venerdì 28 marzo 2025

LA CASA SUL CANALE Georges Simenon

 


LA CASA SUL CANALE
Georges Simenon

 Recensione

Ancora una volta l’abilità di Simenon di sondare l’animo si dimostra del tutto inarrivabile. Con poche precise parole, mette a nudo i più profondi e nascosti recessi dell'animo umano e i personaggi finiscono con il mostrarsi come in effetti sono, cioè diversi da ciò che viene considerata una normale e accettabile  consuetudine del vivere civile. In un'atmosfera  in cui il grigio scuro sembra il colore predominante e dove il tempo scorre sempre uguale, si svolge la tragedia raccontata da Simenon

Tutti i colori sono smorti in questo romanzo, come smorti sono i protagonisti che si lasciano condurre docilmente lungo la parabola segnata dal destino; non c’è mai un tentativo di ribellione e su tutto predomina la piena sottomissione alle leggi di natura.

La casa sul canale è uno dei tanti capolavori di Georges Simenon.

 

LA CASA SUL CANALE

 

Nel flusso di passeggeri che scorreva a ondate verso l'uscita, era la sola a non affrettarsi. Con la sacca da viaggio in mano, la testa eretta sotto il velo da lutto, aspettò calma il suo turno per porgere il biglietto all'incaricato, poi avanzò di qualche passo.

Quando aveva preso il treno a Bruxelles erano le sei del mattino e l'oscurità era impregnata di pioggia gelida. Anche lo scompartimento di terza classe era bagnato, bagnato il pavimento sotto le scarpe infangate, bagnate le pareti coperte di un vapore vischioso, e bagnati i finestrini, dentro e fuori. I passeggeri, pure loro con i vestiti bagnati, sonnecchiavano.

Alle otto, proprio all'arrivo a Hasselt, le luci del treno si spensero, e così quelle della stazione. Nelle sale d'attesa rivoli d'acqua colavano dagli ombrelli che emanavano un odore di seta fradicia. Alcuni viaggiatori si asciugavano accanto alle stufe ed erano tutti più o meno vestiti di nero, come Edmée. Un caso, oppure lei lo notava soltanto perché era in lutto stretto? Per la gente di campagna non è una sorta di uniforme, il nero?

12 dicembre. Il numero, che si stagliava a grandi caratteri anch'essi neri di fianco a uno sportello, la colpì.

Fuori la pioggia scrosciava, la gente correva o si rifugiava dentro i portoni, e una fitta nuvolaglia rendeva il cielo così plumbeo che i negozi dovevano tenere le luci accese.

Davanti alla stazione c'era uno di quegli omnibus dipinti di verde e di nero che fanno servizio extraurbano. Era deserto: non si vedevano ancora né il manovratore né il bigliettaio. La scritta sul cartello indicava «Maeseyck», che si trovava proprio sulla strada per Neeroeteren, dov'era diretta Edmée.

Senza chiedere niente a nessuno, salì nella prima carrozza, divisa da un tramezzo a vetri. Di qua, sedili di legno e pavimento cosparso di mozziconi e sputi; di là, imbottiture di velluto rosso e una passatoia.

Dopo un attimo di esitazione, Edmée varcò la soglia della prima classe, sedette in un angolo, ben eretta, e sollevò il velo di crespo che le copriva il viso. Era minuta, pallida, anemica come possono esserlo le ragazze a sedici anni. Portava i capelli ripartiti in due trecce strette e arrotolate sulla nuca in un severo chignon.

Passò una mezz'ora. La seconda classe cominciava a riempirsi di gente - per lo più contadine cariche di ceste, che parlavano a voce molto alta, com'è tipico dei fiamminghi. C'era chi, data un'occhiata a Edmée, tutta sola al di là del divisorio, sussurrava qualcosa scuotendo la testa in segno di compassione, e subito altri sguardi si posavano sulla ragazza.

Si udì un fischio, e l'omnibus cominciò ad avanzare lungo le strade della cittadina ancora sonnolenta. Le lampade dei vagoni si accesero come per caso, e così rimasero per tutto il viaggio.

La pioggia, il velo di Edmée, i pesanti scialli neri delle contadine, l'acqua che sgocciolava sul pavimento e sui sedili delle carrozze - tutto si fondeva in un lugubre grigiore. La terra arata delle campagne era scura, le case costruite con mattoni di un bruno sporco. L'omnibus attraversò il distretto minerario del Limburgo, e addentrandosi nei quartieri operai costeggiò una fila di discariche.

Le carrozze erano vecchie, sicché i passeggeri continuavano a sobbalzare e, loro malgrado, a dondolare il capo. Edmée come gli altri. Ogni tanto le donne si scambiavano qualche parola. Il vetro divisorio non lasciava passare i suoni, ma permetteva di vedere l'espressione afflitta dei volti, le bocche che si aprivano in un sospiro e gli sguardi imbambolati che, a ogni pausa della conversazione, si fissavano sui finestrini appannati.

Il bigliettaio entrò nella prima classe e si rivolse in fiammingo a Edmée che, senza guardarlo, si limitò a porgere il denaro dicendo semplicemente:

«Maeseyck!».

L'uomo aggiunse qualcosa, ma lei si voltò dall'altra parte. L'omnibus si fermava in tutti i paesini, anche ai semplici incroci dove non c'era nemmeno una casa. Subito accorreva gente - soprattutto donne, che si tiravano su le sottane e si facevano issare, ridenti e senza fiato, sul predellino. Il bigliettaio allora suonava la tromba, uno squillo comico, come di giocattolo, e la locomotiva fischiava.

Verso le undici alcune contadine aprirono i loro cesti e tirarono fuori qualcosa da mangiare. Alle due l'omnibus arrivò a Maeseyck e si fermò di fianco a un convoglio del tutto simile, tranne che aveva una carrozza in meno e recava la scritta «Neeroeteren».

Edmée non s'informò sull'ora della partenza, non si guardò intorno, non rivolse la parola a nessuno. Come aveva fatto a Hasselt, andò a sistemarsi in un angolo dello scompartimento mentre quasi tutti gli altri viaggiatori andavano a sedersi in un bistrot e prendevano un caffè caldo.

L'omnibus in coincidenza partì solo alle tre e mezzo. Era già il crepuscolo. Passò per boschi e lungo un canale dritto dritto, così dritto e così lungo che dava l'angoscia. Quando, al centro di un paesino, il bigliettaio gridò: «Neeroeteren!», era ormai buio.

Edmée scese e se ne restò immobile in mezzo alla strada davanti a un negozio di alimentari con l'insegna in fiammingo. Alcune persone si avvicinavano alle carrozze, altre si abbracciavano o si allontanavano. Ma nessuno badava a lei. Allora andò a piazzarsi sulla soglia del negozio, al riparo dalla pioggia, e posò la sacca da viaggio sui gradini.

L'omnibus ripartì. A poco a poco la strada si vuotò. Nell'ombra, vicino a un gruppo di case a un solo piano, c'era un grande cavallo grigio attaccato a un calesse dalle alte ruote. E da un punto imprecisato della vettura si staccò, senza far rumore, una sagoma tozza, priva di collo, ma con una testa enorme coperta da un berretto fradicio di pioggia, e braccia troppo lunghe che dondolavano goffamente.

Quella impacciata creatura portava zoccoli e abiti da contadino. Per due volte passò davanti a Edmée senza guardarla, poi di colpo, fermandosi a pochi passi dalla porta del negozio, borbottò:

«È lei che deve venire alle Irrigations?».

«Sì».

«Io sono Jef».

Parlava senza osare guardarla ed esitava persino a prendere la sua sacca da viaggio.

«Ha la macchina?».

«Ho il calesse».

Alla fine, con un gesto brusco, pigliò la sacca, poi si avviò di gran carriera verso il calesse dalle alte ruote. Nell'udire la sua voce il cavallo, che già scalpitava, si calmò di botto.

«Ce la fa a salire da sola?».

Edmée lo aveva seguito, intirizzita e rigida come era stata tutto il giorno. Lui caricò la sacca e si voltò imbarazzato, senza decidersi a tenderle la mano.

«Ho paura che si sporcherà il vestito».

Edmée salì con un balzo, chinandosi per infilarsi sotto il mantice. Un istante dopo, seduto accanto a lei, il ragazzo afferrava le redini e spronava il cavallo incitandolo in fiammingo.

Ancora due o tre luci, poi nient'altro che due file di abeti neri ai lati della strada. C'era vento. Il mantice si gonfiava e lasciava passare la pioggia, che entrava dai buchi come da tanti rubinetti.

Edmée non vedeva il suo compagno. Nella totale oscurità baluginava solo il tremulo chiarore della lanterna appesa a una delle stanghe del calesse, che proiettava sul fango della strada un disco di luce danzante.

«Ha freddo?».

«No».

Non era una strada vera e propria, ma un sentiero di terra battuta, con solchi così profondi che per due volte Jef dovette scendere e aiutare il cavallo facendo forza sui raggi delle ruote. Si gelava. Edmée era percorsa da brividi che la scuotevano fino alle ossa. E soprattutto non si arrivava mai, quel tragitto sembrava più lungo di tutta la giornata passata in treno.

«Manca ancora molto?».

«Siamo nelle nostre terre già da un quarto d'ora».

Al bosco di abeti era seguita una pianura suddivisa in rettangoli da filari di pioppi. Poi, dopo una breve salita, attraversarono il canale che Edmée aveva già visto. Trattenuto da argini di terra, si trovava al di sopra del livello dei prati. In lontananza, una chiatta.

«Ha fame? Parla fiammingo?».

«No».

«Peccato».

E dopo un po':

«... perché mia madre e le mie due sorelle più piccole non sanno il francese».

A un certo punto, uno scossone del calesse spinse Edmée contro la spalla del cugino, e la ragazza si raddrizzò con un moto quasi di ripugnanza.

«È laggiù!».

Nella pianura, fra i rettangoli disegnati dai pioppi, brillava una minuscola luce. Proveniva dalla finestra di una casa. E a mano a mano che si avvicinavano, dietro le tende si scorgevano delle ombre. Il calesse si fermò cigolando davanti a una porta.

«L'accompagno. Entriamo sempre dal cortile».

E lasciando che il cavallo si dirigesse da solo verso le scuderie, Jef s'inoltrò per un sentiero fiancheggiato da una siepe che procurò a Edmée qualche graffiatura. Non vedeva più niente. A stento riuscì a distinguere, quando lui aprì una porta, un chiarore rossastro. Nello stesso istante una donna magra e rinsecchita, in preda a una folle agitazione, si gettò su di lei, la strinse fra le braccia e la bagnò di lacrime gridando frasi in fiammingo.

Edmée non batteva ciglio, restava ben eretta fissando, oltre la spalla della donna, la cucina illuminata solo dalle fiamme del camino. Qua e là, si scorgevano, sedute sui loro sgabelli, piccole sagome di bambine che piangevano o se ne stavano con lo sguardo imbambolato.

Edmée cominciava ad assuefarsi all'odore che impregnava la cucina: un forte sentore di latte inacidito, di lardo e di legna bruciata.

La donna si era finalmente staccata da lei e abbracciava Jef balbettando le stesse frasi disperate. La porta era rimasta aperta. Dall'oscurità, raffiche di pioggia irrompevano nella cucina. Nel camino un ceppo crollò.

«Papà!...» mormorò il ragazzo guardando inebetito davanti a sé.

Poi, senza voltarsi verso la cugina:

«Papà è morto! Proprio mentre arrivavi tu...».

 

Per tre giorni la famiglia visse in mezzo al disordine, al fango, alle correnti d'aria di quella casa in cui tutti avevano perso la testa, mentre Edmée, l'unica a essersi mantenuta calma e fredda, osservava ogni cosa.

Non aveva mai visto lo zio da vivo e lo guardò con attenzione disteso sul letto di morte, colpita dai lunghi baffi rossicci. E fu proprio nella camera mortuaria che fece la conoscenza di Fred, il maggiore dei cugini. Il ragazzo aveva pianto, e la luce tremula delle candele che lo illuminavano deformava la sua fisionomia dalle labbra grosse e dai capelli ispidi e ribelli, unti di brillantina.

Fred aveva ventun anni. Jef, quello che aveva portato la cugina alle Irrigations, diciannove. Poi c'era una sorella diciassettenne, Mia. Era in cucina e stava facendo mangiare le tre bambine più piccole, la minore delle quali aveva cinque anni.

Quanto alla madre, andava dall'uno all'altro, ora da Mia, ora da Jef. Non piangeva, ma si lamentava con voce monotona, e riversava anche su Edmée le stesse litanie disperate senza rendersi conto che lei non capiva una parola di fiammingo.

Fin dall'inizio, Edmée si tenne alla larga da quelle effusioni. Poiché le cugine la guardavano incuriosite e timorose insieme, non rivolse la parola neanche a loro. Aveva fame e sete, ma non chiese nulla e solo alle otto di sera mangiò un piatto di minestra.

A causare la morte dello zio era stato un incidente. Una settimana prima si era preso una cornata alla coscia proprio dalla mucca che da tempo pensavano di abbattere. La ferita non era profonda. Per tre giorni aveva zoppicato; poi si era messo a letto.

Quando alla fine avevano chiamato il medico era troppo tardi. La cancrena si era diffusa in tutto il corpo.

Edmée non lo avrebbe mai conosciuto. Ma restavano tutti gli altri con i quali era ormai destinata a vivere, e che ora scrutava con uno sguardo privo d'indulgenza.

La madre di Edmée era morta subito dopo la sua nascita. Il padre, che faceva il medico a Bruxelles, l'aveva viziata per sedici anni ed era morto anche lui pochi giorni prima. Poiché era povera, il suo tutore l'aveva mandata a vivere dallo zio di Neeroeteren, come lo chiamavano in famiglia, uno zio che lei non aveva mai visto, che possedeva centinaia di ettari nella zona di Campine.

Adesso i familiari dello zio le si affannavano intorno, piangevano, si agitavano come formiche di un formicaio che è andato distrutto. Perché non accendevano le lampade? Quella semioscurità, che cancellava tutto e costringeva a spalancare gli occhi per individuare le persone nella penombra, era la cosa più opprimente.

Solo lo studio venne rischiarato da una lampada a petrolio con il paralume rosa. Qui, all'odore indefinibile della casa si aggiungevano i penetranti aromi di pipa e di inchiostro viola. Fred, il cugino maggiore, vi si installò con aria compresa, e cominciò a scrivere dei telegrammi. Ogni tanto apriva appena la porta per chiedere qualche informazione a sua madre o a suo fratello.

Fu Jef a uscire di nuovo in piena notte col calesse, e Edmée lo vide cacciarsi in tasca delle patate fumanti che aveva cotto sotto la cenere. Mia mise a letto le bambine, quindi tornò da Edmée e le disse con aria cerimoniosa:

«Vuole che le mostri la sua camera, cugina?».

La camera, illuminata da una candela, aveva il tetto spiovente e un letto molto alto coperto da un piumino troppo gonfio. Durante la notte si udirono vari rumori per la casa. Poi Edmée sentì ritornare il calesse. Al risveglio, quando scese trovò in cucina persone che non conosceva. Tra queste spiccava un uomo sulla cinquantina, alto e robusto, dall'aria pacata, decisamente più fine degli altri. Fred gli disse qualcosa in fiammingo e lui guardò Edmée.

«Ah, tu sei la figlia di Bertha!» disse senza tenderle la mano né abbracciarla, ma squadrandola dalla testa ai piedi con simpatia.

«Bè, spero che andrai d'accordo con le tue cugine. Abbiamo avuto due morti in famiglia in una settimana».

Era lo zio Louis, di Maeseyck, il produttore di sigari del quale Edmée aveva visto diverse fotografie nell'album che tenevano a Bruxelles. Su tutto quel ramo della famiglia le sue nozioni erano molto vaghe e avevano finito per assumere tratti da leggenda. Sua madre era sorella della zia che capiva solo il fiammingo e dello zio Louis, ma non era mai vissuta nel Limburgo e, sposatasi a Bruxelles, aveva perso i contatti con la famiglia d'origine.

«Tu sei già in lutto,» aggiunse lo zio «ma bisogna procurare vestiti adatti per tutte le tue cugine».

E le portò a Neeroeteren con la sua macchina, un vecchio modello in cui si poteva stare in dieci. Anche Edmée partecipò alla spedizione. Entrarono nella cucina di una casa bassa dove c'erano delle galline appollaiate sullo schienale delle sedie. Una donna rinsecchita, sulla cinquantina, era china su una macchina per cucire. Saputa la notizia, dapprima proruppe in gemiti e lamenti, abbracciò le bambine e anche Edmée, che s'irrigidì, poi si decise a prendere le misure e a mostrare campioni di stoffa e vecchi figurini ingialliti.

Quando uscirono, altre anziane comari vennero ad abbracciare le piccole e a osservare Edmée con curiosità.

Lo zio Louis dormì alle Irrigations. L'indomani arrivarono nuovi visitatori e, finalmente, il giorno dopo ebbe luogo la cerimonia funebre.

Ora Edmée aveva visto la proprietà alla luce del giorno. La casa era grande. L'ampio salone venne aperto solo per ricevere il parroco e un signore di Maeseyck che indossava un cappotto foderato di pelliccia.

Ma proprio accanto al salone - e la cosa non mancò di sconcertare Edmée - c'era una specie di taverna, modesta come tutte le bettole di campagna. Si trattava di una necessità, come Edmée capì in seguito, dovuta al fatto che i braccianti impegnati nei lavori della proprietà non potevano andare a bere altrove, poiché ci volevano più di due ore per attraversare le terre della tenuta.

Erano terre basse, con filari simmetrici di pioppi interrotti qua e là dalla macchia nera di un bosco di abeti. In fondo, la linea rialzata del canale dove le chiatte scivolavano al di sopra dei prati.

Il funerale fu un evento memorabile. Fin dalle otto del mattino intorno alla casa c'erano più di cinquanta calessi di vario tipo e una dozzina di automobili. Per tutta la notte Jef aveva cotto il pane nel forno e solo all'ultimo momento, mentre Fred riceveva i visitatori, si era lavato e vestito di nero. Quanto a Mia, aiutata da una vecchia domestica, si affaccendava in cucina, dove era stata messa sul fuoco una gran quantità di pentole.

Le bambine stavano continuamente fra i piedi e venivano sospinte a destra e a sinistra. Tutti parlavano in fiammingo ed era un coro di sospiri e di lamenti; le donne, con le mani giunte e la testa reclinata sulla spalla, continuavano a ripetere:

«Gesummaria!».

Nel suo studio Fred offriva birra agli uomini. Ogni tanto Edmée veniva presentata a qualcuno, in fiammingo, e tutti la guardavano con compassione scuotendo la testa.

Alle nove arrivò il parroco. Non aveva smesso di piovere, ma la pioggia era più sottile dei giorni precedenti. Si formò il corteo. Erano tutti a piedi, sotto gli ombrelli, compresi il parroco e i diaconi, le cui cotte bianco vivo svolazzanti nella campagna parevano ali di gabbiani.

A poco a poco l'eco dei canti liturgici e il suono dei passi nel fango si spensero, e le donne restarono sole con le bambine e con un'unica incombenza: il pranzo. Un pranzo per cinquanta persone! Fu necessario mettere le prolunghe ai tavoli e chiedere in prestito altre sedie a Neeroeteren. Per ben due volte Mia scoppiò in singhiozzi perché le sue crostate di mele sembravano non avere la consistenza giusta, ma alla fine, come per miracolo, la pasta s'indurì.

A Edmée fu riservato il compito di apparecchiare, e lei si ritrovò a girare, da sola, intorno alla tavola plumbea, nel grande salone trasformato per l'occasione in sala da pranzo. Poi bisognò vestire la bambina più piccola, lasciata a letto fino all'ultimo.

Gli uomini furono di ritorno solo all'una e dall'alito si capiva che si erano già fermati alla locanda del paese. Fred si comportava da padrone di casa, offrendo a tutti tabacco e sigari.

Le donne e le ragazze mangiarono in cucina, alzandosi di continuo per sorvegliare la cottura di qualcosa.

Fu servito del vino vecchio e quando, verso le quattro, Edmée entrò nel salone per accendere le lampade, la stanza era satura di fumo azzurrognolo. I volti dei commensali, che se ne stavano mezzo sdraiati sulle sedie reclinate, erano per la maggior parte sanguigni, accesi dalla vita all'aria aperta e dal lauto pasto, ben in risalto nei colletti inamidati troppo bianchi.

Regnava un'atmosfera di benessere, di cordialità, di ottimismo. Sulla tavola, in mezzo ai piatti sporchi che venivano usati come portacenere, c'erano almeno dieci scatole di sigari.

Edmée accese tre lampade, mentre quasi tutti gli uomini seguivano con lo sguardo i movimenti della sua figuretta magra e nervosa. Poi tornò in cucina dove la zia, in lacrime, stava raccontando le sue disgrazie a un'anziana donna appena arrivata.

L'ultimo invitato se ne andò alle otto sulla macchina dello zio Louis, e la casa si ritrovò come vuota. Fred, con gli occhi lustri, le labbra spesse, fumava un ultimo sigaro camminando su e giù per il salone ancora in disordine. Vide Edmée e le disse:

«Gran bel funerale! C'erano tutte le persone più importanti, persino il sindaco di Maeseyck!».

E i suoi occhi indugiavano sulle forme della cugina. Gonfiava il petto e aveva il respiro un po’ affaticato perché erano state vuotate brocche su brocche di acquavite.

«Credo proprio che noi due andremo d'accordo» aggiunse.

Sorrise, poi cominciò a rimettere sotto chiave le scatole di sigari, com'era d'uso.

Gli invitati se n'erano andati. Il morto pure. In cucina le ragazze e la domestica si misero a lavare i piatti, mentre gli altri, le gambe allungate davanti al fuoco, rievocavano i particolari della cerimonia, il sermone del parroco, il discorso pronunciato sulla tomba dal presidente del Sindacato dei coltivatori.

La zia ascoltava, si soffiava il naso, piangeva un po’ e tornava a far domande.

Le donne finirono di lavare i piatti solo a mezzanotte, e tutti andarono a dormire, tranne Jef che doveva portare due vitelli alla fiera di Rotem; attaccò il cavallo grigio e si avventurò tutto solo nella notte, seguito dalle due bestie che perdevano l'equilibrio a ogni sobbalzo del calesse.

 

Era stato deciso che anche Edmée e Mia si sarebbero recate dal notaio insieme agli altri. Non appena le bambine, che con i loro zoccoli e il cappuccetto nero parevano gnomi, furono uscite di casa per andare a scuola, Mia salì in camera per prepararsi.

Era una ragazza ben piantata, dall'ossatura grossa. In lei, come negli altri componenti della famiglia, c'era qualcosa di disarmonico, ma non si riusciva a stabilire a colpo sicuro cos'era che non andava. Forse le spalle, non bene allineate, forse il naso, non proprio dritto... Difetti minimi, eppure sufficienti a darle un aspetto raffazzonato e grossolano.

Si alzava sempre prima degli altri, per via delle bambine da vestire mentre la domestica accendeva i due fuochi, quello del camino e quello della cucina economica. Ed era ancora lei che tagliava grandi fette di lardo e poi, appena erano ben rosolate, versava in padella mestolate d'impasto fluido di grano saraceno.

I ragazzi si svegliavano solo quando l'odore caldo della focaccia si era diffuso in tutta la casa, e scendevano che le tre bambine si stavano già incamminando verso la scuola nel grigiore delle prime ore del giorno.

Quella, però, era una mattina speciale. Ciascuno si vestiva nella propria camera, e la zia, uscita nel corridoio, chiedeva che l'aiutassero ad agganciare il corpetto di seta nera. Edmée si ritrovò in camera Mia, con la faccia rossa per essersi lavata con troppa energia e i capelli tirati all'indietro.

«Sto bene pettinata così, cugina?».

Aveva una capigliatura folta, di un castano spento.

«Benissimo» rispose Edmée con freddezza.

«Davvero? Non devi dirlo solo per farmi piacere».

Sul corridoio si aprì una porta, e comparve Fred, anche lui strigliato a puntino, i capelli appena fissati con la brillantina, il petto irrigidito nello sparato della camicia bianca. Era furibondo. Gettò verso Mia un colletto macchiato e le mosse dei rimproveri in fiammingo. Lei rispose con pari veemenza e ben presto fra i due scoppiò una lite in piena regola. Mia si rifiutava di fare una certa cosa. Fred insisteva. A un tratto le mollò uno schiaffo così forte che le si mozzò il respiro e rimase come paralizzata, senza neanche riuscire a piangere.

Allora si strappò di dosso il vestito, raccolse il colletto e si precipitò giù così com'era, in sottoveste, mentre suo fratello si chiudeva in camera.

Quando Edmée scese a sua volta, trovò Mia in cucina, sempre in sottoveste rosa, intenta a stirare un altro colletto.

 

Presero il calesse a quattro ruote, quello con due sedili disposti nel senso di marcia. Jef attaccò il cavallo. Era tutto vestito di nuovo come gli altri, e la grossa testa sembrava ancora più grande e tozza in contrasto con il colletto di celluloide e con il berretto nero di lana ruvida che non gli donava. Questa volta fu Fred a prendere le redini. Sua madre gli sedeva accanto, impacciata dal velo da lutto e dai guanti, e per l'intero percorso non aprì bocca e restò immobile.

La pioggia degli ultimi giorni era cessata. Nel vento di nordest il paesaggio era immerso in una luce diversa, più cruda, di un bianco luminoso e freddo.

«Entro una settimana avremo la neve» annunciò Fred girandosi verso la cugina.

L'inverno era già nell'aria. Tutti avevano la punta delle dita gelata nonostante i guanti, e si soffiavano continuamente il naso. Attraversarono Neeroeteren, nient'altro che un paesino sulle rive del canale, un tipico villaggio fiammingo con le case basse e scure e le strade lastricate di ciottoli appuntiti.

Ovunque la campagna era piatta e, a eccezione di qualche bosco di abeti, era sempre e solo un albero, il pioppo, a dividere con i suoi filari il paesaggio in rettangoli.

A Maeseyck, davanti alla casa del notaio, la zia si appoggiò al braccio di Fred. Lo zio Louis era già arrivato e, seduto in salotto, fumava un sigaro assaporando un bicchierino di acquavite. Il notaio, grassoccio e gioviale come un canonico, lo trattava con grande deferenza.

Edmée notò che lo zio calzava scarpe eleganti, di capretto, e che il suo completo era di buon taglio. E soprattutto parlava con la sicurezza dell'uomo abituato a essere ascoltato.

Seguì un colloquio in fiammingo, inframmezzato da qualche parola in francese introdotta per dare più forza a un concetto.

Il salotto faceva pensare al parlatorio di un convento, tanto i mobili erano lustri e ogni cosa era impeccabile e lucente. Nel tavolo di mogano ci si poteva addirittura specchiare. Alle pareti due grandi fotografie: i ritratti di due preti, i figli del notaio.

Questi leggeva dei documenti, senza fretta, lanciando ogni tanto un'occhiata allo zio per assicurarsi che tutti fossero d'accordo. Fred ascoltava con attenzione e a volte si faceva ripetere una frase, mentre Jef, indifferente, cincischiava il berretto.

La madre aveva un'espressione assente, come durante il viaggio, come a casa. Era capace di estraniarsi da tutto ciò che la circondava, di annullarsi, e quindi se ne stava così, per ore e ore se occorreva, seduta ben eretta con un sorriso triste e compito sulle labbra. Era impossibile descrivere i suoi lineamenti, quel che si coglieva era un insieme scialbo - due occhi smorti, uno sguardo mite, e un sorriso che sembrava dar ragione a tutti.

Edmée, che non capiva niente di quanto il notaio andava leggendo, guardava soprattutto Fred e Jef, li confrontava, notava piccoli particolari, come una cicatrice sul labbro inferiore di Jef o il cerotto sul collo di Fred che probabilmente copriva un foruncolo. Chissà, forse era proprio quel foruncolo la causa della scenata per via del colletto e dell'assenza di Mia...

Ci fu un pacato scambio di convenevoli fra gli uomini e alcuni documenti vennero fatti passare di mano in mano. Alla fine ciascuno si alzò per firmare, anche Jef che quasi non sapeva come tenere la penna. Quanto a Fred, appariva estremamente soddisfatto: Edmée capì che qualcosa doveva essere cambiato a suo favore.

Pranzarono dallo zio Louis, che viveva solo con la moglie, una bella fiamminga di cinquant'anni, amabile e opulenta, con i capelli tutti bianchi. La casa era altrettanto pulita di quella del notaio, ma più ricca. A tavola Fred spiegò a Edmée:

«Sono stati chiariti i vari punti della successione. Mio padre non voleva che la proprietà venisse divisa, e nel suo testamento ha chiesto ai miei fratelli e sorelle di rinunciare alla loro parte. Io, però, mi sono impegnato a garantire loro una certa sicurezza economica».

Jef sembrava più cupo del solito. Ma forse era solo un'impressione, dovuta a quel vestito nuovo che gli dava un'aria grottesca.

Furono serviti dei piccioni, Edmée se ne ricordò in seguito, chissà perché. Alla fine del pranzo la zia pianse ancora un po', poi ripresero il calesse. Anche durante il ritorno tutti rimasero in silenzio, mentre cominciava a imbrunire e Edmée rabbrividiva nel suo cappotto troppo leggero. Passato Neeroeteren, incontrarono le bambine che tornavano da scuola. Visto che per loro non c'era posto, superarono le tre piccole sagome incappucciate che si muovevano nella deserta immensità dello scenario.

A casa una sorpresa aspettava Edmée. Erano arrivati i suoi bagagli. Non si trattava di veri e propri bagagli, ma di una serie di oggetti disparati che si era deciso di tenere dopo la morte di suo padre, mentre il resto, su consiglio del tutore, era stato mandato a una casa d'aste.

Per prima cosa cenarono. La sera il menu era sempre lo stesso: minestra e patate affogate in una salsa al siero di latte che diffondeva il suo odore asprigno in tutta la casa fin dalle sei del mattino. Poi Fred accese la lampada del salone dove erano stati posati bauli e casse.

«Ti do una mano» disse.

Gli altri si erano già tolti i vestiti nuovi, ma lui aveva tenuto i pantaloni neri, la camicia inamidata e il colletto rigido con le punte rivoltate. Quando venne aperta la prima cassa, tutti si fecero intorno, anche la zia, anche Mia, che ostentava grande freddezza nei confronti di Fred.

Uno alla volta emersero gli oggetti accatastati a Bruxelles, nella casa sottosopra, ma ora, in quell'atmosfera così diversa, assumevano un altro aspetto. Spuntò una fotografia della madre di Edmée racchiusa in una cornice di velluto color granata. Mia la osservò a lungo, poi disse con convinzione: «Era bella!».

Era soprattutto diversa da quelli che stavano lì. Esattamente come Edmée. Un volto delicato, un collo lungo, flessuoso.

«E che bel vestito!» aggiunse Mia.

Da quel momento in poi ogni oggetto fu accolto da un coro di esclamazioni. Fred si mostrò interessato in particolare alla borsa dei ferri da chirurgo del padre di Edmée, che il tutore, chissà perché, aveva messo nei bagagli. Con le sue grosse dita maneggiava quegli strumenti di precisione che scintillavano come gioielli.

«Che te ne fai?».

Gli occhi gli brillavano di cupidigia. Neanche lui avrebbe saputo cosa farsene, ma si capiva che provava piacere nel toccare quegli oggetti d'acciaio adagiati sul loro scrigno di velluto nero. Edmée se lo riprese con un gesto deciso, senza rispondere.

In una piccola scatola c'erano alcuni anelli d'oro, vecchi gioielli di scarso valore, guarniti al massimo da qualche rubino. Mia s'infilò al dito uno degli anelli e, con lo stesso gesto di poco prima, la stessa indifferenza, Edmée glielo riprese.

