domenica 15 settembre 2024

LA PRIGIONE Georges Simenon

 


LA PRIGIONE 

Georges Simenon

Recensione
«Quanti mesi, quanti anni ci vogliono perché un bambino diventi un ragazzo, e un ragazzo un uomo?».
Un libro pieno di misteri, in cui qualcosa da scoprire c’è (come fosse un giallo senza esserlo) ma nessuno sembra intenzionato a farlo: un omicidio è l’occasione per Simenon per accompagnarci nelle prigioni che abitiamo ogni giorno.
La prigione di cui parla Simenon, è un sacco di cose. La prigione come labirinto dove siamo alla ricerca di qualcosa – non necessariamente della verità. Anzi, di certo non la verità.  Simenon ci ha "cucinato" un mistero in cui restare invischiati a nostra volta, come il protagonista Alain, e noi non possiamo che continuare a domandarci: esiste un’uscita?
«Era la verità. Un gran lavoraccio. Un lavoro che in genere si fa una volta sola nella vita. Era sceso nel profondo di se stesso. Aveva grattato la superficie, messo a nudo la carne viva fino a sanguinare. Adesso era finita. Non sanguinava più. Ma non potevano pretendere da lui che tornasse a essere lo stesso uomo.»


LA PRIGIONE 

1

Quanti mesi, quanti anni ci vogliono perché un bambino diventi un ragazzo, e un ragazzo un uomo? Quando si può affermare che la transizione è avvenuta?

Non esiste, come per la fine degli studi, una proclamazione solenne, una cerimonia ufficiale, un diploma.

Alain Poitaud, a trentadue anni, impiegò poche ore, forse pochi minuti, per cessare di essere l’uomo che era stato fino a quel momento e diventare un altro.

18 ottobre. A Parigi pioveva così fitto e le raffiche erano così forti che i tergicristalli non servivano a niente, se non a offuscare ancor più la luce dei lampioni.

Lui, chino sul volante, avanzava adagio lungo boulevard de Courcelles, la cancellata nera del Parc Monceau alla sua destra; poi imboccò rue de Prony e svoltò in rue Fortuny, dove abitava. Era una via corta, costeggiata da palazzi signorili. Per fortuna trovò parcheggio quasi di fronte a casa e mentre richiudeva la portiera alzò automaticamente la testa per vedere se l’ultimo piano era illuminato.

Era un gesto talmente istintivo che non avrebbe saputo dire se le luci erano accese oppure no. Del resto stava già avanzando nel temporale che gli schiaffava acqua gelida in faccia e sui vestiti e spinse il portone di ferro battuto con il vetro smerigliato.

Un uomo impalato sulla soglia, come per proteggersi dalla pioggia, entrò subito dopo di lui.

«Il signor Poitaud?».

La luce era smorzata, le pareti rivestite di pannelli di legno.

«Sono io, sì» rispose stupito.

Era un tipo qualunque, una sagoma banale, con un cappotto scuro. Tirò fuori dalla tasca un tesserino listato di una striscia tricolore.

«Ispettore Noble, della Polizia giudiziaria».

Alain lo guardò con più attenzione, incuriosito, ma non troppo sorpreso. Era abituato ad avere a che fare con gente di ogni sorta.

«Posso salire un momento con lei?».

«È da molto che mi aspetta?».

«Sarà un’ora».

«Perché non è venuto al mio ufficio?».

L’ispettore era giovane, piuttosto timido, o comunque impacciato. Per tutta risposta sorrise e i due uomini si diressero verso lo spazioso ascensore vecchio modello, con le pareti rivestite di velluto cremisi.

Durante la lenta salita si guardarono in silenzio alla luce tenue della plafoniera di cristallo intagliato. Un paio di volte Alain Poitaud aprì la bocca per fare una domanda, ma preferì aspettare di entrare in casa.

L’ascensore si fermò al quarto e ultimo piano. Alain girò la chiave nella serratura, spinse la porta e si stupì di trovare l’appartamento immerso nel buio.

«Mia moglie non è ancora rientrata» osservò soprappensiero allungando la mano verso l’interruttore.

I loro soprabiti sgocciolavano sulla moquette azzurro pallido.

«Si tolga pure il cappotto».

«Non ne vale la pena».

Alain lo guardò meravigliato. Il suo visitatore aveva aspettato un’ora davanti al portone, mal riparato dalla pioggia, per trattenersi così poco da non togliersi nemmeno il cappotto zuppo.

Spinse una porta a due battenti, premette altri interruttori e varie lampade illuminarono un’ampia stanza con una parete interamente vetrata che la pioggia sferzava scorrendo poi a grossi rivoli sul vetro.

«Mia moglie dovrebbe essere a casa...».

Consultò l’orologio che aveva al polso, nonostante avesse di fronte un orologio antico il cui pendolo di ottone oscillava avanti e indietro con un leggero clic a ogni movimento.

Erano le otto meno un quarto.

«Tra poco ceniamo con degli amici e...».

Parlava rivolto a se stesso. Sarebbe stata sua intenzione spogliarsi in fretta, fare una doccia e mettersi un abito scuro.

«Non vuole accomodarsi?».

Non era né preoccupato né incuriosito. Forse appena un po’ seccato da quella presenza inattesa che intralciava i suoi piani. E anche stupito dall’assenza di Jacqueline.

«Lei possiede un’arma, signor Poitaud?».

«Vuole dire una pistola?».

«Sì, intendevo proprio questo».

«Ne tengo una nel cassetto del comodino».

«Le dispiace farmela vedere?».

L’ispettore parlava in tono pacato, esitante. Alain si diresse verso una porta, quella della camera da letto, e l’altro lo seguì.

La stanza era tappezzata di seta gialla, sul letto immenso era steso un copriletto di pelliccia di lince. Il mobilio era di legno laccato bianco.

Alain aprì un cassetto, ebbe un moto di stupore, e rovistò più a fondo tra piccoli oggetti.

«Non c’è» mormorò.

Poi si guardò intorno come per rammentarsi dove altro aveva potuto mettere l’arma.

I primi due cassetti del comò erano i suoi, quelli sotto erano di Jacqueline. In realtà nessuno la chiamava Jacqueline: per lui, come per tutti gli altri, lei era Micetta, soprannome che le aveva dato parecchi anni prima perché aveva l’aria di una gattina. Fazzoletti, sottovesti, biancheria intima...

«Quando l’ha vista l’ultima volta?».

«Probabilmente stamattina...».

«Non ne è sicuro?».

Adesso l’altro gli stava di fronte e lo osservava accigliato.

«Senta, ispettore... Abitiamo qui da cinque anni e la pistola è sempre stata nel cassetto del comodino... Ogni sera, quando mi spoglio, uso il cassetto come svuotatasche... Ci metto le chiavi, il portafoglio, l’astuccio delle sigarette, l’accendino, il libretto degli assegni, gli spiccioli... Sono talmente abituato a vedere la pistola qui dentro che non ci faccio più caso...».

«E non vederla, l’avrebbe stupita?».

Alain ci pensò su un attimo.

«Non credo. Dev’essere finita spesso in fondo al cassetto...».

«Quand’è stata l’ultima volta che ha visto sua moglie?».

«Le è successo qualcosa?».

«Non nel senso che si immagina. Avete pranzato insieme?».

«No. Io ero in tipografia per l’impaginazione e ho mangiato dei panini al volo».

«Non le ha telefonato nel corso della giornata?».

«No».

Aveva dovuto fare mente locale, perché in effetti Micetta lo chiamava spesso.

«E non l’ha chiamata nemmeno lei?».

«Non è quasi mai qui durante la giornata. Sa, lavora... È una giornalista e... Ma, insomma, perché tutte queste domande?».

«Preferisco che sia il mio capo a dirglielo. Se non le dispiace seguirmi al Quai des Orfèvres, le spiegheranno tutto».

«È sicuro che mia moglie...?».

«Non è né morta né ferita».

Con fare garbato, timido, il poliziotto si avviò alla porta, e Alain lo seguì, troppo inebetito per pensare.

Non chiamarono l’ascensore lento e solenne, scegliendo tacitamente di scendere per le scale coperte da una spessa moquette. Su ogni pianerottolo la finestra era ornata di vetri multicolori stile Novecento.

«Sua moglie ha un’auto propria, presumo».

«Sì, una piccola utilitaria come quella che uso anch’io a Parigi e che ho parcheggiato qui davanti».

Sulla soglia ebbero entrambi un attimo di esitazione.

«Com’è venuto qui?».

«In métro».

«Ha niente in contrario se prendiamo la mia auto?».

Non aveva perso il senso dell’umorismo. Gli piaceva fare dell’ironia, a volte anche piuttosto pesante. Non era, in fondo, l’unico atteggiamento sensato nei confronti della stupidità della vita e delle persone?

«Mi dispiace, non c’è molto spazio per le gambe».

Andò forte, per abitudine. La sua macchinina inglese era scattante e a un semaforo passò col rosso.

«Chiedo scusa...».

«Non fa niente. Non mi occupo del traffico».

«Entro nel cortile?».

«Se vuole».

L’ispettore si sporse dalla portiera per dire qualcosa ai due agenti.

«Mia moglie è qui?».

«È probabile».

Inutile fare domande a quell’uomo, da lui non avrebbe saputo niente. Di lì a poco si sarebbe trovato davanti un commissario, quasi certamente uno che conosceva, dato che li aveva incontrati più o meno tutti.

Subito da sé imboccò lo scalone e si fermò al primo piano.

«È qui?».

Il lungo corridoio male illuminato era deserto, le porte chiuse su entrambi i lati. L’unica presenza era quella del vecchio usciere, con una catena d’argento al collo e un’enorme medaglia sul petto, davanti a un tavolo ricoperto da un panno verde come un biliardo.

«Le spiace accomodarsi un attimo in sala d’attesa?».

La sala aveva una parete vetrata, come lo studio d’artista da cui aveva ricavato il suo soggiorno, e c’era solo una vecchia vestita di nero che lo osservò entrare con gli occhietti neri e duri.

«Mi scusi...».

L’ispettore si allontanò nel corridoio, bussò a una porta e se la richiuse alle spalle. Non usciva più dalla stanza in cui era entrato. Non venne nessuno. La vecchia rimase immobile. Anche l’aria che li circondava era immobile, grigiastra, come nebbia.

Alain guardò di nuovo l’orologio. Le otto e venti. Soltanto un’ora prima era uscito dall’ufficio, in rue de Marignan, salutando Maleski:

«A dopo...».

Dovevano cenare insieme, in compagnia di una dozzina di amici e amiche, in un nuovo ristorante di avenue de Suffren.

Lì dentro la pioggia, la bufera, non esistevano. Erano sospesi nello spazio, nel tempo. In qualsiasi altro giorno ad Alain sarebbe bastato scrivere il suo nome su un modulo e pochi istanti dopo l’usciere lo avrebbe fatto entrare nell’ufficio del direttore della Polizia giudiziaria, che gli sarebbe andato incontro con la mano tesa.

Da un pezzo ormai non faceva più anticamera, gli era successo solo all’inizio.

Gettò un’occhiata alla vecchia, colpito dalla sua immobilità, e ci mancò poco che le chiedesse da quanto tempo era là. Forse da ore?

Si spazientì, cominciava a sentirsi mancare l’aria. Si alzò, accese una sigaretta e si mise a camminare avanti e indietro sotto lo sguardo pieno di rimprovero della donna.

A un certo punto aprì la porta a vetri, risalì il corridoio a gran passi e andò a piazzarsi davanti all’uomo con la catena d’argento.

«Chi è il commissario che vuole vedermi?».

«Non lo so, signore».

«Non saranno in molti a trattenersi in ufficio a quest’ora».

«Due o tre. A volte alcuni restano fino a molto tardi. Come si chiama?».

Esistevano centinaia di posti a Parigi in cui non aveva neanche bisogno di dire il suo nome: era un uomo conosciuto.

«Alain Poitaud».

«È sposato, giusto?».

«Sono sposato, sì».

«Sua moglie è una brunetta che indossa un impermeabile foderato di pelliccia?».

«Esatto».

«Allora è il vicecommissario Roumagne».

«Uno nuovo?».

«Oh, no! È qui da vent’anni, ma è passato da poco alla Omicidi».

«Mia moglie è nel suo ufficio?».

«Non lo so, signore».

«A che ora è arrivata?».

«Non saprei».

«Lei l’ha vista?».

«Direi proprio di sì».

«È venuta da sola?».

«Mi scusi, ma ho già detto anche troppo».

Si rimise a fare su e giù, sentendosi umiliato quasi quanto era inquieto. Lo facevano aspettare. Lo trattavano come uno qualunque. Che cosa poteva esserci venuta a fare, Micetta, al Quai des Orfèvres? Cos’era quella faccenda della pistola?

E perché la sua era sparita dal cassetto? Era un’arma da poco, roba da far ridere i malviventi, una piccola calibro 6.35 fabbricata a Herstal.

Non l’aveva comprata, gliel’aveva data Bob Demarie, uno dei suoi collaboratori.

«Adesso che mio figlio ha iniziato a camminare, preferisco non lasciare in giro per casa un affare del genere».

Era stato almeno quattro o cinque anni prima. In seguito Demarie aveva avuto altri due figli. Ma Micetta cosa...?

«Signor Poitaud!».

L’ispettore, in fondo al corridoio, gli faceva segno di venire. Alain si avviò a gran passi.

«Prego, entri...».

Nell’ufficio del vicecommissario non c’era nessun altro all’infuori del vicecommissario stesso, un uomo sulla quarantina, dall’aria stanca, che gli tese la mano prima di rimettersi a sedere.

«Si tolga pure il cappotto. Si accomodi, signor Poitaud».

L’ispettore era rimasto fuori.

«A quanto mi dicono, la sua pistola è scomparsa».

«Non l’ho trovata al solito posto».

«Sarebbe questa?».

Gli tese una Browning nera, o meglio bluastra, che Poitaud afferrò con gesto automatico.

«Credo di sì. È possibile».

«La sua non aveva nessun segno particolare?».

«A dire il vero non l’ho mai osservata con attenzione. Non l’ho mai usata, nemmeno in campagna, per provarla».

«Ovviamente sua moglie sapeva della pistola».

«Certo».

All’improvviso si chiese se era proprio lui quello seduto là dentro a rispondere umilmente a domande assurde. Era Alain Poitaud, che diamine! Tutta Parigi lo conosceva. Era il direttore di una delle riviste più lette in Francia e stava per lanciarne un’altra. Inoltre, da sei mesi a quella parte produceva dischi di cui parlavano ogni giorno alla radio.

Non solo non faceva mai anticamera, ma dava del tu ad almeno quattro ministri ed era spesso a cena a casa loro, quando non erano loro a scomodarsi per andare a pranzo da lui in campagna.

Doveva ribellarsi, scuotersi una buona volta da quella specie di inebetita neutralità.

«Insomma, si può sapere che cosa succede?».

Il commissario lo guardò con aria annoiata, stanca.

«Adesso ci arrivo, signor Poitaud. Non creda che io mi stia divertendo. Ho avuto una giornataccia. Non vedevo l’ora di tornare a casa e riabbracciare mia moglie e i miei figli».

Guardò l’orologio di marmo nero sulla mensola del camino.

«È sposato da molto, mi pare...».

«Saranno sei anni. No, sette. Senza contare i due anni in cui era come se lo fossimo».

«Avete figli?».

«Uno».

Il poliziotto abbassò lo sguardo sul fascicolo.

«Ha cinque anni...».

«Esatto».

«Non vive con voi...».

«Non proprio».

«Che vuol dire?».

«A Parigi abbiamo un appartamento, o meglio un pied-à-terre, dato che usciamo spesso la sera. Il venerdì pomeriggio torniamo nella nostra vera casa, a Saint-Illiers-la-Ville, nella foresta di Rosny. D’estate ci passiamo quasi tutte le notti».

«Capisco. Ovviamente lei ama sua moglie».

«Ovviamente».

Non lo diceva con passione, con fervore, ma come un semplice dato di fatto.

«Conosce la sua vita privata».

«La sua vita privata la passa con me. Quanto alla sua vita professionale...».

«Intendevo dire questo».

«Mia moglie fa la giornalista».

«Non lavora per la sua rivista?».

«No, sarebbe troppo facile. E poi non è il suo genere».

«In che rapporti è con la sorella?».

«Con Adrienne? Ottimi. Sono arrivate a Parigi una dopo l’altra, Micetta per prima...».

«Micetta?».

«È un nomignolo affettuoso che ho dato a mia moglie. Anche i miei amici e i miei collaboratori hanno finito per chiamarla così. Cercava uno pseudonimo per i suoi articoli e io le ho suggerito di firmarsi Micetta. Lei e sua sorella hanno vissuto insieme per parecchio tempo in una stanza a Saint-Germain-des-Prés».

«Le ha conosciute insieme?».

«La prima volta?».

«Sì».

«No, Micetta era da sola».

«Non le ha presentato sua sorella?».

«Più tardi. Alcuni mesi dopo. Ma se sa già tutto, perché queste domande? Forse è il caso di dirmi quello che è successo a mia moglie».

«A sua moglie, niente».

Aveva un tono di voce triste e spossato.

«E a chi, allora?».

«A sua cognata».

«Un incidente?».

Nel momento stesso in cui faceva quella domanda, lo sguardo gli cadde sulla pistola automatica posata sulla scrivania.

«È stata...?».

«Uccisa, sì».

Alain non osava più chiedere da chi. Non aveva mai conosciuto un simile stato di stupore, di vuoto interiore. Il cervello non gli funzionava, o comunque non come al solito. Si sentiva sprofondare in un mondo diventato incoerente, dove le parole non avevano più lo stesso significato né gli oggetti lo stesso aspetto.

«È stata ammazzata questo pomeriggio, poco prima delle cinque, da sua moglie».

«Ma non ha senso».

«Eppure è la verità».

«Cosa glielo fa pensare?».

«Sua moglie. E anche la tata che si trovava in casa».

«E mio cognato?».

«Sta dettando la sua deposizione nell’ufficio accanto».

«Mia moglie dov’è?».

«Di sopra, con quelli della Scientifica».

«Ma perché? Le ha detto perché?».

Arrossì di colpo ed evitò lo sguardo del vicecommissario.

«Speravo che potesse dirmelo lei».

 

 

Non era triste, né abbattuto o scosso. E nemmeno indignato. Viveva piuttosto una specie di stato di alienazione, poco ci mancava che si desse un pizzicotto per assicurarsi che era proprio lui, Alain Poitaud, a trovarsi lì, seduto su una poltroncina verde davanti a una scrivania di mogano sovrastata dalla faccia stanca del commissario. Com’era possibile che si trattasse di Micetta e di Adrienne, con quel viso dolce e regolare, i grandi occhi chiari dalle lunghe ciglia sfarfallanti?

«Non capisco» ammise, scuotendo la testa per tornare in sé.

«Cos’è che non capisce?».

«Che mia moglie abbia sparato a sua sorella. Ha detto che Adrienne è morta?».

«Quasi sul colpo».

La parola «quasi» gli fece male e fissò la Browning sulla scrivania. Significava che Adrienne era sopravvissuta allo sparo, per qualche minuto o qualche secondo. E Micetta, intanto? Cos’aveva fatto, con l’arma in pugno? Aveva guardato la sorella agonizzare? Aveva cercato di soccorrerla?

«Non ha tentato la fuga?».

«No. L’abbiamo trovata nell’appartamento, con il viso premuto contro il vetro della finestra, sferzato da una pioggia fredda».

«Che cos’ha detto?».

«Ha tirato un sospiro e mormorato: “Finalmente!”».

«E Bobo?».

«Chi è Bobo?».

«Il figlio di mia cognata. Ha due figli, un maschio e una femmina».

La bambina si chiamava Nelle e somigliava moltissimo alla madre.

«La tata li ha portati in cucina e affidati a una domestica mentre lei cercava di soccorrere la moribonda».

C’era qualcosa che non tornava. Prima il commissario aveva detto che Adrienne era morta quasi subito. E adesso diceva che la tata aveva prestato soccorso alla moribonda. Conosceva bene l’appartamento in rue de l’Université, al piano nobile di un antico palazzo signorile, con le finestre alte e il soffitto affrescato da un allievo di Poussin.

«Mi dica, signor Poitaud, in che rapporti era con sua cognata?».

«Buoni».

«Quello che voglio sapere è la natura esatta dei vostri rapporti».

«Cambierebbe qualcosa?».

«Non ci troviamo di fronte a un omicidio per motivi di interesse, vero? C’erano questioni di soldi tra le due sorelle?».

«No di certo».

«E suppongo che non si tratti nemmeno di vecchi rancori mai sopiti come se ne trovano spesso nelle famiglie...».

«No».

«Tenga presente che di rado i giurati si mostrano severi verso i delitti passionali...».

I due uomini si guardarono. Il commissario, di cui Alain aveva già dimenticato il nome, non giocava d’astuzia, faceva le domande in tono palesemente annoiato.

«Eravate amanti?».

«No. Cioè, sì, ma non può essere questo il motivo. È acqua passata, capisce?».

Seguiva il filo dei suoi pensieri, rendendosi conto che le sue parole restavano indietro. Ci sarebbe voluto un sacco di tempo, scendere nei dettagli, spiegare che...

«È stato almeno un anno fa... No, anzi... Da Natale scorso...».

«Che la vostra relazione è cominciata?».

«Al contrario, che è finita».

«Del tutto?».

«Sì».

«È stato lei a rompere?».

Lui scosse la testa, e gli venne voglia di prendersela tra le mani. Si rendeva conto, per la prima volta, della difficoltà, se non dell’impossibilità, di esprimere la realtà.

«Non era una relazione...».

«E come la chiama allora?».

«Non lo so... È successo...».

«Mi dica allora com’è successo...».

«Così, molto semplicemente... Io e Micetta non eravamo ancora sposati, ma vivevamo già insieme...».

«Quanto tempo fa?».

«Otto anni?... Non avevo ancora lanciato la mia rivista e mi guadagnavo da vivere scrivendo articoli sui giornali... Scrivevo anche canzoni... Abitavamo in un albergo, a Saint-Germain-des-Prés... Anche Micetta lavorava...».

«Non frequentava l’università?».

Il commissario aveva gettato di nuovo uno sguardo al fascicolo per rinfrescarsi la memoria e Alain si chiese che altro ci fosse là dentro.

«Sì, ha fatto due anni di filosofia...».

«Vada avanti».

«Un giorno...».

Pioveva, come oggi. Era rincasato nel tardo pomeriggio e, invece di sua moglie, aveva trovato Adrienne.

«Jacqueline non torna per cena. È impegnata al George V per un’intervista a uno scrittore americano».

«E tu che ci fai qui?».

«Niente. Ero venuta per stare un po’ con lei. Poi lei è dovuta uscire e ho pensato di aspettarti».

All’epoca non aveva neanche vent’anni. Tranquilla e remissiva, in apparenza, quanto la sorella era espansiva.

Il commissario attendeva, non senza una certa impazienza. Si accese una sigaretta e allungò il pacchetto ad Alain, che se ne accese una a sua volta.

«È successo in modo così naturale che non saprei come raccontarlo».

«Adrienne la amava?».

«Forse. Due ore fa probabilmente le avrei risposto di sì. Adesso, non mi azzarderei...».

Niente era più come prima da quando l’ispettore timido e garbato lo aveva seguito nell’atrio del suo palazzo e gli aveva chiesto il permesso di salire con lui.

«Credo che tutte le sorelle... Magari non proprio tutte, ma molte... Potrei citare diversi casi tra i miei conoscenti...».

«Dunque la vostra relazione è durata circa sette anni».

«Non era una relazione... Come posso spiegarle... Non ci sono mai state grandi dichiarazioni tra noi due... Io continuavo ad amare Micetta, che ho sposato pochi mesi dopo...».

«Perché?».

«Perché l’ho sposata?... Ma...».

Già, perché? La verità era che la sera in cui le aveva parlato di matrimonio era sbronzo.

«Vivevate già insieme... Non avevate figli...».

Lo aveva annunciato al tavolo di una brasserie, in mezzo a una compagnia altrettanto alticcia:

«Fra tre settimane io e Micetta ci sposiamo».

«Perché tre settimane?».

«Il tempo di fare le pubblicazioni».

Era sorta una discussione fra chi sosteneva che per le pubblicazioni ci volevano due settimane e chi tre.

«Be’, lo vedremo, no? Tu che ne pensi, Micetta?».

Lei gli si era stretta contro senza rispondere.

«Quindi dopo il matrimonio ha continuato a frequentare sua cognata».

«Per lo più insieme a mia moglie».

«E altrove?».

«Ogni tanto. Per un certo periodo ci siamo incontrati una volta alla settimana...».

«Dove?».

«Da lei... Nella stanza che occupava da sola dopo che sua sorella se n’era andata...».

«Lavorava?».

«Seguiva i corsi di storia dell’arte...».

«E quando si è sposata?».

«È stata un mese in viaggio col marito... Al ritorno mi ha telefonato per fissare un appuntamento... L’ho portata in un monolocale ammobiliato in rue de Longchamp...».

«Suo cognato non sospettava niente?».

«No di certo...».

Era sbigottito da quella domanda. Roland Blanchet era troppo ispettore delle finanze e troppo pieno di sé per immaginare anche solo per un istante che sua moglie potesse andare a letto con un altro.

«Spero che non gliel’abbia chiesto».

«Un dramma è sufficiente, no?» ribatté secco il poliziotto. «E sua moglie?».

«Nemmeno... Credeva che fossimo ottimi amici... All’inizio, prima che sua sorella si sposasse, una volta ha detto:

«“Peccato che un uomo non possa sposare due donne...”.

«E ho capito che pensava ad Adrienne...».

«E in seguito? Non ha cambiato idea?».

«Come faccio a risponderle, dopo quello che ho appena saputo? È capitato che io e Adrienne restassimo anche due o tre mesi senza vederci... Adrienne ha avuto due figli... E ne abbiamo uno anche noi... La loro casa di campagna si trova dalla parte opposta rispetto alla nostra, nella foresta di Orléans...».

«Che cos’è successo a Natale?».

«Era l’antivigilia... Ci siamo incontrati...».

«Sempre nello stesso monolocale?».

«Sì... Ci avevamo fatto l’abitudine... Visto che avremmo passato le feste ciascuno per conto proprio, avevamo deciso di berci una bottiglia di champagne insieme prima di rivederci in gennaio...».

«Chi ha deciso di rompere?».

Alain dovette pensarci su.

«Lei, immagino... Era diventata una routine, capisce?... Io ero sempre più impegnato... Ha detto qualcosa del tipo: “Non è più come prima, vero, Alain?”».

«Anche lei aveva voglia di troncare?».

«Forse... Lei mi fa delle domande che non mi sono mai posto...».

«Tenga presente che fino a due ore fa non sapevo un bel niente né di sua moglie né di sua cognata, e che se il suo nome non mi era sconosciuto era per via della rivista...».

«Cerco di rispondere come posso...».

Sembrava quasi scusarsi, cosa che non era affatto nel suo carattere. Niente di quello che era successo da quando aveva varcato la soglia della sede della Polizia giudiziaria era nel suo carattere.

«Ricordo di averle proposto di fare l’amore per l’ultima volta».

«E lei ha accettato?».

«Ha preferito che ci lasciassimo da buoni amici...».

«E poi?».

«Niente... Ogni tanto io e Micetta andavamo a cena da lei... E la incontravamo con suo marito a teatro o al ristorante...».

«Sua moglie non è cambiata?».

Fece un sincero sforzo per trovare il minimo indizio, ma scosse la testa.

«No... Non lo so... Mi scusi se continuo a ripeterlo, ma non trovo altro da dire...».

«Cenavate sempre insieme?».

«Praticamente tutte le sere...».

«Voi due soli?».

«Quasi mai... Abbiamo molti amici e siamo obbligati a presenziare a un certo numero di cocktail e di cene...».

«E il finesettimana?».

«Il sabato siamo abbastanza tranquilli, ma molto spesso Micetta ha un articolo da scrivere... A volte si trattiene a Parigi un giorno in più di me... È specializzata nelle interviste alle celebrità di passaggio... Ma insomma, vuole dirmi perché avrebbe ucciso sua sorella?».

Si ribellava, stupefatto di vedere la sua vita coniugale e amorosa messa a nudo davanti a un poliziotto stanco.

«È quello che cerchiamo di stabilire entrambi, no?».

«Ma non è possibile...».

«Che cosa non è possibile?».

«Che di colpo sia diventata gelosa di Adrienne al punto di...».

«Vi amavate molto, lei e sua moglie?».

«Gliel’ho già detto...».

«Ha parlato del primo periodo a Saint-Germain-des-Prés... Ma dopo?...».

«Ci amavamo, sì...».

Il fatto che si sentisse annichilito al punto da non raccapezzarsi più non ne era forse la prova? Mezz’ora, un’ora prima, probabilmente Micetta era seduta nella stessa poltroncina, e la stessa lampada con l’abat-jour opalino le illuminava il viso.

«E a lei, lo ha chiesto?».

«Si è rifiutata di rispondere alle mie domande...».

«Non ha confessato?».

Avvertiva un barlume di speranza.

«Ha confessato di aver sparato a sua sorella, nient’altro».

«Non ha detto perché?».

«No. Le ho proposto di chiamare un avvocato di sua scelta».

«E che cos’ha risposto?».

«Che la cosa riguardava suo marito e che, da parte sua, lei se ne disinteressava».

Quella frase non era da lei. Micetta non parlava così. Sicuramente aveva usato altre parole.

«E com’era?».

«Calma, in apparenza. È stata lei a dirmi, guardando l’orologio: “Io e Alain dovevamo incontrarci a casa alle sette e mezza. Starà in pensiero”».

«Le è sembrata scossa?».

«Per la verità, no. In quest’ufficio sono passati in parecchi, uomini e donne, che avevano appena commesso un delitto, e non ricordo di aver mai visto una simile ostentazione di autocontrollo o indifferenza».

«Perché lei non conosce Micetta...».

«Se capisco bene, non vi vedevate molto spesso voi due soli. Negli ultimi anni, intendo».

«Eravamo spesso insieme, sì... Soli, no... Non dimentichi che il mio lavoro mi obbliga a vedere gente dalla mattina alla sera, spesso anche fino alle ore piccole...».

«Ha un’amante, signor Poitaud?».

Di nuovo quella parola, che non significava niente e oltretutto gli pareva talmente antiquata!

«Se vuole sapere se vado a letto con altre donne oltre a mia moglie, le rispondo subito di sì... E non una sola, ma decine... Ogni volta che se ne presenta l’occasione e che ne vale la pena...».

«Data la natura della sua rivista, le occasioni non devono mancare».

C’era una punta di invidia nella voce del commissario.

«Dunque, ricapitolando... Lei non sa niente. Ha avuto una relazione con sua cognata, relazione interrotta a dicembre dell’anno scorso e di cui, per quanto ne sa, sua moglie era all’oscuro. Ad ogni modo bisognerà venire a capo della faccenda».

Alain lo guardò con stupore, sbigottito. Che cosa poteva sperare di capire quell’uomo, che non sapeva niente della loro vita, quando lui stesso non ci capiva niente?

«A proposito, per quale giornale lavorava sua moglie?».

«Per nessuno in particolare... Era quel che si dice una freelance, cioè lavorava per conto proprio... Una volta che aveva scritto un articolo o una serie di articoli sapeva a quale giornale o rivista proporli... Lavorava molto per riviste inglesi e americane...».

«E con la sua no?».

«Mi ha già fatto questa domanda. No. Non è il suo genere...».

«Ha un avvocato, signor Poitaud?».

«Certo».

«Le dispiace invitarlo a mettersi in contatto con me, stasera o domani?».

Il commissario si alzò con un sospiro di sollievo.

«Le devo chiedere di passare nell’ufficio qui accanto. Ripeterà le dichiarazioni principali e uno stenografo ne prenderà nota».

Come Blanchet poco prima. Chissà cos’avrà avuto da raccontare Blanchet. Com’era possibile che uno come lui, che occupava una posizione in vista alla Banca di Francia, avesse subìto l’umiliazione di farsi interrogare da un poliziotto?

Il commissario aveva aperto una porta.

