mercoledì 12 marzo 2025

ULISSE (ULYSSES) James Joyce



ULISSE (ULYSSES)
James Joyce

Ulisse è un labirinto di parole e di situazioni che appaiono senza uscita. Ragione per cui ad esempio, Virginia Woolf, che pure utilizzò alcune tecniche di narrazione in tutto simili a quelle dell’autore irlandese, disprezzava questo romanzo. Disse: «Mi ha interdetto, annoiato, irritato e disilluso, come di fronte a un disgustoso studente universitario che si schiaccia i brufoli».  

Vero è molto faticoso leggerlo, anche se alla fine del percorso riconosci che è un capolavoro.

Scrive Gianni Celati (sua è la traduzione): «Il punto focale di Mr. Bloom è la vita qualsiasi, la vita senza niente di speciale, la vita come un sogno o un lungo chiacchierare con se stessi»

Quello che mi affascina è questo dispiegarsi del flusso di coscienza come progressiva rivelazione della complessità dell'uomo.

 Poi alla fine come non ritrovarsi in Penelope-Molly Bloom alla quale fa dire la parola che, forse, è la vera chiave di volta per interpretare e comprendere il travagliato viaggio condotto nella Dublino di inizio Novecento: «Sì». Con questa parola, , si conclude Ulisse, e quel Sì, così deciso, rappresenta l’accettazione incondizionata, ma non passiva, della condizione umana nel mondo. Agli occhi di Joyce, Molly è espressione della fisicità assoluta e dell’essenza della natura femminile.

È il 16 giugno 1904. Dalle 8 alle 2 di notte.

In una Dublino – universo, il pubblicitario ebreo di origini magiare Leopold Bloom (Ulisse) vive la sua vita quotidiana. C’è la moglie Molly (Penelope), c’è Stephen Dedalus, (Telemaco) il quasi figlio, proiezione di sé stesso e dell’umanità intera. Ci sono gli amici, le persone che incontra, i pensieri degli individui, delle cose, del mondo.

Diciotto ore. Diciotto capitoli. Una vita intera. Tra pantomima, scherno e poesia.

Diciotto stili narrativi, diciotto libri diversissimi, un’autentica lezione di genio letterario e costruttivo, un dominio assoluto della materia lessicale, la distorsione del linguaggio al servizio della creatività.

Una rivoluzione tematica e lessicale. Inconcepibile, illeggibile, inarrivabile, irresistibile.

L’Ulisse di James Joyce libro-monstre spauracchio per molti è in realtà un libro divertentissimo e pieno di umorismo ma per leggerlo occorre abbandonare ogni consuetudine formale occorre lasciarsi trasportare dalle parole come in una nuova grammatica occorre lacerare ogni velleità di aderenza alla realtà il nonsense diffuso la voluta ampollosità di certi brani la mostruosa visionaria fantasia dei capitoli centrali il famigerato leggendario stream of consciousness che permea l’ultimo capitolo scritto senza l’ausilio di punteggiatura presuppongono l’incondizionata sottomissione del lettore la capacità di interligere ogni parola ogni riga ascoltare il suono il fruscio della mente.

Ulisse non è il racconto di ciò che accade, ma la radiografia di ciò che passa nelle menti degli uomini, la messa a nudo delle paure, delle pulsioni, dei desideri. Di ciò che rende vivi, e di ciò di cui abbiamo paura. Per questo è un libro difficile. Perché è uno specchio.

ULISSE

Traduzione e Prefazione di Gianni Celati

Il disordine delle parole

Su una traduzione dell’«Ulisse» di Joyce

Ho iniziato la mia traduzione dell’Ulisse di Joyce sette anni fa. Quelli della casa editrice ci avevano messo cinque anni per convincermi ad assumere quel compito. Infine ho detto di sí, con il sentimento di chi si butta in un mare tempestoso senza certezza di poter stare a galla.


Negli anni universitari avevo comprato una copia dell’Ulisse a Londra, in un negozio di libri usati. Stanco per il lavoro che facevo (lavavo piatti in un ristorante), ogni giorno riuscivo a leggere al massimo la metà d’una pagina, e spesso i dizionari consultati al British Museum non mi aiutavano per niente. Un’altra cosa che mi confondeva era la difficoltà nel distinguere parlate speciali, irlandesi o britanniche, oppure parole che sembravano suoni di quartiere o da bordello. Un altro caso è questo: una pagina del mio libro finiva con una M maiuscola fuori dalle linee, e la prendevo per una trovata modernista. Tornato in Italia il mio professore d’inglese mi spiegò che era un semplice refuso tipografico. La prima stampa dell’Ulisse, edita a Parigi nel 1922, era una costellazione di bozze mal corrette, con qualche frase persa per strada.


Il mio professore di Letteratura inglese era Carlo Izzo, il quale faceva parte del gruppo di esperti che avevano revisionato la prima traduzione italiana dell’Ulisse, ed è stato lui a segnalarmi le difficoltà a cui andavo incontro. Affrontare quelle ricerche in varie biblioteche, tentando di leggere espressioni di cui capivo poco, tutto questo mi rendeva titubante, ma mi portava anche il pensiero all’idea di un’impresa utopica. Infine è stata la passione letteraria di Carlo Izzo a guidarmi verso la lettura di quel libro – libro che ora mi appare come un flusso oceanico, dove ci si perde continuamente e a ogni momento si va incontro a un azzardo.


La regola delle dodici ore di lavoro al giorno non mi portava molto avanti. Certi giorni riuscivo a tradurre passabilmente tre o quattro pagine, non di piú. E i dubbi erano sempre troppi: cioè erano aspetti d’una lingua che capivo solo vagamente, anche aiutandomi con i testi annotati (come Ulysses Annotated di Don Gifford, veramente essenziale). Ma è qui che il libro di Joyce si staccava dal ceppo di tutti gli altri del suo tempo, perché il suo parlare era sempre un gioco, un’acrobazia con generi o pronunce insolite e stravolte. E ho capito per strada che quella dell’Ulisse non era precisamente una lingua, era una stralingua, che prendeva dentro echi d’ogni genere, con un lessico piú espanso di tutti i testi che si conoscono.


Il suo era un libro irlandese, britannico, gaelico, alieno come le satire di Jonathan Swift quando parla dei signori inglesi, e pacato come la saggezza di Pantagruele, e buffonesco come i nostri eroi maccheronici. E oltre a ciò, comparivano gerghi fossilizzati, stilemi di varie epoche, reminiscenze letterarie e voci antiche – come quella locuzione (Ayenbyte of Inwyt) trovata in un testo trecentesco del Kent, che appare un paio di volte nella mia versione, ma resta nella memoria (l’ho tradotta con una voce latina, Morsura animi, per mantenere il sapore d’una voce antica).


Qui ho capito che dovevo coinvolgermi in simili azzardi e accettare il disordine delle parole, come le mescolanze e variabilità delle fantasie. Per questo non è importante capire tutto: è importante sentire una sonorità che diventa piú riconoscibile proprio quando ci sembra di piombare fra termini incerti – gerghi fossilizzati, chiacchiere da pub, stele di varie epoche.


Fin dal terzo episodio l’Ulisse abbandona la narrativa del naturalismo e lascia emergere un disordine delle parole, guidato da divagazioni del pensiero che si coagulano nel cosiddetto stream of consciousness o «flusso di coscienza»: un continuo succedersi di pensieri e immagini che passano per la testa dell’io narrante, si disfano o si richiamano l’uno con l’altro, quasi senza sosta. Ed è un disordine liberatorio, dove le percezioni d’un dentro e d’un fuori collimano, scivolando dall’uno all’altro, richiamandosi a vicenda, dalle vedute attuali al ricordo come una forma di rêverie (sogno o fantasticazioni). È la base dell’itineranza continua di questi eroi, comune a Stephen Dedalus e a Leopold Bloom.


Lo stream of consciousness trasforma radicalmente l’idea delle trame romanzesche impostate su sequenze lineari. In quegli anni c’è solo un autore che percepisce come Joyce un senso generale del movimento discontinuo, ma collettivo in ogni angolo, in ogni transito in una carraia, in ogni luogo di negozi o di fabbriche: sarà il grande cineasta russo Dziga Vertov, che nel suo straordinario film del 1929 (L’uomo con la macchina da presa) sembra aver appreso certi aspetti delle tendenze di Joyce, per farne un flusso di vite.


Dopo l’uscita iniziale con la camminata di Mr Bloom, c’è qualcosa che s’espande, con una riconoscibile tonalità emotiva. Il tono aumenta nella divagazione con cui Mr Bloom al cimitero rimugina sul fatto che tutti i nostri morti diventeranno cibo per vermi. E nelle tonalità in crescendo cominciano ad apparire inserzioni di brani sempre piú separati, come quello d’un reduce zoppo che suona per le strade o i gabbiani sul fiume Liffey in cerca di cibo, o qualcuno sul fiume che predica l’avvento del nuovo Elijah, o le squadre di portatori di cartelloni pubblicitari sui bordi del marciapiede, o la serie dei tram che girano intorno alla statua di Nelson – tutti aspetti del «flusso di coscienza» che attira o distrae Mr Bloom.


Ma nel procedere degli episodi, sempre diversi, spuntano nuovi modi di distrazione del pensiero – strani suggerimenti che portano a una diffusa rêverie, come ad esempio la lettura sentita in un pub d’un boia che presenta al municipio le proprie credenziali per essere assunto, o un cane ringhioso che secondo un dotto germanico pare abbia interpretato i suoi ruggiti con le forme delle arti allitterative gaeliche, oppure una pesante prosa trecentesca per onorare parodicamente il motto evangelico «crescete e moltiplicatevi», oppure la caterva di parole specialistiche e di pagine diffuse in un convegno medico insensato, dove si imitano con gran pompa vari esempi di prose settecentesche. Impossibile tradurre simili funambolismi senza appiattirli, perché il lessico joyciano ha un’espansione senza paragoni, su queste imprese. E l’Ulisse è il libro con il lessico piú espanso di tutti i testi stampati che conosciamo.


Assieme a questo si diffondono le inserzioni divaganti che superano ogni criterio «da bene», fino alla notte nel quartiere dei bordelli, dove il flusso di coscienza sembra un pensiero invaso da fantasmi (dagli oggetti ai personaggi apparsi), dove ogni cosa può parlare e dire la sua, con una società di alieni come i signori inglesi che erano indicati da Swift nelle sue satire. E infine il bordello dove Mr Bloom si sorbisce le punizioni dell’uomo sensuale medio.


Difficili capitoli, sempre piú stravolti. Ma credo che tutte le difficoltà si superino, a patto di non avere fretta e di accogliere con simpatia il disordine delle parole. Per questo non è importante capire tutto: è piú importante sentire una tonalità musicale o canterina, che diventa piú riconoscibile quando ci sembra di piombare in un flusso disordinato di parole. L’Ulisse è un libro in cui la musicalità è l’aspetto decisivo per tutti i rilanci, deviazioni, sorprese, iterazioni, monologhi. È un libro sentito e sostenuto da quella speciale percezione che è la musica, al di là del senso oggettivo delle cose o assertivo delle parole, ma che fa parte di qualsiasi sonorità che si diffonde in qualunque direzione.


Del resto l’Ulisse è un libro scritto da qualcuno che doveva diventare tenore (Joyce quando abitava a Trieste), uno che aveva imparato a trasmettere sulla pagina ciò che i musicisti chiamano «orecchio interno», al di là del senso oggettivo delle parole. In effetti, se facessimo il calcolo di quante cantate spuntano nell’Ulisse ogni poche pagine, vedremmo un ventaglio di citazioni canterine che sono la spina dorsale joyciana per scavalcare tutti i discorsi e intendersi con diversi richiami musicali: dall’opera lirica alla filastrocca oscena, da un canto gregoriano («Gloria in excelsis Deo») al rumore della carrozza del viceré che passa sul lungofiume («Clapclap, Crilclap»), dai nursery rhymes a una poesia tedesca sul canto delle sirene («Von der Sirenen Listigkeit...»), dal verso del cuculo («Cucú! Cucú») al Fiore di Siviglia (opera lirica), dalle battute per tenere il ritmo d’una pagina («Tum» «Tum») a quelle di altri suoni («Pflaap! Pflaap! Pflaaaap»), alla cantata mozartiana, ricorrente nei pensieri di Mr Bloom: «Vorrei e non vorrei, mi trema un poco il cor», e cosí via.