Stava diventando, agli occhi dei cugini e delle cugine, una creatura eccezionale e anche Mia, che tratteneva le bambine, si rivelava smaniosa di vedere e toccare tutto, specialmente quando fu il momento dei vestiti. Ce n'era uno di raso azzurro con piccoli volant, che Edmée aveva messo per la prima volta l'anno precedente, alla consegna dei premi. Le chiesero di indossarlo.

«Più in là, quando non sarò più in lutto!».

Che cosa c'era ancora? Un nécessaire da viaggio con le boccette di cristallo, una striscia di panno ricamata a mano per coprire la tastiera di un pianoforte, una coppa di bronzo che doveva essere un regalo. In una cassa si trovarono alcuni voluminosi testi di medicina corredati di numerose tavole anatomiche in blu, rosso e giallo.

«E di questi che te ne fai?» domandò Fred.

«Sono miei!».

«Potremmo metterli nella biblioteca».

Era un mobile del suo studio che conteneva solo i libripremio delle bambine, qualche dispensa e un certo numero di vecchie riviste e di volumi scompagnati.

«No! Voglio tenerli in camera mia».

«Lasciala fare come vuole, Fred!» intervenne la zia in fiammingo.

Edmée rimise a posto tutti gli oggetti nelle casse e nei bauli. Fece comunque qualche regalo, ma freddamente, soppesando ogni cosa con calma. A Mia diede un libro da messa dal quale uscivano delle immaginette, e visto che erano davvero tante ne distribuì la metà fra le bambine.

«Voglio tenere tutto in camera mia» disse quindi a mo’ di conclusione.

Jef, rannicchiato in un angolo, tagliuzzava un pezzo di legno. Lei lo chiamò.

«Puoi portarmi su questa roba, Jef?».

E sorrise del suo zelo, della sua goffaggine. Quella notte, probabilmente, Mia sognò l'abito di raso azzurro e gli anelli della piccola scatola.

 

L'indomani Fred disse che andava a Hasselt e forse anche a Bruxelles per affari. Edmée non aveva conosciuto lo zio, ma intuiva che Fred aveva preso il suo posto e che tutti, da un giorno all'altro, lo trattavano come avevano trattato il padre.

Lo si notava soprattutto nella zia, il cui atteggiamento sottomesso diceva ben chiaro che il padrone, ormai, era Fred. Nessuno gli chiese spiegazioni a proposito di quel viaggio. Mia gli stirò tre camicie e lo aiutò a vestirsi. Jef attaccò il cavallo grigio. Alla fine, quando era sul punto di partire, Fred diede a ciascuno una serie di istruzioni circa il governo della proprietà. Era un vasto polder. I terreni sabbiosi, al di sotto del livello del mare, erano circondati da dighe, e un gran numero di canali, separati da saracinesche che si aprivano e chiudevano a comando, permetteva di inondarne ora una parte ora un'altra.

Si coltivavano barbabietole per il bestiame - una trentina di mucche, galline, oche e tacchini. Ma la produzione principale, la vera ragion d'essere delle Irrigations, era il fieno che, ogni primavera, riempiva interi vagoni.

In casa c'era solo un'anziana coppia di domestici, alloggiati in una casupola vicino alle stalle. Nelle terre, a intervalli regolari, sorgevano altre casupole simili, quelle dei guardiani, che sorvegliavano ciascuno la propria zona e che, al sabato, venivano a prendere ordini e a ricevere la paga.

Nella luce cruda di dicembre quei prati sembravano estendersi all'infinito, e il canale che correndo dritto tagliava la proprietà in due accentuava la severità dello scenario introducendovi una rigorosa geometria.

Jef tornò da Neeroeteren intorno alle dieci del mattino, dopo aver accompagnato Fred all'omnibus per Hasselt. Edmée lo vide staccare il cavallo, prendere qualcosa dal calesse e dirigersi poi verso un edificio basso in fondo al cortile. Si trattava di una costruzione irregolare che sorgeva accanto al forno per il pane e che un tempo serviva probabilmente da deposito, dato che conteneva ancora qualche fascina, una falce, uno sgabello e delle corde. Edmée vi entrò poco dopo il cugino e lo vide di spalle, accovacciato davanti a un fuoco di pigne.

«Che cosa fai?» gli domandò.

Il suo primo impulso fu di nasconderle quello che aveva tra le mani, ma subito cambiò idea e si scansò. Allora lei scorse, sulle pietre polverose del pavimento, il cadavere di un piccolo animale appena aperto con un coltello.

«Che cos'è?».

«Uno scoiattolo».

E le indicò il muro di fronte, originariamente intonacato a calce. C'erano una ventina di pelli tese su tavolette, con le zampe divaricate e inchiodate, la lunga e bella coda penzoloni.

«Che cosa ne fate?».

Lui alzò le spalle e con il coltello infilzò una patata che cuoceva sotto la cenere.

«Non lo so. Niente».

«Ce ne sono molti?».

«Questa mattina ne ho visti due, ma uno l'ho mancato».

Lei era in piedi, lui accovacciato, e lei guardava dall'alto in basso, paralizzata da una sensazione nuova, da un turbamento che la sconvolgeva nel profondo e che tuttavia non voleva scacciare andandosene.

«Continua!».

Il ragazzo riprese il coltello per scuoiare la bestia. Con la punta faceva uscire i visceri, e le sue grosse mani erano imbrattate di sangue. Edmée stava sempre immobile, ma quando la pelle cominciò a venir via, scoprendo una seconda pelle molto sottile, bluastra, dovette appoggiarsi allo stipite della porta.

Jef procedeva imperterrito. Niente alterava la fissità dei suoi lineamenti irregolari. Portava un abito vecchio, una camicia senza collo, gli zoccoli e, così com'era, sembrava meno brutto di quando era vestito di tutto punto.

«Vuoi una patata? Riscalda, sai!».

Gliene tese una con la mano che aveva appena frugato nel cadavere, e Edmée la prese, senza neanche rendersene conto. Aveva la nausea, eppure superò il disgusto, rabbrividendo alla vista di una traccia rossa sulla buccia cosparsa di cenere. Senza guardarla, Jef iniziò a inchiodare una zampa dell'animale sull'angolo della tavoletta. Aveva i capelli così vicini al fuoco che una ciocca sfrigolò.

Tutt'a un tratto, con gli occhi sbarrati, Edmée diede un morso alla patata. Tenne quel boccone sulla lingua, ma contemporaneamente gettò via il resto con un grido rabbioso e corse verso la casa, con la stessa sensazione di angoscia che si prova quando di notte, fuori, all'improvviso la paura mozza il respiro e costringe a fuggire da un pericolo invisibile.

Solo in cucina sputò il pezzetto di patata. Mia, che stava cucendo davanti alla finestra, la guardò stupita.

«Che cos'hai?».

«Niente!».

Non voleva parlare. Era furibonda. Si sedette vicino al camino e, con i gomiti sulle ginocchia e il mento appoggiato sulle mani, rimase immobile a fissare il fuoco finché gli occhi non le fecero male.

Quella violenta emozione di un attimo si prolungava, dentro di lei, a ondate sempre più tenui, come le increspature sull'acqua. Era attraversata da brividi improvvisi, e negli intervalli fra l'uno e l'altro si raccoglieva tutta in se stessa quasi a offrire minor presa, serrava i gomiti, incrociava le gambe.

Poi, passato l'ultimo sussulto, più fievole degli altri, ripensò allo scoiattolo, aspettandosi di avere ancora una volta quei brividi violenti, ma cadde invece in una cupa prostrazione.

Non aprì bocca fino al momento del pranzo, che veniva servito a mezzogiorno. A tavola lanciò un'occhiata a Jef, che non si era neppure lavato le mani.

«Allora, Jef, mi darai le pelli per fare un cappotto?».

«Non ce ne sono abbastanza».

«Bè, ne troverai altre!».

«Pelli di cosa?» volle sapere Mia.

«Di scoiattolo».

«Ma non si fanno cappotti con pelli di scoiattolo».

Edmée impallidì.

«E se io lo voglio, invece, un cappotto di scoiattolo?» ribatté con voce irritata.

La zia, che non capiva il francese, li guardava svogliata, e poiché pareva sempre aspettarsi una qualche disgrazia, si faceva piccola piccola abbozzando un pallido sorriso, come per ingraziarsi la malasorte.

Aveva avuto nove figli, tre dei quali erano morti. Era piatta come un'asse da stiro e aveva solo quarantacinque anni. Timidamente, chiese a Jef che cosa avesse detto la cugina e quando le riferirono del cappotto di scoiattolo si animò un po’ e rivolse a Edmée un sorriso di approvazione.

A pranzo non mettevano la tovaglia. Jef stava stravaccato, con tutti e due i gomiti sul tavolo, e divorò tre piatti di minestra l'uno dietro l'altro. Le bambine non tornavano a casa, mangiavano fette di pane imburrato a scuola.

«Sai cucire?» domandò Mia, tanto per rompere il silenzio.

«Odio il cucito!».

«Qui c'è sempre da cucire... Adesso, per esempio, sto facendo dei grembiuli».

Edmée la guardò con una certa durezza perché intuiva qual era il pensiero riposto di Mia. Che cosa aveva intenzione di fare, la cugina, se non cuciva e non aiutava in cucina?

«Io voglio studiare medicina, come mio padre».

«La medicina si studia solo nelle università, e a Neeroeteren non ce ne sono».

«Studierò per conto mio! Ho quel che mi occorre».

Era così categorica che nessuno osò contraddirla. Per dimostrare che non parlava a vanvera, appena terminato il pranzo salì in camera, tornò con uno dei grossi volumi appena arrivati e si sistemò vicino al camino. La zia lavò i piatti e Mia si rimise a cucire accanto alla finestra.

Il cielo si andava facendo sempre più un cielo da neve, bianco, ma di un bianco strano. Dalle fessure delle porte entravano spifferi d'aria fredda. Jef, col berretto in testa, tagliava un pezzo di legno.

«Che cosa ci farai con quello?».

«Un nuovo sistema per acchiappare conigli».

«Spiegati meglio!».

«Non posso. Ti farò vedere».

Edmée aveva aperto il libro di medicina a una pagina a caso e si era ritrovata sotto gli occhi una tavola che rappresentava lo stomaco di un malato di cancro. Non aveva voglia di leggere e neanche di osservare la figura. Ma non voleva lavare i piatti, e soprattutto non intendeva mettersi a cucire, come Mia, grembiuli di cotonina a quadretti rossi.

«Vado a controllare se hanno riparato la saracinesca grande» disse Jef infilando la porta.

Edmée avrebbe voluto seguirlo, ma era offesa che lui non glielo avesse chiesto. Finse di immergersi nella lettura, ma le parole scorrevano davanti ai suoi occhi senza che lei riuscisse a coglierne il senso. Si sentiva tutta pervasa dal calore del fuoco d'abete, che le scottava le gambe e le arrossava le guance. La zia riponeva i piatti nella credenza e Mia, ogni tanto, tendeva la rigida tela di cotone.

Quando ebbe finito di riordinare, la zia andò a prendere il suo lavoro a maglia, uno scialle nero, e si sedette di fronte a Edmée, all'altro lato del camino. Non potendo parlare con la nipote, di tanto in tanto alzava gli occhi e le rivolgeva un piccolo sorriso triste e incoraggiante, poi diceva qualche parola a Mia che rispondeva con una voce buffa perché aveva degli spilli fra le labbra.

Le fiamme producevano un suono regolare, come un ronfare costante, mentre fuori il vento di nordest infuriava sulla proprietà sconfinata, piegando tutti i pioppi nella stessa direzione.

Edmée non girava le pagine, pensava allo scoiattolo. Ci pensava di proposito senza riuscire però a riprovare il brivido che l'aveva attraversata la mattina, né quelle strane onde che si erano andate via via attenuando dentro di lei fino a diventare solo un'impercettibile contrazione dei muscoli.

 

31 dicembre. Da tre giorni il cielo era più scuro della terra perché l'universo, dalla casa fino all'orizzonte, era un'immensa distesa di neve. Non nevicava più, ma quella mattina al risveglio avevano trovato arabeschi di ghiaccio alle finestre.

Le bambine, che erano in vacanza, stavano sedute per terra vicino al fuoco, e giocavano a scambiarsi pezzetti di stoffa accompagnando i gesti con frasi molto serie. Bertha, che aveva dodici anni, aiutava la madre a fare le cialde di Capodanno. Da più di due ore, senza un attimo di tregua, madre e figlia riempivano gli stampi di pasta dolce, e ogni tanto qualcuno contava soddisfatto le cialde che si andavano raffreddando sui graticci.

Anche Edmée aveva riempito gli stampi, ma dopo dieci minuti si era stancata. Si aggirava per la cucina come un'anima in pena. Se si avvicinava alla stufa riceveva uno sbuffo caldo in piena faccia, e se andava verso la porta o le finestre veniva investita dall'aria gelida che filtrava dalle fessure.

Mia, che era di sopra a rassettare le camere, gridò dalla scala:

«Edmée!».

Quando salì, Edmée non la trovò nella sua stanza, ma in quella di Fred; era eccitatissima e aveva un fare misterioso.

«Fred è ancora nello studio?».

Si era chiuso là dentro fin dal mattino a scrivere lettere e biglietti di auguri.

«Guarda!».

Mentre spazzolava il vestito più elegante del fratello, in una tasca aveva trovato una fotografia, e la porse a Edmée. Era opera di un fotografo di provincia: sfondo grigiastro, con una colonna di cartone. In primo piano, una donna sorrideva, il mignolo sotto il mento. Era ancora giovane, ma grassa e volgare. E, soprattutto, aveva un gran seno che prorompeva dalla camicetta di seta chiara.

«Ecco perché va così spesso a Hasselt» spiegò Mia scoppiando a ridere.

«È brutta» disse freddamente Edmée, restituendo la foto alla cugina.

«A me non pare. Fred non ne ha mai di brutte e ne ha quante ne vuole».

La camera era simile a tutte le altre camere della casa, se non per alcuni oggetti come una pipa, un bastone e qualche capo di vestiario appeso che ne rivelavano indiscutibilmente l'appartenenza maschile. Mia ci si muoveva a proprio agio e adesso stava spazzolando un paio di pantaloni dal fondo già un po’ logoro, mentre Edmée provava una ripugnanza istintiva e respirava con le narici contratte perché le pareva di cogliere, là dentro, un odore di uomo.

«Sono tutte innamorate di lui» affermò Mia, ammirata. «Ce n'è una a Neeroeteren, la figlia del panettiere, che quasi ogni domenica viene a passeggiare fin qui solo per vederlo. È quella con il seno grosso, l'hai già vista...».

Edmée non si decideva a uscire, eppure c'era qualcosa nell'atmosfera che la disturbava. Forse perché, come sosteneva la cugina, aveva preso Fred in antipatia... Da quando era arrivata, lui era già andato tre volte a Hasselt, ci si era fermato a dormire e ne era tornato con un'aria trionfante. A Edmée non s'interessava più di tanto. Donne ne vedeva altrove, quante voleva. Era un ragazzo sensuale dalle labbra carnose, l'occhio acceso, il sangue caldo che si intravedeva sotto la pelle, e senza volerlo, Edmée pensava a lui ogni volta che, sui suoi libri di medicina, le capitava di leggere, non senza esserne turbata, le pagine sull'accoppiamento.

«È un bell'uomo, c'è poco da dire!» concluse Mia sistemando gli indumenti del fratello.

«Io non trovo. Non lo vorrei per tutto l'oro del mondo. E poi è già troppo grasso».

Non era proprio grasso, semmai corpulento, con la pelle lucida, fatto di una materia troppo densa, che sudava e sapeva di maschio.

«Chi è arrivato?».

Avevano sentito qualcuno, fuori, appoggiare la bicicletta al muro, dopodiché si erano udite delle voci. Mia aprì la porta, tese l'orecchio ed esclamò:

«Si può pattinare!... Andiamo, presto!».

A portare la notizia era stato un garzone di fattoria, benché venisse dalla parte opposta al luogo in cui si pattinava. Cinque minuti dopo la cucina era teatro di una generale agitazione. Persino Fred aveva lasciato perdere i suoi biglietti di auguri, e Jef stava tirando fuori dalla rimessa una pesante slitta verde. Nessuno pensava più alle cialde o al freddo, e sì che il continuo aprire e chiudere le porte provocava delle gran correnti d'aria.

Le bambine si strinsero tutte nel calesse; dalle loro labbra usciva una nuvoletta di vapore, e le guance screpolate dal freddo erano rosse. Nonostante l'angustia del veicolo, avevano già i pattini ai piedi: erano pattini olandesi di legno dalla lama bassa e sottile.

C'era qualcosa di esaltante nel modo in cui la notizia era stata portata e nella febbrile agitazione che ne era seguita. Jef frustava il cavallo che agitava focoso la testa. Le ruote sollevavano zolle di neve che si sfaldavano volando via ai due lati del calesse.

Ogni tanto, dal cielo uniformemente grigio cadeva ancora qualche errabondo fiocco di neve e Edmée se ne vide arrivare uno sullo scialle nero. In mancanza di altri indumenti, infatti, era stata costretta ad adottare l'abbigliamento delle cugine: un ampio scialle di lana le cui punte venivano annodate sulla schiena, all'altezza delle reni, il che gonfiava esageratamente il busto rendendolo sproporzionato al resto del corpo.

Solo Mia aveva uno scialle rosso che era stato necessario tingere ed era diventato violaceo. Gli scialli, era la zia a legarli: si avvicinava a turno alle figlie e ne annodava le punte. Ma, appena fuori, Edmée slegava lo scialle e lo portava disinvoltamente alla spagnola.

«Non hai freddo così?» le domandò Mia.

«No».

Il freddo faceva tirare la pelle, bruciare gli occhi. Poco prima di arrivare in paese videro un prato di diversi ettari. La settimana precedente era stato coperto da dieci centimetri d'acqua che poi, gelando, aveva formato una grande pista di pattinaggio, già affollatissima.

C'erano tutti i bambini, i ragazzi e le ragazze di Neeroeteren, e quasi tutti con i loro bravi scialli annodati dietro. La maggior parte pattinava, ma alcuni avevano delle slitte basse, semplici casse montate su due lame di ferro; vi si accovacciavano dentro e si spingevano aiutandosi con due bastoni, il che li faceva sembrare degli invalidi senza gambe.

Non appena il calesse si fermò tutti presero il volo. Restarono solo Jef e Fred, che dovevano scaricare la slitta. Poi Jef, calzati i pattini, si precipitò a sua volta sul ghiaccio, con tanto impeto e a una tale velocità che fu un miracolo se non travolse le bambine rovesciandole come birilli.

«Vuoi provare a salire?».

Edmée, che non sapeva pattinare, prese posto sulla slitta. Una vera slitta, questa, come quella raffigurata sulla scatola di cacao olandese che c'era a casa loro a Bruxelles. Con l'unica differenza che, sulla scatola, la ragazza della slitta indossava una bella pelliccia, con un grande manicotto posato sulle ginocchia, mentre il suo cavaliere portava un colbacco di lontra.

Furono momenti di grande eccitazione. La slitta filava che era un piacere. Edmée non vedeva Fred, che stava alle sue spalle, ma sentiva il suo respiro ansimante. All'improvviso, Jef si gettò su di loro, cambiò direzione all'ultimo momento, fece due giri su un piede solo intorno alla slitta in corsa e si allontanò con la bocca aperta in un sorriso che gli andava da un orecchio all'altro, una bocca così grande che, quando lui rideva a quel modo, sembrava avere un numero di denti doppio rispetto al normale.

«Non sono troppo pesante?» chiese Edmée con affettata civetteria.

A causa della velocità, Fred non la sentì. Per due, tre volte, passarono vicino a una ragazzona che pattinava con grande circospezione. Era quella dal seno grosso di cui Mia aveva parlato proprio quel mattino, e Edmée vide che guardava la slitta con invidia. Era l'unica slitta di quel tipo in paese e la famiglia ce l'aveva da almeno cinquant'anni. La conoscevano tutti.

«Sei stanco?».

Fred si era fermato e si asciugava il sudore, perché, nonostante la temperatura, la sua faccia era madida. E il suo corpo addirittura fumava come un liquido caldo, emanava vapore.

«Mi aspetti un attimo? Faccio fare un giro a una ragazza».

Edmée si voltò. La figlia del panettiere era lì che si mangiava Fred con gli occhi, estasiata di poterlo finalmente vedere da vicino. Senza una parola, Edmée scese dalla slitta, attraversò con prudenza la pista ghiacciata e si fermò sul bordo, scrutando i pattinatori con occhio attento.

Jef passò e ripassò, sempre a gran velocità, sempre con quella grinta, come andasse all'attacco.

«Jef!» gli gridò Edmée dopo qualche minuto.

Lui si arrestò di botto nel bel mezzo di una virata e si avvicinò alla cugina, che era livida di freddo e di rabbia. Con voce cupa, sferzante, la sua voce di piccola dea non abituata a essere contraddetta, lei dichiarò:

«Voglio andare a caccia di scoiattoli!».

Jef guardò la pista, poi il bosco di abeti che la delimitava a nord.

«Non abbiamo un cane...».

«Ti aiuterò io».

Lui aveva una piccola goccia torbida al naso e ogni volta che inspirava gli si dilatavano le narici.

«Come vuoi».

Era la quinta volta che andavano insieme a caccia di scoiattoli ed era sempre stata Edmée a chiederlo. Sempre, quando vedeva la bestia morta, s'irrigidiva tutta e rientrava in casa senza una parola.

Jef mise via i pattini. Nel bosco si tagliò un bastone e cominciò a girare alla ricerca di uno scoiattolo. Edmée non lo guardava, ma fissava la pista di pattinaggio dove la grande slitta continuava a compiere evoluzioni. Aveva freddo. Sapeva di commettere un'imprudenza lasciando lo scialle aperto, ma non le importava.

A Fred piacevano solo le ragazze grasse. E con seni grossi. E le facce come quella della figlia del panettiere, dagli occhi rotondi e stupidi, le labbra molto rosse e il piccolo naso ridicolo.

«Hep!...».

Solo al terzo richiamo Edmée arrivò ad aiutare Jef. Conosceva la tattica. Non appena avvistava uno scoiattolo fra gli abeti, il cugino colpiva con il bastone il tronco degli alberi per snidare la bestia e spingerla allo scoperto. Lì, fuori dal bosco, lo scoiattolo si vedeva preclusa ogni via di scampo e Jef, lanciando con forza il bastone, lo centrava quasi sempre e gli spezzava le reni.

Edmée si precipitò per tagliare la ritirata allo scoiattolo. Ma tutto si era già concluso. Il bastone volò in aria, ricadde. Con un rumore strano. Jef scattò in avanti e afferrò nella neve qualcosa di scuro che ancora si muoveva.

«Lo ha beccato sul muso» disse.

Questa volta Edmée si avvicinò per vedere da vicino. Il bastone aveva spaccato il muso della bestia, che ora era tutto sbilenco, quasi penzolante, e sanguinava. Lo scoiattolo era ancora vivo e si dibatteva mentre le dita di Jef, premendo sulla gola, pian piano lo strangolavano.

«Dammelo!».

Un ultimo sussulto. Col fiato sospeso, Edmée prese l'animale ancora caldo che diventava, da un minuto all'altro, sempre più pesante.

«È una femmina» disse il cugino.

«Andiamo!».

Lei portava lo scoiattolo stringendolo al centro del corpo, ne sentiva fremere il ventre. Gocce di sangue cadevano sulla neve.

«Dove?».

«A casa. Prendiamo il calesse».

«Ma... e gli altri?».

«Voglio tornare a casa col calesse».

Lui non osò rifiutare. La seguì, facendo mulinello col bastone. Il cavallo aveva scavato un buco nella neve e brucava l'erba sottostante. Nessuno si accorse del calesse che si allontanava. La slitta verde era laggiù, in fondo alla pista, la si vedeva appena. Edmée e Jef si strinsero l'uno all'altro sul sedile anteriore.

«Perché vuoi tornare a casa?».

«Non so. Voglio mangiare delle patate calde nella nostra capanna».

Aveva battezzato così il deposito in fondo al cortile. Jef però era preoccupato e continuava a voltarsi indietro.

«E loro come torneranno?».

«A piedi, come vuoi che tornino?».

Teneva sulle ginocchia lo scoiattolo sempre più freddo. Anche lei sentiva freddo. Eppure aveva uno strano fuoco nel petto e soprattutto alla base del cranio.

Sul bianco della neve tutto sembrava nero, anche il cavallo grigio, anche le stanghe del calesse e il verde degli abeti. Andavano al trotto e i loro busti oscillavano, e ogni tanto si urtavano, sballottati dai sobbalzi.

«Tutto sommato,» se ne uscì improvvisamente Edmée «Fred non è poi così pieno di salute».

E visto che il suo compagno non diceva niente, proseguì fissando la groppa del cavallo:

«Non mi stupirebbe sapere che lo zio è morto di sifilide. Mio padre era medico e...».

Jef si girò verso di lei sbalordito.

«Di che cosa?».

«Di sifilide! Insomma, siete tutti geneticamente degenerati. Il vostro sangue è povero, malato. Mia mi ha detto che ha un eczema sulla gamba fin dalla prima infanzia. Fred ha sempre un foruncolo da qualche parte. E in tutta la famiglia non c'è una faccia che sia normale, simmetrica. Tu, per esempio, ce l'hai da idrocefalo...».

Con i nervi tesi, parlava più per sé che per lui, ma non le dispiaceva che qualcuno la sentisse. Del resto era convinta di ciò che diceva. Aveva osservato che nei cugini e nelle cugine la più piccola ferita, il minimo graffio, impiegava settimane a guarire.

Lei, invece, nonostante il pallore, nonostante l'anemia, guariva molto più in fretta. E non aveva mai un foruncolo, mai un'anomalia della pelle!

In loro, invece, tutto era irregolare. Non c'era un naso dritto, con le narici uguali, neppure fra le bambine. La penultima era un po’ strabica e persino i capelli, in tutti loro, crescevano di traverso.

«Non dire mai queste cose alla mamma, né a Fred!...» borbottò Jef mentre si avvicinavano a casa.

Fece il giro dell'edificio per entrare nel cortile e, senza staccare il cavallo dal calesse, lo legò alla porta della scuderia.

«Saranno furibondi».

«Vieni, accendi il fuoco».

Nella rimessa Edmée posò a terra lo scoiattolo. Era stanca, profondamente, come se la stanchezza le si fosse annidata nelle ossa, e al tempo stesso si sentiva in grado di tener testa a tutti.

Jef entrò un attimo in cucina, probabilmente per dire qualcosa a sua madre e, malgrado la distanza, il profumo delle cialde giunse fino a Edmée. Il ragazzo tornò con una fascina per il fuoco, e accese un fiammifero dicendo:

«Ci devono essere delle patate, là dove stanno gli attrezzi».

Un chiaro invito ad andarle a prendere, ma Edmée, seduta sul ceppo che aveva adottato come sedile, non si mosse. Fissava le lingue di fuoco che salivano, dapprima esili e bluastre, poi più forti e più gialle. Era tutta intirizzita.

«Che cosa ti ha detto tua madre?»

«Niente. Sta facendo le cialde».

«Penso che non sia molto intelligente. Anche lei, del resto, ha un eczema...».

Jef richiuse la porta. Da una finestrella entrava la luce del giorno, subito divorata dai riflessi rossi del fuoco.

«Lo scuoio?».

E indicò lo scoiattolo con la testa spaccata che era diventato una povera cosa.

«Lascia stare. Siediti qui».

Quando fu seduto, lei domandò:

«Non ti fa niente uccidere le bestie, vero?».

«Perché?»

«E se fossero bestie più grosse?».

«Una volta abbiamo ucciso un cinghiale».

«E se fossero persone?».

Scoppiò a ridere all'improvviso, nervosamente. Piegata su se stessa, davanti al fuoco, era tutta pervasa dal suo calore. Sconcertato, Jef non rispose.

«Chi è più forte, tu o Fred?».

«Io, credo».

Era seduto vicino a lei, per terra, massiccio come un orso.

«E lui, li uccide gli scoiattoli?».

«Fred è sempre andato a scuola, a Hasselt, e ha persino fatto un anno all'università, a Liegi...».

La finestra misurava meno di mezzo metro quadrato, eppure ogni tanto si poteva veder volteggiare, esitante, un fiocco di neve.

«Hai paura di lui?».

C'era nell'aria una sorta di eccitazione: l'eccitazione dovuta al freddo, alla corsa sul ghiaccio, e al sangue che era colato goccia a goccia dalla testa dello scoiattolo. E adesso anche l'eccitazione causata dal fuoco e dal suo penetrante odore di resina. Sull'altro lato del cortile, la zia, rigida e rinsecchita nei suoi abiti incolori, continuava a mettere sul fuoco gli stampi, dopodiché li girava, con un mestolo versava l'impasto liquido e alla fine ammassava sui graticci le cialde dorate.

«Ti ho chiesto una patata».

Lui ne trovò una, dimenticata il giorno prima sotto la cenere, e la sbucciò con il suo coltello, lo stesso che gli serviva per sventrare e scuoiare gli scoiattoli.

«Non credo che avresti il coraggio di fare qualcosa di più grave...».

«Fare cosa?».

«Non so».

Aveva la bocca piena e la patata era calda.

«Qualcosa di pericoloso! Mica è pericoloso uccidere una bestiolina!».

Jef era il più brutto della famiglia. Gli altri, come Edmée aveva detto poco prima, avevano delle anomalie della pelle, dei foruncoli, un eczema o delle asimmetrie. Lui era tutto asimmetrico, tutto sproporzionato, mal riuscito, ma forte come un animale della foresta.

«Qualcosa di pericoloso...» ripeté.

Non la guardava, fissava il fuoco. Erano solo a una decina di centimetri l'uno dall'altra. E c'erano come delle correnti, delle onde, che attraversavano quei dieci centimetri e che li univano. Ma che genere di correnti?

Faceva caldo, troppo caldo, specie dopo il freddo del campo di ghiaccio. Jef aveva messo altre due patate sotto la cenere e, meccanicamente, si disponeva a scuoiare lo scoiattolo.

«Io» riprese Edmée, tesa come una corda «amerò soltanto un uomo capace di cose straordinarie, un uomo che non abbia paura di niente. Non uno che ha paura di una ragazza come la figlia del panettiere! Grassa e flaccida! Vorrei un uomo capace di uccidere, ma uccidere veramente, a costo di rischiare la vita...».

Jef spellava lo scoiattolo, tenendolo con una mano per la testa mentre con l'altra gli toglieva la pelle, e questo produceva un rumore come di seta lacerata.

Seguirono lunghissimi silenzi. Edmée mangiò un paio di patate, continuando a sentire, dentro di sé, caldo e freddo insieme, forse perché una fessura di cinque centimetri nella porta lasciava entrare l'aria. Rivedeva la grande slitta verde che filava sul ghiaccio, e la ragazza abbandonata sui cuscini.

«Fred sarà arrabbiatissimo di dover tornare a piedi!».

Se ne stettero là per due ore scambiandosi poche parole e, a poco a poco, alla sensazione di caldo e di freddo se ne aggiunse un'altra: quella della paura. Da un pezzo era ora di pranzo quando Jef mormorò:

«Dovremmo rientrare».

Le pile di cialde erano alte un metro, e l'odore di pasta zuccherata, cotta o bruciata (a parte, infatti, c'era anche una pila di quelle bruciate), insopportabile.

L'incontro fra quelli che venivano dalla strada e quelli che arrivavano dal cortile ebbe luogo in cucina. Solo Mia sembrava non appartenere né all'uno né all'altro gruppo, mentre le bambine facevano chiaramente parte del clan di Fred.