«Julien! Adesso il signor Poitaud rilascia le sue dichiarazioni. Le trascriva, e poi lui le firmerà domani in giornata. Ora io devo proprio tornare a casa».

Si voltò verso Alain.

«Mi scusi per averla trattenuta, signor Poitaud. A domani».

«Quando potrò vedere mia moglie?».

«Lo deciderà il giudice istruttore».

«E stanotte dove dormirà?».

«Di sotto, in custodia cautelare».

«Devo farle mandare qualcosa, della biancheria, qualche oggetto da toilette?...».

«Se vuole. In genere, la prima notte...».

Lasciò la frase in sospeso.

«Può lasciare la valigia al Quai de l’Horloge».

«Ho presente...».

Le celle, i cortili, la stanza dove un medico visitava le donne... Ci aveva fatto un reportage dieci anni addietro...

«Le telefonerò quando avrò di nuovo bisogno di lei».

Il vicecommissario si mise il cappello, infilò il cappotto.

«Magari nel frattempo le verrà in mente qualcosa. Buonanotte, Julien».

L’ufficio era più piccolo, con mobili di legno chiaro e non di mogano come in quello del vicecommissario.

«Nome, cognome, età, qualifica...».

«Alain Poitaud, nato a Parigi, in place de Clichy, trentadue anni, direttore della rivista “Toi”...».

«Sposato?».

«Sposato, sì. Padre di famiglia. Domicilio a Parigi: 17 bis, rue Fortuny. Residenza: Les Nonnettes, a Saint-Illiers-la-Ville...».

«Dichiara...».

«Non dichiaro proprio niente. Un ispettore è salito con me al mio appartamento e mi ha chiesto se possedevo un’arma... Ho risposto di sì e sono andato a cercare la mia Browning nel cassetto dove la tengo di solito... Non c’era più... L’ispettore allora mi ha scortato qui e un commissario di cui ho dimenticato il nome...».

«Il vicecommissario Roumagne».

«Ecco, sì. Dunque, il commissario Roumagne mi ha comunicato che mia moglie ha ucciso sua sorella... Mi ha mostrato una Browning che mi sembra di riconoscere, anche se la mia non ha nessun segno particolare e non l’ho mai usata... Mi ha chiesto se conosco il motivo del gesto di mia moglie e io ho risposto che non ne ho la minima idea...».

Faceva su e giù come nel suo ufficio, fumando nervosamente una sigaretta.

«È tutto?».

«Abbiamo parlato anche di un’altra cosa, ma immagino che non sia da mettere a verbale...».

«Di che si tratta?».

«Dei miei rapporti con mia cognata...».

«Rapporti intimi?».

«Lo sono stati...».

«Quanto tempo fa?».

«È finita da un anno...».

Julien si grattò la fronte con la matita.

«Ci sarà tempo per aggiungerlo domani se il commissario lo riterrà utile».

«Posso andare?».

«Per quanto mi riguarda, sì, e dato che qui di fianco ha finito...».

Uscì sul lungo corridoio umido. Nella sala d’attesa vetrata la vecchia non c’era più e l’usciere con la catena d’argento e la medaglia era un altro. In fondo alle scale, di nuovo la pioggia, i rovesci d’acqua, ma non si preoccupò di affrettare il passo per raggiungere la macchina in cui entrò bagnato fradicio.

2

Sempre chino sul volante per vedere qualcosa attraverso il parabrezza, risalì gli Champs-Élysées senza cercare di riordinare le idee. Ce l’aveva con il poliziotto timido, con il commissario Roumagne, con Julien, lo stenografo indifferente, per averlo umiliato, o più esattamente per averlo spiazzato a tal punto con le loro domande che adesso non si raccapezzava più.


Scorgendo un parcheggio libero davanti a un bar inchiodò, rischiando di farsi tamponare dall’auto dietro di lui, il cui conducente si mise a gesticolare coprendolo di insulti. Aveva bisogno di bere qualcosa. Non conosceva quel bar e il barista non lo riconobbe.


«Uno scotch... Doppio...».


Beveva parecchio. Anche Micetta. In generale, tutti i loro amici e i suoi collaboratori bevevano. Lui almeno aveva il vantaggio di reggere bene l’alcol e, il mattino dopo, non si svegliava con la bocca impastata.


Era impensabile che sua moglie, a distanza di un anno...


Gli venne da girarsi verso di lei per parlarle, come se fosse seduta sullo sgabello vicino. Di solito c’era.


Che cos’aveva cercato di sapere esattamente il vicecommissario circa i loro rapporti? Come spiegare? Gli aveva chiesto se si amavano ancora. Ma che significava quella frase?


Le cose non stavano come si immaginava il poliziotto. Lui era nel suo ufficio in rue de Marignan o in tipografia. Lei gli telefonava.


«Che programmi hai per stasera?».


Lui non le chiedeva dov’era. Lei non gli chiedeva che cosa stava facendo.


«Ancora non lo so».


«Ti raggiungo?».


«Facciamo alle otto, al Clocheton».


Un bar di fronte alla sede della rivista. C’erano svariati bar a Parigi dove si davano appuntamento. A volte lei restava ad aspettarlo anche per un’ora senza spazientirsi. Lui arrivava e si sedeva al suo fianco.


«Un doppio scotch».


Non si baciavano, non si facevano domande, tranne:


«Dove ceniamo?».


Quasi sempre in un bistrot più o meno alla moda. Ci andavano da soli, ma incontravano immancabilmente degli amici e finivano per formare una tavolata da otto o dieci persone.


Lei gli era sempre accanto. Alain non ci faceva nemmeno caso, era semplicemente consapevole della sua presenza. Lei non gli impediva di bere né, a notte fonda, di inventarsi giochetti idioti, come quello di buttarsi davanti a una macchina in corsa per mettere alla prova i riflessi del conducente. Aveva rischiato decine di volte di farsi ammazzare. Idem i suoi compari.


«Andiamo a spaccare tutto da Hortense».


Un locale notturno che frequentavano. Pur temendoli un po’, Hortense gli era affezionata.


«Ci si annoia da te, mia cara. Chi è il vecchio imbecille qui di fronte?».


«Zitto, Alain. È uno importante che...».


«Non mi piace la sua cravatta».


Hortense si rassegnava. Alain si alzava e si dirigeva verso il signore di fronte salutandolo cordialmente.


«Sa che la sua cravatta non mi piace? Ma proprio per niente...».


Quello, la maggior parte delle volte in compagnia, non sapeva che cosa dire.


«Permette?».


Con un gesto fulmineo, Alain gli afferrava la cravatta, tirava fuori dalla tasca un paio di forbici e si apprestava a tagliarla di netto.


«Tenga, le lascio un ricordino».


Alcuni non si scomponevano. Altri si infuriavano, ma quasi sempre finivano per battere in ritirata.


«Barista, un altro!».


Vuotò il bicchiere d’un fiato, si asciugò le labbra, pagò e attraversò di nuovo la cortina di pioggia per chiudersi in macchina.


Una volta a casa accese tutte le luci chiedendosi che cosa ci fosse andato a fare. Era una strana sensazione trovarsi lì senza Micetta.


A quell’ora avrebbe dovuto essere in avenue de Suffren, nel nuovo ristorante scoperto da Peter, dov’erano a cena in una dozzina. Meglio telefonare per scusarsi?


Alzò le spalle e si diresse verso il mobile bar sistemato in un angolo dello studio. Tempo addietro, intorno al 1910, era stato lo studio di un celebre pittore, un ritrattista ormai finito nel dimenticatoio.


Non gli piaceva bere da solo.


«Alla tua salute, mia cara!».


Levò il bicchiere nel vuoto, verso una Micetta immaginaria. Poi fissò il telefono.


Chi chiamare? Gli sembrava di dover chiamare qualcuno, ma non ricordava più chi. Non aveva cenato. Poco male. Non aveva fame.


Se almeno avesse avuto un vero amico...


Conosceva un sacco di gente, quelli che lavoravano con lui alla redazione della rivista, attori, registi, cantanti, senza contare i baristi e i camerieri.


«Senti, cocco...».


Chiamava «cocco», o «cocca», tutti quanti. Anche Adrienne. Dal giorno in cui l’aveva conosciuta. Non era stato lui a fare il primo passo. La trovava troppo posata, troppo scialba per i suoi gusti. Ma si sbagliava. Adrienne non era affatto scialba, gli ci erano voluti tre mesi per capirlo.


Chissà che cosa pensava quell’idiota di suo marito. Blanchet non gli piaceva. Detestava quelli della sua risma, gente piena di sé, contegnosa, ingessata, senza un briciolo di fantasia.


E se avesse telefonato a Blanchet? Tanto per sapere come l’aveva presa...


Lo sguardo gli cadde sul cassettone e si ricordò che doveva portare un po’ di biancheria e gli oggetti da toilette a sua moglie. Le valigie le tenevano negli armadi a muro del corridoio. Ne prese una della misura adatta.


Di cosa ha bisogno una donna in custodia in una cella? Il cassetto era pieno di biancheria fine e Alain si stupì della quantità. Scelse un paio di sottovesti di nylon, due o tre paia di mutandine, tre pigiami e controllò che ci fosse uno spazzolino da denti e del sapone nel nécessaire da toilette di coccodrillo.


Fu lì lì per versarsi un altro bicchiere, poi alzò le spalle, uscì e chiuse la porta a chiave, lasciando le luci accese. Attraversò un buon tratto di Parigi sempre sotto la pioggia, un po’ meno fitta. Il vento era calato e ora cadeva una pioggerellina autunnale, fine, lenta e fredda, che rischiava di durare per giorni. I passanti camminavano in fretta, chini in avanti, scartando di lato per non farsi schizzare dalle auto in corsa.


Quai de l’Horloge. Una luce fioca sopra il portale di pietra. Un corridoio larghissimo e lunghissimo, come un sottopassaggio, in fondo al quale un agente in divisa era seduto dietro una scrivania. L’agente lo guardò avanzare con la valigia in mano, l’aria incuriosita.


«Dovreste avere in custodia la signora Jacqueline Poitaud».


«Un attimo».


Consultò il registro.


«Esatto».


«Le dispiace consegnarle questa valigia?».


«Devo sentire il mio superiore».


Andò a bussare a una porta, scomparve, tornò poco dopo con un omone che aveva il nodo della cravatta allentato, il colletto della camicia aperto e la cintura dei pantaloni slacciata.


«Lei è il marito?».


«Sì».


«Ha un documento?».


Alain glielo mostrò e l’uomo lo esaminò a lungo.


«È lei che pubblica la rivista con quelle strane fotografie? Devo controllare il contenuto della valigia».


«Faccia pure».


«Da regolamento, la deve aprire lei».


Erano tutti e tre come in un tunnel male illuminato. Alain aprì la valigia e poi il nécessaire da toilette. Il funzionario frugò con le grosse dita tra la biancheria, requisì dal nécessaire le forbicine, la limetta e le pinzette, lasciando solo lo spazzolino e il sapone.


Consegnò via via i vari oggetti ad Alain, che se li ficcò in tasca con gesto automatico.


«Gliela porta subito?».


Quello guardò l’ora su un grosso orologio da taschino.


«Sono le dieci e mezza. Da regolamento...».


«Come sta?».


«Non l’ho vista».


Naturalmente non tutti erano incuriositi dal comportamento di Micetta.


«È in cella da sola?».


«No di certo. In questo momento siamo strapieni».


«Non sa chi c’è con lei?».


L’altro alzò le spalle.


«Qualche prostituta, probabilmente. Continuano a portarcene. Toh, ecco un’altra infornata in arrivo...».


Un furgone cellulare aveva accostato al bordo del marciapiede e alcuni ispettori in borghese sospinsero una frotta di donne sotto la volta. Alain le incrociò mentre usciva. Alcune gli sorrisero. Si vedeva che la maggior parte doveva esserci abituata, ma tre o quattro giovani avevano uno sguardo ansioso.


E adesso, che cos’avrebbe fatto? Non rincasava mai così presto, anche quando era con Micetta. A meno di prendersi una solenne sbronza, non sarebbe riuscito ad addormentarsi e non gli piaceva per niente il genere di pensieri che gli passavano per la testa.


Era una novità per lui sentirsi improvvisamente isolato. Se ne stava lì, sul lungofiume buio e deserto, seduto in macchina ad accendersi una sigaretta mentre sentiva scorrere la Senna in piena, senza avere la minima idea di dove andare.


In venti, in cinquanta bar o locali notturni era sicuro di incontrare qualcuno che chiamava «cocco» da anni e che, dopo avergli sfiorato la mano, gli avrebbe chiesto:


«Scotch?».


Anche donne, di ogni risma, quelle che si era portato a letto e quelle con cui non l’aveva ancora fatto o avuto voglia di farlo.


Il sedile accanto era vuoto e freddo.


In rue de l’Université? Da suo cognato? Chissà che faccia aveva fatto, il suo compunto e importante cognato, quando era venuto a sapere che avevano sparato a sua moglie in...


Ora che ci pensava, non gli avevano detto se Micetta aveva mirato alla testa o al petto. Sapeva solo che dopo era andata alla finestra e aveva premuto il viso contro il vetro, un suo gesto tipico. Lo faceva spesso. Quando le parlava, lei restava così, immobile, e soltanto parecchio tempo dopo si voltava e gli chiedeva con aria candida:


«Hai detto qualcosa?».


«A cosa stavi pensando?».


«A niente. Sai che non penso mai a niente...».


Strana ragazza. Lo stesso valeva per Adrienne, con i suoi grandi occhi dalle ciglia smisurate che il più delle volte non esprimevano nessun sentimento. Tutte le ragazze erano strane. E anche i ragazzi. Si parla spesso a vanvera dei giovani. Si scrivono cose su di loro che non hanno niente a che vedere con la realtà. Non era anche lui un tipo strano?


Un agente che era uscito a prendere il fresco si avvicinò per osservarlo allacciandosi il cinturone. Alain pensò bene di mettere in moto.


L’indomani mattina i giornali... Si stupì di non avere ancora incontrato i reporter e i fotografi. Evidentemente cercavano di passare la faccenda sotto silenzio il più a lungo possibile. Per riguardo verso di lui o verso suo cognato, che era un alto funzionario?


Nella famiglia Blanchet erano tutti alti funzionari, il padre e i tre figli. Alla nascita del primo dovevano aver stabilito:


«École polytechnique!».


Per il secondo, École normale supérieure. Per il terzo, Ispettorato delle finanze.


E aveva funzionato. Erano diventati tutti persone importanti, che occupavano grandi uffici della pubblica amministrazione, con tanto di usciere decorato di catena davanti alla porta.


Palloni gonfiati!


«Cazzo, cazzo e cazzo!».


Ne aveva fin sopra i capelli. Avrebbe voluto fare qualcosa, parlare con qualcuno, ma non sapeva proprio a chi rivolgersi. In rue de Rivoli entrò in un bar che conosceva.


«Ciao, Gaston».


«È solo, signor Alain?».


«Capita di tutto, vedi?».


«Doppio scotch?».


Alain alzò le spalle. Perché tutt’a un tratto avrebbe dovuto cambiare le sue abitudini?


«La signora sta bene, spero».


«Benissimo, credo».


«Non è a Parigi?».


Ritrovò il gusto di scandalizzare.


«Più a Parigi di così si muore! È nel centro, nel cuore stesso di Parigi».


Gaston lo guardò senza capire. Una coppia al bancone, che stava ascoltando, lo osservò allo specchio, dietro le bottiglie.


«Mia moglie è al Quai de l’Horloge».


Quelle parole non evocarono nessuna immagine al barista.


«Non conosci il Quai de l’Horloge, dove ci sono le celle provvisorie?».


Senza un motivo preciso, l’altro abbozzò un sorriso.


«Ha ucciso sua sorella».


«Un incidente?».


«È poco probabile, dato che impugnava una pistola».


«Sta scherzando, vero?».


«Lo leggerai sui giornali domattina. Tieni il resto».


Posò sul bancone una banconota da cento franchi, scese dallo sgabello senza avere ancora deciso niente e un quarto d’ora dopo si ritrovò sotto casa. Sul marciapiede di fronte al portone si era radunata una ventina di persone tra cui, dall’attrezzatura, non era difficile riconoscere i fotografi.


Fece per premere sull’acceleratore. Ma a che sarebbe servito? Accostò mentre i flash cominciavano a guizzare. Quelli si precipitarono verso la portiera e Alain scese dall’auto con tutta la dignità possibile.


«Un attimo, Alain...».


«Fate pure, ragazzi miei...».


Si mise in posa, davanti alla macchina aperta, sul bordo del marciapiede, poi si accese una sigaretta. I reporter avevano il taccuino pronto.


«Mi dica, signor Poitaud...».


Era uno giovane, che non sapeva ancora che tutti lo chiamavano Alain.


«Non vi pare che sia un po’ umido qui fuori, ragazzi? Che ne dite di salire su da me?».


Bisognava conoscerlo bene, come Micetta, per rendersi conto che il timbro di voce non era il solito. Non era una voce atona come al Quai des Orfèvres. Al contrario, aveva una vibrazione metallica.


«Su, entrate... Tanto vale...».


Si pigiarono in otto nell’ascensore, mentre gli altri si precipitavano su per le scale. Si ritrovarono tutti sul pianerottolo e Alain cercò le chiavi, che alla fine trovò in una tasca dove non aveva l’abitudine di metterle.


«Avete sete?» chiese mentre si dirigeva al mobile bar, buttando il cappotto su una poltrona.


Dopo un attimo di esitazione, i fotografi si decisero a mettersi all’opera e Alain non batté ciglio sentendo gli scatti degli otturatori.


«Whisky per tutti?».


Solo uno chiese un succo di frutta. Le scarpe bagnate lasciavano orme scure sulla moquette azzurro pallido. Uno spilungone ossuto, con un impermeabile fradicio, era seduto su una poltrona rivestita di raso bianco.


Squillò il telefono. Alain si diresse a passo lento verso l’apparecchio. Teneva il bicchiere nell’altra mano e ne bevve metà prima di parlare.


«Alain, sì... Ovvio che sono a casa, dato che ho risposto... Certo che ho riconosciuto la tua voce... Spero che non ti dispiaccia se continuo a darti del tu...».


Rivolto ai giornalisti, spiegò:


«È mio cognato... Il marito...».


Poi, all’apparecchio: «Sei venuto?... Quando?... Ah, ero uscito... Sono andato a portare della biancheria a Micetta... Per poco non ci siamo incrociati alla Polizia giudiziaria... Tu eri in un ufficio e io in quello accanto...


«Ma cosa dici?... Secondo te ho voglia di scherzare?... Mi dispiace ripetertelo in simili circostanze, ma sei e sarai sempre un emerito imbecille... Sono sgomento quanto te, se non di più... No, non è la parola esatta... Prostrato...


«Cosa?... Che cosa mi hanno chiesto?... Che cosa so, ovviamente... Ho risposto che non so niente di niente... È la verità... E tu, sai qualcosa?... Hai qualche idea?...».


I giornalisti prendevano appunti al volo, i fotografi si davano da fare, l’odore di whisky cominciava ad aleggiare nella stanza.


«Servitevi pure, cocchi...».


«Come dici?» si allarmò il cognato. «Non sei da solo?».


«Siamo... Aspetta che li conto... Diciannove, me compreso... Tranquillo, non è un’orgia... Otto fotografi... Il resto, giornalisti... È appena entrata una fanciulla, giornalista anche lei... Serviti da bere, cocca...».


«Quanto tempo resteranno da te?».


«Vuoi che glielo chieda? Quanto tempo avete intenzione di restare, ragazzi?».


Poi, all’apparecchio:


«Una mezz’oretta... Il tempo di farmi qualche domanda...».


«Che cosa dirai?».


«E tu?».


«Li ho sbattuti fuori».


«Hai fatto male».


«Avrei preferito vederti prima».


«Troppo tardi ormai».


«Non potresti passare dame dopo?».


«Temo che non sarò in condizione di guidare».


«Hai bevuto?».


«Come al solito».


«Non ti sembra che in un momento come questo...».


«È appunto in momenti come questo che uno ha bisogno di svagarsi un po’».


«Vengo io».


«Qui? Stasera?».


«È indispensabile che ti parli».


«Indispensabile per chi?».


«Per tutti».


«Soprattutto per te, no?».


«Sarò lì tra un’ora. Nel frattempo cerca di mantenere un po’ di sangue freddo e di dignità».


«Ci penserai tu per tutti e due».


Dalla voce di suo cognato non trapelava nessuna emozione. Non una parola su Adrienne, che probabilmente stavano sezionando all’Istituto medico-legale, né sulla sorte di Micetta.


«Vi ascolto, cocchi... Dopo quello che avete sentito, non mi resta granché da dirvi... Sono tornato a casa per cambiarmi prima di andare a cena fuori con degli amici... Mi aspettavo di trovare mia moglie... Invece ho trovato un ispettore di polizia davanti al portone...».


«È stato lui a comunicarle la notizia?... Qui?...».


«No... Mi ha chiesto se possedevo una pistola... Io ho risposto di sì... L’ho cercata nel cassetto ed era sparita... Allora quel giovanotto mi ha portato dal suo superiore alla Giudiziaria...».


«Il commissario Roumagne?».


«Si chiama così, sì...».


«Quanto tempo è durato l’interrogatorio?».


«Meno di un’ora... Non so di preciso...».


«Qual è stata la sua reazione quando ha saputo che sua moglie aveva ucciso la sorella?».


«Sono basito... Non ci capisco niente...».


«Andavano d’accordo?».


«Come due sorelle...».


«Pensa che sia un delitto passionale?».


«Di solito, in un delitto passionale, c’è di mezzo una terza persona...».


«Appunto...».


«Si rende conto di quello che significa?».


Silenzio.


«Se esiste, non so chi sia».


Alcuni tra i presenti si scambiarono un’occhiata d’intesa.


«I bicchieri sono vuoti...».


Riempì il suo e cacciò la bottiglia in mano a uno dei fotografi.


«Servi i tuoi colleghi, cocco...».


«Aiutava sua moglie nel lavoro?».


«Neanche li leggevo, i suoi articoli».


«Come mai? Non li trovava interessanti?».


«Al contrario! Volevo che si sentisse libera di scrivere tutto quello che le pareva».


«A lei non è mai venuta voglia di lavorare per “Toi”?».


«Non me ne ha mai parlato».


«Eravate molto uniti?».


«Molto».


«Crede che l’omicidio sia stato premeditato?».


«Ne so quanto voi... Avete finito con le domande?... Domani magari mi sarà venuta qualche idea e sarò tornato a essere un uomo normale... Per il momento, ho il cervello in pappa e aspetto mio cognato, che preferirebbe non incontrarvi...».


«Lavora alla Banca di Francia, vero?».


«Esatto... È un pezzo grosso e il suo caporedattore le raccomanderà di trattarlo con i guanti...».


«Lei non ci è andato tanto per il sottile poco fa, al telefono...».


«Una vecchia abitudine. Sono sempre stato sfrontato».


Alla fine se ne andarono e Alain richiuse la porta a malincuore, guardò tutt’intorno i bicchieri vuoti e le bottiglie, le poltrone e le sedie spostate, le confezioni di pellicole disseminate sulla moquette. Fece per rimettere un po’ in ordine prima che arrivasse Blanchet, si chinò, ma poi si tirò su alzando le spalle.


 


 


Aveva sentito l’ascensore fermarsi al piano, ma aspettò che Blanchet si prendesse la briga di suonare come tutti. Lui non si decise subito, indugiò un attimo sul pianerottolo, forse titubante, oppure per darsi un contegno.


Il campanello si fece finalmente sentire e Alain andò a passo lento ad aprire la porta. Evitò di tendere la mano e lo stesso fece il cognato, che aveva il cappotto imperlato di goccioline e il cappello fradicio.


«Sei solo?».


Sembrava diffidente e poco mancava che andasse a controllare in camera da letto, in bagno e nel cucinino che non ci fosse nessuno in ascolto.


«Più solo di così...».


Blanchet non si era ancora tolto il cappotto, teneva il cappello stretto in mano, guardava i bicchieri e le bottiglie.


«Che cosa gli hai detto?».


«Niente».


«Avrai pur risposto alle loro domande, dal momento che hai accettato di ricevere la stampa...».


«Tu che cosa gli avresti raccontato?».


I Blanchet, il padre e i tre figli, erano degli omoni, larghi di spalle e di torace e con quel tanto di pancia da conferirgli un’aria sussiegosa. Il padre era stato due volte ministro. E un giorno uno o l’altro dei figli lo sarebbe diventato a sua volta. Guardavano le persone dall’alto in basso con condiscendenza e dovevano avere lo stesso sarto.


Il marito di Adrienne si decise a togliersi il cappotto e a gettarlo su una sedia e, vedendo che Alain si versava da bere, si affrettò a protestare:


«Per me niente, grazie».


«È per me».


Seguì un lungo silenzio piuttosto penoso. Dopo aver posato il bicchiere vicino a una poltrona, Alain si era diretto senza pensarci verso la vetrata, ancora ricoperta di migliaia di goccioline d’acqua, al di là della quale balenavano le luci di Parigi. A un certo punto si sorprese ad appoggiarci contro la fronte, come per rinfrescarla, e si ritrasse di scatto. Non era forse la posizione di Micetta in rue de l’Université, accanto al corpo di Adrienne?


Alla fine Blanchet si sedette.


«Insomma, perché ci tenevi tanto a venire stasera?».


«Suppongo che sia il caso di metterci d’accordo».


«A che proposito?».


«A proposito di quello che diremo».


«Siamo già stati interrogati».


«In maniera sommaria, per quanto mi riguarda, da un vicecommissario che non vuole complicarsi l’esistenza. Domani o dopodomani saremo interrogati da un giudice istruttore».


«Di solito va così».


«Tu che cosa gli dirai?».


«Che non capisco».


Blanchet lasciò pesare su di lui uno sguardo insistente, in cui si mescolavano paura, rabbia e disprezzo.


«Tutto qui?».


«Che altro dovrei dire?».


«Jacqueline ha nominato un avvocato?».


«Pare che lasci a me l’incombenza».


«Chi hai scelto?».


«Ancora non lo so».


«L’avvocato avrà il compito di difendere la sua cliente».


«Lo spero bene».


«Con ogni mezzo».


«Immagino di sì».


Alain lo faceva apposta. Non aveva mai potuto soffrire il cognato e l’atteggiamento che aveva in quel momento gli dava il voltastomaco.


«Che linea seguirà?».


«È affar suo, ma non credo che invocherà la legittima difesa».


«E dunque?».


«E dunque, tu che cosa suggerisci?».


Scandalizzato, Blanchet ribatté con una certa enfasi:


«Ti ricordo che sono il marito della vittima».


«E io il marito di una donna che probabilmente passerà buona parte della sua vita in prigione».


«Per colpa di chi?».


«Lo sai tu?».


Altro silenzio. Alain si accese una sigaretta e allungò l’astuccio a Blanchet, che rifiutò con un cenno della mano. Come arrivare al punto senza perdere la faccia? Perché aveva un solo pensiero in testa, più esattamente una domanda. Cercava il modo di porla.


«Il commissario mi ha chiesto se eravamo una coppia unita».


Alain non poté impedirsi di guardarlo con aria ironica.


«Io ho risposto di sì».


Si vergognava un po’ di lasciar annaspare quell’omone flaccido senza tendergli una mano. Eppure si rendeva conto dello sforzo che doveva fare suo cognato per conservare un tono calmo.


«Gli ho detto che io e Adrienne ci amavamo come il primo giorno».


Gli si era smorzata la voce.


«Sicuro di non voler niente da bere?».


«No. Niente. Ha insistito molto sui pomeriggi, non so perché».


«I pomeriggi di chi?».


«Di Adrienne, ovvio. Voleva sapere se usciva dopo pranzo, se vedeva delle amiche...».


«E le vedeva?».


Blanchet ebbe una breve esitazione.


«Non lo so. Avevamo spesso gente a cena. Oppure cenavamo fuori. Ogni tanto ci trovavamo a un cocktail o a un ricevimento. A volte Adrienne portava i bambini a passeggio, li accompagnava con la tata al giardino zoologico».


«L’hai detto al commissario?».


«Sì».


«E lui ti è sembrato convinto?».


«Non del tutto».


«E tu?».


Fu allora che, in forma indiretta, arrivò la prima ammissione.


«Nemmeno...».


«Perché?».


«Perché stasera ho interrogato Nana».


Era la seconda o la terza tata da quando erano nati i bambini e, per comodità, le chiamavano tutte Nana.


«Sulle prime ha fatto resistenza, ma poi si è sciolta in lacrime e ha confessato che mia moglie non restava sempre con loro allo zoo, si allontanava da sola e li raggiungeva di nuovo nel tardo pomeriggio».


«Le donne hanno sempre qualche compera da fare».


Alain lo vide chiaramente deglutire mentre lo guardava negli occhi, e poi abbassare le palpebre.


«Dimmi la verità».


«Quale verità?».


«Ti rendi conto che è necessario, che in un modo o nell’altro salterà fuori? È stato commesso un omicidio e la nostra vita privata verrà messa in piazza».


Alain non aveva ancora preso una decisione.


«E poi ti confesso che non posso...».


Non finì la frase e dovette portarsi il fazzoletto al viso. Aveva tenuto duro il più a lungo possibile. Adesso però stava crollando. Alain, per pudore, girò la testa, lasciando al cognato il tempo di ricomporsi.


Ma bisognava pur venire al dunque, e intanto andò a vuotare il suo bicchiere. Blanchet non gli piaceva, non gli sarebbe mai piaciuto. Ciò non toglie che gli faceva un po’ pena.


«Che cosa vuoi sapere, Roland?».


Era la prima volta in tutta la sera che lo chiamava per nome.


«Non lo immagini? Se tu... Tu e Adrienne...».


«Senti, metti via il fazzoletto. E per una volta vedi di non mischiare sentimenti e senso di dignità. Da questo momento parliamo tra uomini, d’accordo?».


Roland fece un respiro profondo e mormorò:


«D’accordo».


«Innanzitutto, ficcati bene in testa che non ti racconto storie. Quello che sto per dirti è la pura verità, anche se talvolta sono stato il primo a dubitarne. Quando io e Micetta ci siamo conosciuti, mi ci sono voluti mesi per capire che l’amavo. Mi seguiva dappertutto, come un cagnolino, e io mi sono abituato alla sua presenza. Quando ci separavamo per qualche ora per via dei nostri rispettivi lavori, lei trovava sempre il modo di telefonarmi. Dormivamo insieme e quando mi svegliavo, di notte, allungavo la mano alla ricerca del suo corpo».


«Non sono venuto qui per parlare di Micetta».


«Aspetta, stasera sono lucido. Mi sembra, per la prima volta, di vedere le cose per quello che sono. Poi sono arrivate le vacanze. E Micetta ha dovuto passarle con i suoi».


«Adrienne era già a Parigi?».


«Sì, ma io non mi interessavo a lei più di quanto mi sarei interessato a un canarino in gabbia. Micetta era partita per un mese e, dopo una settimana, mi sentivo già scombussolato. La mia mano, di notte, tastava solo il lenzuolo. Al ristorante, nei bar, mi voltavo verso destra e mi sporgevo per parlarle.


«È stato il mese più lungo di tutta la mia vita. Sono stato lì lì per telefonarle e dirle di tornare a tutti i costi».


Suo padre insegnava lettere all’università di Aixen-Provence. I suoi avevano una villetta a Bandol dove lei li raggiungeva tutte le estati.


Lui non aveva avuto il coraggio di andare a Bandol, sarebbe stato troppo sfacciato.


«Al suo ritorno non mi ero ancora deciso. Poi, all’improvviso, una notte, in un locale della Rive Gauche dov’eravamo andati con un gruppo di amici, le ho chiesto se voleva sposarmi. Questo è quanto».


«Però non spiega...».


«Al contrario, spiega tutto. Non so se è quello che chiamano amore, ma è così che è andata. I primi tempi abbiamo dovuto tirare la cinghia. Non sempre. C’erano periodi di vacche magre e periodi di vacche grasse. Lei stentava a piazzare i suoi articoli, e io non avevo ancora avuto l’idea della rivista. Intanto Adrienne se ne restava buona buona a studiare nella sua stanza».


