LA CADUTA NEL TEMPO
E.M. Cioran
Recensione
P.b.
"Con o senza la guerra, noialtri facciamo parte di un mondo condannato. Lei lo sa da tempo, da sempre, ed è per questo che l’avvenire, per lei, si confonderà con la rabbia di aver avuto ragione"
Emil M. Cioran. Lettera a Erwin Chargaff
In "La caduta nel tempo" Cioran parla di tutti quei problemi esistenziali che la filosofia moderna ha abbandonato.
Parte dalle origini, dalla cacciata dall’Eden, da quell’atto di ribellione che mise in mostra la natura masochista dell’uomo. In principio l’uomo aveva la possibilità di vivere nell’immobilità del tempo, nell’ignoranza ma ha scelto il dubbio e il divenire.
Non è una visione pessimistica quella di Cioran, ma si fonda sull’esperienza. Finché si sta bene, non si esiste. Più esattamente, non si sa di esistere. Scrive Cioran che due sono possibilità di espressione che l’uomo ha: negare e dubitare.
Per Cioran la condanna dell’uomo è il desiderio che insinua il dubbio, che porta alla ricerca.
Come può l’uomo liberarsi di tutto questo? Cioran non arriva a nessuna conclusione. Indica solo una possibilità: sperare che la storia finisca e che l’uomo trovi felicità in un’era senza più desideri.
Già Albert Camus si poneva con cinismo questa domanda e iniziava così il suo saggio Il mito di Sisifo."Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia”.
Come in Pascal, la tensione é così intensa, che ciò che è psicologico viene bruciato, e trasformato in un lampo metafisico. Ho fatto il nome di Pascal perché Cioran è una specie di Pascal moderno. Come lui, ha conosciuto le tentazioni dello scetticismo: si è annullato in Dio, e poi, a differenza di Pascal, non ha potuto reggere quella profondissima quiete, quel dialogo con l’Uno; e ha abbandonato Dio, vivendo tra i dubbi e i rottami della sua intelligenza.
Ma come è lontano da Kafka! Negli aforismi di Zurau, Kafka ci ricorda che il Giardino esiste ed è fatto per noi: che l’Indistruttibile in noi non é stato distrutto; e che, ancora oggi, viviamo nel Paradiso mentre soggiorniamo nel tempo, sebbene pochi o nessuno se ne rendano conto. Unico nei tempi moderni, Kafka vive sotto le foglie e il profumo dell’Albero della vita.
L’atteggiamento di Cioran è molto diverso. Egli pensa che Dio abbia commesso la più grave delle colpe. Invece di restare solo nel suo silenzio, avvolto da una luce pura, Egli ha creato; e da lì deriva tutta la nostra attività, il nostro amore per l'esasperazione dei gesti
Il nichilismo di Cioran è come la scala di Wittgenstein: può tornare utile come operatore concettuale propedeutico ma, una volta percorsi gli innumerevoli strati del suo pensiero, si dovrà lasciare da parte. Secondo Philippe Tiffreau, Cioran è «anarchico ai bordi, nichilista in mezzo e mistico al centro» [TIFFREAU, P., Cioran ou la dissection du gouffre, Henri Veyrier, Paris, 1991, p. 28]. Per di più, l’etichetta di nichilismo, più che spiegare e generare senso, il più delle volte serve semplicemente a diffamare e a squalificare una voce qualsiasi nel dibattito pubblico, com’è accaduto soprattutto dopo l’intervento di Nietzsche nella storia del pensiero occidentale.
«L’accusa di nichilismo è oggi tra le più diffuse, tra quelle che più volentieri vengono rivolte all’avversario. È probabile che tutti abbiano ragione» [JÜNGER E., HEIDEGGER M., "Oltre la linea" Adelphi ]
LA CADUTA NEL TEMPO
E.M. Cioran
Titolo originale: La chute dans le temps.
Traduzione di Tea Turolla.
Copyright 1964 éditions Gallimard Paris.
Copyright 1995 Adelphi Edizioni S.p.A., Milano.
L’albero della vita
Non è bene che l’uomo si ricordi a ogni istante di essere uomo. Già è male concentrare l’attenzione su se stessi; ma è peggio ancora concentrarla sulla specie, con uno zelo da ossessi: significa attribuire alle miserie arbitrarie dell’introspezione un fondamento oggettivo e una giustificazione filosofica. Finché ci si limita a torturare il proprio io, si può sempre pensare che si ceda a un capriccio; ma quando tutti gli io diventano il centro di una rimuginazione senza fine, indirettamente si ritrovano generalizzati gli inconvenienti della propria condizione ed eretto a norma, a caso universale, il proprio accidente.
