UN UOMO SENZA PATRIA
Kurt Vonnegut
Recensione
Antonio Benforte
“Siamo qui sulla Terra per andare in giro a cazzeggiare.
Non date retta a chi dice altrimenti”
Appunti sparsi, libro di memorie, quasi autobiografia: Kurt Vonnegut in questo Un uomo senza patria abbandona ogni tipo di freni e a quasi un decennio dall’ultimo romanzo (Cronosisma), vira prepotentemente verso l’attualità, la società e la politica, con una raccolta di saggi provocatori e intelligenti.
Scritti a 82 anni, tre prima di morire, queste dodici riflessioni sul mondo e sulla vita – americana, ma di conseguenza mondiale – sono di una lucidità disarmante, e riescono con ironia e grande senso critico a dare punti di vista molto interessanti sull’America, le armi, l’ambiente, la politica, la vita e altro ancora.
Intervallati da suoi disegni a colori e da aforismi, questi saggi pubblicati in origine sulla rivista In These Times partono spesso come conversazioni da bar, senza molte pretese, per poi arrivare con uno stile pungente e molto diretto a far riflettere su tematiche molto importanti. Se uno non lo conoscesse, o non sapesse a scrivere è Vonnegut, potrebbe pensare che si trattino delle caustiche osservazioni di un giovane anticonformista letterato. E invece, eccolo lì, uno dei maggiori scrittori americani del Novecento a dirci la sua su questo e su quello.
Ora che Vonnegut è morto, poi, sono testimonianza lampante e inconfutabile della sua incredibile forza e indipendenza. Non le manda a dire né a Bush né a Clinton, non risparmia critiche alle politiche che
distruggono il pianeta e al capitalismo che distrugge le nostre vite. I suoi attacchi sono pesanti ma sono fatti con un sorriso amaro sulle labbra: sono come il grido rauco di uno sbronzo dopo l’ennesima birra (proprio in un racconto però Vonnegut dichiara di non amare tantissimo bere ma di avere una sola enorme passione: il tabagismo).
Come tanti rivoli si diramano rapidamente spunti successivi, deliranti digressioni che spaziano dalla musica alla pittura, dal ricordo dell’attacco di Dresda o della Guerra in Vietnam, fino ad arrivare al sesso, alla droga – leggera, solo uno spinello con i Grateful Dead – e all’amore.
Con uno stile a metà tra l’articolo d’opinione e il diario personale, queste dodici visioni del mondo non
possono di certo lasciare indifferenti. Sono vere e sanno far male. Un uomo senza patria è il manifesto finale di un grande scrittore, un suo grido contro i poteri forti e prepotenti, un atto d’amore per la letteratura e il nostro pianeta così martoriato.
Pensieri sparsi tutti legati da un sottile ma resistente filo di convinzioni forti: una bella voce fuori dal coro, rabbiosa e ironica, che ci manca tantissimo, ogni giorno di più.
UN UOMO SENZA PATRIA

1.
Da bambino ero il membro più giovane della mia famiglia, e il figlio più piccolo è sempre quello che fa il buffone, perché solo grazie alle buffonate riesce a inserirsi nei discorsi dei grandi. Mia sorella aveva cinque anni più di me, mio fratello nove, e i miei genitori erano dotati entrambi di una bella parlantina. Perciò, quando ero molto piccolo e cenavamo insieme, a tutte queste persone io risultavo noioso. Non volevano sentirsi raccontare le sciocche novità infantili delle mie giornate. Volevano parlare delle cose veramente importanti che gli erano successe al liceo, o magari all’università o al lavoro. E allora l’unico modo che avevo per entrare nel discorso era dire qualcosa che li facesse ridere. Mi sa che le prime volte devo averlo fatto per caso: per caso devo essermene uscito con un gioco di parole che li ha lasciati a bocca aperta, o qualcosa del genere. E poi ho scoperto che le battute erano un ottimo mezzo per infilarsi in una conversazione fra adulti.
Sono cresciuto in un’epoca in cui, in America, esisteva una comicità di altissimo livello: cioè durante la Grande Depressione. Alla radio c’erano un’infinità di comici assolutamente formidabili. E anche senza volerlo, io li studiavo. Per tutta la mia infanzia ho ascoltato varietà radiofonici almeno un’ora ogni sera, e mi interessava sempre di più capire com’erano fatte le battute e come funzionavano.
Quando voglio far ridere, cerco sempre di non risultare offensivo. Credo che ben poco di quello che ho scritto sia roba veramente di pessimo gusto. Credo di non aver scandalizzato o sconvolto molta gente. Gli unici espedienti a effetto che uso sono, di tanto in tanto, le parolacce. Certe cose non fanno ridere. Non riesco a immaginare un libro o uno sketch comico su Auschwitz, per esempio. Così come non sono in grado di fare battute sulla morte di John Fitzgerald Kennedy o di Martin Luther King. Per il resto, non mi viene in mente nessun altro tema che preferirei evitare, sul quale non avrei nulla da dire. Le catastrofi totali sono decisamente divertenti, come ci ha dimostrato Voltaire. Ecco: può far ridere perfino il terremoto di Lisbona.
Io ho assistito alla distruzione di Dresda. Ho visto la città com’era prima e poi sono uscito dal rifugio antiaereo e l’ho vista com’era dopo, e indubbiamente una delle reazioni è stata la risata. Lo sa Dio se la risata non è un modo in cui l’anima cerca un po’ di sollievo.
Qualunque argomento può essere fonte di risate, e immagino che si sentissero risate particolarmente spettrali perfino tra le vittime di Auschwitz.