«Non usciva con voi?».


«Qualche volta. Non ne avevamo tanta voglia. E forse nemmeno lei. Le piaceva starsene tranquilla nel suo angolino a fissare il vuoto».


«È stato allora che...».


«Esatto. È stato allora che è successo. Così, molto semplicemente. Per caso. Non saprei nemmeno dire chi è stato dei due a fare il primo passo. Io ero l’amante di sua sorella. In altre parole, sua sorella aveva un uomo tutto per sé».


«La amavi?».


«No».


«Sei un cinico» gli gettò in faccia Blanchet con astio.


«No. Ti ho avvertito che sarebbe stato un discorso tra uomini. Lei ne aveva voglia. E forse anch’io, non foss’altro che per curiosità, per sapere che cosa c’era dietro quell’espressione impenetrabile».


«E adesso lo sai?».


«No... Sì... Credo che si annoiasse...».


«E quindi, per sette anni...».


«No. Abbiamo continuato a vederci, così, ogni tanto».


«Cosa intendi per ogni tanto?».


«Grosso modo una volta alla settimana».


«Dove?».


«Non ha importanza».


«Per me sì».


«Se ci tieni tanto a immaginarti la scena, peggio per te. In un monolocale ammobiliato in rue de Longchamp».


«Che squallore».


«Non potevo certo portarla in rue de la Vrillière».


Quella rue de la Vrillière dove lavorava Blanchet, nel sontuoso palazzo della Banca di Francia.


«Ti ha conosciuto a casa di un’amica. Tu le hai fatto la corte».


«Ti raccontava tutto?».


«Credo di sì».


«E ti ha chiesto anche consiglio, già che c’era?».


«Forse».


«Sei un essere spregevole».


«Lo so, ma se è per questo siamo in diversi milioni sulla terra. Ti ha sposato».


«E continuavate a vedervi?».


«Meno di frequente».


«Perché?».


«Perché aveva messo su casa. E poi è rimasta incinta».


«Di chi?».


«Di te, non temere. Ho preso tutte le precauzioni del caso».


«Troppa grazia!».


«Lasciami finire. A Micetta non ne ho mai parlato. Eppure mi capita abbastanza spesso di raccontarle le mie avventure».


«Perché, nel frattempo ne avevi altre?».


«Non sono mica un alto funzionario, io, non ho una reputazione da mantenere integra. Quando una mi piace...».


«Ci vai a letto e poi corri a raccontarlo a tua moglie».


«Perché no?».


«E poi dici che vi amate!».


«Non ho mai detto questo. Ho detto solo che quando non c’era mi mancava».


«Anche mia moglie ti mancava?».


«No. Era diventata un’abitudine. Forse ognuno di noi due temeva, rompendo, di dare un dispiacere all’altro. Ma poi abbiamo finito per rompere comunque, più o meno un anno fa, due giorni prima di Natale, il 23 dicembre».


«Grazie per la precisione».


«Ci tengo ad aggiungere che quel giorno non c’è stato niente tra noi. Ci siamo limitati a stappare una bottiglia di champagne».


«Non vi siete più rivisti?».


«Da te, da me, a teatro...».


«E a tu per tu?».


«No».


«Me lo giuri?».


«Se ci tieni, anche se mi sfugge il significato di questa parola».


Blanchet era diventato via via rosso, poi paonazzo, e sembrava più grosso, più flaccido. Tutti i Blanchet, in fondo, nascondevano la loro flaccidità sotto abiti di buon taglio.


«Come ti spieghi...».


«Sicuro di non voler bere qualcosa?».


«Un goccio, sì».


Si alzò e restò in piedi in mezzo alla stanza, come un enorme fantasma.


«Tieni!».


«Questa storia verrà fuori, vero?».


«Temo di sì».


«Ne parlerai al giudice istruttore?».


«Dovrò rispondere alle sue domande».


«E i giornalisti... sospettano qualcosa?».


«Non hanno fatto insinuazioni esplicite».


«Penso ai bambini».


«No. Se solo cominciassi a essere sincero con te stesso e a guardare in faccia la verità!».


«Quasi un anno...».


«Te lo giuro di nuovo, se vuoi».


«In tal caso mi chiedo come mai Micetta, tutt’a un tratto, ha deciso di...».


«Uccidere sua sorella. Diciamo le cose come stanno. Me lo chiedo anch’io. Ed è uscita di qui che già lo aveva deciso. Sennò non avrebbe preso la mia pistola, non gliel’ho mai vista toccare prima».


Dopo una pausa Blanchet mormorò:


«A meno che non ci sia di mezzo qualcun altro».


E lanciò ad Alain uno sguardo sornione da cui trapelava una certa soddisfazione.


«Ci hai pensato?» insisté.


«Sempre che riesca ancora a pensare».


«Se Adrienne aveva qualcun altro...».


Alain fece segno di no con la testa. A differenza di Blanchet, i suoi lineamenti erano più definiti, più duri.


«Ti sbagli. Hai capito male. Guarda che tua moglie è venuta a letto con me perché, nella sua testa, io appartenevo a sua sorella».


«E dunque...?».


Si sarebbe detto che il massiccio cognato cominciasse a rincuorarsi. La sua stessa figura sembrava rassodarsi.


«Sicuramente è stata Micetta a iniziare e Adrienne le ha reso la pariglia. Solo che, stavolta, Micetta si è stufata e l’ha definitivamente tolta di mezzo».


«Sembra che la cosa non ti scuota più di tanto...».


Alain lo guardò, senza muoversi, e Blanchet capì di essersi spinto troppo oltre. Per un istante ebbe paura, una paura fisica, paura che l’altro lo picchiasse, gli facesse male...


«Ti chiedo scusa».


Alain restò immobile ancora un attimo, con il bicchiere in mano.


«Questo è quanto!» buttò lì alla fine.


Poi, mentre si dirigeva verso il mobile bar:


«Siamo messi bene tutti e due».


«Lo dirai al giudice istruttore?».


«No».


«Poco fa hai detto...».


«Gli dirò quello che so. Il resto, sono solo supposizioni e ci arriverà anche da solo».


«Non hai idea...?».


«Di chi potrebbe essere? No».


«Eppure vedevi tua moglie più spesso di quanto io vedessi la mia».


Alain alzò le spalle. Come se si fosse mai interessato a cosa faceva o non faceva Micetta! Tutto quello che le chiedeva era di essere presente, lì, accanto al suo gomito destro, a portata della sua voce e della sua mano.


«Secondo te parlerà?».


«Ha rifiutato di rispondere alle domande del commissario».


«Ma domani?».


«Non lo so. E, personalmente, me ne infischio di chi sia».


Non avevano più niente da dirsi. Restavano là, a ciondolare nell’ampio studio. Nonostante tutto l’alcol che aveva in corpo, Alain non si sentiva sbronzo.


«Non torni a casa?».


«Sì, certo. Ma dubito che riuscirò a dormire».


«Io sprofonderò nel sonno, invece».


L’altro si infilò il cappotto, cercò il cappello ed esitò a tendere la mano ad Alain, che non si avvicinava.


«Ci vediamo nei prossimi giorni. O magari domani. Forse il giudice deciderà di metterci a confronto».


Alain alzò le spalle.


«Cerca di... Fai in modo che non si parli troppo di Adrienne... Non merita di essere giudicata con eccessiva durezza...».


«Buonanotte».


«Grazie».


Se ne andò con fare impacciato, mesto, si richiuse la porta alle spalle, evitò di chiamare l’ascensore e scese le scale a piedi.


Soltanto allora, finalmente, Alain poté lasciarsi andare a un urlo selvaggio.

3

Passò una notte agitata. Si ridestò a più riprese e una volta si ritrovò non dalla sua parte del letto, la sinistra, ma da quella di Micetta. Aveva bruciori di stomaco e finì per alzarsi, in uno stato di semincoscienza, per andare in bagno a prendere del bicarbonato di sodio.


Quando sentì una voce al suo capezzale cominciava a far giorno e la donna di servizio, la signora Martin, dovette scuoterlo per la spalla per svegliarlo. Arrivava tutte le mattine alle sette e se ne andava a mezzogiorno.


Lo guardò con durezza, l’espressione arcigna.


«Il caffè è pronto» disse seccamente.


Alain non aveva mai potuto soffrire di essere commiserato. Detestava i sentimentalismi. Si riteneva una persona realista, cinica, eppure quel mattino avrebbe avuto bisogno di un po’ di tenerezza nei suoi rapporti con il prossimo.


Senza infilarsi la vestaglia andò direttamente nello studio, dove le lampade accese lottavano contro il grigiore esterno. Il mondo oltre l’immensa vetrata era tetro, i tetti bagnati, il cielo, non più ingombro delle nubi minacciose del giorno prima, era di un grigio cupo, uniforme, immobile.


Di solito si vedeva tutto il panorama, da Notre-Dame alla Tour Eiffel. Quel giorno, alle otto del mattino, la vista si limitava a qualche tetto e qualche finestra illuminata.


Alain bevve avidamente il suo caffè guardandosi intorno nella stanza, dove sedie e poltrone erano di nuovo al loro posto e bicchieri e bottiglie erano spariti.


La signora Martin mentre rassettava andava avanti e indietro, muovendo le labbra come se parlasse da sola. Era una donna sulla cinquantina. I giornali, che aveva l’abitudine di portare su, erano posati su un tavolino, ma ad Alain non venne la curiosità di gettarvi un’occhiata.


Non aveva i postumi della sbornia, ma si sentiva intorpidito, nell’animo come nel corpo, e la testa era vuota.


«Preferisco dirle subito...».


Stavolta le sue labbra non si muovevano più in silenzio. La signora Martin stava parlando.


«... che è l’ultima mattina che vengo a lavorare qui...».


Non aggiunse altro. Lui dal canto suo non le chiese spiegazioni e si versò una seconda tazza di caffè, mangiucchiando un croissant che gli impastava la bocca.


Alla fine si sedette accanto al telefono, si fece passare la comunicazione con Saint-Illiers-la-Ville.


«Pronto... Loulou...?».


Era la loro cuoca, Louise Biran, la moglie del giardiniere.


«Ha letto il giornale?».


«Non ancora, ma sono passate delle persone...».


Anche lei aveva una voce alterata.


«Non faccia caso a tutto quello che le diranno o che scriveranno i giornali. Non si sa ancora niente di preciso. Patrick come sta?».


Aveva cinque anni.


«Bene».


«Cerchi di tenerlo fuori da questa faccenda».


«Farò il possibile».


«E per il resto?» credette di dover aggiungere.


«Per il resto, niente».


«Posso chiederle di farmi dell’altro caffè, signora Martin?».


«Ha l’aria di averne bisogno».


«Ho fatto tardi».


«Lo avevo immaginato, visto in che stato era l’appartamento».


Andò a lavarsi i denti, riempì la vasca, alla fine optò per una doccia fredda. Non sapeva cosa fare, dove mettersi. In genere, la mattina, i suoi gesti seguivano un ritmo preciso. Si era dimenticato di accendere la radio come al solito, ma temeva di sentir parlare di loro.


Gli tornò in mente il lungo corridoio a forma di tunnel in fondo al quale aveva consegnato a un agente la valigia per Micetta. Anche lei doveva essere in piedi. Probabilmente li svegliavano molto presto, forse alle sei del mattino.


«Il caffè è pronto».


«Grazie».


Andò a berlo in accappatoio, finì per avvicinarsi ai giornali, lesse un titolo:




Giovane giornalista uccide la sorella.




Poi, in caratteri più piccoli:




Probabilmente un dramma della gelosia.




Si vedeva una brutta fotografia di Micetta mentre attraversava il cortile della Polizia giudiziaria con il viso nascosto fra le mani.


Non ebbe la forza di leggere l’articolo, né di scorrere gli altri giornali del mattino. Si era alzato troppo presto. Di solito andava direttamente in rue de Marignan: gli piaceva essere tra i primi ad arrivare per sbrigare la corrispondenza.


Non aveva voglia di andare in ufficio. Non aveva voglia di niente. Sarebbe tornato volentieri a letto per rimettersi a dormire. Nonostante la sua ostilità, lo rassicurava sentire la signora Martin affaccendarsi tutt’intorno.


Che cos’aveva dimenticato? Sapeva che lo aspettava una giornata pesante, ma non si decideva, si sentiva la mente annebbiata.


Ah, sì! Un avvocato! Quello che conosceva meglio era l’avvocato che lo consigliava per la rivista e il business dei dischi. Si chiamava Helbig, Victor Helbig, e sarebbe stato difficile precisare le sue origini. Aveva un accento che avrebbe potuto essere tanto ceco quanto ungherese o polacco.


Un buffo ometto di mezza età, grasso, sudaticcio, con gli occhiali spessi come fondi di bottiglia e i capelli di un rosso acceso.


Viveva da solo in un appartamento di rue des Écoles in mezzo a un disordine incredibile, il che non gli impediva di essere uno dei civilisti più temuti.


«Pronto, Victor? Ti ho svegliato?».


«Dimentichi che le mie giornate cominciano alle sei del mattino. So già che cosa vuoi chiedermi».


«Hai letto i giornali?».


«Ne so abbastanza per consigliarti Rabut».


Philippe Rabut era il penalista che aveva difeso le cause più eclatanti degli ultimi vent’anni.


«Non pensi che sarebbe come ammettere che si tratta di un caso difficile?».


«Tua moglie ha ucciso sua sorella, no?».


«Esatto».


«Non nega?».


«L’ha ammesso».


«Che spiegazione dà?».


«Nessuna».


«Meglio così».


«Perché?».


«Perché Rabut la istruirà sulla linea di condotta da tenere. E a te cosa succederà?».


«Che vuoi dire?».


«Ai lettori della tua rivista non piacerà molto la parte che hai avuto».


«Io non ho avuto nessuna parte».


«È vero?».


«Direi proprio. È quasi un anno che non tocco la sorella».


«Telefona a Rabut. Lo conosci?».


«Abbastanza bene».


«Buona fortuna».


Dovette cercare il numero di telefono di Philippe Rabut, che abitava in boulevard Saint-Germain. Lo aveva incontrato spesso a qualche prova generale, a un cocktail o a una cena.


Una voce femminile squillante, quasi tagliente.


«Studio dell’avvocato Rabut».


«Alain Poitaud».


«Un istante, prego. Vedo se c’è».


Dovette aspettare un pezzo. L’appartamento di boulevard Saint-Germain era bello grande. Ci era stato una volta, in occasione di un ricevimento. L’avvocato non doveva essere ancora nel suo studio.


«Rabut. Un po’ mi aspettavo la sua telefonata».


«Ho pensato subito a lei. Stavo quasi per chiamarla ieri sera, ma non volevo disturbare».


«Sono tornato molto tardi da Bordeaux, avevo un’udienza. Comunque, mi sembra un caso abbastanza semplice. Quello che mi chiedo è come ha fatto un uomo come lei a ficcarsi in una situazione del genere. È inevitabile che faccia scalpore. Sa se sua moglie ha parlato?».


«A sentire il commissario Roumagne, si è limitata ad ammettere di aver sparato, per il resto non ha voluto rispondere ad alcuna domanda».


«È già qualcosa. E il marito?».


«Lo conosce?».


«L’ho incontrato».


«Sostiene di non saperne niente. Ha passato parte della sera da me».


«Ce l’ha con lei?».


«Non si raccapezza. E nemmeno io».


«Caro mio, non sarà facile attribuirle un ruolo simpatico».


«Non è per causa mia che è successo».


«Non era l’amante della sorella?».


«Non più».


«Da quando?».


«Quasi un anno».


«Ha raccontato questa storia al commissario?».


«Sì».


«E lui ci ha creduto?».


«È la verità».


«Verità o no, la gente non se la berrà».


«Non parliamo di me, ma di mia moglie. Oggi la interrogheranno di nuovo».


«Di sicuro...».


«Vorrei che lei accettasse di vederla».


«Sono sommerso di lavoro, ma questo caso non lo posso rifiutare. Chi è stato designato come giudice istruttore?».


«Non ne ho idea».


«È a casa? Ci resti finché non la richiamo. Vedo di capire che cosa succede al Palazzo di Giustizia».


Chiamò il suo ufficio.


«È lei, Maud?».


Una delle centraliniste con cui gli capitava ogni tanto di fare l’amore.


«Come sta, capo?».


«Come può ben immaginare, cocca. Boris è arrivato?».


«Sta sbrigando la posta. Glielo passo».


«Pronto, Boris?».


«Sì, Alain. Immaginavo che non saresti venuto in ufficio stamattina, perciò mi sto occupando io della posta...».


Si chiamava Maleski e Alain lo aveva nominato caporedattore. Abitava in periferia, dalle parti di Villeneuve-Saint-Georges, con la moglie e quattro o cinque figli. Era uno dei pochissimi a «Toi» che non si univa alla combriccola e rincasava subito dopo il lavoro.


«Il numero è uscito?».


«È cominciata la distribuzione».


«Ci sono state telefonate stamattina?».


«In continuazione. Tutte le linee sono intasate. Sei stato fortunato a non trovare occupato».


«Che cosa dicono?».


«Sono soprattutto donne. Vogliono sapere se è vero».


«Se è vero cosa?».


«Che tu eri l’amante della sorella, come lascia intendere la stampa».


«Non ho detto niente del genere ai giornalisti».


«Questo non gli impedisce di trarre conclusioni».


«E voi cosa rispondete?».


«Che l’inchiesta è appena cominciata e che non sappiamo niente».


Con la domanda seguente Alain tradì il proprio smarrimento:


«Che facciamo per il prossimo numero?».


«Niente. Insomma, visto che me lo domandi, ti dico come la penso. Nessuna allusione alla faccenda. Il sommario come previsto».


«Forse hai ragione».


«Non sei troppo scosso?».


«Va a momenti. È possibile che oggi passi in rue de Marignan. Non me la sento di restarmene qui da solo».


Doveva sforzarsi di ricordare quello che aveva previsto di fare. Il giorno prima gli sembrava che la sua giornata sarebbe stata talmente piena da non lasciargli il tempo di pensare, ed ecco che invece nel suo studio vetrato si sentiva isolato come in un faro.


C’erano i suoi genitori. Si era ripromesso di fargli visita. Abitavano poco lontano, in place de Clichy, da quasi cinquant’anni, ma Alain andava di rado a trovarli.


Stava per uscire, ma si rammentò per tempo che Rabut doveva telefonargli. Allora chiamò in place de Clichy. Pazienza se la signora Martin sentiva la conversazione. Ormai non c’era più niente di segreto, di intimo, dato che certi giornali non si sarebbero fatti scrupolo di scandagliare la sua vita privata.


«Pronto, mamma? Sì, sono io. Avrei voluto passare da te, ma non so ancora quando ne avrò il tempo. Sono a casa. No. La donna di servizio è ancora qui. Si è appena licenziata. Perché? Li hai letti i giornali? E papà? Non ha detto niente? Neanche una parola? È nel suo studio?».


Suo padre era dentista, attaccava a lavorare alle otto del mattino e riceveva i pazienti fino alle otto di sera, se non addirittura più tardi.


Era un uomo robusto, con i capelli grigi tagliati a spazzola, gli occhi grigi, ed emanava una tale serenità, aveva un’aria così tranquilla e comprensiva, che i suoi pazienti si vergognavano dei loro timori.


«Che cosa dici?... No, c’è un po’ di vero e un po’ di falso. Nei prossimi giorni le falsità non faranno che aumentare. Passerò a salutarti appena mi sarà possibile. Di’ a papà che penso a lui».


La signora Martin, con uno straccio in mano, lo guardava, come stupita che un mostro come lui avesse un padre e una madre.


Che altro poteva fare nell’attesa? Fumava una sigaretta dietro l’altra. Pensava al Palazzo di Giustizia, al Quai des Orfèvres, alla custodia cautelare, al complesso ingranaggio che stava per mettersi in moto ma che, per il momento, lo piantava in asso.


Chissà che cosa facevano laggiù le donne nei tempi morti, quando non venivano interrogate...


Erano le dieci. Si precipitò verso il telefono che si era messo a squillare.


«Pronto! Sono io...».


«Le passo l’avvocato Rabut!».


«Pronto! Pronto! Rabut?».


«Allora, è stato designato il giudice istruttore. È Bénitet, abbastanza giovane, sui trentacinque o trentasei anni, uno coscienzioso e che non cerca di mettersi in mostra. Interrogherà sua moglie alle undici, in mia presenza».


«La polizia ha finito con lei?».


«Dal momento che ha confessato e che non c’è nessun mistero...».


«E io?».


«Non ho ancora idea di quando sarà il suo turno. Lo scoprirò a fine mattinata e le farò sapere. Adesso devo andare al Palazzo di Giustizia. Dove posso trovarla?».


«Al mio ufficio. Se non ci sono, lasci un messaggio alla centralinista».


Aveva fatto tutto? Non ancora.


«Quanto le devo, signora Martin?».


La donna tirò fuori dal grembiule un foglietto con dei numeri scritti a matita. Il totale ammontava a centocinquantatré franchi. Alain le allungò due banconote da cento franchi e lei non accennò a dargli il resto.


«Lasci la chiave in portineria».


«Nel caso non dovesse trovare nessuno...».


Alain scese a piedi. Il vano scale era ampio, peccato averlo rovinato con quelle vetrate che gli davano un’aria vecchiotta o pretenziosa. C’era un solo appartamento per piano. Quello del terzo, inspiegabilmente, era vuoto. Al secondo abitava una ricchissima famiglia sudamericana, con tre o quattro bambini e Rolls-Royce con tanto d’autista. Il marito aveva studiato in Francia ed era stato per parecchi anni a capo del governo del suo paese finché un colpo di stato militare non l’aveva rovesciato.


Il primo piano era occupato dagli uffici di una società petrolifera. Al piano terra c’era un consolato.


La portineria era più che altro un salotto e la portinaia, la signora Jeanne, era una donna dall’aria molto dignitosa, il cui marito lavorava presso un ministero.


Evitò di incrociare lo sguardo dell’inquilino e cercò di darsi un contegno.


«Povera signora!» mormorò alla fine.


«Già».


«Dio solo sa quando tornerà a casa».


«Spero molto presto».


Nonostante l’avversione che gli suscitavano, cominciava ad abituarsi a quegli atteggiamenti ambigui.


«Senta, signora Jeanne, per caso conosce una donna di servizio?».


«La signora Martin se ne va?».


«Me l’ha appena comunicato».


«Un po’ la capisco, anche se non sono sicura di approvare. Non sempre la gente pensa alle conseguenze delle proprie azioni, non crede? Soprattutto gli uomini».


Alain non protestò. Non sarebbe stata l’unica ad accusarlo, a considerarlo il vero colpevole. Che senso aveva protestare?


«In effetti ci sarebbe una ragazza in cerca di un impiego. Farò in modo di vederla in giornata. Le serve qualcuno solo la mattina, giusto?».


«È indifferente».


«E per la paga?...».


«Quello che vorrà lei».


Continuava a cadere una pioggerellina sottile e la maggior parte dei passanti aveva l’ombrello. In fondo alla strada la cancellata del Parc Monceau era di un nero più intenso, con le punte dorate offuscate.


Avviandosi automaticamente verso la sua piccola utilitaria rossa pensò all’auto di Micetta. Chissà dove l’aveva lasciata. Era ancora parcheggiata sotto casa dei Blanchet in rue de l’Université?


Senza un motivo preciso gli seccava che restasse abbandonata per strada. Attraversò la Senna e imboccò rue de l’Université. A cinquanta metri dal palazzo signorile di cui Blanchet occupava il primo piano, vide l’auto, lustra di pioggia. Di fronte al cancello stazionavano due o tre capannelli, semplici curiosi e forse anche qualche giornalista.


Alain si diresse verso rue de Marignan, si infilò nell’edificio che i suoi uffici avevano invaso quasi per intero dopo aver inizialmente occupato solo l’ultimo piano.


Al piano terra c’erano le sale e gli sportelli. Alain prese l’ascensore, scese al quarto piano, imboccò una serie di corridoi dove, attraverso le porte aperte, si sentiva il ticchettio delle macchine da scrivere.


Il palazzo era nato per uso residenziale e si era reso necessario tirare su delle pareti divisorie e abbatterne altre. Dappertutto c’erano scale da salire e da scendere, un dedalo di corridoi da percorrere.


Ogni tanto rivolgeva un saluto con la mano e finalmente sospinse la porta del suo ufficio dove trovò Maleski dietro la sua scrivania.


Salutò anche lui con un cenno della mano. Alzò il telefono.


«Mi passi il garage, cocca. Quello di rue Cardinet, sì. Non ha la linea? Mi richiami appena possibile».


Come sempre c’era un mucchio di lettere, e ne scorse qualcuna senza capire quello che dicevano.


«Pronto, sì. Pronto, il garage Cardinet? Benoît? Sono Poitaud. Sì. Grazie, vecchio mio. L’auto di mia moglie è parcheggiata in rue de l’Université. No. Un po’ più giù rispetto al ministero. Non so se ha lasciato la chiave inserita. Dica al meccanico di attrezzarsi con tutto l’occorrente. Che la riporti in garage. Tenetela lì. Sì. La lavi pure se crede».


Maleski lo guardava incuriosito. Tutti lo avrebbero guardato incuriositi, qualsiasi cosa facesse, e Alain si chiese come avrebbe dovuto comportarsi un uomo nella sua situazione.


Sulla prima pagina di un giornale posato sulla scrivania intravide una sua foto: spettinato, con il bicchiere in mano.


Il bicchiere era di troppo. Certo quella era una cosa da non fare.


 


 


Si sforzò di girare per gli uffici, stringendo qualche mano, rivolgendo il consueto:


«Buongiorno, cocco».


In apparenza era lui quello più a suo agio, gli altri non sapevano cosa dire né come guardarlo. Salì fino in cima, nel sottotetto, dov’era stato ricavato l’ufficio grafico. Julien Bour, uno dei fotografi, era chino su un tavolo da disegno insieme ad Agnard, il grafico.


«Salve, ragazzi».


Sparpagliò una pila di foto, per lo più dei nudi, nello stile particolare adottato da «Toi»: casti nudi integrali o semintegrali.


«Ognuno deve potersi riconoscere» aveva spiegato ai suoi primi collaboratori.


Lo stesso valeva per i testi. Storie di tutti i giorni, drammi di gente comune. Il primo manifesto, di qualche anno addietro, sui muri di Parigi: un dito che indicava i passanti, uomini e donne. «Tu!».


Un «tu» enorme a cui nessuno poteva sfuggire.


«Ascoltatemi bene, cocchi. Noi non scriviamo per tutti, ma per ognuno dei nostri lettori, e ognuno deve sentirsi coinvolto».


Tu... Da te... Con te... In te...


Ridiscese, e come entrò nel suo ufficio gli tesero la cornetta del telefono.


«Rabut!» gli sussurrò Maleski.


«Pronto! Ci sono novità? Ha parlato?».


«No. Non posso dilungarmi al telefono. Mi raggiunga a mezzogiorno e mezzo alla buvette del Palazzo di Giustizia, pranzeremo insieme. Il giudice istruttore mi ha incaricato di convocarla per un confronto che si terrà alle due».


«Con mia moglie?».


«Beninteso».


L’avvocato riattaccò. Era stato piuttosto brusco, come di malumore.


«Non so ancora se torno nel pomeriggio. Ad ogni modo non mi occuperò del prossimo numero. Lascio a te il compito».


Scese lentamente. Per anni si era sentito chiedere:


«Dove scappi?».


Infatti andava sempre di fretta e passava il tempo a correre da un posto all’altro.


Oggi si sorprendeva a camminare come tutti e, anzi, al rallentatore. Perfino i suoi gesti erano lenti, anche solo per accendersi una sigaretta. Guardò il bar di fronte, tentennò, poi attraversò la strada sotto la pioggia.


«Doppio scotch?».


Fece segno di sì, guardò fuori per evitare di parlare al barista. Aveva giusto il tempo di andare al Palazzo di Giustizia e cercare un parcheggio, senza doversi affrettare. Parigi sembrava opprimente, cupa. Le macchine avanzavano praticamente a passo d’uomo. Fumò due sigarette prima di arrivare e finì per trovare parcheggio abbastanza lontano dal Palazzo di Giustizia.


Conosceva la buvette buia e vecchiotta: a inizio carriera gli era capitato di seguire qualche processo. Rabut era già un principe del Foro e quando passava spedito nei corridoi o nell’atrio del Palazzo di Giustizia, con la toga che fluttuava e le maniche che sbatacchiavano come ali, avvocati giovani e meno giovani si facevano rispettosamente da parte.


Lo cercò con lo sguardo tra i tavoli dove gli imputati a piede libero che attendevano di essere processati nel pomeriggio parlottavano sottovoce con il proprio difensore.


«Ha prenotato un tavolo?».


«Aspetto l’avvocato Rabut».


«Da questa parte».


Vicino alla finestra, come di consueto. Lo vide arrivare, massiccio, il collo tozzo, che incedeva nel cortile semideserto come nell’aula del tribunale. Non aveva con sé né una cartella né documenti.


«Ha ordinato?».


«No».


«Io prendo un piatto di carni fredde e una mezza bottiglia di bordeaux».


«Lo stesso per me».


L’avvocato era tutt’altro che sorridente.


«Lei com’è?».


«Calma e ostinata. Se si mostra così davanti a una giuria è sicuro che si becca il massimo della pena».


«Continua a non parlare?».


«Quando Bénitet le ha chiesto se ammetteva di aver ucciso la sorella, si è limitata a rispondere di sì. Poi le ha chiesto se la mattina, quando ha preso la Browning dal cassetto del comodino, aveva già deciso. Lei ha detto che non era ancora sicura, che la decisione è sopraggiunta più tardi».


Gli portarono i piatti e il vino e per alcuni istanti non parlarono.


«Bénitet è un tipo paziente, educato. L’ha trattata con molta indulgenza. Mi chiedo se, al suo posto, io non l’avrei presa a sberle».


Alain aspettava il seguito in silenzio, ma nei suoi occhi scuri era guizzato un lampo di collera. Conosceva Rabut, la sua brutalità, che in buona parte costituiva la chiave dei suoi successi nelle aule del tribunale.


«Non so come abbia fatto, ma sembrava appena uscita dal parrucchiere. Non un capello fuori posto. Era fresca, riposata, e il suo tailleur non aveva una grinza».


Un tailleur verde, che si era fatta confezionare tre settimane addietro. Il giorno prima era uscita dopo di lui, perciò Alain ignorava come fosse vestita.


«Si sarebbe detto che fosse lì in visita. Ha presente i vecchi locali all’ultimo piano, quelli che non sono ancora stati rimodernati? L’ufficio di Bénitet si trova lassù. È un ambiente polveroso, con pile di fascicoli che arrivano a metà parete.


«Là dentro lei sembrava una gran dama in visita, una gran dama che ha paura di sporcarsi gli abiti.


«Il giudice le ha chiesto con insistenza il motivo del suo gesto. E lei si è limitata a rispondere:


«“Ho sempre detestato mia sorella”.


«Ovviamente il giudice le ha fatto notare che non era una ragione sufficiente per ucciderla, e lei ha ribattuto:


«“Dipende”.


«Chiederò una perizia psichiatrica. Purtroppo non c’è la minima possibilità che sia pazza».


Alain intervenne, esitante:


«Micetta è sempre stata un po’ stramba. Le dicevo spesso che è un tipo imprevedibile. Come un gattino che sonnecchia accanto al fuoco e, all’improvviso, senza nessun motivo, si slancia dall’altra parte della stanza. Per questo le ho dato il nomignolo di Micetta».


Rabut lo guardava senza battere ciglio, continuando a masticare un boccone di roast beef.


«Non reggerà» si limitò a commentare, come se il suo interlocutore avesse appena detto una fesseria. «Il giudice ha voluto sapere se aveva agito per gelosia e lei è rimasta impassibile, non ha nemmeno schiuso le labbra. Da quel momento non è stato più possibile cavarle una parola di bocca. Si è trincerata in un silenzio che, alla fine, era quasi sprezzante».