Noi percepiamo innanzitutto l’anomalia del fatto bruto di esistere e soltanto in seguito quella della nostra situazione specifica: lo stupore di essere precede lo stupore di essere uomo. Eppure il carattere insolito del nostro stato dovrebbe costituire il dato primordiale delle nostre perplessità: è meno naturale essere uomo che essere e basta.
Questo, noi lo sentiamo d’istinto; e da questo deriva la voluttà che proviamo tutte le volte che ci distogliamo da noi stessi per identificarci con il sonno beato degli oggetti. Non siamo realmente noi se non quando, mettendoci di fronte a noi stessi, non coincidiamo con niente, nemmeno con la nostra singolarità. La maledizione che ci grava addosso pesava già sul nostro antico progenitore, molto prima che egli si volgesse verso l’albero della conoscenza. Insoddisfatto di sé, lo era ancor più di Dio, che egli invidiava senza esserne consapevole; lo sarebbe divenuto grazie ai buoni uffici del tentatore, coadiutore, piuttosto che autore, della sua rovina. Prima, viveva nel presentimento del sapere, in una scienza che ignorava se stessa, in una falsa innocenza, propizia all’esplodere della gelosia, vizio generato dal contatto con chi è più fortunato di noi; ora, il nostro progenitore frequentava Dio, lo spiava ed era da lui spiato. Non poteva derivarne niente di buono.
«Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti».
L’avvertimento dall’alto si rivelò meno efficace dei suggerimenti dal basso: migliore psicologo, il serpente trionfò. L’uomo, del resto, non chiedeva che di morire; volendo uguagliare il suo Creatore nel sapere anziché nell’immortalità, non aveva alcun desiderio di raggiungere l’albero della vita, non gli interessava affatto; e di questo Yavèh parve rendersi conto, giacché non gliene proibì neanche l’accesso: perché temere l’immortalità di un ignorante? Se l’ignorante avesse mirato a entrambi gli alberi e fosse entrato in possesso sia dell’eternità sia della scienza, allora sì che tutto sarebbe cambiato. Non appena Adamo assaggiò il frutto incriminato, Dio, comprendendo alfine con chi aveva a che fare, perse la calma. Mettendo l’albero della conoscenza in mezzo al giardino, vantandone i meriti e soprattutto i pericoli, commise una grave imprudenza, anticipò il desiderio più recondito della creatura. Proibirgli l’altro albero sarebbe stata una tattica migliore. Se non lo fece, fu perché sapeva senza dubbio che l’uomo, aspirando subdolamente alla dignità di mostro, non si sarebbe lasciato sedurre dalla prospettiva dell’immortalità in quanto tale, troppo accessibile, troppo banale: non era essa la legge, lo statuto stesso del luogo? La morte, invece, ben altrimenti pittoresca, e investita del prestigio della novità, poteva incuriosire un avventuriero, disposto a rischiare per essa la propria pace e la propria sicurezza.
Pace e sicurezza abbastanza relative, è vero poiché il racconto della caduta ci permette di intuire che, pur nel cuore dell’Eden, il promotore della nostra razza doveva sentire un certo malessere: non si riuscirebbe a spiegare, altrimenti, la facilità con cui cedette alla tentazione. Vi cedette? Piuttosto la invocò. In lui si manifestava già quell’inattitudine alla felicità, quell’incapacità di sopportarla che abbiamo tutti ereditato. Egli l’aveva sottomano, poteva farla sua per sempre; la respinse, e da allora la inseguiamo senza ritrovarla; e anche se la ritrovassimo, non ci adatteremmo ad essa meglio di allora. Che cos’altro aspettarsi da una carriera iniziata con un’effrazione alla saggezza, con un’infedeltà al dono d’ignoranza che il Creatore ci aveva elargito?
Precipitati nel tempo dal sapere, fummo simultaneamente dotati di un destino. Giacché non v’è destino se non fuori del paradiso.