Il punto focale della peregrinazione di Mr Bloom è la vita qualsiasi, la vita senza niente di speciale, la vita come un sogno o un lungo chiacchierare con se stessi. Ed è il moto moderno ininterrotto, col senso di parole che sfuggono appena udite davanti ai negozi di Grafton Street, o apparse sulla vetrina d’un negozio d’un orologiaio. È ancora la vita qualsiasi che passa ogni secondo, con suoni moderni e canzonette e arie d’opera, e la pubblicità di prodotti esibiti su cartelloni portati in spalla.


Anche tutto questo nella mia traduzione diventa un problema, a cui ho cercato di dare una risposta, rievocando semplicemente questa vita qualsiasi, di cui Mr Bloom è il rappresentante. Ma soprattutto facendo emergere come possibile il senso del canto continuo, il cantare qualsiasi, che per tradizione è la cosa spicciola per far passare il tempo della vita qualsiasi. Il che mi fa anche pensare (dubbioso) che gli irlandesi siano (o fossero a quei tempi) molto piú canterini dei nostri connazionali (d’oggi) – e la fioritura di canzoni o brani d’opera sulle loro labbra è qualcosa di cui Joyce fa un fenomeno nazionale. E questo mi riporta al fatto (ipotetico) che Joyce non riuscisse a pensare a nulla che non fosse un fenomeno musicale – al di là di tutte le imperanti categorie di verità logica o di certezza dialettica, che l’Umanesimo ha lasciato in eredità a tutto l’Occidente.

GIANNI CELATI

1.

Imponente e grassoccio, Buck Mulligan stava sbucando dal caposcala con in mano una tazza piena di schiuma, su cui s’incrociavano uno specchio e un rasoio. La sua vestaglia gialla, priva di cintura, era lievemente sollevata sul retro da una dolce arietta mattutina. Tenendo alta la tazza, intonò:


– Introibo ad altare Dei.


Fermatosi, scrutò giú nel buio della scala a chiocciola con un richiamo sguaiato.


– Vieni su, Kinch, disgustoso d’un gesuita.


Avanzò solenne e salí sulla rotonda piattaforma del bastione. Qui fece un giro d’occhi e con gesti compassati benedisse tre volte la torre e la contrada circostante e le montagne al risveglio. Indi, adocchiato Stephen Dedalus, si chinò verso di lui abbozzando alcuni svelti segni della croce nell’aria, borbogliando e scuotendo il capo. Stephen Dedalus, sonnacchioso e tediato, appoggiò le braccia in cima alla scala e squadrò gelidamente la faccia che lo benediceva bofonchiando e ballonzolandogli davanti, faccia lunga da cavallo, con l’intonsa zazzera bionda, tinteggiata d’un pallido color quercia.


Buck Mulligan sbirciò per un attimo sotto lo specchio e coprí la tazza con gesto svelto:


– Presto, tutti in caserma! gridò, severo.


E aggiunse con voce da predica:


– Poiché questa, o miei dilettissimi, è genuina e cristina sostanza, corpo e anima, sangue e liquame e via discorrendo. Musica lenta, prego. Chiudete gli occhi, signore e signori. Un momentino. Un po’ di fastidio con quei corpuscoli bianchi? Fate tutti silenzio.


Diede una guardata indagatrice di sbieco e lanciò un lungo fischio di richiamo a note basse, indi fece una pausa in assorto ascolto, coi bianchi denti regolari che gli brillavano qua e là a barbagli d’oro. Chrysostomos. Seguirono due fischi forti e acuti traversando la quiete.


– Grazie, vecchio mio, fece Buck con tono vispo. Può bastare. Spegni la luce, ti spiace?


Saltò giú dalla piattaforma del bastione e restò a fissare con aria seria il suo osservatore, avvolgendosi i lembi fluttuanti della vestaglia intorno alle gambe. Il viso pasciuto con zone d’ombra e mandibola ovale aggrondata poteva far pensare a un prelato, un protettore delle arti nel medioevo. Un sorriso simpatico si fece strada pacificamente sulle sue labbra.


– Che cosa ridicola, disse in tono gioviale. Quel tuo nome assurdo, da greco antico.


Gli puntò contro il dito a mo’ di scherzo cameratesco e andò al parapetto, ridacchiando tra sé. Stephen Dedalus venne su dal caposcala e lo seguí con aria fiacca fino a mezza via, sedendosi indi sull’orlo della piattaforma e restando a osservarlo in silenzio mentre l’altro appoggiava lo specchio al parapetto, poi intingeva il pennello nella tazza e si insaponava guance e collo.


Sempre allegra, la voce di Buck Mulligan continuò:


– Anche il mio nome è assurdo: Malachi Mulligan, due dattili. Ma ha un certo che di greco, non ti pare? Saltellante e solare come un cerbiatto. Dobbiamo andare ad Atene. Ci verresti, se riesco a raspare venti sterline fuori dalle scarselle di mia zia?


Mise il pennello da parte e ghignando di gusto gridò:


– Ci verrà l’emaciato gesuita?


Qui s’interruppe e prese a radersi con cura.


– Dimmi una cosa, Mulligan, fece Stephen, in tono pacato.


– Parla, anima mia.


– Questo Haines, quanto tempo deve restarci qui nella torre?


Buck Mulligan mostrò una guancia rasata al di sopra della spalla destra.


– Perdío, che tormento quel tizio, eh? rispose con franchezza. Un pesantissimo sassone. Secondo lui, tu non sei un gentiluomo. Dio mio, questi porci d’inglesi che scoppiano di quattrini e d’indigestione. Viene da Oxford, capirai! Sei tu che hai delle maniere veramente da Oxford, sai, Dedalus? Quello non ci arriva a capirti. Io ti ho battezzato bene: Kinch, lama di coltello.


Si passò il rasoio sul mento con cauti gesti.


– Tutta la notte ha farneticato su una pantera nera, fece Stephen. Dov’è che tiene il fucile?


– Un lunatico coi fiocchi, rispose Mulligan. Hai avuto fifa?


– Sicuro, disse Stephen energicamente e con l’aria ancor piú spaurita. Là al buio con un tale che non conosco, che delira e borbotta tra sé di sparare a una pantera nera. Tu hai salvato della gente che stava per annegare, ma io non sono un eroe. Se lui resta io vado via.


Buck Mulligan guardò accigliato la schiuma sul rasoio. Poi saltò giú dalla postazione soprelevata e prese a frugarsi in fretta nelle tasche dei pantaloni.


– Uff, che rottura di scatole! brontolò tra i denti.


Venne avanti nella piazzola e ficcò una mano nel taschino di Stephen dicendo:


– Prestami il tuo straccetto da naso, devo pulire il rasoio.


Stephen lasciò che gli tirasse fuori il fazzoletto sudicio e sgualcito, e lo tenesse per un angolo in bella mostra. Buck Mulligan pulí diligente il rasoio. Poi scrutando il fazzoletto disse:


– Il porta-moccio del bardo. Un nuovo colore artistico per i nostri poeti irlandesi: il verde caccola di naso. Dà l’impressione di sentirne il gusto in bocca, vero?


Salí di nuovo sul parapetto e lasciò spaziare lo sguardo sulla baia di Dublino, con la sua bionda chioma color quercia pallida lievemente mossa dalla brezza.


– Dio, disse calmo. Il mare è proprio come lo chiama Algy, una dolce madre grigia, no? Mare verde caccola. Mare scroto-costrittore. Epi oinopa ponton. Ah, Dedalus, i greci! Devo insegnarti. Devi leggerli nell’originale. Thalatta! Thalatta! La grande dolce madre. Vieni qui a vedere.


Stephen si drizzò in piedi e andò al parapetto. Appoggiandosi guardò in giú l’acqua e il battello postale che stava uscendo dall’imboccatura di Kingstown.


– La nostra possente madre, disse Buck Mulligan.


E d’un tratto volse i grandi occhi indagatori dal mare verso il viso di Stephen.


– Mia zia pensa che hai ucciso tua madre. Per quello non vuole ch’io abbia a che fare con te.


– Qualcuno l’ha uccisa, rispose Stephen cupo.


– Kinch, quando tua madre te l’ha chiesto in punto di morte, Cristo, potevi inginocchiarti, no? fece Buck Mulligan. Io sono un iperboreo quanto te. Ma se penso che tua madre t’ha chiesto d’inginocchiarti a pregare per lei col suo ultimo respiro, e tu non hai voluto… C’è qualcosa di sinistro in te…


S’interruppe e riprese a insaponarsi l’altra guancia. Un sorriso d’indulgenza gli arricciò il labbro.


– Sí ma sei anche un bel pagliaccio, borbottò tra sé. Kinch, il piú bel pagliaccio che ci sia.


Continuò a radersi in silenzio, faccia seria, con passate regolari e precise.


Stephen, un gomito sullo scabro granito, il palmo poggiato alla fronte, guardava l’orlo sfilacciato della propria manica, nera e lustra. Una pena, che non era ancora la pena amorosa, gli rodeva il cuore. Silenziosa in un sogno, essa era venuta a lui dopo la morte, il corpo consunto nel sudario scuro e svolazzante, emanando un odore di cera e legno di rosa, e un fievole sentore di ceneri bagnate nel suo alito, che s’era posato su di lui a mo’ di muto rimprovero. Ora attraverso un polsino liso Stephen vedeva il mare, che la voce ben pasciuta accanto a lui salutava come la grande dolce madre. La circonferenza della baia e dell’orizzonte avvolgeva una massa liquida d’un verde spento. Accanto al suo letto di morte era stata posta una ciotola di porcellana bianca e questa conteneva la bile verde e vischiosa che lei s’era strappata fuori dal fegato marcescente, a forza di fitte di vomito e alti gemiti.


Buck Mulligan puliva di nuovo la lama del rasoio.


– Ah, povera bestia che non sei altro, disse con voce gentile. Devo darti una mia camicia e qualche fazzoletto da naso. Come vanno le brache di seconda mano?


– Mi vanno abbastanza bene, rispose Stephen.


Buck Mulligan prese a radersi la fossetta sotto il labbro inferiore.


– Bisognerebbe dire di seconda gamba, no? Ah, che ridere! commentò contento. Chissà quale sifilitico menagramo li ha smessi, quei calzoni. Ne ho un bellissimo paio a righine grigie. Farai una figura da gagà con quelli. Non scherzo, Kinch, quando ti vesti bene fai una gran figura.


– Grazie, fece Stephen, ma se sono grigi non posso metterli.


– Non può metterseli, disse Buck Mulligan rivolto allo specchio. L’etichetta va rispettata. Lui ammazza sua mamma ma non può portare calzoni grigi.


Chiuse il rasoio con gesto meticoloso, e si passò le dita sulla pelle liscia palpeggiandola.


Stephen distolse gli occhi dal mare verso la faccia grassoccia con occhi inquieti azzurro fumo.


– Il tizio che ho incontrato ieri sera allo Ship, fece Buck Mulligan, dice che tu soffri di p. t. c. Paralisi tarati di cervello. Lavora giú a Ca’ Mattolica con Conolly Norman.


Sventagliò lo specchio in aria a semicerchio, mandando lontano quell’annuncio, nel bagliore del sole ora radioso sul mare. Le labbra curve e ben rasate ridevano insieme ai bordi dei denti, bianchi e luccicanti. Poi lo sghignazzo prese a scuoterlo in tutto il torso, forte e ben squadrato.


– Ma guàrdati un po’, disse, bardo orripilante che non sei altro.


Stephen si chinò a guardarsi nello specchio che l’altro gli reggeva, solcato per traverso da un’incrinatura. Capelli dritti. Chi ha scelto questa faccia per me? E questa povera bestia da spidocchiare? Vuole saperlo anche lui, me lo chiede.


– L’ho fregato nella camera d’una sguattera, disse Buck Mulligan. Per lei come specchio va benissimo. Mia zia tiene sempre in casa delle serve bruttine per Malachi. Non indurlo in tentazione. Questa si chiama Ursula.


Ridendo ancora si portò via lo specchio sottraendolo agli sguardi curiosi di Stephen.