Prese un’altra forchettata. Anche Alain mangiava, senza guardarsi intorno. Il mondo non era mai stato così piccolo, e il tavolo vicino faceva parte di un altro universo.


«La cosa più difficile da mandar giù è quello che è successo in seguito. Dopo che sua moglie è stata riaccompagnata in cella...».


«Le hanno messo le manette?».


«Nei corridoi, sì. È il regolamento. Io mi sono trattenuto un momento da solo con Bénitet. Aveva appena ricevuto il rapporto del medico legale. Adrienne Blanchet non è morta sul colpo, ma ha agonizzato per diversi minuti, quattro o cinque...».


Alain stentava ancora a capire. Con il bicchiere in mano, guardava impaziente l’avvocato.


«Senz’altro saprà che la tata, che chiamano Nana, ma il cui vero nome è Marie Poterat, si trovava nella stanza accanto con i bambini. Non appena ha sentito degli scoppi di voce ha avuto la buona idea di portarli in cucina...


«Nel momento in cui usciva in corridoio ha sentito gli spari. Il maschietto voleva correre a vedere, lei ha trattenuto entrambi quasi di forza e li ha affidati alla cuoca».


Alain, che conosceva gli ambienti e i personaggi, ricostruì mentalmente la scena.


«Come ben sa, la cucina si trova dalla parte opposta dell’appartamento. La tata, sottovoce, ha detto alla cuoca di non lasciar uscire i bambini.


«Conoscendo Bénitet, sono certo che manderà un ispettore a calcolare i tempi dei vari andirivieni. Davanti alla porta della stanza, Marie Poterat non è entrata subito, ma è rimasta in ascolto. Non sentendo più niente, dopo un attimo di esitazione si è decisa a bussare.


«Nessuna risposta. Mettiamo che siano passati tre minuti in tutto. Ebbene, quando la tata è entrata, sua moglie era in piedi, con il viso premuto contro il vetro della finestra, sua sorella stesa a terra, per metà sul tappeto e per metà sul parquet, a un metro dal mobile da toilette. Dalle sue labbra socchiuse si levava un flebile gemito».


Infilzando un pezzo di prosciutto con la forchetta, Rabut concluse:


«Mi dica lei come impostare la difesa! Spara alla sorella. Eh! Almeno non fosse stata la sorella. Chiunque, ma non la sorella. La gente crede ancora alla voce del sangue, a Caino e Abele.


«Un caso di gelosia, d’accordo. È facile. Ma sparare alla propria sorella e lasciarla agonizzare per quattro o cinque minuti senza prestarle soccorso, senza chiedere aiuto...


«Non possiamo certo impedire che Marie Poterat sia chiamata a deporre come testimone principale.


«Le chiederanno di descrivere la moribonda, e l’omicida in piedi, alla finestra».


Alain aveva chinato la testa, non sapeva cosa dire. Rabut aveva indubbiamente ragione, eppure quella non era la verità.


Nemmeno lui conosceva la verità, ma forse cominciava a intravederla.


«Da quanto tempo era l’amante della sorella?».


«Non lo ero più».


«Per quanto tempo lo è stato?».


«All’incirca sette anni. Non è come crede. Tra di noi c’era una specie di affettuosa amicizia».


«Oh, insomma! Andavate a letto insieme o no?».


«Andavamo a letto insieme».


«Dove?».


«In un monolocale ammobiliato in rue de Longchamp».


«Brutta faccenda».


«Perché?».


«Tanto per cominciare, le persone perbene non vedono di buon occhio quel genere di posti, che considerano loschi e associano istintivamente all’idea del vizio».


Alain fu lì lì per protestare:


«Era una cosa talmente innocente!».


Non era sicuro che Rabut stesso potesse capire.


«Quando ci siete andati l’ultima volta?».


«Il 23 dicembre dell’anno scorso. È passato quasi un anno».


«Sua moglie sapeva?».


«No».


«È molto gelosa?».


«Non diceva niente quando andavo a letto con questa o con quella».


«Gliene parlava?».


«Se capitava».


«Non ha mai sospettato che lei avesse una relazione con la sorella?».


«Non che io sappia».


Si guardarono in silenzio. Rischiava di riproporsi la stessa situazione della sera prima, con suo cognato.


«Ritiene che potrebbe esserci di mezzo qualcun altro?».


«Ci ho pensato, sì».


«Adesso è a lei che chiedo se ha dei sospetti».


«Nessuno».


«Passavate molto tempo insieme, lei e sua moglie?».


«La mattina ero io a uscire per primo. Spesso lei restava a casa per scrivere un articolo. E telefonava anche a Les Nonnettes, la nostra casa di campagna, per parlare con nostro figlio».


«Quanti anni ha?».


«Cinque».


«Questo è un bene. Un bene o un male, dipende. Poi?».


«Quasi sempre, verso le undici, mi chiamava in ufficio per chiedermi dove avrei pranzato e di solito mi raggiungeva al ristorante».


«E poi?».


L’avvocato aveva allontanato il piatto e si era acceso una pipa.


«Il più delle volte aveva qualche appuntamento. Era specializzata nell’intervistare personalità di passaggio. Non brevi reportage, spesso erano veri e propri approfondimenti che venivano pubblicati a puntate. Poi mi telefonava di nuovo, oppure mi raggiungeva al Clocheton, il nostro bar di rue de Marignan. Ci ritrovavamo sempre con una decina di amici tra le sette e le otto».


«Cenavate da soli?».


«Raramente».


«Rincasavate tardi?».


«Quasi mai prima dell’una, più facilmente alle due o alle tre».


Come se si trattasse della constatazione di un perito, Rabut osservò:


«Niente vita di famiglia. Anche quando si concedono tutte le scappatelle immaginabili, i giurati ne hanno una. Solo a sentir parlare della minestra della sera si commuovono».


«Noi non mangiamo mai la minestra» ribatté freddamente Alain.


«Domani sua moglie sarà trasferita alla Petite Roquette. Andrò a trovarla lì. Potrebbe chiedere anche lei un permesso di visita, ma dubito che le venga concesso a questo punto dell’istruttoria».


«I giornali cosa dicono?».


«Non li ha letti? Per il momento non si sbilanciano. A Parigi lei è un personaggio noto e non si azzardano ad andarci giù pesante. Tanto più che anche sua moglie è una giornalista».


Si trattennero ancora per una decina di minuti alla buvette, poi attraversarono il cortile e salirono la scala. Nel corridoio della Procura i detenuti, in manette, aspettavano tra due guardie davanti alle porte numerate.


Di fronte a una porta, in fondo, si scorgeva un gruppo di fotografi e giornalisti.


Rabut alzò le spalle.


«C’era da aspettarselo».


«Ieri sono venuti a casa mia».


«Lo so. Ho visto le foto».


Qualche flash, un po’ di trambusto, due o tre colpi alla porta e l’avvocato entrò d’autorità, facendo passare avanti Alain.


«Chiedo scusa, caro mio. Volevo evitare di incontrarci davanti alla porta in presenza di giornalisti e fotografi. Siamo un po’ in anticipo, temo».


«Di tre minuti».


Il giudice si era alzato e indicò loro due sedie. Il cancelliere, seduto a un capo della scrivania, non si era mosso.


Il magistrato era un tipo biondo, dall’aria sportiva e il temperamento calmo. Portava un completo grigio di ottimo taglio e un anello con monogramma a una mano, affusolata e ben curata.


«Ha informato il signor Poitaud?».


«Abbiamo pranzato insieme alla buvette».


«Mi scuso, signor Poitaud, di dover infliggerle un confronto che forse sarà penoso per lei, ma non ho altra scelta».


Alain si stupì di sentirsi all’improvviso un nodo in gola, la voce roca.


«Mi farà piacere rivedere mia moglie».


Tutto era già così lontano! Gli sembrava che si fossero separati da un’infinità di tempo e stentava quasi a ricordare i suoi lineamenti.


Eppure si trattava solo del giorno prima. Quando la signora Martin era venuta a toccargli la spalla si era alzato, poi, nello studio, aveva preso il caffè e mangiato due croissant scorrendo i giornali. Le prime pagine erano dedicate alla tempesta che imperversava sulla Manica, a due pescherecci affondati, alla rottura di una diga in Bretagna e all’acqua che allagava le cantine in alcune località della costa.


Si era vestito come tutte le mattine e quando si era chinato su Micetta, ancora calda sotto le lenzuola, lei aveva socchiuso le palpebre.


«A dopo. Mi telefoni?».


«Stamattina no, te l’ho detto ieri. Ho un pranzo di lavoro al Crillon».


«Nel pomeriggio, allora?».


«Nel pomeriggio».


Le aveva sorriso scompigliandole i capelli con le dita. Lei aveva ricambiato il sorriso? Non se lo ricordava.


«Sigaretta?».


«Grazie».


Ne prese una con gesto automatico. L’attesa era imbarazzante e non potevano certo mettersi a conversare del più e del meno.


Per fortuna bussarono alla porta. Tutti e tre si alzarono in piedi, solo il cancelliere restò inchiodato alla sedia. Entrò Micetta, scortata da due guardie che, dopo aver richiuso la porta in faccia ai fotografi, le tolsero le manette.


«Potete aspettare fuori».


Erano a non più di due metri l’uno dall’altra. Lei indossava il tailleur verde pallido, una camicia finemente ricamata e sui capelli bruni un buffo zucchetto dello stesso tessuto del tailleur.


«Prego, si accomodi».


Lei aveva guardato per primo il giudice istruttore, poi l’avvocato. Solo alla fine il suo sguardo si era posato sul viso del marito.


Ad Alain sembrò di veder passare rapidamente, una dopo l’altra, diverse espressioni negli occhi di sua moglie: dapprima stupore, forse per i suoi lineamenti induriti, lo sguardo fisso, poi una punta di ironia, ne era certo, e anche un pizzico di tenerezza, o di complicità.


Prima di afferrare lo schienale di una sedia mormorò:


«Scusami per averti causato tutte queste seccature».


Lui restò impassibile, non trovò niente da dire e si sedette, con soltanto l’avvocato tra loro due, leggermente discosto.


Il giudice istruttore sembrava spiazzato da quell’affermazione e si concesse un attimo per riflettere prima di parlare.


«Devo dedurne, signora, che suo marito non c’entra con quanto accaduto in rue de l’Université?».


Rabut si agitò sulla sedia, paventando la risposta.


«Non ho niente da aggiungere a quello che ho già detto».


«Amava suo marito?».


«Suppongo di sì».


Non lo guardava e sembrava cercare con gli occhi una sigaretta. I tre uomini intorno a lei fumavano. Bénitet capì e le allungò il suo pacchetto.


«Era gelosa?».


«Non lo so».


«Che lei sappia, suo marito ha avuto rapporti intimi con sua sorella?».


Per la prima volta lei si voltò verso Alain, perfettamente a suo agio, e mormorò:


«Lui deve saperlo meglio di me».


«Lo domando a lei».


«Non ho niente da dire».


«Quando ha pensato per la prima volta di uccidere sua sorella?».


«Non lo so».


«Ieri mattina? Le ricordo che prima di uscire di casa ha preso un’arma che si trovava nel cassetto del comodino di suo marito».


«Sì».


«A che scopo?».


Lei ripeté:


«Non ho niente da dire».


«Ricomincia come stamattina».


«Non ho intenzione di cambiare atteggiamento».


«Per proteggere qualcuno?».


Lei si limitò ad alzare le spalle.


«Si tratta di suo marito?».


Di nuovo, la stessa risposta:


«Non ho niente da dire».


«Si pente del suo gesto?».


«Non lo so».


«Lo rifarebbe?».


«Dipende».


«Da cosa».


«Poco importa».


«Avvocato, ha qualche consiglio da dare alla sua cliente?».


«Dipende da quello che mi dirà quando la vedrò in privato».


«La vedrà domani per tutto il tempo che vorrà».


Schiacciò il mozzicone nel portacenere che aveva davanti.


«Signor Poitaud, la autorizzo a fare a sua moglie le domande che riterrà opportuno rivolgerle».


Alain drizzò la testa, guardò il viso girato verso di lui. Lei aspettava, semplicemente, senza tradire la minima emozione.


«Senti, Micetta...».


Non disse altro. Anche lui non aveva niente da dire. Aveva voluto pronunciare quel nome, un po’ come un incantesimo, sperando di produrre una piccola scintilla.


Restarono per lunghi secondi a guardarsi, lei in paziente attesa, lui a cercare parole che non trovava.


Sembrava quel gioco infantile che consiste nel fissarsi finché uno dei due sorride o ride per primo.


Nessuno dei due sorrise. Nessuno rise. Alla fine Alain si dette per vinto e si rivolse al magistrato.


«No, nessuna domanda».


Tutti erano imbarazzati, tranne lei. Il giudice, a malincuore, premette un campanello elettrico. Si sentì un cicalino dall’altra parte della porta, che si aprì.


«Riportate in cella la signora Poitaud».


Era ancora la signora Poitaud. Ben presto sarebbe stata l’indagata e poi l’imputata.


Alain notò che si era fatto buio e sarebbe stato meglio accendere le luci. Sentì il tintinnio delle manette, il ticchettio dei tacchi alti sul pavimento, i flash dei fotografi.


Una volta che la porta fu richiusa, Rabut dovette aprire la bocca, perché il giudice istruttore gli chiese:


«Vuole dire qualcosa, avvocato?».


«No. La vedrò domani».


Quando uscirono, i giornalisti erano scomparsi e il corridoio era pressoché deserto.

4

Se ne stava lì, solo, sotto la pioggerellina, davanti alla cancellata del Palazzo di Giustizia, senza sapere dove andare. Non voleva ammettere il proprio sgomento, si sforzava di credere che con un po’ di tempo, una matita e un pezzo di carta, sarebbe riuscito a riordinare le idee.


Si era sempre mostrato cinico, fin dall’infanzia, fin dalle superiori, dove aveva già la sua combriccola, e quando era stato bocciato alla maturità aveva ostentato un certo compiacimento.


«Sono gli stupidi a diplomarsi!».


Attraversò la strada, entrò in un bar.


«Whisky... Doppio...».


Ormai era diventata un’abitudine e anche gli altri del gruppo l’avevano adottata. Quasi tutti bevevano un po’ meno di lui, perché non reggevano l’alcol altrettanto bene o ne pagavano lo scotto il giorno dopo.


Non era un bar dove servivano superalcolici. C’era una sola bottiglia di whisky sul ripiano dietro il bancone. Gli avventori intorno a lui bevevano caffè o vino bianco.


«Dovrai pur sceglierti un mestiere, Alain».


Quante volte glielo aveva ripetuto sua madre? Lui ciondolava per strada, nei caffè. A volte era angosciato quanto lei, ma si faceva un punto d’onore a non darlo a vedere.


«Non accetterò mai un’esistenza da schiavo».


Come suo padre, che passava dodici o quattordici ore al giorno a trafficare su denti cariati.


Come il nonno paterno, che aveva fatto il medico di campagna finché, a settantun anni, non era morto d’infarto al volante della sua vecchia auto.


E come l’altro nonno, il pasticciere, che per tutta la vita aveva sfornato dolciumi in una stanzetta surriscaldata dal soffitto basso mentre sua moglie si dava da fare dietro un bancone.


«Vedi, mamma, esistono due tipologie di persone: quelli che le danno e quelli che le prendono».


E aveva aggiunto con aria di sfida:


«Io ho intenzione di darle».


Dopo sei mesi passati a ciondolare per strada, si era arruolato nell’esercito e aveva vissuto tre anni in Africa.


Doveva salire fino a place de Clichy per vedere i suoi genitori. Suo padre non lo aveva mai osteggiato. Lo lasciava fare, probabilmente consapevole che qualsiasi intervento avrebbe reso il figlio un ribelle.


Perché Micetta si era scusata? Era l’unica frase che gli aveva rivolto. Non aveva mostrato la minima emozione.


Fu lì lì per ordinare un altro bicchiere. Era troppo presto. Uscì dal caffè e si incamminò verso la macchina, che aveva parcheggiato abbastanza lontano.


Scivolò dietro il volante, mise in moto. Per andare dove? Conosceva tutti, chiamava «cocco» centinaia di persone. Era un uomo arrivato, che guadagnava soldi a palate. Aveva sempre saputo che non sarebbe stato uno di quelli che le prendono.


«Toi» aveva una tiratura di un milione di copie. I dischi promettevano bene. E stava per lanciare una rivista per ragazzi tra i dieci e i quindici anni.


Con chi, in quel momento, avrebbe potuto parlare, parlare apertamente? Ma poi, aveva davvero voglia di parlare apertamente? Aveva davvero voglia di capire?


Si ritrovò in rue de Marignan, perché aveva bisogno di essere circondato da persone che dipendevano da lui. «I ragazzi», li chiamava. Anche a Micetta aveva dato un soprannome, un po’ come nel Far West si marchia a fuoco il bestiame. E anche ad Adrienne.


Qualcosa si era spezzato, non sapeva cosa di preciso, e cominciava ad aver paura.


Nell’atrio davanti a uno sportello si era formata una fila, per lo più donne. Venivano per il concorso. Un concorso ci voleva sempre per tenere avvinte le lettrici, dopodiché potevi farne quel che volevi.


Salì a piedi. Il primo piano era l’unico a non essere di sua proprietà, lo occupava una ditta di import-export di cui aveva rilevato la locazione. Tempo sei mesi e sarebbe entrato in possesso dell’intero edificio, che aveva intenzione di rimodernare da cima a fondo.


Aveva trentadue anni.


Chi era stato a parlargli di Les Nonnettes? Chi gli aveva chiesto se ogni tanto faceva vita di famiglia con Micetta?


Mai! Nella vecchia casa di campagna che avevano ristrutturato, una via di mezzo tra una masseria e un maniero, facevano bisboccia ogni finesettimana e spesso la mattina si alzavano senza rammentarsi chi dormiva nel tal letto o sul tal divano.


«Ciao, Boris».


Maleski lo osservava come per vedere fino a che punto teneva botta.


«Ha telefonato tuo cognato. Vuole che lo richiami».


«A casa?».


«No, in ufficio».


«È un emerito imbecille».


Lo aveva già detto. Detestava i tipi pomposi. E gli imbecilli gli davano sui nervi.


«Passami la Banca di Francia, cocco. La direzione generale, sì, in rue de la Vrillière. Chiedi del signor Blanchet».


Gagnon, il segretario di redazione, entrò con alcuni fogli in mano.


«Disturbo?».


«Niente affatto. È per me?».


«Volevo far leggere a Boris un articolo che mi preoccupa un po’».


Quella settimana Alain se n’era disinteressato. Era giovedì, giovedì 19 ottobre. Era facile ricordarselo perché tutto era cominciato il giorno prima, mercoledì 18. A quell’ora era seduto alla sua scrivania, nel posto che adesso occupava Boris, dopodiché era andato alla tipografia in rue de Châtillon e per lui non c’era niente di più importante del numero di «Toi» che stava per uscire.


«Le passo il signor Blanchet».


Premette un tasto.


«Parla Alain».


«Ti ho chiamato perché mi chiedo cosa fare. Il padre di Adrienne è arrivato a Parigi. Alloggia all’Hôtel Lutetia».


Come ogni bravo intellettuale straniero o di provincia!


«Vorrebbe vederci tutti e due».


«Perché tutti e due?».


«Si tratta delle sue due figlie, no?».


Una morta, l’altra in prigione!


«Ad ogni buon conto, l’ho invitato a cena da me stasera, non possiamo certo andare al ristorante. Gli ho detto che gli avrei dato conferma dopo averti sentito».


«A che ora?».


«Verso le otto».


Ci fu un silenzio.


«Domattina porteranno qui la salma di Adrienne. Sabato si potrà fare il funerale».


Alain non aveva pensato al funerale.


«Va bene per stasera».


«L’hai vista?».


«Sì».


«Non ha detto niente?».


«Si è scusata».


«Con te?».


«Ti potrà sorprendere, ma è così».


«Il giudice cosa ne pensa?».


«Non mi ha confidato la sua opinione».


«E Rabut?».


«Non è molto contento».


«Ha accettato di difenderla?».


«Purché si parli di lui...».


«A stasera».


«A stasera».


Guardò Boris e Gagnon che discutevano a mezza voce dell’articolo, fu tentato di scegliere una delle dattilografe o delle centraliniste che si era già portato a letto per andare a fare l’amore da qualche parte.


Ma la gente è prevenuta e la prescelta sarebbe stata capace di rifiutare.


«A dopo o a domani».


Erano solo le quattro. Entrò al Clocheton.


«Un doppio?».


Non aveva voglia di bere. Era un automatismo.


«Eh sì, cocco!».


«L’ha vista?».


Ovviamente il barista conosceva Micetta. Tutti conoscevano Micetta, a furia di vederla un po’ a destra del suo gomito.


«Meno di un’ora fa».


«È molto demoralizzata?».


«Le manca solo un buon whisky».


L’altro non sapeva se sorridere o no. Alain l’aveva scandalizzato? Pazienza! Lo faceva apposta a scandalizzare gli altri. O meglio, l’aveva fatto apposta per così tanti anni che ormai gli veniva naturale.


«Sembra che stia per smettere di piovere».


«Non mi ero accorto che piovesse».


Passò un quarto d’ora seduto al bancone, poi risalì di nuovo in macchina e percorse gli Champs-Élysées sotto un cielo che in effetti si stava rischiarando, tingendosi di un brutto giallo, un giallo foruncolo.


Imboccò avenue de Wagram, boulevard de Courcelles. Non svoltò a sinistra per tornare a casa e parcheggiò l’auto in cima a boulevard des Batignolles.


Le insegne luminose si erano appena accese. Conosceva place de Clichy in ogni versione: brulicante di gente che entrava o usciva dagli accessi della metropolitana, o deserta, alle sei del mattino, il regno di spazzini e clochard, sotto il sole, sotto la neve, sotto la pioggia, d’estate, d’inverno, in tutte le salse.


La conosceva fino alla nausea, avendola vista dalla sua finestra per diciott’anni. Diciassette, anzi, perché il primo anno era troppo piccolo per arrivare alla finestra e ancora non camminava.


Infilò il viale, tra un bistrot e un negozio di scarpe. Un cartello che era lì da sempre annunciava:




Oscar Poitaud

Chirurgo dentista

(2° piano a destra)




Ogni giorno, di ritorno prima dall’asilo, poi dalla scuola elementare e infine dal liceo, aveva trovato quel cartello sulla sua strada e a neanche otto anni aveva giurato a se stesso che mai e poi mai sarebbe diventato un dentista.


Non si fidava dell’ascensore, che si guastava un paio di volte alla settimana, arrestandosi con i suoi occupanti tra due piani.


Salì le vecchie scale senza passatoia, superò l’ammezzato dove c’era un pedicure, poi il primo piano occupato da uffici di svariate attività. Attività losche, al limite della legalità.


Da che aveva memoria, si ricordava che c’era sempre stato almeno un usuraio nel palazzo, non sempre lo stesso né allo stesso piano.


Non era commosso. Non si emozionava al pensiero della sua infanzia, anzi! La detestava, la sua infanzia, avrebbe voluto cancellarla come alla lavagna.


Non ce l’aveva con sua madre. Per lui era un’estranea quasi quanto le zie, che un tempo vedeva una volta all’anno, durante le vacanze, quando andavano a far visita alla famiglia a Digione.


Sopra il negozio di dolciumi si leggeva il cognome della madre, Parmeron, con l’aggiunta del nome Jules. Le zie erano tutte della stessa risma, piccole e tracagnotte, con l’espressione seria e mezzi sorrisi un po’ melensi.


Entrò nella sala da pranzo che fungeva da soggiorno. Il vero soggiorno era stato trasformato in sala d’attesa. Riconobbe l’odore, sentì il ronzio del trapano nello studio del padre.


Sua madre portava un grembiule che si toglieva alla svelta quando andava ad aprire la porta. Alain era molto più alto di lei e si chinò per baciarla sulle guance.


Non osava guardarlo in faccia, ed entrando nella sala da pranzo dal mobilio pesante mormorò:


«Sapessi come mi tormento!».


Lui fu lì lì per ribattere:


«E io allora?».


Ma sarebbe stato sgarbato.


«Stamattina, dopo aver visto i titoli in prima pagina, tuo padre ha lasciato a metà la colazione».


Lui, almeno, era rinchiuso nel suo studio, con un paziente ogni quarto d’ora.


«Si sciacqui la bocca... Sputi...».


A volte, da piccolo, incollava l’orecchio alla porta.


«Mi farà male?».


«Ma no! Non ci pensi e non sentirà niente».


Tutto lì! Bastava che non ci pensasse.


«Com’è potuto succedere, Alain? Una persona dall’aria così dolce!».


«Non lo so, mamma».


«Credi che fosse gelosa?».


«Non sembrava».


Finalmente lo guardò in faccia, con un certo timore, quasi avesse paura di trovarlo cambiato.


«Non sembri troppo provato».


«No. Be’, è passato solo un giorno».


«Sono venuti in ufficio a dirtelo?».


«A casa. Ho trovato un ispettore ad aspettarmi e mi ha portato al Quai des Orfèvres».


«Tu non hai fatto niente, vero?».


«Avevano comunque qualche domanda da farmi».


Sua madre si diresse alla credenza per prendere una bottiglia di vino già cominciata e un calice. Era tradizione, ogni volta che qualcuno andava a trovarla.


«Ti ricordi, Alain?».


«Di cosa, mamma?».


Uno dei quadri, piatto e incolore, raffigurava alcune mucche in un prato, vicino a una staccionata rustica.


«Di quello che ti dicevo sempre. Hai voluto fare di testa tua. Non hai mai imparato un vero mestiere».


Alain preferì evitare di menzionare la rivista, che lei considerava un’opera del diavolo.


«Tuo padre non dice niente, ma certo deve rimproverarsi di essere stato così permissivo. Ti lasciava troppa libertà e per giustificarsi mi diceva:


«“Vedrai che troverà da solo la sua strada...”».


Tirò su col naso, si asciugò gli occhi con un angolo del grembiule. Alain si era seduto su una delle sedie dal sedile di pelle goffrata, lei era rimasta in piedi. Rimaneva sempre in piedi.


«Che cosa succederà adesso, secondo te?».


«Ci sarà un processo».


«Si parlerà anche di te?».


«È inevitabile».


«Dimmi, Alain, e sii sincero. Sai che mi accorgo subito se stai dicendo una bugia. È colpa tua, vero?».


«Che cosa vuoi dire?».


«Avevi una relazione con sua sorella e quando tua moglie l’ha scoperto...».


«No, mamma. Io non c’entro niente».


«C’era di mezzo qualcun altro?».


«Forse».


«Qualcuno che conosci?».


«È possibile. Lei non me ne ha parlato».


«Non pensi che sia un po’ pazza? Fossi in te pretenderei una perizia psichiatrica. Era dolce, gentile. Mi piaceva, in fondo, e mi sembrava che fosse molto attaccata a te. Eppure ho sempre avuto il sospetto che ci fosse qualcosa».


«Che cosa?».


«È difficile dirlo. Lei non era come gli altri. Una delle mie cognate, Hortense, tu non l’hai conosciuta, era così: stesso sguardo, stessi gesti, e hanno dovuto rinchiuderla in manicomio».


Tese l’orecchio.


«Resta qui. La paziente sta per uscire. Tuo padre avrà il tempo di salutarti prima di far entrare la prossima».


Si diresse verso il pianerottolo. Tornò poco dopo, seguita da un pezzo d’uomo dai capelli grigi tagliati a spazzola.


Non baciò il figlio. Anche quando era piccolo lo baciava raramente. Gli mise le mani sulle spalle e lo guardò negli occhi.


«È dura?».


Alain si sforzò di sorridere.


«Me la caverò».


«Non sospettavi niente?».


«Niente...».


«L’hai rivista?».


«Poco fa, nell’ufficio del giudice».


«Cosa dice?».


«Si rifiuta di rispondere alle domande».


«Non ci sono dubbi che sia stata lei?».


«Nessuno».


«Tu ti sei fatto un’idea?».


«Preferisco non pensarci».


«E il marito?».


«È venuto da me ieri sera».


«I suoi genitori?».


«Suo padre è arrivato a Parigi. Ceno con lui tra poco».


«È una persona perbene...».


I due uomini si erano incontrati non più di tre o quattro volte, ma avevano subito simpatizzato.


«Ti auguro buona fortuna, figliolo. Non c’è bisogno che ti dica che la porta è aperta, che noi siamo qui. Adesso devo tornare in fabbrica».


Era così che chiamava lo studio. Batté un’ultima volta sulla spalla di Alain e si avviò alla porta con il camice bianco che gli sbatacchiava sui polpacci. Perché aveva sempre portato camici troppo lunghi?


«Visto? Non dice niente, ma è sconvolto. I Poitaud non mostrano mai i loro sentimenti. Quando eri piccolo tu ti rifiutavi di piangere davanti a me».


Il vino rosso gli dava il voltastomaco. Bloccò il gesto di sua madre che stava per versargliene un altro bicchiere.


«Grazie, no. Devo andare».


«Hai qualcuno che si occupi di te?».


«La donna di servizio».


«È vero che tu mangi sempre fuori. Non ti scombussola lo stomaco?».


«Regge».


Si alzò, con la testa all’altezza del lampadario, si chinò verso sua madre e la baciò sulle guance. Era quasi arrivato alla porta, quando ci ripensò.


«Senti, mamma, non posso impedirti di leggere i giornali, ma mi raccomando, non lasciarti impressionare da quello che scriveranno. Non sempre è la verità, io ne so qualcosa. Ci vediamo nei prossimi giorni».


«Ci terrai al corrente?».


«Promesso».


Scese le ripide scale. Ecco fatto. Aveva compiuto il suo dovere. Adesso dal selciato bagnato saliva una vera e propria nebbia che aureolava i lampioni e le insegne luminose.


Un ragazzino correva reggendo tra le braccia un pacco di giornali senza che ad Alain venisse la curiosità di comprarne uno.


Da qualche parte doveva pur andare. Doveva pur stare da qualche parte. Ma dove?


Intorno a lui tutti camminavano in fretta, si superavano, si urtavano, come se avessero una meta da raggiungere con urgenza. Lui restò impalato sul ciglio del marciapiede, nell’aria umida, si accese una sigaretta.


Perché?


 


 


Albert, un domestico in giacca bianca da barista, gli prese il cappotto e fece strada verso il salone. Blanchet era in piedi, solo, in abito nero. Evidentemente si aspettava che a entrare fosse il suocero, perché cambiò espressione quando vide Alain.


«A quanto pare sono il primo».


Camminava con passo un po’ rigido, dato che aveva bevuto parecchio nel tardo pomeriggio. Aveva gli occhi lucidi, arrossati, particolare che non sfuggì a Blanchet.


«Accomodati».


Il salone aveva il soffitto troppo alto, era troppo grande per loro due. I mobili antichi dovevano essere quelli di rappresentanza e l’immenso lampadario di cristallo non riusciva a rischiarare gli angoli.


Si guardarono senza stringersi la mano.


«Arriverà a momenti».


Arrivò, per fortuna. Sentirono suonare il campanello, i passi di Albert, la porta che si apriva. Poi il domestico fece entrare un uomo alto come tutti i Blanchet, ma magrissimo, leggermente curvo, con il viso sottile e pallido.


La sua mano ossuta strinse con insistenza quella di Alain. Senza dire nulla, si diresse verso l’altro genero per stringergli a sua volta la mano, dopodiché fu scosso da un accesso di tosse e si coprì la bocca col fazzoletto.


«Non è niente. Mia moglie è a letto con la bronchite. Il dottore non le ha permesso di accompagnarmi. Forse è meglio così. Io ho solo un brutto raffreddore».


«Che ne dite di andare nel mio studio?».


Uno studio stile Impero, di rappresentanza, come il salone.


«Cosa posso offrirle, signor Fage?».


«Una cosa qualsiasi. Un bicchiere di porto, magari?».


«E per te?».


«Scotch».


Blanchet ebbe un attimo di esitazione, poi alzò le spalle. Con il viso ancora giovane e senza rughe, i capelli grigi pettinati all’indietro, i lineamenti finemente disegnati, André Fage era il classico tipo dell’intellettuale come se lo immagina la gente. Si capiva che era un uomo calmo e mite.


