Marc Augé
Recensione
P.b.
Raggiunta l'età in cui succede che qualcuno sul metrò si alzi per cedergli il posto, Marc Augé scava nei propri ricordi personali per sviluppare una riflessione, acuta e delicata, sul tempo che passa. "Conosco la mia età, posso dichiararla, ma non ci credo", scrive per evidenziare la differenza tra il tempo e l'età.
Augé ci fa riflettere su ciò che tendiamo a ignorare o sottovalutare, metterci di fronte a quello specchio che anno dopo anno riflette un volto diverso, irriconoscibile, lontano dall’immagine che ognuno di noi mantiene dentro.
Una delle caratteristiche fondamentali della società occidentale degli ultimi decenni è la capacità, la volontà di rimozione di alcune categorie spazio-temporali. Le distanze geografiche, ad esempio, così come la volontà di cancellare la vecchiaia, di rimuoverla nel pensiero comune.
Stefan Zweig ne "Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo", scriveva: “Così gli anni scorrevano, lavorando e viaggiando, imparando, leggendo, collezionando e gustando. Una mattina del 1931 mi sono svegliato: avevo cinquant’anni”.
Rimandiamo la vecchiaia, cerchiamo di respingerla fermandola attraverso il corpo. “Se si vuole rimanere giovani si deve insegnare al corpo a dissimulare o mentire. Mentire a chi? Agli altri e a se stessi”
Una frase colpisce particolarmente: la vecchiaia, quell’insondabile e nebuloso tempo senza età che emerge da questo saggio, si riassume in “qualche vuoto di memoria che riveste i giorni passati di una strana inconsistenza, la consapevolezza dei vincoli esterni di qualunque natura che hanno pesato sulla nostra vita fino al punto di farci dubitare, a volte, che sia stata davvero la nostra e, infine, il presentimento che il nostro futuro non si coordinerà con il presente più di quanto quest’ultimo con il passato che l’ha preceduto ma gli sfugge”.
In sostanza: la vecchiaia non esiste e tutti muoiono giovani.
Recensione
Carmelo Sciascia
[...] I ricordi sentimentali e gli amori, rimbalzano, ritornano sempre, sono il segno del tempo che non scompare e non vuole morire. L’amicizia, l’amore, il dolore, sono tutti segni che ci accompagnano per la vita e sono dovuti alla presenza degli altri, la presenza degli altri è una costante della nostra vita. Anche nella vecchiaia. Dove meglio si indaga sugli incontri. Con più consapevolezza. Ogni incontro non avviene come da copione, la scrittura dei nuovi incontri, quelli della maturità è un nuovo palinsesto, non il copione del dejà vù. "Questo perché il tempo in cui si è immersi nell’età avanzata non è la semplice somma degli avvenimenti passati, ma anche l’esperienza nel momento presente nel suo divenire. Anche per questo la vecchiaia non esiste e “bisogna pure ammetterlo: tutti muoiono giovani”. “In qualche modo è ciò che sintetizza lo stesso citato aforisma lapalissiano : – Cinque minuti prima di morire, Monsieur de La Palisse era ancora in vita –“. E ciò che si dice sempre quando qualcuno ci lascia per sempre: cinque minuti prima che morisse era in vita. E questo mi fa venire in mente una poesia di Ignazio Buttitta che parlando dell’amore e dei vecchi, dice : “ L’amore è sempre giovane, / s’invecchia solo / un giorno prima di morire” e continua dicendo che “ se tu hai i capelli bianchi, / se cammini ed hai il fiatone; / …. non è vero che sei vecchio se il tuo cuore freme e batte…”. La poesia è in vernacolo siciliano, ho dovuto tradurla per renderla comprensibile a tutti." ( La vecchiaia non esiste”, riflessioni di Carmelo Sciascia a margine del libro di Marc Augé "Il tempo senza età")
IL TEMPO SENZA ETÀ
La saggezza del gatto
L’avevamo trovata nella foresta di Marly – l’ex riserva di caccia reale accanto a Parigi – abbandonata già da un bel po’, affamata, supplichevole e ben decisa a non lasciarci ripartire senza di lei. Io ero dello stesso parere e i miei genitori si erano lasciati convincere: ero figlio unico, avevo una decina d’anni e saremmo cresciuti insieme, lei – va da sé – più rapidamente di me.
Questa gattina aveva carattere e unghie robuste di cui faceva uso volentieri, in special modo quando mi intestardivo a insegnarle a girare più volte su se stessa, come se fosse stata un cavallo addestrato per uno spettacolo circense. Ben presto i graffi e i morsi mi avevano coperto le braccia, che, pur tuttavia, sembravano soffrire meno del velluto delle poltrone del salotto sulle quali, con gran disperazione di mia madre, insisteva ad arrotare gli artigli come se volesse essere sicura fossero sempre ben affilati.
Sono cresciuto e lei è invecchiata senza apparentemente cambiare molto nell’aspetto. Con un briciolo di malafede qualche volta mi dicevo che si era calmata, ma in realtà sapevo che ero io ad aver rinunciato a provocarla. Mani e braccia non mi sanguinavano più e i nostri rapporti erano diventati indubbiamente meno ludici, più quieti, si può dire quasi contemplativi. Amava dominare la situazione dalla credenza situata in salotto, giusto dietro a una delle poltrone dall’alto schienale che aveva massacrato. Da giovane vi arrivava in cima in un solo salto, senza sforzo, prima di raggiungere con un altro piccolo balzo elegante il suo punto d’osservazione preferito, la credenza appunto. A volte preferiva rimanere sulla poltrona e allora si accucciava – in equilibrio instabile, zampe prudentemente ripiegate – sulla battuta superiore dello schienale e mi osservava tranquillamente come se mi sfidasse a fare altrettanto. O, almeno, tale era l’impressione che traevo da questo spettacolo stupefacente – un’impressione plausibilmente attribuibile ai miei rimorsi di addestratore fallito. Si cercava da sola le difficoltà: a volte l’ho vista tendere i muscoli, fissare la cima ambita, valutarne l’altezza e riuscire nella sua impresa di un tragitto diretto pavimento-credenza senza la mediazione della poltrona. E poi nel corso degli anni, impercettibilmente, le sue forze hanno incominciato a cedere. Prima ha rinunciato alla credenza, poi non ha più mirato alla cima dello schienale. Per ore rimaneva volentieri acciambellata sulla seduta della poltrona, fedele al luogo, ma, diciamo, al piano inferiore. Dopo ancora non riusciva nemmeno più a saltare sulla poltrona stessa che è allora diventata il soffitto del suo nuovo luogo di riposo.
Un paio di volte ho tentato di aiutarla deponendola sulla credenza. Senza risentirsi – per dirla onestamente – della mia iniziativa, mi è sembrata disorientata e ansiosa di scendere al più presto. Non era più il suo piano. Ho capito di aver fatto, per così dire, una gaffe, un errore di buongusto, o a dir meglio, di educazione. E me ne sono pentito amaramente. La sua indole è rimasta la stessa fino alla fine, godendo del più piccolo raggio di sole; incollata al calorifero in inverno; drizzando le orecchie al primo tubare dei piccioni in primavera; accettando i segni del nostro affetto costante con l’identica benigna indifferenza che aveva sempre fatto parte del suo fascino da quando era giovane.
Mounette – il nome che le avevamo dato senza grandi sforzi di originalità1 – ha avuto una lunga vita da gatto ed è morta a circa quindici anni nell’appartamento dei miei genitori che io avevo lasciato da poco.
Tutti i possessori di animali domestici attribuiscono loro, e volentieri, qualità di cuore e di animo, definendoli fedeli, leali, sinceri e perfino intelligenti. Siffatti giudizi – a parte tradurre il carattere nevrotico che potrebbe attagliarsi, nei due sensi, alla relazione uomini-animali – comportano che, in regola generale, questi ultimi non subiscano le pressioni sociali di qualunque natura che, invece, si esercitano sui primi. Per quanto domestici siano, questi animali sono dunque visti come se incarnassero spontaneamente qualità prettamente naturali. Che non ci si fraintenda: non sto suggerendo che il mio gatto fosse un saggio. Non studio la psicologia felina: qui si tratta dell’immagine che me ne sono fatto.
In seguito ho avuto altri due gatti, una coppia che – ne ero ben consapevole – era indissociabile. Al pari degli esseri umani, la forza dell’abitudine era certamente il cemento della loro relazione. Da giovani si bisticciavano spesso e il loro giocare incessante finiva rapidamente in rissa. D’altro canto tenevano molto alla loro indipendenza e quando soggiornavamo in campagna partivano all’avventura ognuno per suo conto anche se si ritrovavano presto e ogni sera si accucciavano uno accanto all’altro, gli occhi socchiusi e l’aria complice. Sono invecchiati allo stesso ritmo e quando il primo è morto l’altro non ha dato segno di inquietudine particolare, acciambellandosi da solo al solito posto. E, pur tuttavia, se ne è andato a sua volta qualche giorno dopo.
Il gatto non è una metafora dell’uomo, bensì un simbolo di quella che potrebbe essere una relazione con il tempo che riuscirebbe a fare astrazione dall’età. Noi ci immergiamo nel tempo, ne assaporiamo alcuni istanti; ci proiettiamo in esso, lo reinventiamo, ci giochiamo; “prendiamo il nostro tempo” o “lo lasciamo scorrere”: è la materia prima della nostra immaginazione. Di contro, l’età è la spunta minuziosa dei giorni che passano, la visione a senso unico degli anni la cui somma accumulata, una volta visto il totale, ci può far sprofondare nello stupore. L’età ci perimetra tutti, tra una data di nascita di cui – almeno nel mondo occidentale – siamo certi e una scadenza che, in regola generale, auspicheremmo differire. Il tempo è una libertà, l’età un vincolo. Un vincolo che, apparentemente, il gatto non sa cosa sia.
In queste pagine non si troveranno né un diario, né Memorie e, ancor meno, una confessione, bensì un proposito personale, partendo dalla mia esperienza e dalle mie letture. Per ciascuno di noi la vita rappresenta una lunga e involontaria indagine. Io ho tentato in questo libro di dare sostegno a una conclusione che confermerà certamente l’intuizione di alcuni e stupirà altri, visto che considera in senso opposto i luoghi comuni della saggezza popolare quali “Si jeunesse savait, si vieillesse pouvait”… sta a dire “Se i giovani sapessero, se i vecchi potessero”. Come fonte di sapere o accumulo di esperienze, la vecchiaia non esiste e per rendersene conto basta arrivarci. Certamente, i malanni e le debolezze che si accompagnano alla vecchiaia si presentano – eccome! – più o meno presto, più o meno crudeli, ma non aspettano sempre l’età per colpire e lo fanno iniquamente sugli uni o sugli altri.
Quanto agli stati d’animo e al comportamento degli anziani si constata spesso quanto siano “patinati” dal linguaggio dei meno anziani, anche, e soprattutto, se questi hanno buone intenzioni. All’epoca, si è sottolineato il linguaggio paternalistico di certi colonizzatori che non sempre erano i più cinici, ma di certo i più miopi. Quale aggettivo trovare per definire chi è a volte responsabile delle persone anziane che si indicano come “dipendenti” in modo da poter loro dimostrare la propria attenzione? Penso ad alcune persone ben intenzionate – uomini o donne che siano –, infermieri, paramedici o ausiliari nell’ambito medico, per esempio, che si prendono delle libertà rivolgendosi alle persone di cui si occupano con un “nonnino” o “nonnina”. In una sorta di inversione del ruolo linguistico così facendo tendono paradossalmente a infantilizzare quelle persone – uomini o donne che siano – di cui appaiono come i nipoti. Lo sdrucciolamento dei termini “Nonnino! Nonnina!” nel termine generico (i nonnini e le nonnine) segue la stessa ottica. La gentilezza e l’affetto possono avere effetti avvilenti su chi ne è l’oggetto: donne o uomini che siano, li invitano e li incitano a penetrare in una categoria esclusiva e che esclude, una sorta di casa di riposo semantica all’interno della quale si sentiranno passivi, tranquilli e comodi, ma in ogni caso alienati agli occhi degli altri.
Recentemente la stampa ha portato a conoscenza del pubblico la creazione di corsi di formazione rivolti all’attenzione del personale di alcune case di riposo per aiutarlo “ad accettare la necessità d’intimità degli ospiti dalla sessualità viepiù liberata”. È stata istruttiva la lettura di un articolo di Manon Gauthier-Faure dedicato al tema e pubblicato dal quotidiano Le Monde il 9 agosto 2013. Ha rivelato gli stati d’animo del personale medico e paramedico e dunque, indirettamente, le modalità organizzative di queste case di riposo. Un aiuto infermiera confessa che i corsi di formazione le sono stati grandemente utili: “Non è cosa comune o scontata vedere una persona anziana che ne bacia un’altra. Prima ci scioccava un po’, ora li lascio fare”. È proprio questa forma di autoritarismo che potrebbe essere giudicata scioccante. Tuttavia c’è di peggio. In effetti, a cosa dovrebbero condurre i colloqui, gli scambi, le scelte di linguaggio e altri incontri del personale in formazione? Il direttore di un istituto suggerisce che “sarà fatto” e cioè che le coppie o i coniugi dei residenti potranno essere accolti “in camere comunicanti o camere a due letti”. In altri termini la regola vigente stabilisce una separazione autoritaria delle coppie una volta che abbiano messo piede in questa sorta di “riserva” per persone anziane “dipendenti”. Il problema non sta nel diritto all’amore e al sesso, come sembrava concludere l’articolo, ma in quello ben più fondamentale alla libertà individuale. Senza fare dell’ironia su provvedimenti che cercano di “andare nella direzione giusta”, come si usa dire, si può prendere il polso della situazione che tentano di modificare. Le persone anziane dipendenti devono esserlo in tutto e per tutto? Sono forse meno sensibili dei miei gatti? C’è da temere grandemente che, con le migliori intenzioni del mondo, le si spinga a perdere – e più presto possibile – qualunque velleità d’indipendenza per abbandonarsi a uno stato di servitù volontaria.
Nell’ottica contraria abbiamo da tempo testimonianze che sopravvalutano le virtù della vecchiaia. Ormai da molto gli stereotipi sulla saggezza che scaturisce dall’esperienza fanno parte della retorica dell’età. L’allungamento della durata media della vita ha inferto un colpo fatale: almeno in Occidente, l’età avanzata è divenuta banale e ha perso la sua caratteristica di eccezionalità. Non è più la sola a detenere prestigio. Per ottenere un beneficio mediatico, nella nostra società che verte sull’immagine, è necessario battere dei record di longevità (gloria effimera per definizione), o giungere a prestazioni – siano sportive, teatrali, letterarie o politiche – malgrado l’età – e fatta eccezione per alcuni che confermano, tutto sommato, la regola comune del nonnino/nonnina. Oggigiorno il vegliardo prestigioso non deve dimostrare la sua età. Si colloca immediatamente sotto il segno del diniego.
Senza negare alcunché e, soprattutto, non certo l’evidenza, non si può mettere dunque in questione una, diciamo, categoria di pensiero – l’età – che sotto le vesti di un’obiettività correlata alla quantificazione può sfociare in esclusioni drastiche dalla vita sociale effettiva, cioè del singolo e consapevole. È forse possibile sentenziare sulla lucidità e l’intelligenza di un essere umano?
La questione dell’età, vissuta da tutti sotto ogni aspetto… e in qualunque età… rappresenta l’esperienza umana essenziale, il luogo di incontro tra noi stessi e gli altri ed è comune a tutte le culture. Resta tuttavia un luogo complesso e contraddittorio, in cui ciascuno di noi – ammesso che ne avesse la pazienza e il coraggio – potrebbe commisurare le mezze-menzogne e le mezze-verità che affollano la sua vita. Prima o poi, ognuno è condotto a interrogarsi sulla sua età, che sia sotto un aspetto o un altro, e dunque a diventare così l’etnologo della sua propria vita.
