lunedì 3 marzo 2025

LOVELESS Regia di Andrej P. Zvjagincev

 



LOVELESS

Regia di Andrej P. Zvjagincev

Chi l’ha detto che il modo migliore per raccontare (e far comprendere) la realtà è la piatta esposizione dei fatti? Chi pensa che semplicità sia sinonimo di verità e schiettezza non ha evidentemente aperto un quotidiano negli ultimi quindici anni: articoli che – la stragrande maggioranza delle volte – affrontano il reale come uno scolaretto delle elementari affronta il tema “Il mio papà è il mio eroe”, cioè appigliandosi a qualsiasi dettaglio lontanamente plausibile della vita dell’eroico genitore pur di mettere in fila una ventina di pensierini blandi, tenuti insieme da un profondo senso d’inadeguatezza impastato a quel che resta della propria dignità. Ma se la semplicità, non dobbiamo dimenticarlo, è l’anticamera della semplificazione, in nome della semplificazione una barca con a bordo 42 poveri cristi diventa la testa di ponte di una tremenda invasione.

Da tempo lamento la progressiva scomparsa del linguaggio allegorico nella cultura occidentale. Ormai a parlare una lingua laterale e a ragionare in modo controintuitivo  sono rimasti in pochi qui da noi. Ma uscendo dall’Italia è possibile imbattersi in tracce ancora vive e pulsanti di allegoria, soprattutto nell’arte prodotta in realtà particolarmente difficili, nelle quali  gli autori fanno fatica a esprimersi senza inevitabili (e sfavillanti) giri di parole. E’ un dato che emerge anche in un articolo di Owen Gleiberman, il critico cinematografico di “Variety” che, recensendo nel 2017 “Loveless” del russo Andrej Zvjagincev, scriveva così: “Ci sono sempre state società oppressive che limitano il cinema, lasciando al contempo quel minimo spazio di manovra necessario a un artista scafato – e poetico – per dire quel che pensa. E’ un discorso che vale per la Cecoslovacchia comunista degli anni Settanta come per l’Iran degli ultimi trent’anni. E vale anche per la Russia di Putin. Il regista Andrej Zvjagincev non può esporsi denunciando, in modo chiaro e inequivocabile, la corruzione della società in cui vive, ma può fare un film come ‘Leviathan’, nel quale registrava la temperie spirituale della classe media russa, perduta tra alcol e tradimenti vari. E può farne uno come ‘Loveless’, che getta uno sguardo spietato e risonante non tanto alla politica russa, quanto alla mancanza di empatia che caratterizza la società”.

La Russia di Putin non è certo un paese democratico. Eppure, grazie alla forza dell’allegoria, Zvjagincev è riuscito per anni a farsi sostenere finanziariamente dallo stato per realizzare i suoi film. La magia si è spezzata all’indomani del successo internazionale di “Leviathan” (anch’esso finanziato al 35 per cento da Madre Russia, attraverso il ministero della Cultura), nel quale il regista ha fatto trapelare più del solito il suo attacco alla bancarotta morale della sua nazione. A nulla sono valse le parole del produttore del film, Alexander Rodnyansky: “Il film affronta alcune delle principali tematiche sociali della Russia contemporanea, ma non è la predica di un artista né una sua pubblica dichiarazione. E’ una storia d’amore e tragedia, vissuta da gente comune”.

Nonostante “Leviathan” abbia ottenuto (anche in patria) un unanime consenso critico, questa pellicola ha segnato la fine dell’idillio tra l’apparato putiniano e Andrej Zvjagincev. Per il successivo “Loveless”, infatti, il regista è dovuto ricorrere a una coproduzione russo-franco-belga: stavolta non un rublo è arrivato dalle casse dello stato. Forse per allontanarsi dalla netta accusa alla corruzione presente in “Leviathan”, forse per rientrare – a modo suo – nelle grazie del ministero della Cultura, Zvjagincev ha preferito rialzare l’asticella dell’allegoria e ha confezionato un film spietato, in cui una devastante storia famigliare riesce a rappresentare alla perfezione l’ascesa e il crollo del culto di Putin e l’onda di entusiasmo (presto deluso) che contagiò i cittadini russi. Zenja e Boris sono una coppia al capolinea. Entrambi convivono in un appartamento che ormai è l’unica cosa che li lega: nemmeno Alëša, il loro figlio dodicenne, riesce più a tenerli uniti. Anzi, il ragazzino è spettatore del disfacimento della sua famiglia e anche oggetto di tremende violenze verbali da parte dei suoi genitori. I due hanno già dei nuovi compagni e non vedono l’ora di disfarsi di questo benedetto appartamento per inaugurare una nuova vita: guardano al futuro pieni di speranza e vorrebbero cancellare le ultime ingombranti tracce del loro deteriorato legame affettivo. E le ultime tracce sono la casa e Alëša. La casa prima o poi sarà venduta, ma Alëša non ha più voglia di subire in silenzio. Un giorno, il ragazzino sparisce senza lasciar traccia.

