L'ECONOMIA DELLA PAURA
Fabio Sabatini
Durante la campagna presidenziale, le promesse economiche di Donald Trump sono state ampiamente sottovalutate dagli osservatori. Maganomics — un insieme incoerente di misure appena abbozzate, spesso tra loro incompatibili e nel complesso insostenibili per l’economia statunitense — è sembrata più un’operazione di marketing politico che un’agenda di governo credibile. E invece, nei primi due mesi del nuovo mandato, l’amministrazione ha varato misure persino più radicali di quelle annunciate, spingendo l’economia americana verso un territorio pericolosamente instabile. Lo stesso Trump, pur avendo ereditato fondamentali macroeconomici solidi dall’amministrazione Biden, non ha escluso l’eventualità di una recessione imminente.
Oltre alla guerra commerciale contro gli storici alleati degli Stati Uniti (di cui ho scritto qui), le deportazioni di massa rappresentano una delle espressioni più estreme e simboliche del radicalismo trumpiano. Le immagini di immigrati arrestati in violazione delle garanzie costituzionali, incatenati e caricati su voli diretti verso carceri sconosciute in America Latina, hanno alimentato la sete di punizione dei populisti americani e non solo. Scene architettate per suscitare consenso, nonostante il loro costo umano e l’impatto devastante sulla tenuta morale e istituzionale del Paese.
Trump ha descritto come “criminali delle gang” i venezuelani deportati in un carcere salvadoregno noto per le sparizioni ingiustificate dei detenuti. Tuttavia, almeno la metà delle persone coinvolte non ha commesso alcun reato e, secondo il ministro dell’interno del Venezuela, tra di loro non figura alcun affiliato a gruppi criminali organizzati. Tra i deportati si trovano invece minorenni e cittadini legalmente residenti negli Stati Uniti, arrestati unicamente perché parlavano spagnolo o avevano tatuaggi vistosi.
In generale, si moltiplicano le testimonianze di arresti e deportazioni che colpiscono anche titolari di permesso di soggiorno o residenza permanente, in assenza di qualsiasi accusa formale.
Queste premesse fanno pensare che le espulsioni non si limiteranno agli immigrati privi di autorizzazione, ma colpiranno indiscriminatamente anche persone legalmente residenti negli Stati Uniti. L’entità del fenomeno è tale da far prevedere effetti rilevanti sul mercato del lavoro. Secondo stime recenti, negli Stati Uniti lavorano almeno dieci milioni di immigrati non autorizzati, pari a circa il 6% della forza lavoro complessiva. Gli “irregolari” sono impiegati soprattutto nei settori delle costruzioni, dell’agricoltura, della ristorazione e dell’industria alimentare, in posizioni spesso caratterizzate da condizioni di lavoro precarie e salari molto bassi. Le conseguenze della loro espulsione rischiano di essere devastanti su più fronti.
L’evidenza empirica suggerisce che i lavoratori immigrati a bassa qualificazione non siano sostituibili con manodopera nativa: anziché in concorrenza, si trovano in una relazione di complementarità. I cittadini statunitensi, infatti, tendono a non candidarsi per i lavori più umili e faticosi svolti dagli irregolari. Di conseguenza, l’espulsione di questi ultimi determinerebbe una brusca riduzione dell’offerta di lavoro, con un conseguente aumento dei salari che, a sua volta, farebbe lievitare i costi di produzione per le imprese e, infine, i prezzi per i consumatori.
Nel settore immobiliare, l’impatto rischia di essere particolarmente pronunciato: la carenza di manodopera causata dalle espulsioni produrrà uno shock di offerta, in un contesto in cui la domanda di alloggi rimarrà sostanzialmente stabile. L’effetto sarà un aumento dei prezzi delle abitazioni, che danneggerà in modo più severo le famiglie a basso reddito.
Nel medio periodo, le imprese reagiscono a carenze strutturali di manodopera intensificando l’automazione, una strategia che colpisce soprattutto i lavoratori meno qualificati. L’effetto immediato è un’ulteriore contrazione dell’occupazione, che alimenta un circolo vizioso: la perdita di posti di lavoro riduce la domanda aggregata, con ripercussioni negative sull’intero sistema economico.
Se da un lato l’aumento della disoccupazione può esercitare un effetto deflazionistico e contribuire a riequilibrare, almeno in parte, le tensioni iniziali sul mercato del lavoro (a scapito dei lavoratori), dall’altro la rigidità di settori come l’edilizia e l’agricoltura rende più difficile l’aggiustamento, favorendo nuove spinte inflazionistiche. Il risultato è una combinazione di stagnazione occupazionale e aumento dei prezzi.
Per esempio, secondo uno studio di Chloe East (University of Colorado Denver), durante l’amministrazione Obama, per ogni undici espulsioni di immigrati irregolari si è verificata la perdita di almeno un posto di lavoro per un cittadino statunitense.