Senza la benché minima esitazione, questi mosse risolutamente verso il fratello, gli disse due frasi in fiammingo e gli mollò un ceffone.

Le pile di cialde fumavano ancora, i fiocchi di neve svolazzavano più fitti.

Fuori, al di là delle finestre chiuse, tutto era bianco, e un'aria bianca e fredda s'infilava sotto la porta. Sulla tavola la zuppiera, i piatti, le posate. La zia tolse la spilla di sicurezza che fermava lo scialle sulla schiena delle figlie.

«C'è qualcosa che brucia!» gridò Mia precipitandosi verso uno stampo e girandolo.

Non ci fu altro. Tutti presero posto intorno al tavolo, Fred con lo sguardo severo, fisso davanti a sé Jet con una guancia più colorita dell'altra e le bambine con l'aria di chi ha pattinato per ore all'impazzata.

 

Ormai non avrebbe più gelato per tutto l'inverno. Il giorno seguente il ghiaccio cominciò già a sciogliersi, la campagna si trasformò in un grande, freddo acquitrino e grosse gocce d'acqua stillavano dagli alberi.

La famiglia si mosse al completo, dalla zia all'ultima bambina, e la casa venne chiusa. Sul calesse dovettero stringersi. Attraversarono il canale, poi il paese, passando davanti al prato che era stato pista di pattinaggio e dove resistevano ancora piccoli banchi di ghiaccio grigio.

Quando arrivarono dallo zio Louis, a Maeseyck, l'appartamento, grande e ben tenuto, era pieno di gente e nell'aria c'era un odore di sigaro e di acquavite. Tutti parlavano in fiammingo e tutti si abbracciavano. Edmée, come gli altri, fece il giro dei presenti, zii, zie e vicini di casa.

Le bambine mangiarono a parte mentre gli adulti continuavano a sgranocchiare biscotti, fumare sigari e vuotare bicchierini di liquore. Nel pomeriggio lo zio si chiuse con Fred nello studio per parlare di affari; ne uscirono un'ora dopo di cattivo umore, sembrava.

Tornarono a casa che era già buio. Una delle bambine si addormentò sulle ginocchia di Edmée. Di tanto in tanto Fred diceva qualcosa e sua madre rispondeva per lo più scuotendo il capo.

Ormai sarebbero vissuti per mesi nell'umido, nel freddo, nel fango e soprattutto nel vento. Una tempesta continua spingeva nel cielo nuvole scure gravide di pioggia. In casa si litigava da mattina a sera a proposito di porte lasciate aperte perché, quando qualcuno entrava o usciva, le stanze venivano attraversate dalle correnti d'aria, le carte volavano dal tavolo, rivoli d'acqua arrivavano fino al centro delle camere, tutti portavano dall'esterno piccole zolle compatte di fango e se le lasciavano dietro qua e là sul pavimento.

Le bambine, comunque, tenendosi per mano, si facevano pian pianino, ogni mattina, i loro bravi cinque chilometri per andare a scuola. E quando la sera, al ritorno, la zia le baciava, le loro guance erano bagnate di pioggia gelida.

Una volta la settimana Fred si recava a Hasselt o a Bruxelles. Edmée venne a sapere da Mia che l'eredità del padre si era rivelata una sgradevole sorpresa. La tenuta era ipotecata e per giunta in cassa non c'erano fondi.

«Pare che anche mio padre avesse una donna a Hasselt» sospirò Mia.

E si intuiva che la cosa era lungi dal dispiacerle.

La domenica mattina andavano tutti in calesse a Neeroeteren, tranne Fred che rimaneva a letto. Partivano di buonora e arrivavano in chiesa per la prima messa che non era ancora giorno. La chiesa era lunga e stretta, e per illuminarla, oltre ai ceri dell'altare, vi erano soltanto due lampade a petrolio.

La zia disponeva di un inginocchiatoio di velluto verde e Mia di uno color granata, ma gli altri dovevano accontentarsi di semplici sedie. Nella navata centrale c'erano pochissime persone: vecchiette, per lo più, che nella penombra delle navate laterali si distinguevano appena.

C'era nell'aria un sentore di levataccia, di facce sciacquate con acqua troppo fredda, di fame che cominciava a farsi sentire. Perché, per poter fare la comunione, si partiva a stomaco vuoto. Ciascuno si portava in tasca una tavoletta di cioccolato; le bambine cominciavano a sgranocchiare furtivamente le loro appena avevano preso l'ostia.

Di solito, la zia pregava guardando l'altare e muovendo le labbra. E là, in quella posa, esprimeva tutta la sua personalità. Il viso lungo, sbiadito da tutti gli inverni vissuti a Campine, era l'apoteosi della rassegnazione. Gli occhi scialbi erano fissi sul tabernacolo e le labbra si muovevano al ritmo sempre uguale delle sue preghiere.

L'ordine di marcia per la comunione era questo: le bambine avanzavano per prime, poi veniva Mia, poi Edmée e infine la zia - e Jef, qualche volta. Con le mani giunte e gli occhi bassi, sentivano alle loro spalle i passi furtivi di tutte le vecchie che si accostavano a loro volta alla Sacra Mensa. Il parroco passava mormorando le parole rituali e Edmée abbassava gli occhi solo a metà. Aspettava una certa cosa. Ogni domenica spiava il momento in cui il parroco arrivava davanti a lei con il ciborio in mano: ed era proprio quello che lei fissava per qualche secondo.

Era d'oro, molto grande, molto largo, lavorato a sbalzo. Una serie di angioletti paffuti formava una ghirlanda in rilievo tutt'intorno alla coppa. Ma ciò che soprattutto catturava lo sguardo di Edmée erano quattro enormi pietre viola incastonate nel metallo. Non aveva mai visto pietre di tali dimensioni, e queste, nella luce fioca della chiesa, sotto i raggi obliqui del lume a petrolio, sprigionavano riflessi sontuosi.

A Edmée piacevano molto le pietre. Spesso saliva nella sua camera per accarezzare i granati e i rubini montati sui vecchi gioielli che custodiva in una scatola e fantasticava sulle pietre del ciborio che erano più belle di tutte le altre, seducenti, misteriose.

Dopo la messa passavano dal panettiere a comprare una crostata. Qualche volta al loro ritorno Fred era ancora a letto; capitava anche che lo trovassero vestito a metà, con la camicia inamidata che gli dava un'aria pettoruta, e i capelli unti di brillantina.

Diceva che sarebbe andato alla messa grande, quella delle dieci, ma tutti sapevano che in chiesa non avrebbe messo piede e si sarebbe fermato alla taverna per giocare a carte o ai birilli. Infatti, quando tornava a casa, aveva l'alito che sapeva di acquavite o di vermut.

A Edmée non prestava molta attenzione e di rado le rivolgeva la parola. Una o due volte, incrociandola per caso, le diede un colpetto sulla coscia mentre lei si irrigidiva tutta e lo fissava stizzita.

«Ho la sensazione che sia un uomo disgustoso!» disse un giorno a Mia, che spalancò gli occhi dallo stupore.

«Perché?».

«Non lo so. Lo sento».

E all'improvviso Mia arrossì ricordando di aver trovato nelle tasche del fratello alcune fotografie di donne e uomini nudi la cui sola vista l'aveva profondamente turbata.

Fred passava una o due ore al giorno nel suo studio, ma per lo più doveva andare a Maeseyck o in un paese vicino. Oppure veniva gente da lui, e allora nello studio venivano serviti acquavite e sigari. Accadde in occasione della vendita del fieno, di primo e di secondo taglio, o dell'acquisto di bestie e concime. Una volta perlustrò per tre giorni la proprietà accompagnato da due uomini chiusi in giacconi di pelle che segnarono con una croce i pioppi da abbattere.

Un giorno senza pioggia era una vera rarità. L'unica variante si aveva quando cominciava a cadere ininterrottamente, fitta e sottile. Il cielo, allora, aveva un colore uniforme ed erano giornate tristi da morire. Altre volte, invece, soffiava un gran vento, nuvole di ogni forma correvano rasente le guglie dei pioppi e la pioggia veniva giù a rovesci, crepitava nel cortile, sulla strada, sui vetri, s'infiltrava in casa dalle più piccole fessure.

Ed era quello il tempo che Edmée prediligeva per seguire Jef, che andava ad aprire le saracinesche di un canale o a dare ordini a qualche guardiano. La pioggia le bagnava il viso, formando una goccia tremolante sulla punta del naso e del mento. Strascicava i piedi nel fango perché non si era ancora abituata a camminare con gli zoccoli. Quando bisognava attraversare un fossato pieno d'acqua, capitava che Jef la sollevasse, senza sforzo, e la depositasse sull'altra riva.

«Sei sicuro che Fred non è più forte di te?».

«Sì, sono sicuro».

«Perché ti sei lasciato schiaffeggiare, allora?».

«È lui il maggiore».

E allora? Solo perché era il primogenito, perfino la zia pendeva dalle sue labbra come aveva fatto, per anni, con il marito!

«Anche tu, Jef, hai delle amanti?».

Sgomento, quasi spaventato, Jef non osava rispondere. Difficile capire se lei sapeva quel che diceva o se parlava come una bambina, ripetendo parole di cui non era in grado di valutare la portata. Eppure Jef non riusciva a trattarla come una bambina. La accompagnava ovunque, obbediva ai suoi ordini. E lei ne approfittava. A tavola faceva apposta a dirgli:

«Jef, vammi a prendere la medicina».

Un tempo suo padre le aveva prescritto dell'emoglobina e lei continuava a prenderne solo per avere, a tavola, il suo flacone personale.

Jef si alzava senza fretta, come a malincuore, con l'aria più tetra e scorbutica del mondo.

«Andiamo alla nostra capanna, oggi?».

«Non so se avrò tempo».

Ma alla fine ci andava sempre. A lei piaceva starsene lì, separata dal resto della casa, in quella catapecchia illuminata dal fuoco di pigne. E stava il più possibile vicino alla fiamma finché non si sentiva penetrare, e quasi trafiggere, dal calore del fuoco.

«Fa qualcosa!».

Perché non le piaceva vederlo inoperoso. E Jef tagliuzzava un pezzo di legno o sistemava le pelli di scoiattolo. Il vento sibilava nel camino. Di fianco, nella stalla, ogni tanto una mucca muggiva o colpiva la parete con lo zoccolo.

«Hai pensato a quello che ti ho detto l'altro giorno?».

Ma Jef restava impassibile. Aveva movimenti lenti, specie quando, col suo testone, levava quella fronte ampia, troppo sporgente, e guardava la cugina aggrottando le sopracciglia.

«E sarebbe?».

Intanto le sue mani, incrostate di uno sporco tenace, resistente all'acqua e al sapone, continuavano ad armeggiare con legno e coltello.

«Vorrei che tu facessi per me qualcosa di pericoloso, di difficile...».

Ed era attraversata dallo stesso brivido voluttuoso di quando aveva allungato la mano verso lo scoiattolo agonizzante. Aveva paura, non sapeva se di se stessa o di quella carcassa. Le si umettavano le labbra.

«Per esempio che cosa?».

«Potrei chiederti di andarmi a prendere un oggetto che non si può comprare... un oggetto che appartiene a qualcuno...».

Lui alzò le spalle e spinse via con lo zoccolo un ceppo che era rotolato.

«Dimmi cosa!».

«E ci andrai?».

«Perché no?».

Se Fred vestiva come ci si veste in città, e anche per stare nei campi portava solino e cravatta, l'abbigliamento di Jef, al contrario, era da contadino. Metteva sempre qualcosa di informe, uno di quegli abiti di cui non si capisce nemmeno più da dove vengano. A furia di riempirle troppo, aveva le tasche tutte sformate, alla giacca era rimasto un unico bottone e, sotto, portava solo una camicia di flanella senza colletto.

Che si potesse baciare Jef a Edmée sembrava assolutamente inconcepibile, ma le piaceva sentirlo vicino, specie nella loro capanna, lontano dal resto della famiglia.

Due giorni prima un camino era in parte crollato e lui era salito sul tetto con mattoni e malta, e in equilibrio sulla linea di colmo, aveva rifatto la muratura.

Un'altra volta, quando il cavallo, imbizzarrito, si era lanciato a rotta di collo nella campagna, Jef lo aveva inseguito armato di una semplice bacchetta. Li avevano visti molto lontani l'uno dall'altro ed erano spariti all'orizzonte, dietro la fitta cortina di pioggia. Poi, tre ore dopo, Jef era tornato, sul cavallo, senza sella, senza briglie, la grossa testa ciondolante, gli zoccoli che premevano i fianchi dell'animale.

«Se ti chiedessi di rubare...».

Era in uno stato di eccitazione, come sempre quando si trovava nella capanna, inebriata dal calore, dalle lingue di fuoco che danzavano, dall'odore di pino, da quelle patate bollenti che mangiava. Il petto delicato era ansante, le narici contratte.

«Sono sicura che non avresti il coraggio di rubare le pietre viola del calice!».

E mentre lo diceva, s'immaginava Jef che, solo nella notte, si arrampicava sul tetto della chiesa, vi entrava da una qualche apertura e si muoveva tentoni urtando le sedie di paglia e gli inginocchiatoi che facevano rumore sui lastroni del pavimento. Questo le dava una pena tormentosa e insieme un intenso piacere. Con il suo coltellaccio avrebbe fatto schizzar fuori le pietre dalle griffe d'oro che le tenevano ferme...

«Non ci vuol niente!» disse lui senza guardarla.

«Ma non lo farai!».

 

Verso metà gennaio accadde un fatto straordinario. Erano più o meno le otto del mattino e tutti sedevano a tavola, in cucina, tranne Jef che a quell'ora lavorava sempre fuori, nella stalla, al forno del pane o da qualche altra parte.

La zia tagliava le focaccine di grano saraceno al lardo il cui odore impregnava l'ambiente per tutta la mattina. Mia versava latte caldo e caffè nelle ciotole. Le bambine erano già uscite e Fred parlava di andare in paese nel pomeriggio.

Di là dai vetri delle finestre si vedevano i pioppi lottare contro la bufera che li percuoteva. Forse mai come quella mattina il vento era stato così impetuoso e carico di una pioggia fitta che si abbatteva sui pascoli.

Dentro, nella cucina, il solito miscuglio di calore del fuoco e di correnti d'aria che s'infilavano dalle fessure di porte e finestre.

Edmée non aveva fame. Fissava quell'unica linea dritta del paesaggio, quel canale che passava a cinquecento metri, nero fra le sponde. E vide due cavalli che procedevano lungo l'alzaia davanti a un cavallante fradicio di pioggia che guardava per terra.

Dopo i cavalli, nel rettangolo della finestra entrò una corda tesa, seguita dalla prora di una chiatta fiamminga, anch'essa luccicante di pioggia. Dal camino sopra la cabina usciva del fumo e all'albero era stata fissata una vela rudimentale, un telone appeso con mezzi di fortuna.

Il vento gonfiava la tela. La chiatta filava così veloce che in un batter d'occhio uscì dal riquadro della finestra.

Nello stesso momento si udì un rumore in lontananza, un rumore come tanti, ma che a tutti parve foriero di catastrofe, persino alla zia che smise di armeggiare con le sue focacce e si precipitò alla finestra insieme agli altri.

Fu una cosa incredibile, perché a quel punto non si sentiva più niente ed era altresì impossibile determinare la fonte di quel rumore. La chiatta era ferma, come se avesse sbattuto contro qualcosa, l'albero spezzato in due e la vela afflosciata sul ponte.

Ma la cosa più impressionante fu quello che accadde ai cavalli nel preciso istante in cui Edmée incollò la fronte al vetro della finestra. Erano cento metri davanti alla chiatta e il cavo di rimorchio che a questa li collegava si tese bruscamente, si allentò, poi si tese ancora trascinandoli nel canale.

Un cavallo, quello a destra, sparì subito nelle acque, l'altro riuscì per un attimo a rimanere sulla riva con le zampe anteriori, ma fu trascinato a sua volta dal peso del compagno.

Nel frattempo, sullo sfondo grigiastro del cielo già si stagliavano sagome in corsa, e il battello, che poco prima dominava il canale, ora si stava abbassando a vista d'occhio.

«Affonda!...» esclamò Fred aprendo la porta.

Era proprio così. In quel punto, il canale faceva una curva a gomito e la chiatta, spinta dal vento, aveva continuato la sua corsa in linea retta malgrado i colpi di timone ed era andata a cozzare violentemente contro la sponda.

I cavalli, frenati nel loro slancio, erano stati trascinati indietro e se ne vedeva uno che cercava disperatamente di tenere la testa fuori dall'acqua nonostante il cavo attorcigliato intorno alle zampe.

Edmée seguì Fred senza neanche prendere lo scialle. Nel cortile Mia gridava a squarciagola:

«Jef!... Presto!... Vieni... Dove sei?...».

Edmée, però, non poté avvicinarsi alla chiatta, della quale emergevano ormai solo il tetto della cabina e l'albero spezzato. Fra lei e il canale c'era un altro canale più stretto che serviva a irrigare i terreni e che lei non era in grado di superare. Fred invece lo aveva superato con un salto, e ora Edmée lo vedeva darsi da fare per aiutare una donna a issarsi sulla sponda.

Nel grigiore dello sfondo tutte le figure sembravano disegnate a inchiostro di china. Dietro la donna comparve una bambina con i capelli bagnati che le si incollavano alla nuca. Il cavallante e l'uomo del battello cercavano invano di trarre in salvo i cavalli, che si agitavano nell'acqua creando dei vortici. Ormai non c'era niente da fare, eppure quei due non si decidevano ad abbandonare il luogo dell'incidente. Se ne stavano lì, l'uno vicino all'altro, sotto la pioggia, mentre anche il tetto della cabina s'inabissava.

Edmée continuava a voltarsi per vedere se arrivava Jef. Prima di tutto perché l'avrebbe aiutata a superare il fossato, e poi sarebbe stato sicuramente capace di escogitare qualcosa. Mia, ferma sulla soglia di casa, non smetteva di chiamare, e il domestico attraversava i prati a grandi passi.

Il tutto durò circa mezz'ora. Quando la gente della chiatta si diresse con Fred verso casa, Edmée era bagnata dalla testa ai piedi, aveva la camicia appiccicata al corpo e le labbra che cominciavano a diventare viola.

Entrarono tutti. La donna piangeva in modo convulso. Era magra come la zia, aveva i capelli color stoppa e le lentiggini, e poiché quando era accaduto l'incidente non era ancora vestita, il corpetto scollato lasciava intravedere un seno flaccido - cosa di cui lei non pareva rendersi conto. L'uomo si guardava intorno con aria inebetita e il cavallante bofonchiava, si soffiava il naso e si grattava la testa, furioso.

Qualcuno andò a prendere una brocca di acquavite.

«Jef non si è ancora visto?».

Era Fred a cercarlo, come per chiedergli consiglio. Il cavallante borbottava:

«Ce ne sono altre cinque dietro! Bisognerebbe avvertire la chiusa a monte, se no...».

Ma in casa non c'era il telefono, e non c'era neppure Jef, che sarebbe potuto correre in paese. Ancora una volta l'ambiente era impregnato dell'odore acre dell'acquavite. Ne diedero un bicchiere anche a Edmée. La zia cercava di farle capire che doveva salire a cambiarsi, ma lei non si muoveva, voleva vedere tutto. Gironzolava intorno alla donna, all'uomo, alla bambina. Li guardava da vicino, avidamente, tentando di capire le parole fiamminghe che si scambiavano.

«Jef non è nella stalla?».

«No! È il giorno del pane. Dovrebbe essere al forno ma non c'è!».

Mia appariva stordita, disorientata. Non sapeva dove battere la testa e Fred si arrabbiò perché non si sbrigava a mettere l'acqua sul fuoco per fare il caffè. A un tratto si vide un uomo in bicicletta passare davanti alla finestra e fermarsi subito dopo. Era Jef. Ma non entrò in casa. Quando qualcuno aprì la porta, videro che si dirigeva verso la casupola che Edmée aveva battezzato la loro capanna.

«Jef!».

«Adesso vengo».

«No! Subito!».

Fece dietrofront a malincuore, apparve sulla soglia e guardò gli intrusi con occhio sospettoso.

«Che c'è?».

«Da dove vieni?».

«Da Neeroeteren. Era finito il lievito...».

Edmée notò che aveva un'escoriazione sulla mano destra e che evitava di guardare verso di lei. Gli raccontarono quello che era successo. Lui ascoltò senza batter ciglio, si girò verso il canale, borbottò:

«Bene!».

Poi parlarono in fiammingo. La donna smise di piangere per spiegare chissà cosa con foga mentre Jef la fissava con occhi stanchi. Sembrava che nessuno sapesse cosa fare e che tutti si aspettassero una decisione proprio da lui.

«Bene!» ripeté alla fine lasciando vagare attorno lo sguardo.

Si mise in tasca la bottiglia di acquavite e ordinò qualcosa a Mia, che si precipitò al primo piano e tornò giù con un cappotto pesante.

Ora il cielo si era schiarito ma pioveva più forte. La zia aveva l'aria più afflitta della donna del battello, che adesso pareva invece nutrire qualche speranza.

Jef uscì con l'uomo della chiatta, Fred e il cavallante. La donna corse alla porta per gridar loro un'ultima raccomandazione. Senza farsi notare, Edmée seguì gli uomini, che superarono con un salto il piccolo canale.

«Jef!».

Lui si voltò, la vide, tornò indietro per aiutarla a passare. Era turbato. Il suo sguardo aveva una mobilità insolita.

«Sta vicino a me!» le disse.

Mancavano solo cento metri al canale. Il cavallante era già sulla riva e cercava con lo sguardo i cadaveri dei suoi cavalli.

«Dammi la mano!».

Camminavano vicini, quasi sfiorandosi, e la mano callosa di Jef strinse quella di Edmée, ne aprì le dita e vi racchiuse alcuni piccoli oggetti gelati.

«Fa attenzione!».

E si allontanò, correndo avanti. I piccoli oggetti gelati che Edmée si ritrovò nella mano erano le quattro pietre viola del ciborio. Non aveva tasche, non sapeva dove metterle, e stringeva le dita così forte contro il palmo che aveva paura di farlo sanguinare.

Nel frattempo Jef si era tolto la giacca e chiedeva qualche delucidazione al battelliere. Ormai della chiatta si vedeva solo la parte superiore: un pezzo del tetto della cabina, la testa del timone e l'albero spezzato. Fred ostentava indifferenza. Il battelliere forniva gli ultimi chiarimenti guardando Jef quasi con spavento.

Alla fine Jef si tolse gli zoccoli ed entrò subito in acqua, senza tuffarsi, camminando sul relitto con l'acqua che gli arrivava al petto. Poi, all'improvviso - aveva probabilmente trovato la porta della cabina -, sparì del tutto.

Ci fu un risucchio. L'acqua era nera, il vento la faceva sbattere contro gli argini, e questi erano così scivolosi che il cavallante rischiò di cadere nel canale. Jef riemerse, disse qualcosa al battelliere e sparì di nuovo.

Finalmente tornò a galla e nuotò verso la sponda tenendo in mano un oggetto molle. Dovettero aiutarlo a salire perché i piedi bagnati slittavano sull'argilla fradicia. Era pallidissimo, quasi blu, con le palpebre arrossate, e dalla bocca aperta gli usciva un respiro corto e bruciante.

Lasciò cadere a terra l'oggetto molle: era un portafoglio. Il battelliere lo aprì e ne cavò delle banconote da mille franchi incollate le une alle altre.

Adesso, a furia di stringere così forte quelle pietre viola, che avrebbe voluto gettare nel canale, la mano di Edmée sanguinava veramente.

 

Nei tre giorni seguenti la zia fu simile a una gatta che, nella confusione di un trasloco, si aggira inquieta intorno ai suoi piccoli continuamente spostati in un punto diverso della casa. E come una gatta aveva adottato Edmée, senza neppure osservarla bene, così che a volte, quando le capitava di posare lo sguardo su di lei, era colta da stupore.

Sul piano pratico lo scompiglio fu altrettanto grande che alla morte dello zio, se non di più, ed era proprio quel ripetersi di eventi a far perdere la testa alla zia, ad assumere ai suoi occhi un che di minaccioso.

Mia confidò a Edmée che sua madre, un tempo, si limitava ad andare a Maeseyck una volta all'anno, il primo gennaio, per fare gli auguri allo zio Louis, il fratello maggiore. All'infuori di quel viaggio, non si allontanava mai da Neeroeteren, ed era tanto raro che in casa si ricevesse qualcuno che suo padre, rientrando, se ne rendeva immediatamente conto vedendo un bicchiere sul tavolo o cogliendo nell'aria odore di tabacco o di acquavite.

«Chi è venuto?».

C'era un ordine stabilito, un giorno per cuocere il pane, un altro per fare le cialde o le crêpe, un altro ancora, ogni mese, per la visita al cimitero.

E adesso quell'ordine era saltato, lo avvertivano tutti. Prima c'era stato il funerale dello zio e l'arrivo di Edmée, poi, quasi a ridosso, il Capodanno, e infine quell'incidente con le relative conseguenze. Fred offriva da bere a gente con cui suo padre non avrebbe mai bevuto, e mandava a prendere in cantina del borgogna in occasioni che non erano vere occasioni da borgogna.

La zia non diceva niente. Andava su e giù da mattina a sera, ma a volte nei suoi occhi spenti passava come un fremito d'inquietudine.

Si dovette preparare una camera per il battelliere e sua moglie, ai quali Fred aveva offerto ospitalità finché non fosse stato recuperato il relitto. Quanto al cavallante, fu sistemato nella rimessa. Nei fatti questo voleva dire lenzuola da prendere negli armadi, pavimenti da spazzare, indumenti asciutti da trovare per la bambina.

Continuava a piovere, e c'era acqua dovunque, la casa sembrava piena di buchi.

Nei tre giorni che passò lì la moglie del battelliere rimase incollata alla sua sedia vicino al fuoco. Ognuno dava una mano perché erano in dodici a tavola, a volte in quindici, ma lei pareva non rendersi conto del gran lavoro che questo richiedeva. Passava ore e ore a lamentarsi, tanto che dava quasi l'impressione di godere della sua sventura.

Il primo giorno, verso le dodici, arrivò l'ingegnere del Genio civile, accompagnato dal capoguardiano preposto alle chiuse. I due fecero una lunga sosta sulla riva del canale, tanto più lunga in quanto Jef aveva già installato un argano sulla scarpata per tirar fuori dall'acqua i due cavalli morti.

L'incidente era accaduto così rapidamente che il battelliere non si era accorto di niente. Il vento veniva di poppa, e soffiava forte, sicché la chiatta vuota procedeva più veloce dei cavalli, e la fune di rimorchio si allentava. Alla curva, l'uomo non era riuscito a raddrizzare il battello, che era andato a sbattere contro la riva. In altri punti non sarebbe stato tanto grave, ma lì, nella scarpata, c'era una specie di tunnel in muratura, con una saracinesca che serviva a convogliare le acque del canale verso le Irrigations.

Dopo aver dato un'occhiata, Fred sentenziò:

«La prua ha colpito la presa d'acqua e l'ha fracassata. Scommetto che nello scafo c'è uno squarcio grande come una porta».

Quando la chiatta si era fermata di botto, la fune di rimorchio dei cavalli si era tesa in modo così brusco che le bestie erano state letteralmente trascinate verso il canale. Mentre il battelliere metteva in salvo moglie e figlia, l'anziano cavallante si era agitato a vuoto, sconvolto dallo spettacolo dei due cavalli impigliati nella fune che cercavano disperatamente di nuotare e di arrampicarsi sulla scarpata scivolosa. A quarantott'ore di distanza era ancora come inebetito. Tuttavia fu lui che, sotto la pioggia che gli faceva luccicare le spalle, andò con un barellino a fissare una cima alla zampa dei due animali, i cui corpi per metà galleggiavano.

Edmée era lì. Non ce la faceva a starsene a casa, provava un oscuro bisogno di restare con gli uomini, di udir parlare, gridare, di sentire la pioggia sulla fronte, dove piccole ciocche si andavano arricciando.

Jef manovrava l'argano e tutti lo aiutavano a girare la ruota mentre pian piano, un poco alla volta, i cadaveri, mostruosamente grandi e grossi, con il ventre già gonfio, venivano issati sulla scarpata.

Fred era il solo a portare gambali e cappotto di pelle, e questo gli dava davvero l'aria da proprietario. Come la moglie del battelliere si compiaceva della sventura che l'aveva colpita, così lui assaporava appieno il ruolo di personaggio importante che dirige i lavori e dà istruzioni a destra e a manca. Bagnato dalla pioggia, il suo naso sembrava più lungo, e Edmée notò più chiaramente del solito l'asimmetria del suo viso.

«Va al caldo, tu!» le disse per ben due volte.

Ma lei rimaneva lì, sulla riva del canale, tutta infreddolita e fradicia. Aveva sotterrato le pietre viola ai piedi di un pioppo. Per ore e ore aveva spiato le mosse di Jef aspettando il momento di parlargli e per tutto quel tempo lo aveva guardato con occhi così intensamente interrogativi che le pupille le dolevano. Ma lui non aveva battuto ciglio! Sembrava persino evitarla. Lavorava senza tregua, più di tutti gli altri messi insieme, sobbarcandosi via via il lavoro di ciascuno.

A tavola stavano stretti. Per l'occasione erano stati uccisi tre conigli. La zia non faceva domande ma ascoltava quel che dicevano gli uomini e ogni tanto Mia traduceva una frase a Edmée:

«Hanno fatto venire un palombaro e un rimorchiatore. L'hai mai visto, tu, un palombaro?».

In un primo momento avevano pensato di svuotare quel tratto di canale, che era di cinque chilometri, ma con tutta l'acqua che cadeva dal cielo l'operazione era impossibile. Ma non si poteva neppure lasciare il relitto lì di traverso a intralciare la navigazione.

Dopo un bicchierino di liquore e un sigaro, gli uomini tornarono al battello, e quindi a Neeroeteren. L'indomani, l'aspetto delle Irrigations era ancora più insolito.

Quando Edmée si svegliò il canale, che aveva sempre visto deserto, era attraversato da una fila di otto chiatte. Si udiva il fischio di un rimorchiatore che le stava superando per avvicinarsi al relitto e una folla si agitava sulla scarpata.

Appena alzata, corse laggiù, incurante della tempesta. In cucina con la zia, la moglie del battelliere e Mia si sentiva quasi soffocare. Il disordine la turbava quanto e forse più della zia, e per di più aveva l'impressione che negli eventi ci fosse una fatalità ineluttabile, una minaccia per tutta la casa.

La sera prima, a letto, aveva rimuginato così a lungo questi pensieri che alla fine la testa le girava e non riusciva a distinguere fra incubo e realtà. Lo zio che era morto proprio mentre lei arrivava alle Irrigations... L'eczema di Mia che si era aggravato... L'incidente sul canale e Jef che aveva commesso un sacrilegio...

Non osava più toccare la mano del cugino. Si domandava come potesse conservare il solito atteggiamento, lavorare, parlare con la gente. Con lei, però, non parlava, evitava persino di guardarla in faccia.

Anche lo zio Louis, con tanto di gambali, era sulla scarpata, e Fred pareva contrariato dalla sua presenza e soprattutto dal ruolo che ricopriva come direttore dei lavori. Il rimorchiatore trasportava una gru e un palombaro si stava infilando la tuta da immersione dopodiché qualcuno gli avvitò un casco di rame.

Edmée doveva avere la febbre perché ogni tanto, mentre si aggirava da sola tra un gruppo e l'altro, era assalita da tremiti nervosi. Di nuovo, Fred la esortò:

«Faresti meglio ad andare a casa e aiutare le donne!».

Più tardi lo zio Louis le diede un buffetto affettuoso sulla guancia e le disse:

«Sei sicura, piccola, di non prendere freddo?».