Dopo che Albert ebbe riempito i bicchieri, guardò ora Alain ora Blanchet e osservò:


«Eccovi tutti e due nello stesso calderone, e io ho perso entrambe le mie figlie. Non so quale delle due sia più da compatire...».


La sua voce era velata dall’emozione trattenuta. Tornò a posare lo sguardo su Alain.


«L’ha vista?».


Si incontravano così di rado che praticamente non si conoscevano.


«Questo pomeriggio, dal giudice istruttore».


«Com’era?».


«Mi ha stupito vederla calmissima, padrona di sé. Si era vestita con cura, si sarebbe detto che fosse in visita».


«È proprio la mia Jacqueline! È sempre stata così. Da piccola, quando si sentiva smarrita, correva a nascondersi in un angolino buio dell’appartamento, a volte in un armadio, e non ricompariva finché non aveva ripreso il controllo di sé».


Bevve un piccolo sorso di porto e posò il bicchiere.


«Ho evitato di leggere i giornali e non intendo farlo per un po’».


«Com’è stato avvisato?».


«Dal commissario di polizia. Ci ha tenuto a venire di persona ed è stato molto discreto. Come vi ho detto, mia moglie è costretta a letto. Abbiamo passato parte della notte a bisbigliare, come se fosse accaduto a casa nostra».


Si guardò intorno.


«A proposito, dov’è successo?» chiese a Blanchet.


«In camera da letto, nel salottino attiguo, per la precisione».


«I bambini dove sono?».


«Stanno cenando con Nana nella stanza dei giochi».


«Sono al corrente?».


«Non ancora. Gli ho detto che la loro mamma ha avuto un incidente. Bobo ha solo sei anni, Nelle tre».


«C’è tutto il tempo».


«La portano qui domattina presto. Il funerale sarà sabato alle dieci».


«Religioso?».


Non era credente e le sue figlie avevano ricevuto un’educazione laica.


«Ci saranno una messa e un servizio funebre, sì».


Alain provava un tale senso di estraneità da chiedersi che cosa ci facesse lì. Eppure era sempre stato affascinato da quel suocero di cui avrebbe potuto diventare amico. Fage non aveva forse dedicato la sua tesi al rapporto tra Baudelaire e la madre?


Li ascoltava senza provare il bisogno di intervenire. Erano diversi da lui, soprattutto Blanchet, va da sé. Era come se vivessero su un altro pianeta.


O era lui a non essere come gli altri? Eppure si era sposato. Aveva un figlio, una casa in campagna. Lavorava dalla mattina alla sera e spesso anche parte della notte.


Gli sembrava che la luce fosse fioca. Era una mania o, dal giorno prima, aveva l’impressione che da nessuna parte ci fosse abbastanza luce? Si sentiva come rinchiuso in un chiaroscuro e le parole gli arrivavano attraverso una materia ovattata.


«La cena è servita».


Albert portava guanti bianchi. La tavola era grande abbastanza per dodici persone, apparecchiata con posate d’argento e bicchieri di cristallo e un centrotavola floreale. Era stato Blanchet a pensare ai fiori? Oppure lo facevano in maniera automatica, senza consultarlo?


Erano seduti piuttosto distanti l’uno dall’altro, Fage in mezzo, chino sul piatto.


«Si sa se ha sofferto?».


«Il medico sostiene di no».


«Da piccola la chiamavo la principessa distante. Non aveva né la vivacità né la grazia di Jacqueline. Anzi, era un po’ impacciata».


Alain non poté impedirsi di rivedere certe immagini di Adrienne e confrontarle col ritratto delineato dal padre.


«Giocava poco, era capace di restare un’ora intera seduta alla finestra a guardar passare le nuvole in cielo.


«“Non ti annoi, tesoro?”.


«“Perché dovrei annoiarmi?”.


«Certe volte io e mia moglie ci spaventavamo per quella calma che prendevamo per mancanza di vitalità. Il dottor Marnier ci tranquillizzava.


«“Non vi preoccupate. Quando si sveglierà, farete fatica a tenerla ferma. Quella bambina ha un’intensa vita interiore”».


Regnò il silenzio. Blanchet ne approfittò per tossire a sua volta, in modo meno insistente del suocero. Vennero serviti filetti di sogliola.


«In seguito sono diventate gelose l’una dell’altra, benché noi avessimo fatto di tutto per evitarlo. Credo che capiti in tutte le famiglie. È iniziato quando Jacqueline ha avuto il permesso di stare alzata un’ora in più di sua sorella.


«Per mesi Adrienne si è rifiutata di addormentarsi. Cascava dal sonno, ma teneva duro, cosicché abbiamo finito per scendere a un compromesso. Sarebbero andate a dormire alla stessa ora, una via di mezzo tra l’ora di Adrienne e quella di Jacqueline».


«Era ingiusto verso Jacqueline» osservò Alain.


Gli faceva uno strano effetto chiamarla con quel nome invece di Micetta.


«Lo so. Con i bambini non c’è giustizia possibile.


«A tredici anni, Adrienne pretendeva di vestirsi come sua sorella, che ne aveva sedici, di modo che sembrava già un’adolescente.


«Due anni dopo ha cominciato a fumare. Io e mia moglie abbiamo cercato di mostrarci il più aperti possibile. Con l’una come con l’altra. Se si fossero ribellate, sarebbe stato peggio».


Restò con lo sguardo sospeso. Poi la realtà gli si ripresentò di colpo e aggiunse con un filo di voce:


«Cosa sarebbe stato peggio?».


Guardò i due generi.


«Non so chi tra voi due sia più da compatire».


Incupito, si rimise a mangiare. Si sentiva solo il tintinnio delle forchette sulla porcellana.


Arrivò Albert a portare via i piatti, poi servì della pernice, riempì i bicchieri di borgogna.


«Sono andato a vederla, laggiù» disse Blanchet.


All’Istituto medico-legale. Dei cassetti di metallo, tipo classificatori, dov’erano riposti i corpi.


«Io non ne avrei avuto la forza» mormorò il padre.


Era davvero la realtà quella? O una messinscena dove tre attori recitavano la loro parte troppo lentamente? I silenzi erano numerosi, insopportabili. In certi momenti Alain aveva voglia di mettersi a gridare, di agitarsi, di fare una cosa qualsiasi, scagliare il piatto a terra, per esempio, di modo che tutto rientrasse nella vita.


Non parlavano delle stesse donne. Fage era rimasto a delle neonate, a delle bambine, a delle adolescenti.


«Quando sono nate le mie figlie speravo che un giorno si sarebbero confidate con me, che per loro sarei stato un amico e forse anche che avrei potuto rendermi utile».


Ci pensò su un attimo e si voltò verso Blanchet.


«Adrienne parlava molto con lei?».


«Non molto, no. Non sentiva il bisogno di esternare le sue emozioni».


«E con i vostri amici?».


«Era una brava padrona di casa senza mai mettersi in mostra. La sua presenza si notava appena».


«Visto! È rimasta la stessa. Aveva una vita interiore, era incapace di comunicare. E Jacqueline, Alain?».


Alain esitò, non sapendo che cosa dire. Non voleva addolorare quell’uomo che incassava con tanto pudore il colpo che la sorte gli aveva assestato.


«Micetta... Io la chiamavo così...».


«Lo so».


«Micetta ci teneva a mantenere integra la sua personalità, ed è per questo che ha continuato a lavorare. Io ero escluso da quell’ambito e lei non mi ha mai chiesto aiuto né consiglio. Una parte della giornata era soltanto sua. Il resto del tempo non mi lasciava un attimo».


«Curioso quello che dice. La rivedo seduta in una poltrona del mio studio, intenta a fare i compiti. Entrava senza fare il minimo rumore e, alzando la testa, io mi stupivo di trovarmela di fronte.


«“Hai bisogno di parlarmi?”.


«“No”.


«“Sicura di non avere niente da dirmi?”.


«Lei scuoteva la testa. Era contenta di starsene seduta lì, nient’altro, e io riprendevo il mio lavoro.


«Quando ha deciso di continuare gli studi a Parigi invece di restare ad Aix, ho capito che non voleva essere la figlia del professore».


Sbagliato! Micetta aveva deciso di vivere per conto suo.


«Ovviamente Adrienne ha seguito la stessa strada, cosicché io e mia moglie siamo rimasti soli proprio quando speravamo di goderci appieno le nostre figlie».


Guardò prima l’uno poi l’altro.


«Siete stati voi due a godervele».


Cos’avevano servito per dessert? Alain non se lo ricordava. Si alzarono di nuovo, seguirono il padrone di casa nello studio dove venne offerta loro una scatola di sigari.


«Caffè?».


Alain non osava guardare l’orologio. La pendola stile Impero sul camino era ferma.


«Non mi sono mai immischiato nelle loro faccende. Non ho mai insistito perché mi scrivessero più spesso e mi raccontassero di loro. Hanno continuato a vedersi dopo sposate?».


Alain e Blanchet si rivolsero uno sguardo interrogativo. Blanchet disse:


«Qualche volta Jacqueline veniva a cena con suo marito. Non molto spesso».


«In media due volte all’anno» precisò Alain.


Il cognato colse una nota di rimprovero in quelle parole.


«Sapevate di essere sempre i benvenuti».


«Eravamo tutti molto occupati».


«Si telefonavano. E credo che si vedessero ogni tanto in città per un tè».


Alain avrebbe giurato che in sette anni fosse successo al massimo due volte.


«Ci incontravamo a teatro, al ristorante».


Fage guardava ora l’uno ora l’altro senza che niente nel suo sguardo lasciasse trapelare i suoi pensieri.


«Passavate i finesettimana in campagna, Alain?».


«A volte anche parte della settimana».


«Patrick come sta?».


«Ormai è un ometto».


«Conosce i suoi cugini?».


«Si sono incontrati».


Fage non chiese quante volte e fu meglio così. Anche lui doveva sentirsi a disagio in quella casa che sembrava uno scenario teatrale e dove niente tradiva la vita quotidiana dei suoi abitanti.


«Non ha detto perché?».


Di punto in bianco la conversazione tornò all’argomento principale.


Alain scosse la testa.


«Nessuno di voi due lo sa?».


Un silenzio più profondo fu la sola risposta.


«Forse Jacqueline si deciderà a parlare?».


«Ne dubito» sospirò Alain.


«Crede che mi permetteranno di vederla?».


«Sono sicuro di sì. Si rivolga al giudice istruttore Bénitet. È un tipo perbene».


«Con me parlerà?».


Ne dubitava al punto che abbozzò un sorriso mesto. Aveva una carnagione pallidissima, le labbra quasi esangui e, nonostante l’altezza, sembrava fragile.


«Credo di capirla, in fondo».


Li guardò di nuovo. Ad Alain parve di cogliere più simpatia nell’occhiata che rivolgeva a lui rispetto a quella indirizzata a Blanchet. Simpatia, ma anche curiosità, e perfino una certa diffidenza?


«Forse è meglio così...» sospirò alla fine.


Blanchet era l’unico a fumare un sigaro, il cui odore dolciastro appesantiva l’atmosfera. Alain era alla quarta o quinta sigaretta. Fage non fumava. Tirò fuori una scatolina dalla tasca e si portò alla bocca una pasticca.


«Le faccio portare un bicchier d’acqua?».


«Non serve. Ci sono abituato. È una medicina per stimolare la circolazione. Niente di serio».


Che cosa restava ancora da dire? Blanchet aprì l’armadietto dei liquori.


«Cosa posso offrirvi? Ho un armagnac invecchiato...».


«No, grazie».


«No, grazie».


Ci rimase male, e con quel corpaccione flaccido sembrava un bambino imbronciato.


Si voltò verso Fage.


«Mi scuso per non averglielo proposto prima. Non starebbe meglio qui che in hotel? Abbiamo una stanza per gli ospiti».


«Grazie, ma mi trovo bene al Lutetia, ci vado da tanti anni! Quando venivo a Parigi ci alloggiavo già da studente, come la maggior parte dei miei compagni e dei miei professori. Gli ambienti sono un po’ vecchiotti, come me...».


Si alzò, allungando il corpo magro come una fisarmonica.


«È ora che vada. Grazie a tutti e due».


Non aveva lasciato trapelare niente di quello che pensava. Si era limitato a fare qualche domanda. E forse non solo per discrezione.


«Vado anch’io» dichiarò Alain.


«Non resti ancora un po’?».


Blanchet aveva voglia di parlare con lui? Oppure temeva quello che avrebbe potuto dire al suocero?


«È ora che vada a dormire».


Albert porse loro i cappotti.


«Domani allestiremo la camera ardente nel salone».


Le porte erano aperte e l’ambiente sembrava smisurato. Chissà se il padre se lo stava immaginando con i paramenti neri, il feretro isolato al centro, circondato da ceri.


«Grazie, Roland».


«Buonanotte, signor Fage».


Alain seguì il suocero giù per le scale. I loro passi fecero scricchiolare il ghiaino del viale su cui gocciolavano alberi neri come la pece.


«Arrivederci, Alain...».


«Sono in macchina. Posso accompagnarla».


«Grazie, ma ho bisogno di fare due passi».


Guardava la strada deserta, ancora lucida, e sospirò come rivolto a se stesso:


«Ho bisogno di stare da solo».


Alain rabbrividì, si affrettò a stringere la mano ossuta e si precipitò verso l’auto.


Un peso nuovo gli gravava sulle spalle. Gli sembrava di avere appena ricevuto una lezione e si sentiva come uno scolaretto.


Anche lui avrebbe avuto bisogno di stare da solo, ma non ne aveva il coraggio. Guidava chiedendosi dove avrebbe potuto trovare qualcuno, uno qualunque di quelli a cui diceva:


«Ciao, cocco!».

Gli avrebbero fatto posto. Il barista si sarebbe sporto verso di lui.


«Un doppio scotch, signor Alain?».


Si vergognava. Era più forte di lui.

5

C’era una suoneria, lontanissima e vicinissima al tempo stesso, poi un silenzio, poi di nuovo la suoneria, come se qualcuno gli stesse lanciando dei segnali. Ma chi mai poteva essere? Era incapace di muoversi, si trovava in un buco. Doveva aver ricevuto una botta in testa perché gli doleva.

Quella sensazione durò a lungo, finché non capì di essere a letto e si alzò, malfermo sulle gambe.

Era completamente nudo. Sull’altro cuscino vedeva una chioma rossa. Adesso era chiaro che stavano suonando alla porta, così cercò la vestaglia, la trovò buttata a terra e la infilò a fatica.

Nell’attraversare lo studio si rese conto che il sole non era ancora sorto su Parigi. Si vedeva solo una linea gialla, in lontananza, oltre i tetti. Il campanello aveva ripreso a squillare quando aprì la porta e si trovò di fronte una giovane donna sconosciuta.

«Me l’aveva detto, la portinaia...».

«Che cosa le ha detto la portinaia?».

«Che non avrebbe risposto subito. Sarà meglio che mi dia un paio di chiavi».

Alain stentava ancora a capire. Gli scoppiava la testa. Squadrò sbigottito quella personcina rotondetta che non aveva peli sulla lingua e tratteneva a stento un risolino.

«Non dev’essere andato a letto tanto presto, eh?» commentò lei.

Si tolse il cappotto blu di lana grossa. Alain fu lì lì per chiederle chi fosse.

«La portinaia non le ha parlato di me?».

Gli sembrava di non vedere la portinaia da anni.

«Sono la nuova donna di servizio. Tutti mi chiamano Mina».

Aveva posato un involto di carta velina su un tavolo.

«Mi hanno detto che devo svegliarla alle otto con un bel po’ di caffè e dei croissant. La cucina dov’è?».

«È solo un cucinino. Da questa parte».

«E l’aspirapolvere?».

«Nell’armadio a muro».

«Torna a letto?».

«Sì, mi sa di sì».

«La sveglio lo stesso alle otto?».

«Non lo so. No. La chiamo io».

Aveva l’accento di Bruxelles e Alain fece per chiederle se era fiamminga. Ma per il momento era troppo complicato.

«Faccia quel che vuole».

Tornò in camera, chiuse la porta, guardò accigliato la chioma rossa e rimandò a più tardi anche quel problema.

Aveva urgente bisogno di un paio di aspirine. Le masticò, perché il suo medico gli aveva detto che le mucose della bocca assorbono i medicinali più in fretta di quelle dello stomaco. Bevve un po’ d’acqua di rubinetto.

Vedendo il pigiama appeso dietro la porta, si tolse la vestaglia e se lo infilò.

Non si ricordava niente, il che gli era successo al massimo due o tre volte nella vita. La vasca era piena di acqua schiumosa. Era stato lui a farsi il bagno? O la rossa sconosciuta?

Aveva cenato da quell’imbecille di Blanchet. Lugubre! Sinistro! Se n’era andato sbattendo la porta? No. Si rivedeva sul marciapiede con Fage. Proprio un bel tipo! Gli sarebbe piaciuto confidare a un uomo come Fage tutto quello che lo tormentava.

Eh, già, perché di fronte al suo atteggiamento cinico gli altri credevano che niente lo tormentasse. Ciò non toglie che se Fage non fosse stato suo suocero...

Lo rivedeva mentre si allontanava, avvolto nel lungo cappotto grigio, per la strada buia.

Aveva bevuto. Lì vicino, in un caffè che non conosceva, il primo che gli era capitato a tiro. Molto diverso dai caffè che frequentava di solito. Clientela abituale. Impiegati statali, probabilmente, che giocavano a carte. Il suo ingresso attirò l’attenzione. Se ne infischiava. Dovevano averlo riconosciuto per via delle foto apparse sui giornali.

«Un doppio!».

«Un doppio cosa?».

«Ma come, non lo sa?».

Il gestore non si lasciò impressionare.

«Se vuole che prenda una bottiglia a caso...».

«Whisky».

«Bastava dirlo. Perrier?».

«Chi ha parlato di Perrier?».

Era aggressivo. Aveva bisogno di sfogarsi.

«Acqua liscia».

«L’ha mai vista, lei, dell’acqua liscia?».

Là dentro non intimidiva nessuno.

«Dell’acqua naturale».

Non si era limitato a un bicchiere. Ne aveva bevuti tre o quattro e quando si era diretto alla porta lo avevano guardato tutti.

Lui si era voltato per guardarli a sua volta. Tutti imbecilli, sul genere di Blanchet, qualche tacca al di sotto. Gli aveva mostrato la lingua e poi ci aveva messo un po’ per ritrovare la macchina. Quella rossa, beninteso. La gialla era di Micetta. Ed era in garage. Sua moglie non ne avrebbe avuto bisogno per un bel pezzo.

Era strano, quasi indecente, immaginare sua moglie e sua cognata bambine e poi adolescenti. Dov’è che aveva attraversato la Senna? Si ricordava un ponte, la luna che aveva fatto capolino tra le nubi, i riflessi sull’acqua.

Aveva bisogno di ritrovarsi con i «ragazzi». Conosceva tutti i posti dov’era probabile incontrarli. Uno qualunque di loro. Non era forse l’uomo che aveva più amici sulla faccia della terra?

Non avrebbe dovuto sposarsi. O decidi di avere una moglie, oppure...

«Nessuno?».

«Non li ho visti, signor Alain. Un doppio?».

«Se vuoi, cocco».

Perché no? Non aveva nient’altro da fare. In ufficio non avevano bisogno di lui. Pensava a tutto Boris. Tipo curioso, quel Boris. Ma del resto era circondato da tipi curiosi.

«Arrivederci, Paul».

«Buonanotte, signor Alain».

Doveva essere andato da Chez Germaine, in rue de Ponthieu. Poi...

Prese un’altra aspirina, si lavò i denti, fece dei gargarismi perché si sentiva un saporaccio in bocca. Si sciacquò il viso con acqua fresca, si diede una pettinata. Non era un bello spettacolo. Provava disgusto per se stesso.

Si era fermato in altri posti, ma dove? Erano scomparsi tutti quella sera. Neanche uno della combriccola. Che cosa significava? L’avevano fatto apposta, per evitare di incontrarlo? Avevano paura di farsi vedere in sua compagnia?

Rientrò in camera da letto, raccolse un paio di mutandine e un reggiseno buttati sul tappeto e li posò su una sedia, sollevò la coperta.

Trovò un viso sconosciuto, un viso molto giovane che nel sonno aveva un’aria innocente. Le labbra sporgevano in un broncio infantile.

Chi era? Che cos’era successo?

Un po’ barcollante, si chiese se non fosse il caso di rimettersi a letto a dormire. Si sentiva pulsare il sangue dietro gli occhi ed era una sensazione piuttosto sgradevole.

Tornò nello studio, dove la donna di servizio aveva cominciato a rassettare. Si era cambiata e adesso indossava un vestito da lavoro di nylon abbastanza trasparente da lasciare intravedere il nero delle giarrettiere.

«Come si chiama?».

«Gliel’ho già detto, Mina».

Aveva la risata facile. Doveva essere un tic.

«Allora, Mina, mi faccia un caffè bello forte».

«Mi sa che ne ha bisogno».

Alain non si risentì. La guardò dirigersi sculettando verso il cucinino e si disse che un giorno o l’altro avrebbe fatto l’amore con lei. Non era mai andato a letto con una donna di servizio. Erano sempre piuttosto stagionate e si ricordava solo facce dure e tragiche. Povere disgraziate, che ce l’avevano con il mondo intero.

La striscia gialla, in cielo, si era allargata. Il giallo era diventato più brillante. Non pioveva. Lo sguardo spaziava più lontano delle mattine precedenti e si vedevano le torri di Notre-Dame.

Chi doveva telefonargli? Era una delle poche cose che ricordava. Qualcuno doveva telefonargli. Era importante. Aveva promesso che sarebbe stato in casa.

Gli arrivò, familiare, l’odore del caffè. Mina non poteva sapere che lo prendeva nella tazzona blu che aveva fatto molta fatica a trovare, una tazza grande tre volte una tazza normale.

Si diresse verso il cucinino. Dal suo sguardo capì che lei credeva andasse lì per un altro motivo. Non era spaventata. Aspettava dandogli le spalle.

Alain aprì l’armadietto.

«Questa è la mia tazza, quella che uso tutte le mattine».

«Bene, signore».

Perché continuava a trattenere a stento le risate? Che cosa le avevano raccontato sul suo conto? Qualcuno doveva pur averle parlato di lui. Negli ultimi giorni erano a migliaia, a decine di migliaia a parlare di lui.

«Glielo porto subito».

Lo trovò che spegneva una sigaretta. Il tabacco aveva un cattivo sapore.

«Non ha dormito granché stanotte, vero?».

Alain scosse la testa.

«Suppongo che la signora dorma ancora».

«Come fa a sapere che c’è qualcuno in camera mia?».

Mina raccolse in un angolo una scarpa di raso arancione dal vertiginoso tacco a spillo.

«Dovrebbero essercene due, no?».

«Direi proprio di sì».

Lei scoppiò a ridere.

«È buffo».

«Cos’è buffo?».

«Niente. Tutto. Lei».

Si scottò prendendo un sorso di caffè.

«Quanti anni ha?».

«Ventidue».

«È a Parigi da molto?».

«Solo da sei mesi».

Non osò chiederle che cosa avesse fatto in quei sei mesi. Lo stupiva che si fosse messa a fare la donna di servizio.

«È vero che mi prende solo per mezza giornata?».

Lui alzò le spalle.

«Per me fa lo stesso. E per lei?».

«Preferirei un posto a tempo pieno».

«D’accordo».

«Mi pagherà il doppio?».

«Come vuole».

Finalmente riuscì a bere il caffè, a piccoli sorsi. Dapprima ebbe un conato, poi lo stomaco si abituò.

«Alla signora non seccherà?».

«Non ne ho la minima idea».

«Non va a svegliarla?».

«Forse. Sarebbe il caso».

«Per ogni evenienza vado a fare dell’altro caffè. Mi chiami quando ha bisogno».

La guardò di nuovo allontanarsi ancheggiando. Si decise ad aprire la porta, se la richiuse alle spalle, si avvicinò al letto e sollevò il lenzuolo di qualche centimetro.

Un occhio verde-azzurro si socchiuse, scivolò su di lui dal basso in alto, fino al viso. Senza muoversi, la ragazza mormorò con una voce impastata:

«Hello, Alain».

Lei si ricordava. Se era stata sbronza, non lo era stata quanto lui.

«Che ore sono?».

«Non lo so. Non ha importanza».

Aveva aperto entrambi gli occhi. Gettò via il lenzuolo, scoprendo due seni sodi dalla punta rosa appena pronunciata.

«Come ti senti?» gli chiese.

«Male!».

«Be’, te la sei cercata».

Parlava con un leggero accento inglese e Alain le domandò:

«Sei inglese?».

«Da parte di madre».

«Come ti chiami?».

«Non te lo ricordi? Bessie...».

«Dove ci siamo incontrati?».

Si era seduto sul bordo del letto.

«Non ci sarebbe un po’ di caffè, per caso?».

Gli pesò alzarsi, attraversare lo studio, raggiungere il cucinino.

«Aveva ragione, Mina. Vuole del caffè».

«Arrivo tra un attimo. Niente croissant? La portinaia mi ha detto di portarli su».

«Se vuole».

Tornò in camera. Bessie non era più nel letto disfatto. La vide spuntare dal bagno, completamente nuda, e rimettersi a letto, tirandosi il lenzuolo fino alle ginocchia.

«Di chi è lo spazzolino da denti sul lato sinistro dello specchio?».

«Se ha il manico verde è di mia moglie».

«Quella che è...».

«Sì, quella che è...».

Bussarono alla porta. Bessie non si mosse. Mina entrò reggendo un vassoio.

«Dove lo appoggio?».

«Dia qui».

Le due donne si guardarono con una curiosità priva di imbarazzo.

Dopo che Mina fu uscita, Bessie domandò:

«È da molto che lavora qui?».

«Da stamattina. L’ho vista per la prima volta quando sono andato ad aprire la porta».

Bessie bevve avidamente il caffè.

«Che cosa volevi sapere?».

«Dove ci siamo incontrati».

«Al Grelot».

«In rue Notre-Dame-de-Lorette? Strano. Non vado mai da quelle parti».

«Cercavi qualcuno».

«Chi?».

«Non l’hai detto. Continuavi a ripetere che era fondamentale trovarlo».

«Sei un’entraîneuse?».

«Ballerina. Ed ero in compagnia».

«Di chi?».

«Due amici tuoi. Un certo Bob...».

«Demarie?».

«Mi pare di sì. È uno scrittore».

Era Demarie. Due anni prima gli avevano dato il Prix Renaudot e lavorava per «Toi».

«E l’altro?».

«Aspetta... Un fotografo dall’aria triste e macilenta. Con la faccia un po’ di traverso...».

«Julien Bour?».

«Sì, possibile».

«Con i vestiti stazzonati?».

«Esatto».

Bour aveva perennemente i vestiti stazzonati e, forse perché teneva sempre la testa inclinata, sembrava che avesse la faccia sbilenca.

Uno strano tipo. Era lui che faceva le foto più belle per la rivista. Non dei nudi sfacciati come ne pubblicavano altrove. «Toi» era pensata per entrare nell’intimità delle persone. Le ragazze, le donne, dovevano riconoscersi. Una giovane addormentata, per esempio, con un seno scoperto, un seno che assumeva una specie di valore umano. Questo almeno era il discorsetto che Alain propinava ai suoi collaboratori.

«I testi devono sembrare lettere scritte dalle nostre stesse lettrici».

Niente ambientazioni sofisticate. Una stanza come tante. Niente visi troppo truccati, lunghe ciglia, labbra scarlatte schiuse su denti smaglianti.

L’idea gli era venuta un pomeriggio mentre guardava sua cognata rivestirsi. All’epoca scriveva articoli sull’ambiente del teatro e dei cabaret. Aveva persino composto qualche canzone.

Il titolo lo aveva trovato subito.

«Toi...» aveva mormorato a fior di labbra.

«Io? Che cos’ho di diverso dalle altre?».

Appunto, lei era come tutte le altre.

«Mi è venuta un’idea, per una nuova rivista. Te ne parlerò la prossima volta».

Aveva preparato un menabò e scritto tutti i testi. Non conosceva ancora Bour e aveva dovuto sudare sette camicie per ottenere dai fotografi quello che voleva.

«No, vecchio mio. Questa non sembra una ragazza vera».

«Mi ci vedi a chiedere a una ragazza vera il permesso di fotografarle le chiappe?».

Un tipografo gli aveva fatto credito. Lusin, che era diventato il suo agente pubblicitario, gli aveva scovato l’appartamento al quinto piano, in rue de Marignan.

«A che cosa pensi?» gli chiese Bessie sbocconcellando un croissant.

«Credi che sia in grado di pensare? Come mi sono comportato al Grelot?».

«Hai parlato un sacco di un tipo che ha la faccia più bella del mondo».

«Non ho detto chi era?».

«Avevi appena cenato con lui».

«Mio suocero?».

«È possibile. Avresti voluto dirgli delle cose fondamentali. Era tutto fondamentale. Mi hai fatto sedere al tuo fianco e mi hai accarezzato la coscia».

«Gli altri non hanno protestato?».

«Il fotografo non era contento. A un certo punto hai rovesciato il bicchiere. Ti ha sgridato perché bevevi troppo e tu hai minacciato di spaccargli la faccia. Gli hai anche rivolto un insulto che non avevo mai sentito. Aspetta... Gli hai dato del viscido! Credevo sul serio che avreste finito per venire alle mani, e lui pure, ma poi se n’è andato».

«Da solo?».

«L’altro è andato via poco dopo».

«E noi?».

«Hai ordinato una magnum di champagne dicendo che era una porcheria ma che era un giorno da champagne. L’hai bevuto quasi tutto tu. Io ho preso solo tre o quattro bicchieri».

«Eri sbronza anche tu?».

«Un po’. Un bel po’».

«Ho guidato fin qui?».

«Il padrone del locale te l’ha impedito. Siete rimasti a discutere per un pezzo sul marciapiede e alla fine sei salito sul taxi».

Alain le portò via il vassoio che non le serviva più.

«Abbiamo fatto l’amore?».

«Non te lo ricordi?».

«No».

«Io ero mezzo addormentata e tu ti sei incattivito. Mi gridavi: “Godi! Avanti, godi, troia!”.

«Mi hai persino mollato un paio di sberle, continuando a urlare sempre la stessa cosa».

Scoppiò a ridere e lo guardò con gli occhi che le brillavano.

«La cosa più divertente è che ha funzionato».

«Chi ha fatto un bagno?».

«Tutti e due».

«Insieme?».

«Ci tenevi tanto. Poi sei andato a versarti un bicchiere. Non hai sonno?».

«Mi gira la testa. Sono tutto indolenzito».

«Prendi un’aspirina».

«Ne ho già prese tre».

«Hai ricevuto la telefonata che aspettavi?».

«No. Non so nemmeno chi deve chiamarmi».

«Lo avrai ripetuto almeno dieci volte, tutto serio».

Le accarezzò il fianco con gesto automatico.

Era la prima volta che una donna che non era Micetta dormiva in quel letto, dove lei si trovava solo tre notti prima. Che giorno era?

Forse non avrebbe dovuto. Ci avrebbe pensato poi. Gli bruciavano le palpebre.

Si rimise a letto. Si sentiva meglio così e avvertiva il ronzio dell’aspirapolvere nella stanza accanto. Con la mano cercò di nuovo il fianco di Bessie. Aveva la stessa pelle morbida e chiara di Adrienne.

Non voleva pensare né a sua moglie né a sua cognata. Due, tre volte gli sembrò di addormentarsi, ma ogni volta finiva per rendersi conto che si era solo assopito. Per quanto gli apparisse sfocato, strano, il mondo continuava a esistere. Si sentiva persino, in lontananza, il frastuono degli autobus, e ogni tanto uno stridore di pneumatici.

Si dimenò per togliersi il pigiama, che spinse via in fondo alle lenzuola.

La sentiva, calda, contro di lui. Non si mosse. Si rifiutava di uscire dal limbo in cui era sprofondato e fu lei, con le sue dita dalle unghie appuntite, a spingerlo dentro di sé.