1 Probabilmente derivato da moue, in francese fare una smorfia, dunque si potrebbe leggere come un affettuoso Smorfiosetta. [NdT]
Il sopraggiungere dell’età
“Oh vecchiaia nemica!…”
corneille, Il Cid, atto i, scena iv
L’età avanza ed è meglio accoglierla bene considerato che l’animale è permaloso e potrebbe essere tentato di farla pagare cara a chi, con il suo silenzio, facesse finta di non riconoscerlo. Certo i mezzi per manifestare la sua presenza non gli mancano, meglio dunque accarezzarlo nel verso del pelo e stare all’erta. Insomma, alla vecchiaia va dato il benvenuto, bisogna inchinarsi al suo orgoglio e impunemente enumerare con entusiasmo i doni che, quale un Babbo Natale, estrarrà generosamente dal suo sacco. Per menzionare solo l’essenziale, e un po’ curiosando qui e là, diciamo: la saggezza scaturita dall’esperienza; la tranquillità che segue ai tormenti della libido; le gioie dello studio e il sapore dei piccoli piaceri quotidiani. In poche parole, trattare la vecchiaia con i riguardi che gli Antichi riservavano alle Erinni, dee della vendetta, chiamandole “Eumenidi” o “Benevole”, dunque esorcizzare la paura della vecchiaia enumerando i suoi pretesi favori.
È il messaggio che Cicerone, all’età di sessantatré anni, cercava di trasmettere al suo amico Tito Pomponio Attico (che ne aveva sessantasei) scrivendo il suo De Senectute, alla fine aggiungendo perfino una promessa – e non delle più trascurabili: quella dell’immortalità. Tutti i grandi uomini hanno creduto all’immortalità, o, almeno, così affermava. Sicuramente per non porsi in modo troppo manifesto personalmente in questa categoria, Cicerone ha scelto la forma letteraria del dialogo e ha messo l’essenziale del suo proposito nelle parole di un ottantaquattrenne Catone il Vecchio (il Censore). Il suo De Senectute è dunque una duplice fantasia letteraria: Cicerone dà vita a un personaggio scomparso ormai da un secolo e non solo trae piacere dal rifugiarsi nella scrittura, ma tratteggia anche l’abbozzo di un ideale di serenità. Un ideale che, tuttavia, è ben lungi dal corrispondere alla sua vita in quel momento: soffre della morte della figlia Tullia – avvenuta nel mezzo di ben due pratiche di divorzio in due anni – e, non da ultimo, vive una passione politica che lo condurrà alla rovina nel giro di qualche mese: dopo le Idi di Marzo parteggia per Ottavio e il giorno successivo alla nomina del triumvirato viene assassinato dai soldati di Antonio a soli sessantaquattro anni.
Detto questo, l’opera di Cicerone contiene due spunti interessantissimi che possono ben introdurre qualunque dibattito si affronti sull’età e la vecchiaia. Subito, per bocca di Catone, afferma che la vecchiaia non ha il monopolio della debolezza e della cattiva salute, che possono affliggere anche i giovani. D’altro canto, le persone anziane devono avere cura della loro salute fisica e intellettuale, quelle che in età avanzata regrediscono nell’infanzia venivano considerate poveri di spirito. Certo, la vecchiaia limita alcune attività e tuttavia non esercita alcun effetto nocivo sulla mente di chi non ha trascurato di conservarne la vitalità. In altre parole: dimmi come invecchi e ti dirò chi sei stato.
Sofocle compose tragedie sino all’estremo limite della vecchiaia; poiché, per questa sua passione, sembrava trascurare il patrimonio familiare, fu chiamato in giudizio dai figli: volevano che, allo stesso modo in cui da noi si è soliti interdire quei padri che gestiscono male le loro sostanze, così i giudici lo rimuovessero dal controllo del patrimonio familiare come se fosse un rimbambito. Il vecchio, così si racconta, declamò ai giudici la tragedia che, da poco composta, aveva fra le mani, Edipo a Colono, e chiese se quell’opera sembrasse scritta da un rimbambito. Finita la declamazione i giudici decisero di proscioglierlo.1
Il secondo spunto dilata l’ispirazione aristocratica del primo. Se gli anziani sono meno inclini alla “vita attiva” di quanto lo siano i giovani sono comunque migliori di loro nel gestirla. Catone, come lo immagina Cicerone, non è lontano dal difendere una gerontocrazia. Allo stesso tempo viene sottolineata la contraddizione che sovverte qualunque dibattito sull’età: da una parte una maggiore fragilità dell’età avanzata, da un’altra la grande esperienza acquisita. Si sa, siffatta contraddizione è solo apparente e si riferisce di fatto a un’opposizione di classe che Cicerone non tentava di dissimulare, sebbene non abbia mai usato il termine né il concetto e che, invece, Simone de Beauvoir avrebbe avuto gioco facile a sottolineare nel 1970 nel suo libro La terza età.
Tutte le considerazioni e i presupposti di quanto avanzato da Cicerone – ormai più di duemila anni fa – oggigiorno non ci sono davvero sconosciuti, incluse le loro apparenti contraddizioni. L’attualità ci mostra di tanto in tanto esempi di conflitti familiari nella gestione di grandi patrimoni, sebbene la persona che si tenta di mettere sotto tutela, uomo o donna che sia, fatichi a seguire l’esempio di Sofocle e non presenti la sua opera letteraria al fine di sostenere la sua difesa. Più in generale, è sempre necessario ammettere che nonostante l’allungamento della durata media della vita, non si invecchia alla stessa età a seconda di un’origine sociale o il genere di attività svolta. Il rapporto con l’età rivela la disuguaglianza sociale e, da questo punto di vista, bisogna riconoscere che l’unica soluzione al problema della dipendenza sarebbe, e sarà, nel futuro, “l’educazione” di tutti: un’utopia che non risolverebbe l’insieme degli inconvenienti della vita ma che tuttavia conferirebbe ai più una chance concreta di esercitare il loro libero arbitrio.
La speranza di vita è anche un segno di ineguaglianza tra continenti e un indicatore di sviluppo. Nella mia veste di etnologo e viaggiatore non ho mai smesso di incontrare anziani che si sono rivelati più giovani di me quando io stesso non ero ancora molto vecchio. Nell’Africa Nera raggiungere un’età relativamente avanzata è un segno di forza. La prima volta che, in Costa d’Avorio, sono stato chiamato “Vecchio!” non avevo raggiunto i quarant’anni e mi sono sentito lusingato da questa dimostrazione di considerazione. Una sensazione ben diversa e opposta alla costernazione furibonda che ho provato, molto tempo dopo, quando uno sciagurato giovanotto ha fatto cenno di alzarsi per cedermi il posto in metropolitana.
Gli intellettuali sono più inclini di altri a condividere l’auspicio di Cicerone di vedere le persone anziane che si prendono cura della loro mente tanto quanto del corpo. A questo riguardo godono di una sorta di rendita di una situazione che spetta a loro far durare. Una “rendita” che, d’altro canto, non è priva di ambiguità visto che, molto più di quanto succeda ad altri, fa ricadere proprio su di loro l’impegno di portare prova di esserne degni. Con il sopraggiungere della vecchiaia possono in effetti temere che, al fine di individuare i primi segni di senescenza, si esaminino con occhio particolarmente critico i minimi dettagli di quanto dicano, scrivano o si propongano. In alcuni questo potrebbe far nascere la tentazione di “gigionare” un po’ e di calcare la mano nella sostanza e nella forma, di radicalizzarsi nei loro giorni passati, non fosse altro che per invertire in modo spettacolare quel percorso che di solito conduce i rivoltosi di ieri a divenire i conservatori di domani. E non solo. Sulle labbra di qualche grande anziano vivace saremmo a volte tentati di leggere questo grido stupefacente: “Più giovane di me, sì, tu muori!”.
La televisione, amando i contrasti facili, incoraggia l’apparizione un tantino gigionesca di siffatti ibridi temporali, di questi pipistrelli video-acustici: “Sono saggio, basta guardare i miei capelli bianchi; sono giovane, ascoltate i miei propositi”. Tuttavia il compito è arduo. Infatti per loro non è così facile condannare l’ideale di gerontocrazia avanzato da Cicerone e Catone poiché questa denuncia che venisse dalle loro labbra potrebbe facilmente passare – sotto le vesti di una gioventù mantenuta o ritrovata – come una rivendicazione di autorità, una forma elegante, quasi civettuola, di pretesa saggezza, di esperienza e… potere! Quanto meno di potere d’influenza. Prima di scagliare la pietra contro, diciamo, questi “esibizionisti” dell’età, riconosciamo loro comunque delle circostanze attenuanti.
Se gli anziani giocano sulla loro età è perché gliela si rinfaccia troppo spesso, con maggiore o minore malizia, con cattiveria, con candore o indelicatezza. È un po’ quello che accade con le persone straniere alle quali il primo venuto si crede autorizzato a chiedere da dove provengano poiché pensano di individuare un leggero accento nella loro dizione: l’anziano suscita la curiosità di un passeggero dell’autobus, di un autista di taxi o di un presentatore televisivo. L’età sta agli intellettuali che invecchiano come la bellezza sta alle donne: a un presentatore televisivo, appunto, non verrebbe mai in mente di esaltare il fisico prestante di un attore, essendo un complimento riservato alle donne; nella stessa ottica, non si sdilinquirebbe sull’età di un quarantenne, cosa riservata ai vecchi. Gli eufemismi del lessico ufficiale (terza età – dopo i sessant’anni; quarta età – dopo i settantacinque) non fanno altro se non peggiorare un malessere, diciamo, ambientale; come se certe parole intimorissero. Una “volgarizzazione”, in senso contrario, promuove lo status di certi aggettivi elevandoli a sostantivo, per esempio “giovane”: “Il giovane ha vuotato la cassa e ha preso la fuga”; “I giovani sono preoccupati per il loro futuro”. Quando ero giovane io questa “promozione” a sostantivo era riservata ai “vecchi” e si parlava senza mezzi termini della “pensione dei vecchi”, minima e tipica delle persone senza mezzi. I vecchi corrispondevano dunque a una classe sociale, un po’ come i giovani d’oggigiorno.
È risaputo, il miglior sistema di rifiutare l’assegnamento a una categoria globalizzante è quello dell’“inversione delle stimmate”, ma lo è anche il tentativo di seduzione attraverso il diniego che può paradossalmente accompagnarlo. Trattandosi del rapporto con l’età avanzata, si vedono all’opera questi due meccanismi, certamente tra qualche personalità – più o meno mediatica – ma anche nel corso delle conversazioni al tavolo di un caffè o dei pasti in famiglia, sotto forma di contrasto tra l’essere e l’apparire. “Non sono quello (o quella) che credete” è la formula chiave di qualunque tentativo di seduzione: “Cercate dunque in me questo ‘altro’ che non conoscete”. All’occorrenza, quando si tratta del riconoscimento dell’età considerato come qualcosa che non riassume il tutto della persona ecco il “Sono vecchio, ma…” (“Sono vecchio ma non sono un uomo finito”; “Sono vecchio ma ho ancora frecce al mio arco”). Andando oltre, la rivendicazione dell’età vista come atout porta a: “Sono vecchio, ma proprio per questo…” (“Sono vecchio ma questo mi rende libero”; “Sono vecchio ma proprio questo mi permette di capire la gioventù”). Una parte di ciò a cui mira siffatta denegazione è – sotto forma di allusione – fondamentalmente vera, considerato che nessuno si riduce alla semplice apparenza della sua età fintantoché gli rimane un po’ di consapevolezza. Tuttavia l’assimilazione della memoria a una forma di esperienza – che implicitamente è alla base di tutte le lezioni impartite dalle persone anziane in nome della loro età – è più discutibile e dipende dalla fantasia e dalla reinvenzione di se stessi, alle quali siamo tutti tentati di soccombere un giorno o l’altro.
Da questo punto di vista, gli attori professionisti sono più crudelmente condannati all’onestà di quanto lo siano gli scrittori o gli intellettuali poiché i ruoli che accettano di interpretare (e di cui non sono gli autori) devono moltissimo al loro aspetto fisico e alla loro età. Per quanto questa affermazione possa a prima vista sembrare paradossale, gli attori, loro, non hanno l’agio di nascondersi dietro lo schermo del linguaggio. Sebbene il cerone e il trucco consentano loro un certo margine di manovra, ciò che noi apprezziamo nei più grandi attori o nelle più grandi attrici è il loro dono, nel filo degli anni, di incarnare personaggi che hanno sempre la loro età: proprio invecchiando si rinnovano. È vero che i casi della vita a volte portano a eventi di una tragicità folgorante sia nel campo della creazione letteraria sia in quello dell’arte drammatica: Raymond Radiguet (scrittore morto ventenne nel 1923), James Dean… Tuttavia simili effetti sono dovuti alla indifferente brutalità della morte che falcia vite nel fiore degli anni e crea una leggenda in cui l’autore si sfuma nella sua opera e l’attore nel suo personaggio grazie alla magia di un trasferimento tanto metonimico quanto metaforico. D’altro canto nulla di più triste della parabola discendente delle celebrità che, un tempo, la sorte e lo scintillio della giovinezza avevano fatto assurgere a mito e che non finiscono mai di invecchiare tentando di sopravvivergli.
L’attore che continua a recitare accetta più frequentemente ruoli che corrispondano alla sua età: non vede in modo dicotomico la sua vita e la sua professione. Considerato che i suoi ruoli si rinnovano affronta sempre un’esperienza inedita: vive il nuovo senza ripetersi. Lo scrittore e l’intellettuale sono invece più vulnerabili, al fine di non ripetersi possono essere tentati di ringiovanirsi artificiosamente e di forzare le loro argomentazioni proprio come altri si tingono i capelli di un colore che si pretende essere naturale. Si può concluderne che il talento, in entrambi i casi, non giunge a grandezze se non quando coincide con l’amore per la verità: cosa che, tutto sommato, fa sorgere un sentimento di conforto.
1 Cicerone, Cato Maior – De Senectute. Tr. it. Loffredo, Napoli 2009.
Quanti anni hai?
“Sono maggiorenne e vaccinato.”
“Quanti anni hai?” La domanda è maggiormente imbarazzante quando viene formulata in una lingua come l’inglese che ha l’ausiliare “essere” come intermediario: “How old are you?” (letteralmente “Quanto vecchio sei?”). Ma, ancora di più, lo è la risposta: “I am…” (letteralmente “Io sono”). Io sono davvero questi quaranta, cinquanta, sessant’anni o più attraverso i quali mi trovo condannato a definirmi? In un certo senso è così e sono gli altri, la società e le sue regole che lo decidono. In tutti i campi sono stabiliti dei limiti d’età: la maggiore età, il pensionamento o la possibilità d’iscriversi alla Académie Française, come se passata una certa età non si potesse più aspirare all’immortalità. Altrettanto dicasi per i limiti – stabiliti dalle banche dello sperma – per la donna e il suo partner che chiedano la procreazione assistita, o per un cardinale che, arrivato a ottant’anni, non può più partecipare al Conclave per l’elezione del papa. In poche parole, quanto ho di più profondamente personale, il mio percorso nel tempo, che mi avvicina alla morte, la mia morte, è registrato, inquadrato, sottoposto a regolamenti, deroghe ed eccezioni: se io “sono” la mia età e non sono altro che quella, sono comunque un essere fondamentalmente sociale e culturale strettamente definito da regole collettivamente riconosciute. Ma questo cumulo di regole mi riguarda davvero? Sono davvero diventato “maggiorenne” a ventuno anni? E oggigiorno siffatto cambio di status avviene davvero tre anni prima? Sono diventato un altro una volta raggiunto il pensionamento? Dopo i sessantacinque, i settanta o gli ottant’anni non ho davvero più niente da dire? Un problema di libertà, e più le speranze di allungamento della vita aumentano, più cresce il numero di “collocamenti fuori circuito”.
Il pericolo di queste regole: quando si toglierà il diritto di voto agli anziani?
E, al contrario, non vediamo accorciarsi il periodo dell’infanzia? Un delinquente di meno di sedici anni è veramente un minorenne o è la prova particolarmente tragica dell’erosione che su scala più generale mina le sponde dell’adolescenza? Sebbene se ne diventi consapevoli solo guardando a ritroso, rimane comunque vero che nel corso dell’esistenza si varcano delle frontiere – una sorta di soglie – ed esse variano secondo gli individui e i campi di attività: si può essere un vecchio tennista e un giovane dirigente o un giovane ministro.