Attirava gli sguardi. C'erano gli uomini e le donne delle altre chiatte, che aspettavano di poter passare oltre e il cui numero andava crescendo di ora in ora. Edmée non aveva voluto mettere lo scialle nero né gli zoccoli; si era infilata un impermeabile troppo leggero, che lasciava passare l'acqua ma le dava un'aria da ragazza di città.

Vide più di una persona domandare a Fred chi fosse e a volte alla domanda seguiva un'occhiata che, pur lusingandola, la indispettiva. Perché ne intuiva il significato. Pensavano che fra lei e Fred ci fosse qualcosa. E la trovavano bella, molto più bella delle ragazze di campagna.

Quella mattina si era messa quasi nuda davanti allo specchio e si era guardata a lungo, senza alcuna indulgenza. Era magra, le gambe soprattutto, e le spalle, che mostravano le cosiddette «saliere» sopra le clavicole. Il seno era appena accennato e tuttavia lei era molto più donna, per esempio, di Mia, che aveva già un seno prosperoso ma una figura che conservava l'incompiutezza dell'infanzia.

Quello che però stupiva davvero la gente del posto era il volto di Edmée, un volto affilato, estremamente pallido. I suoi cugini, le cugine, la gente dei battelli radunata lì avevano tutti una pelle poco uniforme, i lineamenti grossolani, il naso schiacciato o camuso, le labbra troppo grosse o gli occhi troppo vicini. Il volto di Edmée, invece, era regolare e la sua carnagione compatta come quella delle ragazze che si vedono sui calendari a colori nelle botteghe di paese. E non rideva come le sue cugine, né voltava la testa dall'altra parte se qualcuno la guardava o parlava di lei in fiammingo.

Quando il palombaro venne calato nell'acqua in un gorgo di bolle d'aria, tutti rimasero in silenzio e si udì chiaramente l'ansimare dei due aiutanti che pompavano. Per Edmée fu un'emozione pari a quella che le dava la morte degli scoiattoli, pur se meno violenta. I cadaveri dei cavalli erano sempre lì e un cavallante prese il coraggio a due mani e aprì la bocca a uno di loro per guardargli i denti borbottando qualcosa.

Il casco del palombaro riaffiorò, quindi sparì di nuovo. L'ingegnere, quelli della gru, Fred e il palombaro parlottavano fra loro. Poi, mentre alcuni uomini rimanevano sul posto per continuare il lavoro, altri si diressero verso la casa.

Nella taverna adiacente alla casa, solitamente deserta, non c'era mai stato tanto chiasso. Mia serviva passando di tavolo in tavolo, mesceva birra o acquavite ai battellieri che la tempestavano di scherzi e battute.

«È brutta e volgare!» decise Edmée.

Per il pranzo si apparecchiarono due tavole, una in cucina, per le donne, e l'altra nel salone. E fu proprio mentre mangiavano che Mia annunciò alla cugina:

«Pare che ci sia stato un furto in chiesa».

Edmée non fece una piega, restò naturale, quasi indifferente.

«Cos'hanno rubato?».

«Le pietre del ciborio. Ma sono pietre false e il parroco non ha neanche sporto denuncia».

Fu una delusione - non il fatto che le pietre fossero false, ma che se ne parlasse con tanta noncuranza; questo rendeva la faccenda piuttosto avvilente.

Per due o tre volte Edmée sentì su di sé lo sguardo della zia e ne fu turbata molto più che dalla notizia del furto. Quando la zia parlò, lo fece rivolgendosi a Mia, la quale dovette tradurre.

«La mamma dice che non sta bene che tu passi tutta la giornata sul canale con gli uomini».

Un fiotto di sangue salì alle guance di Edmée, che si alzò di scatto e rispose:

«Dille che sta ancora meno bene che una ragazza serva da bere ai cavallanti!».

Uscì in cortile, lo attraversò e si chiuse nella capanna, dove nessuno si era preoccupato di accendere il fuoco. Aveva fame, perché il battibecco era scoppiato proprio all'inizio del pranzo. Aveva freddo. E se si trovava in un simile stato era perché aveva capito che, di tutta la famiglia, solo la zia aveva intuito qualcosa, la zia che non conosceva una parola di francese e che non usciva mai di casa.

Ma intuito che cosa? Lei stessa non lo sapeva esattamente. Eppure qualcosa da intuire c'era, qualcosa che neanche lei era in grado di definire. Gli scoiattoli, innanzitutto, poi il comportamento di Jef e le pietre del ciborio.

E c'erano altre cose, più vaghe. La sera prima, a letto, nel dormiveglia, le pareva di averne una cognizione quasi precisa, ma, nella fredda oscurità, queste assumevano forme e immagini strampalate, si traducevano in parole che alla luce del giorno non avevano più senso. Rivedeva tutte le facce intorno al tavolo: le labbra troppo grosse di Fred, il suo volto irregolare; la fronte deforme di Jef; Mia con il suo eczema, che, nonostante il seno e il resto, a diciannove anni non era ancora donna; lo strabismo di una delle bambine. La famiglia sosteneva che si trattava solo di una deviazione momentanea dello sguardo. Ma era strabica! E la più piccola manifestava un ritardo mentale di almeno due anni rispetto a una bambina normale!

Inoltre, lei, e solo lei, aveva capito che a Capodanno, quando lo zio Louis si era appartato con Fred, gli aveva espresso le sue preoccupazioni e forse gli aveva anche fatto una ramanzina.

Da vivo, lo zio frequentava una donna a Hasselt, e Fred, a sua volta, andava lì, o a Liegi, o a Bruxelles, solo per incontrare ragazze prosperose.

Li detestava tutti? Non lo sapeva, ma aveva spinto Jef a rubare le pietre del ciborio. Certo, non credeva che lo avrebbe fatto e si era sentita gelare dalla testa ai piedi non appena lui le aveva cacciato in mano con forza le dure pietre viola.

Adesso Jef non era più lo stesso. La guardava di sottecchi, come guardava tutti gli altri. E anche Fred, quella mattina, dopo che qualcuno gli aveva parlato di lei con aria allusiva, aveva guardato la cugina con occhi diversi.

Mentre ci pensava in pieno giorno, nella luce bianca del cielo piovoso, tutto questo non voleva dir niente. Ma con gli occhi chiusi, nel calore del letto, dava corpo a una ridda di cose cattive e malsane.

Nel pomeriggio Edmée tornò al canale. Non che ne avesse voglia, lo faceva per punire la zia e Mia. E poi provava una sorta di piacere fisico nell'aggirarsi in mezzo a quegli uomini che si davano da fare e nel confrontarsi con loro, subire i loro sguardi, cercare di indovinare quel che pensavano di lei.

Era stanca, aveva attraversato i campi fradici ben quattro volte. Le calze nere erano bagnate fino al ginocchio e le si incollavano alle gambe. Non c'era un posto dove sedersi, bisognava stare in piedi per ore, e quando a tratti la pioggia cessava arrivavano addosso le gocce più grandi e più fredde che cadevano dai pioppi.

La falla nello scafo della chiatta l'avevano turata con dei sacchi. L'imbarcazione era stata sollevata dalla gru e veniva ora svuotata con le pompe azionate dalle macchine del rimorchiatore. Il tutto in un continuo rumore di motori e scrosci d'acqua intermittenti.

Lo zio Louis, Fred e l'ingegnere, insieme a un agente delle assicurazioni appena giunto sul posto, si occupavano dei danni alla saracinesca. Per poterli valutare, erano stati scolmati tutti i piccoli canali delle Irrigations, e così Edmée poteva comprenderne il meccanismo. Nel grande canale principale c'erano diverse prese d'acqua, ciascuna delle quali era governata da una saracinesca che Jef azionava servendosi di un'apposita chiave. Il resto funzionava come le arterie nel corpo umano. Da un canale di media grandezza le acque raggiungevano canali più piccoli che a loro volta si ramificavano in una quantità di canaletti.

Si poteva fermare l'acqua o lasciarla passare dove si voleva. Era Jef che dirigeva queste manovre, e a vederlo andar per prati, con le spalle curve e la testa ciondolante, che si spostava da una saracinesca all'altra provocando risucchi o vuotando canali, pareva il genio delle Irrigations. Persino lo zio Louis, che era nato lì, si consultava con lui, perché Jef sapeva che a un certo ingranaggio mancava un dente, che in un certo canaletto sarebbe rimasta dell'acqua per via di una pendenza del suolo e che da qualche altra parte c'erano delle lontre.

Una volta pompata l'acqua dal canale, la fanghiglia nera del fondo apparve disseminata di oggetti che probabilmente giacevano lì da anni e anni - pezzi di ferro, cocci, il cerchio di una botte, un secchio, un cavo lungo una decina di metri e persino un letto pieghevole.

A un tratto si udì un rumore ritmato e, insieme, un fischio: le gru cominciavano a tirar fuori dall'acqua la parte anteriore della chiatta.

Quando con il buio tutti rientrarono, compresi gli uomini, che Fred aveva invitato a bere qualcosa, Mia domandò a Edmée:

«Qual è?».

«Chi?».

«Il palombaro!».

Era un uomo piuttosto grasso, dall'espressione gioviale e l'aspetto di operaio di città, che si guardava intorno con aria stupita. Non era fiammingo ma vallone, e lo avevano fatto venire da Liegi in motocicletta. Sprizzava buonumore da tutti i pori e snocciolava ininterrottamente battute di spirito.

Nella piccola taverna ferveva una vita molto diversa dal solito. A ogni tavolo di legno di pino verniciato sedevano almeno quattro uomini. Le mogli dei battellieri si tenevano i bambini sulle ginocchia. Il locale era illuminato da un'unica lampada a petrolio. Sebbene tutti parlassero a voce alta, l'atmosfera era come smorzata, ovattata. Solo Mia si muoveva, andava da un tavolo all'altro con le sue pantofole di feltro e versava da bere.

«Tu non sei fiamminga!» disse il palombaro girandosi verso Edmée.

«No».

«Meglio così! Cominciano a stufarmi con il loro dialetto, i loro pessimi sigari e la loro illuminazione pidocchiosa. Ma, allora, se non sei fiamminga, che ci fai quaggiù?».

Aveva una faccia simpatica. Con la mano, trasse a sé Edmée mentre lei rispondeva:

«Sono la cugina».

«Ah, ecco! Mi sa che non ti ammazzi di risate qui, eh?».

La mano si era posata sulla vita di Edmée e, come per caso, scendeva un po', raggiungeva il fianco, si faceva più insistente. Lei non si muoveva. Era a disagio, ma non aveva voglia di andarsene e pensava a quella grossa testa di rame che aveva scorrazzato sott'acqua.

«Non vuoi bere qualcosa? Chi è il padrone, qui? Il giovanotto con il cappotto di pelle o il vecchio con i baffi grigi?».

Edmée rise nervosamente. Bisognava darci un taglio, adesso doveva andarsene. Non lontano dalla lampada a petrolio lo sguardo di Fred era fisso su di lei.

«Aspetti... Mi stanno chiamando, credo...».

L'uomo fece per trattenerla ma lei sgusciò via. Non sapeva dove andare, o meglio sì, le sarebbe piaciuto rinchiudersi con Jef nella capanna, e lì dentro scrutare con gli occhi sgranati il grande fuoco di abete mentre lui avrebbe tagliuzzato un pezzo di legno lanciandole furtivi sguardi di ammirazione. Ma Jef era andato a Neeroeteren con il calesse perché non c'era abbastanza pane per la cena, e se n'era andato senza dirle niente, senza chiederle di accompagnarlo.

Evitò di passare per la cucina e uscì. Aveva smesso di piovere e il vento soffiava più forte. Le nuvole correvano basse e se ne distinguevano bene i contorni per via della luna che brillava dietro di loro e ogni tanto faceva capolino per un attimo.

La visione di quelle nuvole che correvano così verso i confini del mondo aveva qualcosa di drammatico, e Edmée si domandò se alcune di esse riuscissero mai a congiungersi. A furia di guardare in alto le doleva la nuca. Alle sue spalle, l'acqua gocciolava da una grondaia come da un rubinetto.

All'improvviso avvertì una presenza dietro di sé. Il tempo di abbassare la testa ed ecco Fred, col suo soprabito nero, vicinissimo a lei e con un sorriso che non gli aveva mai visto.

«Stai prendendo il fresco?».

Nell'oscurità le sue mani erano bianche. E si alzarono, esitanti, poi strinsero la testa di Edmée.

«Strana cugina!».

Lo disse con una tenerezza sospetta e contemporaneamente accostò la testa a tal punto che Edmée non vide più che il naso. Un labbro sfiorò il suo mentre lei s'irrigidiva inarcandosi all'indietro per allontanare il busto dal petto di Fred. Che sapeva di acquavite, di brillantina e di shetland bagnato.

«Non fare la stupida!...» disse lui a bassa voce.

«Guarda che grido!».

I volti erano a meno di cinque centimetri l'uno dall'altro, distanza che era mantenuta dalla posizione di Edmée, rigidamente piegata all'indietro.

«Sta zitta!».

Ma lei ripeté più forte, così forte che dalla taverna avrebbero potuto sentirla:

«Grido!».

Lui la lasciò di colpo, alzò le spalle, borbottò in fiammingo e poi in francese:

«Sciocca!».

A tre metri da lei, esitava ancora.

«Preferisci i palombari?».

«Sì. E se lui volesse io...».

S'interruppe. Non sapeva cosa dire per vendicarsi dell'offesa. Fortunatamente, Fred stava già entrando in casa. Un'ora dopo rientrò anche lei perché la pioggia ricominciava a cadere e non c'era più il minimo chiarore nel cielo né sulla terra.

Nella taverna qualcuno giocava a domino, qualcuno a carte. Lo zio Louis era ripartito con la sua macchina e Mia, passando di tavolo in tavolo, raccoglieva le bottiglie vuote e comunicava il prezzo della consumazione.

«"Vijf franks"...».

Cinque franchi! Incassava, cercava il resto nella tasca del grembiule nero - che era poi un vecchio grembiule rosa tinto.

In cucina la bambina dei battellieri dormiva sulle ginocchia della madre e lo sguardo della zia seguì Edmée, che si avviò verso le scale per salire in camera sua.

 

Non era ancora giorno e una nebbia fredda offuscava l'aria quando risuonarono tre fischi laceranti. Alle Irrigations erano tutti a tavola. Edmée aveva i geloni alle dita e cercava di riscaldarle tenendole sopra il fuoco. E nel biancore opaco al di là dei vetri intravide il rimorchiatore che scivolava lungo l'argine portandosi dietro la chiatta in avaria: sembrava che i due battelli non toccassero né il canale né la terra, ma navigassero sulla nebbia.

Tutte le altre imbarcazioni li seguivano muovendosi a loro volta, come tanti giocattoli, sulla linea dell'orizzonte. Il canale si andava svuotando. D'un tratto era vuota anche la casa, vuota come il corpo e il cervello di un uomo dopo una sbornia.

E ciascuno di loro, senza saper bene perché, ne provava un senso di disagio. Ovunque c'erano tracce di disordine. Si era bevuto molto e nella taverna le bottiglie vuote stavano allineate per terra, mentre i bicchieri rotti erano stati ammucchiati provvisoriamente dietro il banco. Almeno una decina di volte in tre giorni Fred aveva rischiato di ritrovarsi ubriaco fradicio. La sua voce in quei casi diventava più sonora, i gesti più enfatici, e lo si sentiva sottolineare le frasi più insignificanti con un vigore degno di miglior causa.

Adesso era stanco, e si vedeva. Sua madre gli domandò qualcosa in fiammingo e lui rispose nominando due volte lo zio Louis. Quando uscì, Edmée chiese a Mia dove andasse.

«Dopodomani c'è una scadenza importante, e il denaro sul quale contavamo non è arrivato. Ma lo zio sistemerà tutto...».

E Mia, portata la cugina in camera, le mostrò una borsa di tela piena di monete.

«Guarda quanto ho guadagnato in tre giorni: sessantatré franchi e quaranta!».

Aveva accettato le mance dei clienti. Aprì un giornale fiammingo e indicò, sull'ultima pagina, la fotografia di una borsetta con il relativo prezzo: quarantadue franchi.

«È bellissima! Adesso scrivo e mando il denaro».

Ognuno conservava così, di quelle tre giornate, qualcosa di diverso. Per Mia erano dei bei soldoni da convertire in una borsetta. Per Fred era la nostalgia d'esser circondato da tanta gente, trattato da padrone, la nostalgia di parlare con autorevolezza e di vuotare bicchierini di acquavite.

Quanto a Jef, non lo si vide quasi, poiché aveva deciso di ricostruire con le sue mani la muratura della presa d'acqua. Non è che evitasse Edmée di proposito, ma non faceva nulla per avvicinarsi a lei. Le lanciava occhiate furtive, a volte sembrava sul punto di dire qualcosa, ma poi continuava a tacere.

Non c'era niente di strano, non succedeva niente di particolare, e tuttavia, quasi ogni sera, prima di addormentarsi, Edmée aveva gli stessi pensieri tumultuosi. Una sorta di delirio volontario, che prendeva il posto degli scoiattoli. Le camere non venivano riscaldate, le lenzuola erano gelide e per parecchi minuti, nonostante la borsa dell'acqua calda, Edmée batteva i denti nell'oscurità.

Allora la ridda delle immagini cominciava ad assalirla. Era quasi sempre Fred ad aprire il corteo, Fred che, guardandola con cupidigia, le labbra umide, cercava di sfiorarla. Perché l'aveva già fatto due volte incrociandola nel corridoio del primo piano. Allungava le mani, proprio così, che poi si facevano insistenti al momento di toccare i fianchi di Edmée mentre sul viso gli si dipingeva un sorriso forzato.

Nel corteo notturno, subito dopo Fred veniva la zia, e Edmée la vedeva dirigersi con il suo passo timido e prudente verso il pioppo sotto il quale aveva seppellito le false pietre preziose. Il resto variava, ma di poco. Jef scuoiava una bestia enorme che lei non aveva mai visto - forse uno dei cavalli che trascinavano la chiatta? - oppure saltava da un muro molto alto, giacché si era scoperto che il ladro delle gemme del ciborio era scappato da una finestra situata a sei metri d'altezza.

Un po’ alla volta, via via che il calore la pervadeva, Edmée si abbandonava a una ridda sempre più sfrenata di immagini che non le riusciva d'interrompere, e i suoi nervi erano così sovreccitati che rischiava di mettersi a urlare.

Forse lo zio Louis si sarebbe rifiutato di dare il denaro... La grassa amante di Fred, a Hasselt, sarebbe venuta lì a fare uno scandalo... E le guardie avrebbero portato via Jef mentre per l'ultima volta si riempiva le tasche di patate cotte sotto la cenere...

La casa vacillava e ciascuno rimaneva al proprio posto solo per abitudine. La zia lo avvertiva ben chiaro e spiava i volti, come per indovinare chi sarebbe crollato per primo.

Il sabato successivo Edmée non uscì perché era leggermente raffreddata. Verso sera, seduta accanto al camino con lo scialle stretto sul petto, a guardare le fiamme che gareggiavano con quel che restava del giorno, pensò che l'indomani non sarebbe andata a messa perché, se ci fosse andata, avrebbe dovuto fare la comunione.

E si domandò se il sacerdote avrebbe usato ancora lo stesso calice, privo delle gemme...

Non era davvero malata, aveva solo un principio di influenza, e a furia di soffiarsi il naso se l'era fatto diventare tutto rosso. Dal suo cantuccio di fianco al fuoco lasciava vagare su persone e cose uno sguardo più sfumato, e quando a illuminare la cucina rimasero soltanto le fiamme del camino arrivò, da sveglia, a quello sfasamento delle immagini che di solito raggiungeva solo nell'intimità del suo letto.

La zia lavorava a maglia. Mia, finito di rigovernare, andò a prendere un cestino da lavoro pieno di brutte pezze di flanella e di modelli di carta grigia, e si mise a cucire con un'aria così placida che Edmée cominciò a mordicchiarsi le unghie.

La domenica mattina non si alzò. Udì gli altri vestirsi nelle rispettive camere. All'improvviso, quando il cavallo era già attaccato, a Edmée venne in mente che Fred sarebbe rimasto a casa, solo con lei, e ne fu così spaventata che per un attimo pensò di alzarsi. Mia le domandò se stesse male e si offrì di curarla.

«No! Voglio soltanto dormire...».

Sentì che giù veniva distribuito il cioccolato e si prendevano i libri da messa nello studio; poi il calesse si allontanò.

Non aveva più voglia di dormire e neppure di restare a letto. Non voleva neanche scendere perché quello che più detestava della casa era la cucina. Si alzò senza far rumore e a piedi nudi si diresse verso il catino. Il naso non era più rosso. Si passò sul viso un asciugamano umido, si pettinò, poi, rifatto il letto, tornò a stendersi e attese.

In casa tutto era silenzio. I rumori del calesse erano svaniti da tempo. Nella stalla il garzone stava aprendo la grande porta cigolante per far uscire le mucche. Chissà se Fred dormiva... Dopo alcuni minuti udì dei lievi fruscii quasi indistinti, come se ne percepiscono quando si concentrano tutte le proprie facoltà in un'unica direzione e si finisce per cogliere anche il volo di una mosca. Edmée non s'ingannava, perché qualcuno urtò effettivamente un bicchiere nella terza camera, quella di Fred. Fu assalita da una gran paura. Il petto le si sollevava lentamente mentre si teneva i seni stretti nelle mani con tutte le sue forze.

Qualcosa, forse un pettine, sbatté contro un catino di smalto. Le camere erano sprovviste di serratura. Edmée, gli occhi fissi sulla porta, sentì a poco a poco il sangue che defluiva dalle mani e dalla testa per riversarsi nel cuore.

Finalmente udì uno strascicare di pantofole nel corridoio. Finalmente, sì, perché non aveva più la forza di aspettare! Ma Fred restò un bel po’ in ascolto, l'orecchio contro la porta, prima di girare con cautela il pomolo. Probabilmente la credeva addormentata. Non appena fece capolino incontrò lo sguardo di Edmée puntato su di lui ed ebbe la tentazione di battere in ritirata.

«Buongiorno, cugina!».

Aveva scelto di sorridere, di quel largo sorriso umido che lei conosceva. Indossava solo un paio di pantaloni neri e una camicia bianca, ma si era fatto la riga nei capelli, che avevano l'odore dolciastro della brillantina.

«Stai meglio?».

Non riusciva a rispondere. Lo vedeva avvicinarsi e s'irrigidiva per non mostrare la sua paura, eppure non avrebbe voluto essere altrove.

«Vuoi che ti porti qualcosa di caldo?».

Le bastava dire sì e lui sarebbe sceso ad accendere il fuoco, a preparare il caffè, e questo avrebbe richiesto del tempo.

«No !».

Fred si sedette sulla sponda del letto, piano piano, come per tenersi pronto in ogni momento a indietreggiare.

«Hai l'influenza?».

«Non lo so».

«Perché sei così cattiva? Io, vedi, sono parecchi giorni che penso a te di continuo...».

Edmée lo sapeva: precisamente da quando i battellieri l'avevano notata e avevano detto a Fred qualcosa che la riguardava, accompagnando le parole con occhiate eloquenti.

«Io no!».

Era in camicia da notte ma si teneva le coperte strette fin sotto il mento. Per voltarsi verso di lei, Fred, seduto di traverso, doveva appoggiarsi con la mano e quella mano, in un primo momento, si trovò a dieci centimetri da una gamba di Edmée.

«Sei una strana ragazza!».

«Lo so».

Era aggressiva. E immobile: il suo corpo non si muoveva di un millimetro.

«Sei mai stata innamorata?».

Fred era grottesco. Cercava di parlare con una vocina tenera e gentile che non gli si addiceva più del sorriso sdolcinato che aveva adottato per l'occasione.

«Se tu volessi...».

La mano cambiò posizione, si fermò, con noncuranza, sul ginocchio di Edmée. Erano separati da ben tre coperte e tuttavia a lei pareva di sentire il calore di quella mano che cominciava impercettibilmente a palpeggiarla.

Edmée pensava alle fotografie che Mia aveva trovato nelle tasche del fratello e la sua paura cresceva, cresceva al punto da farla diventare livida. Ma non protestava; non si decideva a porre fine a quel supplizio. Ancora un po', poi avrebbe abbandonato il campo...

«Sei mai stata fra le braccia di un uomo?».

Aveva la pelle lucida, le fattezze grossolane e quell'aria impacciata e sicura al tempo stesso che lo rendeva penoso o ripugnante.

«Certo!».

In quel momento lo odiava talmente che aveva voglia di portarlo all'esasperazione.

«E non è bello?».

La grossa mano saliva, superava il ginocchio, era già sulla coscia snella mentre lui si chinava, avvicinando la testa a quella di Edmée.

Non aveva superato il limite? Di colpo, Edmée tirò fuori le mani dalle coperte e graffiò il viso dell'uomo, con rabbia, con cattiveria, decisa a lasciarvi dei segni.

«Schifoso!... Schifoso!... Schifoso!...» gridava.

Lui tentò invano di immobilizzarla: impossibile. Era nervosa come un cucciolo di gatto, e Fred fu costretto ad alzarsi, abbandonando la partita. Passandosi la mano sulla guancia, si accorse che stava sanguinando. Uscì sbattendo la porta, ma subito dopo, dal corridoio, sussurrò:

«Non dirai niente, vero?».

«Dirò quello che voglio».

«Edmée! Ti prego...».

«Schifoso!...».

«Ti giuro che vorrei...».

«Se ne avrò voglia dirò tutto!».

«Ti supplico!».

Non poteva vederla mentre, seduta sul letto, con il corpo scosso da sussulti, sorrideva di un sorriso soddisfatto e assaporava il sollievo che la pervadeva tutta come il calore del fuoco di legna.

 

Non disse niente, ma a colazione, dopo che gli altri furono tornati da messa, si divertì a guardare Fred con aria ironica.

«Ti sei ferito?» chiese Mia.

«Mi sono tagliato facendomi la barba».

La vita scorreva tranquilla, eppure serpeggiava l'inquietudine. Tutto era inquietante, perfino il silenzio profondo della casa quando non c'erano estranei a interrompere il ritmo troppo regolare della vita.

Quel giorno non pioveva. Nell'aria c'era addirittura uno spolverio di sole.

«Vai alla messa grande con Fred?» domandò ancora Mia, di cattivo umore perché la famosa borsetta, che aveva sperato di ricevere sabato, non era arrivata.

Fu una domenica ancora più desolata delle altre. Al solito Fred se ne andò, e non venne nessuno, né lo zio Louis, né uno dei guardiani che avesse voglia di una birra o di un bicchierino di acquavite. Non un ciclista lungo la strada né una chiatta sul canale.

Quel solicello pallido, che ogni tanto si smorzava come un lume a corto di olio, rendeva ancor più tangibile l'immensità del vuoto. E non c'era neppure il profumo confortante del coniglio o della gallina che in genere venivano cucinati la domenica, perché bisognava finire gli avanzi.

Appena terminata la colazione, Edmée andò a cercare Jef, ma non lo trovò. Non era nella capanna, dove infatti il fuoco era spento. Edmée si diresse perciò alla volta del canale pensando che stesse lavorando alla presa d'acqua, ma Jef non era neppure lì. Allora si sentì terribilmente sola. Non sapeva dove andare. Passò per tre volte vicino al pioppo che custodiva le pietre viola senza avere il coraggio di chinarsi. La terra non era stata smossa, il pezzetta di legno che aveva messo a mo’ di segnale era sempre al suo posto.

Alle dieci rientrò in casa. Al primo piano Mia rassettava le camere cantando. Accanto al camino, la zia vestiva le bambine.

La zia e Edmée non potevano parlarsi, e anche con le bambine la comunicazione era impossibile: non avevano ancora imparato il francese. Si sorrisero, di un sorriso che voleva essere affettuoso, quindi Edmée andò a gironzolare nel cortile.

Il garzone che strigliava il cavallo parlava solo il fiammingo, ma quando vide che Edmée apriva tutte le porte come se stesse cercando qualcuno fece un fischio e, con la striglia, le indicò il capanno in fondo alla corte.

Edmée non ci aveva mai messo piede. Era la fucina dove si ferravano i cavalli e veniva utilizzata così raramente che la doppia porta restava sempre chiusa. Ma quella domenica dal camino si levava un filo di fumo.

Edmée entrò e sentì dei rumori sommessi, come se qualcuno, colto di sorpresa, tentasse di nascondersi. Costeggiato un tratto di muro, scorse Jef, che appariva alquanto turbato e confuso.

«Cosa fai qui?».

Era la prima volta che si trovavano soli dopo il furto delle pietre. Jef esitava a guardarla e lei, dal canto suo, fece un giro per la fucina dove il fuoco era acceso.

«Hai perso la lingua?».

Notò che aveva lo sguardo fisso, ma non al modo di Fred. Al contrario. Sembrava sul punto di dirle qualcosa di cattivo, di insultarla.

Dalla tasca del suo grembiule di cuoio, Jef cavò un oggetto, si avvicinò a lei e, senza dire una parola, glielo mise a dieci centimetri dal naso.

«Che cos'è?».

Ricordava il puntale di un ombrello. Era un pezzo di metallo, o meglio due pezzi di metallo assemblati. Il fusto doveva essere di ferro, mentre la sommità era di un materiale più chiaro.

Jef guardava Edmée dritto negli occhi.

«Non capisco...» balbettò lei.

«Il parafulmine!».

Era ancora più incomprensibile.

«Non fare quella faccia! Spiegati!» gli disse ridendo.

«Il parafulmine della chiesa... La punta è di platino...».

Lo diceva senza enfasi, lasciando cadere le sillabe seccamente.

«Sono andato a prenderlo questa notte».

«Sopra il campanile?».

Lei rivide la chiesa fiamminga di mattoni, con la sua navata bassa, come schiacciata al suolo, e la torre campanaria sottile e slanciata come un pilone.

«Ma sei pazzo?».

Lo pensava davvero. Jef aveva un'aria troppo grave, soprattutto un'aria troppo distaccata, che mal celava un che di minaccioso o di accorato.

Lui non rispose. Con un ultimo colpo di pinza separò il platino dal supporto di ferro e mise il metallo prezioso in un recipiente che si stava scaldando sul fuoco. Poi andò alla porta, si assicurò che non stesse arrivando nessuno e si diresse quindi verso il fondo del capannone.

Sembrava più che mai lo scemo del villaggio. Nella sua figura tutto era anormale, e tuttavia lo sguardo era fermo, volitivo. Da sotto un mucchio di ferri vecchi trasse un cofanetto di legno grande quanto una scatola da guanti. Senza una parola, lo pose davanti a Edmée e andò a controllare il recipiente, alzando e abbassando il mantice sul fuoco.

Edmée era sconcertata. Il cofanetto, di legno di quercia ancora fresco, era lavorato come un pizzo, non c'era un centimetro quadrato di legno che non fosse scolpito. Jef aveva di sicuro copiato dei fiori stilizzati dai modelli di ricamo della sorella, riproducendo e intrecciando ripetutamente quei motivi. Al centro del coperchio aveva inciso una lettera: l'iniziale di Edmée.

«Jef!».

Per tutta risposta lui grugnì, perché era molto indaffarato.

«Che cosa vuoi fare con quel... quel coso...?».

Lui non disse niente, attizzò il fuoco e quando il metallo fu quasi liquefatto si avvicinò reggendo il recipiente con delle pinze. Che cosa voleva fare? Semplicissimo: fissare il platino sul legno, riempire di metallo prezioso le cavità che formavano l'iniziale del nome. Trafficò davanti a lei con la fronte imperlata di sudore, il volto impassibile. L'operazione non riuscì appieno ma nemmeno fallì del tutto. Qua e là il legno bruciò e si annerì lungo i bordi della lettera, mentre il metallo era fuoriuscito formando due piccole gibbosità non previste.