– La rabbia di Calibano a non riconoscersi nello specchio, disse. Ah, se il buon Oscar Wilde fosse ancora vivo e potesse vederti!


Tirandosi indietro e puntando il dito, Stephen dichiarò amaramente:


– Quello è un simbolo dell’arte irlandese. Lo specchio sbrecciato d’una serva.


D’improvviso Buck Mulligan prese Stephen sottobraccio e fece con lui un giro della torre, mentre specchio e rasoio sbatacchiavano nella tasca dove se li era ficcati.


– Non è giusto punzecchiarti cosí, eh, Kinch? disse gentile. Dio sa che hai piú stoffa di tutti.


Di nuovo parato il colpo. Lui teme il bisturi della mia arte come io temo quello della sua. Il freddo acciaio della penna.


– Lo specchio sbrecciato d’una serva. Vallo a dire a quel bove dabbasso e scroccagli una ghinea. Quello puzza di pecunia lontano un miglio e pensa che tu non sei un gentiluomo. Il suo vecchio ha fatto il grano vendendo olio di ricino agli Zulú, o con qualche marcio bindolo del genere. Perdío, Kinch, se avessimo modo di lavorare assieme potremmo far qualcosa per quest’isola. Potremmo ellenizzarla.


Il braccio dell’amico Cranly e qui il braccio di Mulligan.


– Pensare che devi andar a chiedere l’elemosina a quei porci. Io sono l’unico che sa quanto vali. Perché non ti fidi di me un po’ di piú? Cos’hai contro di me? È per Haines? Se si mette a far baccano porto giú Seymour che gli dà una sgrugnata peggio di quella a Clive Kempthorpe.


Grida di giovanetti con voci che sanno di quattrini nella camera di Clive Kempthorpe. Visi pallidi, si tengono i fianchi dal ridere, uno aggrappato all’altro. Oh, c’è da crepare! Aubrey, dàlle la notizia con garbo! Ah, morirò! Con sbrendoli sfilacciàti della camicia che svolano per l’aria, lui balzella e zompica intorno al tavolo, calzoni calati sulle scarpe, e dietro gli Ades del Magdalen College armati di forbicioni da sarto. Viso bovino sgomento indorato di marmellata. Non voglio esser messo a culo nudo! ’Sti giochi da vitelloni rinscemiti andate a farli con un altro!


Dalla finestra aperta, urli fan trasalire la sera nel cortile. Un giardiniere sordo, con grembiule, maschera col volto di Matthew Arnold, spinge la sua falciatrice sul prato in ombra, sbiluciando a fatica i fruscoli dei gambi d’erba che gli ballano innanzi.


Per noi stessi… neopaganesimo… omphalos.


– Lui non c’entra, disse Stephen. Niente da ridire su di lui, a parte la notte.


– Allora cos’è? chiese impaziente Buck Mulligan. Sputa il rospo. Io ti parlo sempre chiaro. Cos’hai adesso contro di me?


Si fermarono guardando verso la punta smussata di Bray Head, che si stendeva nell’acqua come il muso d’una balena dormiente. Senza dir parola, Stephen liberò il proprio braccio.


– Vuoi che te lo dica? chiese.


– Sí, cos’è? rispose Buck Mulligan. Non mi ricordo di niente.


Parlando squadrava il viso di Stephen. Una lieve brezza gli sfiorò la fronte, sventolando un po’ la sua zazzera bionda e scomposta, e smuovendogli qualche argentea scintilla d’ansia negli occhi.


Stephen, intimidito dal suono della propria voce, disse:


– Ti ricordi il primo giorno che son venuto a casa tua, dopo la morte di mia madre?


Buck Mulligan si accigliò di colpo e chiese:


– Cosa? Dove? Non mi ricordo niente. Mi ricordo solo idee e sensazioni. Ma perché? Per la madonna, ma cos’è successo?


– Tu stavi preparando il tè, disse Stephen, e io sono passato dal pianerottolo per prender dell’altra acqua calda. In quel momento tua madre è uscita dal salotto assieme a qualcuno ch’era venuto a trovarla, e ti ha chiesto chi c’era nella tua camera.


– Ebbe’? fece Buck Mulligan. Io cos’ho detto? Non mi ricordo.


– Hai detto, rispose Stephen, Niente, è Dedalus, quello della madre morta come un cane.


Un rossore invase le guance di Buck Mulligan, facendolo apparir piú giovane e attraente.


– Ho detto cosí? chiese. Be’? Cosa c’è di male?


Si scrollò di dosso l’impaccio con mosse nervose.


– E cos’è la morte, disse, di tua madre, tua o mia? Tu hai visto morire solo tua mamma. Io li vedo tirar gli ultimi tutti i giorni al Mater o al Richmond Hospital, e fatti a pezzi con le trippe al vento nella sala anatomica. Come bestie, pari pari. E tutto questo non ha nessuna importanza. Tu non hai voluto inginocchiarti e pregare quando tua madre te l’ha chiesto in punto di morte. Perché? Perché hai il maledetto bacillo del gesuita, solo che te l’hanno inoculato al contrario. Per me è tutta una farsa e una cosa da bestie. I lobi cerebrali della signora non funzionano? Lei chiama il dottore cavalier Peter Teazle, e raccoglie ranuncoli sulla coperta del letto? Bene, bisogna tirarla su d’umore finché non è finita! Tu hai contrariato tua madre nell’ultima sua volontà e ora mi fai il muso perché non sono contrito come un becchino delle pompe funebri Lalouette. Assurdo! Sí, magari l’ho detto. Ma non per offendere la memoria di tua madre.


Parlando Buck s’era imbaldanzito. Come facendosi scudo contro le piaghe al vivo che quelle parole avevano aperto nel suo cuore, Stephen disse molto freddamente:


– Non sto parlando di un’offesa a mia madre.


– E di cosa, allora? chiese Buck Mulligan.


– Sto parlando di un’offesa a me, rispose Stephen.


Buck Mulligan girò sui tacchi.


– Ah, che tipo impossibile! esclamò.


A passo veloce fece il giro del parapetto. Stephen rimase dov’era, contemplando il mare steso in una calma assoluta verso il promontorio. Mare e promontorio ora si stavano offuscando. Nelle pupille gli pulsava il sangue velandogli la vista, e si sentiva le guance infebbrate.


Da dentro la torre giunse una chiamata a gran voce:


– Mulligan, è lassú?


– Vengo, rispose Buck.


Poi si volse verso Stephen e disse:


– Guarda il mare. Cosa gli importa al mare delle offese? Butta alle ortiche sant’Ignazio di Loyola, Kinch, e vieni da basso. Il Gran Britanno vuole la sua razione mattutina di pancetta.


La sua testa indugiò ancor per un attimo in cima alla scala, a livello della piattaforma.


– Non mugugnarci sopra per tutto il giorno, disse. Io parlo a vanvera. Dàcci un taglio con queste ruminazioni musonesche.


La testa sparí, ma il ronzio della sua voce lontanante in basso risuonò dal caposcala:


E mai piú appartato a rodersi


Sull’amaro mistero dell’amore


Fergus guida i bronzei cocchi.


Ombre silvestri silenziose sciamavano nella quiete mattinale fuor dal caposcala e verso il mare dove puntava gli occhi. Nel litoraneo spazio e piú fuori al largo, biancheggiava lo specchio d’acqua smosso da frettolosi piedi in calzari leggeri. Biànco sèno del fòsco màre. Accenti allacciati due per due. Una mano sfiora le corde d’arpa e va armonizzando accordi paralleli. Albugine di flutti in favellar di frasi che baluginano sulla scura marea.


Una nuvola prese a coprire lentamente il sole, ombreggiando la baia in un verde piú fondo. Alle sue spalle c’era una conca d’acque amare. La canzone di Fergus. La cantavo da solo a casa, tenendo in sordina quegli accordi cosí lunghi e cupi. La porta della sua camera era aperta, lei voleva sentire la musica. Muto d’impaccio e di compassione, sono andato verso il suo capezzale. Lei piangeva nel letto di disgrazia. Per quelle parole, Stephen, per quelle parole, l’amaro mistero dell’amore.


E adesso dove?


Lei con i suoi segreti: vecchi ventagli di piume, carnet da ballo infiocchettati, sparsi di cipria al profumo di muschio, un fronzolo di gocce d’ambra nel cassetto chiuso a chiave. Una gabbia da uccelli appesa alla finestra soleggiata, nella sua casa di quand’era ragazza. Era andata a vedere Royce nella pantomima di Turko il Terribile e aveva riso con gli altri udendolo cantare:


Io son quel fanciullo


Che per trastullo


Si fa invisibile.


Allegria di fantasmi della mente, piegata e messa da parte, al profumo di muschio.


E mai piú appartato a rodersi


Ripiegata e accantonata tra i reperti di natura, assieme ai suoi balocchi. Ora le memorie assaltavano il cervello rimuginante di Stephen. Lei e il suo bicchier d’acqua dal rubinetto della cucina dopo che aveva ricevuto il sacramento. Una mela svuotata e riempita di zucchero caramellato si rosolava per lei nel caminetto in una buia serata d’autunno. Le sue unghie cosí ben fatte, arrossate dal sangue dei pidocchi che aveva schiacciato nelle camicie dei bambini.


In sogno, silenziosa, era venuta a lui, il corpo consunto nel fluttuante sudario, esalando un odor di cera e legno di rosa; e l’alito mentre era china su di lui, con mute parole segrete, un fievole sentore di ceneri bagnate.


Lei e i suoi occhi vitrei, che mi lanciavano sguardi dalla morte, per scuotermi e piegare la mia anima. Puntati solo su di me. Quello spettro di candela a far luce sulla sua agonia. Luce spettrale sul viso torturato. L’ultimo suo respiro rauco e rumoroso e rantolante nell’orrore, mentre tutti pregavano in ginocchio. Lei e quei suoi occhi puntati su di me, per farmi crollare a terra. Liliata rutilantium te confessorum turma circumdet: iubilantium te virginum chorus excipiat.


Vampiro! Masticator di cadaveri!


No madre. Lasciami andare e lasciami vivere.


– Ohé, Kinch!


La voce di Buck Mulligan echeggiò da dentro la torre. Poi gli giunse piú vicina dalle scale, chiamando di nuovo. Ancora tremante per il grido del cuore, ora Stephen sentiva un caldo scorrere di raggi solari, e dietro di sé parole amichevoli nell’aria.


– Dedalus, vieni giú, da bravo barabba. La colazione è pronta. Haines si scusa per averti svegliato stanotte. Tutto è a posto.


– Vengo, disse Stephen, voltandosi.


– Dài, su, per l’anima del diavolo, diceva Buck Mulligan. Per la mia anima e per tutte le anime.


La testa sparí e riapparve.


– Gli ho detto del tuo simbolo dell’arte irlandese. Dice che è molto intelligente. Scroccagli una palanca, dài! Voglio dire una ghinea.


– Stamane mi pagano, disse Stephen.


– In quel baito di scuola? fece Buck Mulligan. Quanto? Quattro sterline? Prestamene una.


– Se ne hai bisogno, rispose Stephen.


– Quattro sovrane splendenti, gridava Buck Mulligan deliziato. Ci faremo una sacrosanta bevuta da lasciar basiti i druidici druidi. Quattro onnipotenti sovrane.


Alzò in aria le braccia e scavallò precipite giú per le scale di pietra, cantando con accento londinese:


Che bella festa che bel festino


Che ci faremo con birra e vino


Per l’Incoronazione nel dí augusto


A tutta birra trincando di gusto.


Sole caldo in festa sul mare. La tazza di nichel per la rasatura brillava, dimenticata sul parapetto. Perché dovrei portarla da basso? O lasciarla lí tutto il giorno, dimenticata amicizia?


Tornò indietro, la prese in mano per un attimo, sentendo la sua frescura, odorando la bava collosa della schiuma ove era piantato il pennello. Cosí un tempo portai il bossolo dell’incenso a Clongowes. Ora sono un altro e tuttavia lo stesso. Ancora un servitore. Il servitore d’un servitore.