L’umorismo è una reazione quasi fisiologica alla paura. Freud sosteneva che è una reazione alla frustrazione: una delle tante. I cani, diceva, quando non riescono a uscire da un cancello, cominciano a raspare e a scavare per terra e a fare movimenti senza senso, ringhi e quant’altro: è il loro modo di affrontare la frustrazione, la sorpresa o la paura.
E in effetti spessissimo il riso viene provocato dalla paura. Anni fa ho lavorato per un programma comico della televisione. Cercavamo di creare una serie in cui, come regola di base, in ogni episodio si nominasse la morte: un ingrediente che avrebbe aggiunto intensità a ogni tipo di risata, senza che gli spettatori si rendessero conto di quale trucco usavamo per farli sbellicare così tanto.
C’è anche un riso superficiale. Bob Hope, per esempio, non era un vero umorista. Era un comico con del materiale molto esile, che non tirava mai in ballo nulla di scottante. Invece Stanlio e Ollio mi facevano piegare in due dalle risate. Nelle loro storie, per qualche motivo, c’è un che di tremendamente tragico. I due protagonisti sono troppo buoni per sopravvivere in questo mondo, e si trovano sempre in gravissimo pericolo. Potrebbero finire ammazzati da un momento all’altro.
Disegno di Kurt Vonnegut: asterisco
Anche le battute più semplici si basano su leggere fitte di paura, per esempio la domanda: “Che cos’è quella roba bianca nella cacca di uccello?” L’interlocutore, come se lo stessero interrogando a scuola, là per là ha paura di dire una fesseria. Quando poi sente la risposta, ovvero: “È cacca di uccello pure quella,” neutralizza con una risata quell’istintivo senso di paura. Dopotutto, non lo stavano interrogando.
“Perché i pompieri portano le bretelle rosse?” “Per tener su i pantaloni” e “Perché hanno seppellito George Washington sul fianco di una collina?” “Perché era morto.” E così via.
È vero, però, che esistono anche battute alle quali non si può ridere, quello che Freud chiamava “umorismo da forca”. Ci sono situazioni della vita reale così disperate da non concepire nessun tipo di sollievo.
A Dresda, mentre eravamo sotto i bombardamenti, seduti in una cantina a ripararci la testa con le braccia nel caso che crollasse il soffitto, un soldato disse, col tono di una duchessa nel suo palazzo in una notte fredda di pioggia: “Chissà come fa stasera la povera gente.” Nessuno rise, ma fummo tutti contenti che avesse fatto quella battuta. Se non altro eravamo ancora vivi! E lui ce l’aveva dimostrato.
Disegno di Kurt Vonnegut: asterisco
Disegno di Kurt Vonnegut: I wanted all things to seem to make some sense, so we could all be happy, yes, instead of tense. And I made up lies, so they all fit nice, and I made this sad world a paradise
Volevo che tutto sembrasse sensato, così che ognuno potesse essere felice, sì, anziché angosciato. E ho inventato bugie che si incastrassero per benino e ho reso un paradiso questo mondo meschino.
2.
Sapete cos’è un pirlotto? Quando facevo le superiori alla Shortridge High School di Indianapolis, sessantacinque anni or sono, un pirlotto era uno che si infilava una dentiera nel culo e staccava con le chiappe i bottoni dai sedili posteriori dei taxi. (Invece i sudicioni erano quelli che si mettevano ad annusare i sellini delle bici delle femmine.)
E io tuttora considero un pirlotto chi non ha mai letto il più bel racconto della letteratura americana, ossia Accadde al ponte di Owl Creek di Ambrose Bierce. Non è assolutamente un’opera politica. È un esempio impeccabile del genio americano, come Sophisticated Lady di Duke Ellington o la stufa Franklin.
Considero un pirlotto chi non ha letto La democrazia in America di Alexis de Tocqueville. Resterà sempre il più bel libro mai scritto sui punti di forza e le debolezze insiti nella nostra forma di governo.
Volete un assaggio di questo libro meraviglioso? Tocqueville dice, anzi lo diceva 169 anni fa, che il nostro paese è quello in cui l’amore per il denaro fa più presa sull’animo della gente. Ho reso l’idea?
Lo scrittore franco-algerino Albert Camus, premio Nobel per la letteratura nel 1957, ha scritto: “Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio.”
Ecco che ancora una volta la letteratura ci dà occasione di farci un sacco di risate: Camus morì in un incidente stradale. Quanto ha vissuto? Dal 1913 al 1960.
Vi rendete conto che tutta la grande letteratura – Moby Dick, Huckleberry Finn, Addio alle armi, La lettera scarlatta, Il segno rosso del coraggio, l’Iliade e l’Odissea, Delitto e castigo, la Bibbia e The Charge of the Light Brigade di Tennyson – parla di che fregatura sia la vita degli esseri umani? (Non è liberatorio che qualcuno lo dica chiaro e tondo?)
Per quanto mi riguarda, la teoria dell’evoluzione può andarsene affanculo. Noi siamo un errore madornale. Abbiamo ferito a morte questo bel pianeta – l’unico in tutta la Via Lattea capace di sostentare la vita – con un secolo di folle frenesia del trasporto. Il nostro governo sta conducendo una guerra contro la droga, giusto? allora perché non se la prende con il petrolio? Lì, altro che ebbrezza distruttiva! Uno ne ficca un po’ dentro l’automobile e può andarsene in giro a duecento allora, investire il cane dei vicini e fare a brandelli l’atmosfera. Be’, finché ci tocca essere degli Homo sapiens, perché prendersi la briga di stare al mondo? Facciamo a pezzi tutto quanto. C’è qualcuno che ha sottomano una bomba atomica? E chi non ce l’ha, oggi?