Ciò nonostante, Edmée trovò il risultato stupefacente, straordinario, e volle portarsi via il cofanetto.

«Non è finito. Devo ancora lucidarlo...».

Aveva sempre quell'aria ostinata e lo sguardo così duro che pareva stesse consumando una vendetta. Ma Edmée, che aveva paura di Fred, di lui non aveva paura. Jef borbottava e tutto finiva lì. Non avrebbe mai osato chinarsi e posarle le labbra sulla nuca.

Compiva imprese difficili, pericolose. Rubava le pietre del calice, si arrampicava tutto solo di notte in cima al campanile e poi, per ore e ore, di nascosto, simile a un marinaio su un veliero, scolpiva pazientemente il legno con la punta del coltello. Ma non la guardava neanche in faccia!

«Dammelo così».

«No. Così non è bello».

«E se io lo trovo bello?».

Non gli lasciò il piacere di completare l'opera, di rifinirla. Avvolse il cofanetto nello scialle e fece per andarsene. Giunta alla porta, prima di sparire, si girò comunque per gridargli:

«Grazie, Jef !».

Una volta in camera, guardando il cofanetto, pensò:

«Forse avrei dovuto dargli un bacio...».

Ma allontanò subito il pensiero e concluse:

«No! Non è il caso».

Contemplò vagamente l'idea di riporre nel cofanetto le pietre viola e gli altri oggetti proibiti che Jef le avrebbe procurato. Per il momento vi mise una fotografia che le aveva dato Mia in cui erano raffigurati Mia e Fred alla fiera di Neeroeteren. Una di quelle foto che vengono scattate quando si tira al bersaglio. Mia sorrideva melensa. Fred, il fucile in spalla, chiudeva un occhio.

Quella sera Edmée scese con fare da regina, dominando dalla scala la famiglia già seduta a tavola. Fred non osò neanche guardarla. Jef, con i gomiti sul tavolo, prese a mangiare ancora più ingordamente. Quanto alla zia, scialba come sempre, finì di cenare senza alzare lo sguardo e le frasi in fiammingo che ogni tanto proferiva restarono senza risposta, prive d'interesse com'erano.

 

Edmée aveva la febbre. La cugina più piccola, Alice, era tornata da scuola con la scarlattina. L'aria, il cielo, la terra erano malsani. Aveva piovuto troppo. E continuava a piovere, ormai si sguazzava nel marciume. In casa ammuffiva tutto. Si dovette buttare un prosciutto a metà, e nei letti le lenzuola erano impregnate di umidità.

Mia sosteneva che la cugina aveva l'influenza, ma Edmée lo negava perché voleva uscire comunque. Per la verità, lei stessa non capiva che cosa le stesse succedendo. Il raffreddore non passava, aveva il naso sempre più rosso e sensibile, gli occhi lucidi e un dolore sordo dietro le orecchie. Quando chiudeva gli occhi, al caldo, le pareva di avere la testa gonfia e piena di cose strane, inafferrabili.

Sapeva che tutto questo era più complicato di un semplice raffreddore. Aveva radici lontane, addirittura nella sua prima infanzia. All'età di quattro o cinque anni aveva crisi di sonnambulismo quasi tutte le notti: si rizzava di soprassalto sul letto, parlava a ruota libera guardandosi intorno terrorizzata perché la casa bruciava, o l'acqua saliva, o le pareti si avvicinavano e l'avrebbero schiacciata.

E ora le accadeva di essere sonnambula da sveglia. Chiudeva gli occhi e la solita ridda di immagini le turbinava nella testa. Certe sere era così nervosa e angosciata che non riusciva ad addormentarsi: eppure non avrebbe saputo dire che cosa la tormentasse.

Aveva la febbre e la coltivava amorevolmente. Anche adesso, per esempio, sedeva nella capanna davanti al fuoco che si era accesa lei stessa. Chiusa la porta a chiave, divorava le fiamme con gli occhi fino a farsi venire le vertigini. Il calore dei ceppi le penetrava nella carne, si mescolava intimamente a quello della febbre ed era qualcosa di voluttuoso e terrificante al tempo stesso.

Si stava forse ammalando di scarlattina? La prospettiva la turbava, aveva paura della morte. Perché non mandavano Alice all'ospedale? Tra l'altro, lì non era curata bene, visto che il dottore poteva venire solo una volta al giorno.

Le fiamme che scaturivano dalle pigne provocavano una fortissima incandescenza. Vere e proprie punte di fuoco trafiggevano gli occhi di Edmée, che si picchiettava le narici con il fazzoletto appallottolato in una mano.

Non aveva visto Jef per l'intero pomeriggio. Non sapeva dove stesse lavorando, ma non aveva bisogno di lui. Del resto, era sempre più taciturno e aveva un comportamento inquietante. Lo sguardo, soprattutto, pesava quanto una mano che si posi brusca su una spalla, e quando Edmée coglieva quello sguardo sobbalzava come se qualcuno l'avesse toccata all'improvviso mentre credeva di essere sola.

Fred, invece, sapeva dov'era. Chiuso nello studio, con la luce accesa benché fossero solo le tre del pomeriggio, stava facendo i conti per la dichiarazione dei redditi. A differenza di quello di Jef il suo sguardo non aveva niente di misterioso e tuttavia era Fred ad apparire nei suoi incubi, un Fred dalla carnalità ancora più forte, e che sprizzava salute da tutti i pori. L'asimmetria del volto si accentuava, gli occhi sembravano più sporgenti, e lui sorrideva di quel sorriso umido, fatuo e osceno al tempo stesso, che gli si stampava in faccia quando la incontrava in un corridoio.

A Mia la cosa non era sfuggita.

«Si direbbe che Fred sia innamorato di te!».

Innamorato! Mia conosceva quanto Edmée il significato di quella parola. Non aveva forse visto le foto sbiadite che il fratello teneva in tasca? E ignorava forse che Fred non lasciava passare una settimana senza correre a Hasselt?

Ebbene, quella settimana non ci era andato! Passava il tempo cercando di incrociare Edmée nei corridoi o di attirarla nello studio con qualche scusa. Una volta era riuscito, per caso, a metterle una mano sul petto, proprio sul seno destro, ed era parso stupito che lei non fosse del tutto piatta.

Era almeno la ventesima volta che Edmée ripensava a quel momento, e lo faceva di proposito, per ritrovare il moto di indignazione con cui aveva reagito e soprattutto l'irrigidirsi istintivo di tutto il suo essere.

Aveva caldo. Era come ubriaca di febbre, di luce rossastra e di calore. Le orecchie le ronzavano al ritmo del ronfare del fuoco.

Fuori, la pioggia cadeva, fluente e bianca. I vetri avevano perso ogni trasparenza. Le bastava guardare le goccioline per sentirsi inumidire gli occhi.

Le sue membra erano percorse da una smania, da un fremito involontario che lei chiamava presentimento, perché era lo stesso che aveva provato alla morte del padre, quando ancora la notizia non le era giunta. Attraverso le gocce d'acqua Edmée scorgeva una debole luce al primo piano della casa: la camera in cui veniva curata Alice. Un'altra lampada era accesa al pianterreno, quella vicino a Fred chino sui conti.

Che stava succedendo? Al mattino, vedendo arrivare una guardia in bicicletta, Edmée si era spaventata, ma l'uomo veniva solo per una questione formale a proposito di un bracciante.

Le pelli di scoiattolo non le interessavano più e non aveva più accennato a Jef di volerne fare un cappotto. E da una settimana non si avvicinava neppure al posto in cui aveva sotterrato le pietre viola ai piedi dell'albero. E non le importava neanche più di sapere dove aveva messo il cofanetto con la lettera incrostata di platino!

Stava covando qualcosa, come avevano detto di Alice: in lei la malattia si era manifestata solo dopo due giorni di spossatezza. E adesso aveva in testa una tale ridda di pensieri che le dolevano i due ossicini dietro le orecchie. E gli occhi, che bruciavano, coglievano solo immagini sfocate.

Si alzò, attraversò il cortile sotto la pioggia e, nel corridoio, afferrò il cappotto. Dalla porta dello studio filtrava uno spiraglio di luce. Edmée sentì Fred che si alzava, e vide aprirsi la porta.

«Dove vai?».

«A fare un giro».

La cucina per la prima volta era deserta, perché la zia e Mia si erano trasferite con il loro cestino da lavoro al capezzale di Alice. Fred stava per dire qualcosa ma cambiò idea e Edmée ne approfittò per uscire.

Non era ancora il crepuscolo ma già i contorni delle cose apparivano sfumati. Edmée si diresse verso il boschetto di abeti, nel punto in cui Jef aveva ucciso davanti a lei il primo scoiattolo e in cui, da allora, gli uomini della tenuta erano andati a far legna e l'avevano ammucchiata sotto gli alberi in cataste tutte uguali.

Sapeva che Fred la seguiva. Non aveva avuto bisogno di udire il cigolio della porta. Moriva di paura, ma continuava per la sua strada. Con il loro tronco bagnato, nero come la pece, i pioppi che scandivano i prati in tanti rettangoli avevano un'aria lugubre. Mentre il canale, che cambiava colore ogni giorno, ogni ora, adesso che tutto era scuro appariva uniforme e più chiaro del cielo, ed era di un bianco marezzato.

Edmée s'inoltrò nel bosco senza voltarsi. Al momento di addentrarsi nell'ombra degli alberi ebbe un brivido ma, con i nervi tesi, procedette fino alle cataste di legna tagliata.

Lì sotto si stava quasi all'asciutto. La pioggia non passava attraverso la cima nera degli abeti, se non qua e là, e in quei punti le gocce cadevano a una a una formando piccole pozze tra gli aghi rossicci.

Edmée sedette sui ceppi. Non voleva voltarsi verso la casa perché sapeva che Fred stava arrivando. Da dove si trovava poteva ancora indovinare, più che scorgere realmente, il debole chiarore che proveniva dalla camera di Alice.

Sugli aghi di pino i passi erano attutiti e Edmée si accorse che Fred si avvicinava solo quando fu vicinissimo a lei, così vicino che si sentì in dovere di parlare per rassicurarla.

«Stai pensando al tuo innamorato?».

Lei si voltò bruscamente, e lo guardò dritto negli occhi. Era più turbato del solito e pareva aver passato anche lui ore e ore a fissare le fiamme. Le si sedette al fianco. Lei si ritrasse. Lui si avvicinò ancora di più.

«Che cosa vuoi da me?».

Era più spaventata del giorno in cui era entrato nella sua camera, e anche la terra era più intrisa di pioggia di quella domenica, la natura più triste, più avvilita. E Alice era malata, la cucina vuota, Jef sempre in giro da qualche parte e mai nella loro capanna!

«Perché sei così cattiva con me?».

«Non sono cattiva».

Intuì che il braccio del cugino si stava alzando per circondarle la vita e si sentì come paralizzata, incapace di muoversi. Era la stessa sensazione di impotenza che la assaliva nei sogni, quando le gambe, inesplicabilmente pesanti come piombo, la tenevano inchiodata al suolo.

«Penso a te tutto il giorno! Non combino più niente di buono! Sei così diversa dalle altre ragazze...».

Suo malgrado, sulle labbra di Edmée affiorò un sorriso. Se n'era dunque accorto che lei era diversa dalle altre...

Fred teneva un ginocchio contro la gamba della cugina, che era tesa come la corda di un arco e così rigida da essere del tutto insensibile.

«Non riesco a dormire!...».

La afferrò per la vita, che era rigida come la gamba, e cercò di attirarla a sé. Lei gli resistette mentre lui balbettava, sconvolto, rosso, quasi paonazzo, talmente eccitato che il sorriso si era tramutato in una smorfia crudele di desiderio.

A un tratto, con uno sguardo, Edmée si rese conto di quel cambiamento e fu assalita dal panico.

«No! Lasciami... No!...» ansimò, cercando di liberarsi.

La faccia di Fred era sempre più vicina alla sua, le mani salivano lungo il busto, raggiungevano un seno, lo brancicavano.

«Mi fai male!».

Era terrorizzata come nei suoi incubi peggiori. Non sapeva più dov'era, né che cosa stava succedendo. Aveva paura. Voleva fuggire. Voleva gridare e non ci riusciva. A quel punto vide ancora il debole chiarore alla finestra della casa, ma forse era solo un'allucinazione.

«Non voglio!».

Una mano di Fred le schiacciava il seno, l'altra s'infilava ovunque, sfiorava il ginocchio, saliva sotto il vestito. E poi, terrificante, ecco il contatto di quella mano con la pelle nuda, giusto sopra la calza.

«Non voglio!».

Era mezzo rovesciata sotto di lui, sentiva i ceppi spezzarle le ossa e la mano che si accaniva brancicando maldestra.

E all'improvviso scoppiò a ridere, di un riso isterico, malsano. Rideva mentre quella grossa mano annaspava fra la biancheria, esplorava goffamente dappertutto, e lui diventava impaziente.

Vedeva i suoi occhi che la fissavano con una sorta di smarrimento. Diventavano sempre più cattivi mentre Fred emetteva sordi brontolii come un animale che vada continuamente a cozzare contro degli ostacoli.

Lei rideva e rideva, e il riso le indolenziva la gola. Contemporaneamente inarcava a tal punto la schiena da avere la testa più in basso del ventre e tutto il corpo duro come l'acciaio.

«Lasciami!».

Non riusciva più a smettere di ridere. Come se quel riso la trascinasse giù per una china. Avrebbe ancora voluto fuggire, singhiozzare, gettarsi a terra e piangere. E invece rideva, piantava le unghie nella nuca violacea di Fred!

Di colpo un taglio netto, come una fenditura nel marmo: tacque. Anche Fred s'immobilizzò. C'era stata un'altra risata, vicinissima a loro, accompagnata da un fruscio, da qualcosa di vivo.

Nel liberarsi, Fred fu così maldestro che rotolò a terra trascinando con sé la cugina in mezzo agli aghi di pino. Quando si rialzò aveva capelli e vestiti cosparsi di aghi.

Si guardò intorno per scoprire da dove provenisse quella risata: era così vicina che se ne rese conto solo dopo aver cercato a lungo nella penombra del bosco.

Era un ragazzino con gli zoccoli di legno verniciato, un berrettino di lana rossa e uno scialle legato intorno al busto. Aveva una faccia curiosa, un po’ rozza, le guance molto accese, la bocca larga e gli occhi azzurri pieni di pungente malizia.

Quando Fred tentò di afferrarlo, schizzò via con un balzo continuando a ridere e per qualche istante si sarebbe detto che non sarebbe mai riuscito a prenderlo. Proferiva frasi beffarde in fiammingo ripetendo caparbiamente la stessa parola, e l'aveva ancora sulle labbra quando la mano di Fred gli piombò sul collo.

Fred non rideva. Era anzi terribilmente serio, forse per sembrare meno ridicolo. A cinque metri da Edmée, scrollava il ragazzino, ringhiando una frase che alla mente di lei suonava:

«Giura di non dire niente!».

Il bambino guardava Edmée con aria complice.

«Giura di non dire niente!».

«"Neen!..."».

No! Glielo lanciava in faccia, con spavalderia. Non pensava al pericolo. Rideva! Forse anche lui era spinto da una forza oscura, la stessa che aveva spinto Edmée...

«Giura!».

«"Neen!..."».

«Parlerai?».

Il ragazzino prendeva Edmée a testimone. Era davvero uno strano ometto: i suoi tratti infantili avevano già espressioni da adulto. Quando cercava gli occhi di Edmée, il suo sguardo si faceva carezzevole, quasi amoroso.

«A chi lo racconterai?...».

Lei poteva solo intuire il senso di quel dialogo.

«Lo dirò a tutti!».

E Fred continuava a scrollarlo.

«Ti darò cinque franchi...».

«"Neen!..."».

Edmée rise di nuovo, in modo convulso. La sua paura stava scivolando via, proprio quando meno lei se lo aspettava. Rideva di suo cugino, di quella scena assurda, della posizione di tutti loro mentre Fred si ostinava a scrollare il ragazzino.

«Terrai la bocca chiusa, te lo dico io!».

«"Neen!..."».

La risata di Edmée contagiò il piccolo, che ne fu incoraggiato. Era anche lui in preda a una sorta di febbre.

«Terrai la bocca chiusa!».

«"Neen!... Neen!... Neen!..."».

Nel chiederglielo per l'ultima volta, Fred sollevò il bambino all'altezza della sua faccia.

«"Neen!... Neen!... Neen!..."».

Non si capiva più se fosse un riso o un singhiozzo e in quel preciso istante Edmée smise di ridere perché sentì arrivare il dramma e al tempo stesso seppe che era già troppo tardi per scongiurarlo.

Esasperato, confuso, angosciato, Fred scagliò letteralmente a terra il ragazzino imprecando in fiammingo.

Il corpo cadde metà su un ceppo metà sul morbido tappeto di aghi di pino. Ma la testa era andata a sbattere proprio sul ceppo. Il ragazzino non rideva più. Il suo corpo si muoveva adagio, come al rallentatore. Una mano si alzò verso la faccia ma si bloccò un centimetro prima e si udì un suono vago, una parola incomprensibile, forse solo un lamento.

Edmée si stringeva le mani sul petto. Fred era più alto, più grosso del solito. A testa bassa, fissava il bambino e gli disse qualcosa, ancora con astio. Non ci fu risposta. Allora fece un passo, parlò più gentilmente, con una voce che non era più la sua.

Fu Edmée a gridare, senza rendersene conto, perché quel pensiero le aveva appena attraversato la mente:

«È morto!...».

Gocce di sangue imperlavano i capelli biondi del ragazzino. Il berretto di lana rossa era per terra e uno zoccolo copriva ancora il piccolo piede storto.

Fred si passò le mani sul viso. Non osava più avvicinarsi e quando una mano del ragazzino si mosse di qualche millimetro per l'ultima volta, fu lì lì per fuggire.

Ora a fissare il corpo non erano in due, ma in tre. Fred e Edmée se ne accorsero quando Jef, che non avevano sentito arrivare, uscì dalla radura per chinarsi sul ragazzino.

Fu un sollievo. Quando si tirò su, Jef guardò verso la casa dove la tenue luce alla finestra bucava l'oscurità incipiente. A un tratto, appoggiato con i gomiti al tronco di un albero, Fred scoppiò a piangere, stupidamente. Il suo vestito era ancora cosparso di aghi di pino.

Alla fine Jef, che si dondolava come un orso al centro della radura, disse qualcosa a Edmée senza neanche girarsi verso di lei.

«Devi tornare a casa e non dire niente! Mi raccomando, non dire niente!...».

Fred alzò la testa di colpo e balbettò:

«Che cosa vuoi fare?».

«Prima di tutto bisogna che lei torni a casa e che non dica niente!».

Edmée si sentiva così debole che riusciva a stento a camminare. Le pareva che se avesse continuato a guardare quel corpo qualcosa in lei si sarebbe spezzato.

«Che cosa farete?» disse, quasi ripetendo le parole di Fred.

«Ci penseremo...».

Lei scappò via. Era allo stremo. Non si rese neppure conto da quale porta fosse entrata in casa. In cucina il fuoco era spento, ma non appena i suoi passi risuonarono sul pavimento al piano di sopra una porta si aprì e si udì la voce di Mia:

«Sei tu, Edmée?».

«Sì».

«Accendi il fuoco, per favore... Io devo badare ad Alice e tra poco è ora di cena...».

Edmée cercò un pezzo di carta, dei ramoscelli. Si aggirò a lungo nell'oscurità prima di trovare i fiammiferi, e finalmente, andando tastoni con la mano, li scovò sul camino.

Aveva freddo. Le fiamme che divamparono le fecero quasi paura.

«Metti subito l'acqua a bollire!» gridò ancora Mia.

Cigolio della pompa. L'aspirazione era difficoltosa e ogni colpo faceva venire in mente l'ansito di un malato. Edmée pensava che da un momento all'altro sarebbe caduta per terra, svenuta, e l'avrebbero trovata così, immobile sulle piastrelle grigie della cucina. Ma non svenne. Mia scese, e mentre puliva le verdure per la minestra disse che Alice aveva delirato per la febbre.

La porta d'ingresso si aprì. Si udirono dei passi dirigersi verso lo studio. Senza farsi vedere, Fred chiamò:

«Edmée!».

Si sforzava di avere una voce normale. Edmée fu tentata di non rispondere, di nascondersi in un angolo, di chiudersi in camera. Tuttavia entrò nello studio, dove la lampada era rimasta accesa. Fred stava finendo di darsi una ravviata ai capelli. Sul tavolo c'erano delle fatture e un libro contabile aperto.

«Jef dice che la cosa migliore è non fiatare. Chiudi la porta. Si tratta di una famiglia povera, con tredici figli... Di sicuro era lì per rubare la legna...».

Edmée non riusciva a pronunciare verbo. Fissava la pipa che Fred aveva lasciato sul bordo del tavolo quand'era uscito.

«Questa notte io e Jef sistemeremo tutto...».

Era troppo stanca. Tutto quello che si trovava davanti assumeva proporzioni mostruose, si animava di una vita ostile. E sempre, fra i suoi occhi e gli oggetti, c'era la macchia informe del berrettino rosso.

«Posso contare su...».

Avanzava solenne verso di lei, ma era impossibile vivere quella scena fino in fondo e Edmée uscì balbettando senza neanche accorgersene:

«Sì!... Va bene!... Va bene!...».

Aveva la nausea. Aveva la nausea! Era sul punto di vomitare il pranzo e intanto Mia, in cucina, tagliava grosse fette di lardo.

«Che cos'hai?».

«Io? Niente...».

«È colpa di Fred?».

«No. Credo di essermi ammalata».

Ma non voleva salire perché in camera sua sarebbe stata sola. Preferì andarsi a sedere accanto al fuoco, su uno sgabello basso, e se ne stette lì con la testa fra le mani, scossa dai brividi, mentre Mia sbucciava le patate e l'orologio scandiva ossessivamente i secondi.

 

La porta si richiuse adagio e Edmée sentì i passi del dottore lungo il corridoio, quindi sulla scala. Sapeva che poi sarebbe entrato in cucina e la zia avrebbe stappato la brocca di acquavite. Da sotto, infatti, cominciò a salire un bisbigliar di voci e Edmée, scostate le coperte, posò i piedi nudi sul pavimento. Seduta sulla sponda del letto, poteva vedersi nello specchio e rivolse alla sua immagine un languido sorriso da malata.

Si trovava bella, patetica. La carnagione più che mai compatta, i capelli una nuvola lieve. La camicia da notte scopriva la punta di un seno e Edmée lo osservò con aria seria, sorrise di nuovo perché anche quello era cambiato, sembrava diventato più roseo, più vivo, come fosse fiorito.

Fuori il tempo era luminoso. Quando andò alla finestra - nel punto in cui aveva l'abitudine di mettersi in ginocchio su una sedia - e appoggiò la fronte al vetro, scorse giusto sulla cima dei pioppi un sole di un giallo acidulo da caramella.

E tutto il paesaggio aveva tonalità da caramella. L'erba, a perdita d'occhio, era di un verde pallido, tenero, fresco. Nell'orto i fiori dei meli si tingevano di lievi sfumature rosate. La natura era acerba, come l'infanzia. Perfino i piccoli canali, che tagliavano i prati in tanti rettangoli, avevano qualcosa di così chiaro e asprigno che l'acqua oltre a essere fredda pareva dovesse avere anche un sapore.

Nella camera di Edmée avevano sistemato una stufa e lei, quando appoggiava le tempie al vetro della finestra, assaporava il contrasto fra quell'intenso calore e il fresco che avvertiva fuori. Nel prato vicino pascolavano le mucche, molto più in là le pecore si muovevano in gregge, strette le une alle altre.

Era la fine di marzo...? O già l'inizio di aprile...? Non lo sapeva con precisione. I giorni si assomigliavano tutti e lei era stata malata, sul serio.

Avrebbe voluto non pensarci più, non guardare il bosco di abeti, né, soprattutto, seguire con gli occhi la rete di canali che partivano dalla presa d'acqua e irrigavano tutti i terreni. Invece ci pensava continuamente ed era forse per questo che riusciva a restare malata.

Perché voleva essere malata! Non voleva guarire, né tanto meno tornare a vivere nella casa, in mezzo agli altri. Si rintanava nel suo angolino, nel suo letto, nella sua camera dove, a poco a poco, si era creata uno scenario tutto suo. Non aveva bisogno di molto. Un fiore della carta da parati, tanto per dire, quello che quando era coricata si ritrovava davanti, giusto sopra il suo naso, aveva una macchia rosa più degli altri. E, socchiudendo gli occhi, quella macchia diventava la faccia dello zio Louis, così viva che c'era da stupirsi di non riconoscerla più appena li si apriva bene.

Nella ghisa della stufa, poi, scorgeva delle nuvole chiare, e una crepa si trasformava nel campanile di una chiesa. Per di più, Edmée possedeva una grande scatola con i suoi oggetti personali e quasi ogni giorno li passava in rassegna a uno a uno.

Il dottore non si capacitava del fatto che la guarigione fosse così lenta perché, in definitiva, Edmée aveva avuto una semplice bronchite. Alice, per esempio, era guarita dalla scarlattina in tre settimane e da un pezzo aveva ripreso ad andare a scuola con le sorelle.

Ma il dottore non sapeva. Nessuno sapeva. Edmée li guardava quasi con commiserazione, perché la cosa sorprendente, ingiusta, era che in fondo avesse avuto solo una bronchite!

In qualsiasi momento, quando lo avesse voluto, le sarebbe bastato mettersi a letto e pensare a una certa cosa per farsi venire la febbre. Ed è quello che avrebbe fatto alla prossima visita del dottore, per non sentirlo dire:

«Credo che ormai potrebbe scendere e distrarsi un po’ con i suoi cugini».

No! Non poteva distrarsi con loro. Era troppo atroce!

La sera del ragazzino, come la chiamava tra sé e sé, avevano cenato senza la zia perché Alice aveva avuto un violento accesso di febbre. Da giù la si sentiva parlare, pronunciare parole sconnesse in fiammingo. Fred e Jef mangiavano in silenzio, con gli occhi fissi sulla tavola. Mentre Edmée non aveva toccato cibo, e Mia era stata l'unica a parlare senza rendersi conto che c'era qualcosa di strano nell'aria.

Una volta in camera, Edmée si era seduta sul letto, al buio, tutta vestita. E aveva cominciato a tendere l'orecchio, a spiare i rumori. Sapeva che Fred e Jef dovevano uscire e ne conosceva la ragione. Voleva andare con loro. Ne sentiva il bisogno.

Erano ciascuno nella propria camera con l'orecchio teso come lei, in attesa che gli altri, in casa, fossero addormentati. Stranamente, la tempesta si era calmata di colpo. A tratti la luna faceva capolino fra nuvole soffici come batuffoli e la pioggia era cessata; restavano solo le gocce che dal tetto cadevano sul davanzale delle finestre.

Alice aveva delirato a lungo. La zia doveva essersi addormentata al suo capezzale. Anche Edmée si era assopita, e quando si era svegliata di soprassalto non aveva udito alcun rumore.

Si era spaventata. Era corsa alla finestra e da lì, spalancando gli occhi, aveva scorto una minuscola luce che si muoveva in mezzo ai prati.

Sapeva di cosa si trattava. Senza neanche darsi la pena di buttarsi lo scialle sulle spalle, era uscita quatta quatta e fuori aveva di nuovo avuto paura - paura di tutto, della solitudine, del buio, di quello che succedeva là, nella pianura. Aveva corso a perdifiato attraverso prati fradici di pioggia sprofondando con i piedi nel fango. A tratti non vedeva più quella lucina, e all'idea di restare sola veniva assalita dal panico.

Ansimava. Pensava solo a raggiungere i cugini, o chiunque altro fosse. Alle sue spalle, la casa era irrimediabilmente nera, come senza uscita.

All'improvviso, molto prima del previsto, era andata a sbattere contro Fred.

«Ssst!...».

Era rimasta immobile, con la sensazione di essere imprigionata in un blocco di ghiaccio trasparente. Era tutt'occhi, tutt'orecchie, e batteva i denti.

Si trovavano alla presa d'acqua del canale principale, ai piedi della scarpata. Fred e Jef si stagliavano a due metri l'uno dall'altro e Edmée tentò di capire che cosa stessero guardando così, senza muoversi, senza parlare. Poco dopo percepì un mormorio di acqua corrente e si accorse che nello stretto canale l'acqua, nera nell'oscurità, defluiva. Cercò con lo sguardo il corpo del ragazzino, ma vide solo la vanga che i cugini si erano portati dietro.

Era tutto irreale. Fred e Jef erano ancora vivi? O non erano piuttosto due fantasmi?

L'acqua scorreva. Il livello calava. Passò un'ora interminabile senza un gesto, senza una parola, un'ora glaciale, perfida. Dopodiché Jef si mosse e si erano tutti talmente abituati all'immobilità che la cosa parve strana.

«Ci siamo!» disse Jef.

Nient'altro. Nel piccolo canale non c'era più acqua e si vedeva il fango del fondo. Jef scese con la vanga, e lentamente scavò una buca oblunga, mentre Fred rimaneva fermo dove si trovava.

Jef era nel fango fino alle ginocchia e continuava a sprofondare. Dietro di lui, una vecchia scatola di conserva pareva incrostata nella fanghiglia.

«Ci siamo!» ripeté.

Edmée, che stava vicino a Fred, lo sentì sussultare, sottrarsi alla stretta del silenzio, dell'immobilità. Ma doveva fare uno sforzo per camminare. Percorse non più di tre metri, si chinò, si drizzò in piedi reggendo qualcosa sulle braccia, mentre Edmée si premeva il pugno sulla bocca.

Fintanto che Fred non ebbe passato il suo fardello a Jef, fintanto che questi non ebbe deposto il corpo nella buca, Edmée non riuscì a respirare e allora seppe che si sarebbe ammalata. Che lo voleva. Voleva avere la febbre per non pensare più!

Aveva freddo, mal di testa e mal di gola. Per qualche istante non vide niente benché tenesse gli occhi aperti, e quando riacquistò la percezione delle cose Jef stava aprendo la saracinesca e l'acqua ne scaturiva gorgogliando.

Perché Fred, fatti pochi passi, si sdraiava a terra lungo disteso sulla schiena? Rimase così per tre interminabili minuti, si rialzò gemendo e solo più tardi Edmée capì che il cugino era stato sul punto di svenire.

Era tutto finito. L'acqua era tornata al suo livello normale, appena agitata da piccole onde che riflettevano i raggi della luna. Attraversarono i prati fradici di pioggia camminando a fatica verso la casa avvolta nell'oscurità. Nel corridoio, senza una parola, si tolsero le scarpe.

Il giorno dopo Edmée stava molto male. Febbricitante, con la faccia arrossata e gli occhi lucidi, scrutava dal letto il dottore che la visitava. Aveva battuto i denti tutta la notte e anche adesso non smetteva di tremare e rabbrividire.

«Spero si tratti solo di bronchite».

Lei udì. Perché sentiva tutto, vedeva tutto, si rendeva conto di tutto. Non voleva avere la bronchite, ma una malattia molto più grave, la meningite ad esempio! E per questo si sforzava di pensare continuamente al boschetto e al canale.

Le facevano prendere sciroppi, tè bollente, e il suo corpo aveva l'incandescenza del fuoco che aveva fissato il giorno prima fino a farsi venire le vertigini. Sudava, e il letto s'impregnava della sua vita, del suo calore, del suo odore. Dopo tre giorni, il dottore disse sottovoce a Mia:

«Tutto bene. Ho temuto che fosse polmonite, ma il pericolo mi sembra scongiurato».