Nell’oscura sala comune della torre, a forma di cupola, la sagoma investagliata di Buck Mulligan si dava da fare con mosse leste, avanti e indietro innanzi al caminetto, coprendo e scoprendo il giallo barbaglio del fuoco. Due fasci di morbida luce solare scendevano dagli alti contrafforti sul pavimento piastrellato; e là dove i loro raggi si riunivano, frullavano nell’aria i fumi del carbone e i vapori del grasso fritto, in una nube vorticante.


– Qui c’è da restare asfissiati, disse Buck Mulligan. Haines, per favore, può aprire la porta?


Stephen depose il recipiente da barba sulla credenza. Un’alta figura sorse dall’amaca dove era seduta, andò verso l’uscio e aprí la porta interna.


– Dov’è la chiave? domandò la voce.


– Ce l’ha Dedalus, rispose Buck Mulligan. Porca Eva, qua non respiro! Poi lanciò un urlo senza distrarsi dal fuoco:


– Kinch!


– È nella toppa, disse Stephen, facendosi avanti.


La chiave grattò due volte con forte stridore, e quando la pesante porta fu socchiusa, scivolarono dentro aria limpida e gradita luce del giorno. Haines rimase sul passo della porta guardando fuori. Stephen trascinò vicino al tavolo la sua valigia volta all’insú, e vi sedette sopra in attesa. Buck Mulligan spadellò la frittata su un piatto a portata di mano. Poi portò in tavola il piatto e una grande teiera, li depose pesantemente e fece un sospiro di sollievo.


– Mi sto liquefacendo, sospirava, come disse quella candela quando… Ma basta. Non una parola di piú sull’argomento. Kinch, svegliati! Prendi il pane, il burro e il miele. Haines, venga dentro. La pappa è pronta. Benedici, o Signore, questi tuoi doni. Dov’è lo zucchero? Oh, Cristo, non c’è latte.


Stephen prese dalla credenza la pagnotta, il vaso del miele e la vaschetta del burro. Buck Mulligan si sedette con improvvisa stizza.


– Ma cos’è ’sto bordello? Avevo detto a quella di venire alle otto!


– Possiamo bere il caffè nero, disse Stephen. C’è un limone nella credenza.


– Al diavolo te e le tue pose parigine, disse Buck Mulligan. Io voglio latte di Sandycove!


Haines entrò dalla porta e disse in tutta calma:


– Sta arrivando la donna col latte.


– Che Dio la benedica, caro Haines, gridò Mulligan sobbalzando nella seggiola. Adesso si sieda. Versi il tè. Lo zucchero è nel sacchetto. Ne ho abbastanza di lottare con queste uova del cavolo.


Tranciò la frittata nella fondina in lungo e in largo, per poi sbatterla nei tre piatti dicendo:


– In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti.


Haines si sedette a versare il tè.


– Vi dò due zollette a testa, fece. Ma accipicchia, Mulligan, il tè lo fate forte, voialtri! O no?


Tagliando la pagnotta a grosse fette, Buck rispose con voce da vecchina piena di smorfie:


– Come diceva Mamma Grogan, se faccio il tè faccio il tè, e se faccio acqua faccio acqua.


– Per Giove! Questo è tè di sicuro, fece Haines.


Buck Mulligan continuò a tagliare il pane e far smorfie:


– Io faccio cosí, cara la mia signora Cahill, diceva Mamma Grogan. Perbacco, cara signora, diceva la signora Cahill, che Dio le conceda di non far mai le due cose nello stesso vaso.


Allungò verso i suoi commensali, a turno, una grossa fetta di pane impalata in cima al coltello; e disse in tutta serietà:


– Ecco qua le voci del popolo, per il suo libro, Haines. Cinque righe di testo e dieci pagine di note su Dundrum, i suoi abitatori e le sue divinità pesciformi. Stampato dalle sorelle del diavolo zoppo nell’anno del grande vento.


Si volse verso Stephen e gli chiese con un fine tono di curiosità, alzando le sopracciglia:


– Fratello, ti ricordi mica se il vaso da notte e la teiera di Mamma Grogan son menzionati nel libro del Mabinogion o nelle Upanishad?


– No, non credo, rispose Stephen con gravità.


– Oh, ma davvero? fece Buck Mulligan sullo stesso tono. E la ragione, prego?


– Temo, disse Stephen continuando a mangiare, che tale teiera non sia esistita nel Mabinogion né altrove. Si pensa che Mamma Grogan fosse parente della Marianna che la faceva su una scranna.


Buck Mulligan ebbe un sorriso di contentezza.


– Affascinante! disse con voce affettata e mielosa, mostrando la bianca sfilza di denti e sbattendo le palpebre di gusto. Proprio pensi che sia cosí? Affascinante!


Poi, d’improvviso incupendosi in tutti i tratti, mentre riprendeva a tagliar con vigore altre fette di pane, attaccò a grugnire con voce roca e aspra:


Perché la vecchia Marianna


Non cede mai d’una spanna


E tirandosi su le sottane…


Si riempí la bocca di frittata, masticando e mugolando.


– Il latte, signore.


– Venga, venga, signora, disse Mulligan. Kinch, prendi il bricco.


Una donna anziana si fece innanzi e si fermò accanto a Stephen.


– Bella giornata, vero, signore? Sia resa gloria a Dio.


– A chi? disse Mulligan, lanciandole un’occhiata. Ah, sí, sí, certo!


Allungando il braccio all’indietro, Stephen prese il bricco del latte dalla credenza.


– Qui gli isolani, fece Mulligan a Haines con aria casuale, parlan spesso del grande esattore di prepuzi.


– Quanto, signore? chiese l’anziana.


– Due pinte, rispose Stephen.


Poi la guardò riempire il misurino e versare nel bricco quel latte bianco e grasso, latte non suo. Vecchie zinne avvizzite. La donna versò di nuovo un misurino colmo e con l’aggiunta. Anziana e misteriosa, era comparsa da un mondo mattutino, forse una messaggera. Versandolo, lodava la bontà di quel latte. Al sorgere del sole, in rigogliosa pastura, accucciata presso una vacca paziente, tipo strega seduta sul suo fungo velenoso, con dita grinze e svelte sui capezzoli che sprizzano. Le bestie satinate dalla rugiada la conoscevano e le muggivano intorno. Seta di vacca e misera vecchina, frasario dei vecchi tempi. Vegliarda vagante, umile forma di un’immortale dea al servizio del conquistatore e di chi allegramente l’ha tradita, loro concubina in comune, messaggera dal segreto mattino. Se per servirli o per accusarli, Stephen non avrebbe saputo dire: ma sdegnoso di sollecitarne i favori.


– Ah, proprio cosí, cara signora, disse Buck Mulligan, versando il latte nelle tazze.


– Lo assaggi, signore, disse lei.


Obbedendole Buck bevve.


– Se potessimo vivere di cibo cosí sano, le disse rialzando alquanto la voce, non avremmo un paese pieno di gente con intestini marci e denti guasti. Viviamo in una palude stagnante, mangiando cibo che nutre poco, fra strade coperte di polvere e sterco di cavallo e sputi di tisici.


– Lei, signore, studia medicina? chiese la vecchia.


– Sissignora, rispose Buck Mulligan.


Stephen ascoltava in sdegnoso silenzio. Lei china la testa canuta innanzi a questa voce che le parla sbraitando, come davanti al suo giustaossa, al suo stregone. A me non bada. E cosí farà davanti a chi la confessa, e con chi preparandola per la tomba ungerà quel che resta di lei, tranne i suoi lombi impuri di donna, carne d’uomo non fatta a somiglianza di Dio, preda del serpente. E cosí ancora adesso davanti a questa voce forte che le impone di tacere, occhi stupiti e incerti.


– Capisce quello che le dice? chiese Stephen alla donna.


– Cosa parla, il signore, parla francese? chiese la vecchia a Haines.


Haines le fece un discorso piú lungo, fiducioso d’esser compreso.


– Le sta parlando in irlandese, intervenne Buck Mulligan. Capisce il gaelico?


– Ci avevo pensato che fosse irlandese, dal suono, lei disse. Il signore viene dall’ovest?


– Sono inglese, rispose Haines.


– È inglese, fece Buck Mulligan, e pensa che noi in Irlanda dovremmo parlare irlandese.


– Sicuro che è cosí, disse la vecchia, e io per me mi vergogno di non parlarlo. Quelli che lo conoscono m’hanno detto che è una grande lingua.


– Grande non è la parola giusta, disse Buck Mulligan. È una pura meraviglia. Versaci ancora un po’ di tè, Kinch. Signora, ne gradisce una tazza?


– No, grazie, signore, disse la vecchia, facendo scivolare il manico del recipiente del latte sul suo avambraccio, pronta ad andarsene.


Haines le disse:


– Ce l’ha il conto? Sarebbe meglio pagarla, vero, Mulligan?


Stephen riempí le tre tazze.


– Il conto, signore? fece la donna fermandosi. Be’, sono sette mattine, ogni volta una pinta di latte a due pence fa sette volte due, che è uno scellino e due pence, e queste tre mattine due pinte a quattro pence fa sei pinte, che fa uno scellino. Piú lo scellino e due pence, fa due scellini e due, signore.


Buck Mulligan sospirò, e dopo essersi ficcato in bocca una crosta di pane ben imburrata su entrambi i lati, allungò le gambe e prese a frugarsi nelle tasche dei calzoni.


– Paghi il conto con faccia contenta, gli suggerí Haines, sorridendo.


Stephen riempí una terza tazza; un cucchiaino di tè colorò fievolmente il latte ricco e denso. Buck Mulligan cavò fuori un fiorino, lo fece roteare tra le dita e gridò:


– Miracolo!


Attraverso la tavola lo fece arrivare alla vecchia, dicendo:


– Non mi chieda altro, dolcezza mia. È tutto quel che posso dare.


Stephen le pose la moneta nella mano esitante.


– Le dobbiamo due pence, disse.


– C’è tempo, signore, rispose lei, prendendo la moneta. Nessuna fretta. Buona giornata, signore.


Fece un inchino e uscí, seguita dai teneri accenti del canto di Buck Mulligan:


Cuor del mio cuore, se piú ve ne fosse


Metterei ai tuoi piedi il piú del mio avere.


Indi si volse a Stephen e disse:


– Seriamente, Dedalus, sono in bolletta. Fila svelto in quel tuo bordello di scuola e portami indietro delle palanche. Oggi i bardi devono trincare e prender sollazzo. L’Irlanda ci conta, che ognuno faccia il proprio dovere, in questo giorno.


– A proposito, disse Haines alzandosi, mi viene in mente che oggi devo visitare la vostra biblioteca nazionale.


– Prima la nostra nuotata, fece Buck Mulligan.


Si voltò verso Stephen e chiese con voce sommessa:


– È oggi il giorno del tuo lavacro mensile, Kinch?


Poi a Haines:


– Il sudicio bardo si fa un punto d’onore nel lavarsi una volta al mese.


– Tutta l’Irlanda è bagnata dalla corrente del golfo, rispose Stephen mentre faceva gocciolare il miele su una fetta di pane.


Dall’angolo dove stava avvolgendosi una sciarpa dal nodo allentato, intorno al floscio colletto della camicia da tennis, Haines disse:


– Se non le spiace, vorrei fare una raccolta dei suoi detti.


Parla a me. Questi tipi si lavano e si ammollano e si strigliano da matti. Morsura animi. La coscienza. Qui c’è ancora una macchia.


– Quella dello specchio sbrecciato come simbolo dell’arte irlandese è una trovata maledettamente fenomenale.


Buck Mulligan diede un calcio sotto il tavolo al piede di Stephen, e aggiunse con caldo fervore:


– Haines, aspetti a sentirlo parlare di Amleto.


– Dico sul serio, fece Haines, ancora rivolto a Stephen. Ci pensavo proprio quando è entrata quella povera vecchia.


– Ci farei su dei quattrini? chiese Stephen.


Haines rise, e prendendo il grigio cappello di feltro dal piolo dell’amaca, disse:


– Bah, non ho idea.


Si avviò con bell’agio fuori dalla porta. Buck Mulligan si piegò verso Stephen e disse, brusco e brutale:


– Mi rovini tutto. Perché dovevi dirgli cosí?


– Ebbe’? rispose Stephen. Il problema è far quattrini. Da chi? Da lui o dalla lattaia. Che sia l’uno o l’altra, chi se ne frega!