 

 

Stavolta riconobbe la suoneria del telefono e si ridestò all’istante. Allungò il braccio verso l’apparecchio e gettò un’occhiata all’orologio, che segnava le undici.

«Pronto! Parla Alain Poitaud».

«Rabut. Ho provato prima in ufficio. Sono ancora alla Petite Roquette. Torno nel mio studio e mi piacerebbe incontrarla tra una mezz’ora».

«Ci sono novità?».

«Dipende da che cosa si intende per novità. Ho bisogno di lei».

«Arrivo. Forse un po’ in ritardo».

«Non troppo. Ho un altro appuntamento e alle due ho un’udienza».

Scese dal letto e si buttò nella doccia. Era ancora sotto l’acqua quando Bessie entrò in bagno.

Si infilò un accappatoio di spugna e cominciò a radersi.

«Stai via per molto?».

«Non ne ho idea. È possibile che rimanga fuori per il resto della giornata».

«E io? Che cosa faccio?».

«Quello che vuoi».

«Posso dormire ancora un po’?».

«Se ti va».

«Non vuoi che ti aspetti qui stasera?».

«No. Stasera no».

«E quando?».

«Vedremo. Lasciami il tuo numero di telefono. Vuoi dei soldi?».

«Non è per questo che sono venuta».

«Non voglio sapere perché sei venuta. Non ha importanza. Hai bisogno di soldi?».

«No».

«Bene, versami un whisky. Nello studio c’è una specie di angolo bar».

«L’ho visto ieri notte. Posso andarci così come sono?».

Alain alzò le spalle. Cinque minuti dopo si infilava i pantaloni. Allungò il whisky con un po’ d’acqua e lo mandò giù d’un fiato, come una medicina. Si ricordò che l’auto non era parcheggiata sotto casa. Più tardi sarebbe stato necessario andare a prenderla in rue Notre-Dame-de-Lorette.

«Scusami, cocca. È una faccenda seria».

«Ho sentito. Chi è?».

«L’avvocato».

«L’avvocato di tua moglie?».

Entrò nello studio.

«Allora, mi prende per l’intera giornata?».

«D’accordo. Sul tavolo della cucina troverà una chiave. È la sua. Sveglia domattina alle otto con caffè e croissant».

Scese le scale saltando tre o quattro gradini alla volta e fermò un taxi all’angolo della strada.

«Boulevard Saint-Germain. Al 116, mi pare».

Non si sbagliava. Si ricordava che l’appartamento di Rabut era al terzo piano e prese l’ascensore. Suonò. Gli aprì una segretaria occhialuta che sembrò riconoscerlo.

«Si accomodi. Dovrà attendere un attimo, l’avvocato Rabut è occupato al telefono».

A destra c’era una porta a due battenti, a sinistra un corridoio su cui si affacciavano degli uffici. Si sentiva il ticchettio delle macchine da scrivere. Rabut si avvaleva di svariati stagisti che passarono a turno in corridoio per gettargli un’occhiata.

Finalmente la porta si aprì.

«Venga, vecchio mio. Ho appena trascorso un’ora con sua moglie».

«Si è decisa a parlare?».

«Non nel senso che speravamo. Sulla faccenda resta muta. E anche su altre, del resto. Comunque non mi ha dato il benservito, e questo è un passo avanti. Sa che è una donna molto intelligente?».

«Me l’hanno detto spesso».

Non aggiunse che non era la qualità che più apprezzava in una donna.

«Ha una forza di carattere fuori dal comune. È il suo secondo giorno in prigione. Le hanno assegnato una piccola cella dove sta da sola. Le avevano proposto di metterla insieme a un’altra detenuta, ma ha rifiutato. Forse cambierà idea».

«Porta la divisa?».

«I detenuti in custodia cautelare indossano abiti propri. Non è tenuta a lavorare. Non ne vuole sapere di incontrarla. Su questo punto è categorica. Non alza la voce, non si scompone. Una volta che ha detto una cosa, si capisce che è inutile tornarci su.

«“Gli dica che non intendo rivederlo, tranne che al processo, perché è indispensabile, e comunque saremo lontani”.

«Si è espressa in questi termini. Quando le ho detto del suo sgomento, lei ha risposto serafica:

«“Lui non ha mai avuto bisogno di me. Ha bisogno della gente, chiunque sia. Non ha importanza chi si trova al suo fianco”».

Quella frase colpì Alain al punto che non sentì una parte del seguito.

«Ha bisogno della gente».

Era vero. Aveva sempre avuto bisogno di avere intorno a sé quelli che chiamava i «ragazzi», o i suoi collaboratori. Quando era solo cominciava ad agitarsi, un’agitazione vaga, morbosa. Non si sentiva al sicuro e per questo, nonostante fosse ubriaco, si era portato a casa una donna la notte prima. Cos’avrebbe fatto quella sera? E l’indomani?

Si vedeva tutto solo nell’ex studio d’artista, davanti alla Parigi notturna.

«Il padre la vedrà dopo mezzogiorno. Lui, ha accettato subito di incontrarlo.

«“Povero papà! È soprattutto per lui che sarà più dura”.

«Quando le ho detto che sua madre era malata, non ha avuto la minima reazione, sembrava non le interessasse nemmeno.

«Ho voluto che discutessimo della linea di difesa. Non possiamo lasciare che la condannino a vent’anni, se non addirittura all’ergastolo, perciò abbiamo bisogno di un movente che impietosisca la giuria. Io non vedo altro che il dramma passionale. Lei è fuori gioco».

«Perché?».

«Me l’ha detto lei stesso. Non incontrava più la sorella da quasi un anno. Difficile che io possa fare leva su una gelosia a scoppio ritardato. Non creda che intanto la polizia se ne resti con le mani in mano. Entro stasera, se non l’ha già fatto, avrà trovato il monolocale dove vi incontravate. No, bisogna assolutamente scoprire l’identità dell’altro».

Lanciò un’occhiata ad Alain, che era impallidito.

«È proprio necessario?».

«Mi sembrava di averglielo detto. Non pretendo che le faccia piacere, ma è un dato di fatto, a meno che né io né lei ci abbiamo capito un accidenti. Non ha notato niente di strano, in questi ultimi mesi, nel comportamento di sua moglie?».

Da pallido che era, ebbe l’impressione di diventare rosso, giacché aveva appena fatto una scoperta. Non ci aveva pensato fino a quel momento. C’era voluta la domanda secca di Rabut per ridestare i suoi ricordi, e forse anche quanto era successo quella mattina a letto con Bessie.

Per anni Micetta si era sempre mostrata sessualmente disponibile. Facevano spesso un giochino, che era il loro segreto. Lei leggeva, guardava la televisione o scriveva un articolo. Lui, all’improvviso, mormorava:

«Guardami, Micetta».

Lei si voltava distrattamente verso di lui, poi scoppiava a ridere.

«Ecco! Tanto vale che smetta. Si può sapere come fai a suggestionarmi?».

Invece, più di una volta, dall’inizio dell’estate, lei aveva risposto, un po’ in imbarazzo:

«Oggi no, ti dispiace? Non so che cos’ho. Mi sento stanca».

«Non è da te».

«Forse sto invecchiando».

Rabut lo osservava.

«Allora?».

«Forse».

«Che le piaccia o no, in tribunale bisognerà mettere tutto in piazza. Lei vuole che venga assolta, vero?».

«Ma certo».

«Anche se non ritornerà con lei?».

«Da quello che le ha detto, non ha nessuna intenzione di continuare a vivere con me».

«La ama ancora?».

«Suppongo di sì».

«La polizia si sta dando da fare. Forse troveranno il nostro uomo. Secondo me nessuno meglio di lei può farlo, dato che è molto probabile che sia qualcuno della vostra cerchia».

Rabut avvertiva che il suo interlocutore era un po’ sottosopra.

«Che cos’ha?».

«Non è niente. Ieri sera sono stato costretto a cenare da mio cognato e dopo mi sono preso una solenne sbronza. Ma la sto ascoltando».

«Sua moglie ha detto un’altra cosa che mi ha colpito e che le ho intimato di non ripetere. Le parlavo di vostro figlio Patrick. Le ho chiesto di pensare a lui, al suo futuro. E lei ha risposto, quasi con durezza:

«“Non ho mai avuto l’istinto materno”.

«È vero?».

Alain fu costretto a riflettere, a cercare delle immagini nella memoria. Quando era nato Patrick non erano ancora ricchi. Era stato poco prima che gli venisse l’idea della rivista. Micetta si era presa cura del bambino, a volte con eccessiva puntigliosità. Un po’ come quando batteva a macchina uno dei suoi articoli e se scopriva un refuso riscriveva la pagina da capo.

Per quasi due anni avevano vissuto tutti e tre a Parigi. Poi avevano preso una tata e, da quel momento, Micetta si era buttata di nuovo nel lavoro e lo raggiungeva ovunque, rincasando con lui a tarda notte.

Non la sfiorava nemmeno l’idea di passare a controllare il bambino che dormiva prima di andare a letto. Per lo più Alain lo faceva da solo.

Avevano comprato e ristrutturato Les Nonnettes, dove tornavano ogni finesettimana, e lei ne approfittava soprattutto per lavorare.

«Capisco quello che intende dire» mormorò.

Rabut si alzò, con lo sguardo rivolto all’orologio a muro. Sulla sua scrivania squillò il telefono. Rispose.

«Sì. Mi passi la comunicazione. È ancora qui».

E, tendendo la cornetta ad Alain:

«È il suo ufficio».

«Pronto, Alain? Sono Boris. È mezz’ora che cerco di rintracciarti. A casa tua una tizia di cui non ho riconosciuto la voce mi ha detto che eri uscito dopo aver ricevuto una telefonata. Ha parlato di un avvocato. Ho telefonato a Helbig, ma non era a casa. Quando l’ho trovato mi ha detto che eri da Rabut.

«Ci sono novità. Il commissario Roumagne è qui da quasi un’ora con due dei suoi uomini. Mi ha mostrato un documento firmato dal giudice istruttore e si è piazzato nel tuo ufficio. Ha perquisito meticolosamente ogni cassetto, poi mi ha chiesto un elenco del personale. Mi ha comunicato che intendeva sentire tutti ma che non sarebbe stata una cosa lunga. Ha voluto cominciare dalle centraliniste».

«Arrivo».

Riattaccò e si rivolse a Rabut, che iniziava a spazientirsi.

«Il commissario Roumagne è nel mio ufficio con due poliziotti. Ha perquisito i miei cassetti e interrogato il personale. Ha voluto cominciare dalle centraliniste».

«Cosa le avevo detto?».

«Crede che sospetti di uno dei miei collaboratori?».

«In ogni caso, adesso che ha fiutato una pista lei non riuscirà certo a fermarlo. Grazie di essere venuto. Cerchi di trovare il nostro uomo».

Il nostro uomo! L’espressione era talmente ironica che Alain non poté trattenere un sorriso.

«Ha bisogno di un bicchiere. Uscendo, sulla sinistra, c’è un bar tabacchi».

Alain era risentito. Ce l’aveva con l’avvocato per tutto, per il modo in cui l’aveva convocato nel suo studio, per il modo in cui gli aveva riferito le parole di Micetta e per il modo in cui aveva alluso al suo bisogno di bere.

Aspettò l’ascensore a testa china e in effetti si ritrovò al bancone del piccolo bar.

«Un doppio scotch».

«Come dice?».

«Un doppio whisky, se preferisce».

Alcuni operai in tenuta da lavoro lo squadrarono con curiosità. Non aveva voglia di vedere Roumagne. Anche lui avrebbe intuito, dal suo aspetto, come aveva trascorso la notte.

Non se ne vergognava. Era un uomo libero. Aveva passato la vita a provocare gli altri, a scandalizzarli apposta, così, per sport.

Perché allora, d’un tratto, si sentiva in imbarazzo quando gli altri lo guardavano in faccia? Non aveva fatto niente. Non c’entrava niente con quello che era successo. Migliaia di mariti vanno a letto con la cognata, si sa. Le sorelle minori tendono a fregare le cose alle sorelle maggiori.

Adrienne non l’aveva mai amato e lui se ne infischiava. Forse nemmeno Micetta lo aveva mai amato.

E poi, che cosa significava quella parola? Di amore, lui ne vendeva un milione di copie tutte le settimane. Di amore e di sesso. Era la stessa cosa.

Non gli piaceva sentirsi solo. E non per bisogno di scambiare idee, e nemmeno per bisogno d’affetto.

«Rue Notre-Dame-de-Lorette!» disse al tassista richiudendo la portiera.

Per bisogno di cosa, allora? Di una presenza, insomma, una presenza qualsiasi. I vecchi solitari hanno un cane, un gatto, un canarino. Altri si accontentano di un pesce rosso.

Non aveva mai considerato Micetta alla stregua di un pesce rosso ma, ora che rivedeva il passato con uno sguardo nuovo, si rendeva conto che per lui era stata soprattutto una presenza. Nei bar, nei ristoranti, in macchina. A destra, a pochi centimetri dal suo gomito.

Di mattina e nel pomeriggio aspettava la sua telefonata e si indispettiva quando lui tardava a chiamarlo. Quante volte in sette anni avevano avuto una conversazione vera e propria?

Quando aveva cominciato a sviluppare l’idea della rivista gliene aveva parlato, certo. Era preso dall’entusiasmo, sicuro di sfondare. Lei lo aveva guardato con un sorriso gentile.

«Che ne pensi?».

«Non è già stato fatto?».

«Non la stessa cosa. Mi pare che tu non colga il lato personale, intimo. Oggi ci si sforza di personalizzare tutto, proprio perché è tutto fabbricato in serie, compresi i divertimenti».

«Forse».

«Ti unirai alla squadra?».

«No».

«Perché?».

«La moglie del capo non deve far parte del personale».

E poi c’era stata Les Nonnettes. Avevano scoperto la casa un sabato pomeriggio durante un giro in campagna. La domenica, nell’alberghetto dove alloggiavano, lui aveva subito cominciato a fare progetti.

«È indispensabile per noi avere una casa in campagna, capisci?».

«Forse. Ma non è un po’ lontano da Parigi?».

«Abbastanza per tenere alla larga gli scocciatori, ma non tanto da scoraggiare i nostri amici».

«Pensi di invitarne molti?».

Lei non protestava, lo lasciava fare, lo assecondava. Ma senza condividere il suo entusiasmo.

«Si fermi qui. Dietro quell’auto rossa».

«È la sua?».

«Sì».

«Mi sembra di vedere due o tre foglietti sul parabrezza».

Proprio così. Si era beccato due contravvenzioni. La chiave era rimasta nel cruscotto. Il motore ci mise un po’ ad avviarsi. Alain guardò il locale dove, a parte la notte precedente, non aveva mai messo piede. Tra le foto di ragazze seminude riconobbe quella di Bessie, al centro, più grande delle altre, come se fosse la vedette.

Arrivò in rue de Marignan e parcheggiò nel cortile. Esitò a salire. Era mezzogiorno passato. Gli uffici al pianterreno erano chiusi.

Era arrivato al punto di aver paura di un vicecommissario della Polizia giudiziaria?

Entrò nell’ascensore. I corridoi e la maggior parte degli uffici erano deserti. Nel suo, che aveva la porta spalancata, trovò Boris ad aspettarlo.

«Se ne sono andati?».

«Da una decina di minuti».

«Hanno trovato qualcosa?».

«Non mi hanno detto niente. Non hai fame, tu?».

Alain fece una smorfia.

«Hai una faccia che fa spavento».

«Ho i postumi di una sbornia, tutto qui. Mi sforzerò di mangiare un boccone con te, così mi racconti».

Si aspettava di trovare il suo ufficio a soqquadro. Invece era in perfetto ordine.

«La tua segretaria ha rimesso tutto a posto».

«Com’era?».

«Il commissario? Gentile. Sulla scrivania c’era un mucchietto di foto, quelle che ho scartato perché troppo spinte. Be’, ha passato dieci minuti buoni a esaminarle. Bello sporcaccione, pure lui!».

6

Avevano trovato, dalle parti di place Saint-Augustin, un ristorante dove nessuno li conosceva, un finto bistrot, con tovaglie e tendine a quadretti rossi e una varietà di tegami di rame a mo’ di decorazione. Il padrone, in tenuta da cuoco, con tanto di cappello bianco, girava tra i tavoli a declamare il menu.


Nonostante il locale affollato, riuscirono ad avere un posticino. Tutte quelle persone che mangiavano e parlavano erano degli estranei per Alain. Non sapeva niente di loro. Avevano la loro vita, le loro preoccupazioni, il loro universo dove si muovevano con estrema serietà, come se tutto questo contasse qualcosa.


Perché sentiva la necessità di stare in mezzo alla gente? Non gli sarebbe mai venuto in mente di cenare a casa a tu per tu con Boris, per esempio. Avrebbe potuto organizzare la sua vita in maniera diversa.


Lui e Micetta ci avevano provato, per un certo periodo.


Lei si era messa in testa di cucinare. Mangiavano uno di fronte all’altro davanti alla grande vetrata oltre la quale si vedevano i tetti di Parigi.


Ogni tanto gli succedeva di guardare le labbra di sua moglie che si muovevano. Sapeva che lei stava parlando, ma le parole non lo raggiungevano, oppure erano senza senso. Gli sembrava che fossero tagliati fuori dalla vita, sprofondati di colpo in un mondo irreale, stagnante, da cui, in preda al panico, lui si sforzava di fuggire.


Era come sognare a occhi aperti. Aveva bisogno di darsi da fare, di sentire dei rumori, di vedere un viavai di esseri umani, di essere circondato.


Circondato, ecco la parola. Aveva bisogno di essere al centro, di sentirsi il protagonista?


Non era ancora disposto ad ammetterlo. Aveva sempre vissuto attorniato dai «ragazzi» e forse era per paura di ritrovarsi solo che tirava tardi tutte le sere.


I ragazzi? Non aveva creato intorno a sé una specie di piccola corte per farsi coraggio?


Gli portarono un carrello di affettati e Alain si sforzò di mangiare aiutandosi con una gran profusione di vino rosé.


«A te cos’ha chiesto?».


«Più o meno quello che ha chiesto agli altri. Innanzitutto, se tua moglie passava spesso a trovarti o a prenderti in ufficio. Gli ho risposto di no, che ti telefonava e che la incontravamo di sotto o al ristorante. E poi se conoscevo tua cognata. Ho detto la verità. Non l’ho mai vista».


«È venuta una volta, tre anni fa. Voleva vedere il posto dove passo la maggior parte del mio tempo».


«Io ero in ferie. Mi ha anche chiesto se hai un’agendina con i numeri di telefono personali. Ce l’hai?».


«No».


«È quello che gli ho detto. Poi mi ha fatto un’ultima domanda. Scusami se te la riferisco. Mi ha chiesto se sapevo che tua moglie aveva un amante. Se mi veniva in mente qualcuno, tra i tuoi collaboratori, che avrebbe potuto rivestire quel ruolo. E a te viene in mente qualcuno?».


Alain rispose, smagato:


«Potrebbe essere chiunque».


«Dopodiché ha chiamato le centraliniste. La prima a salire è stata Maud. Sai com’è fatta. Il commissario mi ha lasciato assistere agli interrogatori, forse apposta perché poi potessi riferirti tutto. Con Maud è andata più o meno così:


«“Da quanto tempo lavora per il signor Poitaud?”.


«“Saranno quattro anni il mese prossimo”.


«“È sposata?”.


«“Nubile, senza figli, e non vivo con un uomo, ma con una vecchia zia adorabile”.


«“È una delle amanti del signor Poitaud?”.


«“Vuole sapere se vado a letto con Alain? La risposta è sì. Di tanto in tanto”.


«“Dove?”.


«“Qui”.


«“Quando?”.


«“Quando lui ne ha voglia. Mi chiede di trattenermi dopo l’orario d’ufficio. Io aspetto che il personale se ne sia andato e poi salgo”.


«“Le sembra naturale?”.


«“Di certo non ha niente di sovrannaturale”.


«“Non siete mai stati colti in flagrante?”.


«“Mai”.


«“Che cosa sarebbe successo se fosse entrata sua moglie?”.


«“Immagino che avremmo continuato”.


«“Conosceva Adrienne Blanchet?”.


«“Conoscevo la sua voce”.


«“Telefonava spesso?”.


«“Suppergiù due o tre volte alla settimana. Le passavo il capo. Erano conversazioni piuttosto brevi”.


«“Quand’è stata l’ultima volta che ha chiamato?”.


«“L’anno scorso, prima delle vacanze di Natale”.


«“Sapeva che Alain Poitaud aveva una relazione con la cognata?”.


«“Sì. Ero io che telefonavo in rue de Longchamp”.


«“La incaricava di telefonare?”.


«“Per prenotare il monolocale e far mettere in fresco una bottiglia di champagne. A lei doveva piacere lo champagne. A lui non piace”.


«“E non è più successo dallo scorso dicembre?”.


«“Neanche una volta”.


«“La cognata non ha cercato di contattarlo?”.


«“Mai”».


Boris mangiava con appetito mentre parlava, Alain invece era nauseato dai salumi che riempivano i piatti.


«Le altre due centraliniste hanno confermato quanto riferito da Maud riguardo tua cognata. Poi è stato il turno di Colette».


La sua segretaria. L’unica a mostrarsi un po’ gelosa.


«Quando le ha chiesto se andava a letto con te, sulle prime si è irrigidita e ha tirato in ballo il rispetto della vita privata. Alla fine, però, lo ha ammesso».


Aveva trentacinque anni e lo coccolava come un bebè. Il suo sogno sarebbe stato di spupazzarlo tutto il giorno.


«Ha sentito anche le dattilografe, le impiegate dell’ufficio contabile e poi gli uomini.


«“Sposato? Padre di famiglia? Le spiace darmi il suo indirizzo? Cenava spesso con il capo e sua moglie?”.


«Io gli facevo segno di dire la verità. Anche a loro ha chiesto se conoscevano tua cognata. Poi ha voluto sapere se avevano mai incontrato Micetta in privato.


«Con alcuni, Diacre, per esempio, o Manoque, è andato per le spicce».


Diacre era brutto come la fame e Manoque aveva sessantotto anni.


«Bour è stato l’ultimo a essere sentito. Era appena arrivato in ufficio e aveva più o meno la tua stessa cera».


«Abbiamo passato un po’ di tempo insieme la notte scorsa. C’era anche Bob Demarie. Eravamo tutti e tre sbronzi».


«Questo è quanto. Ho l’impressione che il commissario sia tutt’altro che un idiota e sappia il fatto suo».


Prima che gli portassero la bistecca che avevano ordinato, Alain si accese una sigaretta. Non si sentiva bene, né moralmente né fisicamente. Il cielo era cupo. E anche lui.


«Oggi è venerdì?».


«Sì».


«Hanno allestito una camera ardente in rue de l’Université. Mi chiedo se non sia il caso di fare un passaggio».


«Tu lo sai meglio di me. Non dimenticare che è stata tua moglie a...».


Lasciò la frase in sospeso. Certo, era stata sua moglie ad ammazzare la donna adagiata nella bara.


Tornò in ufficio. Se non avesse dovuto riaccompagnare Boris, forse sarebbe andato a casa a dormire.


«La segretaria dell’avvocato Rabut ha lasciato detto di telefonare al suo rientro».


«Mi passi la comunicazione».


Poco dopo Colette gli allungò la cornetta.


«Signor Poitaud? Parla la segretaria dell’avvocato Rabut».


«Lo so».


«L’avvocato si scusa per essersi dimenticato di dirglielo stamattina. Sua moglie gli ha dato una lista di cose che vorrebbe che le facesse avere il prima possibile. Vuole che gliela mandi?».


«È lunga?».


«Non molto».


«Me la detti».


Si avvicinò un bloc-notes e annotò in colonna la lista di oggetti.


«Innanzitutto un abito di jersey grigio che si trova nell’armadio di sinistra, a meno che non sia stato portato in tintoria. Lei dovrebbe sapere quale. Una gonna di lana nera, l’ultima, con tre grossi bottoni. Quattro o cinque camicie bianche, le più semplici. Laggiù ci vuole quasi una settimana per riavere indietro la roba dalla lavanderia».


Gli sembrava di vedere Micetta, di sentirla parlare. Ogni volta che dovevano andare in un hotel era sempre la stessa storia.


«Le due sottovesti di nylon bianche, quelle senza pizzo. Una dozzina di collant, gli ultimi comprati, che sono in una bustina di seta rossa».


Si trovava alla Petite Roquette, accusata di omicidio. Rischiava l’ergastolo e si preoccupava delle calze.


«Vado troppo veloce? Le pantofole di vernice nera e le ciabattine da bagno. Il suo accappatoio. Un paio di scarpe nere col tacco largo. Una boccetta, non troppo grande, del suo solito profumo. Lei sa quale».


Anche il profumo! Non si scomponeva, lei! Teneva duro, restava ben ancorata alla vita!


«Una piccola scorta di sonniferi e le sue pastiglie per il bruciore di stomaco. Dimenticavo: ha aggiunto pettine e spazzola».


«L’ha scritta lei stessa la lista?».


«Sì. L’ha consegnata all’avvocato Rabut e si è raccomandata che gliela facesse avere il prima possibile. Ha aggiunto una parola che faccio fatica a leggere. È scritta a matita su un pezzo di carta di qualità scadente. So... Sì, sono due r. Sorry...».


Ogni tanto succedeva che si parlassero in inglese. Sorry! Scusami.


Alain guardò Colette che lo stava osservando, ringraziò e riattaccò.


«Non è troppo scossa per l’interrogatorio?».


E, dato che lei aveva sgranato gli occhi:


«Oh, scusa. Chissà perché ti ho dato del lei. Ti ha imbarazzato ammettere che ogni tanto andiamo a letto insieme?».


«Sono questioni private».


«È quello che uno crede. Ciascuno si illude che la sua vita gli appartenga. Poi succede qualcosa e tutto viene spiattellato in pubblico».


Aggiunse con ironia:


«Io spiattello!».


«Soffri?».


«No».


«Non è solo una facciata?».


«Ti assicuro che quelle femmine potrebbero essere andate a letto con il mondo intero e la cosa non mi sconvolgerebbe minimamente».


Povera Colette! Era rimasta una sentimentale. Avrebbe potuto essere una delle lettrici di «Toi». Doveva essere una delle poche, tra quelli che lavoravano lì dentro, a prendere sul serio la rivista.


Avrebbe preferito vederlo distrutto. Così lui avrebbe posato la testa sulla sua spalla e lei lo avrebbe consolato.


«Scappo. Devo portarle le sue cose».


Riprese l’auto che aveva lasciato in cortile e rifece ancora una volta la strada che conosceva a memoria. L’aria rinfrescava. I passanti camminavano con un’andatura un po’ più spensierata del giorno prima e si attardavano davanti alle vetrine.


Prese l’ascensore, aprì con la sua chiave e lì per lì si meravigliò di trovarsi davanti la nuova donna di servizio. Dunque aveva deciso di lavorare a tempo pieno. Nel corridoio, armadi e cassetti erano aperti.


«Che cosa sta facendo, cocca?».


Le dava ancora del lei. Fu il primo a stupirsene. Sarebbe durata ancora per poco.


«Se voglio rendermi utile, è bene che sappia dove sono le cose. E intanto ne approfitto per dare una bella spazzolata agli abiti che ne hanno bisogno».


«In tal caso mi darà una mano».


Tirò fuori la lista dalla tasca e andò a prendere una valigia abbastanza capiente.


«Il vestito di jersey grigio».


«Avrebbe bisogno di essere smacchiato».


«Mia moglie non si ricordava più se lo aveva mandato in tintoria o no. Pazienza! Me lo dia».


Poi passò alle sottovesti, alle mutandine, alle calze, alle scarpe e tutto il resto.


«Lasci fare a me, sta ficcando tutto dentro alla rinfusa».


La guardò meravigliato. Non solo era una bella ragazza, giovane e appetitosa, ma sembrava anche sapere il fatto suo.


«È da portare in prigione?».


«Sì».


«Anche il profumo?».


«A quanto pare. Finché sono in custodia cautelare hanno diritto a un regime speciale. Non so fino a che punto».


«L’ha vista?».


«Non vuole vedermi. A proposito, la persona che stamattina era nel mio letto...».


Si aspettava che Bessie fosse ancora in casa.


«Si è alzata poco dopo che lei è uscito, mi ha chiesto dell’altro caffè ed è venuta in cucina a prepararlo con me».


«Tutta nuda?».


«Si era messa l’accappatoio che lei aveva lasciato per terra. Abbiamo chiacchierato un po’, poi le ho riempito la vasca».


«Non ha detto niente?».


«Mi ha raccontato di come vi siete incontrati e poi quello che è successo la notte scorsa. Era stupita che fosse il mio primo giorno di lavoro e ha aggiunto che nei prossimi giorni lei avrà certamente bisogno di me».


«Per che cosa?».


Mina rispose tranquillamente:


«Per tutto».


«Versami un whisky, va’. Non troppo forte».


«Di già?».


Lui alzò le spalle.


«Ci farai l’abitudine».


«Le succede spesso di essere come ieri notte?».


«Quasi mai. Bevo, ma raramente mi ubriaco. Stamattina sarà stata la terza o la quarta volta in vita mia che mi sono svegliato con i postumi di una sbronza. Su, sbrigati».


Ecco, era già passato al tu. L’ennesima «cocca» di un lungo elenco. Aveva bisogno di incorporare le persone nella sua cerchia e quella cerchia si collocava un po’, e anche di un bel po’, al di sotto di lui.


Era proprio così? Non ci aveva mai pensato. Credeva che i «ragazzi» fossero un gruppo di persone che avevano i suoi stessi gusti e su cui poteva fare affidamento.


Non era vero. Molte cose a cui aveva creduto fino a quel momento erano false. Un giorno avrebbe stilato una lista, come aveva fatto Micetta per i vestiti, la biancheria, le scarpe e il resto.


Chissà se suo cognato, nonostante la camera ardente, era andato lo stesso in rue de la Vrillière. Era poco probabile. Sarà stato sulla porta del salone parato a lutto, vicino alla bara e ai ceri con la fiamma tremolante.


«Pronto, Albert? Potrei parlare con mio cognato, per favore? Sì. Lo so. Devo solo dirgli due parole».


Una parata ininterrotta, come c’era da aspettarsi. Una sfilza di funzionari, deputati, forse anche ministri. I Blanchet occupavano una posizione molto in alto nella scala sociale. E chissà fin dove sarebbero arrivati.


Perché gli veniva da ridere? Non era invidioso. Mai e poi mai avrebbe accettato di essere come loro. Non li poteva soffrire. E inoltre li disprezzava per tutti i compromessi a cui scendevano in nome della carriera. Per dirla con un’espressione che usava volentieri, erano dei palloni gonfiati.


«Sono io, Alain. Scusa il disturbo».


«È una giornata molto pesante, molto difficile per me, e...».


«Appunto. Proprio di questo volevo parlarti. Ci saranno senz’altro dei fotografi e dei giornalisti nei paraggi».


«La polizia si sta sforzando di tenerli alla larga».


«Credo sia meglio che io non mi faccia vedere».


«Lo penso anch’io».


«Per quanto riguarda domani...».


«Che non ti venga in mente di assistere al funerale».


«Stavo per dirlo. Sono il marito dell’assassina, no? Senza contare che...».


Ma cosa gli prendeva?


«Hai finito?» tagliò corto Blanchet.


«È tutto. Sono desolato. Tengo soltanto a ribadire che io non c’entro niente. Ora anche la polizia ne è convinta».


«Cos’altro gli hai raccontato?».


«Niente. Il commissario ha interrogato i miei dipendenti. Sono andati in rue de Longchamp».


«Ti ostini a rigirare il coltello nella piaga?».


«Le mie condoglianze, Roland. Di’ a nostro suocero che mi dispiace di non rivederlo. È una brava persona. Se ha bisogno di me per qualsiasi cosa, sa dove chiamarmi».


Blanchet riattaccò senza aggiungere altro.


«Era il marito?».


«Mio cognato, sì».


Lo guardava con un’aria quasi beffarda.


«Cos’è che ti fa sorridere?».


«Niente. Vuole che prenda un taxi e ci pensi io a portare la valigia?».