Edmée lo sentì e allora desiderò avere la polmonite. Rimasta sola, si alzò, vacillante, con piccole macchie di luce che le danzavano davanti agli occhi. In camicia da notte riempì d'acqua il catino e vi si mise dentro in piedi. L'acqua era gelida. Il suo corpo bruciava. Sentiva il freddo salire, raggiungere le caviglie, poi le ginocchia.

Ma non le venne la polmonite. E neppure la bronchite peggiorò, il che non impediva al dottore di essere preoccupato, perché adesso Edmée era debolissima, non reagiva agli stimoli e non voleva saperne di lasciare il letto.

Era stato in quei primi giorni che gli oggetti, nella camera, avevano preso a vivere di vita propria e che Edmée aveva scoperto la faccia dello zio Louis in un fiore della carta da parati.

Adesso faceva in modo di popolare ogni angolo della stanza. Stabiliva una serie di piccole abitudini, come l'andare ogni giorno alla finestra quando arrivava il postino sulla sua bicicletta scintillante. Era convinta che finché costui non avesse portato un plico ufficiale con tanto di sigilli non ci sarebbe stato alcun pericolo.

Dai fatti del bosco erano già passati due mesi. Edmée non ci pensava più con la stessa intensità, ed era anzi piuttosto restia a ricordarne i particolari.

A ossessionarla era il rumore dell'acqua che, nella notte, riprendeva il livello abituale, e per tutto il giorno aveva davanti agli occhi i canali argentei che si stendevano, rettilinei, in mezzo al verde pallido dei prati.

L'acqua era così limpida e chiara che veniva voglia di berla nel cavo della mano, come a una sorgente. E dire che, prima di arrivare nei canaletti, passava su...

Ne ricordava a malapena la forma, l'aspetto fisico, ma il berrettino di lana rossa quello sì, lo ricordava chiaramente, e udiva ancora la vocina infantile che ripeteva ridendo:

«"Neen!... Neen!... Neen!..."».

All'inizio, non aveva voluto lasciar entrare in camera né Jef né Fred. Ma un giorno, svegliandosi, trovò Fred fermo sulla soglia, così mogio, titubante, umile che gli fece cenno di farsi avanti. Non era né più magro né più pallido. Ma non era colpa sua se aveva una carne così soda, così vitale. Comunque, non si muoveva con la stessa esuberanza di sempre.

«È da un pezzo che voglio chiederti scusa».

Allora Edmée capì perché lui la guardava con pietà. Doveva essere così piccola, nel letto, così minuta da fargli credere di essere lì lì per morire! Era commosso fino a star male, fino a dover voltare la testa per nascondere le lacrime!

«Perdonami, ti prego...».

Lei non disse niente, finse di essere tanto stanca da non poter parlare. Abbozzò un gesto dolente e chiuse gli occhi, mentre lui restava lì, turbato, a contemplarla, per poi andarsene in punta di piedi.

Due giorni dopo, tornando da Hasselt, le portò un paio di pantofoline di pelle blu con i profili dorati. Entrò in camera la mattina presto senza far rumore, senza sapere che lei lo stava osservando di sottecchi, posò le pantofole sullo scendiletto e uscì camminando a ritroso.

La zia saliva da Edmée almeno due volte al giorno, e in genere era lei a portarle il brodo di gallina. Aveva imparato qualche parola di francese che pronunciava senza riuscire a mettere insieme una frase compiuta.

Ma era davvero sincera quando assumeva quell'aria compassionevole? Non nascondeva forse qualche altro pensiero? Edmée aveva paura di quello sguardo smorto che non si fermava mai a lungo su di lei e che evitava il suo.

Per di più la zia aveva l'abitudine di arrivare senza far rumore perché lasciava gli zoccoli in fondo alla scala. Una volta Edmée, che era alla finestra, la sentì proprio mentre stava aprendo la porta per entrare ed ebbe giusto il tempo di buttarsi, ansimante, sul letto. Chissà se la zia se n'era accorta... In ogni caso, non aveva detto nulla. Aveva mescolato il brodo con il cucchiaio per farlo raffreddare sostenendo poi Edmée per le spalle mentre lo beveva.

Solo Mia era rimasta la stessa, tanto da risultare insopportabile. Aveva finalmente ricevuto la sua borsetta, che conteneva cipria, rossetto e fard, ed era salita a metterseli in camera di Edmée, davanti allo specchio.

Non stava mai zitta. Rideva. Raccontava che all'uscita dalla messa il figlio del maniscalco le aveva dato un bigliettino e voleva sposarla. Così truccata, la sua faccia non aveva più niente di umano, era perfino senza età. E continuava a parlare. Chiedeva a Edmée il permesso di frugare nella scatola di cartone, e andava in estasi davanti a ogni oggetto.

«Lo zio Louis dice che sei esaurita e che avresti bisogno di un cambiamento d'aria» disse mentre si provava un colletto di pizzo finissimo che Edmée aveva ereditato da sua madre.

Edmée la guardava preoccupata e si domandava che cosa volessero dire quelle parole. Intendevano forse sbarazzarsi di lei?

Anche lo zio Louis venne a trovarla, tre o quattro volte. Si sedeva accanto al letto fumando il sigaro e guardandola con aria paterna.

«Va meglio?».

«Non so».

«Prova a dirmi esattamente dove hai male. Anch'io ho studiato medicina come tuo padre e, insomma, ho come l'impressione che tu ti lasci andare. Dovresti reagire, invece!».

La prima volta che le parlò così, Edmée scoppiò a piangere, senza sapere perché, e lui ne fu molto dispiaciuto, cercò un po’ goffamente di consolarla.

«Su, su! Non volevo certo rattristarti. I cugini sono gentili con te?».

«Sì».

«Allora bisogna guardare le cose in faccia».

La zia gli aveva detto qualcosa? Il suo sguardo insistente metteva a disagio Edmée.

«Mia sorella fa quel che può. È una grande disgrazia che suo marito sia morto... In una casa come questa ci vuole un uomo. Fred è un bravo ragazzo...».

Di punto in bianco si alzò.

«Su! Coraggio, piccola! E soprattutto fatti forza, che diamine!».

Ma appena lui usciva, Edmée tornava a essere lucida e fredda, fissava il soffitto e giurava a se stessa di non guarire.

Quello che veniva a trovarla più raramente era Jef. E, una volta in camera, non sapeva dove mettersi e cercava il primo pretesto per andarsene. Oppure, per darsi un contegno, ricaricava la stufa fino all'orlo, o attizzava il fuoco con troppa foga provocando una pioggia di carboni ardenti.

Un giorno le portò un copripiedi che aveva confezionato lui stesso con pelli di puzzola, suscitando in Mia un moto di invidia poiché aveva creduto che le pelli sarebbero servite a fare una pelliccia e un manicotto per lei. Jef, infatti, aveva consegnato il regalo di fronte alla sorella. Non si presentava mai quando Edmée era sola.

«Vai sempre nella capanna?» domandò lei.

Fu Mia a rispondere:

«Ci passa quasi tutta la giornata. Chissà che diavolo combina là dentro!».

Era l'unica cosa che Edmée rimpiangesse: la capanna, con il fuoco che faceva bruciare gli occhi e riempiva i polmoni di un odore che dava alla testa.

Ma si arrangiava in altro modo; per esempio, pretendeva che la ghisa della stufa fosse sempre incandescente. Anche la stufa produceva un crepitio, e lei era investita da ondate di calore. Ne provava un gran piacere, soprattutto quando incollava la fronte al vetro gelato della finestra e il fuoco le scaldava la schiena.

Nonostante la primavera, fuori faceva fresco. I colori erano tutti colori freddi. L'orizzonte si era allargato e si riusciva a vedere più lontano, ma si trattava sempre e solo di prati identici, suddivisi in rettangoli uguali da filari di pioppi e canali d'argento.

Il bambino era sempre lì, a soli seicento metri dal canale lungo il quale cinque o sei volte al giorno passavano i battelli. Edmée non ne aveva mai parlato con nessuno, neanche con Jef o con Fred. Non sapeva che cosa se ne dicesse in giro, ma le pareva ancora di sentire la risata via via più nervosa del ragazzino che, alla fine, cercava di vincere la paura ripetendo:

«"Neen!... Neen!..."».

Sparita la febbre, Edmée non riusciva più a esaltarsi. Adesso semmai era il contrario, e forse Mia aveva detto la parola giusta: esaurimento.

Non mangiava, di proposito! Si nutriva di brodo di gallina e di biscotti. Quando camminava, sentiva tutta la sua debolezza e questo le faceva piacere. Non voleva guarire! Non voleva più sedere insieme agli altri al tavolo della cucina!

Fra le pareti della sua stanza aveva un angolino personale, impregnato di cose sue, con quella finestra che le offriva una grande porzione di spazio tutta per lei. Quanto alla casa, ne seguiva la vita minuto per minuto. Coglieva ogni rumore, anche quelli che ad altri sarebbero sfuggiti. Conosceva il loro significato. Quando Jef si alzava un'ora prima del solito, lei sapeva che era mercoledì e che lui andava a cuocere il pane. Quando Fred spostava spazzole e flaconi voleva dire che stava partendo per Hasselt o per Bruxelles, da dove le avrebbe portato qualcosa, dei dolci o un oggetto, come lo specchio a mano con la montatura di tartaruga che lei teneva sotto il cuscino.

Il dottore non ci si raccapezzava, consigliò una radiografia per avere le idee più chiare, ma Edmée non ne volle sapere. E a ogni visita le ripeteva:

«Faccia uno sforzo, scenda. Anche solo per un'ora!».

Ma lei non voleva scendere, né fare sforzi. Voleva essere malata e starsene nel suo angolino.

Aveva la sua finestra, il suo spicchio di cielo, la sua scatola di cartone piena di cose che le appartenevano, e i muri, i mobili, tutti gli oggetti che si erano impregnati di lei.

Il suo corpo era più sottile. E se i fianchi erano solo accennati, i seni le sembravano diventare ogni giorno più rotondi, e soprattutto più vivi. Allora si ripiegava su se stessa voluttuosamente, rimuginava pensieri, faceva passare sulla retina immagini segrete fino a che Mia, ingombrante e rumorosa, non veniva a domandarle se il nuovo cappello le stava bene o se si era messa troppa cipria.

Alla fine, una parola magica che pareva evocata dalle tinte acidule del paesaggio, dal mormorio dell'acqua nei piccoli canali, dal fremito dei pioppi e da un velo leggero di umidità cominciò ad aleggiare, una parola che a volte, verso mezzogiorno, spingeva Edmée ad aprire la finestra e a respirare profondamente, il corpo nudo sotto la camicia da notte e percorso da brividi: Pasqua!

Le bambine non andavano più a scuola e giocavano all'aperto, accovacciate nell'erba vicino a un fornello in miniatura o intente a cullare una bambola. Le mucche restavano tutta la notte nei campi e le si sentiva muggire fin dal sorgere del sole. I prati erano cosparsi di puntini bianchi e piccole pastiglie gialle: margheritine e botton d'oro.

In casa le donne confezionavano abiti estivi. Le bambine avrebbero abbandonato il nero integrale per il bianco e nero del mezzo lutto. E Mia pensava a un soprabito grigio perla.

Il dottore veniva solo il sabato e restava per lo più in cucina a farsi un cicchetto.

«Credo proprio che Edmée dovrebbe uscire; l'aria fresca le farebbe bene...».

Con fare dolente Edmée chiedeva che le si accendesse il fuoco in camera per sentire ancora nella schiena quel calore che la pervadeva tutta durante l'inverno e sulla fronte il vetro freddo della finestra, per avere davanti agli occhi il paesaggio acerbo della primavera con il suo verdeggiare d'erba fresca, il fogliame appena abbozzato e i ruscelli che correvano, argentei, dopo essere passati laggiù su...

Rivedeva i due cugini immobili nel buio, con i piedi nel fango, mentre l'acqua calava; e allora le sembrava che tutta quell'acqua, che di diramazione in diramazione, di saracinesca in saracinesca, si perdeva nei prati in sottili rivoli luccicanti, fosse avvelenata, perché passava, limpida e gorgogliante, sul ragazzino dal berretto rosso che non aveva smesso di ridere tanto era impaurito.

 

Con l'estate la vita di fuori penetrò nella casa da tutti i pori. L'aria della pianura entrava dalle finestre spalancate e usciva dalle porte senza aver avuto il tempo d'impregnarsi degli odori domestici. Al mattino la puzza del lardo e del grano saraceno si sentiva appena.

Anche i prati avevano cambiato aspetto. Fino a qualche settimana prima in una piccola macchia all'orizzonte si riconosceva la bicicletta del postino o la sagoma di una guardia. Adesso, invece, c'era gente dappertutto, sconosciuti giunti da paesini lontani per falciare il fieno.

La porta della taverna era sempre aperta, a volte anche di notte, perché già alle quattro del mattino c'era un gran tramestio di scarpe chiodate, un andirivieni di uomini intorpiditi che chiedevano da bere a gran voce.

Niente più intimità, né vita privata. La gente entrava in cucina e si sedeva a chiacchierare con la zia che intanto lavava i piatti. Mia serviva i clienti e adesso si metteva cipria e rossetto tutti i giorni.

Edmée si aggirava come un'anima in pena stringendosi nello scialle nonostante il caldo. Non poteva più restarsene in camera perché non era abbastanza malata, ma poteva sempre tossire, guardare a cose e persone con aria dolente. Tutti notavano il suo pallore e le ombre bluastre sotto gli occhi.

Non sapeva dove stare. La capanna era occupata dai quattro braccianti che per tutto il giorno caricavano il fieno e a mezzogiorno vi si piazzavano per farsi da mangiare. Il sole riduceva le distanze. Per andare a Neeroeteren non si attaccava più il calesse; si saltava in sella a una bicicletta o ci si avviava a piedi. Il paese non era forse laggiù, subito dopo il grande bosco di abeti?

Ci andava anche Edmée, ogni tanto, con passo strascicato da convalescente. La casa del ragazzino era la prima a destra sulla strada per Maeseyck, una casa bassa, a un piano, con i muri irregolari dove si aprivano solo due finestre.

D'inverno, quando la porta era chiusa, doveva esserci buio pesto là dentro. Passandoci davanti, s'intravedeva brulicare qualcosa nella penombra, il luccichio di due catini di rame appesi sopra il camino e un piccolino col sedere nudo che si trascinava per terra.

C'erano altri figli, nove o dieci, praticamente ragazzi di strada, a parte una femmina che faceva la sarta.

Dovevano aver già dimenticato il figlio scomparso. Per un po’ lo avevano cercato nel canale principale, immaginando che ci fosse caduto dentro mentre giocava. Poi avevano pensato che il corpo poteva essere stato portato lontano da una chiatta. Adesso, con l'arrivo dell'estate e lo stoccaggio del fieno, non ci pensavano più.

Di solito Edmée andava fino alla chiesa percorrendo una bella strada fiancheggiata da case fiamminghe. Prima superava la panetteria, che mandava un profumo delizioso e caldo; poi, più avanti, sentiva il martello del maniscalco.

«Lo hai visto?» le chiedeva Mia al suo ritorno.

Mia era innamorata. Aspettava con impazienza la domenica per far scivolare un bigliettino in mano al giovane Stevelynck, che a sua volta gliene dava uno lasciandola in grande agitazione per tutta la durata della messa.

Stevelynck figlio faceva il maestro. Era appena stato designato ad Anversa, ma si trovava lì in vacanza. Un ragazzo timido, un po’ goffo. Ogni tanto si spingeva fino alle Irrigations in bicicletta, con i pantaloni stretti alle caviglie dalle mollette. E tutte le volte, con la stessa aria disarmante, diceva che faceva caldo, o che aveva sete.

Non appena lo scorgeva da lontano, Mia mollava tutto per precipitarsi in camera e tornar giù con la faccia incipriata e tracce di sapone sulle orecchie.

«Si veste male» diceva Edmée. «Si capisce subito che è un contadino».

Allora litigavano, e per qualche ora si tenevano il broncio.

Fred e Jef stavano fuori tutto il giorno. Da ogni parte c'erano i braccianti da sorvegliare, senza contare le operazioni di carico alla stazione di Neeroeteren. Non sempre i due fratelli si dimostravano all'altezza. Era evidente che qualcosa non andava per il verso giusto.

In due occasioni, ad esempio, si erano verificati errori nelle spedizioni. Un'altra volta un bracciante si era rotto una gamba cadendo da un carro e a quel punto era venuto fuori che non era stato debitamente assicurato.

In questi casi si vedeva arrivare lo zio Louis, che si chiudeva nello studio con Fred. Quando dopo un po’ la porta si riapriva, il fumo era tale che non si riusciva a respirare. Fred aveva un'aria da cane bastonato, lo zio andava avanti e indietro a grandi passi e dava sempre più l'impressione di essere il vero padrone di casa. Davanti a Edmée si fermava, le sollevava la testa prendendola per il mento e la osservava con occhio critico.

«Va meglio?».

«Continuo a tossire».

Lui borbottava qualcosa. In cucina ficcava il naso dappertutto come un proprietario che torni da un viaggio, e la zia ne aveva paura.

Un giorno passò un dito sul viso incipriato di Mia e disse una parola in fiammingo, una sola, ma sufficiente a fare avvampare le guance della nipote.

Non sembrava soddisfatto. Anche quando guardava i prati disseminati di braccianti all'opera aggrottava la fronte e si tormentava i baffi grigi.

«Quello che cos'è?» chiedeva, indicando un camion in lontananza su cui due uomini stavano caricando il fieno.

«Ho un cavallo malato,» rispondeva Fred «e per l'ordine Pesson ho dovuto noleggiare un camion a Neeroeteren».

«Sessanta franchi al giorno?».

«Cento!».

Lo zio sospirava, e tornava nello studio per dare nuove istruzioni. Cos'era che non andava? Tutto e niente! Edmée vedeva che Fred ce la metteva tutta. Quanto a Jef, che sfacchinava più di due uomini messi insieme, si alzava prima dell'alba e si portava dietro pane e companatico, in modo da non dover tornare a casa per pranzo.

Non era stata una buona annata. L'eccesso di pioggia aveva danneggiato parte del fieno.

Ma questo era già successo. Nuovi invece erano tutti quei piccoli incidenti nefasti, come la gamba fratturata del bracciante non assicurato, la malattia di un cavallo proprio al momento dello stoccaggio e quell'errore inesplicabile per cui un vagone era stato mandato a Mons invece che a Gand. E cose ancora più piccole, inezie, ma che bastavano a scoraggiare tutti, a eccezione di Mia.

Non c'era un briciolo di vitalità, di slancio. Fred prendeva a schiaffi le bambine solo perché, giocando, gli si mettevano fra i piedi e la zia non diceva niente, si faceva ancora più spenta, più scialba, come se volesse offrire minor presa alla sventura.

Un giorno di agosto ci fu una violenta discussione tra Fred e lo zio Louis. Erano nello studio e, dalla cucina, si coglieva il mormorio delle loro voci. Poi il tono si fece più alto e si udì il rumore di una sedia smossa.

La zia continuava a sbrigare le sue faccende, ma Edmée si accorse che tendeva l'orecchio. Arrivavano solo certe parole fiamminghe: era Fred che parlava con foga. All'improvviso la porta dello studio si aprì, ma nessuno entrò in cucina. Si sentì soltanto la macchina dello zio che si metteva in moto.

Se ne discusse ancora per ore, perché Fred aveva mandato a chiamare il fratello che stava lavorando da qualche parte nella tenuta. Era in preda a una grande eccitazione, minacciava di andarsene e affermava di essere perfettamente in grado di guadagnarsi da vivere, non era più un ragazzino e non doveva subire, come uno scolaretto, i rimproveri di un parente.

La zia lo ascoltava sbattendo le palpebre. Siccome anche Edmée lo ascoltava, Fred traduceva per lei la maggior parte delle sue frasi, oppure mescolava francese e fiammingo. Jef, appollaiato su uno sgabello, guardava per terra dondolando il testone e giocherellando meccanicamente con un pezzetto di legno.

«Gli ho detto che, se abbiamo delle difficoltà, queste non sono nate oggi. Il fatto è che nostro padre ce le nascondeva. È stato lui a mettere delle ipoteche, a nostra insaputa, e a firmare cambiali per ottantamila franchi. Vorrei vedere come se la caverebbe se fosse ancora qui! Che cosa ci posso fare, io, se aveva un'amante?».

Non riusciva più a trattenersi. Era terribilmente teso, tartagliava persino, tanto le parole gli si affollavano in gola.

Era la prima volta che il padre veniva evocato a quel modo. Nella taverna Mia serviva da bere e si sentiva il tintinnare dei bicchieri. Senza una parola, la zia andò a sedersi accanto al camino spento, e nascondendo la testa nel grembiule pianse sommessamente, in silenzio, con piccoli sussulti delle spalle.

Allora Jef si alzò, gridò qualcosa e Fred si rizzò a sua volta, guardando il fratello con durezza. Erano sul punto di azzuffarsi. Jef si era messo vicino alla madre, come a volerla difendere. Fred cercava un aiuto, un appoggio, ma i suoi occhi incontrarono soltanto lo sguardo sfuggente di Edmée.

Poi, nel silenzio che preludeva allo scontro fra i due ragazzi con le mani già strette a pugno, si udirono i lamenti della zia che gemeva con la testa nel grembiule. Allora il volto di Jef, quel volto tagliato rozzamente in una materia troppo dura, apparve trasfigurato, sconvolto, segnato da un'espressione di compassione infantile. E contemporaneamente la sua grossa mano si posò sull'esile spalla della madre. Sembrava volerla cullare e andava ripetendo, quasi senza rendersene conto:

«La!... La!... La!... Mami!... La!...».

Dalla finestra aperta entrava il profumo del fieno tagliato. Fuori cantavano uccelli e galli, un cavallo nitriva, un carretto passava con fracasso sulla strada sassosa.

Ora anche Fred guardava per terra, e il suo corpo sembrava meno solido, lo sguardo trasognato.

Solo Edmée restava fredda a osservarli tutti uno per uno. E per ricordare loro che esisteva anche lei, che c'era qualcos'altro al mondo oltre a quelle piccole beghe di famiglia, si mise a tossire in modo convulso, fingendo poi di cercare tracce di sangue nel fazzoletto.

Un'ora dopo la zia, con gli occhi rossi, spazzolava la giacca più bella di Fred, che intanto si vestiva con lo sguardo cupo e le spalle curve.

Per pagare i braccianti l'indomani non potevano fare a meno dello zio Louis. E Fred andava a chiedergli scusa.

Quando scese, con la camicia inamidata e i capelli lisciati, sua madre lo aiutò a infilare la giacca e gli sorrise, un sorriso triste, di commiserazione e d'incoraggiamento al tempo stesso. Nel cortile Jef stava riparando una carriola.

 

Le oche selvatiche passarono un mese prima del solito, e il giorno di Ognissanti, nella casa con le porte ormai sempre chiuse, tutti si stringevano attorno al fuoco.

Alle ragazze avevano fatto confezionare un cappotto nuovo, e anche a Edmée, che però si rifiutò di metterlo perché la vecchia sarta di Neeroeteren aveva tagliato le spalle troppo larghe e cucito le tasche troppo basse.

Al cimitero dovettero fermarsi una decina di volte, perché continuavano a incontrare persone con le quali bisognava parlare. Cugini, zii e zie che Edmée non conosceva. Tutti erano vestiti di nero e vagavano fra le tombe, nell'odore acre dei crisantemi e di certi orrendi fiori di un giallo appiccicoso.

Gli uomini parlavano più o meno come al solito, ma le donne prendevano un'aria desolata e, specialmente le più anziane, non appena si scorgevano da lontano davano la stura a una sfilza di lamenti.

Edmée, che indossava indumenti troppo leggeri, tossì sul serio, questa volta, senza dover esagerare gli accessi. Parlavano di lei in fiammingo. Le vecchie la guardavano scrollando il capo con compassione come fosse già quasi morta. Una di loro, una lontana cugina, offrì una caramella a ciascuna delle bambine ma, per sottolineare il suo interessamento alla povera malata, a lei ne diede due.

Fred seguì gli uomini al caffè mentre le donne si riunivano in una casa in cui aleggiava un odore di miseria. Edmée aveva le guance molto accese. Probabilmente suggestionata dall'atmosfera, rivisse di colpo il suo arrivo a Neeroeteren con l'omnibus, la morte dello zio, il funerale, le ore inebrianti nella capanna e la vista del primo scoiattolo.

Non aveva forse sentito una minaccia nell'aria fin da principio? Ancora oggi era angosciata, e cercava invano di capirne la ragione. Il maestro Stevelynck aveva ottenuto due giorni di permesso e Mia era di sicuro da qualche parte con lui, sulla strada spazzata dalla tramontana gelida che sbiancava le pietre. Nessuno ne aveva ancora parlato seriamente, ma la cosa era nota e li si lasciava fare.

Edmée non era invidiosa. Al contrario. Osservava con curiosità la trasformazione della cugina che a volte, quando era particolarmente animata, riusciva a essere quasi carina. Ma quant'era stupida! Aveva un'idea falsa degli uomini, della vita, di tutto! Da un mese cantava la stessa canzone perché l'aveva sentita canticchiare dal suo innamorato, e Edmée, che la sentiva gorgheggiare per casa, la trovava decisamente ridicola. Aveva ordinato dei profumi scrivendo a certi indirizzi riportati dai giornali e già pensava ai vestiti che si sarebbe fatta fare allo scadere del lutto, cercando i modelli sulle pagine di una brutta rivista di moda a cui si era abbonata.

Lo sapeva, il maestro, che Mia aveva una gamba affetta da un eczema cronico? Adesso dovevano essere appoggiati a qualche albero, sul ciglio di una strada, a ridere e a chiacchierare.

Edmée non desiderava avere un innamorato. Erano tutti così ridicoli. E non concepiva che un uomo potesse avere un giorno il diritto di dominarla.

Tornarono a casa che cominciava a far buio. Come Edmée aveva previsto, Mia era al settimo cielo e nel calesse le prese la mano e gliela strinse con insistenza, neanche fosse stata quella del maestro.

Dovevano passare a duecento metri dalla presa d'acqua e Fred fece uno sforzo per non guardare da quella parte. Neppure Edmée voleva guardare. Tornavano dal cimitero, dove su tutte le tombe qualcuno era andato a deporre fiori. L'acqua, increspata in piccole onde dalla tramontana, quel giorno era di un lugubre grigio glauco.

Nel preciso momento in cui passavano davanti alla chiusa, Edmée, senza volerlo, la guardò, con gli occhi asciutti, e anche Fred, suo malgrado, fece altrettanto.

Subito dopo, i loro sguardi s'incrociarono. Quello di Fred era turbato. Lei sapeva che era sconvolto, tormentato dal pensiero di quel povero ragazzo di cui, salvo loro tre, nessuno conosceva la tomba.

La sera mangiarono pane e prosciutto perché non c'era stato il tempo di cucinare. L'indomani era ancora giorno festivo, e arrivò lo zio Louis, che osservò Edmée con maggiore attenzione del solito.

«Senti un po', tu, verrò a prenderti domani di buonora! Tieniti pronta».

E il giorno dopo salì, lei sola, sulla macchina dello zio, che per tutto il viaggio fino a Hasselt guidò senza aprire bocca. Andarono quindi da un dottore che lui conosceva e che visitò Edmée con grande affabilità.

«Si spogli, piccola! Almeno il petto».

Edmée lanciò uno sguardo allo zio Louis, che capì e scrollò le spalle.

«Ma andiamo! Forse che non so com'è fatta una ragazza?».

I due uomini parlavano tra loro in fiammingo, e Edmée esitava a scoprirsi il busto. Non le era mai capitato. Un anno prima le sarebbe stato meno penoso, ma adesso i suoi seni erano cresciuti e le pareva che fossero l'ultima cosa al mondo che lei potesse mostrare.

Tenne addosso la camicia che, nella luce dell'ambulatorio, era di un bianco freddo, con una piccola guarnizione di merletto. Il dottore, un uomo dai capelli di un biondo rossiccio, le si avvicinò senza guardarla e con un gesto indifferente fece scivolare giù la spallina.

«Respiri!... Tossisca!... Respiri!...». Sentire i seni a contatto con l'aria la faceva star male, e ancor peggio fu quando la mano del dottore, afferrandole il busto, inavvertitamente li sfiorò. Per metterla a suo agio, lo zio Louis fingeva di osservare una stampa con la scena di una caccia a cavallo.

«Respiri!... Più lentamente, adesso!...».

Soffocava, sentiva che il vestito, scivolando lungo i fianchi troppo stretti, rischiava di scoprirle il ventre, l'ombelico.

«Venga di qua. Voglio farle una radiografia».

Lo zio restò nell'ambulatorio. Il dottore, coadiuvato da un giovane occhialuto la cui presenza non imbarazzava minimamente Edmée, armeggiò con un'apparecchiatura davvero impressionante.

«Fatto. La ringrazio».

Ormai sapeva. Non aveva bisogno di aspettare il responso che il dottore prometteva di dare di lì a tre giorni. Aveva già sentito parlare di focolai d'infezione. Non ignorava che sua madre era morta di tubercolosi.

Lo zio stesso, del resto, aveva mutato atteggiamento. La portò a pranzo in un ristorante e fu così gentile che non era difficile indovinare che cosa gli avesse detto il dottore al momento del commiato. Continuava a osservarla, e il suo sguardo non era penetrante, anzi, si sarebbe detto un po’ torpido, come tutta la sua persona. Eppure Edmée intuiva che lo zio capiva molte cose.

«Credo che dovremo curarti seriamente... L'aria di Neeroeteren è buona. Ti annoi dai cugini?».

«No».

«Fred è un po’ strampalato e Jef ha l'aspetto di uno scimmione, ma ha un cuore d'oro».

Le parlava come a una donna adulta, le faceva delle confidenze e le porgeva i piatti di portata perché si servisse per prima.

«Quanto a mia sorella,» (non diceva: tua zia) «è una santa. Ha avuto dei grossi dispiaceri, che non posso raccontarti».

«Lo so. Lo zio aveva un'amante».

Non era forse in grado, ormai, di capire tutto?

«Non è solo questo. Bisogna essere molto gentili con lei. Gli affari non vanno bene come sembra. Ci sono molte difficoltà da superare, e non so se i tuoi cugini...».

Tacque. Forse lui stesso non sapeva perché si fosse lasciato andare così... Aveva un'aria preoccupata. Al ristorante tutti lo conoscevano. Il padrone venne a stringergli la mano. I camerieri gli si rivolgevano con deferenza.

Mia era stata per molto tempo innamorata di lui... A Edmée sarebbe piaciuto viaggiare a lungo con un uomo di tale fatta, così sicuro di sé, capace di comandare e davanti al quale la gente s'inchinava.

«Immagino che prenderai un dolce...».

«Lei lo prende?».

«No, mai! Il mio dessert è un buon sigaro».

«Neanch'io lo voglio».

Non era una bambina golosa di dolci, lei! Voleva mostrarsi alla sua altezza.

«Frutta?».

«No, grazie».

Si vedeva riflessa in uno specchio annerito dal fumo e si trovava molto donna. Non si era messa il cappotto confezionatole dalla sarta di Neeroeteren, ma quello che portava a Bruxelles, e lo zio aveva approvato la scelta. Dunque capiva la differenza!

«Sei felice?».

«Sono tutti molto gentili con me».

Lui era un po’ intenerito, e lo era forse un po’ di più da quando le aveva visto il seno, e voltava spesso la testa dall'altra parte.

«Non è la vita che si fa in una grande città, ma ci si abitua. Una volta le Irrigations erano la migliore proprietà del Limburgo, e se qualcuno volesse rilevarla...».

Era sposato. Sua moglie era già vecchia, molto grassa, con tutti i capelli bianchi. Portava a Hasselt anche lei? Edmée ne era gelosa.