– Io ti preparo la piazza, disse Buck Mulligan, e poi arrivi tu col tuo ghigno da guappo e le tue tetre battute da gesuita.


– Io ci spero poco, continuò Stephen, sia nell’uno che nell’altra.


Emettendo un sospiro tragico, Buck Mulligan appoggiò la mano sul braccio di Stephen:


– Ascoltami, Kinch.


Poi cambiando improvvisamente tono:


– Se devo dirti la verità come Dio comanda, io penso che hai ragione. Non servono ad altro, che gli venga un accidente. Ma perché non li meni per il naso come faccio io? Al diavolo tutta la loro razza. Dài, andiamo fuori da questo bordello.


Si alzò, con aria grave si sciolse la cintura e levò la vestaglia, poi disse da uomo rassegnato:


– Ecco qua Mulligan spogliato dei suoi paramenti.


Si vuotò le tasche sul tavolo.


– Qua, prenditi il tuo asciuga-moccio, disse.


E mentre si metteva il colletto duro e la cravatta ribelle, apostrofò le cose sgridandole e prendendosela con la penzolante catena dell’orologio. Indi affondò le mani nel baule, frugando e invocando un fazzoletto pulito. Morsura animi. Dio, l’unica è trovarsi un vestito adatto per recitar la parte. Voglio guanti cremisi e scarponcini verdi. Contraddizione! Mi contraddico? Ebbe’, sia… Mercuriale Malachi! Un floscio missile nero volò dalle sue mani impegnate a far discorsi:


– Prenditi il tuo cappello da Quartiere latino, disse.


Stephen lo raccolse e se lo mise in testa. Haines li chiamava sull’uscio:


– Ehi, venite?


– Sono pronto, rispose Buck Mulligan avviandosi verso la porta. Vieni che usciamo, Kinch. Dài, hai già mangiato tutti i nostri avanzi, se non sbaglio.


Da uomo rassegnato, uscí fuori con incedere grave e gravi accenti, quasi di dolore, e disse:


– Sul suo cammino egli incontrò il signor Rimorsi.


Prendendo il bastone di frassino appoggiato al muro, Stephen li seguí verso l’uscita; e mentre gli altri due scendevano la scala, si tirò dietro la pesante porta di ferro e la chiuse a chiave. Indi ripose l’enorme chiave nella tasca interna.


Ai piedi della scala Buck Mulligan domandò:


– Hai preso la chiave?


– Ce l’ho, rispose Stephen, sorpassando i due.


Ora camminava innanzi. Alle sue spalle sentiva Buck Mulligan prendersela con le cime delle felci e delle erbe, picchiandole col pesante asciugamano.


– Giú! Abbassare la testa! Come vi permettete?


Haines domandò:


– Pagate l’affitto in quella torre?


– Dodici sterline, rispose Buck Mulligan.


– Al ministero della guerra, aggiunge Stephen sopra la spalla.


Si fermarono mentre Haines osservava la torre, concludendo:


– Ha un’aria alquanto desolata d’inverno, direi. Torre Martello, si chiama cosí?


– È William Pitt che le ha costruite, queste torri, fece Buck Mulligan, quando i francesi correvano i mari. Ma per noi, questo è il nostro omphalos.


– Cos’era quella sua idea su Amleto? chiese Haines a Stephen.


– Ah, no, no, gridò Buck Mulligan in pena. Io non sono all’altezza di Tommaso d’Aquino e delle sue cinquantatre tesi inventate per tenere in piedi la baracca. Aspetti che io abbia qualche pinta di birra in corpo, e ne sentirà delle belle.


Poi, tirandosi in giú con cura le punte del gilet color primula, si volse verso Stephen:


– Kinch, ce la faresti tu con meno di tre pinte in corpo?


– Quell’idea è lí da tanto tempo e può aspettare ancora, disse Stephen, apatico.


– Lei stuzzica la mia curiosità, disse Haines con tono affabile. Si tratta di qualche paradosso?


– None, none! esclamò Buck Mulligan. Noi abbiam già superato Oscar Wilde e tutti i paradossi. È una cosa semplicissima. Lui dimostra con l’algebra che il nipotino di Amleto è il nonno di Shakespeare; e che lui medesimo sarebbe lo spettro del proprio padre.


– Cosa? fece Haines, alzando il dito verso Stephen. Lui medesimo?


Buttandosi l’asciugamano intorno al collo a mo’ di stola, e piegandosi nella sghignazzata, Buck Mulligan disse all’orecchio di Stephen:


– Oh ombra di Kinch il vecchio! Jafet in cerca d’un padre.


– Al mattino siamo sempre stanchi, fece Stephen a Haines. Ed è un’idea un po’ lunga da dire.


Buck Mulligan, passando di nuovo innanzi agli altri, alzò le mani al cielo:


– Solo la sacra pinta di birra può slegare la lingua di Dedalus, disse.


Mentre lo seguivano, Haines spiegò a Stephen:


– Ecco cosa volevo dire: che quella torre e questa scogliera ricordano in certo qual modo Elsinore. Che strapiomba alla sua base nel mare, non le sembra?


D’improvviso Buck Mulligan si volse per un attimo verso Stephen, ma senza fiatare. Nel luminoso silenzio di quell’attimo, Stephen ebbe una visione di se stesso in vesti miserande, luttuose e polverose, tra i vivaci abbigliamenti degli altri due.


– È una storia fantastica, disse Haines, costringendoli a fermarsi ancora una volta.


Puntava gli occhi verso sud oltre la baia. Occhi, pallidi come il mare che il vento aveva rinfrescato, anche piú pallidi, sicuri e prudenti. Da padrone dei mari, guardava oltre la baia vuota tranne per il pennacchio di fumo del battello postale, sagoma vaga sul luminoso orizzonte, e una vela che bordeggiava innanzi alla spiaggia di Muglins.


– Da qualche parte ne ho letto un’interpretazione in chiave teologica, diceva Haines, assorto nei suoi pensieri. L’idea del Padre e del Figlio. Il Figlio che si sforza di riconciliarsi col Padre.


Subito Buck Mulligan mostrò un volto rischiarato da un largo sorriso. Guardava i due con la bocca ben modellata beatamente aperta, occhi che sbattevano d’una gioia insensata, d’improvviso senza piú tracce di furbizia. Lasciava penzolare di qua e di là una testa da burattino, sotto la sobbalzante tesa del panama, e prese a cantare con voce quieta, beata e sciocca:


Io sono uno come non c’è l’uguale,


Con Giuseppe il falegname m’intendo male.


Mia madre era un’ebrea, mio padre un uccello,


Bevo al Calvario e al suo santo drappello.


Qui sollevò un dito a mo’ d’avviso:


Se qualcuno pensa che non son divino


Non avrà da bere quando faccio il vino,


E dovrà bersi acqua fresca come norma


Quando il mio vino in acqua si trasforma.


Diede una svelta scossa al bastone di Stephen, in segno d’addio, e correndo verso l’orlo della scogliera, sbatacchiò le mani come ali o pinne d’uno che stia per sollevarsi in volo, mentre intonava:


Addio, vi saluto, scrivete quel che ho detto,


Dite in giro che son risorto dalla morte.


Visto chi è mio padre, a volar non sono inetto,


E sul monte degli Ulivi il vento è forte.


Sventolando le mani a mo’ di ali, si lanciò in capriole, saltabeccando agile giú per il Balzo dei Quaranta Piedi, col cappello da Mercurio agitato da brividi nel fresco vento, vento che riportava i suoi rapidi gridi da uccello agli altri due in ascolto.


Haines, che aveva riso in modo sorvegliato, accostandosi nella marcia a Stephen, disse:


– Sarebbe meglio non ridere, credo. È piuttosto blasfemo. Non sono credente, intendiamoci. Poi la sua allegria toglie malizia alla cosa, non le pare? Come diceva? Giuseppe il falegname.


– È la Ballata di Gesú Giocondo, rispose Stephen.


– Ah! fece Haines, l’aveva già sentita?


– Tre volte al giorno, dopo i pasti, rispose Stephen, asciutto.


– Lei non è credente, vero? chiese Haines. Voglio dire, credente nel senso stretto della parola. La creazione dal nulla e i miracoli e un Dio personale.


– Quella parola ha soltanto un senso, mi sembra, disse Stephen.


Haines si fermò a cavarsi di tasca un lucido astuccio d’argento, su cui brillava una pietra verde. Col pollice azionò lo scatto d’apertura e l’offrí.


– Grazie, disse Stephen, prendendo una sigaretta.


Haines si serví e chiuse l’astuccio. Lo ripose in una tasca laterale. Estrasse dal gilet un accendino nichelato, fece scattare l’apertura anche di questo, e dopo aver acceso la propria sigaretta porse a Stephen l’esca infiammata, trattenuta tra le mani a conchiglia.


– Sí, certo, disse, quando ripresero il cammino. Uno crede o non crede, no? Personalmente io non riesco a mandar giú l’idea di un Dio personale. Ma non è la sua idea, immagino.


– Lei vede in me, disse Stephen con cupo malumore, un orrendo esempio di libero pensiero.


Continuò a camminare, aspettando una replica, trascinandosi il bastone al fianco. Il puntale lo seguiva lieve sul sentiero, stridendo alle sue spalle. Spiritello che mi segui chiamando: Steeeeeeeeeephen. Linea ondeggiante sul sentiero. Stanotte la pesteranno, tornando per di qui nel buio. Vuole la chiave. È mia, ho pagato l’affitto. Ora sento come sa di sale lo pane altrui.


Dàgli anche la chiave. Tutto. Te la chiederà. Era nei suoi occhi.


– Insomma, iniziò Haines…


Voltandosi Stephen vide che il freddo sguardo che l’aveva squadrato non era poi del tutto antipatico.


– Insomma, direi che lei sia in grado di liberarsi. Lei è padrone di se stesso, mi pare.


– Io sono il servo di due padroni, disse Stephen, uno inglese e uno italiano.


– Italiano? chiese Haines.


Una regina picchiata in testa, vecchia e gelosa. Inginòcchiati davanti a me.


– E ce n’è un terzo, disse Stephen, che mi cerca per i lavoretti occasionali.


– Italiano? ripeté Haines. Cosa intende?


– Lo Stato Imperiale Britannico, rispose Stephen, colorandosi in viso, e la Santa Chiesa Cattolica e Apostolica Romana.


Prima di parlare, Haines si tolse dal labbro inferiore poche briciole di tabacco.


– Capisco, fece con tutta calma. Un irlandese deve pensarla cosí, oserei dire. In Inghilterra ci rendiamo conto d’avervi trattati in modo alquanto ingiusto. Colpa della Storia, pare.


A quei possenti e pomposi titoli riecheggiò nella memoria di Stephen il trionfo delle loro bronzee campane: et unam sanctam catholicam et apostolicam ecclesiam: il lento crescere e mutare del rito e del dogma, come i suoi peregrini pensieri, un’alchimia di stelle. Simboli di Apostoli nella messa per papa Marcello, voci miste, ciascuna cantando vocianti asserzioni. Dietro il loro cantico, il vigilante angelo della chiesa militante disarmava e minacciava eresiarchi. Un’orda d’eresie in fuga, con le mitrie a sghimbescio: Fozio e la genía dei burlatori, tra cui Mulligan e Ario in guerra perpetua contro la consustanzialità del Figlio col Padre, e Valentino sdegnoso a sentir dire del corpo terreno di Cristo, e il sottile eresiarca africano Sabellio convinto che il Padre fosse egli stesso il proprio Figlio. Parole dette da Mulligan un momento prima, per canzonar lo straniero. Canzonatura vana. Certo, il vuoto attende quelli che tessono vento: minacciati, disarmati e sconfitti da questi angeli della chiesa in ordine di battaglia, la coorte di Michele, che sempre nell’ora del conflitto la difende con lance e scudi.


Udite! Udite! Prolungato applauso. Zut! Nom de Dieu!


– Beninteso io sono un britanno, diceva la voce di Haines, e penso come tale. Ma non vorrei neppure che il mio paese cadesse in mano ai giudei della Germania. Ed è questo il nostro maggior problema nazionale, per il momento, temo proprio.