Tentennò.


«No. È meglio che ci vada di persona».


Un contatto, nonostante tutto. Chiaramente non era amore, per lo meno non nel senso che intende la gente. Micetta aveva trottato al suo fianco per anni. Era stata presente.


Come aveva detto a Rabut? Che non lo avrebbe più rivisto, se non da lontano, in tribunale.


E se l’avessero assolta? Rabut aveva fama di riuscire a far assolvere nove clienti su dieci.


Si immaginò il presidente, i giudici a latere, il sostituto procuratore, i giurati che rientravano in aula in fila indiana, con aria solenne, e il presidente della giuria che leggeva:


«... Alla prima domanda: no... Alla seconda domanda: no...».


Il brusio in aula, forse qualche protesta, qualche fischio, i giornalisti che sgattaiolavano di corsa verso le cabine telefoniche.


Che cosa sarebbe successo allora? Che cos’avrebbe fatto lei, in abito scuro o in tailleur, tra le due guardie?


Rabut si voltava per stringerle la mano... Lei cercava con gli occhi Alain nell’aula? Lui restava lì a guardarla?


Era a qualcun altro che lei rivolgeva un sorriso?


«Gli dica che non intendo rivederlo, tranne...».


Dove sarebbe andata? Non sarebbe più tornata in quell’appartamento, dove quasi tutte le sue cose erano ancora al loro posto. Avrebbe mandato qualcuno a prenderle? Gli avrebbe fatto avere una lista, come quella mattina?


«A che cosa pensa?».


«A niente, cocca».


Le diede una pacca sul sedere.


«Hai le chiappe sode».


«Le preferisce molli?».


Fu sul punto di... No, non adesso. Doveva andare in rue de la Roquette.


«A dopo».


«Rientra nel pomeriggio?».


«Molto probabilmente no».


«Allora a domani».


«Ah, giusto, a domani».


Si rabbuiò. Questo significava che sarebbe tornato in un appartamento vuoto, che sarebbe rimasto da solo, si sarebbe versato un ultimo bicchiere guardando le luci di Parigi e alla fine sarebbe andato in camera da letto e si sarebbe spogliato.


La guardò, annuì e ripeté:


«A domani, cocca».


 


 


Aveva consegnato la valigia a una matrona indifferente e adesso stava guidando in un quartiere che non conosceva. Un attimo prima era passato davanti al Père-Lachaise, dove sui rami degli alberi restava ancora qualche foglia scolorita, e si era chiesto se l’indomani Adrienne sarebbe stata sepolta lì.


I Blanchet avevano senz’altro una tomba di famiglia da qualche parte, probabilmente un monumento di marmo variopinto. Alain non la chiamava Adrienne, ma Bimba. Anche lei faceva parte del suo circo, no?


Tra poco Micetta avrebbe aperto la valigia, sistemato i vestiti, la biancheria, seria in viso, la fronte aggrottata.


Si organizzava. Adesso aveva una sua vita propria. Alain faceva fatica a immaginare la sua cella. In realtà non sapeva un bel niente di come si svolgeva la vita alla Petite Roquette, e questo lo indispettiva.


Chissà se era con suo padre in quel momento. Si parlavano attraverso una grata, come in certi film?


Si ritrovò in place de la Bastille e si diresse verso il pont Henri-IV per poi costeggiare la Senna.


Venerdì. Ancora una settimana prima, come quasi tutti i venerdì, lui e sua moglie erano a bordo della Jaguar e percorrevano l’autostrada dell’Ovest. Le utilitarie andavano bene per girare a Parigi. Per andare fuori città prendevano la Jaguar decappottabile.


Chissà se ci stava pensando anche lei o se invece era demoralizzata dallo squallore dell’ambiente che la circondava e che sapeva di disinfettante.


Che senso aveva pensarci? Tanto lei aveva deciso di non rivederlo più. Alain non aveva battuto ciglio quando Rabut gliel’aveva comunicato. Eppure era stata una doccia fredda. Quella frase significava tante cose!


In fondo si doveva sentire alleggerita di un peso, come una vedova. Riacquistava finalmente la sua individualità. Non era più asservita a qualcuno che, dopo una telefonata, doveva raggiungere ovunque quello fosse.


Finalmente avrebbe potuto parlare. Non sarebbe stato più lui quello che prendeva la parola, quello che gli altri ascoltavano, ma lei. Per l’avvocato, per il giudice, per le guardie, per la direttrice della prigione, Micetta era già un personaggio a tutti gli effetti, contava per se stessa.


Una volta lasciata l’autostrada, c’era solo da attraversare un bosco per veder spuntare Les Nonnettes in mezzo ai campi. Il Natale precedente avevano comprato una capra per Patrick.


Il bambino passava più tempo col giardiniere, il buon Ferdinand, che con la tata, la signorina Jacques. Faceva così di cognome. Patrick la chiamava Mamie, il che, all’inizio, aveva urtato Micetta. Lei era «mamma». Ma agli occhi del bambino Mamie era più importante.


«Papà, perché non stiamo qui tutti insieme?».


Già, perché? Doveva smetterla di pensare. Non serviva a niente, anzi era pericoloso. L’indomani sarebbe andato a Les Nonnettes.


«E mamma, dov’è?».


Che cosa avrebbe risposto? Eppure doveva andarci. Oltretutto, il sabato gli uffici di rue de Marignan erano chiusi.


Non poté entrare con la macchina nel cortile interno perché c’era un camion che stava consegnando il carico di nafta. Parcheggiò alla bell’e meglio, lanciò un’occhiata alla fila di persone davanti agli sportelli. Oltre ai concorsi, avevano creato un club. E distribuivano i distintivi.


Stronzate, va da sé. Era partito da un piano arredato con qualche scrivania di seconda mano e di lì a poco avrebbe occupato l’intero edificio: tempo un anno, l’avrebbe fatto completamente ristrutturare. Le tirature aumentavano di mese in mese.


«Ciao, Alain».


La vecchia guardia, il gruppo che era con lui fin dall’inizio, quelli che facevano già parte della combriccola quando era ancora un giornalista, lo chiamavano Alain. Per gli altri era il capo.


«Ciao, cocco».


Gli piaceva fare le scale a piedi, passare per le varie sezioni, percorrere gli stretti corridoi, salire e scendere i gradini, sorprendere i suoi collaboratori al lavoro.


Non se la prendeva quando ne trovava cinque o sei riuniti in un ufficio a raccontarsi storielle e sghignazzare. Anzi, ci scherzava su. Oggi no, però.


Continuava a salire le scale, nel tentativo di sbarazzarsi del guazzabuglio di pensieri che lo assalivano, pensieri informi e striscianti, come certi sogni. Alcuni erano talmente confusi che sarebbe stato incapace di formularli, ma l’insieme era intollerabile.


Era un po’ come rimettere tutto in discussione. O come assistere alla propria autopsia.


Trovò di nuovo Maleski nel suo ufficio.


«No, signorina,» stava rispondendo al telefono «non sappiamo assolutamente nulla. Mi dispiace. Non ho niente da dirle».


«Sempre riguardo a...».


«Ovviamente. Adesso tocca alla provincia. Questa qui chiamava da La Roche-sur-Yon. Ho un messaggio per te. Ha telefonato il commissario Roumagne. Vuole che passi dal suo ufficio non appena possibile».


«Ci vado subito».


Tutto sommato non gli dispiaceva. Non sapeva cosa fare del suo corpo. Aveva la netta sensazione che la sua presenza mettesse tutti in imbarazzo.


Prima, però, entrò nel bar di fronte per farsi un doppio scotch. Come aveva detto a Mina, non aveva intenzione di esagerare. Non beveva più del solito.


Aveva sempre bevuto, forse per il bisogno di vivere un poco al di sopra della realtà. Anche i «ragazzi» bevevano. Tranne quelli che, una volta sposati, mollavano la combriccola e si facevano vedere solo di tanto in tanto. Nel loro caso, aveva vinto la donna. D’altronde non è la donna, senza averne l’aria, a vincere sempre?


Non aveva vinto anche Micetta, in fin dei conti?


Mina aveva oltrepassato la soglia di casa sua alle sette del mattino. Alle undici, undici e mezza, aveva già ottenuto di restare a servizio per l’intera giornata. Dio solo sa se quella sera non l’avrebbe trovata ad aspettarlo. E c’era da scommettere che ben presto sarebbe rimasta a dormire in rue Fortuny.


«Un doppio?».


Perché chiederglielo? Non si vergognava di bere, di essere probabilmente quel che si dice un alcolizzato. Ormai non era più un vizio, ma una malattia. Cosa poteva farci se era malato?


«Molto da fare?».


La gente ha la capacità di fare le domande più insulse. E sì che il barista, che lo conosceva da anni, era pieno di buona volontà.


«Non ho un accidenti di niente da fare!».


«Mi scusi. Credevo... Un altro?».


«No».


Non c’era bisogno di pagare. Saldava il conto a fine mese, come faceva la maggior parte dei suoi collaboratori che scendevano di tanto in tanto a bere qualcosa. Nei primi tempi, portavano delle bottiglie in ufficio, ma si erano presto resi conto che non era la stessa cosa e finivano per bere a collo senza farci caso.


Chissà che cosa voleva da lui il vicecommissario. Come mai non era il giudice istruttore a convocarlo?


L’indomani avrebbe potuto appostarsi a un angolo della strada per veder passare il corteo funebre... Adrienne aveva uno strano modo di guardarlo... Nei suoi occhi scorgeva sempre un guizzo beffardo che lei si rifiutava di spiegare...


«Cos’è che ti diverte, Bimba?».


«Tu».


«Perché? Mi trovi buffo?».


«No».


«Ho una faccia ridicola?».


«Al contrario. Sei piuttosto un bell’uomo».


Piuttosto...


«È per come parlo?».


«È per tutto. Sei un tesoro».


Be’, a lui non piaceva essere un tesoro, anche se si rivolgeva agli altri chiamandoli cocco, bimba o bello mio.


In fin dei conti lei era forse la sola a non prenderlo sul serio. Gli altri, tipografi, distributori, banche, eccome se lo prendevano sul serio. Nessuno lo considerava un ragazzino o un pagliaccio.


«Ha un appuntamento?».


Un agente lo aveva fermato all’ingresso della Giudiziaria.


«Il vicecommissario Roumagne mi sta aspettando».


«La scala a sinistra».


«Lo so».


Non incontrò nessuno. Al piano, l’usciere gli fece riempire un modulo. Alla voce «motivo della visita» mise un punto interrogativo.


Non lo fecero attendere e, quando entrò, l’ispettore che era con Roumagne si eclissò subito.


Stavolta il commissario gli tese la mano con fare cordiale e gli indicò una poltroncina.


«Non la aspettavo così presto. Non ero sicuro che sarebbe passato in ufficio. So che il venerdì di solito se ne va in campagna».


«È acqua passata» ribatté con ironia.


«Amareggiato?».


«No. Nemmeno».


I suoi lineamenti avevano conservato un che di campagnolo. Suo nonno o suo bisnonno dovevano essere ancora contadini. Massiccio, di ossatura robusta. Guardava dritto davanti a sé.


«Suppongo che non abbia niente da dirmi, signor Poitaud».


«Non so che cosa possa interessarle sapere. Che ho passato la notte a bere? Che stamattina mi sono svegliato non solo con la bocca terribilmente impastata ma con una ragazza nel mio letto?».


«Questo lo so».


«Mi fa pedinare?».


«Per quale motivo? Non è mica stato lei a sparare a sua cognata, no?».


Serrò le mascelle.


«Non se la prenda se stamattina ho fatto irruzione nel suo ufficio e mi sono permesso di frugare nei suoi cassetti».


«Si figuri».


«Ho fatto qualche domanda al personale».


«Adesso tocca a me dirle che lo so».


«E ho avuto la conferma di quanto ha affermato ieri riguardo alla relazione con sua cognata».


«Sarebbe a dire?».


«Che è terminata prima dello scorso Natale. Il proprietario del monolocale di rue de Longchamp è stato categorico».


«Non avevo motivo di mentire».


«Non si può mai sapere».


Il commissario restò in silenzio, si accese una sigaretta, spinse il pacchetto verso il suo visitatore, che ne prese una con gesto automatico. Alain capì che quel silenzio era voluto, finse di trovarlo naturale e fumò fissando il vuoto.


«Vorrei che fosse altrettanto franco nel rispondere alla domanda che sto per farle. Ne capirà l’importanza. Come reagirà quando scoprirà chi era l’amante di sua moglie?».


«Intende dire l’amante di mia moglie e di sua sorella?».


«Esatto».


Strinse i pugni per un attimo. I tratti gli si fecero più duri. Era lui adesso a far pesare il silenzio.


«Non lo so» disse alla fine. «Dipende».


«Da chi è quest’uomo?».


«Forse».


«Se, per esempio, fosse uno dei suoi collaboratori?».


In un lampo rivide l’intero edificio di rue de Marignan, da cima a fondo, passò in rassegna i visi di uomini giovani e meno giovani, se non vecchi, eliminandoli uno dopo l’altro. François Lusin, il responsabile della pubblicità, un tipo belloccio che si credeva irresistibile? No! Non Micetta, in ogni caso.


Maleski nemmeno, ed era da escludere anche Gagnon, il segretario di redazione, un ometto saltellante e grassoccio.


«Non si sforzi. Le darò io la risposta tra un istante».


«Lei lo sa?».


«Io posso contare su mezzi che lei non ha, signor Poitaud. Di conseguenza mi trovo in una situazione delicata ed è per questo che l’ho fatta venire qui. Badi bene, non è una convocazione ufficiale. Questo colloquio è puramente informale. Come si sente?».


«Male» rispose con durezza.


«Non parlo dei postumi della sbornia, ma dei suoi nervi».


«Se vuole saperlo, sono calmo come un pesce che è appena stato eviscerato».


«Vorrei che mi ascoltasse seriamente. Conosco a sufficienza l’avvocato Rabut per sapere che invocherà il delitto passionale. Dunque ha bisogno di un protagonista».


«Capisco».


«Lei non serve più allo scopo, avendo troncato la relazione con sua cognata da quasi un anno. E sarà passato ben più di un anno quando il caso verrà dibattuto in tribunale».


Alain annuì. Era calmissimo, in effetti, di una calma dolorosa.


«Sua moglie rifiuta di parlare. Ciò non toglie che ha diritto a un processo e se si tratta di un delitto passionale...».


«Poche chiacchiere, se non le dispiace. Arrivi al dunque, per favore».


«Le chiedo scusa, signor Poitaud, ma devo assicurarmi che non sto per provocare un altro dramma».


«Ha paura che lo uccida?».


«Le sue reazioni sono piuttosto brusche».


Alain sghignazzò.


«E per chi lo ucciderei? Per mia moglie? Mi sto abituando all’idea di averla perduta. Ci ho riflettuto parecchio. Sapevo che lei c’era e questo mi bastava. E dal momento che non c’è più...».


Fece un gesto vago.


«Quanto a Bimba, voglio dire, Adrienne...».


«Ho capito. Ma resta il suo orgoglio. Lei è un tipo orgoglioso e riconosco che possa avere motivo di essere alquanto soddisfatto di sé».


«Non lo sono affatto».


«Non è soddisfatto di sé?».


«No».


«Dunque non ha importanza chi ha preso il suo posto nel triangolo con le due sorelle?».


«Immagino di no».


«Non possiede più un’arma?».


«Avevo solo la Browning».


«Mi promette che non se ne procurerà un’altra?».


«Glielo prometto».


«Ci conto. Si prepari a una sorpresa. I miei uomini sono andati a interrogare le portinaie di alcuni dei suoi collaboratori, quelli che sembravano i più plausibili. Di solito l’ultimo indirizzo è quello buono. Stavolta, invece, il caso ha voluto che fosse quello più vicino, in rue Montmartre».


Alain si chiese chi, tra i suoi collaboratori, abitasse in rue Montmartre.


«Julien Bour».


Il fotografo con la faccia sbilenca e smunta! Quello che aveva incontrato la notte prima nel locale di rue Notre-Dame-de-Lorette!


«La sorprende?».


Alain si sforzò di sorridere.


«Mi pare una scelta curiosa».


Bour era l’ultimo a cui avrebbe pensato. Era un tipo trasandato e si sarebbe detto che non si lavasse i denti. Non guardava mai la gente negli occhi, come se ne avesse paura.


A dire il vero Alain non sapeva quasi niente del suo passato. Prima di entrare a «Toi» non lavorava per nessun settimanale importante, né peri grandi quotidiani.


Chi glielo aveva presentato? Frugava nella memoria. Era stato diversi anni prima. Non era qualcuno del giro della rivista ed era successo in un bar.


«Alex!» fece a voce alta.


Spiegò al commissario:


«Mi chiedevo come l’avessi conosciuto. Mi aveva parlato di lui un tale Alexandre Manoque, uno con delle velleità da regista. Parla sempre dei film che farà, ma finora ha realizzato solo due cortometraggi. In compenso conosce una quantità incredibile di belle ragazze e quando siamo a corto di modelle gli facciamo una telefonata».


Non si capacitava. Quel povero disgraziato di Bour! Bour, con cui non sarebbe andata nessuna delle dattilografe. Girava voce che puzzasse, anche se, a dire il vero, Alain non se n’era mai accorto.


Usciva di rado con la combriccola e quelle poche volte si limitava a fare da comparsa. Sarebbero rimasti tutti di stucco se si fosse unito alla conversazione.


Portava le sue foto, saliva nel sottotetto per impaginarle con Léon Agnard, perché era uno meticoloso.


«Tutt’e due!» mormorò Alain stupito.


«Sua moglie è stata la prima a prendere l’abitudine di andare in rue Montmartre».


«Si incontravano a casa sua?».


«Sì. Un palazzone mezzo cadente dove ci sono soprattutto uffici e studi, tra cui uno studio di fotoincisione».


«Ho presente».


Un settimanale di cronaca mondana con cui aveva collaborato a inizio carriera aveva sede lì. Su quasi tutte le porte si vedevano delle targhe smaltate. Timbri di gomma. Fotocopie. Hubert Moinet, traduttore giurato. Agenzia E.P.C.


Non aveva mai saputo che cosa facesse l’Agenzia E.P.C., il settimanale era durato soltanto tre numeri.


«Occupa una stanza grande e due più piccole all’ultimo piano, sul lato interno. La stanza grande gli serve da studio ed è lì che realizza la maggior parte dei servizi. Vive da solo. Quando il mio ispettore le ha mostrato la fotografia di sua moglie, la portinaia l’ha riconosciuta subito.


«“La giovane donna così elegante e gentile!” ha esclamato».


«Da quanto tempo andava avanti?».


«Quasi due anni».


Alain non poté fare a meno di scattare in piedi. Si sentiva sopraffatto. Per due anni Micetta era stata innamorata di Julien Bour e lui non si era accorto di niente! Continuavano a vivere insieme. Facevano l’amore. Dormivano, nudi, nello stesso letto. Solo negli ultimi tempi lei si era mostrata meno focosa.


«Quasi due anni!».


Decise di buttarla sul ridere, un riso duro e crudele.


«E la sorella? Quando ha sedotto la sorella, quel poveraccio?».


«Soltanto tre o quattro mesi fa».


«Avevano un giorno per ciascuna?».


Il commissario lo osservava, placido.


«Alla fine era Adrienne che andava a trovarlo più di frequente».


«Per surclassare la sorella, ma certo! Finalmente era arrivato il suo turno!».


Si era messo a camminare su e giù per la stanza come se fosse stato nel suo ufficio o nello studio di rue Fortuny.


«Mio cognato è al corrente?».


«Non è questo il momento di parlargliene. Il funerale non è domattina?».


«Capisco».


«E poi non sta a me dirglielo. Se l’avvocato Rabut ritiene che sia il caso di farglielo sapere...».


«L’ha avvertito?».


«Sì».


«È stato lui a consigliarle di farmi venire qui?».


«Lo avrei fatto comunque. Ci sono reporter sguinzagliati su tutte le piste immaginabili. Erano in rue de Longchamp prima di noi e un settimanale tipo quello che ha menzionato prima ne parla oggi».


«E Bour non è nemmeno il tipo a cui spaccheresti il muso» borbottò Alain.


«Ho qualche altra informazione sul suo conto. Il nome mi diceva qualcosa. Sono andato a trovare il collega della Buoncostume che si è occupato di lui alcuni anni fa».


«È stato indagato?».


«No, per mancanza di prove. Poco fa lei ha tirato in ballo Alex Manoque. Deve sapere che il suo vero cognome si scrive con un ck alla fine: Manock. La Buoncostume l’ha tenuto d’occhio a lungo per un giro di fotografie erotiche. Manock è stato pedinato: ha incontrato parecchie volte Julien Bour, sempre in un caffè o in un bar. Il fotografo era certamente lui, ma da una perquisizione in rue Montmartre i negativi non sono saltati fuori.

«Non so se continuino ancora i loro traffici. Non è il mio campo e nel nostro caso non cambia nulla. Il mio collega è convinto che ci siano di mezzo non soltanto foto, ma anche filmini».

«Crede che abbia fotografato mia moglie?».

«Non penso, signor Poitaud. Avevo intenzione di fargli visita e dare un’occhiata al suo archivio fotografico. Ma in questo momento rischieremmo di agitare le acque. Per noi è difficile passare inosservati, specialmente con tutta la stampa all’erta».

«Bour!» ripeté Alain fissando il pavimento.

«Se avesse occupato il mio posto per vent’anni non sarebbe sorpreso. Talvolta le donne hanno bisogno di qualcuno più debole di loro, o per lo meno che loro credono sia più debole, di un uomo che gli faccia pietà».

«Conosco la teoria» disse spazientito Alain.

«Mi creda, è vero anche nella pratica».

Lui lo capiva molto meglio del commissario, e per questo si era rabbuiato.

Adesso che ne sapeva abbastanza, non vedeva l’ora di andarsene.

«Mi promette...».

«Di non uccidere Bour. Non lo prenderò nemmeno a schiaffi. Non so neanche se gli darò il benservito, dato che è il nostro fotografo più bravo. Come vede, non ha nulla da temere. La ringrazio per avermi informato. Rabut la farà assolvere. E vivranno per sempre felici e contenti».

Si diresse alla porta, ma si fermò a metà strada e tornò indietro per tendere la mano al commissario.

«Mi scusi, dimenticavo. Ci rivedremo prossimamente. Di sicuro avrà qualche novità da riferirmi».

Passando accanto al vecchio usciere con la sua catena d’argento si concesse il lusso di dire:

«Arrivederci, cocco».

7

Evitò di passare in ufficio. Non aveva voglia di vedere i «ragazzi». Forse voleva provare a se stesso che non aveva bisogno di loro, né di nessun altro. Al volante della sua macchinina rossa andò sempre dritto e si ritrovò al Bois de Boulogne, dove girò a vuoto senza meta, senza pensieri precisi.

Aspettava che passasse il tempo, nient’altro. Guardava gli alberi, le foglie secche, due uomini a cavallo che procedevano al passo tra una chiacchiera e l’altra.

Aveva scoperto molte verità sgradevoli tutte in un colpo e aveva bisogno di metabolizzarle pian piano.

Non sentiva la necessità di bere. Si fermò davanti a un bar sconosciuto, nei pressi di porte Dauphine, tanto per non cambiare troppo le sue abitudini. Guardava gli altri che bevevano intorno a lui e si chiese se avessero anche loro i suoi stessi problemi.

Be’, non proprio gli stessi. Quello che gli era successo era abbastanza fuori dal comune. Ma quello che ci stava sotto non doveva poi essere molto diverso da un uomo all’altro.

Altri sguardi come il suo fissavano il vuoto. Che cosa vedevano? Che cosa scrutavano?

«Mi sembra di conoscerla» biascicò un tizio accanto a lui, un omone dalla faccia sanguigna che aveva alzato il gomito.

«Direi proprio di no» ribatté Alain seccamente.

Si era prefisso una linea di condotta per quel giorno ed era in grado di attenervisi. Cenò da solo, in un ristorante che non conosceva, in avenue des Ternes. Un locale frequentato da una clientela fissa, con tanto di scomparti in legno chiaro per i tovaglioli.

Non aveva appetito, ma mangiò lo stesso una zuppa e un salsicciotto grigliato con contorno di patate fritte. Il padrone lo osservava da lontano. Per fortuna la foto pubblicata dai giornali non era molto somigliante.

Alcuni aggrottavano la fronte, lo squadravano per un po’, poi alzavano le spalle dicendosi che si sbagliavano.

Entrò in un cinema sugli Champs-Élysées e si lasciò guidare dalla maschera. Non sapeva quale fosse il titolo del film. Riconobbe alcuni attori americani ma non seguì la trama.

Fedele al suo piano, lasciava passare le ore una dopo l’altra. Più tardi tornò a casa e prese l’ascensore, aprì la porta con la sua chiave.

L’appartamento era vuoto e immerso nel buio. Mina non aveva osato restare. Senz’altro ci aveva pensato, ma temeva di correre troppo.

Accese la luce. C’era un vassoio approntato con una bottiglia, un bicchiere e acqua di seltz.

Si sedette su una poltrona, si versò da bere e si sentì lontano dagli uomini come mai lo era stato in tutta la sua vita. Quando lo avevano bocciato alla maturità, la sua reazione era stata molto simile. Se lo ricordava perfettamente. Era sul balcone di casa, in place de Clichy, e guardava la vita notturna che cominciava.

Chissà se quelle piccole sagome nere che formicolavano sul selciato sapevano davvero dove andavano. C’era mancato poco che tornasse in camera per scrivere una poesia.

Il senso del ridicolo aveva ripreso il sopravvento. Esaminava le vie d’uscita che gli si presentavano, ma nessuna lo convinceva.

Quando era bambino o adolescente, quante volte gli avevano chiesto:

«Che cosa farai da grande?».

Come se dipendesse da lui! Sin da piccolissimo aveva l’impressione che il suo futuro sarebbe dipeso da un caso fortuito, da un incontro, da una frase afferrata al volo. Lui non sarebbe stato di quelli che le prendono, poco ma sicuro. Non si sarebbe infilato, come suo padre, in un tunnel, dove avrebbe passato la vita a camminare dritto davanti a sé per non trovare niente in fondo.

Si ricordava di ogni particolare. I suoi genitori, in sala da pranzo, parlavano certamente di lui, perché stavano discorrendo a bassa voce. Non volevano mortificarlo ricordandogli il suo fallimento.

«Vorrà dire che ti ripresenterai a ottobre».

Due auto si erano tamponate e si era radunata una piccola folla. Le formiche si erano messe a gesticolare. Era una scena penosa e grottesca al tempo stesso.

Esisteva un’unica via d’uscita, una sola, che non lo entusiasmava, ma che accettava come soluzione di ripiego. Arruolarsi nell’esercito.

Non sentiva nessun rumore intorno a sé e trasalì quando un rivestimento di legno scricchiolò in un angolo dello studio.

Non doveva assolutamente uscire di nuovo. Anche allora era rimasto sul balcone finché non aveva preso una decisione.

«Non torni dentro?» era venuto a chiedergli suo padre.

«No».

«Non hai freddo?».

«No».

«Buonanotte, figliolo».

«Buonanotte».

Poi anche sua madre era venuta ad augurargli la buonanotte. Non aveva insistito perché tornasse dentro. Tutti e due erano un po’ timorosi, sapendo che Alain era molto suscettibile e la minima mossa incauta da parte loro ne avrebbe fatto un ribelle.

Non era diventato un ribelle. Era stato un soldato come gli altri. Aveva vissuto un’esperienza simile a quella che i cristiani chiamano un ritiro spirituale. Un periodo preparatorio. Aveva imparato a bere, soltanto una sera alla settimana, per mancanza di soldi.

Rivolse uno sguardo ironico alla bottiglia. Sembrava sbeffeggiarlo, sfidarlo. Gli bastava allungare la mano, un gesto così familiare che avrebbe potuto farlo senza neanche rendersene conto.

Si alzò per andare a guardare i tetti, la sagoma di Notre-Dame che si stagliava contro un cielo abbastanza terso, la cupola del Panthéon.

Stronzate!

Entrò in camera, guardò il letto vuoto e cominciò a spogliarsi. Non aveva sonno. Non aveva voglia di niente. Non c’era nessun motivo per stare lì o da un’altra parte. Un caso fortuito. Anche Micetta era stata un caso fortuito. E così pure Adrienne, che lui chiamava Bimba. Perché quella mania di dare nomignoli alle persone?

«Merda!» esclamò a voce alta.

Ripeté quella parola poco dopo, mentre si lavava i denti davanti allo specchio del bagno.

Bour doveva aver paura, aspettarsi una sua visita. Chissà, magari si era anche comprato un’arma per difendersi. Oppure si era affrettato a lasciare Parigi?

Sorrise, beffardo, si infilò il pigiama e andò a spegnere la luce senza toccare la bottiglia.

«Buonanotte, vecchio mio...».

Si augurò da solo la buonanotte, dato che non c’era nessun altro a farlo.

Non si addormentò subito e passò il tempo, immobile nel buio, a scacciare pensieri spiacevoli. Eppure il sonno dovette arrivare abbastanza in fretta perché all’improvviso sentì il ronzio dell’aspirapolvere nello studio.

Dalle lenzuola arrotolate capì che si era agitato. Non serbava alcun ricordo dei suoi sogni, eppure aveva sognato parecchio.

Si alzò, andò in bagno, si lavò i denti e si pettinò. Poi entrò nello studio e Mina spense l’aspirapolvere.

«Già in piedi? Sono stata io a svegliarla?».

«No».

«Le preparo subito il caffè».

La seguì con gli occhi. Le dita non gli tremavano come il giorno prima. Non aveva mal di testa. Solo una sensazione di vuoto, neanche tanto sgradevole.

Era come se le cose non lo riguardassero più, come se si fosse sbarazzato di qualsiasi responsabilità.

Ma di quali responsabilità, poi? Come può un uomo essere responsabile di un altro uomo, o di una donna, o anche di un bambino?

Stronzate!

Una parola che non apparteneva al suo solito repertorio. Una novità. Non gli dispiaceva. La ripeté due o tre volte guardando il sole ancora pallido.

Mina gli portò il caffè e i croissant.

«È rientrato tardi?».

«No, cocca».

E, gettando un’occhiata verso la camera:

«Non c’è nessuno?».

«Soltanto noi due».

La osservò con occhio distaccato. Doveva essere impossibile capire a che cosa stesse pensando. Gli sembrava di essere al di là dei pensieri leciti, dei pensieri normali.

«Desidera il giornale?».

«No».

Restava in piedi davanti a lui, con il busto inarcato che faceva risaltare il seno. Sotto il vestito di nylon era in mutandine e reggipetto.

Alain ci pensò su, soppesando i pro e i contro. Sulle labbra di lei era spuntato un sorriso incoraggiante, poi un moto di stizza aveva offuscato il viso giovane e roseo.

Non mangiò neanche un croissant, finì il caffè, si accese una sigaretta, le allungò il pacchetto e poi un fiammifero.

Lei sorrise di nuovo. Lui si alzò in piedi, restò a guardarla dall’alto in basso, dal basso in alto. Quando si posò sui suoi occhi, lo sguardo di Alain conteneva una domanda che lei afferrò al volo, come quando un barista capisce che deve riempire i bicchieri.

Scoppiò a ridere. Non serviva rispondere.

«Preferisce che mi spogli?».

«Fa lo stesso».

Posò la sigaretta sul portacenere, si sfilò il vestito dalla testa e alzò prima un piede poi l’altro per togliersi le mutandine. Aveva un pube biondo, paffuto, e il ventre conservava ancora la rotondità dell’adolescenza.

«Perché mi guarda in quel modo?».

«Come ti guardo?».

«Sembra triste».

«No».

Si era tolta il reggiseno. Era completamente nuda. Aveva soggezione di lui e non sapeva bene cosa fare.

«Vieni» disse Alain dopo aver schiacciato il mozzicone di sigaretta.

Aveva usato un tono dolce, gentile.

«Sdraiati...».

Si sarebbe detto che la mettesse a letto per addormentarla. Non la guardava con desiderio, ma come se volesse imprimere nella memoria l’immagine del suo corpo.