Una vecchia signora un giorno mi ha detto, a modo suo e con un sorriso affascinante, che aveva mantenuto il “suo animo di ragazza”. Credo di aver capito cosa intendesse dire: che dietro le rughe e il corpo frusto rimanevano lo stesso sguardo, la stessa sensibilità, una sorta di perpetuità. Forse è proprio questa discordanza tra l’invecchiamento del corpo e il tempo lungo della psicologia soggettiva che ha incitato a stabilire una distinzione tra corpo e animo, che a molti appare evidente e naturale e fa dunque credere loro, in modo più o meno preciso, all’immortalità di un principio spirituale.
“Quanti anni ha?” Da qualche tempo quando mi si rivolge la domanda sprofondo nell’imbarazzo. Anzitutto proprio nei confronti di chi me la pone visto che mi appare prova di un’indelicatezza di cui non sospettavo l’esistenza e, secondariamente, perché devo ben riflettere prima di rispondere. Come posso dire? Conosco la mia età, posso dichiararla, ma non ci credo. In ogni caso desidero fare due precisazioni. La prima consiste nel fatto che non provo la stessa sorda irritazione che la domanda suscita in me quando a pormela sono dei vecchi complici: abbiamo più o meno la stessa età e conoscono già la risposta. Tuttavia, a volte, ci divertiamo a, diciamo, raffinare i dettagli, a cercare il maggiore di solo qualche settimana, addirittura giorno, come se fossimo rivali in una competizione e cercassimo di stabilire un ordine di arrivo. Giochiamo e, in un certo qual modo, questa luce canzonatoria riflette il nostro stato d’animo: siamo vecchi ma continuiamo a non rendercene sempre conto, come se, spostandoci tutti insieme parallelamente e nella stessa direzione, avessimo perso la consapevolezza del movimento. Seconda precisazione: questo imbarazzo nel dichiarare la mia età è relativamente recente, almeno in questa sua forma: dopo i trentacinque anni, l’avvicinarsi della quarantina mi aveva per qualche tempo infastidito. Successivamente, una volta uscito da quella zona di turbolenza, da una specie di vuoto d’aria, avevo ripreso quota – e anni – senza sentirmi particolarmente turbato. Le cose sono cambiate quando ho superato i sessantaquattro anni, l’età a cui era morto mio padre e dunque sono diventato maggiore di lui. Ho cominciato a sentirmi “stagionato” (“senza età” o “stravecchio” come si dirà più avanti) e, senza grande angoscia né volontà di diniego, non mi sono più identificato con la mia età, che fosse l’età “raggiunta nell’anno” o l’età “in anni compiuti” secondo la sottile distinzione dell’insee (Institut National de la Statistique et des études économiques – l’istituto nazionale che divulga informazioni e dati sull’economia e la società francese).
L’età è il tempo trascorso dopo la nascita e può essere calcolata seguendo due indicazioni:
– l’età per generazione, o età raggiunta nell’anno;
– oppure età in anni compiuti.
In generale viene considerata l’età raggiunta nell’anno, che corrisponde alla differenza tra data dell’evento e l’anno di nascita della persona.
L’età in anni compiuti corrisponde all’ultimo compleanno e dunque alla data dell’evento. Tuttavia nella stessa generazione, l’età in anni compiuti non è uguale per tutti.
Si consideri una persona nata il 10 ottobre del 1925 che decede il 18 aprile del 1999. Ha raggiunto nell’anno i 74 anni e se si calcola 1999 meno 1925 si ha, appunto, il risultato di 74. Dunque in anni compiuti (nel suo ultimo compleanno) il risultato cambia: 18 aprile 1999 meno 10 ottobre 1925 porta a 73 anni 6 mesi e 8 giorni.
Le precisazioni fornite dall’insee sul suo sito Internet paiono poggiare sull’evidenza, tuttavia corrispondono a possibilità strategiche diverse per quelle persone – uomini o donne che siano – a cui viene chiesta l’età. Prendendo come base il suo compleanno dell’anno successivo, mio nonno aveva un modo di dichiarare la sua età che era una sorta di sintesi dei due modelli di calcolo dell’insee. Compiendo una sottrazione ordinale, il giorno del suo settantanovesimo compleanno ha dichiarato: “Sto per entrare nei miei ottantuno anni”. Aveva due ambizioni: sopravvivere alle sue cognate e diventare il decano del paese. Le ha realizzate entrambe, ma la sua propensione a invecchiarsi mi è sempre sembrata rispondere a una sorta di vertigine umoristica davanti all’accelerazione impressa dagli ultimi anni.
Dal canto mio, mi sento piuttosto “stagionato, senza età”. Stagionato, o meglio “stravecchio” (ma “qualitativo”, come si dice per certi prodotti) e infatti l’espressione che si usa, per esempio, per i vecchi armagnac – una sorta di acquavite – parla chiaro sul fatto che non è questione di negare il fardello del tempo bensì, al contrario, di esaltarne la “qualità”. Un armagnac stravecchio nasce dall’insieme di diversi e vecchissimi altri armagnac. Una persona “stagionata, senza età o ‘stravecchia’” racchiude in sé numerosi passati inegualmente presenti nella sua memoria, passati ricomposti dei quali, spesso, i più antichi non sono per questo i meno tenaci e possono dargli l’impressione che la sua vita sia durata quanto un lampo. D’altronde, altri più recenti che stanno già sbiadendo lo persuadono facilmente di aver vissuto un’eternità; altri ancora galleggiano in una bruma indistinta sul fondo dell’orizzonte della sua memoria senza che sia in grado di situarli o datarli con precisione e gli fanno dire: “Ho più ricordi che se avessi mille anni”1 (come scrive Baudelaire, nel suo I fiori del male).
Il riferimento all’armagnac è di certo ingannevole: sembra suggerire che il miscelarsi dei tempi conduca inevitabilmente a una forma di eccellenza, il che ricrea le ambiguità che si attagliano alla nozione di esperienza. In realtà, qui l’espressione “senza età” si applica semplicemente alla molteplicità di tempi presenti in ciascuno di noi in ogni istante e ancor più quando cerchiamo di “fare il punto” o “prenderci una pausa”. Tuttavia siamo ben lungi dal trovare in un computo accurato degli anni passati, se non una direttiva precisa, quanto meno un orientamento generale, quel filo irregolare che permetterebbe di seguire il corso del passato e di apprezzarne in retrospettiva la relativa coerenza. Di fatto, invece, ci troviamo a confronto con un insieme composito e mobile in cui, a certi elementi strettamente limitati ai fatti, si mescolano ricordi che sono anche quelli delle nostre speranze, delle nostre aspettative o delle nostre delusioni. E non solo: qualche vuoto di memoria che riveste i giorni passati di una strana inconsistenza, la consapevolezza dei vincoli esterni di qualunque natura che hanno pesato sulla nostra vita fino al punto di farci dubitare, a volte, che sia stata davvero la nostra e, infine, il presentimento che il nostro futuro non si coordinerà con il presente più di quanto quest’ultimo con il passato che lo ha preceduto ma gli sfugge. Insomma, non solo tutto il contrario di un curriculum vitae o di un piano di carriera, ma a volte anche l’ombra del dubbio sulla nostra identità di singolo individuo.
1 Charles Baudelaire, “Spleen lxxvi”, in I fiori del male. Tr. it. Garzanti, Milano 1998.
Autobiografia ed etnologia di sé
“Non hai più l’età!”
In letteratura, l’autobiografia è senza dubbio meno il frutto di una tentazione narcisistica di raccontarsi di quanto invece sia una volontà di “incastonarsi” nel tempo grazie a qualche testimonianza incontrovertibile. Un po’ come quei turisti che sembrano più ansiosi di fotografare i paesaggi o i monumenti che si trovano davanti di quanto siano invece interessati a osservarli davvero. Considerato il carattere fugace dell’istante e del più piccolo evento, la cosa davvero importante è attendere di poter ri-vedere per poterci credere, di anticipare quell’assenza che già si profila, ombra proiettata di un presente inafferrabile. L’opposto di quella che a volte viene definita l’elaborazione del lutto che tende all’acquietamento portato dall’oblio. Non si tratta di ammettere che l’altro non ci sia più, ma assicurarsi di esserci stati là, noi, in persona.
Le autobiografie possono rispondere a numerose tipologie. Alcune, più o meno vicine allo stile di un giornale di bordo, citano avvenimenti contemporanei alla scrittura; altre – in cui non necessariamente sono trascurate allusioni all’attualità – sono più simili alle Memorie e dunque riportano specificamente avvenimenti passati. Il tema dell’età è trattato da punti di vista diversi.
Nel suo diario l’autobiografo dipinge a parole se stesso, strettamente correlato all’istante presente, proprio come quei turisti che si mettono in posa davanti alle piramidi d’Egitto o alla cattedrale di Notre-Dame a Parigi. Non dimenticano di annotare luogo o data; vogliono essere sicuri di essere esistiti quel giorno di quell’anno. Rispetto ai turisti, tuttavia, l’autore di un’autobiografia ha il vantaggio di interpretare due “ruoli”, sia come autore del testo sia come figura descritta – cosa che in seguito gli si può presentare come una doppia sorpresa nel caso non si ritrovi più nel primo tanto quanto non si riconosce nella seconda. Come Michel Leiris nel suo Età d’uomo, può anche esaltare all’estremo e senza tanto compiacimento il dettaglio di questa istantanea, più fedele e più severa di una normale foto per un documento d’identità.
Ho appena compiuto trentaquattro anni, la metà della mia vita. Fisicamente sono di media statura, piuttosto piccolo. Ho capelli castani che tengo corti per evitare che si arriccino e anche per timore di una eventuale minaccia di calvizie. […] Amo vestirmi con la massima eleganza, sebbene, a causa dei difetti che ho appena riscontrato nella mia struttura e dei miei mezzi economici piuttosto limitati – senza che mi possa definire povero – mi giudico fondamentalmente poco elegante; provo orrore nel vedermi in uno specchio quando meno me lo aspetto poiché se non mi ci sono preparato, ogni volta, mi trovo di una bruttezza umiliante.1
Nonostante il titolo che ha dato alla sua “autobiografia” – Età d’uomo – non è l’età il punto di interesse di Michel Leiris bensì lo è il tempo e dunque si iscrive nella vena letteraria di quest’ultimo e non della prima. Walter Benjamin aveva ben capito che Età d’uomo era anzitutto una ricerca di sé e non l’espressione di una nostalgia o una meditazione sull’età matura. Leiris dà l’impressione di calcare un po’ la mano quando si definisce giunto “a metà della sua vita”. Interessandosi alla “metafisica” della sua infanzia e ai miti della sua giovinezza, cerca anzitutto la chiave di un’esitazione essenziale che crede lo definirà una volte per tutte. Le sue immersioni nel tempo della vita, nei suoi sogni o nelle sue letture, mirano solo a trovare il modo migliore di delineare i contorni e di esprimere queste oscillazioni incessanti tra “bene” e “male”, quiete e movimento. È il Mago Merlino perso nella foresta di Brocéliande tenuto prigioniero da Viviana con un incantesimo che lui stesso le ha insegnato:
Riflettendo su questa storia ho spesso pensato che, in qualche misura, potevo ritrovarvi l’immagine della mia stessa vita, la vita di un uomo che si era imbevuto di pessimismo, che aveva creduto di trovarvi l’energia di un’esistenza folgorante e quasi meteorica, che aveva amato la sua stessa disperazione fino al giorno – ma troppo tardi – in cui si era reso conto che non avrebbe più potuto uscirne e che era così caduto nella trappola dei suoi stessi incantesimi.
Questa trappola, se seguiamo Benjamin, sarebbe più particolarmente quella della psicoanalisi dagli effetti sterilizzanti sulla letteratura. È la lezione che trae dalle confidenze di Leiris a questo proposito:
In effetti è poco probabile che un uomo che sia stato spinto a censire tanto scrupolosamente le sue riserve psichiche possa mantenere la speranza di opere future.2
Parimenti, forse, l’esperienza della psicoanalisi in Leiris sembra aver avuto, appunto, lo status di un’esperienza in un’impresa d’insieme di cui – come spesso avviene – è diventato consapevole solo progressivamente e in retrospettiva. La sua ricerca riguarda se stesso, sicuramente, ma, al di là di questo, giunge alla questione dell’essere che la sua esperienza di etnologo contribuisce a riformulare in particolar modo grazie ai suoi studi sul fenomeno della possessione. Rileggendolo oggi, si può avere l’impressione che le sue opere, fondamentalmente letterarie, rientrino più nel campo della psicologia o della psicoanalisi che in quello dell’etnologia, una etnologia di sé. Al fine di provare la sua esistenza, Leiris troverà nell’etnologia degli altri una sorta di conferma e di giustificazione.
Lucrezia, la patrizia romana virtuosa e stuprata che si toglie la vita ponendo così fine anche ai giorni della monarchia; Giuditta, l’eroina ebrea che, seducendo e decapitando Oloferne, provoca la sconfitta degli Assiri: classificandoli e disponendoli sotto due figure antitetiche e al contempo complementari Leiris pone le ripetizioni, i ritorni periodici e le indecisioni – evocati in Età d’uomo – in un campo d’esistenza prettamente letterario, elementi costituenti di altrettante risposte indirette a quella domanda lacerante che, seppure in vesti diverse, non smette mai di riapparire sotto la penna dell’autore: “Chi sono?”. Un’eco antesignana di un altro interrogativo scaturito dal surrealismo che darà la chiara percezione del grido di avvertimento della sentinella nell’opera di Julien Gracq La riva delle Sirti: “Chi vive?”. Eco, ancora, dell’interrogativo che si ritrova formulato in mille modi nei rituali della possessione: non più “Chi sono?”, bensì, sdrucciolando qua o là, “Cosa sono?”. Siffatta domanda ferma il tempo ed è dunque evidente che il posseduto, quando si riprende, è tenuto a dimenticare l’episodio.
La sensazione di attesa si esprime nella sua vita: percepisce così acutamente il risalto del presente che può dare l’impressione di sospendere il tempo. A prima vista, non si riscontra in Leiris alcunché di simile alla suspense, all’incertezza, considerato che egli esplora scene d’infanzia e di gioventù rivissute mille volte. Questi due flussi contrari hanno un punto in comune: cercare nella materia del tempo la forma di un enigma. Chi sono, chi ero? Chi va là, chi vive? Chi c’è? Chi verrà? Chi sono io – un’illusione, un ricordo, un’assenza o un desiderio? Il presente della suspense è talmente forte che cancella provvisoriamente la possibilità di qualunque seguito o fuga. Dal canto suo l’indagine su se stessi procede con una serie di pause sull’immagine, pause che cancellano tutti i riferimenti alla durata, al passaggio o all’età: in fin dei conti, nulla di meno biografico di un’autobiografia di questa natura.
La scrittura che si proponga il tempo come oggetto tenta di restituirgli piaceri precisi: non il passato in quanto tale, ma le squisitezze del ricordo o dell’oblio; non l’infanzia ma ciò che essa presagiva sulle incertezze dell’età adulta; non la storia ma i rari momenti in cui essa ha potuto sembrare sfiorare o inghiottire quella dello scrittore; non la guerra ma le esperienze inedite dell’attesa di cui è stata motivo, come si legge nell’opera di Gracq Una finestra sul bosco.