Due uomini ritti sul bordo della scogliera guardavano; un trafficante, un barcaiolo.


– Va verso Bullock Harbour.


Il barcaiolo accennò col capo verso il nord della baia, in modo un po’ sdegnoso.


– Laggiú c’è una profondità di cinque tese, disse. Quando verso l’una verrà l’alta marea, lo trascinerà da quella parte. Oggi sono nove giorni.


Una vela virava qua e là nella baia vuota, in attesa che affiorasse un fagotto rigonfio, rivoltandosi sotto il sole col viso tumefatto, bianco di sale.


Seguirono il sentiero serpeggiante giú fino alla cala. Buck Mulligan era in piedi su un masso, in maniche di camicia, la cravatta sciolta che gli svolazzava sulla spalla. Vicino a lui, aggrappato a uno spuntone di roccia, un giovanotto agitava lento, con mosse da rana, le gambe verdi immerse nell’acqua fonda e gelatinosa.


– Tuo fratello è da te, Malachi?


– No, giú a Westmeath con i Bannon.


– Ancora là? Ho ricevuto una cartolina da Bannon. Dice che s’è trovato una morosina laggiú. Una bellezza da foto, la chiama lui.


– Da istantanea, no? Esposizione breve.


Buck Mulligan si sedette a sciogliersi i lacci delle scarpe. Un uomo d’una certa età sbucò vicino allo spuntone di roccia, ansante, la faccia arrossata. Arrancava su per i pietroni, mentre l’acqua gli sbaluginava sul cranio e sulla chierica di capelli grigi, ruscellandogli giú dal petto e dalla pancia, e uscendo a spruzzi dallo straccio nero pendulo che gli cingeva i lombi.


Buck Mulligan si spostò per lasciar che s’arrampicasse, e sogguardando Haines e Stephen si fece il segno della croce come un bigotto, con l’unghia del pollice sulla fronte, le labbra e lo sterno.


– Seymour è tornato, è in città, disse il giovanotto, aggrappandosi di nuovo allo spuntone di roccia. Molla la medicina e s’arruola nell’esercito.


– Oh, vacca boia! fece Buck Mulligan.


– La settimana prossima è già là a sbiellarsi. Sai la rossa di Carlisle, Lily?


– Sí.


– Be’, ieri sera sul molo se lo filava. Suo padre ha i soldi che gli escono dalle orecchie.


– Si è fatta ingolfare?


– Chiedilo a Seymour.


– Seymour che diventa uno stronzo d’ufficiale! esclamò Buck Mulligan.


Annuí alle proprie parole mentre si levava i calzoni, poi alzandosi disse la battuta:


– Le rosse ci dan dentro come capre…


S’interruppe impaurito, tastandosi il fianco sotto la camicia svolazzante.


– Oh! Non ho piú la dodicesima costola! gridò. Sono l’Übermensch! Lo sdentato Kinch e io, siamo i superuomini.

Si divincolò per uscire dalla camicia, buttandola poi dietro di sé, nel mucchio dei suoi panni.

– Scendi in acqua qui, Malachi?

– Sí, fammi posto nel letto.

Il giovanotto si fece indietro e con due lunghe precise bracciate raggiunse il punto medio della cala. Haines si sedette su un sasso a fumare.

– Lei non si butta? chiese Buck Mulligan.

– Dopo, rispose Haines. Non con la colazione sullo stomaco.

Stephen si voltò e disse:

– Mulligan, io vado.

– Kinch, lasciaci la chiave, fece Buck Mulligan, serve a tener ferma la mia camicia.

Stephen gli passò la chiave, e Buck Mulligan la mise di traverso sul mucchio dei panni.


– E due pence per una birra, disse. Buttali lí.


Stephen buttò due spiccioli sul soffice mucchio. Vestirsi, svestirsi. In posizione eretta, le mani giunte davanti a sé, Buck Mulligan disse solennemente:


– Chi ruba al povero presta all’Eterno. Cosí parlò Zarathustra.


Il suo corpo grassoccio piombò nell’acqua.


– Ci vediamo piú tardi, disse Haines voltandosi e sorridendo di quei pazzi irlandesi, mentre Stephen risaliva il sentiero.


Attento alle corna di toro, agli zoccoli di cavallo e ai sorrisi d’un sassone.


– Ci vediamo allo Ship, gridò Buck Mulligan. Alla mezza.


– D’accordo, fece Stephen.


Proseguí sul sentiero che saliva a tornanti.


Liliata rutilantium.


Turma circumdet.


Iubilantium te virginum.


L’aureola grigia che s’espandeva intorno al prete, nella nicchia dove pudicamente si rivestiva. Questa notte non ci dormo qui. Neanche a casa posso andare.


Una voce a note dolci e sostenute lo chiamava dal mare. Al tornante salutò con la mano. La voce chiamò di nuovo. Una testa liscia, bruna, testa di foca, al largo sul mare, rotonda.

Usurpatore.

2.

– Tu, Cochrane, quale città lo mandò a chiamare?


– Taranto, professore.


– Bene. E dopo?


– C’è stata una battaglia.


– Bene. Dove?


La vacua faccia dello scolaro chiese aiuto alla vacua finestra.


Gesta favoleggiate dalle figlie della memoria. Eppure in certo qual modo come se la memoria non ne avesse parlato mai. Una frase, allora, d’impazienza, e si scatenano le ali dell’eccesso di cui parla William Blake. Sento rovinare tutto lo spazio, vetri infranti e mura che crollano, e il tempo come un’ultima livida vampata. Cosa resta per noi?


– Il posto non me lo ricordo, professore. È stata nel 279 avanti Cristo.


– Ad Ascoli, disse Stephen, sbirciando il nome e la data nel libro pieno di sgorbi.


– Sí, professore. E dopo ha detto: Un’altra vittoria cosí e siamo spacciati.


Il mondo ha ricordato quella frase. Ottusa semplificazione della mente. Da una collina sopra una piana coperta di cadaveri, un generale appoggiato alla lancia parla ai suoi ufficiali. Un generale qualsiasi parla a ufficiali qualsiasi. Loro ascoltano.


– Tu, Armstrong, disse Stephen. Com’è finito Pirro?


– Com’è finito?


– Io lo so, professore. Lo chieda a me, professore, disse Comyn.


– Calma. Tu, Armstrong. Cosa sai di Pirro?


Nella cartella di Armstrong stava infrattato un cartoccio con dolcetti ai fichi. Ogni tanto egli se ne arrotolava uno nella mano e lo inghiottiva quatto quatto. Gli restavano delle briciole sulle labbra. Fiato indolcito di ragazzo. Gente benestante, fiera che il figlio maggiore sia in Marina. Sulla Vico Road, a Dalkey.


– Pirro, professore? Pirreo, il molo.


Tutti scoppiarono a ridere. Riso d’alta malizia senza letizia. Armstrong gettò un’occhiata ai compagni intorno, torpida ilarità del profilo. Tra un attimo rideranno ancora piú forte, consci del mio scarso potere e dei quattrini sborsati dal loro papà.


– Allora, fece Stephen battendo il libro sulla spalla del ragazzo, dimmi cos’è un molo.


– Un molo, professore, disse Armstrong, è una cosa che va fuori sul mare. Una specie di ponte. Il molo di Kingstown, professore.


Qualcuno rise di nuovo, senza gioia ma con intenzione. Due dal banco di dietro sussurravano. Sí. Loro sapevano: senza aver mai imparato niente ma anche senza esser stati mai innocenti. Tutti. Osservò quelle facce invidiandole. Edith, Ethel, Gerty, Lily. Ecco le loro controparti: anche loro fiati indolciti, con tè e marmellata, la sciocca ridarella dei loro braccialetti quando litigano.


– Il molo di Kingstown, disse Stephen. Deludente come ponte.


Quelle parole resero perplesso il loro sguardo.


– Come, professore? chiese Comyn. Un ponte attraversa un fiume.


Questo per il centone di Haines. Nessuno qui ad ascoltarmi. Stasera, disinvolto, tra bevute pesanti e chiacchiere, trapassare la tersa corazza del suo comprendonio. E poi cosa? Un buffone alla corte del suo signore, trattato con indulgenza e disistima, ottiene una lode dalla clemenza del principe. Perché avevano scelto tutti quella parte? Non solo per le piacevoli carezze. Anche per loro la storia era un racconto come tanti altri, troppo spesso udito, e la loro patria un monte dei pegni.


E se Pirro non fosse caduto vittima d’una arpia in quel di Argo, o se Giulio Cesare non fosse stato accoltellato a morte? Il pensiero non può cancellare quei fatti. Il tempo li ha marchiati col suo sigillo e messi in catene, nella sala delle infinite possibilità che hanno liquidato. Ma queste possibilità come possono esser state possibili, se non ci sono mai state? Forse che il possibile è soltanto ciò che ebbe la ventura di passar via? Fila, fila la tua tela, tessitore di vento.


– Ci racconti una storia, professore.


– Oh, sí, professore, una storia di fantasmi.


– Qui dove siamo? chiese Stephen, aprendo un altro libro.


– Non pianger piú, disse Comyn.


– Leggi tu, Talbot.


– E gli argomenti di storia, professore?


– Dopo, disse Stephen. Avanti, Talbot.


Un ragazzo di carnagione bruna aprí il libro e svelto lo appoggiò alla balaustra della cartella. Recitava pezzi di versi a scatti, occhieggiando il testo in tralice.


Non pianger piú, sconsolato pastore,


Lycidas, ch’è il tuo cruccio, non è morto,


Benché affondato sotto l’acqueo piano.


Dunque dev’essere un moto, uno stato attuale del possibile in quanto possibile. La frase di Aristotele prendeva forma tra i versi barbugliati e galleggiava nel solerte silenzio della biblioteca di Sainte-Geneviève dove l’aveva letta, riparato dai peccati di Parigi, sera dopo sera. Un delicato Siamese compulsava un manuale di strategia, gomito a gomito con lui. Cervelli che nutrono e si nutrono intorno a me: sotto le lampade a filamenti incandescenti, infilzati con antenne che palpitano appena: e nel buio della mia mente un’indolenza del sottomondo, ombroso, schivo alla luce, che muove le sue squamose pliche da drago. Il pensiero è il pensiero del pensiero. Calma chiarità. L’anima insomma è tutto ciò che è: l’anima è la forma delle forme. Improvvisa calma, vasta, incandescente, forma delle forme.


Talbot ripeteva:


Per grazia di Colui che camminò sull’acque…


Per grazia di Colui…


– Volta la pagina, disse Stephen, pacato. Non vedo niente.


– Come, professore? chiese Talbot candidamente, chino in avanti.


La sua mano voltò la pagina. Si raddrizzò e continuò la poesia che gli era tornata in mente. Di colui che camminò sull’acque. La sua ombra si stende anche in questi animi codardi e sulle labbra e sul cuore di chi lo deride e sul mio. Si stende sui volti avidi che gli offriron l’obolo d’una moneta. Dài a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio. Un lungo sguardo dagli occhi scuri, una frase enigmatica da tessere e ritessere sui telai della chiesa. In effetti.


Indovina indovina indovinello,


Qual seme seminar nel praticello?


Talbot infilò il libro chiuso nella cartella.


– Vi ho sentiti tutti? domandò Stephen.


– Sí professore. Alle dieci abbiamo hockey, professore.


– Mezza giornata, professore. È giovedí.


– Chi sa rispondere a un indovinello? domandò Stephen.


– Un indovinello, professore? Lo chieda a me.


– No, a me, professore!


– Uno difficile, professore.


– Ecco l’indovinello, disse Stephen.


Canta il gallo al mattino


Tutto il cielo è turchino


In cielo una campana


Batte l’ora meridiana


L’ora di volar nei cieli


Per l’anima senza veli.


– Che cos’è?


– Cos’è, professore?


– Lo ripeta, io non ho sentito.


Mentre ripeteva i versi, gli occhi si spalancavano di piú. Dopo un silenzio, Cochrane disse:


– Professore, ci arrendiamo. Che cos’è?


Con una specie di pizzicore in gola, Stephen rispose:


– La volpe che seppellisce sua nonna sotto un cespuglio d’agrifoglio.


Alzandosi gli uscí una risata nervosa, cui fecero eco le grida di costernazione dei ragazzi.