«Lei... Tu non vieni?».

Si tolse il pigiama e le si sdraiò accanto, facendo scivolare la mano sulla sua pelle.

Lei si stupì. Non era così che pensava sarebbero andate le cose. Alain si rivelava molto diverso dall’uomo che aveva visto il giorno prima.

«È da tanto che hai cominciato a fare l’amore?».

«Avevo quattordici anni».

«Lui era giovane?».

«Era mio zio».

Scoppiò a ridere.

«Buffo, no?».

Lui non rise.

«Quand’è stata l’ultima volta?».

«Tre settimane fa».

La attirò a sé per baciarla, un bacio lungo e tenero, che non si rivolgeva necessariamente a lei. Non era rivolto neanche a Micetta e tanto meno ad Adrienne, non era rivolto a nessuna donna in particolare.

«Sei triste?» gli chiese di nuovo.

«Ti ho già detto di no».

«Hai l’aria triste. Si direbbe...».

«Si direbbe cosa?».

Le sorrise.

«Non lo so. Niente. Baciami ancora. Non mi capita spesso di essere baciata così».

Aveva una carnagione chiarissima. Non aveva mai visto nessuna con la carnagione così chiara. Chiara e morbida. La baciò. La accarezzava con la mano, ma aveva la testa altrove.

La prese una prima volta, lentamente, con gesti teneri. Neanche lui si riconosceva. La accarezzò dalla testa ai piedi, con le mani, con le labbra, e lei non osava crederci.

Restarono a lungo abbracciati e quando la guardava ritrovava la stessa domanda nei suoi occhi, una domanda a cui gli era impossibile rispondere.

Quando si alzò, girò la testa dall’altra parte.

«Piangi?».

«No».

«Non ti deve capitare spesso di piangere, eh? Scusa se ti do del tu. Tra poco, quando mi sarò rivestita, ricomincerò a darti del lei. Non ti secca?».

«No».

«Posso andare in bagno?».

«Certo».

Stava per chiudere la porta quando lui entrò. Un po’ sorpresa, si lasciò comunque guardare. Era un genere diverso di intimità, altri gesti comuni a tutte le donne.

«Sai, è la prima volta che...».

Esitò, sempre un po’ in soggezione. Alain le sembrava al tempo stesso vicinissimo e lontanissimo.

«La prima volta che cosa?».

«Così... con tenerezza...».

Lui entrò nella doccia e restò immobile sotto l’acqua che gli scorreva a rivoli sulla pelle.

«Posso fare una doccia anch’io?».

«Se ti fa piacere».

In vestaglia, andò a versarsi un bicchiere di scotch che bevve a piccoli sorsi, con lo sguardo fisso sul panorama. Sentì Mina sotto la doccia. Per lui era una faccenda chiusa. Non ci pensava più. Faceva parte del passato, e questo lei era incapace di capirlo.

Chi avrebbe capito? Non capiva nemmeno lui! Non del tutto.

«È strano» disse lei entrando nello studio per rivestirsi. «Dopo aver fatto l’amore gli uomini sono sempre tristi. Io, invece, mi sento allegra, leggera. Ho voglia di mettermi a cantare, di fare le capriole».

«Fare le capriole?».

«Come quando ero piccola».

Appoggiò la testa per terra e lanciò le gambe in aria, rotolando più volte su se stessa.

«Non l’hai mai fatto tu?».

«Sì».

Non serviva a niente ripensare alla sua infanzia. Anzi!

«Ti dispiace allacciarlo?» gli chiese allungando verso di lui le due alette del reggiseno.

Lo stesso gesto di Micetta, di tutte le altre. Come fanno le donne quando sono da sole?

«Grazie».

Si versò ancora un po’ di whisky e lo mandò giù d’un fiato, accese una sigaretta e si diresse nel corridoio con gli armadi. Scelse dei pantaloni di flanella grigia, una giacca di tweed, un paio di scarpe semplici, con le suole di para. Invece della camicia optò per un dolcevita.

«Stai bene vestito sportivo».

Lui non reagì. Non reagiva più a niente.

«Non ti metti il cappotto? C’è il sole, ma non fa caldo».

Prese una giacca di renna e si guardò intorno. Era già alla porta e la vide solo all’ultimo. Lei si alzò sulla punta dei piedi per baciarlo.

«Non vuoi?».

Lui esitò.

«Sì».

La baciò come avrebbe baciato una sorella.

«Rientra prima stasera?».

«Forse».

Scese un gradino dopo l’altro, fermandosi un paio di volte. Sentì voci di bambini nell’appartamento al secondo piano. Fu lì lì per spingere la porta a vetri della guardiola, ma non aveva niente da dire alla portinaia e non era interessato alla posta.

Salì in macchina e guidò fino al garage, in rue Cardinet.

«Buongiorno, signor Alain. Prende la Jaguar?».

«Hai fatto il pieno, vecchio mio?».

«È tutto a posto, compresi olio e batterie. Vuole che tiri giù la capote?».

«Sì».

Si mise al volante e si diresse verso Saint-Cloud, infilò il tunnel e imboccò l’autostrada dell’Ovest. Sul sedile del passeggero non c’era nessuno, nessuno che lo pregasse di non andare troppo forte.

Era buffo pensare che alla Petite Roquette Micetta stava riorganizzando la sua vita.

Guidava così piano che diverse auto lo superarono e diverse persone si girarono per osservarlo. Non capita spesso di vedere una Jaguar sportiva andare a passo di lumaca.

Non aveva fretta. Il suo orologio faceva le undici e un quarto. Guardava gli alberi come se non ne avesse mai visti in vita sua. Alcuni erano rossi, altri di un giallo dorato, altri ancora verde scuro. Di tanto in tanto si scorgeva un sentiero di terra battuta con i solchi lasciati dai trattori. Da parecchio non prendeva un sentiero del genere.

Distese di prati, una fattoria circondata da mucche bianche e nere. Sullo sfondo, un velo di foschia indicava verosimilmente il percorso sinuoso della Senna.

L’aria era fresca, ma lui non aveva freddo. Vari camion lo superarono. Gli era capitato di guidare dei camion, in Africa. Insomma, ne aveva fatte di cose nella vita.

Quasi dimenticò di svoltare a destra per passare sotto l’autostrada e raggiungere Les Nonnettes. Di solito era Micetta a ricordarglielo. Non c’erano quasi più macchine.

Quando vide spuntare il tetto di ardesia e la torretta quadrata, si rese conto di non aver più fumato da Parigi. Oltre un muricciolo scorse il vecchio cappello sformato di Ferdinand. Patrick doveva essere poco lontano, nell’orto.

Varcò il cancello di ferro che restava aperto tutto il giorno, parcheggiò l’auto nel cortile, davanti a una piccola scala esterna di pietra. La signorina Jacques, con indosso un’uniforme blu che doveva aver disegnato lei stessa, venne ad aprire la porta.

Era una donna alta, con il viso sereno, i lineamenti regolari. Difficile dire se era graziosa. Forse aveva un bellissimo corpo che però non si notava.

«Non sapevo se sarebbe venuto. Patrick è nell’orto».

«L’ho immaginato vedendo spuntare la testa di Ferdinand. Non sa niente?».

«No. Ho avvisato tutti quanti. Mancano solo il postino e i fornitori».

Guardò la casa bianca con le finestre all’inglese per cui si era dato tanto da fare. Era stato un po’ come realizzare un sogno: una casa dove vorresti essere nato, dove venire in vacanza dalla nonna.

L’ampia cucina aveva il pavimento di mattonelle rosse, in tutte le altre stanze c’era un parquet lustro, muri candidi, come imbiancati a calce, nel vasto soggiorno rustico, e le tende delle camere da letto erano a fiorellini.

«Sembra stanco».

«Meno di ieri».

«Dev’essere stata molto dura».

«Abbastanza, sì».

«Era da solo?».

Fece cenno di sì con la testa.

«E suo cognato?».

«L’ha presa meglio di quel che credevo».

Si diresse verso l’orto dai muriccioli coperti di rampicanti. Si vedevano pere enormi, già giallastre, mele che Ferdinand seguiva amorevolmente, insacchettandole non appena cominciavano a maturare, per proteggerle dai morsi degli insetti.

I vialetti erano ben tracciati, le aiuole di ortaggi perfettamente curate, senza la benché minima erbaccia.

Patrick e il giardiniere erano impegnati a raccogliere taccole quando il bambino vide Alain. Allora gli corse incontro, buttandosi tra le sue braccia.

«Sei arrivato presto. Mamma dov’è?».

La cercò con gli occhi.

«È stata trattenuta a Parigi».

«Non viene neanche domani?».

«Non credo. Ha molto lavoro».

Patrick non ci rimase troppo male. Ferdinand si era tolto il cappello bisunto e il suo cranio calvo e bianco luccicò al sole. In contrasto con il viso abbronzato, cotto e ricotto dal sole, quel cocuzzolo color avorio era quasi indecente.

«Ben arrivato, signor Alain».

«Mamma non è venuta, Ferdinand. Ha troppo lavoro. Ti ricordi, vero, che hai promesso di costruirmi un arco?».

L’orto sembrava l’illustrazione di un albo.

Anche la casa sembrava uscita da un libro per bambini.

«Vieni, Patrick? Tra poco è ora di pranzo».

«La campanella non ha suonato».

Accanto alla cucina, infatti, c’era perfino una campanella e Loulou, la moglie di Ferdinand, la suonava immancabilmente per annunciare l’ora dei pasti.

«Buongiorno, Loulou».

Sentiva l’odore del coniglio, delle cipolline, delle erbe aromatiche.

«Buongiorno, signor Alain».

Si limitò a guardarlo attentamente, non osando fargli domande davanti al bambino.

«Mamma non verrà» le annunciò quest’ultimo.

A chi somigliava? Aveva gli occhi della madre, bruni, vispi e sognanti al tempo stesso, vivacissimi. La parte inferiore del viso invece l’aveva presa da Alain.

Loulou aveva un ventre prominente sotto il grembiule a quadretti, gambe grosse e un piccolo chignon grigio e compatto in cima alla testa.

«Il pranzo sarà pronto tra qualche minuto. Li mangia i filetti di aringa? È stato Patrick a chiedermeli».

Lui sembrò non aver sentito. Passò oltre la sala da pranzo, entrò nel soggiorno dove, in un antico mobile d’angolo, tenevano bicchieri e liquori.

Si servì un po’ di whisky che trangugiò sotto lo sguardo incuriosito del figlio.

«È buono?».

«No».

«Meglio della gazzosa?».

«No».

«Allora perché lo bevi?».

«Perché i grandi lo bevono. Non sempre i grandi sanno perché fanno quello che fanno».

Lo sguardo che gli lanciò la signorina Jacques servì da segnale di allarme e Alain capì che doveva soppesare le parole.

«Domani viene gente?».

«No, tesoro».

«Nessuno?».

«Assolutamente nessuno».

«E potremo giocare insieme?».

«Non ci sarò nemmeno io».

«Quando vai via?».

«Tra poco».

«Perché?».

Già, perché? Come faceva a spiegare a un bambino di cinque anni che non ce l’avrebbe fatta a sopportare per più di due o tre ore l’atmosfera di Les Nonnettes né tutto ciò che quell’ambiente rappresentava?

Anche la governante si meravigliò. La domestica, che scendeva le scale in quel momento, chiese:

«Ci sono bagagli da portare su?».

«No, Olga».

La campanella suonò. Una vespa passò ronzando. Si era dimenticato delle vespe.

Erano solo loro tre in sala da pranzo, intorno al tavolo ovale con al centro un grande mazzo di fiori in un vaso di ceramica blu.

«Non mangi le aringhe?».

«Sì, scusami».

«Che cos’hai? Sembri stanco».

«Lo sono. Ho lavorato molto».

Era la verità. Un gran lavoraccio. Un lavoro che in genere si fa una volta sola nella vita. Era sceso nel profondo di se stesso. Aveva grattato la superficie, messo a nudo la carne viva fino a sanguinare. Adesso era finita. Non sanguinava più. Ma non potevano pretendere da lui che tornasse a essere lo stesso uomo.

Mina non aveva capito di aver vissuto un’esperienza più unica che rara quella mattina.

E nemmeno Patrick o la tata, nessuno dei presenti poteva capire. Mangiava, sorrideva a suo figlio.

«Posso avere un po’ di vino nell’acqua, Mamie?».

«Domani. Soltanto la domenica».

«Domani papà non ci sarà».

La tata guardò Alain e versò un goccio di vino rosso nel bicchiere del bambino.

Il pranzo sembrò interminabile. La finestra era aperta. Si sentiva il cinguettio degli uccelli e ogni tanto nella stanza entrava una mosca, ronzava intorno al tavolo e volava via di nuovo verso il sole.

«Il caffè lo prende in salotto?».

Lo chiamavano il salotto o la sala. Alain ci andò, si sedette su una delle poltrone di pelle scura. Il cofano della Jaguar era sotto il sole adesso, ma non ebbe la forza di alzarsi per andare a spostarla.

«Vado a vedere se Ferdinand ha finito di mangiare. Ha promesso di farmi un arco».

La signorina Jacques non sapeva se ritirarsi o restare.

«Ha qualche istruzione da darmi?».

Lui rifletté a lungo.

«No, meglio di no».

«Permette che vada a vedere che cosa sta facendo Patrick?».

Lui finì di bere il caffè, si diresse verso le scale e fece il giro delle stanze. Avevano tutte il soffitto basso. L’arredamento era quasi rustico, con pesanti mobili di campagna, ma l’insieme era allegro, semplice.

Una semplicità voluta. Una falsa semplicità. Una semplicità mirata a stupire gli ospiti del finesettimana.

Come la falsa intimità creata da «Toi».

Come...

Inutile! Era troppo tardi. O troppo presto. Aprì la porta della loro camera e la guardò senza provare la minima emozione.

Tornò di sotto, vide suo figlio in compagnia del giardiniere intento a costruirgli un arco. La signorina Jacques era poco distante.

Inutile tirarla per le lunghe. Li raggiunse, si chinò a dare un bacio a Patrick.

«Torni con mamma la prossima settimana?».

«Forse».

Era più interessato all’arco che al padre.

Alain si limitò a salutare la tata con la mano.

«Se ne va di già, signor Alain?».

«È necessario, Ferdinand».

«Non ha bisogno di niente? Non vuole un po’ di frutta da portare a Parigi?».

«No, grazie».

Andò a salutare Loulou, che cominciava già a commuoversi.

«Chi se lo sarebbe immaginato, signor Alain?».

Si avvicinò agli occhi un angolo del grembiule.

«Una persona così...».

Così come? Se ne andò senza saperlo, fece rombare il motore e l’auto si allontanò a tutto gas da Les Nonnettes.

8

Adesso poteva, doveva bere. Tutto quello che faceva quel giorno, compresi i minimi dettagli di quanto era successo con Mina, era previsto, era già stato deciso. Curioso che quel ruolo fosse toccato a una piccola fiamminga che fino al giorno prima era un’estranea e che era venuta come per miracolo a bussare alla sua porta.

Forse non un ruolo importante, non più importante, in ogni caso, di quanto Mina potesse immaginare.

Era in anticipo. Si era trattenuto meno del previsto a Les Nonnettes perché lì si sentiva soffocare. La sua partenza, che avrebbe voluto tranquilla e serena, si era trasformata in una fuga.

Correva, senza dirigersi verso Parigi. Non ci mise molto a raggiungere Évreux, che aveva attraversato spesso. Cercava un bar, ma vide solo dei bistrot con la facciata dipinta di giallo acceso o di violetto e che sicuramente non servivano whisky.

Passò alcuni minuti a districarsi in un dedalo di strade che si somigliavano tutte, finché non trovò un cartello che indicava la strada per Chartres.

Chartres, perché no? Meno di un quarto d’ora dopo scorse una locanda con un vecchio calesse sul prato a mo’ di insegna. Lì doveva esserci per forza un bar.

Infatti c’era, con un barista dietro al bancone che seguiva le corse alla radio.

«Un doppio!».

Stava per specificare, ma il barista aveva capito e afferrò la bottiglia di Johnnie Walker. Evidentemente non era l’unico a utilizzare quella formula. Un doppio scotch. Un doppio whisky. Un doppio. Bastavano quelle parole a dargli il voltastomaco.

«Bella giornata per andarsene a zonzo».

Alain rispose distrattamente di sì. Se ne infischiava del bel tempo. Non faceva parte del programma. Non era prevista nessuna parata ufficiale.

«Un altro».

«Mi sembra di averla già vista da queste parti».

Ma sì, cocco! Tutti l’avevano visto. Anche in posti dove non aveva mai messo piede. Semplicemente perché la sua foto era apparsa in prima pagina sui giornali.

«Arrivederci».

«Alla prossima».

La sua macchina doveva suscitare invidia. La lanciò a tavoletta su una strada che non era fatta per correre e almeno in un paio di curve rischiò di cappottarsi.

Chartres! E sia! Conosceva le vetrate della cattedrale. Si ricordava soprattutto di un ristorante all’angolo di una strada, con un bar accogliente. Lo trovò.

«Un doppio scotch».

Cominciava a funzionare. Ingranava, a poco a poco trovava il ritmo giusto. Stavolta, però, il giochino con il barista non gli riuscì.

«Lavorava qui già due anni fa, eh?».

«No, signore, sono arrivato il mese scorso».

«E prima, dov’era?».

«A Lugano».

Alain non era mai stato a Lugano. Uno a zero! Aveva pur il diritto di sbagliarsi, no?

Guidava, guardava le macchine che passavano nell’altro senso, i conducenti che ostentavano un’aria seria.

Per tutta la vita lui aveva fatto il contrario e la gente gli aveva creduto. Lo vedevano così disinvolto che nessuno sospettava che fosse un ragazzino travestito da indiano.

In realtà aveva le stesse paure degli altri. Anzi, anche di più, compresa quella di guardare gli uomini in faccia. E allora se ne usciva con:

«Cocco».

Oppure:

«Bello mio».

Funzionava. Gli altri ci cascavano. Ma davvero questo lo rassicurava?

Non aveva bevuto abbastanza. Di lì a poco, passando da Saint-Cloud, si sarebbe fermato di nuovo. Un locale enorme dove il sabato sera si ballava. Ci era andato un sabato con una delle dattilografe, quella volta che Micetta era ad Amsterdam per un’intervista. Uno scienziato americano, se non ricordava male.

Avevano fatto l’amore sull’erba, in riva alla Senna.

Era riuscito a tenere nascosta anche quella faccenda. Non arrivava fino al punto di averne paura, ma le donne gli incutevano soggezione. Era stato così sin dall’infanzia, dalle sue prime letture. Tendeva a metterle su un piedistallo.

Allora gli toglieva la gonna e le possedeva. Niente più piedistallo.

Percorse un tratto dell’autostrada dell’Ovest, raggiunse Saint-Cloud e non dimenticò di fermarsi davanti alla balera. L’arredamento era cambiato. E anche il genere di locale. C’era comunque un bar.

«Un doppio scotch».

Aveva rallentato il ritmo rispetto a due giorni prima. Conservava il sangue freddo, non dimenticava le raccomandazioni del commissario Roumagne. Aveva promesso. Un tipo in gamba, quel commissario. Aveva capito molte cose, forse anche troppe. Chissà, forse gli sarebbe piaciuto essere un uomo come lui.

Un tipo solido. Uno che non aveva bisogno di...

Al diavolo! Troppo tardi.

«Quanto le devo?».

Era una rogna, ma la sera prima gli era sembrato indispensabile fare quella mossa. Era prevista nel programma e non intendeva cambiare una virgola.

Cosicché certe apprensioni gli sembravano improvvisamente insensate. Certe immagini si sfocavano, certi personaggi gli si cancellavano dalla mente e stentava a ricordarsi delle loro fattezze.

Gli Champs-Élysées. Piantò lo sguardo in rue de Marignan e fissò la facciata dell’edificio dove tutte le sere si illuminava la gigantesca scritta «Toi».

Parcheggiò l’auto in place de la Bourse, si fermò in un bistrot del quartiere dove avevano sede i grandi quotidiani. In passato ci andava ogni tanto a mangiare un uovo sodo.

«Un bicchiere di rosso, ragazzo».

Il cameriere con il grembiule blu era troppo giovane per riconoscerlo, eppure non era passato così tanto tempo.

«Un altro».

Un rosso aspro. Questo non era in programma. Curava ogni dettaglio.

«Quanto ti devo?».

Non ce l’aveva con nessuna delle due. Micetta l’aveva assecondato finché aveva potuto. Forse perché credeva in lui? Forse perché pensava di essergli indispensabile? Non aveva importanza.

A un certo punto si era stufata di essere Micetta, di seguirlo passo passo. Le era venuta voglia di assumere a sua volta un ruolo di primo piano.

Un ruolo di primo piano! Gli veniva da ridere.

Entrò come fosse a casa sua nel vecchio palazzo di rue Montmartre e salì le scale dai gradini consunti, cosparsi di mozziconi di sigarette. I muri non erano mai stati rimbiancati e sulle porte c’erano ancora le targhe smaltate.

Là dove una volta c’era la redazione del giornale con il quale aveva collaborato, la targa recitava:


ADA
Fiori finti


Era l’ultima trovata per camuffare una casa di appuntamenti? «Ada» gli dava da pensare. Forse confezionavano anche corone mortuarie? Lavabili? Di plastica?

Altri due piani. Era accaldato. Percorse un corridoio. Sulla terza porta a sinistra non c’era una targa ma un biglietto da visita coperto di cellophane.


Julien Bour
Fotografo d’arte


Fotografo d’arte! Nientemeno! La chiave era nella serratura. Aprì la porta e si ritrovò in una stanza abbastanza grande con riflettori sistemati un po’ ovunque. Sopra una porta era accesa una lampadina rossa.

Una voce gridò:

«Non aprire! Arrivo subito».

Era la voce di Bour. Chi aspettava? Il commissario lo aveva avvertito della sua visita?

In un angolo, una rete metallica montata su quattro blocchi di legno e ricoperta da un tappeto marocchino serviva da divano e da letto. Un’altra porta, che Alain aprì, dava su un bagno minuscolo dove c’era una vasca con i piedi. Sotto i rubinetti si erano formate col tempo delle colature giallastre.

Richiuse la porta, si voltò e si trovò davanti Bour. Era in maniche di camicia, senza cravatta. Si era immobilizzato, cadaverico.

«Bour, bello mio».

Bour si voltò verso la porta come se stesse pensando di darsela a gambe.

«Siediti. Non aver paura, non ho intenzione di farti del male».

Perché il giorno prima aveva creduto che quella visita fosse necessaria? La vista del povero Bour spaventato, patetico, non gli faceva nessun effetto. E nemmeno quella del divano su cui, una dopo l’altra, si erano rotolate Micetta e Bimba. Nemmeno immaginarsi Bour tutto nudo gli suscitava la minima emozione.

«Le giuro, capo...».

«Che vuoi che me ne freghi, Cristo santo! Avevo voglia di guardarti, tutto qui. E ti guardo. Forse fai bene a essere così trasandato. A certe donne deve piacere».

Si accese una sigaretta, andò a gettare un’occhiata nel cortile ingombro di una decina di carretti. Doveva essere uno degli ultimi cortili di Parigi dove c’erano ancora dei carretti invece delle auto.

«Aspetti qualcuno?».

«Deve passare una modella».

Alain lo guardò fisso. È strano fissare un uomo da cui non ti aspetti niente, in merito al quale non cerchi nemmeno di farti un’opinione. È come fissare un animale. Lo guardi respirare. Osservi i suoi occhi spauriti. Noti il tremito del labbro, il velo di sudore sotto il naso.

«Che ne dici di fotografarmi?».

Neanche questo era in programma. Un’idea che gli era passata per la testa.

«Perché? Sul serio vorrebbe...».

«Sul serio».

«Un ritratto?».

«Perché no?».

Bour si alzò, con passo incerto, avvicinò uno dei riflettori e lo attaccò a una presa di corrente. Andò a prendere in un angolo una delle macchine sul treppiede e, mentre gli dava le spalle, probabilmente si aspettava di ricevere una pallottola o un colpo in testa.

Alain non si mosse.

«Di fronte?».

«Come vuoi».

L’altro mise a fuoco. Gli tremavano le dita.

«Hai fatto delle foto a Micetta?».

«Le giuro di no».

«Ma cos’è questa mania di giurare? Di’ di no e basta. Non ti è mai venuta voglia di farle una foto, nuda, sul divano?».

«No».

«Nemmeno ad Adrienne?».

«Adrienne me lo ha chiesto».

«E tu lo hai fatto?».

«Sì».

«Hai ancora i negativi?».

«No. Lei li ha distrutti. Voleva solo vedere come veniva».

«In che posa?».

«In diverse pose».

Sentì un clic.

«Non ne fai un’altra?».

«Sono sicuro che è buona».

«Non hai del whisky, per caso?».

«No. Mi resta un po’ di vino».

Lo guardò di nuovo, dritto in faccia, a distanza ravvicinata.

«Arrivederci!».

Che cos’aveva sperato? Di cosa aveva avuto paura il vicecommissario? Non era successo niente. Non aveva provato niente. In fondo Bour non contava. Era stato una semplice comparsa.

Dove aveva lasciato la macchina? La cercò per la strada e alla fine si ricordò che l’aveva parcheggiata in place de la Bourse.

Ormai aveva tutto il tempo. Doveva solo trovare qualche bar accogliente. Preferibilmente dove non lo conoscevano. Non aveva voglia di parlare.

La cosa più seccante era rimediare ogni volta un parcheggio per la macchina. Eppure gli serviva. Imboccò rue du Faubourg-Montmartre, ma non voleva tornare in place de Clichy. Aveva chiuso anche lì, come a Les Nonnettes. Era determinato ad andare fino in fondo.

Si ritrovò alla Madeleine. Un bar dove c’erano delle ragazze che cercavano compagnia. Lui però non era interessato.

«Un doppio scotch».

Gli rivolgevano occhiate. Lui le guardava come aveva guardato Bour, come se fossero state dei pesci, o dei conigli, una qualsiasi creatura vivente che non può fare a meno di respirare. È inquietante guardare qualcuno respirare.

«Un altro, vecchio mio».

Complicato scovare bar dove non lo conoscevano. Ne provò uno nuovissimo, in boulevard Haussmann. Il barista indossava una giacca rossa.

«Un doppio».

«Johnnie Walker?».

Era una cosa lenta. L’alcol non aveva sapore.

«Comincio a sembrare sbronzo?».

«No, signore».

Era la verità. Lo aveva constatato guardandosi allo specchio, ma voleva una conferma. In fondo al bar regnava la penombra. Una coppia seduta su un divanetto bello imbottito si teneva per mano.

C’era da credere che l’amore esistesse. Alzò le spalle e quasi dimenticò di pagare. Vero è che il cameriere lo avrebbe richiamato.

«Arrivederci, Bob».

«Mi chiamo Johnny, signore».

«Arrivederci, bello mio».

Continuava a fare l’indiano suo malgrado.

E se... No! Era troppo tardi per cambiare idea. Aveva avuto tutto il tempo per riflettere. Ma se, così, per curiosità, lui lunedì fosse tornato in ufficio... Be’... Tutti avrebbero fatto finta di niente, Boris per primo...

Solo lui, Alain, sarebbe stato incapace di far finta di niente... Ecco... Con nessuno... Né di starsene da solo...

D’accordo, era stato un caso. Micetta non poteva prevedere, dopo essersi incapricciata di Julien Bour, che un giorno avrebbe sparato a sua sorella.

Adesso anche lei sapeva. E gli aveva fatto riferire da Rabut che non intendeva rivederlo.

«Tranne che in tribunale».

Aveva pensato a tutto. Le donne pensano sempre a tutto. Procedono con un certo ordine nel loro disordine.

Si sentiva uno stupido, stupido come gli articoli di «Toi».

«Un doppio, barista».

«Martini, signore?».

«Scotch».

Era finito da qualche parte dietro al Palais Bourbon, poco lontano da casa di suo cognato. Chissà se Blanchet si era già guardato senza pietà. Ma no, non era mica stupido, suo cognato. Doveva sapere quant’era pericoloso.

Quanto a ricominciare... Da che parte?... E ricominciare cosa?... Se non fosse stato bocciato alla maturità... Inutile inventarsi delle scuse. Avrebbe fatto fiasco in qualcos’altro.

«Ancora uno!».

Il barista lo guardò un attimo prima di servirlo. Questo significava che cominciava a essere sbronzo. Ormai non mancava più molto.

«Stia tranquillo, lo reggo bene l’alcol».

«È quello che dicono tutti, signore».

Ma cos’avevano i baristi quel giorno per essere tanto retorici?

Vuotò il bicchiere, si avviò verso la porta con un’aria un po’ troppo contegnosa per mascherare il passo malfermo. In macchina fece fatica ad accendersi una sigaretta.

«Ha bisogno di te, Alain».

La voce di sua madre. Gli sembrava di sentirla, di vedere il suo sguardo spento, lo sguardo di una donna che nella vita non si è mai concessa un piacere. E lo stesso valeva per suo padre.

In che modo suo figlio aveva bisogno di lui? Non aveva bisogno di lui né di sua madre. Nessuno dei due contava qualcosa.

Patrick stava meglio con Mamie, come la chiamava lui, e con la coppia di vecchi. Non si rendeva conto che Les Nonnettes era una mistificazione, un sogno non realizzato.

Avrebbe ereditato una bella somma. Il milione di lettori e di lettrici, soprattutto lettrici, avevano fatto di Alain un uomo ricco.

Era un’ingiustizia bell’e buona. Suo padre aveva lavorato tutta la vita, dalla mattina alla sera, per guadagnarsi da vivere e Alain una sera, scherzando con una combriccola di amici, aveva scoperto una miniera d’oro.

Dov’era finito? Non si orientava più. Il boulevard che stava percorrendo era interminabile. Voleva dirigersi verso il Bois de Boulogne, non verso la circonvallazione.

Girovagò, si attirò il fischio di un vigile, accostò, costernato, nel timore che quel colpo di fischietto rovinasse tutto.

«Non sa che è senso vietato?».

L’agente non doveva assolutamente accorgersi che era ubriaco.

«Le chiedo scusa. Per il Bois de Boulogne, per cortesia?».

«Ce l’ha alle spalle. Svolti a destra, poi di nuovo a destra fino al pont Alexandre-III».

C’era mancato poco! Aveva diritto a un ultimo bicchiere, ma non subito, una volta arrivato al Bois. Era tornato su un terreno familiare, entrò in un bar. Aveva un cattivo sapore in bocca.

«Un whisky».

«Whisky della casa o...».

Indicò la bottiglia squadrata di Johnnie Walker sullo scaffale.

«Abbondi pure».

Non provava più vergogna. Era la fine. Aveva retto fino in fondo. Dimenticava qualcosa? Ormai era troppo tardi per pensarci. Le idee gli si confondevano.

Le idee! Guardò il suo vicino respirare. Ecco cos’erano le idee. Respirare.

«Un altro, le dispiace?».

Anche lì il barista gli rivolse uno sguardo esitante.

«La prego».

Lo mandò giù d’un fiato e gettò una banconota da cento franchi sul bancone bagnato. Non gli serviva il resto.

Aveva individuato l’albero, un grosso platano proprio in un angolo. Doveva solo ritrovarlo. Aveva alcuni punti di riferimento.

Se Micetta...

Quale Micetta? Con un’altra donna sarebbe successo esattamente lo stesso. Avrebbe chiamato anche lei Micetta, o con un qualsiasi altro nomignolo, come cocco, bello mio e compagnia.

Perché in fondo lui aveva paura. E adesso lei lo sapeva, lo sapevano tutti.

Ecco il suo albero, a cento metri. Pigiò a fondo sull’acceleratore. La Jaguar scattò in avanti. Il paesaggio sfrecciava veloce, ebbe l’impressione di inghiottire le macchine che arrivavano nell’altro senso.

Aveva sempre avuto paura.

Non adesso, però. Non...

Non sentì lo schianto, lo stridio dei freni delle auto, i passi, le voci, le esclamazioni e infine una sirena in lontananza.

Per lui era finita.

 

Épalinges (Vaud), 12 novembre 1967