«Stanno passando un brutto momento. Fred è uno che si scoraggia facilmente e parla di mollare tutto, di vendere...».

Quando Edmée tornò a Neeroeteren nella macchina dello zio, non raccontò a nessuno del suo viaggio. Era una cosa sua. Il suo segreto. Un solo uomo aveva visto i suoi seni e, guardandosi allo specchio, si domandò se non fossero troppo piccoli.

Aveva un corpo bianco e magro, tanto che si potevano contare le costole, e un ventre piccolo e rotondo.

«Ma sono tubercolotica!».

Ne provava una certa fierezza. Non era triste. Mia, per esempio, non sarebbe mai stata capace di essere tubercolotica, eppure le sue carni solide erano malsane, come quelle di suo padre, che era morto per una semplice ferita.

Lo zio Louis tornò due giorni dopo. Edmée lo sorprese mentre stava mostrando a Fred una strana fotografia in cui si vedevano delle costole e alcune macchie sfocate, nere e grigie: la sua radiografia.

Edmée aveva due focolai d'infezione, evidenziati da frecce tracciate in rosso.

«Non è niente!» disse lo zio dandole dei colpetti sulla spalla. «Sei mesi di cure e sparirà tutto. Quando si è giovani...».

E Fred la guardò con commossa ammirazione.

 

Era la quarta volta che Edmée andava con lo zio Louis dal dottore, a Hasselt, e che poi pranzava all’Hôtel Wouters, nella sala con il tetto di vetro smerigliato frequentata soprattutto da preti.

Lo zio conosceva tutti. Il padrone gli si precipitava incontro e la padrona aveva il brutto vizio di appioppare uno schiaffetto affettuoso alla guancia di Edmée dicendole con leziosa affettazione e un forte accento fiammingo:

«E questa cara bambina? È guarita o no?».

Perché la cosa era di dominio pubblico. La radiografia era passata di mano in mano e un vecchio parroco aveva insistito perché Edmée fosse portata a Lourdes.

Quel giorno lo zio Louis doveva sbrigare degli affari in città e, finito il pranzo, aveva fatto accomodare Edmée nel salone dell'albergo, promettendole di essere di ritorno entro due ore. Fuori faceva molto freddo. Aveva cominciato a gelare dall'inizio di dicembre e a Neeroeteren il giorno precedente sui canali si erano visti i primi pattinatori.

Una stufa di maiolica riscaldava il salone. Sul tavolino c'erano solo riviste religiose. Edmée, che aveva troppo caldo, sgattaiolò in strada e s'incamminò lungo un marciapiede. Già il mattino, arrivando, aveva notato che l'aspetto della città era diverso dal solito. Nonostante il freddo, c'era in giro più gente, circolavano più automobili. E le vetrine, tutte addobbate, luccicavano. Si avvicinava il Natale.

Erano soprattutto madri e bambini a fermarsi davanti agli oggetti in mostra. Anche Edmée si fermava. Per la prima volta dopo tanto tempo si trovava sola in una vera città, e tutto suscitava il suo interesse. Si voltava a guardare un passante, leggeva i titoli dei libri esposti nelle librerie, o fissava le finestre di una casa pensando che dietro quei vetri vivevano delle persone.

Si stupiva che ci fosse tanta gente ben vestita, tanti bambini con cappottini foderati di pelliccia e guanti di pelle. Le piaceva sentire alle sue spalle lo scampanellare insistente del tram e vederlo poi passare rasente al marciapiede, illuminato come una lanterna.

Il selciato era scabroso, con ciottoli di un bianco freddo. Alcuni negozianti avevano decorato la vetrina con neve artificiale e alberi di Natale carichi di palle di un bel rosso dorato e viola.

A un certo punto Edmée si ritrovò davanti la stazione e il chiosco dove, al suo arrivo, aveva preso l'intercomunale per Neeroeteren. Voltò a destra, imboccò una strada lungo la quale non c'erano più negozi ma solo case scure.

Dal giorno prima Fred era a Hasselt, e Edmée sapeva dove l'avrebbe trovato, perché glielo aveva detto Mia. Se ne stava ore e ore in un bistrot chiamato Chez Julie, uno di quei piccoli caffè dietro la stazione.

Non è che Edmée lo cercasse con un intento preciso, ma guardava le case, leggeva le insegne. Fece così il giro di un isolato passando per strade deserte, finché notò una facciata gialla, in finto legno, con la finestra guarnita di tendine all'uncinetto.

Era lì! Il nome spiccava sul vetro in lettere bianche che finivano in uno svolazzo, come una firma: «Chez Julie». Senza starci a pensare, Edmée girò il pomolo della porta, la aprì, e una folata la richiuse immediatamente alle sue spalle.

La sala, vuota, si estendeva tutta in lunghezza e la monotonia di quelle due file di tavoli di legno d'abete lucidato era interrotta solo sul fondo, vicino al banco, dalla schiena di un uomo seduto che, chino su una donna, la nascondeva quasi completamente alla vista.

L'uomo era Fred. Edmée lo aveva riconosciuto dalla giacca di sargia nera e dal collo muscoloso. Circondava le spalle della donna con un braccio e le parlava, in fiammingo, con voce impastata.

Non si girò. Fu invece la compagna a sporgersi per vedere chi fosse entrato. Aveva capelli di un biondo fiammeggiante e l'incarnato roseo. Guardò Edmée con un certo stupore e le si rivolse in dialetto. A quel punto si voltò anche Fred, si alzò di scatto rovesciando un bicchiere e mosse qualche passo come per impedire alla cugina di venire avanti.

Edmée era perfettamente calma. Non aveva mai visto Fred con un colorito così acceso, gli occhi così sporgenti, così lustri. Le sembrò persino che non camminasse dritto.

«Buongiorno, Fred! Disturbo?».

«Che ci fai qui? Chi ti ha detto...?».

Dal retro del caffè, una vecchia grassissima si affacciò per vedere che cosa turbasse la vita del locale.

«Vorrei scaldarmi».

In effetti Edmée era intirizzita, ma voleva soprattutto continuare a guardarsi intorno. Fred, ancora paralizzato dalla sorpresa, la lasciò fare, e lei andò a sedersi allo stesso tavolo della donna la quale, dopo aver raccolto i cocci del bicchiere, era tornata al suo posto.

Uno strano caffè. Una strana donna. Tutto era alquanto bizzarro, e Edmée, che si basava solo su certe sue letture, non riusciva a capire.

«Bevi qualcosa, signorina?» chiese la bionda.

Edmée indicò i bicchierini sul tavolo.

«Che cos'è, Fred?».

«Cherry brandy».

«Lo voglio anch'io».

E seguì con lo sguardo la ragazza che si dirigeva verso il banco. Era alta e grossa, ma piacevole all'occhio, appetitosa. La pelle era chiara, profumata, senza un difetto, senza una macchia, di un rosa che nei punti più carnosi sfumava nel bianco. Il vestito era di seta, e così pure le calze nere accompagnate da scarpe di vernice nuovissime che scricchiolavano a ogni passo.

Quando la donna si chinò per riempirle il bicchiere, Edmée le vide i seni, svelati per intero dalla scollatura della camicetta - seni larghi e voluminosi ma dai capezzoli molto piccoli.

«Dov'è lo zio Louis?».

«Mi ha lasciata all'albergo mentre lui andava a sbrigare delle commissioni. Ho ancora tempo».

La voce di Fred non era solo impastata, ma anche scontrosa.

«Lo stesso per me!» disse indicando i bicchieri.

«Ne offri un altro anche a me?» fece la donna con il suo forte accento fiammingo.

L'aria era pesante e Edmée, sul suo sgabello, si sentiva pervadere da una confortevole sensazione di benessere. Tutto era di cattivo gusto, le tendine all'uncinetto, i tavoli di legno d'abete troppo chiaro, il lampadario di pasta di vetro rosa. Sparsi ovunque, ornamenti dozzinali. Tuttavia, nel caldo tepore di una stufa ben più grande e più lussuosa di quella dell’Hôtel Wouters, era molto piacevole lasciar vagare lo sguardo sul pavimento cosparso di segatura dove non si vedeva neanche un fiammifero e dove i piedi di tavoli e sedie si allineavano in un ordine meticoloso.

Quel posto non assomigliava a nessuno dei locali che Edmée conosceva dalle sue letture. Non era nemmeno una casa di tolleranza. Non c'era niente di sconcio, là dentro, niente di clandestino. Il lampadario, per esempio, era esattamente quello che qualunque piccoloborghese di Hasselt doveva sognare per il suo salotto.

Di sicuro Fred, arrivando da Neeroeteren, dove le lampade a petrolio diffondevano una luce triste, vi entrava con un sospiro di sollievo. Lì lo conoscevano! Lo accoglievano con lo stesso entusiasmo e la stessa deferenza con cui lo zio Louis veniva accolto all’Hôtel Wouters!

Ordinava da bere, seduto accanto alla donna che intanto corteggiava, e lei rideva mostrando i denti troppo piccoli. La stuzzicava dandole delle pacche sulle braccia fresche e grassocce, si protendeva verso di lei mentre la vecchia si affacciava ogni tanto a dare un'occhiata dalla porta sul fondo.

E pagava le consumazioni! Aveva il portafoglio gonfio di banconote, la voce gonfia di gioia di vivere!

«Adesso che ti sei riscaldata, dovresti tornare all'albergo».

La sbornia non gli era del tutto passata, lei lo capiva, ma Fred si sforzava di essere severo e di parlare in modo chiaro.

«Ho ancora tempo».

Lo cherry le scaldava il petto. Si girò verso la donna.

«Me ne dia un altro!».

Fred fu lì lì per protestare, ma la ragazza esclamò:

«Lo cherry non ha mai fatto male a nessuno! Un altro giro per tutti?».

Doveva essere sempre allegra, sempre pronta a ridere senza mai abbandonarsi al riso, e a proporre consumazioni ai clienti. Se la si guardava da vicino, sul suo viso si notavano rughe leggere, così come da mille piccole cose si capiva che era nata in campagna, e da bambina, col giaccone alla marinara e gli zoccoli ai piedi, doveva aver fatto chilometri per andare a scuola.

«Dammi una sigaretta, Fred».

Non poteva lasciare il locale prima delle undici, perciò Fred aspettava fino a quell'ora per accompagnarla nella sua camera, al secondo piano di una casa popolare che si trovava in un vicolo.

Non è che Edmée pensasse precisamente a questo, però li guardava entrambi con una curiosità morbosa. Non pensava più all'ora, voleva restare ancora un po'. Quando la ragazza accavallò le gambe, le guardò le calze di seta, il ginocchio rotondo, le cosce un po’ scoperte; poi osservò le sue, di gambe, magre, lunghe, nelle calze di lana, e le scarpe con le stringhe dai tacchi già un po’ sbilenchi.

La ragazza interrogava Fred in fiammingo e non era difficile indovinare che stava parlando di Edmée con una punta di diffidenza o di gelosia. Lei, invece, non era gelosa. Tutt'altro! C'era qualcosa, sia in quella donna sia nell'atmosfera del locale, che l'attirava, forse un che di nascosto e di caldo dietro l'apparenza tranquilla.

«Dovresti andare, adesso!» insistette Fred, che continuava a guardare l'orologio e poi la porta. «E non dire assolutamente allo zio che sei venuta qui!».

«Mi credi così stupida?» ribatté lei, piccata.

Le girava la testa, come nella capanna quando fissava il fuoco troppo a lungo. E poi c'era il profumo della donna, bastava quello a dare al tutto un'aria speciale, e l'odore dello cherry, più greve, leggermente amaro.

«Vengo con te».

«Neanche per idea! Del resto, allo zio sembrerebbe ancora più strano».

Fred la fissava con uno sguardo imbarazzato e supplice. Aveva paura! E lei ne godeva. Ricordava come stava seduto, quando lei era entrata, e con quanto abbandono parlava. Fu lui, a quel punto, a ordinare:

«Un altro cherry, Rose!».

Dunque, si chiamava Rose. Julie era probabilmente la padrona, la vecchia obesa che sentivano muoversi in cucina e parlare con i suoi gatti. Si sentiva anche della gente passare sul marciapiede e, ogni tanto, il rombo di una macchina.

«Sei andata dal dottore? Che cosa ti ha detto?».

«Non ha detto niente».

Era felice, e senza sapere perché continuava a fissarlo. Rose le riempì il bicchiere dopo quello di Fred, e Edmée lo vuotò adagio, tenendo per un attimo il liquore sulla lingua, che pizzicava.

In quel momento la porta si aprì. Come in un sogno si vide la sagoma dello zio Louis farsi via via più grande finché la sua mano non afferrò il braccio di Edmée sollevandola di peso dal sedile. Una volta in piedi, lei barcollò.

Di certo lo zio sapeva già tutto. Probabilmente qualcuno aveva visto la ragazza entrare nel caffè e lo aveva avvertito.

Non disse niente, ma dopo aver spinto Edmée verso la porta tornò da Fred, che si era alzato goffamente, e gli appioppò due sberle. Edmée non aveva mai immaginato che gli schiaffi potessero risuonare a quel modo, riempire con la loro eco un intero locale. Fu come se quella eco la colpisse fisicamente, ed ebbe la vaga visione di Fred che rimaneva come paralizzato, con una mano premuta sulla guancia sinistra.

Ma già era fuori, nel freddo della strada. Lo zio un po’ la spingeva, un po’ la sosteneva, con una mano apriva la portiera della macchina e con l'altra la faceva sedere all'interno.

Era molto più grande, molto più forte di Fred. E in quel momento questo era più evidente che mai. Rannicchiata nel suo angolino mentre l'auto filava, usciva dalla città, correva dietro il fascio argenteo dei fari, Edmée cercava di ricordare i più piccoli particolari di quel pomeriggio, lo stupore di Rose, le sue calze di seta nera, le scarpe di vernice, il sapore dello cherry, la scenata dello zio.

«Non è stato lui» disse all'improvviso a voce alta.

Lo zio Louis non rispose. Guardava dritto davanti a sé e faceva impressione, soprattutto durante quella corsa nel buio, perché guidava molto più veloce del solito.

Edmée si mise a tossire per costringerlo a occuparsi di lei, ma lo zio non vi fece caso. Solo al secondo accesso di tosse allungò una mano per assicurarsi che i finestrini fossero chiusi bene.

 

Quando entrarono in casa la zia stava spennando un pollo e Mia stirava delle camicie da uomo sul tavolo di cucina. Lo zio Louis fece passare Edmée per prima. Senza nemmeno alzare la testa la zia fiutò il dramma perché c'era, nell'entrata di quei due, qualcosa di troppo risoluto.

Lo zio non si tolse né cappello né cappotto. E neppure si sedette. Pronunciò una decina di frasi in fiammingo, e fu tutto, mentre la zia giungeva le mani sul suo pollo e Mia dimenticava il ferro caldo.

E già se n'era andato. La macchina si allontanava. La zia restava immobile, annientata dalla notizia, e Mia guardava la cugina con curiosità.

«Gesummaria!».

Alla fine, tutto a un tratto, la zia scoppiò in lacrime, e le bambine, che Edmée non aveva visto perché erano sedute per terra, si precipitarono ad abbracciarle le ginocchia piangendo anche loro.

«Non tornerà più, ne sono sicura» sospirò Mia rimettendo il ferro sul fuoco. «Lo conosco, Fred!».

Edmée, ancora con il cappotto addosso, le guardò con freddezza - soprattutto la zia, che non le era mai sembrata tanto estranea. Non aveva nessuna voglia di sedersi in cucina ad ascoltare i loro lamenti.

«Dove vai?».

«In camera mia».

«Ma il fuoco non è acceso. Aspetta! Che cosa sai? Lo zio parla di dodicimila franchi. È pazzesco...».

«Quali dodicimila franchi?».

Mia glielo spiegò e allora Edmée capì l'atteggiamento dello zio Louis nei suoi confronti. Era andato alla banca per chiarire alcune questioni che lo preoccupavano e, nella sua veste di tutore dei fratelli minorenni, aveva esaminato i conti di Fred.

E quei conti erano falsificati. Per tre volte Fred aveva preso quattromila franchi per sé, ascrivendoli a operazioni deficitarie.

Edmée era probabilmente l'unica a capire, a immaginare Fred che una volta la settimana evadeva da quell'orizzonte domestico e volava da Julie, e là passava ore e ore, nel suo angolo preferito, a bere con la Rose. Era ricco! Pagava! Arrivavano altri clienti, forse altre donne, ed era sempre lui, il facoltoso possidente di Neeroeteren, a pagare per tutti!

Parlava a voce alta. E lo ascoltavano. Lo ammiravano. Poi giocavano a carte, magari per spillargli altro denaro.

«Non tornerà più, ne sono sicura, è troppo orgoglioso» piagnucolava Mia, nascondendo anche lei la testa nel grembiule.

Il calesse entrò nel cortile, ma passarono dieci minuti buoni prima che Jef finisse di staccare il cavallo. Edmée si era tolta il cappotto ma non si decideva a salire. Jef guardò la madre, la sorella, la cugina con aria stupita. Si portava dietro il freddo dell'esterno e aveva le labbra irrigidite.

Fu Mia a dargli la notizia, parlando in fiammingo e interrompendosi ogni tanto per soffiarsi il naso. Jef non fece una piega e guardò Edmée, calmo.

Alla fine scostò la coperta da stiro, prese una ciotola nella dispensa, la riempì di minestra e si mise a mangiare senza dire una parola.

 

Andò avanti così per tre giorni. Lo zio Louis arrivava al mattino, in tenuta da caccia, e si chiudeva nello studio uscendone solo per chiedere una tazza di caffè. Ogni tanto chiamava Jef, che restava un attimo con lui e tornava subito nella stalla o nella sua officina.

I canali erano gelati e vicino alla chiusa una chiatta era bloccata nel ghiaccio da diverse settimane.

La zia non piangeva più ma sembrava invecchiare a vista d'occhio. Lo si notava dalle spalle, sempre più curve, ed era come se si fosse in qualche modo rimpicciolita.

Anche Mia era triste, ma questo stato d'animo, lei, lo manifestava in modo diverso. Per esempio, frugava nei cassetti di Fred e faceva delle scoperte. Fu così che mostrò a Edmée un accendino d'oro massiccio che suo fratello non aveva mai fatto vedere a nessuno, trovato sotto le camicie.

Lo zio Louis mangiava con loro. Evitava di parlare con Edmée, ma lei sentiva che la guardava con benevolenza, persino con compassione, come se fosse lei la vittima principale della truffa.

Non si sapeva se aspettarsi il ritorno di Fred. Mia non ci contava. La zia non diceva niente e Jef... Jef andava da una costruzione all'altra della tenuta dondolando il testone.

Il secondo giorno, lo zio portò con sé il contabile della sua fabbrica di sigari, un ometto magrolino che lo aiutò a districarsi in quel guazzabuglio di conti.

Lo zio Louis aveva acquistato ancora più importanza. Quando entrava in cucina tutti tacevano intimoriti e cercavano di leggere qualcosa nel suo sguardo, perché, quanto a parole, era avarissimo. Fumava molto, a grandi boccate, e tutta la casa era impregnata dell'odore dei suoi sigari.

A sentir lui faceva sempre troppo caldo. Qualche volta, a pranzo, ordinava a Mia di aprire la porta e tutti battevano i denti ma non osavano darlo a vedere.

La sera del terzo giorno, mentre erano a tavola, si udì arrivare una macchina. Un'identica curiosità si dipinse su tutti i volti; solo lo zio Louis rimase impassibile e continuò a mangiare, badando a non sporcarsi i baffi.

La porta esterna si aprì. La zia fece per alzarsi, si sollevò un attimo dalla sedia ma vi si lasciò ricadere come fosse stato un gesto proibito.

Fred entrò. Si fermò un istante sulla soglia: Edmée e Mia erano le sole a vederlo in faccia. Gli altri evitarono di voltarsi. I baffi dello zio fremevano mentre lui continuava imperterrito a portare il cucchiaio alla bocca.

Contrariamente a ogni previsione, Fred non aveva affatto un'aria distrutta e non era per niente malconcio, come ci si aspetterebbe da un figliol prodigo al suo ritorno a casa.

Era calmo, più serio del solito. Il cappotto era in ordine e i guanti, che si sfilò lentamente, nuovi fiammanti. Posato il cappotto su una sedia, fece il giro della tavola per baciare la madre sulla guancia, con naturalezza, come faceva sempre quando tornava a casa. La zia era bianca come un lenzuolo e il suo labbro inferiore si sporgeva per trattenere un singhiozzo.

Lo zio alzò la testa, tenne su Fred un lungo sguardo interrogativo, e Fred non fece una piega, aprì la dispensa, prese piatto e posate, poi sedette al solito posto, di fronte a sua madre.

Evitava di guardare Edmée, ma serrava le mascelle per lo sforzo che questo gli costava. Dopo essersi versato la minestra, si volse a metà verso Jef e gli disse in francese:

«Dopo, va a mettere la macchina nella rimessa».

Mia sobbalzò: Fred non l'aveva mai avuta, una macchina. Lo zio spinse indietro la sedia, si alzò e lasciò cadere il tovagliolo per terra - quando c'era lui, si mettevano tovaglia e tovaglioli.

Come Fred un attimo prima, fece il giro della tavola per avvicinarsi alla zia, le diede un bacio sulla fronte e disse qualcosa in fiammingo. Si sforzava di mantenere la stessa aria imperturbabile del nipote, ma aveva già perso un po’ d'importanza rispetto agli altri giorni e, uscendo, urtò contro lo stipite della porta.

Alla zia aveva detto:

«Domani verrò con il mio avvocato».

Fred mangiò in silenzio, con i lineamenti tirati. Era molto stanco. Sembrava che non avesse dormito da tre giorni.

Stettero lì con l'orecchio teso e, quando sentirono allontanarsi la macchina dello zio, la zia si alzò, si precipitò verso il figlio, si gettò nelle sue braccia singhiozzando, dicendo parole che Edmée non poteva capire.

Di Fred, lei non vedeva che un occhio, un occhio che la guardava con un'inquietudine venata di orgoglio, come se tutto quello che aveva fatto lo avesse fatto soltanto per lei.

 

In mutandine, con i capelli sul viso, Edmée aveva dovuto spaccare il sottile strato di ghiaccio che si era formato sull'acqua della brocca ed esitava a passarsi sulle guance l'asciugamano bagnato il cui semplice contatto la intirizziva tutta.

Era l'alba della domenica prima di Capodanno. Una candela illuminava la camera e i vetri coperti di brina erano bianchi come latte. Ogni tanto si sentivano dei rumori al di là delle pareti: qualcuno che, come Edmée, si stava vestendo per andare a messa. Ma lei era così infreddolita, stretta in una tale corazza di gelo che proprio non riusciva a fare in fretta.

Senza che si fossero uditi passi nel corridoio, la porta si aprì e Mia, già col cappotto dal collo di pelliccia rialzato fino al mento e le mani infilate in un voluminoso manicotto, entrò.

«Ma che fai, ti lavi?...».

Perché lei si era limitata a mettersi cipria e rossetto e probabilmente, come le capitava spesso, aveva dormito senza neanche togliersi le calze. Guardava le cosce nude di Edmée percorse da vene azzurre.

«Sbrigati! Hai la pelle d'oca».

Ma aveva ben altro da dire. Era entrata con un'intenzione precisa e, mentre Edmée finiva di asciugarsi la faccia, le chiese senza guardarla:

«È vero che vuoi sposare Fred?».

«Io?!».

Si dimenticò persino di vestirsi. Rimase lì, con la pelle tirata dall'acqua fredda, a fissare la cugina cercando di capire.

«Perché no?» proseguì Mia. «Non saresti la prima!».

Ma già Edmée l'afferrava per il bavero del cappotto gridando con voce stridula:

«Chi ti ha detto una cosa simile? Dimmi chi te l'ha detta!».

«Ssst!».

Nella camera accanto qualcuno si muoveva.

«Calma, adesso te lo dico. È stato Jef! Ma sta attenta, non deve assolutamente saperlo...».

In preda a un nervosismo che non riusciva a controllare, Edmée si mise la sottoveste e lottò con i ganci della gonna perché aveva le dita troppo fredde.

«Ieri, io e lui siamo rimasti soli. Gli ho chiesto come mai da qualche tempo era così strano - suppergiù da quando tu vai a Hasselt tutte le settimane...».

Edmée trasalì, per poco non diventò rossa, perché in effetti era cambiato qualcosa da quando lei andava dal dottore con lo zio Louis. Ma chi poteva essersene accorto? L'unica differenza era che, invece di vivere perennemente nella stessa atmosfera, di spostarsi dalla cucina alla capanna, adesso lei aveva un diversivo: la macchina che sfrecciava tra due file di alberi, l" Hôtel Wouters, l'ambulatorio del dottore, le strade con le vetrine illuminate e i tram scampanellanti...

«E lui cos'ha risposto?» domandò con una certa durezza, mettendosi finalmente il cappotto.

«Non ha risposto niente; se n'è stato zitto per un bel pezzo, poi mi ha detto che se tu avessi sposato Fred ti avrebbe ucciso. Su, muoviti! La mamma dev'essere già da basso. Mi raccomando, fa finta di niente».

 

Nel calesse Edmée continuava a pensarci. Era seduta accanto a Jef, che guidava. Nei solchi lasciati dalle ruote l'acqua era gelata, la terra dura come metallo. Nessuno apriva bocca a causa del freddo. Ci si stringeva gli uni agli altri e gli sguardi vagavano sulle distese ghiacciate.

Perché Jef aveva parlato con Mia? E come aveva fatto a capire che qualcosa era cambiato, quando lei stessa non se n'era accorta? Adesso Jef guardava dritto davanti a sé e teneva le redini con una mano sola, che il guanto lavorato ai ferri rendeva enorme.

Non era tutto esattamente uguale a qualsiasi domenica d'inverno? No, non era la stessa cosa, benché non ci fosse niente di eccezionale. Nemmeno le altre volte chiacchieravano, ma quando, per esempio, passavano vicino al secondo bosco di abeti, Edmée pensava allo scoiattolo ucciso proprio lì, che era il più grosso della collezione. E anche se Jef non diceva niente, lei sapeva che ci stava pensando pure lui.

Vicino al campo ghiacciato dove di solito si pattinava, si ricordò della slitta verde, di Fred che vi faceva salire la ragazza dai grossi seni e di tutta la famiglia costretta a tornare a piedi perché lei e Jef avevano preso il calesse.

Adesso nella capanna ci andava più raramente e, guarda caso, sempre quando suo cugino non c'era. Non lo faceva apposta. Non avrebbe saputo dire come accadesse. E le sarebbe stato perfino difficile dire che cosa aveva fatto Jef negli ultimi due mesi. Non lo vedeva quasi mai. Sapeva solo che era fuori a lavorare con i braccianti o con i guardiani.

Ma perché aveva parlato di Fred?

Ci pensò durante la messa, e ancora al ritorno. Ci pensò mentre si scaldava le mani sul fuoco e mentre mangiava focacce di grano saraceno e lardo. Era furibonda e sovreccitata. Quando Fred scese, in camicia senza solino, Mia le lanciò un'occhiata complice e Edmée la trovò decisamente ridicola.

Quella domenica Fred non andò a messa né al caffè; non finì neppure di vestirsi e rimase in pantofole fino a sera. Per ore e ore, vicino al camino, ci fu un fitto, monotono parlottare in fiammingo.

Jef se n'era andato subito, come se fosse stato di troppo. Mia, che stava preparando il pranzo, di tanto in tanto buttava lì qualche parola. La zia vestiva le bambine rispondendo a Fred con voce lamentosa. Aveva ricevuto una lunga lettera dallo zio Louis. In qualità di sostituto tutore dei suoi figli, a eccezione di Fred ormai maggiorenne, avvisava la sorella che avrebbe chiesto per quest'ultimo la tutela di un curatore.

«Lui è soltanto il secondo tutore» ribatteva Fred. «La tutrice legale sei tu!».

Ma la zia non ci capiva niente, le bastava sentir parlare di giudice di pace per perdere la testa. Lo zio Louis le scriveva inoltre di aver messo al corrente l'intera famiglia e di aver già affidato la causa a un avvocato.

Fred fumava guardando le pentole dalle quali salivano sbuffi di vapore. Con i piedi appoggiati sullo sportello abbassato del forno, si dondolava sulle gambe posteriori della sedia.

«La vedremo!».

Di Edmée non si occupava, solo Mia ogni tanto traduceva per la cugina una frase in francese.

«La macchina mi è costata cinquemila franchi e d'ora in poi andare a Hasselt sarà più rapido e più conveniente».

La zia non lo contraddiceva, non gli muoveva alcun rimprovero, ma per ben due volte andò a prendere la lettera dello zio nel cassetto del tavolo e, inforcando gli occhiali, ne lesse una frase che conteneva un nuovo capo d'accusa.

«Perché, lui non ce l'ha la macchina?».

Sui vetri il ghiaccio si scioglieva lentamente. Edmée osservava il volto di Fred che già non era più così virile come quando aveva fatto il suo ingresso al ritorno da Hasselt. Un po’ dipendeva dal calore perché, a causa del fuoco, Fred aveva il naso rosso, gli occhi lustri e socchiusi. Era calmo, non faceva più lo spavaldo. Fra lui e sua madre cominciò un incrociarsi di pareri, del genere di quelli che normalmente si scambiano marito e moglie.

«Cosa faremo mercoledì?» chiese Mia in francese.

Era Capodanno e, da sempre, tutta la famiglia, compreso un fratello che abitava vicino a Maëstricht, in Olanda, si riuniva in casa dello zio Louis, che era il maggiore dei fratelli. Fred alzò le spalle.

«La cosa riguarda tua madre».

Ne discussero per un'ora. Fred, per parte sua, non intendeva davvero partecipare a quella riunione di famiglia. Del resto, lui doveva ormai fare a meno dell'aiuto dello zio Louis, e la cosa migliore, anzi, era di restituire al più presto i soldi che a diverse riprese lo zio aveva prestato loro. Quei soldi bisognava trovarli: ecco a cosa pensava Fred guardando il vapore che saliva dalle pentole.

«Credo che dobbiamo andarci» sospirò Mia ricaricando la stufa.

La zia era dello stesso parere. Ci sarebbero andati tutti, tranne Fred, non tanto a causa dello zio quanto per principio, per il resto della famiglia e per la gente.

«Io non ci andrò!» annunciò Edmée, che fino a quel momento non aveva aperto bocca e che Fred sembrava aver dimenticato.

Lui la guardò con curiosità.

«E perché?».

«Perché quell'uomo non mi piace!».

Con le guance in fiamme esitò un attimo, poi aggiunse guardando altrove:

«È uno schifoso! Dal dottore, resta lì apposta quando mi spoglio per vedermi mezza nuda».

Le pulsavano le tempie. Era consapevole di aver lanciato un'accusa piuttosto grave. Ma, contro ogni sua aspettativa, Fred girò la testa dall'altra parte, riprese la sua posizione e fu tanto se non alzò le spalle.

Il giorno dopo arrivò un'altra lettera dello zio, il quale invitava al pranzo di Capodanno la sorella con i figli, ma specificava che l'invito non era esteso a Fred.

«... a meno che» aggiungeva «non si decida a fare ammenda onorevole dei propri errori e a dare serie garanzie di una futura buona condotta...».

La zia versò nuove lacrime sulla lettera, che Fred gettò nel fuoco. Quello stesso giorno ricevettero la visita di un lontano cugino, che era il parroco di un piccolo paese vicino a Maeseyck. Aspettò di essere solo con la zia per parlarle, e tanto a lungo si udì il mormorio della sua voce che pareva di ascoltare un sermone dalla piazza della chiesa.