Quando la scrittura è maggiormente focalizzata sull’età, come nel libro di Stefan Zweig Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo, l’influenza della storia incide in modo più diretto sulla narrazione della vita; la cronologia, le tappe dell’esistenza segnano più dettagliatamente il percorso personale. La letteratura che guardi all’età è più sensibile alla tragicità dell’esistenza e più nostalgica di paradisi perduti. Per molteplici ragioni le pagine di Zweig sono commoventi quando, nel 1940, evoca la Parigi che aveva scoperto nel 1904. Anzitutto perché nel 1940 “… la bandiera con la croce uncinata sventolava sulla Tour Eiffel”: esiliato in Brasile, si suiciderà qualche mese dopo. Le sue Memorie sono un ricapitolo di eventi che sono stati importanti per la sua vita, un po’ come – o così si dice – alcune persone in punto di morte vedono sfilare gli episodi salienti della loro esistenza in una moviola accelerata. La Parigi di cui si ricorda, quella del 1904, ha tutte le connotazioni di un mondo ideale: le differenze di classe sono sfumate, quelle di razza non esistono, le donne sono libere, la gente è allegra: “Cinesi e scandinavi, spagnoli e greci, brasiliani e canadesi, tutti si sentivano come a casa loro sulle rive della Senna”. Il quadro incantevole di questa Parigi da sogno commuove per due ragioni contraddittorie. Anzitutto perché rappresenta un sogno perduto, e secondariamente perché, per quanto l’evidenza sia idealizzata, contiene di certo una parte di verità che oggi più che mai risveglia i rimpianti. Gli esseri invecchiano, le città anche. La Parigi del 1904 che Zweig rivede è senza dubbio un’illusione, tuttavia è davvero esistita una Parigi che è riuscita a creare quell’illusione e non sono sicuro che la città di oggi possieda ancora quel suo potere poetico.
Io stesso provo una simile fugace illusione quando penso alla Parigi dopo la Liberazione. Tutti sembravano viverci felici e allegri. Nel 1945 avevo dieci anni e si fischiettava per le strade (chi lo fa più oggigiorno?). Ho ancora in testa mille ritornelli delle canzoni di quel periodo, era l’epoca dei concorsi canori radiofonici per dilettanti durante i quali gli ascoltatori potevano bocciare i candidati sferrando loro un “gancio” – ovviamente verbale – come nel pugilato (si chiamavano, appunto, radio-crochets). In differenti quartieri di Parigi, Saint-Granier3 animava una trasmissione che si chiamava On chante dans mon quartier (“Si canta nel mio quartiere”) con un leitmotiv che suonava pressappoco così: “Bum Bum tralalà tralalì, ecco cosa si canta qui”. Ai miei occhi, l’euforia appariva generale; i bambini rincorrevano i soldati americani – bianchi o di colore – per chiedere “chewing-gum” o “chocolate”4 che i liberatori sorridenti distribuivano a piene mani. Questo quadro di una Parigi da sogno che sono certo d’aver vissuto è la migliore immagine che si possa offrire del passato come definitivamente passato: che sia in un qualsiasi momento della mia vita o della storia non ritornerà più. Ciò che mi colpisce oggi, dunque, non è tanto il carattere parzialmente illusorio e soggettivo della mia impressione di euforia generale dell’epoca, quanto invece lo è la certezza che si è smorzata per sempre.
Nel sognare Parigi Zweig punta un raggio luminoso sul suo quadro degli anni passati, dandogli profondità e sottolineandone l’invalicabile, impenetrabile spessore. È riacciuffato dall’evidenza dell’età, dall’attualità sinistra e dall’irreversibilità dell’esperienza del suo esilio: il 1904 non ritornerà. L’oggetto delle sue Memorie non ha come priorità la ricerca di sé, ma, piuttosto, il passaggio del tempo, quel tempo che in un secolo tragico – per alcuni più che per altri – si confonde con la storia, una storia punteggiata di pause, colpi di scena e accelerazioni.
Tuttavia la vita di Zweig, come riassunta nel suo ultimo libro, è comunque romanzesca, nel senso che nel romanzesco è sempre presente una parte di passività: una sorta di attesa che – a seconda delle circostanze – può attagliarsi all’attrazione, al terrore, alla curiosità o alla speranza. Una passività nei confronti dell’età che colpisce come una fatalità:
Così gli anni scorrevano, lavorando e viaggiando, imparando, leggendo, collezionando e gustando. Una mattina del 1931 mi sono svegliato: avevo cinquant’anni.5
Passività anche nei confronti del successo, una specie di stupore davanti al rilievo dell’opera di cui è l’autore e all’interesse di cui essa è oggetto. E anche impazienza di conoscere il seguito, presentato a volte, se serve, sia come personale – fiancheggiando l’opera in redazione – sia come se fosse scatenato da un evento esterno, dalla storia:
È così che nel giorno del mio cinquantesimo compleanno dal più profondo del cuore ho espresso un solo desiderio temerario: che succedesse qualcosa che mi strappasse a queste sicurezze e agli agi, che mi obbligasse non solamente a continuare bensì a ricominciare.
Nel 1941, mentre scrive queste righe, Zweig ha già deciso di togliersi la vita e si domanda da dove scaturisse, ormai da qualche anno, il suo auspicio di una vita diversa e più dura, un desiderio esaudito che però, lo ammette, non ha mai notato con volontà consapevole.
Era solo un pensiero fuggevole che mi sfiorava come un soffio, forse non essendo affatto un pensiero davvero mio, ma di un altro, scaturito da profondità a me sconosciute.
Si potrebbe essere tentati di supporre che il menzionare siffatto “pensiero fuggevole” abbia una dimensione retrospettiva, che prenda atto di una fatalità d’ordine storico e che la premonizione che esso dimostra si identifichi piuttosto con una presa di coscienza che testimonia a posteriori il carattere irrimediabile della coesione che si è tragicamente formata tra una storia personale e la storia, tale quale è.
Certamente, per definizione le Memorie non sono mai contemporanee agli eventi che riferiscono e la loro visione retrospettiva condiziona il modo con cui evocano il tempo, l’età e… il futuro. Tuttavia ci sono autori che scelgono di scriverle, alcuni invece tengono un diario, altri si vedono specificamente autobiografi, altri ancora si tengono ben a distanza da qualunque riferimento esplicito e consapevole alla loro biografia.
Simone de Beauvoir ha coniugato i due modi di registrazione del tempo (il diario e le Memorie): nel suo L’età forte – opera che racchiude gli episodi dell’immediato anteguerra e della guerra –, seguendo l’esempio di Jean-Paul Sartre, si avvale dei taccuini dove aveva annotato avvenimenti e impressioni. A far data dal settembre 1939 (la guerra è ormai dichiarata e Sartre è mobilitato), la scrittrice tiene anche, per qualche mese, un diario di cui integra qualche pagina nella sua narrazione: “E poi una mattina accade. Allora, nella solitudine e nell’angoscia, ho cominciato a tenere un diario…”. Di qui scaturisce il doppio ritmo che permea il libro pubblicato nel 1960: se la guerra è sullo sfondo del quadro – il conflitto di cui a quell’epoca ormai conosce, come d’altro canto i suoi lettori, gli orrori e le conseguenze –, in primo piano c’è la storia vissuta al quotidiano soggettivo e dunque mantiene qualche cosa di aneddotico e d’innocente. Fondamentalmente Simone de Beauvoir si schiera dalla parte del tempo e non dell’età. Due incertezze: la prima, ovviamente, l’esito della guerra, ma di una guerra vissuta – nel mezzo di una sorta di vacanza prolungata – come un dramma di cui incontra fugacemente alcuni attori, certi destinati a sparire all’improvviso inghiottiti da un’altra storia ben diversa dalla sua (Lautman, Cavaillès, Nizan, Desnos…). La seconda e maggiore incertezza, invece, scaturisce dall’inquietudine per il suo stesso divenire, probabilmente perché, come per Leiris – che ha occasione di incontrare in quegli anni – e, evidentemente, per Sartre, l’avventura interiore è, malgrado tutto, la più coinvolgente e gravida di interrogativi (Cosa scriverò? Cosa sarà di me?), senza peraltro che, a discapito del contesto, si profilino mai, quanto meno in modo marcato, la tentazione di correre un rischio o un’idea di morte possibile.
In misura variabile, i due “accenti” sul tempo e sull’età sono presenti in tutti gli autori. Proprio chi tiene o ha tenuto un diario sente a volte la necessità di prendere le distanze dal modo in cui ha recensito il succedersi dei giorni; vuole fare il punto e s’interroga, passando per esempio da una sensazione di piacere ispirata dall’aver “sposato il suo tempo” a una riflessione – più o meno serena o inquietante – sul fatto che il tempo è trascorso e lui è invecchiato. Qui si pensi specificamente a Claude Mauriac, al suo riprendere il Journal di decenni, Le Temps immobile. O, ancora una volta, a Simone de Beauvoir che nel prologo dell’Età forte dichiara apertamente la sua età (cinquant’anni), in parte come giustificazione per aver narrato i suoi primi vent’anni nella Forza delle cose per poi dargli un seguito nel nuovo libro, un seguito a cui non aveva pensato fin dall’inizio. Dichiara che, nel primo caso, si trattava di ridare vita a un’adolescenza che altrimenti sarebbe scomparsa per sempre:
Non ho mai dimenticato gli appelli che, adolescente, rivolgevo alla donna che mi avrebbe assorbita in sé, corpo e anima: non sarebbe rimasto alcunché di me se non un pugno di cenere; la scongiuravo di strapparmi un giorno a quel nulla in cui mi avrebbe precipitato. Può darsi che io abbia scritto i miei libri solo per mettermi in grado di esaudire quell’antica preghiera.6
Aggiunge che, nel secondo caso, si trattava di dare un senso a questa storia in forma di genesi:
Inutile aver raccontato la storia della mia vocazione di scrittrice se non avessi tentato di dire come essa si è realizzata.
Al pari di Leiris, l’osservare il tempo è anzitutto lo strumento di un’indagine su se stessi; il menzionare l’età è solo un punto di riferimento nell’osservazione di sé. Proposito deliberato, consapevole e volontario. Nel suo diario del 4 novembre 1939 scrive e si domanda:
Sento che sto diventando qualcosa di ben definito: sto per compiere trentadue anni, mi sento una donna fatta, mi piacerebbe sapere quale.
Resta il fatto che, Memorie o diario, il racconto della vita degli altri cattura l’attenzione di numerosi lettori. Probabilmente proprio perché questo doppio ritmo (o, se si vuole, doppio linguaggio) – senza escludere quella parte di duplicità a cui allude l’espressione – è anche il loro e lo trovano nella penna di un altro con un sentimento di riconoscenza nel doppio senso del termine. Ci si ritrovano o, quanto meno, vi ritrovano qualcosa della loro stessa ambivalenza nella percezione del tempo e… ne sono grati all’autore. Doppio linguaggio? In effetti in ognuno di noi c’è una voce interiore, che a volte si esterna in mormorii, borbottii, onomatopee, contrazioni muscolari del viso o, più raramente (quando “parliamo da soli”), sotto forma di parole articolate. Questa voce commenta la nostra più banale attualità, ci interroga, ci giudica a volte in termini crudi (Che idiota sono!). In poche parole, è l’espressione verbale della nostra consapevolezza “senza età”, di questa riflessività consueta che ha sempre accompagnato il corso della nostra esistenza e ci pone a distanza da noi stessi; conserva in ciascuno di noi quella parte di attenzione fluttuante che sfugge alla fatalità, agli incidenti, all’età. Se, un po’ disilluso, mi dico: “Eh beh, vecchio mio, certo non ringiovanisci…”, mi riconosco senza identificarmi; come se ne fossi l’autore, mi faccio da parte, di fianco al personaggio che un po’ mi sfugge ma che non per questo perdo di vista. La presenza di siffatta consapevolezza sdoppiata può spiegare come mai non ci sorprenda l’artifizio comune con cui procede la letteratura romanzesca di un autore onnisciente che trascende la soggettività delle sue creature. Al contrario, in molte narrazioni romanzesche si è tentati di vedere una metafora – più o meno approssimativa – della propria vita.
Alla rilettura di una Simone de Beauvoir che evoca Sartre e Leiris, associo spontaneamente un quartiere di Parigi dove ho vissuto a lungo e un pezzetto di storia che mi ha segnato per la vita, anche se ero un bambino quando gli autori stavano raggiungendo la maturità. In seguito mi è capitato di intravederli, ma l’immagine che mi sono fatta attraverso i loro scritti – per quanto incerta possa essere – resta la più tenace. Ha quasi l’importanza di un ricordo e questo la dice lunga su ciò che è un ricordo. È un insieme composito in cui ritrovo anche i luoghi frequentati in epoche diverse; i dettagli di stupefacente precisione sulla vita negli anni Quaranta del Novecento; l’energia che mi aveva infuso la lettura vivificante della Forza delle cose e dell’Età forte quando avevo venticinque anni. In un senso, questo insieme parla bene di me, ma a me e a me soltanto, e ancora… bisogna capirsi bene sul verbo “parlare”: se non sono capace di trascrivere questa parola è perché non ha a che vedere con un linguaggio articolato sintatticamente. Piuttosto, forse, si tratta di un’intuizione d’ordine poetico che stabilisce un contatto imprevisto tra due elementi distanti e di cui nulla faceva presagire un tale ravvicinamento. Tuttavia siffatto poema non sarà mai scritto né letto. Sarò il solo a sentirlo, incapace perfino di canticchiarlo. Tutti portiamo in noi questi poemi che resistono all’età perché sono fatti solo di tempo.
Ed ecco che a essere in causa è il tempo in quanto materia, il tempo a cui diamo forma a nostro piacimento, che componiamo e ricomponiamo, il tempo con il quale giochiamo per il piacere di farlo. Quando dei vecchi amici si ritrovano e si scambiano dei ricordi, ben sanno che non ritroveranno anche il gusto dei giorni passati e che, d’altra parte, è una fortuna: troppo spesso era insipido. Tuttavia ritrovano qualcosa del piacere dello scambio, un qualcosa che li pone a distanza dall’invecchiamento e dal tempo che passa:
“È là che abbiamo provato il meglio!” dice Frédéric.
“Ah sì, probabilmente. È là che abbiamo provato il meglio!” dice Deslauriers.7
Stanno rievocando, si sa, la loro fallimentare spedizione giovanile nella casa chiusa della Turca, a Nogent. La fine dell’Educazione sentimentale traduce letteralmente il disincanto dei due amici – l’uno per l’illusione politica, l’altro per quella amorosa – che si ritrovano, uno quanto l’altro e in qualche modo per approssimazione, in questa doppia disillusione. L’educazione sentimentale non è forse, in primo luogo, l’esperienza del lato formativo dell’oblio, egoista se si vuole, che permette di ritrovare se stessi – un’esperienza del tempo che non si confonde con quella dell’età? Correlata, per di più, a una sensazione di complicità nel disincanto che la rende molto simile a una “rimpatriata”, sta a dire la rinascita di una relazione. Non c’è gloria né vera disperazione: bilancio di un fallimento, ma anche il possibile inizio di un’altra storia.
Michel Leiris e Simone de Beauvoir non sono così lontani, come non lo è Jean-Jacques Rousseau e il suo Le fantasticherie del passeggiatore solitario. Si può paragonare la scrittura di un’autobiografia o di Memorie al logorio del tempo sulle rovine: agisce per eliminazione e selezione. In questo modo suggerisce che dietro a qualunque creazione originale ci sia una parte di oblio, o, quanto meno, una relazione con il tempo che sottrae qualunque pertinenza alla distinzione tra ricordo e oblio, una sorta di riscoperta o, come nel caso del rito che si compia positivamente, un re-inizio. Probabilmente la scrittura interpreta un ruolo nei confronti della vita che passa e se ne va – sta a dire nei confronti dell’età –, il ruolo del rituale quando è efficace e riesce a dare a chi vi partecipa o vi assiste la sensazione che esso riapra il tempo.
