero al tuo cospetto, mio Signore, quanto ai non iniziati e non credenti, che per essere iniziati e guadagnati alla fede hanno bisogno di cerimoniali sacri e delle gran meraviglie dei miracoli - rispettivamente significati, crediamo, dai pesci e dai grandi mostri marini. Quando sono costoro, dunque, ad accogliere i tuoi piccoli per dar loro da mangiare o accudirli nei bisogni di questa vita, dato che ignorano il motivo e il senso di questa azione, non è nutrimento quello che viene così offerto e ricevuto, perché chi dona non agisce per volontà divina e retta e chi riceve non può rallegrarsi del dono, non vedendovi ancora alcun frutto. Già: nutre la mente solo ciò che la rallegra. Ed è perciò che pesci e grandi mostri non vivono dei frutti della terra, che questa produce soltanto una volta distinta e separata dall'amaro delle onde marine.
[Perfezione del mondo attuale]
28.43. E vedesti tutte le cose che avevi creato, ed ecco, erano molto buone: e anche noi le vediamo, ed ecco, tutte sono molto buone. Per ciascun capitolo delle tue opere, appena lo avevi chiamato all'esistenza, e c'era, uno per uno vedesti che era buono. Sette volte - le ho contate - sta scritto che vedesti come era buono ciò che avevi fatto: ed è l'ottava questa, quando vedesti tutte le tue opere, ed ecco che considerate tutte insieme erano non soltanto buone, ma molto buone. Sì, le singole cose erano soltanto buone, ma tutte insieme erano buone, e molto. Lo si dice anche di un qualsiasi bel corpo: perché il corpo che consta di belle membra è di gran lunga più bello delle singole membra, che con la loro disposizione il più possibile ordinata formano il complesso: sebbene anch'esse siano singolarmente belle.
29.44. E ho concentrato la mia attenzione sul problema se tu abbia anche visto per sette volte - o per otto - che erano buone, quelle opere che ti sono piaciute: e nella tua visione non ho trovato una successione temporale, che mi facesse capire in che senso tu abbia veduto un certo numero di volte ciò che avevi fatto. "Mio Signore," ho detto allora, "non è vera la tua Scrittura, se l'hai dettata tu che sei veritiero e sei anzi la verità stessa? E allora perché tu mi dici che non c'è successione di tempi nella tua visione, e questa tua Scrittura mi dice che hai visto un giorno dopo l'altro che le tue opere sono buone, tanto che ho potuto contare quante volte lo hai fatto e scoprirne il numero?" Al che tu mi rispondi che tu sei il mio Dio e gridi all'orecchio interiore del tuo servo, sfondando con la tua voce la mia sordità: "Ah uomo! Certo che quello che dice la mia scrittura sono io a dirlo. Ma essa parla nel tempo, mentre il tempo non ha accesso alla mia parola, perché questa ha una consistenza eterna, pari alla mia. Così tutto quello che voi vedete attraverso il mio spirito sono io a vederlo, come sono io a dire tutto quello che nel mio spirito dite. Ma mentre voi lo vedete nel tempo, io non lo vedo nel tempo: così come non è nel tempo che io lo dico, quello che voi dite nel tempo".
30.45. Ho udito, mio Signore e Dio, e ho assaggiato una stilla di dolcezza della tua verità e ho capito che ad alcuni non piacciono le tue opere, tanto che sostengono tu abbia fatto molte di esse sotto la costrizione della necessità - ad esempio la fabbrica dei cieli e i sistemi stellari - e che per di più non le avresti ricavate da te stesso, ma che esistevano già altrove e da un'altra creazione, e tu non avresti fatto che riunirle e connetterle in questa compagine, quando ammassando i tuoi nemici vinti tu costruisti le mura del mondo, perché restassero murati là sotto e non potessero ribellarsi di nuovo contro di te. Ma diverse altre cose non solo non sarebbero state fatte, ma neppure messe insieme da te: ad esempio tutti i corpi animali, anche i più minuscoli, e tutto ciò che ha la radice in terra. Tutto questo sarebbe prodotto e formato nelle regioni inferiori del mondo da una mente ostile, di natura diversa dalla tua, non istituita da te e anzi a te avversa. Così parlano dei pazzi, che non vedono le tue opere attraverso il tuo spirito e in esse non ti riconoscono.