Però c’è una cosa che devo dire in difesa dell’umanità: in qualunque epoca della storia, dal Paradiso Terrestre in poi, gli uomini si sono semplicemente ritrovati sulla terra di punto in bianco. E, tranne che nel Paradiso Terrestre, esisteva già tutta una serie di giochetti che potevano far dare di matto a una persona anche se non era matta di suo. Fra i giochetti di questo tipo al giorno d’oggi ci sono l’odio e l’amore, il progressismo e il conservatorismo, le automobili e le carte di credito, il golf e la pallacanestro femminile.
Disegno di Kurt Vonnegut: asterisco
Io sono un americano della zona dei Grandi Laghi: gente d’acqua dolce, non marinara, bensì dell’entroterra. Ogni volta che faccio il bagno in mare mi sembra di nuotare nel brodo di pollo.
Come me, molti socialisti americani erano provinciali dell’entroterra. Non sono molti gli americani che sanno quanto hanno fatto i socialisti, durante la prima metà del secolo scorso, con l’arte, con l’eloquenza, con le loro doti organizzative, per elevare il rispetto di sé, la dignità e la consapevolezza politica dei lavoratori americani, della nostra working class.
L’idea che i lavoratori senza una particolare posizione sociale, senza istruzione superiore né benessere economico siano persone di intelletto inferiore è senza dubbio smentita dal fatto che due degli scrittori e degli oratori più brillanti della storia americana, e che si sono espressi su temi della massima profondità, erano operai autodidatti. Parlo, come forse avrete già capito, di Carl Sandburg, il poeta dell’Illinois, e di Abraham Lincoln, nato nel Kentucky, trapiantato nell’Indiana e arrivato infine nell’Illinois. Tutti e due, mi sia consentito dirlo, erano gente d’acqua dolce e di provincia, come me. Un altro magnifico oratore che aveva la stessa provenienza era Eugene Victor Debs, candidato alla presidenza degli Stati Uniti per il Partito socialista: un ex macchinista ferroviario nato da una famiglia della media borghesia di Terre Haute, nell’Indiana.
Urrà per la nostra squadra!
Socialismo non è una parola malvagia più di quanto non lo sia cristianesimo. Fra i dettami del socialismo non c’erano Stalin e la sua polizia segreta e la chiusura delle chiese, così come fra i dettami del cristianesimo non c’era l’Inquisizione spagnola. In realtà, i dettami sia del socialismo che del cristianesimo contemplano la costruzione di una società fondata sull’idea che tutti gli uomini, le donne e i bambini sono creati uguali e non devono morire di fame.
Adolf Hitler, sia detto per inciso, aveva un po’ dell’uno e un po’ dell’altro. Al partito che noi chiamiamo nazista aveva dato il nome di nazionalsocialista. E quanto alla svastica, non era un simbolo pagano, come tanta gente crede. Era la croce cristiana di un operaio, fatta di asce, quindi attrezzi da lavoro.
Quanto alle chiese chiuse sotto il regime di Stalin, e nella Cina di oggi: si dà per scontato che una tale persecuzione della religione sia giustificata dal principio marxista secondo cui “la religione è l’oppio dei popoli”. Marx lo aveva affermato nel 1844, in un’epoca in cui l’oppio e i suoi derivati erano gli unici antidolorifici efficaci a disposizione. Lui stesso ne aveva fatto uso. Ed era felice del sollievo momentaneo che gli avevano procurato. Con quella frase stava semplicemente facendo notare, e di certo non condannando, il fatto che anche la religione può costituire una fonte di sollievo per chi vive in situazioni di disagio sociale ed economico. Era la semplice constatazione di una verità lapalissiana, non una massima.
Quando Marx scrisse quelle parole, peraltro, in America non avevamo ancora liberato gli schiavi. Secondo voi a quell’epoca un Dio misericordioso chi poteva guardare con più favore, Karl Marx o gli Stati Uniti d’America?
Stalin, così come i dittatori cinesi, fu ben contento di prendere l’osservazione di Marx come un ordine perentorio, dato che apparentemente conferiva il potere di mettere fuori combattimento i sacerdoti che potevano parlare male di loro e dei loro obiettivi politici.
La frase di Marx ha anche fornito il pretesto a molti dei miei connazionali per sostenere che i socialisti sono nemici della religione, nemici di Dio e quindi totalmente spregevoli.
Non ho mai conosciuto di persona Carl Sandburg o Eugene Victor Debs, ma mi sarebbe piaciuto. Sicuramente non sarei stato in grado di spiccicare parola al cospetto di tali glorie nazionali.
Però ho avuto modo di conoscere un socialista della loro generazione: Powers Hapgood, di Indianapolis. Era un tipico idealista dell’Indiana. Il socialismo è sempre idealistico. Hapgood, così come Debs, era un rappresentante della classe media convinto che in questa nazione ci potesse essere una maggiore giustizia economica. Voleva un paese migliore, tutto qui.
Dopo essersi laureato a Harvard, si mise a fare il minatore, spingendo i suoi fratelli proletari a organizzarsi per ottenere salari più alti e migliori condizioni di lavoro. Nel 1927 guidò anche un corteo di protesta contro l’esecuzione degli anarchici Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, nel Massachusetts.
A Indianapolis la famiglia di Hapgood possedeva una ditta di cibi in scatola ben avviata, e quando Powers Hapgood la ereditò la cedette agli impiegati, che la portarono al fallimento.