Non potrò mai andare a finire i miei giorni in quell’isola adorata senza mai uscirne, né mai rivedere alcun abitante del continente pronto a ricordarmi i guai di ogni tipo che si compiacciono di accumularsi su di me da così tanti anni? […] Liberato da tutte le passioni terrestri generate dai tumulti della vita sociale, il mio animo si librerebbe oltre questa atmosfera e intraprenderebbe anzitempo relazioni con le intelligenze celesti di cui spera d’andare a aumentare il numero entro breve tempo. Lo so, gli uomini si guarderanno bene dal ridarmi un rifugio così dolce dove non hanno voluto lasciarmi, ma almeno non mi impediranno di trasportarmi lì ogni giorno sulle ali dell’immaginazione e di gustarvi per qualche ora lo stesso piacere come se ci abitassi ancora. Quello che farei di più dolce sarebbe sognare a mio agio. Ma solo sognando di essere là non faccio forse la stessa cosa? Anzi faccio di più: all’attrattiva di una fantasticheria astratta e monotona aggiungo mie immagini incantevoli che la vivificano. Spesso i loro effetti sfuggivano ai sensi durante le mie estasi e ora più è profondo il mio sognare e più me li dipingo vivamente. Spesso mi trovo ora in mezzo a essi più piacevolmente ancora di quando ci stavo realmente. Il guaio è che, via via che l’immaginazione si affievolisce, tutto ciò avviene più a fatica e non dura altrettanto a lungo. Ahinoi! È proprio quando si comincia a lasciare le proprie spoglie mortali che si è maggiormente adombrati.8
Rousseau ha iniziato a scrivere le sue Fantasticherie nel 1776, tra Parigi e Ermenonville dove muore nel 1778. La fine della quinta passeggiata ricapitola numerosi “percorsi” mentali e slanci dell’anima che il pensiero dell’autore, nel momento in cui scrive, sembra far sgorgare uno dall’altro. Rimpianto, anzitutto, al ricordo dell’isola di Saint-Pierre e più precisamente dei momenti di fuga nella fantasticheria che vi ha provato; la constatazione, quasi simultanea, che si abbandona sempre a siffatta fantasticheria, sebbene riviva solo attraverso l’immaginazione il flusso e riflusso delle acque del lago che gli donavano allora la sensazione fisica della sua stessa esistenza. Immediatamente dopo, osserva che la sua fantasticheria è più completa nel momento in cui scrive di quanto lo fosse dieci anni prima poiché aggiunge spessore a quella sensazione che mescola presenza ed evasione in cui si coagulavano le sue “estasi”, le “immagini affascinanti” del luogo di accoglienza e dei suoi ospiti. Infine, egli evoca l’invecchiamento del corpo che, al contrario, limita e indebolisce la forza dell’immaginazione e l’acutezza della memoria.
Malgrado quest’ultima osservazione – dal tono quasi allegro – e malgrado le ferite di cui porta il segno, l’autore delle Fantasticherie dimostra qui una notevole serenità: è la calma dopo la tempesta, la schiarita che sopravviene al tramonto; forse la sensazione che, nonostante tutto, qualcosa è stato portato a compimento. Il ricordo delle persecuzioni di cui è stato il bersaglio “da tanti anni” e l’approssimarsi del momento in cui dovrà “lasciare le sue spoglie mortali” rappresentano i due riferimenti all’età. In questo modo inquadrano l’evocazione di un tempo non lineare, in cui il dopo può essere più ricco e preciso del prima; di un tempo che rimane faccia a faccia con quello che passa; di un tempo fonte di piacere e felicità.
Rousseau scrive: la scrittura è lo strumento che gli permette di sostituire l’età con il tempo. Le fantasticherie sono – come si usa dire – un’opera incompiuta, la morte è stata più rapida. Rimane che tutte le grandi opere sono destinate a non essere mai compiute: si offrono a lettori a cui fanno specificamente appello e solo per il fatto di esistere relativizzano l’importanza dell’età.
Nel corso degli anni, generazioni successive di lettori le interrogheranno e le arricchiranno cosicché l’autore ne sarà espropriato, l’opera non gli apparterrà più. Si può arrivare a dire che l’autore stesso non si apparterrà più – cosa che non solo corrisponde al sogno, il più modesto e il più ambizioso che egli sia in grado di formulare, ma anche all’illusione, la più saggia e la più folle con cui possa dilettarsi: ignorare l’età e lasciar fare al tempo.
Scrivere è un po’ morire, ma un po’ meno soli.
1 Michel Leiris, Età d’uomo. Notti senza notte e alcuni giorni senza giorno. Tr. it. Mondadori, Milano 1991.
2 Walter Benjamin, Lettera a Max Horkheimer, 23 Marzo 1940, in Lettere 1913-1940. Tr. it. Einaudi, Torino 1978.
3 Il suo nome vero era Jean Granier de Cassagnac, artista polivalente: compositore, musicista, attore, presentatore radiofonico. [NdT]
4 In inglese nel testo. [NdT]
5* Stefan Zweig, Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo. Tr. it. Mondadori, Milano 2000.
6 Simone de Beauvoir, “Prologo”, in L’età forte. Tr. it. Einaudi, Torino 1961.
7 Gustave Flaubert, L’educazione sentimentale. Tr. it. Garzanti, Milano 1989.
8 Jean-Jacques Rousseau, Le fantasticherie del passeggiatore solitario, “Quinta passeggiata”, 1776-1778. Tr. it. Einaudi, Torino 1993.
La classe
“Sono classe 55.”
Lo spazio non ci serve solo a rappresentare, ma anche a dominare, organizzare e perfino fermare il tempo, o a darcene la sensazione. Quanti anni hai? Non faccio in tempo a capire la domanda e aprire la bocca per rispondere che sono già invecchiato di qualche secondo. In compenso estraggo la mia carta d’identità e vi trovo scritta la mia data di nascita: ecco, nero su bianco, ci posso contare. Dall’età di quindici anni un adolescente non può più apparire sul passaporto dei genitori, deve avere il suo, insomma ha diritto alla sua data di nascita personale. Al tempo in cui il servizio militare era obbligatorio si apparteneva a una “classe” che veniva definita dal numero ottenuto aggiungendo 20 all’anno di nascita e ritenendo le due ultime cifre del risultato. Nel xx secolo una persona della classe 46 era nata nel 1926, una della classe 09 era nata nel 1889. Il giorno in cui la commissione medica li chiamava in adunata per esaminarli, tutti i giovani di sesso maschile di vent’anni (all’epoca non ancora maggiorenni) venivano riuniti in un luogo ben preciso: il municipio del loro comune. E dovevano mettersi nudi. In breve: una seconda nascita.
Appartenere e dichiarare la propria classe non ha bisogno di alcun calcolo, a differenza dell’età non cambia ogni anno; è un elemento d’identità permanente e anche di una certa solidarietà, di appartenenza a un gruppo. In un contesto rurale, mi è capitato spesso di sentire uomini che mi parlavano di un altro dicendo: “È della mia classe”, come avrebbero detto: “È mio cugino”.
Diversamente dagli anni di avanzamento nei corsi di studio, la classe riguardava un’intera generazione senza esclusioni, ma su base territoriale. Il servizio militare, invece, poteva di suo mobilitare i giovani, per alcuni è addirittura stato l’unica occasione per uscire da casa e il consiglio di leva, un’ufficializzazione della classe come tale, radunava dei vicini. La classe è infatti il riconoscimento di un’identità sia individuale sia collettiva (una summa di rapporti) ed entrambe le identità sono ancorate nel tempo e iscritte nello spazio.
In Francia le classi dei coscritti risalgono solo al Secondo Impero e hanno perduto il loro impatto simbolico dopo l’abolizione del servizio militare obbligatorio, tuttavia la loro logica intrinseca era la stessa di quelle africane che, per inciso, avevano anch’esse la funzione di stabilire chi poteva andare in guerra. Alla base della loro definizione si trova il concetto circolare e ricorrente del tempo: considerato il modo in cui erano calcolate e quindi definite, le classi che portano lo stesso numero dovrebbero ricomparire ogni cento anni. È così che, visto l’allungamento della vita umana, si potrebbero presto vedere vegliardi di centovent’anni rientrare – seppure timidamente – nella classe di ventenni solo perché la definizione di classe corrisponde. Era il caso, eccezionale, di certi sistemi di classe africani quando vi erano minime differenze d’età.
Presso gli Attié, una società a struttura matrilineare della Costa d’Avorio orientale, esistevano tre grandi classi d’età, ciascuna suddivisa in cinque sottoclassi. I figli appartenevano a quella “scalata” del padre (come si dice in botanica “a disposizione alterna”) e due fratelli potevano appartenere alla stessa classe ma non alla stessa sottoclasse. In tempi antichi questa organizzazione corrispondeva a una divisione dello spazio abitativo del villaggio, anch’esso in tre parti. I padri, cioè la generazione al potere, occupavano i quartieri di mezzo, i figli quelli bassi e la generazione intermedia quelli alti. L’etnologa e antropologa Denise Paulme – africanista di grande reputazione – descrive il percorso di vita di un Attié come segue:
Il figlio nato nella casa del padre lasciava l’ambiente familiare per diventare uomo e, a distanza di una generazione, avrebbe seguito un percorso identico che lo avrebbe condotto dal quartiere basso a quello alto e poi a quello di mezzo; la sua vita terminava in un’abitazione vicina a quella dove era cresciuto
ma sempre diversa, il lignaggio di un figlio non era uguale a quello del padre.1
Dunque l’organizzazione ciclica delle classi d’età diviene un percorso circolare all’interno del villaggio. Denise Paulme rileva che il nascere di una nuova classe d’età poteva condurre un anziano, che portasse l’identica definizione di classe, a sottomettersi alle stesse prove dei ragazzi di cui diveniva un pari. Un modo simbolico di chiudere il cerchio in un mondo in cui, d’altro canto, le forme dell’ereditarietà si traducono in una continuità sostanziale fra generazioni.
Appartenere ufficialmente a una classe d’età significa ancorarsi a uno spazio preciso, come è ben chiaro nel sistema di classi d’età – strumento politico di gestione di uno spazio stabilito e a costo di coniugarlo a un principio di mobilità spaziale interna – come avviene presso gli Attié. È altrettanto evidente a livello individuale: le tappe dell’esistenza si riconducono spesso a luoghi distinti e successivi; le nozioni di carriera e destinazione hanno una dimensione geografica che, a sua volta, ridimensiona e riordina la prospettiva temporale. Jean Giraudoux ha esaltato il percorso di un “ricevitore del registro” – un funzionario statale – che parte dalla provincia sperando di “salire i gradini” fino a Parigi. Alcuni, invece, si preoccupano dei loro “giorni da vecchi”, che a volte immaginano trascorrere in un luogo di campagna oppure nei confini di una casa di riposo con “assistenza medica per persone anziane”. Non sono molti quelli che, mentre l’età avanza, non “inquadrano”, almeno geograficamente – per così dire – i loro ultimi anni. Nel ramo bretone della mia famiglia, erano numerose le persone che venivano a “finire i loro giorni” nei paesini d’origine e quando, alla fine, la capacità delle tombe di famiglia era satura e non c’era più spazio, i loro cari trovavano un luogo di sepoltura che fosse il più vicino possibile. Il villaggio d’origine non era sempre quello dove tutti erano davvero nati – militari o funzionari che fossero, i bretoni avevano spaziato nel mondo, spesso “fanteria dell’avventura coloniale” –, tuttavia rappresentava un punto di riferimento nella logica dell’età che ritmava la loro vita comune, come quella degli Attié.
1 Jean Capron, Denise Paulme (a cura di), Classes et associations d’âge en Afrique de l’Ouest, Plon, Paris 1971.Immagini di Épinal
“Ha varcato la soglia della cinquantina.”
“Le epoche della vita” rappresentano un’immagine pittorica che non ha alcun riscontro concreto. A volte, è vero, torna un ricordo di gioventù, un’immagine insistente ma sfumata e inafferrabile nei dettagli. Al contrario, invece, nella memoria non scorre mai quell’insieme di opere che illustrano, o hanno illustrato, il tema dell’età grazie ai maestri della pittura e alle riproduzioni che una volta si usava appendere in cucina. Siffatte rappresentazioni del corpo umano, che assurge alla pienezza degli anni maturi prima di incurvarsi verso l’estrema vecchiaia, appaiono come l’elaborazione di una sorta di cartografia illustrata in cui ognuno può insinuarsi – se crede – secondo i decenni che appaiono stagliati nel tempo e seppure questa concatenazione non sia mai presente come tale nella mente di chi se ne ricorda.
Queste immagini rivestono un interesse storico, portano il segno della loro epoca e su alcune di esse si può per esempio notare la pienezza promessa al cinquantenne, che coincide con la sua ascesa sociale, mentre alla donna, alla moglie della stessa età, viene già assegnato il ruolo di nonna sorridente che sta invecchiando. Le “epoche della vita” sono innegabilmente datate.
Allo stesso modo, siffatte rappresentazioni sottintendono la perennità di un modello familiare che ne è il sostegno. Un modello semplificato, elementare, che allude – ma soltanto allude – alla discendenza diretta di una coppia unica e coesa: qui la discendenza è solo il normale marcatore del tempo che passa.
Per averne viste a volte nella mia infanzia o, più tardi, in qualche casa di campagna, oggi considero tali rappresentazioni con quella emozione che ispirano, di tanto in tanto, gli oggetti fuori moda a chi prestava loro solo un’attenzione distratta quando non erano tali.
Tuttavia, a ben guardare, questi quadri innocenti sembrano rappresentare una sorta di schermo – nel duplice senso del termine – per una realtà che mostrano e allo stesso tempo velano. Lo stereotipo della coppia comune “borghese”, a cui corrisponde il ritmo delle epoche della vita, ne fa una concatenazione dal passo regolare: ogni generazione sospinge l’altra verso l’uscita. Probabilmente questa è una delle ragioni della tensione latente che, in numerose società, permea le relazioni tra le generazioni successive (di cui hanno spesso testimoniato gli etnologi), ma un’altra ragione, e in modo più specifico, è l’idea della morte nel momento in cui non si correla a quella di un nuovo inizio, quando la ruota gira per tutti ma compie solo un giro per ciascuno. Il paradosso sta nel fatto che la tensione aggressiva che si accompagna alla sensazione di essere sospinti verso la morte da coloro che ci seguono risparmia chi, per data di nascita, segna l’avanzare dell’età: i nipoti. È come se l’idea che, a loro volta, i propri figli subiscano le stesse tensioni correlate al rapporto genitori-figli consolasse i nonni nel loro invecchiare e ispirasse una sorta di riconoscenza nei confronti dei nipoti.
Mio nonno chiamava collettivamente i suoi nipoti “i piccoli vendicatori”. Vero, scherzava, ma né i suoi figli né le sue nuore sembravano apprezzarne pienamente l’ironia.
Il punto non è sapere se i genitori amino i loro figli più o meno di quanto i nonni amino i nipoti. Certamente, in regola generale, si amano tutti reciprocamente, ma l’amore è un sentimento complesso che non esclude il risentimento, la gelosia, la possessività e, nemmeno, il gusto del potere o l’importanza degli interessi economici. Le tensioni si esprimono più marcatamente tra le due generazioni successive – a contatto diretto l’una con l’altra – di quanto non accada fra le generazioni scalate le cui relazioni sono meno immediate e più disinteressate. Tra l’altro, è noto, la dimensione edipica è sempre presente e sollecita in modo particolare la relazione ambivalente di amore-rivalità tra madre e figlia da una parte e fra padre e figlio da un’altra.
Da bambino Leiris ha visto un quadro che rappresentava le età della vita. Se i suoi ricordi sono esatti si trattava di una versione particolare, sul retro della rilegatura di un volume illustrato edito a Épinal: ogni età era associata a un colore – giallo, grigio, verde, blu… – e portava il titolo I colori della vita. In modo particolare si ricorda del colore “mezzo-mezzo”, un miscuglio di numerose tinte che evocano il caos della prima infanzia dove tutto è ancora indistinto, come in un tempo mitico, e del colore “caldarrosta” che si riconduceva a due vecchi ubriaconi rissosi. La lezione che trae da questo ricordo impreciso è ambigua: non senza humour, ammette che è già passato “attraverso un certo numero di questi colori, compreso – ben prima dei quarant’anni – quello di caldarrosta”. La lezione che Leiris sembra trarre da questo ricordo incerto è che nella vita se ne vedono di tutti i colori:
Il giallo – o malattia epatica – incombe, e appena un anno fa speravo di sfuggire al nero grazie al suicidio.1
Insomma è meno il concatenarsi delle età che attira la sua attenzione di quanto lo sia la sensazione di una sorta di fatalità:
Così le cose si fanno e si disfano: rimango murato in queste Età della vita e ho sempre meno la speranza di sfuggire al loro schema (almeno per mia volontà), incastonato come sono nella loro boiserie rettangolare.
Altalena incessantemente in moto tra il “Chi sono?” e il “Cosa sono?”.