31.46. Ma quanto a quelli che le vedono attraverso il tuo spirito, in loro sei tu che vedi. E perciò quando vedono come sono buone, sei tu che vedi come sono buone, e se una cosa piace loro per amor tuo, sei tu che in quella cosa piaci, e tutto ciò che nel tuo spirito piace a noi, piace a te in noi. Perché chi fra gli uomini sa cos'è l'umano, se non lo spirito dell'uomo che è in lui? Così pure il divino nessuno sa cos'è se non lo spirito di Dio. E noi abbiamo ricevuto non lo spirito mondano, ma lo spirito che viene da Dio, perché impariamo a conoscere i doni che Dio ci ha fatto. D'accordo, nessuno sa cos'è il divino, se non lo spirito di Dio. Ma allora, domando io, come facciamo a conoscere i doni che Dio ci ha fatto? La risposta è appunto: di ciò che sappiamo mediante il suo spirito nessuno è a conoscenza tranne lo spirito di Dio. Come fu detto giustamente a quelli che parlavano nello spirito di Dio: non siete voi a parlare, così è giusto dire a quelli che nello spirito di Dio conoscono: "non siete voi a conoscere". Non meno giusto quindi è dire: "non siete voi a vedere" a quelli che nello spirito di Dio vedono: e allora se nello spirito di Dio vedono che una cosa è buona, non sono loro, ma Dio a vedere che è buona. Altro dunque è ritenere cattivo ciò che è buono, come fanno quelli che abbiamo menzionato sopra; altro è vedere che è buono ciò che è buono, come accade a molti che apprezzano il creato come cosa buona, ma in esso non apprezzano te: e perciò lo preferiscono, come bene da godere, a te. Ma c'è un terzo caso: quando un uomo vede che una cosa è buona, e in lui è Dio a vedere che è buona, e cioè in definitiva è Dio ad amarsi in una sua opera. Lui, che non potrebbe amarsi se non attraverso lo spirito che ha donato: perché l'amore di Dio ci è stato versato in cuore per mezzo dello Spirito Santo, che ci fu donato. Attraverso lo spirito noi vediamo che ogni cosa che in qualche misura è, è buona: perché deriva l'essere da lui, che non è in qualche misura, ma è assolutamente.
[Grande ringraziamento finale]
32.47. Grazie a te, Signore! Vediamo il cielo e la terra: sì, le regioni alte e basse dell'universo fisico, e anche, forse, le dimensioni spirituale e materiale di tutto il creato. E queste parti di cui si compone tutta la fabbrica dell'universo, o forse la totalità del creato, si rivestono come di uno sfarzoso abito di luce, che vediamo farsi e dividersi dalle tenebre. Vediamo il firmamento celeste, questo corpo primigenio del mondo, che in alto ha il mare dello spirito e in basso il mare fisico; e anche questa regione dell'aria - perché anche questa ha nome di cielo - coi suoi piumati viaggiatori che svolano fra il leggero, levitante vapor d'acqua, rugiada delle notti serene, e le acque che scorrono in terra, pesanti. Vediamo lo splendore dei prati marini, queste distese d'acqua unita, e la terra asciutta, ora spoglia ora ben lavorata, per essere visibile e ordinata madre di erbe e alberi. Vediamo i luminari sfavillanti lassù, vediamo il sole bastare al giorno, e luna e stelle consolare la notte, e tutti insieme segnare e indicare il passaggio del tempo. Vediamo ovunque l'elemento umido brulicare di pesci e mostri e creature alate, perché lo spessore dell'aria, che sostiene il volo degli uccelli, si forma con l'evaporazione dell'acqua. Vediamo sulla faccia della terra un rilievo folto d'animali terrestri, e l'uomo fatto a tua immagine e somiglianza che per esser così fatto, cioè in virtù della ragione e dell'intelligenza, regna su tutti gli animali irrazionali; e come nella sua anima una è la parte che decide e domina, e una quella che si piega a eseguire, così fatta anche fisicamente per l'uomo è la femmina: che avrebbe, sì, quanto alla mente natura in qualche modo pari all'uomo per intelligenza razionale, ma quanto al sesso è fatta in modo da essere soggetta al sesso maschile, come l'impulso all'azione si assoggetta alla ragione per concepire da lei un fare giusto e accorto. E vediamo che queste cose sono buone una per una, e tutte molto buone.
33.48. Le opere tue ti lodano perché possiamo amarti, e noi ti amiamo perché tu riceva l'elogio delle tue opere. Dal tempo esse hanno principio e fine, alba e tramonto, crescita e decadenza, splendore e povertà. Vivono dunque la vicenda, parte invisibile parte evidente, del mattino e della sera. Fatte di nulla da te, non di te, e non di qualche materia non tua ma preesistente, bensì di una materia concreata, cioè creata da te nell'atto stesso di dar forma, senza por tempo in mezzo, alla sua massa amorfa. Altro, infatti, è la materia, altra la forma visibile del cielo e della terra: la materia fu fatta dal nulla assoluto, la forma visibile del mondo dalla materia amorfa. E tuttavia le hai fatte simultaneamente, in modo che alla materia seguisse la forma senza il minimo intervallo di tempo.