Io l’ho conosciuto a Indianapolis dopo la fine della seconda guerra mondiale. Lui era diventato funzionario del CIO, il sindacato dei lavoratori dell’industria. C’erano stati dei tafferugli durante un picchettaggio, ed era stato chiamato a testimoniare sui fatti in tribunale. A un certo punto, nel bel mezzo dell’udienza, il giudice ferma tutto e gli chiede: “Signor Hapgood, si guardi, lei è laureato a Harvard. Perché una persona privilegiata come lei ha fatto questa scelta di vita?” E Hapgood rispose: “Be’, per via del Discorso della Montagna, vostro onore.”
E allora lo ripeto: urrà per la nostra squadra.
Disegno di Kurt Vonnegut: asterisco
Vengo da una famiglia di artisti. E anche io mi guadagno da vivere con la mia arte. Non è stata una scelta da ribelle. È come se avessi rilevato la pompa di benzina di famiglia. Anche tutti i miei antenati avevano a che fare con l’arte. Io sto semplicemente portando avanti la tipica attività di famiglia.
Ma mio padre, pittore e architetto, era stato colpito così duramente nel periodo della Grande Depressione – durante il quale aveva fatto la fame – che pensava fosse meglio che io non avessi nulla a che fare con l’arte. Tentò di indirizzarmi verso tutt’altra strada, perché si era reso conto che l’arte valeva ben poco come mezzo di guadagno. Mi disse che mi avrebbe mandato all’università solo se avessi studiato qualcosa di serio, qualche materia pratica.
Alla Cornell University mi iscrissi alla facoltà di chimica perché quello era il campo in cui mio fratello si era fatto strada con grande successo. I critici pensano sempre che uno non possa essere un artista serio se ha fatto degli studi tecnici, come nel mio caso. So che in genere all’università, nelle facoltà di lettere, senza una reale cognizione di causa, si insegna a guardare con orrore alle facoltà di ingegneria, di fisica, di chimica. E questa stessa paura, secondo me, si trasferisce anche all’ambito della critica letteraria. Gran parte dei nostri critici provengono da studi umanistici, e guardano con sospetto chiunque si interessi di tecnologia. Insomma, come stavo dicendo, io mi sono laureato in chimica ma finisco sempre a insegnare nelle facoltà di lettere, e così ho avuto modo di offrire il contributo del pensiero scientifico alla letteratura. Non mi è stata mai dimostrata grande riconoscenza per questo, tuttavia.
Sono diventato un cosiddetto scrittore di fantascienza quando qualcuno ha stabilito che ero uno scrittore di fantascienza. Non ci tenevo affatto a essere etichettato in quel modo, e mi chiedevo cosa avessi fatto di male per non vedermi riconosciuto come uno scrittore serio. Alla fine ho deciso che la mia colpa era quella di parlare di tecnologia nei miei libri, mentre la stragrande maggioranza dei migliori scrittori americani non ne sa un bel niente, di tecnologia. Sono stato etichettato come scrittore di fantascienza perché parlavo di Schenectady, una cittadina dello Stato di New York. Il mio primo libro, Piano meccanico, era ambientato a Schenectady. A Schenectady ci sono enormi fabbriche, punto e basta. Io e i miei amici eravamo ingegneri, fisici, chimici e matematici. E così, quando parlavo della General Electric e di Schenectady, ai critici che non avevano mai messo piede da quelle parti sembrava che stessi descrivendo un futuro immaginario.
Ma secondo me i romanzi che non fanno nessun riferimento alla tecnologia rappresentano la vita in maniera imperfetta, così come rappresentavano la vita in maniera imperfetta i vittoriani che eliminavano ogni riferimento al sesso.
Disegno di Kurt Vonnegut: asterisco
Nel 1968, l’anno in cui scrissi Mattatoio n. 5, ero finalmente diventato abbastanza maturo da riuscire a parlare del bombardamento di Dresda. È stato il più grande massacro della storia europea. È chiaro che so benissimo anche cos’è successo ad Auschwitz, ma per massacro intendo qualcosa che accade molto in fretta, l’uccisione di un enorme numero di persone in un periodo brevissimo di tempo. A Dresda, il 13 febbraio 1945, i bombardamenti inglesi uccisero 135.000 persone in una sola notte.
Fu un atto di distruzione assurdo, insensato. L’intera città fu rasa al suolo: un’atrocità commessa dagli inglesi, non da noi. Mandarono dei caccia notturni, che arrivarono e diedero fuoco a tutta la città con un nuovo tipo di bombe incendiarie. Tutto il materiale organico in circolazione, tranne il mio gruppetto di prigionieri di guerra, fu divorato dalle fiamme. Fu un esperimento militare per scoprire se si poteva distruggere un’intera città con una pioggia di bombe incendiarie.
Ovviamente, in quanto prigionieri di guerra, ci trovammo ad avere a che fare in prima persona coi cadaveri dei tedeschi: li tiravamo fuori dalle cantine dove erano morti soffocati e li portavamo fino a un’immensa pira funebre eretta per l’occasione. E ho sentito dire – non l’ho visto coi miei occhi – che a un certo punto questa procedura venne abbandonata perché era troppo lenta e perché, non c’è bisogno di dirlo, la città cominciava a essere invasa da un odore piuttosto insostenibile. Quindi fecero venire i soldati coi lanciafiamme.
Perché mai io e i miei compagni di prigionia ne uscimmo vivi, non lo so.
Nel 1968 facevo lo scrittore. Anzi, per meglio dire, lo scribacchino. Scrivevo qualunque cosa pur di fare un po’ di soldi. E allora mi dissi che diamine, io ho visto questa cosa, ci sono stato in mezzo, adesso mi metto a scrivere un bel libro commerciale su Dresda. Uno di quei libri da cui avrebbero tratto un film, avete presente?, magari con Dean Martin e Frank Sinatra e compagnia bella a fare la parte di noialtri. Ci provai, a scriverlo, ma proprio non ci riuscivo. Mi veniva sempre una schifezza.