Un bastone bussò alla porta e una voce dal corridoio chiamò:


– Ora di hockey!


Si sparpagliarono, sgusciando tra i banchi, scavalcandoli. Spariti in un baleno, poi si sentiva dal ripostiglio degli attrezzi uno sbatacchiare di mazze e un fracasso di scarpe e lingue.


Sargent, l’unico rimasto, venne avanti a passo lento col quaderno aperto. Dai capelli arruffati e dal collo di gallina si vedeva un che di ritardato, e attraverso le lenti appannate i suoi deboli occhi guardavano imploranti. Sulla guancia terrea, esangue, c’era una tenue macchia d’inchiostro in forma di dattero, recente e ancora umida come la scia d’una lumaca.


Tese il quaderno a Stephen. La parola Aritmetica scritta in capo alla pagina. Sotto c’erano delle cifre sbilenche e in basso una firma contorta, con occhielli delle lettere confusi e una macchia. Cyril Sargent: suo nome e sigillo.


– Mr Deasy mi ha detto di riscrivere tutto, disse, e di mostrarglielo.


Stephen sfiorò i bordi del quaderno. Tutto futile e vacuo.


– Hai capito adesso queste operazioni? domandò.


– Dall’esercizio undici al quindici, rispose Sargent. Mr Deasy ha detto che dovevo copiarle dalla lavagna.


– Le sai fare da solo? domandò Stephen.


– No, professore.


Brutto e insignificante: collo magro, capelli arruffati e una macchia d’inchiostro, scia di lumaca. Eppur qualcuno l’aveva amato, una donna l’aveva tenuto in braccio e stretto al proprio seno. Se non fosse stato per lei, sarebbe rimasto schiacciato nella grande competizione del mondo, flaccida lumaca spiaccicata al suolo. Lei aveva amato quel sangue astenico, acquoso, trasfuso dal suo. Era questa la realtà? L’unica cosa vera della vita? Il corpo esausto della madre, nel suo santo zelo il focoso Colombano ci passò sopra. Lei non era piú: il tremante scheletro d’un ramoscello consumato dal fuoco, odore di legno di rosa e ceneri bagnate. Lei l’aveva salvato dall’esser schiacciato sotto i piedi, poi se n’era andata, esistita appena. Anima senza veli volata nei cieli. E nella landa sotto le stelle scintillanti, una volpe, rosso fortore di rapina nel suo pelo, con occhi lustri e impietosi, grattava la terra, drizzava le orecchie, poi grattava e grattava.


Seduto accanto al ragazzo, Stephen gli risolse il problema. Dimostra con l’algebra che lo spettro di Shakespeare è il nonno di Amleto. Sargent lo sbirciava attraverso le lenti, di sbieco. Mazze da hockey sbatacchiavano nella stanza degli attrezzi: sordo cozzo d’una palla e richiamo dal campo.


Sulla pagina i simboli danzavano la loro moresca, nella mascherata delle lettere curiosamente imberrettate con elevazioni al quadrato e al cubo. Datevi la mano, venite avanti, salutate la vostra dama: ecco, cosí. Spiritelli usciti dalla fantasia dei Mori. Anch’essi passati via dal mondo, Averroè e Maimonide, scuri in volto e nei gesti, fecero balenar nei loro specchi beffardi l’oscura anima del mondo, un buio che riluce in lampi e che la luce non è riuscita a comprendere.


– Hai capito adesso? Riesci a svolgere quell’altro problema da solo?


– Sí, professore.


Con lunghi colpi di penna vacillanti, Sargent ricopiò i numeri. Sempre in attesa d’una parola di soccorso, la sua mano metteva in moto con scrupolo quegli incerti simboli, mentre un vago color di vergogna baluginava sotto la sua terrea epidermide. Amor matris: genitivo soggettivo e oggettivo. Col suo sangue povero e latte sieroso, lei l’aveva nutrito e aveva nascosto agli sguardi altrui le fasce con cui lo fasciava da pargolo.


Io ero come lui, quelle spalle cadenti, quella goffaggine. La mia infanzia è qui a testa bassa accanto a me. Troppo lontana per poter appoggiarvi una mano o anche sfiorarla. La mia è lontana e la sua segreta come i nostri occhi. Silenziosi, pietrosi segreti nei bui palazzi dei cuori di entrambi. Segreti stanchi della propria tirannia, tiranni che vorrebbero esser defenestrati.


L’operazione era conclusa.


– È molto semplice, disse Stephen alzandosi.


– Sí, professore. Grazie, rispose Sargent.


Asciugò la pagina con un foglio di sottile carta assorbente e riportò il quaderno al suo banco.


– Ora è meglio che prendi la tua mazza e corri a raggiungere gli altri, fece Stephen mentre accompagnava la sgraziata figura dello scolaro verso la porta.


– Sí, professore.


Nel corridoio risuonò il suo nome, chiamato dal campo di gioco.


– Sargent!


– Corri, disse Stephen. Mr Deasy ti sta chiamando.


Si fermò sotto il porticato a osservare il ritardatario che si affrettava verso il disastrato campo dove le voci strillanti si davan battaglia. Erano divisi in squadre e Mr Deasy stava avanzando tra i ciuffi d’erba a lunghi passi, ghette ai piedi. Fece girare i suoi bianchi baffi collerici. Quand’ebbe raggiunta la scuola, di nuovo un alterco di voci richiamò la sua attenzione.


– Cosa succede qui? gridava a ripetizione senza ascoltare nessuno.


– Cochrane e Halliday sono nella stessa squadra, signore, gli gridò Stephen.


– Può attendermi un attimo nel mio ufficio, disse Mr Deasy, intanto che riporto l’ordine?


E mentre riattraversava il campo con segni di nervosismo, si riudí la sua voce severa, da persona anziana, gridare:


– Ma cosa succede qui? Cosa c’è adesso?


Le voci gli strillavano intorno da tutte le parti: le loro molte varie sagome lo accerchiavano, e il sole abbagliante scolorava il miele dei suoi capelli mal tinti.


Stantio odore di fumo aleggiava nell’ufficio, assieme a quello del cuoio vecchio e scolorito delle sedie. Come nel primo giorno in cui ha contrattato qui con me. Come era in principio ora è, tale e quale. Sulla credenza il vassoio con monete d’epoca Stuart, tesoro da due soldi trovato in una torbiera, e cosí sempre sarà. E a posto come si deve, sul portacucchiaini di felpa color porpora sbiadita, i dodici apostoli che predicarono la fede a tutti i gentili: mondo senza fine.


Un passo frettoloso sul lastrico del porticato e nel corridoio. Soffiando in fuori i radi baffi, Mr Deasy s’arrestò presso il tavolo.


– Anzitutto, la nostra piccola faccenda finanziaria, disse.


Estrasse dalla giacca un portafoglio chiuso da un cinturino in cuoio. Tac, portafoglio aperto, donde prese due banconote, una d’esse piegata in due, e le depose riguardosamente sul tavolo.


– Due, disse, richiudendo e indi riponendo il portafoglio.


E adesso tocca all’oro della sua cassaforte. La mano imbarazzata di Stephen si muoveva sulle conchiglie ammucchiate in un freddo mortaio di pietra, buccini e cauri e nicchi maculati, e quella a torciglione come il turbante d’un emiro, e la conchiglia di san Giacomo. Collezione d’un vecchio pellegrino, tesoro defunto, gusci vuoti.


Una sovrana, nuova e lucente, cadde sulla tovaglia del tavolo, soffice e lanosa.


– E tre! fece Mr Deasy, rigirandosi in mano il piccolo salvamonete. Questi sono aggeggi pratici! Qui ci vanno le sovrane, qui gli scellini, qui i sei pence, qui le mezze corone, e qui le corone. Vede?


Fece saltar fuori dall’aggeggio due corone e due scellini.


– Che fa tre e dodici, disse. Penso che il conto torni, controlli.


– Grazie, signore, disse Stephen, raccogliendo le monete con fretta da timido e ficcandosi tutto nella tasca dei calzoni.


– Non c’è da ringraziare, rispose Mr Deasy. Se li è guadagnati.


Di nuovo libera, la mano di Stephen tornò alle conchiglie vuote. Simboli anche di bellezza e di potere. Un rigonfio nella tasca. Simboli insozzati da cupidigia e avarizia.


– Non li porti cosí, quei soldi, disse Mr Deasy. Se li tira fuori da qualche parte poi li perde. Dovrebbe comperarsi uno di questi aggeggi. Vedrà come sono pratici!


Rispondi qualcosa.


– Il mio sarebbe sempre vuoto, disse Stephen.


La stessa stanza e la stessa ora e lo stesso buon senso: e io lo stesso. È la terza volta. Tre volte il cappio intorno al collo. Be’, potrei spezzarlo subito se volessi.


– Perché non risparmia, disse Mr Deasy, puntando il dito. Lei ancora non sa cos’è il denaro. Il denaro è potere. Quando uno ha vissuto a lungo come me, lo sa. Io lo so. Se gioventú sapesse! Ma cosa dice Shakespeare? E tu metti denaro in borsa!


– Iago, mormorò Stephen.


Sollevò gli occhi dalle inutili conchiglie fino a incontrare lo sguardo del vecchio.


– Lui sapeva cos’è il denaro, disse Mr Deasy. Ne guadagnava parecchio. Poeta ma anche Inglese. Lei sa qual è l’orgoglio dell’Inglese? Lo sa qual è la parola di massima fierezza che udrà mai dalla bocca d’un Inglese?


Il dominio dei mari. Quegli occhi freddi come il mare guardavano laggiú nella baia deserta: pare che sia colpa della Storia: su di me e le mie parole, nessun odio che tenga.


– Che sul suo impero non tramonta mai il sole, disse Stephen.


– Bah! gridò Mr Deasy. Questo non è inglese. Questo l’ha detto un celtico francese.


Tambureggiava con l’unghia del pollice il suo salvamonete:


– Ora glielo dico io, dichiarò solennemente, qual è la frase di massima vanteria dell’Inglese. Ho sempre pagato il dovuto.


Che brav’uomo, oh che brav’uomo!


– Io ho sempre pagato il dovuto. Non ho mai preso in prestito uno scellino in vita mia. Ci riesce lei a sentirsi cosí? Io non devo niente a nessuno. Ci riesce lei?


Mulligan, nove sterline, tre paia di calzini, un paio di fangose, cravatte. Curran, dieci ghinee. McCann, una ghinea. Fred Ryan, due scellini. Temple, due pranzi. Russell, una ghinea, Cousins, dieci scellini, Bob Reynolds, mezza ghinea, Kohler, tre ghinee, signora McKernan, cinque settimane di pensione. Il gruzzolo che ho in tasca non serve a niente.


– Per il momento no, rispose Stephen.


Mr Deasy rise di gusto, mettendo via il suo salvamonete.


– Lo so che lei non ci riuscirebbe, disse molto contento. Ma un giorno o l’altro capirà. Noi siamo un popolo generoso, ma bisogna anche essere giusti.


– Temo quei paroloni, fece Stephen, che ci rendono cosí infelici.


Per qualche istante lo sguardo severo di Mr Deasy fissò sopra il caminetto la massiccia e ben disegnata sagoma di un uomo in gonnellino scozzese. Albert Edward, principe di Galles.


– Lei pensa che io sia un parruccone e un conservatore di vecchia lega, disse la sua voce pensosa. Dai tempi di O’Connell ho visto tre generazioni. Mi ricordo la carestia del ’46. Lo sa che le logge orangiste erano in subbuglio perché volevano la revoca dell’Unione vent’anni prima di O’Connell, e prima che i prelati della vostra confessione lo denunciassero come un demagogo? Voi del Sinn Féin dimenticate molte cose.


Pia, gloriosa e immortal memoria! La Loggia del Diamante ad Armagh, splendida coi corpi dei papisti appesi. Rauchi, mascherati, in armi, prestaron giuramento i proprietari terrieri. Il nero nord fanatico e la bibbia azzurra dei presbiteriani. Giú il capo, miserandi, teste rapate!


Stephen abbozzò un breve gesto.


– Ho anch’io sangue ribelle nelle vene, fece Mr Deasy, eredità della conocchia, come si suol dire. Ma discendo da Sir John Blackwood, che votò per l’Unione. Tutti irlandesi e figli di re.