Se fossimo decaduti da un’innocenza completa, totale, insomma vera, la rimpiangeremmo con una tale veemenza che nulla potrebbe avere la meglio sul nostro desiderio di recuperarla; ma il veleno era già in noi all’inizio, un male ancora indistinto che si sarebbe poi definito impadronendosi di noi e ci avrebbe segnati, caratterizzati per sempre. Quei momenti in cui una negatività essenziale presiede ai nostri atti e ai nostri pensieri, in cui l’avvenire è già estinto prima ancora di nascere, in cui un sangue devastato ci infligge la certezza di un universo dai misteri ormai spoetizzati, folle di anemia, accasciato su se stesso, e in cui tutto si risolve in un sospiro spettrale, replica a millenni di prove inutili; non saranno, questi momenti, il prolungarsi e l’aggravarsi di quel malessere iniziale senza il quale la storia non sarebbe stata possibile, e neanche concepibile, poiché, proprio come la storia, quel malessere è fatto di intolleranza alla pur minima forma di beatitudine durevole? Questa intolleranza, anzi questo orrore, impedendoci di trovare in noi stessi la nostra ragione di esistere, ci ha fatto fare un balzo fuori della nostra identità e come fuori della nostra natura. Disgiunti da noi stessi, non ci rimaneva che esserlo da Dio: una tale ambizione, già concepita nell’innocenza di quei primi tempi, come non nutrirla ora, che verso di lui non abbiamo più alcun obbligo? E, di fatto, tutti i nostri sforzi e tutte le nostre conoscenze tendono a sminuirlo, lo mettono in discussione, intaccano la sua integrità. Quanto più il desiderio di conoscere, intriso di perversità e di corruzione, ci possiede, tanto più ci rende incapaci di restare all’interno di qualsivoglia realtà. Chi ne è posseduto agisce da profanatore, da traditore, da agente di disgregazione; sempre ai margini o al di fuori delle cose, quando gli accade malgrado tutto di insinuarsi in esse, lo fa allo stesso modo del verme nel frutto. Se l’uomo avesse avuto la minima vocazione per l’eternità, invece di correre verso l’ignoto, verso il nuovo, verso le devastazioni che porta con sé l’appetito di analisi, si sarebbe accontentato di Dio, nella cui familiarità egli prosperava. Ha voluto invece emanciparsi, strapparsi da lui, e vi è riuscito oltre ogni speranza.
Dopo aver infranto l’unità del paradiso, si adoperò a infrangere quella della terra introducendo in essa un principio di smembramento che doveva distruggerne l’ordine e l’anonimato. Certamente moriva anche prima, ma la morte, compimento nell’indistinzione primitiva, non aveva per lui il senso che ha assunto in seguito, né possedeva i caratteri dell’irreparabile. Non appena l’uomo, separato dal Creatore e dal creato, divenne individuo, vale a dire frattura e incrinatura dell’essere, e non appena, accettando il proprio nome sino alla provocazione, seppe di essere mortale, il suo orgoglio si accrebbe, non meno che il suo smarrimento. Moriva finalmente a modo suo, e ne era fiero, ma moriva del tutto, e questo lo umiliava. Non ne voleva più sapere di un epilogo che aveva tenacemente desiderato; così finì per volgersi, pieno di rimpianti, verso gli animali, suoi compagni di un tempo: tutti, i più vili come i più nobili, accettano la loro sorte, soddisfatti o rassegnati ad essa; nessuno di loro ha seguito il suo esempio né imitato la sua ribellione.
Le piante, ancor più delle bestie, giubilano di essere create: persino l’ortica respira ancora in Dio e in lui si abbandona; soltanto l’uomo soffoca in Dio – e non fu proprio questa sensazione di soffocamento che lo incitò a distinguersi nella creazione, a farvi la figura del proscritto consenziente, del reprobo volontario? Tutti gli altri esseri viventi, per il fatto stesso di identificarsi con la propria condizione, hanno una certa superiorità su di lui. Ed è quando li invidia, quando si strugge di non avere la loro gloria impersonale, che egli capisce la gravità del suo caso.
Invano tenterà di riafferrare la vita che ha fuggito per curiosità della morte: mai sullo stesso piano della vita, sarà sempre al di qua o al di là di essa. Più la morte si sottrae, più egli aspira a impadronirsene e a soggiogarla; non riuscendovi, mobilita tutte le risorse della propria volontà inquieta e torturata, suo unico appoggio: è un disadattato esausto e tuttavia infaticabile, senza radici, conquistatore proprio perché sradicato; un nomade insieme folgorato e indomito, che anela a rimediare alle proprie deficienze e, di fronte al fallimento, violenta ogni cosa intorno a sé; un devastatore che accumula misfatti su misfatti per la rabbia di vedere un insetto procurarsi agevolmente ciò che lui, con tanti sforzi, non riesce a ottenere. Avendo perduto il segreto della vita e imboccato una deviazione troppo lunga per poterlo ritrovare e riapprendere, egli si allontana ogni giorno un po’ di più dalla sua antica innocenza, decade irrefrenabilmente dall’eternità. Forse potrebbe ancora salvarsi se acconsentisse a rivaleggiare con Dio soltanto in sottigliezze, in sfumature, in discernimento; e invece no, egli aspira allo stesso grado di potenza.
Tanta superbia non poteva nascere se non nello spirito di un degenerato, fornito di una carica di esistenza limitata, costretto, a causa delle sue insufficienze, ad aumentare artificialmente i propri mezzi d’azione e a supplire ai suoi istinti compromessi con strumenti atti a renderlo temibile. E se è diventato davvero temibile, lo deve alla sua smisurata capacità di degenerare.