Il Peterson Institute for International Economics ha stimato che, se anche solo un quarto delle espulsioni promesse da Trump venisse effettivamente realizzato, si determinerebbe una riduzione permanente dell’occupazione pari allo 0,6%.
L’aumento dei salari causato dalle espulsioni non è segnale di un mercato del lavoro più equo, ma di uno squilibrio acuto tra domanda e offerta di manodopera. Va ricordato che i lavoratori immigrati e quelli nativi non sono intercambiabili e svolgono per lo più mansioni diverse e complementari. Senza una forza lavoro disponibile a colmare i vuoti lasciati dagli espulsi, le imprese avviano un costoso processo di ristrutturazione dei processi produttivi che ha effetti negativi sull’occupazione. Per migliorare le condizioni del mercato del lavoro, non servono le espulsioni ma la regolarizzazione. Pur continuando a lavorare in posizioni entry level, con salari bassi e tutele minime, I lavoratori immigrati acquisirebbero uno status giuridico che li renderebbe meno vulnerabili e più stabili, con effetti positivi anche in termini di integrazione e responsabilità civica. Regolarizzare significa non solo ridurre il rischio di shock sul mercato del lavoro, ma anche rafforzare la coesione sociale senza compromettere la competitività.
Un altro canale attraverso cui le espulsioni incidono sull’economia è la contrazione dei consumi. Sebbene gli immigrati non autorizzati non abbiano accesso alla protezione sociale, contribuiscono comunque alla domanda aggregata di beni e servizi attraverso i loro consumi quotidiani. La riduzione dei consumi provoca una diminuzione della domanda di fattori produttivi — incluso il lavoro — anche in settori che non impiegano manodopera immigrata.
In sintesi, le espulsioni producono uno shock dal lato dell’offerta di lavoro che determina un aumento dei salari. L’incremento dei costi di produzione e la contrazione della domanda per consumi spingono le imprese a ridurre l’occupazione e accelerare la ristrutturazione dei processi produttivi, nel tentativo di contenere l’utilizzo di manodopera. Il risultato è un aumento della disoccupazione, sia nel breve sia nel lungo periodo, che riporterà i salari al livello iniziale. Tuttavia, l’elevata rigidità di settori cruciali come agricoltura e costruzioni renderà difficile l’aggiustamento, mantenendo la pressione al rialzo sui prezzi e alimentando un effetto inflazionistico. Come nel caso dei dazi, saranno i lavoratori meno qualificati e i consumatori a basso reddito a sostenere i costi più elevati.
Un altro segmento del mercato del lavoro che sarà colpito, seppur indirettamente, dalle misure di espulsione è quello degli immigrati altamente qualificati, impiegati prevalentemente nei settori della ricerca e sviluppo — inclusa l’università — e nelle industrie ad alta intensità tecnologica. Anche se questo gruppo non rientra tra i destinatari delle deportazioni di massa, è probabile che si verifichino espulsioni episodiche dal forte valore simbolico e deterrente. Un esempio emblematico è l’arresto e la deportazione di Rasha Alawieh, una professoressa universitaria di origine libanese, docente alla Brown University, al suo rientro negli Stati Uniti dopo un viaggio all’estero. In seguito all’episodio, l’ateneo ha sospeso le trasferte dei docenti e gli studenti internazionali, inclusi i possessori di green card.
In questo caso, i messaggi di policy dell’amministrazione Trump portano con sé implicazioni economiche di lungo periodo particolarmente gravi. Alla criminalizzazione dell’immigrazione si affianca infatti un indebolimento strutturale del sistema americano della ricerca e un attacco crescente all’autonomia delle università, che rischiano di compromettere il principale pilastro del primato tecnologico statunitense.
In un contesto in cui il rischio di essere arrestati e deportati è concreto — o, nel migliore dei casi, quello di lavorare in istituzioni sottoposte a controllo politico, prive di libertà accademica e in cui il dissenso può provocare ritorsioni personali e collettive — i migliori talenti internazionali avranno sempre meno incentivi a scegliere gli Stati Uniti per studiare e fare ricerca.
Non a caso, un gruppo di dodici paesi europei – di cui l’Italia non fa parte – ha avviato con la Commissione un confronto preliminare per definire una strategia volta ad attrarre i talenti in fuga dagli Stati Uniti. Tra le misure in discussione figurano l’istituzione di fondi dedicati per finanziare il rientro o il trasferimento dei ricercatori attualmente impiegati in università americane e l’adozione di strumenti giuridici che facilitino l’integrazione professionale e amministrativa nei sistemi accademici europei.
Nel complesso, queste dinamiche non solo compromettono la stabilità del mercato del lavoro, ma minano le prospettive dell’economia, la coesione sociale e il modello di sviluppo degli Stati Uniti. Il bilancio, per la società americana, rischia di essere pesantemente negativo.
Meno lavoro, più inflazione. Meno ricerca, più paura. Le deportazioni di massa sono uno spettacolo crudele, travestito da politica economica, che porta benefici soltanto a chi cerca applausi facili. Per tutti gli altri, il conto sarà salato.