Gli annunci riportati dalla stampa quotidiana offrono una versione contemporanea, plurima e dilatata delle età della vita: nascite, matrimoni e decessi si spartiscono lo spazio. La persona che vi figuri si colloca in uno solo dei riquadri che suddividono le piccole notizie e sarà soltanto una di queste sottorubriche a riguardarla. A seconda dell’età, l’interesse del lettore è selettivo e si può rivolgere a una rubrica piuttosto che a un’altra e in questo senso gli annunci rappresentano doppiamente il regno dell’età. Un regno a cui, essendo a pagamento, non tutti hanno accesso e solo qualche persona privilegiata godrà di un’iniziativa da parte del giornale stesso. Si dice che un certo quotidiano nazionale tenga aggiornato lo schedario delle personalità a cui età e notorietà promettono, un giorno o l’altro, il beneficio di rientrare in una scelta privilegiata nella rubrica dei necrologi: due date e una biografia, a volte qualche elogio, così sarà riassunta una vita. Nel regno dell’età, un omaggio ne scaccia un altro quasi quotidianamente. Ultimo bagliore, a volte, di una vanità prettamente umana che si riduce a qualche onorificenza o titolo, a volte elogio, che possono perfino arrivare a suscitare un’ombra di gelosia preoccupata in qualche rivale ancora vivo e vegeto e in attesa di consacrazione.
Il tema delle età della vita può comunque ispirare e condurre ad altre considerazioni. Esse si succedono come le stagioni, e qui sta il punto che l’espressione suggerisce: questo plurale invita di sicuro a vedere l’invecchiare come qualcosa di ineluttabile. Tuttavia, la metafora delle stagioni ha una risonanza particolare: si sa, la primavera succede all’inverno. Da un lato, essa implica che una parte di ciò che scompare ritornerà – un tema spesso oggetto delle rappresentazioni politeiste e pagane. Da un altro, che le nuove generazioni “raccolgono il testimone” dando il cambio ai predecessori – un tema, questo, che può ben coniugarsi con il primo e sul quale ci dilunghiamo volentieri nel corso di conversazioni un po’ oziose che ci capita di intavolare sul soggetto. Nell’uso del termine “età” al plurale si trova, dunque, un fondo di ottimismo in netto contrasto con il suo uso al singolare che lo correla a una fatalità, a un destino senza futuro. Suggerire che le generazioni si succedano come le stagioni significa sottintendere che hanno in comune l’appartenenza al genere umano; significa affermare un umanesimo dell’ereditarietà che si deve affrancare da qualunque riferimento all’eredità, basta che non gli si assegni come limite lo stretto perimetro rappresentato dalla famiglia e dalla riproduzione biologica.
Tra il termine al singolare e quello al plurale, tra “l’età” e “le età”, esiste, in fondo, una differenza assoluta e al contempo un’intima complementarietà. Le età della vita possono essere evocate a prescindere dalla concatenazione correlata alla progressione degli anni, grazie alla scappatoia dell’anticipazione che disegna il futuro o del ricordo che ricrea il passato e, in ogni caso, lasciando che l’immaginazione giochi con il tempo.
1 Michel Leiris, Età d’uomo, op. cit.Dimostrare la propria età
“Non gli do più di quarant’anni.”
Le parole, le espressioni – come si dice – fatte, la dicono lunga… come si usa anche dire. Troppo lunga, forse, per non contraddirsi con la baldanza dei più ingenui o dei più scaltri. “Non dimostri la tua età”, un’affermazione che si sente di tanto in tanto e che dovrebbe rendere felici le persone a cui la si rivolge, uomini o donne che siano. L’espressione affermativa alla terza persona, invece – qualcuno che “fa” la propria età –, è più spesso formulata, con un tono confidenziale ispirato in qualche modo dalla pietà, nei confronti di un assente: lui (o lei) “dimostra la sua età” o, ancora con tono meno leggero, “dimostra tutta la sua età”.1 Il verbo dimostrare/fare, utilizzato relativamente all’età, sembra essere un controsenso. Dimostra e “fa” la sua età chi la subisce, chi sopporta passivamente l’azione del tempo e il cui aspetto fisico ne accusa il peso, lo esprime chiaramente o addirittura l’anticipa. Chi dimostra la sua età l’accetta supinamente, è passivo e subisce: dimostrare la propria età significa lasciarle prendere le leve del comando. Ci si aspetta invece che chi non la dimostri abbia una vita attiva e sana, un’energia che ne attenua o rallenta gli effetti. Faccio moto ed esercizio fisico per non dimostrare la mia età; tiro indentro la pancia, seguo una dieta e faccio talassoterapia; mi rivolgo a creme e fondotinta, mi trucco per “far giovane”, più giovane, cioè più giovane della mia età.
Non si “prendono” anni come si prende il largo, il coraggio o il proprio destino in mano, ma, piuttosto, come si prende freddo o ci si prende paura. I due principali verbi d’azione, “fare” e “prendere”, sono ambivalenti e basta cambiare il complemento oggetto per farli scivolare semanticamente nella forma passiva. Questo gioco sull’attivo e passivo è presente e più chiaramente espresso in altri casi: si avanza negli anni come si avanza verso qualcuno, ma, all’arrivo, è l’età stessa che si dice “avanzata”, quasi fosse un mezzo di trasporto privato: “la sua auto ha preso un posto avanzato”. L’abbinamento delle due metafore conduce quasi a un’immagine di collisione nel momento in cui diciamo che qualcuno “ha raggiunto un’età avanzata”.
“Quanti anni gli dai? Cinquanta, cinquantacinque.” Per una strana alchimia qui il lessico propone un’offerta prima di valutare. Sovente ci esprimiamo in questo modo quando ci lasciamo automaticamente andare ad apprezzamenti spontanei – non necessariamente perfidi – sull’età dei nostri interlocutori. In senso opposto siamo consapevoli di essere sempre esposti allo sguardo altrui. “Quanti anni gli dai?” Non è detto che il soggetto in questione, qualora lo sapesse, apprezzerebbe la risposta se, per caso o per malignità dell’esperto, la valutazione fosse troppo alta. Auspicherebbe, piuttosto, che non si sia troppo generosi nell’attribuzione degli anni: “Non gli si darebbero più di cinquant’anni, non gli si darebbe l’età che ha”. O, almeno, sarebbe ciò che un uomo che invecchia amerebbe forse sentirsi dire. Tuttavia non si domanda il suo parere, il dono è, come dire, senza appello: è solo un’eco di una verità imposta dalla natura e dal tempo che un testimone è tenuto a decifrare dal corpo della persona su cui esprime la sua opinione. Un testimone che è soltanto il portavoce dell’irrimediabile; rappresenta il ruolo del coro nella tragedia antica; dona all’altro solo ciò che gli ruba: la sua immagine. Questo scambio sfalsato esprime tutta la sua crudeltà nel momento in cui prende la forma della domanda: “Quanti anni mi dai?”. È l’interrogativo che qualche volta una persona – troppo sicura del suo aspetto – ha la debolezza e l’imprudenza di porre a colui o colei che crede di poter sorprendere e sedurre. Se è esatta, la risposta colpisce come uno schiaffo. Sì, “dimostra la sua età”, è avanti negli anni: non gli rimane che togliere il disturbo.
Qui non si tratta di giochi di parole. Anzi. Sono le parole che si prendono gioco di noi e non il contrario. Ci recludono in un sistema binario del genere shakespeariano “To be or not to be”,2 ossia “Essere o non essere”, e ci lasciano altalenare indefinitamente tra il reale e l’apparente, il naturale e l’artificiale, il trucco e la nuda naturalezza, la verità e la menzogna, come se, trattandosi di età, non fosse mai possibile avere l’ultima parola.
Le sottigliezze linguistiche esprimono i nostri dubbi, le nostre illusioni e le nostre angosce. Tra eroismo e saggezza la sfumatura è quasi impercettibile ma essenziale: la scelta di un atto eroico implica la consapevolezza di conseguenze che siamo pronti a subire; la saggezza, di contro, ci porta a inchinarci e ad accettare. Siffatto dilemma è alla base delle grandi opzioni morali delle società umane e non è forse inutile cercarne e trovarne tracce sparse nelle parole della lingua, che, da parte sua, si evolve: il vocabolario cambia, alcune parole invecchiano e ci capita di calcolare l’età di qualcuno attraverso il suo lessico, i termini che usa. In questo gioco tutti i colpi sono permessi, ma spesso sono colpi bassi: si parla “giovane” come ci si veste “giovane”. Ci esprimiamo con parole che però raccontano di noi, anche e soprattutto quando sono menzognere. Le parole “dimostrano la loro età” e probabilmente questa è la ragione per cui descrivono il tempo in modo così contraddittorio.
È proprio nel linguaggio stesso del tempo che facilmente le parole invecchiano tutto d’un colpo. Il sostantivo “passatempo”, per primo, è ridotto a mal partito: chi – esperto o neofita che sia – oserebbe degradare la navigazione su Internet assegnandole il rango di passatempo? I “giochi di pazienza” hanno ancora un futuro? Chi oserebbe parlare ancora della “età stupida”? Chi oserebbe evocare “la donna di trent’anni” con le connotazioni proposte da Honoré de Balzac? C’è davvero da scommettere che espressioni comuni nella mia infanzia non dureranno ancora a lungo: presto “non si tireranno più le cuoia” e “non si vedrà più l’erba dalla parte delle radici”. Le leggi antitabacco, la cremazione e i defolianti metteranno ordine nel vocabolario. Oggi chi non vorrebbe precedere il ritmo della musica? Nel passato “tempo e pazienza” erano virtù, ma… oggigiorno? Numerosi proverbi hanno fatto il loro tempo, sono obsoleti e smentiti poi dall’esperienza: “Con il tempo e con la paglia maturano le nespole…”, come si diceva dalle mie parti.
Nel momento in cui diciamo (o lo si pensa senza farlo) che alcune parole, espressioni o locuzioni sono “datate” sottintendiamo che chi le usa ancora esprime o rivendica una sorta di “malinconia menopausale” (o delle donne di “quella certa età”, altro modo di dire che non si usa praticamente più) linguistica, sociale e storica.
Che sia effetto di età, di snobismo o derisione, siffatte differenze linguistiche hanno, in ogni caso, un valore di provocazione nei confronti del linguaggio contemporaneo. Il che significa che se qualcuno di una certa età desidera evitare di essere giudicato antiquato o contestatore, ha tutto l’interesse a cambiare il suo vocabolario. Non solo deve, ovviamente, arricchirlo con tutte le parole nuove che ormai nascono dalle tecnologie moderne, ma deve anche sfrondarlo da termini desueti e formule fuori moda che “fanno vecchio stile”. È proprio ciò che fanno spesso – e senza troppa fatica, anzi quasi con zelo e divertendosi – molte persone di una certa età: a questo riguardo i rapporti nonni-nipoti hanno un ruolo niente affatto trascurabile.
1 In francese l’espressione è costruita con il verbo “fare” – “fare la propria età” – se necessario dunque i due verbi saranno utilizzati a seconda del significato che il contesto comporta. [NdT]
2 In inglese nel testo. [NdT]L’età delle cose e l’età degli altri
“Malraux è invecchiato…
– Meno di Gide!”
A volte abbiamo la sensazione che l’età venga da un altro luogo, che ci sia estranea, che le cose siano cambiate senza domandare la nostra opinione e che ciò sia la ragione per cui non le riconosciamo. A volte diciamo o sentiamo dire “Questo libro è vecchio”, o addirittura – giudizio ben più severo – “È invecchiato male”. Queste parole sono relativamente frequenti e fanno di noi giudici irremovibili e implacabili di opere e di autori. Tuttavia riflettendo bene arriviamo presto a capovolgere l’immagine: il testo non è cambiato come non sono cambiate le immagini di un film. Da questo punto di vista, il cinema è il testimone inesorabile delle derive della memoria. Mi piacciono i vecchi film, in particolare americani: alcuni li ho visti e rivisti innumerevoli volte, approfittando – finché dura – del privilegio di abitare a Parigi. Per inciso, devo aggiungere che la visione di un film in una sala cinematografica è un’esperienza totalmente diversa da quella che si vive guardando un dvd o la televisione: non è immediatamente ripetibile e non è mai, per così dire, solitaria, anche nelle sale del quartiere latino poco frequentate nel corso della settimana. Dunque il film non è la sola componente in gioco nel corso di uno spettacolo in sala, ci sono anche una cornice e un rituale che sono molto poco cambiati. Di contro, l’esperienza delle fantasticherie della memoria è sempre la stessa: la scenografia del reale ha sempre qualcosa in più o in meno di quella proposta dal ricordo, per quanto esso possa essere relativamente recente. Appena la si è abbandonata a se stessa, la memoria si è affrettata a cancellare alcuni dettagli e ne ha aggiunti altri, spesso variazioni impercettibili che tuttavia bastano a dimostrarmi che non è il film a essere cambiato – e ancor meno invecchiato: sono io. La pellicola è il testimone irrecusabile della stupefacente capacità della memoria di dimenticare e reinventare.
Ciononostante è forse troppo facile attribuire l’invecchiamento delle cose della vita solamente alle fantasticherie della memoria e dell’oblio. Le cose della vita ricadono in tre ordini: paesaggi, opere ed esseri o, più esattamente, corpi. Sono le radici delle relazioni, dei rapporti che ci legano a luoghi, libri, genitori e famiglia, amici o animali.
Ovviamente il rapporto con un paesaggio non è paragonabile all’interazione con un altro essere vivente poiché questa presuppone una reciprocità. Al fine di evocare la presunta continuità della natura, Alphonse de Lamartine è costretto a personificarla:
O lago, o mute rocce, grotte, foresta oscura! Voi che il tempo non tocca, che anzi rinnovella! Di quella notte almeno conserva tu, o natura, ogni memoria bella.1
È qualcosa che Victor Hugo si guarda bene dal fare quando nella sua Tristezza di Olimpo vede nei cambiamenti del paesaggio la conferma del carattere irreversibile del passato: “Le macchie di boscaglia sono cambiate”. C’è da dire che i paesaggi non sono mai del tutto naturali e che i loro cambiamenti sono imputabili all’intervento umano. Se non ritrovate più il paesaggio di cui avete custodito il ricordo è perché voi stessi non vi ritrovate più in esso, vi è diventato estraneo e dunque è questione di una vostra relazione personale. Tuttavia, se il paesaggio è obiettivamente cambiato – vi si è costruito, si è disboscato, ci passa una strada – significa che c’è stato un intervento umano. Da un certo punto di vista si tratta dunque di una vera e propria intrusione nella vostra intimità personale, motivo che ben spiega la virulenza di certi movimenti di protesta contro i progetti che comportino uno sconvolgimento del paesaggio. Non è più tanto questione di ecologia quanto, invece, di una sorta di oltraggio alla vita privata.
Rimane il caso di un paesaggio che nessuna modificazione esterna sembra aver intaccato ma che pare essersi rimpicciolito con il tempo. Quando Proust ritorna a Illiers, tutto, perfino il fiume, gli sembra più piccolo. D’altro canto come dimenticare che da bambini ogni cosa ci appariva obiettivamente più grande, gli esseri – “i grandi” – tanto quanto i paesaggi? Ho sempre pensato che il miracolo del film visto in sala è operato dall’imponenza delle immagini, dei personaggi, enormi sullo schermo, e che già solo con la loro comparsa ci restituiscono una visione infantile, l’epoca in cui il mondo degli adulti era popolato da giganti alti il doppio di noi.
I cambiamenti che possiamo imputare al tempo non sono per forza un segno di degrado o deterioramento. È chiaro che quando diciamo che un libro o un film “sono invecchiati” di fatto parliamo di un cambiamento tutto nostro. Tuttavia se focalizziamo l’attenzione sul punto di partenza del ricordo vediamo che esso scaturisce da una relazione (tra il libro o il film e noi) e dunque bisogna riconoscere che è proprio siffatta relazione a essere cambiata e non necessariamente l’opera o noi. Una relazione che può essersi arricchita, aver acquisito una nuova vitalità, ben lungi dall’aver perso in senso o in sostanza. Prendo a esempio due autori d’interesse diametralmente opposto: la contessa Sophie de Ségur e Alexandre Dumas (padre).