Nel frattempo Edmée osservava Jef e si rese conto di non averlo mai guardato bene: in realtà era ben più anormale di quanto non sembrasse ai membri della sua famiglia. Aveva la testa così grossa che non riusciva a trovare un copricapo della sua misura da nessun cappellaio. Sotto la fronte sporgente, gli occhi erano molto infossati e alla base del naso c'era come una cavità.

Jef non guardava Edmée, oppure lo faceva quando lei non poteva vederlo, e si disinteressava di tutto quello che andavano sussurrando sul conto dello zio Louis.

L'insieme era vagamente terrificante - terrificante come trovarsi a tu per tu con una bestia dallo sguardo enigmatico di cui non si conoscono gli impulsi.

Perché mai si era confidato con Mia e perché aveva parlato di Fred quando sapeva benissimo che Edmée lo aveva respinto?

Erano le otto del primo gennaio allorché Edmée, che sarebbe rimasta a casa, scese in cucina e baciò tutti ripetendo a fior di labbra:

«Buon anno!».

Come al solito avevano fatto le cialde, e la casa, quella mattina, era impregnata dell'odore delle cialde zuccherate che le bambine inzuppavano nel caffè.

«Buon anno, Jef!».

Il cugino ricevette il bacio di Edmée vicino all'orecchio e borbottò qualcosa.

«Buon anno, Fred!».

E insistette, con intenzione.

«... e che sia la fine dei tuoi grattacapi!».

La zia la baciò, ma era un bacio distratto. Si era mai abituata, dopo più di un anno, a considerare Edmée un membro della famiglia?

Si vestirono tutti, tranne Fred che si chiuse nello studio dove aveva acceso il fuoco. Jef attaccò il cavallo. Mia dovette salire in camera due volte, la prima perché la zia aveva dimenticato i guanti neri e la seconda perché Alice era senza fazzoletto.

Finalmente il calesse si allontanò e Edmée restò sola nella cucina.

 

Erano usciti alle nove. Alle dieci e mezzo Edmée era ancora seduta, sola soletta, vicino al fuoco. A un certo punto si alzò di scatto, nervosa, e andò a cambiarsi. Al mattino si era messa un abito che le avevano fatto fare a Neeroeteren e che le nascondeva le forme, la infagottava come Mia. Adesso s'infilò il vecchio vestito nero, quello di Bruxelles, frusto e un po’ corto, ma ben aderente dalle spalle ai fianchi.

Era molto animata e ogni tanto pronunciava a mezza voce parole indistinte. Quando tornò giù la stufa si stava spegnendo, e poiché aveva freddo si prese la briga di ricaricarla.

Sapeva che in quel momento il calesse, che avanzava faticosamente lungo la strada, doveva aver superato Neeroeteren. Di sicuro tutti, nella vettura, dovevano essere irrigiditi dal freddo e dall'agitazione per l'imminente ricevimento in casa dello zio.

Edmée guardò l'ora, s'inoltrò nel corridoio e si fermò davanti alla porta dello studio. Ma giunta lì, invece di entrare, si chinò a guardare dal buco della serratura.

Fred era seduto davanti a un mucchio di carte che non degnava di uno sguardo. Fumava la pipa a piccole boccate guardando dritto davanti a sé con durezza. E sembrava fissare proprio la serratura, tanto che a un certo punto Edmée credette che avesse intuito la sua presenza.

Ma no! Fred afferrò il primo foglio della pila, lo lesse e lo gettò con un moto di stizza. Poi ne prese un altro e si passò una mano nei capelli. I quali, per via della brillantina, mantenevano la piega che gli si dava e adesso erano ritti sulla testa, tutti di traverso.

Per un'ora, Edmée si diede freneticamente da fare e quando tornò alla porta dello studio tratteneva a stento un sorriso di trionfo. Bussò, perché prima di entrare in quella stanza lo facevano tutti, persino la zia. Fred emise una specie di grugnito e la fissò con lo sguardo annebbiato di chi cerca di tornare alla realtà.

«Cosa c'è?».

«Vieni a mangiare, Fred».

«Tra poco».

«No, tra poco sarà tutto freddo».

La seguì poco convinto, si fermò un attimo sulla porta della cucina, colpito dalla tovaglia, dai tovaglioli, dall'elegante disposizione della tavola apparecchiata per due. Si sedette impacciato.

«Mia mi ha detto che in dispensa c'erano uova e lardo» mormorò.

Edmée, invece, gli servì vitello freddo con maionese, omelette al prosciutto e una crème caramel come nessuno aveva mai fatto da quelle parti.

Seduta di fronte a lui, era algida, severa. Lo serviva ostentando modi raffinati che lo stupirono.

«Hai fatto tutto tu?».

«E chi se no?».

Si alzò per prendere un piatto nel forno, lo passò a Fred, non come avrebbe fatto la zia o Mia, ma come una padrona di casa che riceve un ospite.

«Adesso, se vuoi,» disse «possiamo andare a fare una passeggiata».

Cinque minuti dopo si vestivano, ciascuno nella propria camera, e Edmée gli gridò:

«Mettiti il berretto di pelliccia!».

Era un vecchio berretto di lontra come usano ancora portare certi contadini olandesi durante l'inverno.

Fred chiuse a chiave la porta di casa. Dapprima camminarono in silenzio lungo la strada gelata; intorno a loro non un rumore, un alito di vento, un'anima viva. E poiché i prati erano coperti da una crosta di neve avevano la sensazione di vagare in un paesaggio lunare.

«Che freddo!» disse Edmée, arrivati al primo bosco.

Lui la guardò esitante.

«Vuoi darmi il braccio?» balbettò.

Edmée gli diede il braccio. E per adeguare il suo ritmo di marcia a quello del cugino dovette fare quattro o cinque passetti veloci, come di danza.

«Saranno tutti a pattinare».

Non s'ingannava. Dieci minuti dopo videro i terreni irrigui, dove l'acqua era ghiacciata, percorsi da nugoli di piccole sagome nere che volavano veloci come mosche.

«Solo che oggi non abbiamo la slitta» disse Edmée, di proposito.

Si appoggiava al braccio di lui e avvertì, da parte sua, un moto d'imbarazzo.

«Vuoi che vada a prenderla?».

«No! Andiamo avanti».

Aveva viso, mani e gambe gelati, ma il corpo era bollente. Poiché Fred era più alto di lei, camminava sulla punta dei piedi.

«È vero quello che hai detto l'altro giorno a proposito dello zio Louis?».

«E cioè?».

«Che ti guarda quando ti spogli, dal dottore...».

«Sì, è vero! Ma non ha visto niente perché faccio sempre in modo di girargli le spalle».

Si pentì subito di essere stata così compiacente.

«Il dottore, invece, ha visto!».

«Che cosa?».

«Tutto!».

Le scappava da ridere, ma il riso non le arrivava alle labbra. Quando si avvicinarono alla pista di pattinaggio Edmée, pur avendo intravisto il maglione giallo della figlia del panettiere, non lasciò il braccio di Fred.

Camminavano in fretta. Il berretto di lontra dava a Fred un'aria da signorotto locale. Percorsero il campo gelato come una coppia che assista agli svaghi del popolo senza degnarsi di prendervi parte.

Nel suo intimo Edmée era in preda a una sorta di allegria, come se il cuore le balzasse in petto, ma tutto questo non emergeva in superficie e all'esterno lei era sempre la solita, pallida e indifferente.

Tre ettari di terreno erano coperti da uno strato di ghiaccio. E ogni ettaro di prato era separato dagli altri da un piccolo canale piuttosto profondo, largo circa un metro. E ben visibile. Il ghiaccio, che sull'erba era di un bianco opalescente, sopra i canaletti prendeva riflessi nerastri.

Non avendo i pattini, Fred e Edmée avanzavano con cautela. Per due volte Edmée rischiò di cadere e si aggrappò al braccio del cugino.

«Vuoi andare ancora più in là?».

«Sì, voglio andare fino in fondo».

Alcuni ragazzi volteggiarono loro intorno a gran velocità, esibendosi in figure difficili per far colpo su Edmée. La figlia del fornaio, invece, pattinava a una certa distanza tenendo gli occhi fissi su Fred, forse nella speranza che lui la raggiungesse.

Edmée assaporava il proprio trionfo. Guardava il bosco lì vicino, dove sapeva che Fred aveva portato la ragazzona. E le pareva di vederli: avevano entrambi naso, mani e gambe gelati. Ansimavano dopo la corsa e suo cugino aveva palpato brutalmente la compagna, poi l'aveva rovesciata su un mucchio di legna, o sulla neve, in un posto qualunque, come capitava, così come aveva cercato di fare con lei! Quell'altra belava di piacere! E nella tramontana si era lasciata scoprire le grosse cosce di un rosa da animale, con la pelle accapponata per il freddo.

Un quarto d'ora, aveva detto Mia. Appena!

Fred si bloccò un istante, pareva avesse incontrato un ostacolo. Poi tentò di trascinare subito via la cugina, ma Edmée intuì che era successo qualcosa e domandò:

«Che cos'hai?».

«Niente!».

Lei si assicurò che la figlia del fornaio non fosse in vista, guardò anche alle sue spalle ma non vide niente di strano.

«Che cosa c'è, Fred?».

«Andiamo!» disse lui.

Aveva la faccia stravolta.

Alla fine le venne in mente di buttare lo sguardo sul suolo ghiacciato. Avevano appena oltrepassato un canaletto grigioazzurro, lungo il quale alcuni bambini camminavano in fila indiana sui pattini di legno perché lì il ghiaccio era più liscio che altrove.

Ed ecco apparire, sotto i loro piedi, qualcosa di rosso. Edmée lasciò bruscamente il braccio del cugino e fece tre passi indietro.

Sotto una decina di centimetri di ghiaccio c'era una macchia rossa; guardando da vicino, si riconosceva la forma di un berretto e perfino, attraverso la lente d'ingrandimento del ghiaccio, i punti grossolani della maglia.

Allora Edmée raggiunse Fred, ed era così infreddolita che si stringeva nelle spalle. Non gli prese il braccio e lui finse di non accorgersene.

«Torniamo a casa!» disse lei.

E ora camminava svelta ora rallentava il passo senza un perché. La tramontana non era particolarmente violenta ma, quando colpiva la faccia, era così pungente che tagliava la pelle.

Percorsero senza una parola i tre chilometri che li separavano da casa. Fred si frugò nelle tasche cercando la chiave, finalmente aprì e Edmée si precipitò in cucina e subito sollevò il coperchio della stufa per scaldarsi le mani e la faccia.

«Vuoi bere qualcosa di forte?».

Lei non rispose. Senza togliersi il cappotto né il berretto di lontra, Fred andò in salotto a prendere la brocca di acquavite e riempì due bicchieri.

Non avevano ancora sparecchiato la tavola e su un piatto c'era un avanzo di omelette. I vetri delle finestre erano bianchi. Le fiamme del camino mandavano bagliori rossi.

Edmée vuotò il bicchiere d'un fiato e impiegò qualche momento a riaversi dal gran bruciore alla gola e al petto. Fred esitava ad avvicinarsi al fuoco e si teneva addosso il berretto e il cappotto.

«Edmée!».

«Sì...» disse lei senza voltarsi.

Teneva le mani aperte sopra la fiamma e le pareva di veder scorrere il sangue nelle proprie vene.

«Mi ascolti?».

«Sì...».

Era angosciata, benché sapesse già parola per parola quello che lui stava per dire. Per un attimo le tornò in mente la grossa testa di Jef e poi Mia, quando era entrata nella sua camera la mattina precedente.

«Se mi sistemassi in una città, a Bruxelles per esempio, o ad Anversa, accetteresti di sposarmi?».

Lei non rispose. Continuava a scaldarsi, fissando avidamente le proprie mani, che sembravano trasparenti.

«Non vuoi?».

«E le Irrigations?».

«Venderemo... Conosco già qualcuno che non si farà sfuggire l'occasione di comprare».

«Lo zio Louis?».

«Sì».

«E Jef, Mia, e gli altri?».

«Avranno denaro sufficiente per fare qualcosa».

«Ci penserò».

Si tolse il cappotto, sedette per sfilarsi le scarpe e appoggiò i piedi sullo sportello del forno.

«Voglio restare sola».

Fred se ne andò. Lo sentì sistemarsi nello studio. Lei sapeva che là dentro il fuoco era spento da un pezzo, ma lui ci restò ugualmente.

Intorno alle sei il calesse si fermò davanti alla porta. Mia e le bambine, livide per il freddo, si precipitarono verso la stufa.

«Dov'è Fred?».

«Nello studio».

«Non ha mangiato?».

Ma ecco che gli occhi le cadevano sulla tavola apparecchiata. Guardò Edmée reprimendo a stento un sorrisetto.

«Cosa vorresti dire?» domandò questa, aggressiva.

«Io? Niente!».

Nel frattempo era entrata anche la zia, sfinita, segnata in volto, con l'andatura fiacca, l'aria patetica di un animale abituato a essere trattato bene e che di punto in bianco si è preso una bella bastonata. Non era difficile immaginare come erano andate le cose. La famiglia al completo - fratelli, cognate, cugini, tutti insomma - si era accanita, se non proprio contro di lei, contro Fred, e si era parlato di processo, avvocati, procuratori, sequestro. La zia non si reggeva più in piedi e si lasciò cadere su una sedia senza neanche la forza di togliersi i guanti.

«Fred?» chiese.

Mia le rispose in fiammingo. Allora la zia guardò Edmée come l'aveva guardata sempre, con una curiosità che voleva essere benevola ma non riusciva a esserlo. In fondo, in lei c'era soprattutto la diffidenza della femmina verso la femmina di un'altra specie.

Quanto a Jef, stava staccando il cavallo per portarlo nella scuderia. Entrato quindi in cucina, prese con le dita l'avanzo di omelette e se lo cacciò in quella sua grande bocca, non per golosità ma per fame, il che non gli impedì di guardare con lo stesso stupore della sorella la tavola elegantemente apparecchiata.

Fu Mia a bussare alla porta dello studio, non subito però, solo dopo aver preparato un brodo bollente con del latticello, delle verdure e delle patate cotte il giorno prima. Fred sedette al suo solito posto. Sparita la tovaglia, i piatti erano appoggiati direttamente sul legno. Edmée aveva detto:

«Io non ho fame».

Ed era rimasta davanti alla stufa, con i piedi scalzi infilati nel forno. Fred fece una domanda a Mia, che rispose con aria imbarazzata. Avevano parlato in fiammingo, ma Edmée intuì a colpo sicuro il senso di quello scambio di battute:

«Che cosa hanno detto?».

«Che ti metteranno sotto processo».

Allora, languida come una malata, sforzandosi di tossire fino a squarciarsi il petto, Edmée chiamò:

«Fred!».

Si girarono tutti verso di lei, con i cucchiai a mezz'aria.

«Dimmi!».

«Bè, la risposta è sì».

Il cucchiaio di Jef fu il primo a rimettersi in moto.

Con voce innaturale, Mia disse:

«Devo salire in camera».

Le bambine non ci capivano niente, andavano con lo sguardo dall'uno all'altro. Quanto alla zia, la testa china sul piatto, mangiava senza sapere quello che mandava giù. Era pallida, e tratteneva il respiro. Fred armeggiava con il cucchiaio facendo un gran rumore.

Sovrastante il tutto, c'era il ritmico ronfare del fuoco e il fracasso prodotto dal coperchio di una pentola che il vapore sollevava senza sosta.

A destra, più opalescenti che mai, i vetri delle due finestre coperti di brina.

Fuori tutto era di un bianco assoluto, un bianco scintillante, lunare, interrotto soltanto dalle linee nere dei pioppi e in un punto, sotto la crosta di ghiaccio, dalla macchia rossa di un berretto da bambino.

 

Uscendo dal tribunale con il suo cancelliere, l'imponente e gioviale giudice istruttore Coosemans ebbe la fortuna di imbattersi nel dottor Van Zuylen che andava a consegnare un referto.

«Salga, Van Zuylen!» gli disse spingendolo in un taxi. «Il dovere ci chiama, e il procuratore è già andato avanti con la sua macchina».

Anversa era avvolta da un manto autunnale di pioggia sottile che rendeva scivolose le strade. Davanti alla stazione centrale persero un po’ di tempo per via di un ingorgo, dovuto all'arrivo del treno da Parigi. Superato quel punto, si inoltrarono in un quartiere tranquillo, senza negozi, con strade larghe e case a tre piani che si assomigliavano tutte. Nonostante la pioggia, davanti al numero 73 c'era un piccolo assembramento. Proprio in quell'istante un'automobile privata che proveniva dal senso opposto rispetto al taxi si fermò sul bordo del marciapiede, e il giudice Coosemans non riuscì a trattenere un sorriso soddisfatto: benché fosse partito cinque minuti prima, il procuratore arrivava solo in quel momento. È vero che guidava lui e che era molto miope.

C'erano due agenti a mantenere l'ordine. La piccola folla che stazionava sul marciapiede era composta essenzialmente da vicini di casa, soprattutto donne che l'evento aveva distolto dai lavori domestici e spinto a munirsi in fretta e furia di un ombrello. Quando la gente si rese conto che i nuovi arrivati erano della procura e videro il commissario precipitarsi con grande sollecitudine verso il procuratore, calò un silenzio solenne.

Come le altre case del quartiere, anche questa aveva tre piani. La facciata era in pietra al piano terra, per il resto in mattoni intonacati di recente. Fin dall'ingresso si capiva che solo un dramma aveva potuto incrinare un'armonia fatta di nitore e di ordine, lasciando tracce di passi e persino rivoli d'acqua sulle piastrelle dell'andito abbellito da un portaombrelli di maiolica azzurra.

Il giudice Coosemans annusò l'aria.

«Che tanfo di medicinali!».

E il procuratore indicò con una smorfia di disgusto una targa di ottone fissata alla porta a destra, sulla quale si leggeva:

 

MEDICODENTISTA

 

Il dentista medesimo, in camice bianco, e sua moglie, che non si era ancora pettinata, stavano in fondo alla scala.

«Li ho già interrogati. Non sanno niente» disse il commissario di quartiere. «Come vedete, non c'è portineria. Nell'orario di visita la porta rimane aperta e chiunque può entrare».

A mano a mano che ci si avvicinava alla scala, l'odore di linoleum si mescolava con quello dello studio medico. Le pareti erano dipinte a finto marmo.

«È su?».

I quattro uomini salirono in fila indiana e, l'una dopo l'altra, si videro quattro mani scorrere sulla ringhiera.

«La vecchia signora al primo piano è la proprietaria dello stabile. Se pensa di parlarle, procuratore, deve farlo a voce molto alta perché è sorda come una campana».

La donna stava sul pianerottolo e forse non era poi così sorda, visto che lanciò al commissario uno sguardo sprezzante. Indossava un abito nero guarnito di jais, mezzi guanti e scarpe con grandi fibbie d'argento come quelle di certi preti.

«Lei sa qualcosa, signora?».

Dal piano superiore provenivano leggeri rumori, ma il procuratore indugiava, scuoteva il capo e di tanto in tanto interrompeva la vecchia per fare al cancelliere un cenno che significava:

«Mi raccomando, prenda nota! Questo è molto interessante!».

E il cancelliere scrisse testualmente sul suo taccuino:

 

«Coniugi Van Elst, in affitto da otto mesi, cioè da quando si sono sposati. Lui è segretario presso la Compagnia di navigazione francobelga. La proprietaria sostiene di sentire quando camminano sopra la sua testa. La Van Elst si alza tardi e non è una brava donna di casa. Cucina poco o niente. Mangiano piatti freddi o vanno al ristorante. La sera rincasano tardi. Niente amici. Unica visita il fratello Van Elst, che non si pulisce mai i piedi».

 

«È esatto, commissario?».

«Sì, è esatto. Ed è anzi grazie a quest'ultimo particolare che abbiamo una pista significativa. Questa mattina, un po’ prima delle nove, un uomo è salito ed è rimasto su quasi mezz'ora. La signora dice di averlo sentito camminare molto poco. La Van Elst era ancora a letto. Quando se n'è andato, la proprietaria ha cercato di vedere chi era, ma è riuscita a scorgerlo solo di spalle. In compenso, sul linoleum della scala c'erano evidenti tracce di passi, che lei ha riconosciuto perché per ben due volte aveva pregato lo stesso visitatore di pulirsi i piedi».

«Il fratello?».

«Appunto».

Il procuratore ricominciò a salire, seguito da tutti gli altri.

«Vuole cominciare col prendere visione del corpo?».

Bisognava soltanto spingere la porta sulla sinistra e si entrava in una camera da letto piuttosto banale, come se ne vedono nelle esposizioni dei grandi magazzini. Mobili e tappeti erano ancora nuovi.

Il procuratore scorse dapprima l'immagine di un letto disfatto e di un corpo di donna seminudo nello specchio dell'armadio; quindi si voltò per vederli in tutta la loro realtà, si tolse gli occhiali, li rimise, li tolse di nuovo per pulirne le lenti e darsi il tempo di riprendere fiato.

Un piumino rosa era scivolato sullo scendiletto. Un poliziotto stava in piedi accanto alla finestra non sapendo che fare né dove guardare. Sul comodino la sveglia continuava a ticchettare. Per terra, un paio di pantofole consumate e una sottoveste.

«Che mi dice, dottore?».

Il viso della morta era minuto e i capelli castani sparsi sul cuscino erano molto fini, serici, quasi vivi. Per prima cosa il medico le abbassò le palpebre e valutò con la punta dell'indice la rigidità del corpo, poi si girò un po’ imbarazzato verso gli altri e mormorò:

«E stata strangolata, è chiaro, ma...».

Alzò le spalle.

«Dopo tutto, pazienza!».

E si chinò sul cadavere coperto solo da una camicia sollevata sul ventre. Il procuratore voltò la testa dall'altra parte. Il giudice Coosemans ne approfittò per riaccendersi il sigaro e il cancelliere domandò al commissario:

«È questa la signora Van Elst?».

«Sì, Edmée Van Elst, di anni diciannove, nata a Bruxelles».

Il dottore si rialzò, e mentre cercava il bagno disse:

«È stata violentata».

Aveva coperto il corpo e il viso della morta con il lenzuolo e ora lo sentirono, nel locale adiacente, lavarsi molto accuratamente le mani. Quando il procuratore fece per uscire, il commissario lo trattenne.

«Guardi cosa c'era sul letto».

Quattro pietre viola, che sembravano appartenere a un gioiello antico; un cofanetto scolpito, con la lettera E incrostata di un metallo prezioso, e infine un brandello di stoffa rossa lavorata a maglia.

«A proposito di questi oggetti ho già interrogato il marito».

«Un momento, commissario, andiamo con ordine. Chi ha scoperto il delitto?».

«Il lattaio, che sale tutte le mattine alle nove e mezzo e che ha subito avvertito gli altri inquilini. Mi hanno telefonato, e a mia volta ho informato lei prima di correre qui».

«Il marito dov'era?».

«Il dentista del piano terra lo ha chiamato in ufficio. Adesso è di là, in sala da pranzo. Quelle pietre, che detto fra noi devono essere false, lui non le ha mai viste, e neppure il cofanetto. Del brandello di stoffa rossa non ha detto nulla».

Da quando il cadavere era stato coperto parlavano a voce più alta.

«Non ha detto nient'altro?».

«Si è messo ad andare su e giù gridando come un pazzo. Poi si è buttato in ginocchio. Si è rialzato e ha spaccato la sedia che vede qui. È un tipo molto forte, sanguigno. Piangeva, urlava. A un certo punto si è gettato con la testa contro il muro e allora l'ho fatto accompagnare in sala da pranzo, dove uno dei miei uomini lo tiene d'occhio».

Il procuratore si guardò intorno per assicurarsi di non aver dimenticato niente, dopodiché uscì sul pianerottolo e aspettò che il commissario aprisse la terza porta; la seconda, che era socchiusa, dava sulla cucina.

Dalle finestre guarnite di tende di tulle si vedeva la casa di fronte con la gente affacciata a sbirciare. Un vecchio signore si era persino munito di binocolo.

«Dov'è?».

L'agente indicò Fred Van Elst accasciato in un angolo contro la credenza, il mento sul petto, i capelli arruffati, le braccia ciondoloni.

«Si alzi, per favore».

Lui si limitò a sollevare la testa, mostrando un viso gonfio, tumefatto, occhi rossi dalle palpebre pesanti e, sul labbro superiore, un'escoriazione che sanguinava.

«Cosa c'è?» balbettò con voce così impastata che il commissario dovette chinarsi per sentire.

«Il procuratore e il giudice istruttore vorrebbero sapere...».

L'uomo raddrizzò lentamente il corpo fiacco, andò dall'uno all'altro con lo sguardo inebetito e si passò la mano sulla fronte. Il procuratore era perplesso. Il commissario guardò il poliziotto con aria interrogativa.

«Cosa c'è?» andava ripetendo Fred, appoggiandosi così pesantemente con i gomiti alla credenza da rovesciare una tazza.

Il poliziotto indicò, per terra, vicino alla sedia, una bottiglia di rum completamente vuota.

«Volevo dargliene un po’ per tirarlo su, avevo paura che facesse qualche sciocchezza. E lui se l'è bevuta tutta!».

Fred, con i gomiti sulla credenza, li guardava come se non li vedesse, con uno sguardo vitreo attraversato da lampi di lucidità.

 

Dall'anziana proprietaria, che non si era mossa dalla sua postazione d'ascolto sul pianerottolo, ebbero l'indirizzo del fratello, Jef Van Elst, che abitava a Berchem, alla periferia di Anversa, con la madre e le sorelle più piccole. Il procuratore fece salire il medico sulla sua macchina, mentre il giudice Coosemans prendeva il commissario a bordo del taxi.

«Tutto sommato, mi pare che il caso non presenti difficoltà» concluse il giudice. «A parte il fatto che scovare questo fratello non sarà uno scherzo...».

Stavano percorrendo una lunga arteria commerciale dove i passanti, simili a formiche, andavano su e giù sul selciato viscido di pioggia. Il giudice Coosemans fumava lentamente il suo sigaro, che riempiva il taxi di fumo azzurrognolo.

«Avremo un inverno uguale a quello di due anni fa: nebbia e pioggia. Per quel che mi riguarda, preferisco i grandi freddi, come l'anno scorso».

Ai lati dell'auto sfilavano le insegne luminose. Il taxi superava tram, camioncini che effettuavano consegne, grossi camion di birrai.

Dopo un incrocio, la strada diventò più larga, meno rumorosa, e le case più basse. La berlina del procuratore si fermò davanti a un edificio, tutto in lunghezza, che sembrava costruito intorno a un grande portone.

Il corpo abitativo vero e proprio era sulla sinistra; aveva piccole finestre munite di tendine color crema e un vaso di rame su ogni davanzale. Un'insegna pitturata di fresco annunciava:

 

FABBRICA DI FINISSIMA PASTICCERIA VAN ELST

 

Già dalla strada si avvertiva un vago odore zuccherino. Il commissario suonò e una bambina sugli otto anni aprì guardando tutti quei signori con aria spaventata.

«È in casa Jef Van Elst?».

«Dovete passare dall'altra porta».

Parlava il fiammingo del Limburgo, diverso da quello di Anversa. I capelli biondi erano legati in una treccia stretta che scendeva come una codina rigida sul grembiule a quadretti rosa.

«Vi accompagno».

Chiuse la porta e fece qualche passo sul marciapiede dirigendosi verso il portone grande.

«Questa mattina è uscito?» le chiese il procuratore fermandola un attimo.

«Sì, è uscito».

Attraversarono l'androne. Nel cortile c'era un camioncino che recava scritta la stessa ragione sociale dell'insegna sulla casa e l'odore di zucchero era più intenso. Gli uomini che seguivano la bambina si lanciavano sguardi perplessi.

«Dì un po', ragazzina, dov'è tua madre?».

«Eccola là, dietro la finestra, con mia sorella Mia che viene a darci una mano per le consegne di Natale e Santa Klaus».

In una stanza dal soffitto basso si vedevano tre donne sedute vicino alla finestra davanti a grandi latte piene di caramelle rosse e blu. Le prendevano a una a una e le avvolgevano in una cartina trasparente. La più giovane delle donne si alzò, aprì la porta e gridò:

«Che cosa c'è, Alice?».

Era incinta, aveva i lineamenti tirati e un'ombra giallastra intorno alle narici.

«Cercano Jef!».

Dietro il vetro bagnato si scorgeva la più anziana piegare le cartine con movimenti regolari, senza vedere niente, forse senza pensare. Aveva un volto magro e rassegnato, occhi incolori. Due galline becchettavano nel cortile.

«Per di qua!».

E Alice li guidò verso un cortile più piccolo ingombro di barili di zucchero di patata accatastati sotto la pioggia.

«Jef!».

La bambina aprì una porta e apparvero i bagliori rossi di un forno aperto.

«Jef!».

Era stupita, preoccupata.

«Fate entrare prima me» disse il commissario scostandola.

E gli uomini passarono l'uno dietro l'altro lasciando fuori la bambina. Su lunghi tavoli di marmo erano allineati vassoi pieni di caramelle e altri piccoli dolci che aspettavano di essere avvolti nella carta. All'odore di dolciumi si mescolava quello acre dello zucchero bruciato.

Dovettero anzitutto abituarsi alla penombra. Le fiamme del forno ferivano le pupille. A poco a poco cominciarono a distinguere i contorni delle cose e solo allora videro che là c'era un uomo, con i capelli tutti infarinati, seduto davanti al fuoco con la testa fra le mani.

Indossava un vecchio paio di pantaloni tenuti su da una cinghia e una blusa senza maniche come ne portano i fornai. Le braccia nude mostravano muscoli rotondi e prominenti. Prima di procedere, il procuratore ebbe qualche istante di esitazione. Quanto al commissario, ad ogni buon conto, tirò fuori di tasca la pistola.

«Jef Van Elst!... In nome della legge, le intimo di arrendersi senza opporre resistenza...».

La schiena ebbe un'oscillazione, poi, lentamente, l'uomo si alzò dondolando una testa così grossa che, alla luce dei bagliori del forno, sembrava disumana. Con la stessa lentezza si girò, e tutti videro che era calmo e aveva gli occhi asciutti.

«Sifilide congenita...» sussurrò il dottore al giudice Coosemans, che non udì o non capì.

La bambina voleva entrare anche lei.

«Va dalla mamma a giocare!» la esortò il procuratore.

Il commissario riprese:

«Jef Van Elst, in nome della legge, la dichiaro in arresto per l'omicidio e lo stupro di sua cognata, Edmée Van Elst, commessi questa mattina al domicilio della stessa, in rue de Bruxelles».

Allora l'uomo che stava loro davanti, e il cui volto aveva il colore terreo della farina, si passò le mani sulle guance, sulle palpebre, sulla nuca.

«Ah, già...» sospirò.

E si girò verso il fuoco. Il commissario, temendo che si lasciasse andare a un gesto inconsulto, gli balzò addosso e lo immobilizzò. Jef si liberò di lui con uno strattone; fermo al suo posto, mormorò:

«Non fate tutto questo rumore! Le bambine potrebbero sentire...».

Dopo un attimo di silenzio aggiunse:

«Usciremo dalla porta principale».

Sembrava che a trattenerlo fosse il fuoco. Aveva fissato le fiamme così a lungo che ora guardava i visitatori con occhi ciechi.

«Jef Van Elst,» scandì solennemente il procuratore, facendo segno al cancelliere di annotare subito la risposta «perché ha ucciso sua cognata?».

Il commissario teneva pronte le manette. Intanto una voce acuta, quella della sorella incinta, chiamava dal cortile:

«Alice!... Alice!...».

Con astio improvviso Jef rispose:

«Lei che cosa avrebbe fatto al posto mio?».

La notte seguente si buttò dalla finestra dell'infermeria del carcere. Era situata al terzo piano, e lui agonizzò per sei giorni prima di morire.