In un film americano, la scomparsa del figlio avrebbe spinto i due a riavvicinarsi, ma nel mondo di Zvjagincev non c’è spazio per la melassa. La sparizione di Alëša è quasi una liberazione, poiché permette a Ženja e Boris di vivere liberamente le loro nuove vite, mentre le indagini della polizia procedono pigramente e senza svolte significative. Alëša diventa quindi la personificazione di questo “spirito russo” sul quale Zvjagincev riflette, così come fa un po’ in tutta la sua cinematografia, uno spirito rinnegato e abbandonato per fare spazio a un non meglio definito “nuovo” che promette di bruciare i ponti col passato e invece non fa altro che avvitarsi su se stesso ricacciando tutti nel gorgo da cui pensavano di essere sfuggiti. Emblematica la scena in cui, chiamati dalle autorità a riconoscere un cadavere che corrisponde alla descrizione di Alëša, Ženja e Boris esplodono a piangere, nonostante lei ribadisca che non si tratta di loro figlio. Lo spirito della nazione è scomparso e al suo posto ha lasciato qualcosa di morto che gli somiglia a malapena. La promessa del nuovo è vuota, senza speranza. La vita dei due ex coniugi continua, ma nella piena consapevolezza che la fatica fatta per lasciarsi tutto alle spalle non è servita a nulla.


 


Dubito che potreste trovare una quadro più netto e dettagliato della realtà, della Russia contemporanea, del nostro mondo negli articoli di qualsiasi quotidiano italiano.


Di più su questi argomenti:

deluxe mea lux costantino della gherardesca film loveless Zvjagincev russia putin


I più letti di Deluxe Mea Lux


Deluxe Mea Lux

Costantino Della Gherardesca


Omosessuale non pentito cerca madamina pro Tav per fare cinque figli

Procreare è patriottismo economico. Un obbligo da non lasciare ai populisti


Costantino della Gherardesca


Louis C. K. e le bigotte

Chi sfoggia indignazione non lo fa per portare avanti una qualche ragion di stato, ma per pura vanità


Costantino della Gherardesca

Il Foglio

    

Privacy Policy Contatti Pubblicità FAQ - Domande e risposte RSS Termini di utilizzo Change privacy settings

Torna All’inizio


Salta al contenut

Andrej P. Zvjagincev è un regista cinquantenne noto alle platee europee soprattutto per avere vinto il Leone d’Oro a Venezia nel 2003 con la sua opera prima, Il ritorno (storia di due giovanissimi fratelli e della ricomparsa nella loro vita del padre dopo una lunga assenza). Il film attualmente nelle sale inizia con una serie di immagini con la mdp fissa: prima una serie di “cartoline” di un fiume innevato con tronchi d’albero che gli si intrecciano sopra (il senso di queste immagini iniziali riprodotte nel finale non è chiaro), e poi un edificio dal quale esce un ragazzino, poi accompagnato con un movimento di carrello nei suoi spostamenti: un’uscita di scuola. I genitori, sul punto di divorziare, hanno ciascuno un compagno. L’elemento di maggiore interesse del film, per certi aspetti enigmatico, è decisamente il ritratto psicologico e sociale dei due messo in risalto attraverso il rapporto con il figlio dodicenne Alyoša (Matvey Novikov): una enigmaticità che deriva dal modo, diretto sino alla brutalità (e dunque alla innaturalità), con il quale vengono rappresentati gli egoismi della coppia (alcune insistite scene di sesso sembrano voler dire questo), i loro litigi quando devono decidere se e come vendere la casa, la freddezza di entrambi verso il figlio, visto quasi come un intoppo nato quando si voleva abortire, e la loro incapacità anche solo di rispettarlo e di accudirlo. Con le conseguenze di procurare al bambino una atroce sofferenza, espressa da una bella scena nel modo più semplice, con l’esplodere di un pianto soffocato, ma dirotto. Quando Alyoša scompare misteriosamente, Ženja (Marjana Spivak) e Boris (Aleksej Rozin) lo scoprono tardi, ciascuno essendo preso dalle proprie cose. Chi si impegna davvero nelle ricerche è un gruppo di volontari, seguiti quasi svogliatamente da Ženja e Boris. Il protrarsi di questa terribile situazione sembra però produrre una ferita profonda, non rimarginabile, negli animi dei due genitori, ma più come testimonianza di una acquisita consapevolezza del loro individuale fallimento che per la disperazione per la perdita di una creatura che si ama. Fanno da sfondo al film (ambientato nel 2012) le tensioni tra la Russia dove è tornato alla presidenza Putin e l’Ucraina. Il film ha un forte afflato morale, sebbene risulti un po’ freddo. Merita di essere visto.