34.49. Abbiamo anche indagato che cosa tu abbia voluto significare simbolicamente con tutte queste opere, in questo ordine di successione - o di trascrizione: e abbiamo visto che sono buone, una per una, e tutte sono molto buone. Nel tuo Verbo, nel tuo unigenito abbiamo veduto cielo e terra, il capo e il corpo della Chiesa, predestinati a esistere anteriormente al tempo, senza mattino e sera. E hai preso ad attuare nel tempo il destino eterno delle cose, per manifestare i tuoi disegni arcani e ricomporre ciò che in noi era stato scomposto: perché eravamo ricoperti dai nostri peccati e smarriti lontano da te, nelle profondità del buio, e il tuo spirito buono si librava su di noi, per soccorrerci a tempo opportuno. Fu allora che giustificasti gli uomini senza religione e li distinguesti dai malvagi e consolidasti l'autorità del tuo libro fra gli spiriti superiori - perché fossero pronti a ricevere il tuo diretto insegnamento - e quelli inferiori, perché fossero soggetti ai primi; e accomunasti in un solo viluppo la massa dei senza fede, perché apparisse manifesto l'ardore di chi ha fede, e aspira a esserti prolifico di opere d'amore - fino a distribuire ai poveri le ricchezze della terra per acquistare il cielo. Fu allora che accendesti nel firmamento dei luminari che parlavano il linguaggio della vita: i tuoi santi, luminosi d'autorità sublime nel privilegio dei doni dello spirito; e quindi per indottrinare le folle senza fede producesti dalla materia dei corpi i sacri simboli e i miracoli visibili e tutto un risuonare di parole conformi al firmamento del tuo libro, di buon augurio anche per i credenti. E infine attraverso l'ordine degli affetti prodotto dalla forza della continenza hai dato forma all'anima viva di chi ha fede, e quindi gli hai rinnovato a tua immagine e somiglianza la mente, a te solo soggetta e immune dal bisogno di imitare qualunque autorità umana. E hai sottomesso l'azione ragionevole alla direzione dell'intelletto come la femmina all'uomo, e hai voluto che per tutti i tuoi amministratori necessari al perfezionamento degli uomini di fede fossero gli stessi uomini di fede a provvedere alle necessità temporali, opera che darà frutto in futuro. Tutte queste cose noi vediamo e sono molto buone, perché tu le vedi in noi, tu che ci hai donato lo spirito in cui vederle, e in esse amare te.
35.50. Signore Dio, donaci la pace - perché di tutto tu ci hai provveduti. La pace del riposo, la pace del sabato, la pace senza sera. Perché tutto quest'ordine bellissimo di cose molto buone, colma la sua misura, passerà: e anche per loro sarà stato mattino, e poi sera.
36.51. Ma il settimo giorno non ha sera né tramonto, perché santificandolo tu lo fai durare eternamente: affinché il riposo che, compiute le tue opere molto buone, ti concedesti il settimo giorno - benché niente turbasse la tua quiete - lo preannunci a noi la voce del tuo libro. E anche noi compiute le nostre opere - molto buone perché sono tuoi doni - riposeremo in te nel sabato della vita eterna.
37.52. E allora tu riposerai in noi, così come ora operi in noi: e noi saremo strumenti del tuo riposo, come ora lo siamo delle tue opere. Ma tu, Signore, sei sempre attivo e sempre in quiete e non si svolgono nel tempo il tuo agire e il tuo vedere: eppure porti a compimento le visioni temporali e la stessa successione del tempo e la quiete dopo il tempo.
38.53. Infine, tutte queste cose di cui sei l'autore noi le vediamo perché esistono, mentre è perché tu le vedi che esistono. E noi guardando fuori vediamo che esistono, guardando entro di noi che sono buone: tu invece là dove hai visto che era bene farle, in quel punto stesso le hai vedute fatte. Noi ora, in un secondo tempo, dopo che il nostro cuore ha concepito dal tuo spirito, siamo inclini a fare il bene; ma prima eravamo inclini a fare il male e ad abbandonarti. Tu invece, Dio uno e buono, non hai mai smesso di fare il bene. E se qualche opera nostra è buona, certo è un tuo dono: ma non dura eterna. Compiuta che l'avremo speriamo di riposare nella gloria della tua apoteosi. Ma tu che sei un bene cui non manca alcun bene sei sempre in quiete: perché anche per te sei tu stesso, la quiete. C'è un uomo che saprà farlo intendere a un uomo? O un angelo a un angelo, o un angelo a un uomo? Chiederlo a te, cercare te, bussare a te bisogna: così - solo così - ci sarà dato, così si troverà, ci sarà aperto.