Da bambina mia madre aveva letto i libri (con taglio in oro) della contessa de Ségur, della Biblioteca Rosa,2 e più tardi aveva collocato nella mia stanza le sue opere essenziali da I guai di Sophie alle Memorie di un asino, passando da Le ragazze modello a Le vacanze. Dall’età di sei anni ho cominciato a divorare i romanzi della contessa de Ségur (nata Rostopcina) e devo confessare che mai più in seguito alcuna opera è riuscita a risvegliare in me emozioni paragonabili né ha mai suscitato immagini così dense di significato. Mi si crederà facilmente quando affermo di non aver più riletto i libri della contessa de Ségur da – come si dice – tempo immemorabile. Confesso anche di aver quasi biasimato mia madre, anni dopo, per avermi messo in mano una letteratura di classe in cui i buoni sentimenti (i gesti caritatevoli nei confronti di gente povera ma onesta) si accompagnavano agli impegni politici fra i più reazionari. Vediamo in Dopo la pioggia viene il sereno la denuncia delle “orde” garibaldine che marciano su Roma; un razzismo spontaneo e quasi innocente – il nero Ramor ha una devozione da cane fedele per il suo padrone, “Moussu Jacques”, e si impegna al suo fianco nel corpo delle Guardie Svizzere per salvare il papa e il Vaticano; una inclinazione non molto velata al sadismo sessuale: le scene di sferzate su natiche nude sono ricorrenti nei Guai di Sophie così come nel Generale Durakine passando da Un piccolo buon diavolo. Solo che… ecco, la contessa de Ségur aveva talento, sapeva risvegliare la sensibilità dei bambini e stimolare la loro immaginazione. Ovviamente sono sicuro che i suoi libri mi cadrebbero letteralmente dalle mani se mai oggi mi azzardassi a rimetterci il naso. D’altro canto è inutile: trattandosi dei primi testi che ho letto, la mia memoria è eccellente, mentre, al contrario, lascia spesso molto a desiderare quando cerco riferimenti più recenti. Credo di essermi ripreso dai turbamenti vaghi e inconfessati che le scene delle sferzate sulle natiche suscitavano in me. Per molto tempo, tuttavia, quando al calar della sera mi capitava di percorrere le strade provinciali di Francia in auto, ho cercato un incrocio dove all’improvviso si profilasse la sagoma accogliente, quasi calorosa, di una locanda, simile a quella dove avrebbero trovato rifugio i due orfanelli della Locanda dell’angelo custode. Siffatta immagine, dai contorni tanto sfumati quanto persistenti, non mi ha mai lasciato e capita ancora che emani il soffio fuggevole di un incompiuto déjà vu di paesaggi crepuscolari.
Il mio rapporto con la contessa si è ristretto e dilatato allo stesso tempo, ridotto a poco meno di un’immagine, una piccolezza, ma che mi resta fedele e che posso ritrovare all’improvviso, di tanto in tanto, e non importa dove, sotto le sembianze di un desiderio inappagato.
Alexandre Dumas: una ricchezza inesauribile. Ogni dieci o quindici anni rileggo la sua trilogia, I tre moschettieri, Vent’anni dopo, Il visconte di Bragelonne e anche Il conte di Montecristo, opere di cui, specificamente, l’età è il tema e il tempo è la materia. Me ne godo sempre con piacere gli intrighi e apprezzo più che mai l’energia che da esse emana, ma è vero che man mano che il tempo passa ho avuto modo di apprezzare meglio la malinconia sottile che vela il seguito dei Tre moschettieri, quando ognuno vive la sua vita e i legami fra i quattro amici si allentano – sulle prime impercettibilmente – per via dell’età e degli interessi dunque diversi. Certamente, questa carrellata romanzesca rappresenta un inno alla fedeltà e ai sussulti della storia, quella storia di Francia immaginata e riscritta da Dumas, che consentono ai suoi eroi di riaffermarla, di rimetterla alla prova e di esserne testimoni fino alla fine. Tuttavia, l’altra faccia della medaglia – anzi, della storia – è proprio ciò che non racconta: i lunghi anni senza più spartire avventure, anni in cui l’età si fa sentire con tutto il suo peso e in cui, se non fosse stato per l’ingegnosità romanzesca dell’autore, l’oblio avrebbe inghiottito tutto o quasi. È chiaro nel Conte di Montecristo: alla fine egli si rende conto – e la sua vendetta glielo fa capire con cortese crudeltà – che non ama più Mercedes da un bel pezzo, che ella appartiene a un passato ormai scomparso, proprio come Edmond Dantès stesso. Quando la storia termina, si assiste quasi a una gara di velocità tra l’oblio e il desiderio di vendetta. La minaccia dell’oblio è in qualche modo virtuale in Vent’anni dopo e nel Visconte di Bragelonne, ma rimane comunque una presenza malinconica che ne ossessiona le più belle pagine. La minaccia non mi ha aspettato per esistere e non l’ho inventata io: venti o quaranta anni dopo, si trovano in Vent’anni dopo dei nuovi arpeggi che bisognava attendere. È necessario leggere e rileggere, la relazione con un testo è viva. Un libro che non invecchi è un libro dal quale il lettore può sempre aspettarsi qualcosa, in cui può sempre scoprire qualcosa, un libro che in questo modo gli dimostra che è ancora vivo, che i loro destini sono intrecciati e che sono uniti “in vita e in morte”.
1 Alphonse de Lamartine, “Il lago”, in Meditazioni poetiche. Tr. it. Tipografia Giulio Sperani e figli, Torino 1873.
2 Edita da Hachette nel 1856, è una collana dedicata ai bambini dai sei ai dodici anni. [NdT]Invecchiare senza età
Qualche volta ci rendiamo conto di essere invecchiati ritrovando il volto di una persona che avevamo “perso di vista” da qualche tempo. Arrivati a una certa età non si dovrebbe mai restare troppo lontani da chi siamo destinati a rivedere: ne approfittano per invecchiare senza avvertire e riaffiorano all’improvviso come scortese specchio della nostra decrepitezza. In una cerchia più intima e abituale ci si può in qualche modo rassicurare con un “È davvero invecchiato di colpo”, ma sono solo parole, in qualche modo il cuore non c’è, quasi gliene vogliamo; ci domandiamo se è malato; cerchiamo una spiegazione. Poi ritorna familiare e, se sta bene, glielo si perdona, si dimentica, lo si ritrova, ci si raccapezza.
La relazione con il proprio corpo, con se stessi, non è più semplice. Non abbiamo l’occasione di guardarci in uno specchio tutti i giorni e quando accade ci capita di rifuggire il contatto e ci allontaniamo dopo un’occhiata breve o indifferente. Al contrario, qualche volta, ci soffermiamo. Può essere per intervenire su un dettaglio – una volta si diceva “farsi belli” – passandosi una mano nei capelli, aggiustandosi il nodo della cravatta o, per le signore, ritoccandosi il maquillage, nel caso si tratti di un uomo con cravatta e di una donna truccata. Oppure può semplicemente essere – se posso permettermi di dirlo – per contemplare la nostra immagine senza commento, in un gesto di letterale “riflesso”. Dunque è il nostro corpo che ritroviamo, quel corpo, diciamo, plurivalente, che appare come un paesaggio nell’aspetto (e d’altronde ci piace rivederlo nelle fotografie, più o meno “in posa” sullo sfondo di un altro paesaggio-ricordo, familiare o esotico, immagine di vacanze). Allo stesso tempo, tuttavia, appare anche come un’opera di cui rivendichiamo l’attribuzione, quale un pittore che apporti dei ritocchi al suo quadro e, non da ultimo, è un essere indipendente che vive la sua vita, una vita che si dà il caso sia anche la nostra. Con questa sorta di parametri la relazione con se stessi si snoda secondo una serie di sdoppiamenti che generano espressioni verbali: il mio corpo e io – mi tira colpi bassi o mi dà soddisfazioni; la mia consapevolezza e io – l’io del piano superiore, il Super-io che mi domina e reprime, oppure quello del piano inferiore, quello dei bassi istinti; me e me – io è un altro –, la diversità imprevedibile che sembra ripetersi e riprodursi sempre nell’identico modo ma può anche battermi sul tempo e sfuggirmi di sorpresa.
Tuttavia, quando mi guardo allo specchio e mi dico che sono invecchiato, sebbene interpelli il mio riflesso dandogli del tu, ricompongo e riunifico il mio corpo e i diversi “me” in un’improvvisa consapevolezza. Paradossalmente questo ritorno alla fase dello specchio mi libera dalle aporie della consapevolezza riflessiva. Invecchio, dunque vivo. Sono invecchiato, dunque sono.
È necessario sottolineare che non solo la questione della relazione con se stessi, con il corpo di per se stesso, non è in alcun modo evidente, ma anche che quella dell’età la complica ulteriormente.
Nell’Africa tradizionale il corpo era considerato come una tavoletta sulla quale, già dalla nascita, erano incisi alcuni segni decifrabili dagli specialisti che vi potevano leggere un elemento ereditato: fin dall’inizio l’altro e il passato coesistevano. Erano iscritte anche le aggressioni subite dall’esterno, che si manifestavano con malattie, infortuni o sventure: con l’aiuto di una griglia simbolica – diversa da una cultura all’altra ma tuttora esistente – ancora una volta gli specialisti dovevano intervenire per decriptarne l’origine e il senso. In siffatta griglia simbolica sono presenti due costanti: il non dualismo – una non-distinzione sistematica tra corpo e mente – e una concezione persecutoria dell’avvenimento, in modo specifico per le lesioni o gli incidenti fisici sempre considerati imputabili alla volontà deliberata di altri. L’importanza delle concezioni persecutorie è stata spesso sottolineata al fine di porle a confronto con quelle più integrate dell’io, specifiche della modernità.
Tuttavia, nelle società più moderne, il corpo è il fulcro di una sorveglianza attenta al pari di quella presente nelle società lineari africane – patrilinee o matrilinee che siano. Al fine di eliminarli al più presto, proprio i segni dell’invecchiamento sono il primo bersaglio a cui mirare nella ricerca di buona forma fisica, salute e benessere. Allo stesso tempo e allo stesso modo si vorrebbero cancellarne tutti i segni, proprio tutti, inclusi quelli della povertà: nei Paesi sviluppati l’obesità è vista come un marchio di sottosviluppo intellettuale ed economico che è oggi sempre più manifesto e frequente. Rimane il fatto che è sempre il corpo a dire l’età, anche per chi – uomo o donna che sia – senza darsi tregua e per tutta la vita si accanisce sull’esercizio fisico, il jogging, il salto alla corda ed è sempre attento all’alimentazione. Dunque se si vuole “rimanere giovani” si deve insegnare al corpo a dissimulare o mentire. Mentire a chi? Agli altri e a se stessi. A sé come all’altro. Come se esistesse un altro del corpo, un altro che non sia il corpo.
Agli occhi più esperti sono subito evidenti gli artifizi grazie ai quali la pelle del viso sembra più liscia, quella del collo meno cadente o i capelli più folti. Rimane il fatto che la guerra si combatte all’interno e che, come nella campagna di Francia di Napoleone dopo Waterloo, essa conduce a vittorie dopo vittorie… ma fino alla disfatta finale. Arriva il momento in cui cadono le maschere, in cui la cruda verità dell’età si manifesta platealmente, un po’ prima o un po’ dopo, dipende, ma inesorabile. Da lungo tempo ormai – ben prima della decadenza ultima – gli uomini avevano rinunciato progressivamente alla loro virilità e le donne alla loro femminilità, almeno negli aspetti più appariscenti. Spesso l’invecchiamento si fa sentire presto e il crollo fisico coniugato a un’età avanzatissima è l’esito ultimo di una lunga storia. A volte nell’aspetto visibile, a volte per disfunzioni interne, il corpo “tradisce” le persone – uomini o donne che siano – che, prendendo atto di siffatta sconfitta, si sentono anzitutto vittime del loro corpo e rifiutano di ammettere che questa fragile spoglia mortale in via di estinzione sia il sunto del loro essere e della loro identità. La consapevolezza “persecutoria” è sempre presente, attiva, e si rivolta contro le malattie che incarna (il cancro, quella infida e malvagia creatura che rode) o contro una fatalità senza volto – l’età come potenza funesta – di cui sono lo strumento.
Due osservazioni a questo proposito. Considerato che essa incarna unicamente l’indifferenza della natura, la decadenza fisica, più o meno marcata, è vissuta da chi la subisce come una doppia sofferenza sia fisica sia morale, in una sorta di autotestimonianza. C’è, ecco tutto. Esattamente come il passato non esiste più. Ma altri hanno conosciuto siffatta decadenza molto prima, addirittura da bambini, e ciò dovrebbe smorzare l’amarezza di chi non vuole riconoscersi in quel corpo malaticcio che imprigiona e umilia. La visita di ospedali pediatrici o per adolescenti dovrebbe essere raccomandata a quegli adulti inquieti: finalmente capirebbero che qualunque cosa possa loro capitare, sono comunque sfuggiti al peggio e, secondo il linguaggio morale e persecutorio che è ancora il nostro, al più ingiusto.
La consapevolezza dell’altro, del fatto che esista (e non solo come un potenziale persecutore) è, e rimane, lo strumento più efficace della presa di coscienza di sé. Quando si tratta di un altro, non abbiamo alcun problema a identificarlo con il suo corpo e con i messaggi che invia (sorrisi o lacrime, le loro infinite sfumature che scivolano dall’entusiasmo al timore), ma solo fino a che siffatto corpo, appunto, non dia più segno di vita e siamo costretti allora a constatare che ciò che era non è più; che chi – uomo o donna che fosse e con tutti gli attributi che la vita gli aveva donato – non esiste più.
L’illusione che ci spinge a distinguerci dal nostro corpo, a interpellarlo, a maledirlo o adularlo, non smette mai di svanire sotto i nostri occhi. Le astuzie della consapevolezza riflessiva, l’illusione di esistere al di fuori e in modo indipendente dal proprio corpo, falliscono davanti all’evidenza della scomparsa improvvisa e senza appello dell’altro quando muore, poiché essa costituisce un taglio netto tra il prima e il dopo. Lontano dagli occhi, lontano dal corpo, il nulla, non c’è più alcunché; la “Morte” – con il suo carico di terrore o speranza – è la prima di tutte le parole che gli esseri umani hanno inventato per convincersi e credere che ci fosse un qualche cosa, parole che non fanno altro se non dissimulare il nulla.
Si dice che la solitudine sia uno dei mali più crudeli dell’età avanzata: in realtà, più il tempo passa più si sciolgono, o almeno si allentano, quei legami che ci tenevano ancorati alla riva. Il pensionamento, a cui tuttavia alcuni aspirano, impone e crea di colpo una distanza dalle familiarità quotidiane, una distanza che può inquietare tanto è forte la sua somiglianza con una specie di morte. Eppure a volte si celebra quell’avvenimento con una cerimonia che evoca un servizio funebre, con i suoi discorsi, i fiori e la sincera emozione di qualcuno.
Il problema della solitudine che l’età comporta sta nel fatto che essa non soltanto si impone come evidenza intima, ma anche come evidenza esteriore: gli altri tradiscono, disertano, si ritirano, sprofondano nella malattia o muoiono. Non si può invecchiare a lungo senza vedere molti amici cari allontanarsi o scomparire.
Il peggio è che ci si abitua. O, almeno, che sembra ci si abitui, come se, non per indifferenza ma bensì per pudore, si rifiutasse di considerare abominevole quella sorte che sappiamo essere comune. Parimenti, esiste anche un’indifferenza crescente nei confronti della storia attuale, nei confronti degli altri, perfino dei più cari, che Léo Ferré ha cantato così: “… E ci si sente assolutamente soli, forse, ma tranquilli…”.
Solitudine subita, imposta dalla scomparsa dei coetanei e dallo sguardo degli altri; solitudine voluta, come per un riflesso di difesa o una forma di sfida. Tutte queste solitudini sono l’ineluttabile prezzo della vecchiaia?