Allora andai a casa di un amico, Bernie O’Hare, che era stato mio compagno sotto le armi. Provammo a rivangare qualche episodio buffo del periodo passato a Dresda in prigionia, qualche battuta da duri e via dicendo: insomma, quello che ci vuole per fare un film di guerra coi fiocchi. E Mary O’Hare, la moglie del mio amico, a un certo punto perse la pazienza e disse: “Ma se all’epoca eravate solo dei bambini!”
Ed è vero. Di fatto i soldati sono solo dei bambini. Non sono divi del cinema. Non sono John Wayne. Quando mi resi conto che il punto era quello, finalmente fui libero di raccontare la verità. Noi eravamo dei bambini e il sottotitolo di Mattatoio n. 5 divenne La crociata dei bambini.
Perché mi ci erano voluti ventitré anni per scrivere delle esperienze che avevo vissuto a Dresda? Tutti eravamo tornati a casa con delle storie da raccontare e tutti volevamo guadagnarci qualcosa, in un modo o nell’altro. E di fatto, quello che Mary O’Hare mi stava dicendo era: “Perché una volta tanto non racconti la verità?”
Dopo la prima guerra mondiale Ernest Hemingway ha scritto un racconto intitolato Il ritorno del soldato, in cui diceva quanto fosse inopportuno chiedere a un soldato, una volta tornato a casa, di raccontare le cose che aveva visto al fronte. Credo che un sacco di reduci, me compreso, si chiudessero a riccio quando i civili gli chiedevano di parlare delle battaglie, della guerra. Era una cosa che andava di moda. Una delle maniere più efficaci di raccontare le proprie avventure di guerra è rifiutarsi di raccontarle, ci avete mai pensato? A quel punto i civili si immaginano imprese eroiche di ogni tipo.
Ma credo che la guerra del Vietnam sia servita a liberare me e altri scrittori, perché ha fatto apparire la leadership degli Stati Uniti e i moventi della nostra politica come raffazzonati e, nella sostanza, stupidi. Finalmente potevamo parlare di qualcosa di cattivo che avevamo fatto noi ai peggiori cattivi che si possano immaginare, i nazisti. E quello che avevo visto, quello che avevo da raccontare, rivelava tutto l’orrore della guerra. In effetti, la verità può avere un potere enorme. Perché uno non se l’aspetta.
E, com’è ovvio, un’altra ragione per non parlare della guerra è che è indescrivibile.
Disegno di Kurt Vonnegut: funniest joke in the world: -Last night I dreamed I was eating flannel cakes. When I woke up the blanket was gone!
La barzelletta più divertente del mondo: “Stanotte ho sognato di mangiare torte di flanella. Quando mi sono svegliato la coperta non c’era più!”
3.
Ecco una lezione di scrittura creativa.
Regola numero uno: non usate il punto e virgola. È un ermafrodito travestito che non rappresenta assolutamente nulla. Dimostra soltanto che avete fatto l’università.
E mi rendo conto che alcuni di voi potrebbero avere qualche difficoltà a capire se sto scherzando o dicendo sul serio. Perciò da ora in poi quando scherzo ve lo farò notare espressamente.
Per esempio: arruolatevi nella Guardia nazionale o nei marines e insegnate la democrazia. Sto scherzando.
Stiamo per essere attaccati da Al Qaeda. Se avete delle bandiere, sventolatele. Sembra che sia un ottimo metodo per tenerli lontani. Sto scherzando.
Se volete davvero ferire i vostri genitori e non avete il coraggio di essere gay, come minimo potete darvi all’arte. Non sto scherzando. L’arte non è un modo per guadagnarsi da vivere. Ma è un modo molto umano per rendere la vita più sopportabile.
Disegno di Kurt Vonnegut: diagramma
Figura A – L’uomo in fondo al fosso.
Praticare un’arte, non importa a quale livello di consapevolezza tecnica, è un modo per far crescere la propria anima, accidenti! Cantate sotto la doccia. Ballate ascoltando la radio. Raccontate storie. Scrivete una poesia a un amico, anche se non vi verrà una bella poesia. Voi scrivetela meglio che potete. Ne avrete una ricompensa enorme. Avrete creato qualcosa.
Disegno di Kurt Vonnegut: asterisco
Voglio spiegare anche a voi una cosa che ho imparato. Farò uno schema sulla lavagna qui dietro in modo che possiate seguire più facilmente il discorso (disegna una linea verticale sulla lavagna). Questo è l’asse F-S: fortuna-sfortuna. Qui sotto ci sono la morte, la miseria più nera e la malattia, quassù la grande ricchezza e l’ottima salute. La situazione media, normale, sta qui in mezzo (indica rispettivamente il fondo, la sommità e la parte centrale della linea).
Questo invece è l’asse I-E, dove I sta per inizio ed E per entropia. Benissimo. Non tutte le storie hanno questa forma molto semplice, molto elegante, che riesce a capire anche un computer (traccia una linea orizzontale che parte dal centro dell’asse F-S).
Adesso vi voglio dare un consiglio di marketing. Alla gente che si può permettere di comprare libri e riviste e di andare al cinema non piace sentir parlare di gente povera o malata, per cui è meglio che cominciate la vostra storia da quassù (indica il tratto superiore dell’asse F-S). Questo è un tipo di storia che vi capiterà di vedere in continuazione. Al pubblico piace da morire, e il copyright non è di nessuno. La storia è L’uomo in fondo al fosso, ma non c’è bisogno che parli veramente di un uomo né di un fosso. Funziona così: una persona si mette nei guai, ma poi riesce a tirarsene fuori (disegna la linea A). Non è un caso che la linea finisca più in alto di dove cominciava. Per i lettori questo è incoraggiante.