– Ahimè, fece Stephen.


– Per vias rectas era il suo motto, dichiarò risolutamente Mr Deasy. Votò per l’Unione e nella scuderia si mise gli stivali per galoppare a Dublino, dalle Ards nel Down, e dare il suo voto.


Clop clop clop trotta trotta


Sulla via per Dublino a tutta botta.


Un signorotto scorbutico con stivaloni lustri, a cavallo. Giornata un po’ umida, Sir John. Un po’ umida vossignoria… Buongiorno… Buongiorno… Due gran stivaloni alla scudiera, nel trotta-galoppa, pencolando verso Dublino. Clop clop clop trotta trotta!


– A proposito, disse Mr Deasy. Lei potrebbe farmi un favore, Mr Dedalus, tramite qualcuno dei suoi amici letterati. Ho qui una lettera per la stampa. Si sieda un attimo. Debbo ricopiarne la fine.


Andò alla scrivania presso la finestra, si tirò la sedia per due volte ben sotto, e rilesse qualche parola sul foglio infilato nel carrello della macchina da scrivere.


– Si sieda! Mi scusi, disse sopra la spalla, i dettami del senso comune. Un momento solo.


Da sotto le sopracciglia cespugliose sogguardò il manoscritto tenuto di lato, e borbottando prese a pestare sui rigidi tasti, lento, a volte soffiando se usava il carrello per cancellar gli errori.


Stephen sedette senza far rumore innanzi alla sua sovrana presenza. All’intorno sui muri, incorniciate, immagini di cavalli scomparsi che presentavano i loro omaggi, con le docili teste girate all’insú: Repulse di Lord Hastings, Shotover del duca di Westminster, Ceylon del duca di Beaufort, prix de Paris 1866. Li montavano dei fantini tipo elfi, pronti a scattare. Stephen vide la loro carriera, in difesa dei colori del re, e gridò i suoi evviva insieme alle folle scomparse.


– Punto! ordinò Mr Deasy ai tasti. Solo la pronta chiarificazione di tale importante problema…


Dove Cranly mi portò per diventar ricchi in fretta, a caccia di favoriti, tra furgoni infangati, con allibratori che si sgolavano nei loro posteggi e tanfo della mescita, nella melma marezzata. Fair Rebel dato alla pari, dieci a uno gli altri. Giocatori di dadi e di bussolotti che abbiamo sorpassato, correndo dietro a zoccoli, berretti e giubbe in gara, poi davanti a quella donna con faccia da bistecca, moglie di macellaio, assetata, che si ciucciava il suo spicchio d’arancia.


Strilli acuti risuonarono dal campo di gioco dei ragazzi e poi un fischietto ronzante.


Altro punto segnato. Io sono tra loro, tra i loro corpi in lotta, nel tafferuglio, torneo della vita. Vuoi dire quel cocco di mamma con gambe storte che sembra anche debolino di stomaco? Tornei! Il tempo scosso rimbalza indietro, cozzo su cozzo. Tornei, melma, urla di battaglie, la bava della morte congelata sugli uccisi, urli di picche attratte da viscere sanguinolente.


– Ecco qua, disse Mr Deasy alzandosi.


Si accostò al tavolo, puntando i fogli con uno spillo. Stephen si alzò.


– Ho esposto la questione in nuce, disse Mr Deasy. Si tratta dell’afta epizootica. Vi dia una scorsa. Non credo si possa veder la cosa in altro modo.


Se mi è lecito abusare del vostro prezioso spazio. La dottrina del laissez faire che sovente nella nostra storia. Il commercio del nostro bestiame. Alla maniera di tutte le nostre antiche manifatture. La cricca di Liverpool che affondò il progetto di porto a Galway. Conflagrazione bellica europea. Rifornimenti di cereali tramite le anguste acque della Manica. Imperturbabilità plutoperfetta del ministero dell’agricoltura. Sia scusata l’allusione classica. Cassandra. Per opera d’una donna che non valeva piú della propria scarsa reputazione. Venendo al nocciolo.


– Gliele ho cantate per bene, eh? chiese Mr Deasy mentre Stephen leggeva.


Afta epizootica. Noto sotto il nome di preparato di Koch. Siero e virus. Percentuale di cavalli immunizzati. Pestilenza del bestiame. Cavalli dell’imperatore a Mürzsteg, nella bassa Austria. Medici veterinari. Mr Henry Blackwood Price. Cortese offerta di un’onesta sperimentazione. Dettami del senso comune. Questione d’importanza capitale. Prendere il toro per le corna, è proprio il caso di dirlo. Ringraziando per l’ospitalità sulle vostre colonne.


– Voglio sia stampata e letta, disse Mr Deasy. Vedrà che alla prossima epidemia porranno un embargo sul bestiame irlandese. Ma è una malattia che può essere curata. Viene curata. Mio cugino, Blackwood Price, mi scrive che in Austria è regolarmente trattata e curata dai loro veterinari di bestiame. Si offrono di venire qui. Sto cercando di trovare appoggi al ministero. Ora tento con la pubblicità. Trovo ostacoli dovunque, con… intrighi… manovre di corridoio, e…


Alzò l’indice e batté l’aria, gesto da vecchio, prima che la sua voce parlasse:


– Ascolti bene cosa le dico, Mr Dedalus, fece. L’Inghilterra è in mano agli ebrei. In tutte le posizioni eminenti: finanza, stampa. E questi sono segni di decadenza d’una nazione. Dovunque facciano comunella, quelli succhiano le forze vitali della nazione. Sono cose che ho presagito in questi anni. Com’è vero che io e lei siamo qui, i commercianti ebrei sono già all’opera nel loro lavoro di distruzione. La Vecchia Inghilterra sta tirando gli ultimi.


Con qualche rapido passo s’allontanò, e mentre attraversavano un largo raggio di sole i suoi occhi presero vita colorandosi d’azzurro. Fece dietrofront e tornò indietro.


– Sta tirando gli ultimi, se non è di già morta.


Il grido della meretrice che si vende per strada


Diverrà il sudario dell’albionica contrada.


I suoi occhi spalancati fissavano severi un punto al di là del raggio che li aveva bloccati.


– Un commerciante, disse Stephen, è uno che compra a poco e rivende a molto, ebreo o gentile, fa lo stesso, no?


– Hanno peccato contro la luce, decretò solennemente Mr Deasy. E lei può veder le tenebre nei loro occhi. Ecco perché sono andati errando sulla Terra fino ai giorni nostri.


Sui gradini della Borsa di Parigi, uomini dalla pelle dorata indicavano le quotazioni sulle dita piene d’anelli. Voci come un qua-qua-qua da oche. Sciamavano chiassosi e sgraziati nel tempio, le teste immerse in densi conciliaboli sotto ridicole bombette. Non erano cosa loro quegli abiti, quelle parole, quei gesti. I loro occhi larghi e lenti smentivano le parole, i gesti ansiosi e inoffensivi, ma essi sapevano dei rancori accumulati intorno a loro e sapevano che il loro zelo era vano. Vana pazienza di accumulare e tesaurizzare. Il tempo avrebbe disperso tutto, senza dubbio. Tesoro accumulato ai bordi d’una strada, saccheggiato e sparito. I loro occhi sapevano gli anni di erranza e, pazienti com’erano, sapevano lo stigma che gravava sulla loro carne.


– E chi non l’ha fatto? fece Stephen.


– Cosa intende dire? domandò Mr Deasy.


Venne avanti d’un passo e si fermò presso il tavolo. La mandibola gli cadeva di sbieco, aperta per la perplessità. È questa la vecchia saggezza? Aspetta una parola da me.


– La Storia, disse Stephen, è un incubo da cui tento di svegliarmi.


Dal campo di gioco i ragazzi mandarono un urlo. Un sibilante fischio: punto marcato. E se questo incubo ti prendesse a calci nel sedere?


– Le vie del Creatore non sono le nostre, disse Mr Deasy. Tutta la Storia si muove verso un grande fine, la manifestazione di Dio.


Stephen agitò il pollice verso la finestra, dicendo:


– Quello è Dio.


Urrà! Ullallà! Fiuuu!


– Che cosa? chiese Mr Deasy.


– Un grido per strada, rispose Stephen, stringendosi nelle spalle.


Mr Deasy guardò in basso e per un po’ si tenne le narici strette tra le dita. Indi le lasciò libere, mentre alzava gli occhi.


– Io sono piú felice di lei, disse. Noi abbiamo commesso molti errori e peccati. Una donna portò il peccato nel mondo. Per una donna che non valeva piú della sua reputazione, Elena, moglie di Menelao, i Greci fecero guerra a Troia per dieci anni. Una moglie infedele per prima portò gli stranieri sulle nostre spiagge, la moglie di MacMurrough e il suo drudo O’Rourke, principe di Breffni. Una donna causò la caduta di Parnell. Molti errori, fallimenti, ma non il vero peccato. Io lotto ancora alla fine dei miei giorni. Lotterò per la causa giusta sino alla fine.


Perché l’Ulster si batterà a fondo


E l’Ulster giustizia infine avrà.


Stephen sollevò i fogli che aveva in mano.


– Bene, disse.


– Prevedo, soggiunse Mr Deasy, che lei non resterà per molto qui a far questo lavoro. Lei non è nato per essere un insegnante, penso. Mi dica se sbaglio.


– Per essere uno che impara, piuttosto, rispose Stephen.


Ma qui cos’altro imparerai?


Mr Deasy scosse la testa.


– Chi sa? disse. Per imparare occorre essere umili. Ma la vita è una grande educatrice.


Stephen fece frusciare i fogli di nuovo.


– Per quanto riguarda questi, disse.


– Sí, rispose Mr Deasy. Gliene ho dato due copie. Se riesce li faccia pubblicare insieme.


«Telegraph». «Irish Homestead».


– Tenterò, disse Stephen, e le farò sapere domani. Conosco un po’ due redattori.


– Mi basta, rispose di slancio Mr Deasy. Ier sera ho scritto a Mr Field, nostro deputato. Oggi c’è un’assemblea di commercianti di bestiame al City Arms Hotel. Ho chiesto di comunicare la lettera all’assemblea. Veda se riesce a farla pubblicare su due giornali. Quali sono?


– «The Evening Telegraph»…


– Bene, fece l’altro. Non c’è tempo da perdere. Ora devo rispondere alla lettera di mio cugino.


– Buona giornata, signore, disse Stephen, mettendosi i fogli in tasca. E grazie.


– Non c’è di che, disse Mr Deasy frugando tra le carte della sua scrivania. Mi piace spezzare una lancia con lei, vecchio come sono.


– Buona giornata, signore, disse Stephen, inchinandosi alla schiena china dell’altro.


Uscí dal porticato aperto, prese il viale ghiaioso sotto gli alberi, mentre udiva dal campo voci urlanti e colpi di mazze. I leoni accucciati sulle colonne passando dal cancello: terrori sdentati. L’aiuterò nella sua lotta. Mulligan m’appiopperà un nuovo nome: il bardo difensor di bovi.


– Mr Dedalus!


Mi corre dietro adesso. Non piú lettere, spero.


– Un momento.


– Sí, signore, fece Stephen al cancello, voltandosi.


Mr Deasy si fermò, ansimando e deglutendo il fiato.


– Volevo solo dirle questo. Dicono che l’Irlanda abbia l’onore d’esser l’unico paese che non ha perseguitato gli ebrei. Lo sa questo? No. E lo sa perché?


Aggrottò il volto con duro cipiglio nell’aria luminosa.


– Perché, signore? chiese Stephen, abbozzando un sorriso.


– Perché l’Irlanda non li ha mai lasciati entrare, disse solennemente Mr Deasy.


Qui gli venne in gola una crisi di riso, trascinando con sé una secca scatarrata. Si voltò svelto, tossendo, sghignazzando, le braccia alzate che battevano l’aria.

– Non li ha mai lasciati entrare, gli gridò nuovamente Mr Deasy attraverso la sghignazzata, mentre i suoi piedi avvolti nelle ghette pestavano la ghiaia del viale. Ecco perché!

Il sole tra l’intarsio delle foglie spandeva paillettes e monete danzanti sulle sue sapienti spalle.