Non è detto. Che la si “dimostri” o meno, certamente abbiamo la nostra età, noi l’abbiamo, sì, ma è lei al timone. Eppure, “avere” la nostra età significa vivere e i suoi segni sono dunque segni di vita. Dietro i pretesti proclamati di chi si mostra attento al proprio corpo possiamo scoprire – al di là di una certa civetteria – la voglia di vivere pienamente come invitava a fare Cicerone. Il vivere pienamente è un ideale che molti non hanno avuto la possibilità di raggiungere durante la loro vita definita “attiva”, a causa di differenti obblighi che li vincolavano e pesavano su di loro. Succede dunque che il pensionamento sia effettivamente vissuto come liberazione e rinascita, come l’occasione di prendersi finalmente il tempo di vivere – vivere senza scadenze, di prendersi il proprio tempo senza più preoccuparsi dell’età.
Forse è una questione di fortuna: alcuni sono afflitti meno di altri dai malanni dell’età, o, almeno, lo sono ma più avanti negli anni. All’improvviso sopravviene la saggezza del gatto e domandano al loro corpo solo quello che è in grado di fare: vi si identificano e astutamente si risparmiano. Queste persone rappresentano proprio l’esempio che può essere contrapposto a qualunque analisi pessimistica evocata dal naufragio dell’età avanzata. Di tanto in tanto ci stupiamo dell’ottimo umore dimostrato senza dissimulazione dagli anziani, che, per potersi godere la vita, sembrano aver atteso fino alla fine. In qualche modo è ciò che sintetizza lo spesso citato aforisma lapalissiano: “Cinque minuti prima di morire, Monsieur de La Palisse era ancora in vita”. In effetti…Nostalgie
Que reste-t-il de nos amours,
Que reste-t-il de ces beaux jours?
charles trenet1
La nostalgia ricade in due tipologie: quella del passato che abbiamo vissuto e quella del passato che avremmo potuto vivere. La prima potrebbe essere coniugata al condizionale presente (“Mi piacerebbe ritrovare quei giorni felici”), la seconda al passato (“Se avessi osato agire, ce l’avrei fatta”). La prima, correlata e nutrita da una memoria più o meno fedele, urta brutalmente contro l’irreversibilità del tempo; la seconda non solo vuole tornare indietro nel tempo ma vorrebbe anche cambiare la storia (“Se avessi dato retta ai miei genitori…, Se non mi fossi lasciato convincere…, Se me ne fossi andato…, Se fossi rimasto…, la vita avrebbe potuto essere diversa”). Dal punto di vista del presente essa si rifà all’irreale del passato, una sorta di doppia irrealtà poiché, sostituendo il rimprovero al rimpianto, non riguarda quanto è stato e non ritornerà, bensì ciò che avrebbe potuto essere e non è mai stato.
A volte ci passa per la mente l’idea simmetrica e contraria quando pensiamo a piccoli episodi: incontri, colpi di testa, coincidenze di varia natura che hanno modificato la nostra vita e che avrebbero potuto non prodursi: “Se fossi arrivato cinque minuti più tardi, se non avessi posticipato la partenza per le vacanze, la mia vita non avrebbe preso la svolta che ha preso”.
Nostalgia o il colmo della malafede. Nel momento in cui si ancora al tempo essa opera una selezione feroce; l’oblio è la sua arma segreta e particolarmente efficace, un’arma affilata che incide al meglio lo spessore dei ricordi e inventa un passato che non è mai esistito. In fondo in fondo sappiamo bene che il paradiso non era così roseo al tempo degli affetti infantili; ciò che ci augureremmo – ben conoscendo la futilità di questo desiderio – è di ritrovarcisi oggi con i nostri limiti, i nostri desideri, la nostra immaginazione. Quello che rimpiangiamo non è mai esistito poiché, al contrario, è la nostra proiezione presente, è la proiezione del nostro desiderio presente che gli dona esistenza. A conti fatti, i due tipi di nostalgia si ricongiungono, ma alla seconda – che risveglia le consapevolezze più infelici – si può, almeno, attribuire una certa lucidità e non quando evoca ciò che avrebbe potuto essere, bensì quando mette a fuoco quei nostri limiti, quelle carenze che hanno davvero marchiato il nostro passato realmente vissuto.
In entrambi i casi la nostalgia parla del nostro presente, prova gusto a giocare con il tempo e da qui scaturisce la sua ambivalenza: se, da una parte, può esprimere dei rimpianti, da un’altra è spesso l’occasione di vero piacere, probabilmente simile a quello dello scrittore che inventa il passato immaginario dei suoi eroi attingendo dalla sua fantasia e dai suoi stessi ricordi. Guardando al passato siamo tutti creatori, degli artisti, ci avviciniamo, ci allontaniamo un po’, al fine di non smettere di osservare e ricomporre il tempo andato. Significa anche enunciare quanto sia falso il proverbio che sostiene che la vecchiaia non sa alcunché di più della gioventù: la prima sa che certe timidezze della seconda non sono dovute all’ignoranza. Ciò che riconoscono gli anziani è che già sapevano, ma non hanno osato. È ben questa l’essenza della seconda nostalgia.
I ritornelli delle canzoni popolari: non sono necessariamente dei capolavori ma li canticchiamo volentieri dentro di noi quando, seduti a un tavolino all’aperto di un caffè o in un vagone della metropolitana, li sentiamo strimpellati da un musicista improvvisato. Quei ritornelli non ci ricordano tanto il passato quanto invece quella sorta di perpetuità dei desideri soddisfatti a cui basta qualche nota musicale, lo spazio di un secondo, per riprendere vita – intatti, vani e inquietanti quanto ieri.
Illusione consapevole, deliziosa malinconia che non si limita a sentimenti amorosi o a ricordi affettivi: fuggevolmente risveglia nel profondo del nostro animo la consapevolezza di un vuoto. Una consapevolezza che non si manifesta nei più anziani attraverso sogni o progetti per il futuro – come invece capitava nella loro giovinezza –, nonostante ci siano ancora dei giovani troppo saggi e degli anziani un po’ scervellati: in ogni caso è sempre la stessa consapevolezza. Felice consapevolezza di un’incompiutezza benefica che mantiene il desiderio di creare, di un’altra cosa o un altro luogo, segno di vita per eccellenza in cui si mescolano passato e futuro, segno del tempo che passa e ritorna come il ritornello di una canzone, un segno senza età.
La nostalgia è una forza potente e proprio per questo può arrivare a essere pericolosa, alimento delle più folli e reazionarie passioni. Ancora oggi si trovano dei giovani “nostalgici” del Terzo Reich che, ovviamente, ne hanno solo un’immagine riflessa da altri: quel passato che non abbiamo conosciuto è il più facile da rivendicare e da ricostruire. Più in generale, le nostalgie politiche sono di un terzo tipo: si distinguono da quelle imperniate sul passato vissuto quanto da quelle che attingono dal passato che si sarebbe potuto vivere. Tradizionalisti e reazionari sono i guerrieri dell’immaginario, utopisti di un passato illusorio quanto l’utopia dei progressisti, tuttavia – più ipocritamente – fondano l’ordine nuovo al quale aspirano su un passato che non è mai esistito o è inconfessabile. In senso lato, nella vita politica sussiste un ricorso ambiguo al passato ricomposto che gioca – o cerca di farlo – sull’evocazione del tempo andato, di grandi esempi e di grandi uomini come per suggerire che tutto potrebbe ridiventare possibile. Tutto poggia su questo “ri” che sembra postulare l’esistenza di una storia reale: non ci resta che ritrovarla, come se il virtuale di oggi fosse il reale di ieri. È così che nascono le date mitiche, il cui impatto cambia a seconda delle sensibilità politiche e la cui forza simbolica – in ogni caso – va oltre il contenuto oggettivo: 1936, 1945, 1968…
Non sono indifferente ad alcune di queste date. Come tutti, associo il 1936 alle immagini trasmesse dai cinegiornali sull’esordio delle partenze in vacanza grazie alle prime ferie retribuite; alla seconda l’allegria che ho vissuto con la Liberazione e poi la Vittoria e, come per molti, la mia vita non è più stata la stessa dopo il 1968. Se ci si attiene alla storia reale, rimane il fatto che non solo sia stata di certo, e in ogni evento, ben più complessa dell’immagine associata alla data, ma anche che avendo una forza simbolica si sdrucisce con l’uso, soprattutto se se ne abusa, in particolare di fronte alle generazioni più giovani.
L’influenza del passato sulla vita di ciascuno si identifica in diversi modi e con termini differenti. “Nostalgia” ne è uno, “routine” un altro. Quest’ultima è l’abitudine senza ostacoli, una continuità che non sente il bisogno di “pensarsi”, una fedeltà inconsapevole, una sorta di pigrizia. La nostalgia la corrode e può metterla alla prova, suggerendo l’idea del possibile nell’evidenza del tran-tran senza problemi o interrogativi.
L’incontro con “l’altro” – l’amore, compreso l’amore-passione – è anzitutto l’occasione per percepire intensamente la propria solitudine e il “deserto” che la circonda: ecco il tema malinconico, quasi disperato, di un autore giapponese quale Haruki Murakami nel suo A sud del confine, a ovest del sole. Shimamoto è il casto amore adolescenziale del protagonista: non ha mai smesso di sognarla, rivivendo attraverso il ricordo le scene della loro intimità di cuore e di mente. La vita li ha separati senza che egli abbia potuto – o osato – porvi rimedio, suscitando così in lui entrambi i tipi di nostalgia. Dopo qualche anno lei, ora donna misteriosa, riappare improvvisamente, ma solo per scomparire di nuovo dopo una notte d’amore e senza che egli abbia potuto scoprire alcunché sulla sua vita attuale. Si ritrova allora solo con sua moglie Yukiko e si rende conto di non averle mai davvero parlato – “Era vero, non le domandavo mai alcunché”. Non si impara mai alcunché – “Mi sembrava essere ridivenuto l’adolescente che ero stato, impotente e perso”. Non si impara alcunché se non, forse, a provare lo stimolo di uscire da se stessi non sapendo chi si è: “Oramai dovrò tessere sogni per qualcun altro e non per me”.
Uscire dalla nostalgia sarebbe così ritrovare l’altro per ritrovare se stessi. Sforzo arduo, a meno che (come alcune pagine del libro invitano a ipotizzare) il protagonista non abbia già deciso di cambiare nostalgia, dopo aver messo imprudentemente la prima alla prova di un vero ritorno.
Certo è difficile scivolare da un tipo di nostalgia all’altro a proprio piacimento. Ciononostante tutti abbiamo immagini che fluttuano in modo vago nella nostra mente, immagini che di tanto in tanto risorgono, così, inopinatamente, senza ragione, giusto per caso. Non corrispondono necessariamente ad avvenimenti che ci hanno segnato e non siamo in grado di dar loro un tempo, una data: semplicemente, sono là. Si potrebbe definirle discrete, non sono nemmeno ossessioni, non s’impongono se non vogliamo trattenerle ma ritornano sempre, un giorno o l’altro, come per assicurarci che rimangono disponibili: scorci di un paesaggio, di volti intravisti, di strade o di rive marine… Sfuggono anche quando un aneddoto potrebbe focalizzarle, dunque meno precise ma più fedeli; alcune emergono da un’infanzia lontana e quasi dimenticata. Invece di accanirsi alla ricerca di un significato nei misteri della psiche – domandandosi cosa mascherano – forse si potrebbero vedere in loro i segni del tempo che non vuole morire, sorta di passerelle tra un passato perso e un futuro ignoto, di nostalgie di ricambio pronte all’uso, per così dire.
1 “Cosa resta dei nostri amori? Cosa resta di quei bei giorni?” Così cantava Charles Trenet tanti anni fa. [NdT]
Tutti muoiono giovani
L’ho già detto, nel corso della mia vita ho avuto parecchi gatti, più spesso femmine a cui, dopo una prima e unica esperienza, un intervento veterinario toglieva presto i piaceri dell’accoppiamento e le emozioni della riproduzione. Con ognuna di esse ricominciava ogni volta la stessa avventura: le birichinate dei primi mesi, i privilegi della maturità, lo stesso progressivo affievolirsi delle forze e, sempre, la stessa serenità. Le età della vita scorrevano a ritmo accelerato. Agli occhi degli esseri umani, una delle virtù degli animali è indubbiamente la loro capacità di sostituirsi uno all’altro, una rapida successione che risparmia dalla fatica del lutto. La decisione di una persona di una certa età di non accogliere un altro animale dopo che l’ultimo se ne è andato è forse dovuta al fatto che, questa volta, i loro destini rischierebbero di scorrere in parallelo.
La morte dell’ultimo gatto o cane, quelli che non avranno successori per un motivo materiale o per stanchezza, marca comunque un cambiamento di punto di vista. Fino a quel momento, infatti, l’animale ci appariva come una creatura mortale di fronte a degli immortali. Consideriamo i cani e i gatti con lo stesso sguardo che gli dei di Omero posavano sugli esseri umani: con simpatia ma con animo afflitto dalla consapevolezza di non poter cambiare alcunché del loro destino. Tuttavia di fronte ai nostri animali non siamo immortali, siamo giusto semidei, e rinunciare a sostituire l’ultimo che se ne è andato significa ammettere che siamo mortali, come loro: siamo noi ad avvicinarci a loro. È anche il momento di interrogarsi sul segreto della loro serenità, sulla loro vicinanza con la natura, quella che Bataille chiamava “l’intimità”, suggerendo quanto, al limite, fosse incompatibile con l’individualità. Di fatto è in età, alla maturità, con il tempo, che diveniamo più acutamente consapevoli del fatto che si stia avvicinando il momento in cui siffatta individualità è destinata a dissolversi; diventiamo viepiù sensibili a tutto ciò che, invece, è presagito, e da ben prima, nella saggezza del gatto.
In ogni modo, il problema degli esseri umani è che, sì, vivono consapevolezze individuali ma hanno bisogno degli altri per esistere appieno. Rousseau stesso riconosce che i momenti felici sulle rive del lago di Bienne non erano solo dovuti al suo fondersi con la natura circostante, ma anche alla presenza amichevole dei suoi ospiti. L’amicizia, l’amore, il dispiacere sono tutti segni di vita correlati alla presenza degli altri. L’invecchiare permette di esplorare altri incontri, altre relazioni o, a volte, obbliga a subirli. Si tratta di un’esperienza che non finisce di diversificarsi con l’allungamento della durata della vita come provano schiettamente le espressioni che si usano oggigiorno: terza, quarta età.
Tuttavia la consapevolezza di sé non va sempre insieme alla corrente: quando faccio fatica a raccogliere una chiave che mi è caduta mi torna sempre in mente l’immagine di quello a cui il gesto di abbassarsi non costava alcuno sforzo. Protesto se mi si offre aiuto, ma, è vero, sempre meno veementemente man mano che la rigidità delle mie giunture aumenta. Dopotutto è poi così contraddittorio fare del moto o dell’esercizio fisico per mantenere elasticità – poca o tanta che sia – e poi non arrossire dovendo chiedere aiuto per caricare una valigia sul treno? Invecchiare significa sperimentare nuovi rapporti umani; è un privilegio che molti non hanno avuto e di cui è bene essere consapevoli; per alcuni è anche l’occasione di vivere ciò che avevano solo immaginato domandandosi quali fossero le sensazioni provate dai loro “vecchi” e dunque, in un certo senso, raggiungerli e relativizzare così la distanza fra generazioni. In definitiva la vecchiaia sa forse qualcosa: “Non c’è niente su cui farla lunga”, come si diceva all’epoca della mia infanzia. La vecchiaia è come l’esotismo: gli altri visti da lontano con gli occhi degli ignoranti. La vecchiaia non esiste.
Il tempo in cui è immersa l’età avanzata non è costituito dalla somma accumulata e ordinata degli avvenimenti passati. È un tempo, diciamo, palinsesto: non è che si ritrovi sempre quello che vi è annotato e, anzi, capita che gli scritti più vecchi siano i più facili da riportare alla luce. Il morbo di Alzheimer è solo l’accelerazione di un processo naturale di selezione operato dall’oblio, al termine del quale risulta che le immagini più tenaci, se non le più fedeli, sono comunque spesso quelle che risalgono all’infanzia. Che ce ne si rallegri o che lo si deplori – questa constatazione ha un lato crudele – bisogna ben ammetterlo: tutti muoiono giovani.