Disegno di Kurt Vonnegut: diagramma
Figura B – Lui incontra lei.
Un’altra storia si chiama Lui incontra lei, ma non ci deve essere per forza un lui che incontra una lei (inizia a disegnare la linea B). È così: qualcuno, una persona normalissima, un giorno qualunque, si imbatte in qualcosa di assolutamente straordinario: “Accidenti, questa è la mia giornata fortunata!” Ma poi: “Oh no, merda!” (disegna una linea che tende verso il basso). E poi la parabola risale (disegna una linea che torna verso l’alto).
Dunque: non voglio mettervi in soggezione, ma fatto sta che dopo aver studiato chimica alla Cornell, tornato dalla guerra mi sono iscritto alla Chicago University dove ho studiato antropologia, e alla fine ci ho preso anche il dottorato. Nel mio stesso dipartimento c’era Saul Bellow, e nessuno dei due ha mai fatto una spedizione sul campo. Anche se senza dubbio immaginavamo di farne. Cominciai ad andare in biblioteca in cerca dei resoconti degli etnografi, dei missionari e degli esploratori – una serie di imperialisti, in poche parole – per scoprire che tipo di storie avevano raccolto dalle popolazioni primitive. In realtà fu un grosso errore per me laurearmi in antropologia, perché io i popoli primitivi non li sopporto, mi sembrano stupidi da morire. Ma comunque sia: leggevo una dopo l’altra quelle storie raccolte dalle popolazioni primitive di tutto il mondo, ed erano tutte piatte come una tavola, come l’asse I-E che vedete qui. Perciò, ci siamo capiti. I primitivi non valgono un accidente, con quelle storie da poveracci. Sono veramente indietro. Guardate che bello invece il saliscendi delle nostre storie.
Disegno di Kurt Vonnegut: diagramma
Figura C – Cenerentola.
Una delle più famose di tutti i tempi comincia quaggiù (fa partire la linea C da sotto l’asse I-E). Chi è questo personaggio così avvilito? È una ragazzina di quindici o sedici anni, e le è morta la mamma, quindi ha tutte le ragioni di essere triste, no? E quasi subito il padre si è risposato con una donna che è una megera insopportabile e ha pure due figlie stronze. Vi ricorda qualcosa?
Una sera c’è una festa a palazzo. La ragazzina deve aiutare le due sorellastre e l’odiosa matrigna a prepararsi, ma lei non potrà uscire di casa. Questo la rende ancora più triste? No, è già una ragazzina col cuore spezzato. La morte della madre basta e avanza. Le cose non possono andare peggio di così. E insomma, le altre se ne vanno tutte alla festa. Ma ecco che arriva la fata madrina (disegna una linea che sale per gradi) e le regala le calze, il mascara e un mezzo di trasporto per andare al ricevimento.
Così, quando la ragazzina si presenta a palazzo, è la più bella della festa (disegna una linea che punta in alto). È talmente truccata che la matrigna e le sorellastre non la riconoscono nemmeno. Poi l’orologio batte la mezzanotte, come promesso, e lei perde di nuovo tutto (disegna una linea che punta in basso). Un orologio non ci mette molto a battere dodici rintocchi, e quindi lei fa un bel capitombolo. Ma dopo il capitombolo si ritrova allo stesso livello di prima? Eh no, col cavolo. Qualunque cosa succeda da lì in poi, lei si ricorderà sempre del momento in cui il principe era innamorato di lei e lei era la più bella della festa. E così la ragazzina continua a sbattersi per tirare avanti, a un livello decisamente più alto di prima, fino a che la scarpetta non le calza a pennello e le fa raggiungere un livello di felicità smisurato (disegna una linea rivolta in alto e poi il simbolo dell’infinito).
Disegno di Kurt Vonnegut: diagramma
Figura D – Kafka.
Ecco invece una storia di Kafka (fa partire la linea D da un punto vicino all’estremità inferiore dell’asse F-S). C’è un giovanotto piuttosto bruttino e senza grande personalità. Ha una famiglia antipatica e ha fatto tanti lavori senza ottenere mai una chance di avanzare nella carriera. Non ha una paga abbastanza alta per portare a ballare la sua ragazza o andare a farsi una birra con un amico. Una mattina si alza, è ora di andare a lavorare come al solito, e scopre di essersi trasformato in uno scarafaggio (disegna una linea che curva verso il basso e poi il simbolo dell’infinito). Questo è un racconto pessimista.
La domanda è: questo sistema che ho architettato ci aiuta nella valutazione della letteratura? Forse un vero capolavoro non può essere crocifisso su una croce di questo genere. Come la mettiamo con l’Amleto? Quella direi che è un’opera letteraria niente male. C’è qualcuno che potrebbe sostenere il contrario? Ecco, non devo neanche disegnare un’altra linea, perché la situazione di Amleto è la stessa di Cenerentola, solo che i sessi sono invertiti.
Gli è appena morto il padre. Lui è depresso da morire. E in quattro e quattr’otto la madre ha preso e ha sposato lo zio, che è un bastardo. Quindi Amleto sta viaggiando sullo stesso livello di sfiga di Cenerentola, quando a un certo punto arriva il suo amico Orazio e gli fa: “Senti, Amleto, c’è un coso in cima alle mura, mi sa che è meglio che ci parli tu. È tuo padre.” Amleto sale sulle mura e parla con quello spettro, come sappiamo, abbastanza palpabile. E lo spettro gli dice: “Sono tuo padre, mi hanno assassinato, mi devi vendicare, è stato tuo zio, ed ecco come ha fatto.”
Disegno di Kurt Vonnegut: diagramma
Figura E – Amleto.
E tutto questo per lui è un bene o un male? A tutt’oggi non sappiamo se il fantasma era veramente il padre di Amleto. Se vi siete divertiti un po’ con tavolini e pendolini, sapete che il mondo soprannaturale è pieno di spiritelli dispettosi che svolazzano qua e là, pronti a dirvi tutto e il contrario di tutto, e non bisogna dar loro retta. Madame Blavatsky, una che sul mondo degli spiriti ne sapeva più di chiunque altro, diceva che è sciocco prendere sul serio gli spettri, perché spesso e volentieri sono dispettosi, e molte volte sono le anime di gente che è stata assassinata, si è suicidata o è stata terribilmente ingannata in una maniera o nell’altra durante la vita, e adesso cerca vendetta.
Perciò non sappiamo se quel coso era veramente il padre di Amleto, o se per Amleto la sua apparizione è stata un bene o un male. E non lo sa neanche lo stesso Amleto. Però dice ok, conosco un modo per scoprirlo. Adesso ingaggio degli attori che rappresentino l’assassinio di mio padre per mano di mio zio così come l’ha raccontato il fantasma, metto su questo spettacolino e vedo come reagisce mio zio. E così Amleto mette su lo spettacolino. Ma non succede come in Perry Mason. Lo zio non dà di matto e non dice: “Sì... sì... Mi hai beccato, mi hai beccato, sono stato io, sono stato io.” Il piano fallisce. Amleto ancora non sa se è stato un bene o un male. Dopo questo fallimento, si ritrova a parlare con la madre, le tende si muovono e lui pensa che dietro ci sia lo zio, e si dice: “Va bene, adesso sono stufo di essere sempre così titubante, cazzo,” e pianta il pugnale nella tenda. E chi casca fuori? Quel trombone di Polonio. Un Rush Limbaugh1 ante litteram. Shakespeare lo ritiene un cretino, quindi un personaggio sacrificabile.
Sapete, i genitori stupidi pensano che i consigli che dà Polonio al figlio quando parte siano proprio ciò che ogni genitore dovrebbe dire ai propri figli, ma in realtà sono i più stupidi di tutti, e Shakespeare li trovava addirittura ridicoli.
“Non chiedere né dar danaro in prestito.” Ma che altro è la vita se non un continuo prestare e prendere in prestito, dare e ricevere?
“Ma soprattutto tieni questo in mente: sii sempre, e resta, fedele a te stesso.” In altre parole, sii un egomaniaco!
Ma anche questa uccisione non è né un bene né un male. Amleto non viene arrestato. È il principe. Può uccidere chi gli pare e piace. E così la storia va avanti, e alla fine Amleto muore in duello. Va in paradiso o all’inferno? Una bella differenza. Cenerentola o lo scarafaggio di Kafka? Secondo me Shakespeare non credeva al paradiso e all’inferno, così come non ci credo io. E quindi non lo sappiamo, se certe cose sono state un bene o un male.
Vi ho appena dimostrato che a raccontare storie Shakespeare non era più bravo di un qualunque arapaho.
Ma c’è un motivo per cui l’Amleto viene considerato un capolavoro, ed è che Shakespeare ci ha detto la verità, ed è molto raro che in questo saliscendi qui (indica la lavagna) qualcuno ci dica la verità. La verità è che noi sappiamo pochissimo della vita, e non capiamo mai davvero che cosa è bene e che cosa è male.
E se dovessi morire – Dio non voglia – mi piacerebbe andare in paradiso e chiedere a chi comanda lassù: “Ehi, ma insomma, che cosa è stato un bene e che cosa un male?”
Disegno di Kurt Vonnegut: I don't kwon about you, but I practice a disorganized religion.I belong to an unholy disorder, we call ourselves - our lady of perpetual astonishment
Non so voi, ma io pratico una religione disorganizzata. Appartengo a un empio disordine. Ci chiamiamo “Nostra Signora della Perpetua Meraviglia”.
1 Celebre opinionista radiofonico americano di area conservatrice. (N.d.T.)
4.
Voglio darvi una notizia.
No, non ho intenzione di candidarmi alla presidenza degli Stati Uniti, anche se lo so che una frase, per essere completa, deve avere un soggetto e un verbo.
E non sto neanche per confessare che vado a letto coi bambini. Ma dichiaro volentieri quanto segue: mia moglie è di gran lunga la persona più vecchia con cui sono andato a letto.
Ed ecco la notizia: ho intenzione di fare causa alla Brown & Williamson Tobacco Company, la ditta produttrice delle sigarette Pall Mall, per ottenere un risarcimento di un miliardo di dollari! Da quando avevo appena dodici anni, infatti, fumo come un turco sempre e solo Pall Mall senza filtro. E da diversi anni, ormai – c’è scritto proprio sul pacchetto –, la Brown & Williamson ha promesso di ammazzarmi.
Ma ho ottantadue anni. Mille grazie, luridi bastardi. L’ultima cosa al mondo che avrei mai desiderato è essere ancora in vita nel momento in cui le tre persone più potenti del pianeta si chiamano Bush, Dick e Colon.2
Il nostro governo sta facendo guerra alla droga. Il che è sicuramente meglio che stare senza droga e basta. Così si diceva un tempo del proibizionismo. Non so se vi rendete conto che dal 1919 al 1933 in America era assolutamente illegale produrre, trasportare o vendere bevande alcoliche, e Kin Hubbard, umorista e vignettista dell’Indiana, disse: “Meglio avere il proibizionismo che stare senza alcool.”
Ma sentite qua: le due sostanze di cui più si abusa, e che causano maggiori danni e dipendenza, sono entrambe perfettamente legali.
Una, come sappiamo, è l’alcool etilico. E nientemeno che il presidente George W. Bush, per sua stessa ammissione, è stato sbronzo, ciucco, ubriaco fradicio per buona parte del tempo fra i sedici e i quarant’anni. A quarantuno, dice che gli è apparso Gesù e l’ha fatto smettere di attaccarsi alla bottiglia, di sgargarozzarsi questo mondo e quell’altro.
Altri ubriaconi dicono di aver visto elefanti rosa.
Per quanto riguarda la mia storia di consumatore di stupefacenti, sono sempre stato un vigliacco in fatto di eroina e cocaina, LSD e compagnia bella, per paura che mi mandassero troppo fuori di testa. Una canna di marijuana me la sono fumata, una volta, con Jerry Garcia e i Grateful Dead, per non fare l’asociale. Ma non ho sentito nessun particolare effetto, e quindi non ci ho più riprovato. E ringraziando Iddio, o chi per lui, non sono un alcolizzato, soprattutto per questioni genetiche. Un paio di bicchieri ogni tanto me li bevo, e me li berrò anche stasera. Ma mai più di due. E quelli non sono un problema.
Viceversa io sono, è vero, un noto tabagista. Continuo a sperare che le sigarette mi mandino al Creatore. Una fiamma a un’estremità e un fesso all’altra.
Ma vi voglio dire una cosa: una volta ho provato una sensazione di sballo che al confronto perfino il crack sarebbe acqua fresca. È stato quando ho preso la patente: stai attento, mondo, ecco che arriva Kurt Vonnegut!
E la mia macchina dell’epoca, una Studebaker, se ricordo bene, era alimentata, così come quasi tutti i mezzi di trasporto e i macchinari odierni, nonché le centrali elettriche e le fonderie, dalle droghe più abusate, dannose e che causano più dipendenza fra tutte, cioè i combustibili fossili.
Quando voi siete nati, e perfino quando sono nato io, il mondo industrializzato era già drogato perso di combustibili fossili, che ormai molto presto finiranno. Ci aspettano una crisi di astinenza e una disintossicazione forzata.
Vi posso dire la verità? In fondo non siamo al telegiornale, no? E allora ecco qual è la verità, secondo me: noi siamo tutti drogati di combustibili fossili, ma ci rifiutiamo di ammetterlo. E come tanti tossici che stanno per entrare in crisi di astinenza, i capi dei nostri governi stanno commettendo crimini atroci pur di ottenere quel poco che rimane della sostanza da cui siamo dipendenti.
Disegno di Kurt Vonnegut: asterisco
Qual è stato l’inizio della fine? Qualcuno potrebbe dire Adamo ed Eva e la mela proibita: un caso lampante di istigazione a delinquere. Io dico che è stato Prometeo, un Titano, un figlio degli dei, che secondo la mitologia greca rubò il fuoco a Zeus per donarlo agli esseri umani. Gli dei si arrabbiarono così tanto che lo legarono a una roccia con la schiena nuda, e gli fecero divorare il fegato dalle aquile. “Il medico pietoso fa la piaga purulenta.”
E adesso è evidente che gli dei avevano ragione. I nostri cugini di primo grado, gorilla, oranghi, scimpanzé e gibboni, hanno campato felici e contenti per tutto questo tempo cibandosi di vegetali crudi, mentre noi non solo prepariamo pasti caldi, ma in meno di duecento anni abbiamo quasi distrutto questo pianeta, che prima era un sanissimo sistema di sostentamento della vita, principalmente dandoci a una gran baldoria termodinamica a base di combustibili fossili.
L’inglese Michael Faraday costruì il primo generatore elettrico solo 172 anni fa.
Il tedesco Karl Benz costruì la prima automobile alimentata da un motore a combustione interna solo 119 anni fa.
Il primo pozzo di petrolio degli Stati Uniti, che ora è un buco secco, fu scavato a Titusville, in Pennsylvania, da Edwin L. Drake, solo 145 anni fa.
I fratelli Wright, americani anche loro, ovviamente, costruirono e fecero volare il primo aeroplano solo 101 anni fa. Andava a gasolio.
Vogliamo chiamarla una baldoria irresistibile?
Piuttosto un tranello micidiale.
I combustibili fossili, che si accendono tanto facilmente! Sì, ma in questo momento ne stiamo sfruttando le ultime zaffate, le ultime gocce e gli ultimi tocchetti. Tutte le luci si stanno per spegnere. Niente più elettricità. Tutti i mezzi di trasporto stanno per fermarsi e il pianeta Terra ben presto sarà ricoperto da una crosta fatta di teschi, ossa e macchinari morti.
E nessuno può farci niente. Il gioco ormai si è spinto troppo oltre.
Non per fare il guastafeste, ma la verità è questa: abbiamo sperperato le risorse del nostro pianeta, ivi comprese l’aria e l’acqua, senza minimamente preoccuparci del futuro, e ora un futuro non ci sarà.
E quindi tanti saluti al gran ballo della scuola, e questo non è neanche il danno peggiore.
Disegno di Kurt Vonnegut: evolution is so creative. That's how we got giraffes
L’evoluzione è veramente creativa. È così che ci siamo ritrovati con le giraffe.
2 L’allusione è a George W. Bush, presidente degli Stati Uniti, Dick Cheney, suo vicepresidente, e Colin Powell, segretario di stato fino al gennaio 2005. Bush in inglese colloquiale significa “fica”, dick “cazzo” e colon è, come in italiano, un tratto del basso intestino. (N.d.T.)