Invece di limitarsi alla selce e, in fatto di raffinatezze tecniche, alla carriola, egli inventa e maneggia con abilità demoniaca arnesi che proclamano la strana supremazia di un deficiente, di uno specimen biologicamente declassato che nessuno avrebbe potuto immaginare capace di innalzarsi a una nocività così ingegnosa. Non lui, bensì il leone o la tigre avrebbero dovuto occupare il posto che egli detiene nella scala delle creature. Ma non sono mai i forti, sono i deboli che mirano al potere e lo raggiungono, per l’effetto combinato dell’astuzia e del delirio.
Una belva, non provando mai il bisogno di accrescere la propria forza, che è reale, non si abbassa all’utensile.
Proprio perché in ogni cosa era un animale anormale, poco dotato per conservarsi e affermarsi, violento per fragilità e non per vigore, intransigente da una posizione di debolezza, aggressivo a causa della sua stessa inadattabilità, l’uomo doveva cercare i mezzi di una riuscita che non avrebbe potuto realizzare, e nemmeno immaginare, se la sua complessione avesse corrisposto agli imperativi della lotta per l’esistenza. Se esagera in tutto, se l’iperbole è in lui un bisogno vitale, è perché, squilibrato e senza freni fin dal primo momento, non può ancorarsi a ciò che è né constatare o subire la realtà senza volerla trasformare e forzare. Privo di tatto – di questa scienza innata della vita -, e per giunta incapace di discernere l’assoluto nell’immediato, egli appare, nell’insieme della natura, come un episodio, una digressione, un’eresia; come un guastafeste, uno stravagante, un pervertito che ha complicato tutto, persino la propria paura, diventata in lui, aggravandosi, paura di se stesso, spavento di fronte alla sua sorte di sgorbio sedotto dall’enorme, in balia di una fatalità che intimorirebbe un dio. Poiché il tragico è la sua prerogativa, egli non può non sentire che ha più destino del proprio Creatore; da ciò deriva il suo orgoglio, e il suo timore, e quel bisogno di fuggirsi e di produrre per eludere il panico, per evitare l’incontro con se stesso. Egli preferisce abbandonarsi agli atti, ma, dedicandosi ad essi, in realtà non fa che obbedire alle ingiunzioni di una paura che lo provoca e lo sferza, e che lo paralizzerebbe se cercasse di rifletterci sopra e di prenderne chiara coscienza. Quando, acquietato, sembra avviarsi verso l’inerte, essa risale alla superficie e distrugge il suo equilibrio. Lo stesso malessere che egli provava in mezzo al paradiso forse non era che una paura virtuale, esordio, abbozzo d’«anima». è impossibile vivere a un tempo nell’innocenza e nella paura, soprattutto quando quest’ultima è sete di tormenti, apertura verso il funesto, cupidigia di ignoto. Non coltiviamo il brivido in sé, vagheggiamo ciò che è nocivo, il pericolo puro, a differenza degli animali che amano aver paura solo davanti a un pericolo preciso, unico momento, del resto, in cui, scivolando verso l’umano e lasciandovisi cadere, ci rassomigliano; giacché la paura simile a una corrente psichica che attraversi all’improvviso la materia per vivificarla e disorganizzarla al tempo stesso – appare come una prefigurazione, come una possibilità di coscienza, anzi come la coscienza degli esseri che ne sono privi… Essa ci caratterizza a tal punto che non possiamo più avvertirne la presenza se non quando si allenta o si ritira, in quegli intervalli sereni che essa nondimeno impregna e che riducono la felicità a una dolce, piacevole ansia.
Coadiutrice dell’avvenire, essa ci stimola e, impedendoci di vivere all’unisono con noi stessi, ci obbliga ad affermarci con la fuga. è tale, la paura, che nessuno può farne a meno, se vuole agire; solo chi è liberato se ne affranca e festeggia un duplice trionfo: su di essa e su di sé; perché ha rinunciato alla propria qualità e al proprio compito di uomo, e non partecipa più a questa durata gonfia di terrore, a questa galoppata attraverso i secoli impostaci da una forma di spavento di cui noi siamo, in definitiva, l’oggetto e la causa.
Se Dio ha potuto affermare di essere «colui che è», l’uomo, al contrario, potrebbe definirsi «colui che non è».
E proprio questa mancanza, questo deficit di esistenza, risvegliando per reazione la sua tracotanza, lo incita alla sfida o alla ferocia. Avendo disertato le sue origini, barattato l’eternità con il divenire, maltrattato la vita proiettando in essa la propria giovane demenza, egli emerge dall’anonimato tramite un susseguirsi di rinnegamenti che fanno di lui il grande transfuga dell’essere. Esempio di antinatura, il suo isolamento è pari solo alla sua precarietà. L’inorganico basta a se stesso; l’organico è dipendente, minacciato, instabile; il conscio è quintessenza di caducità. Un tempo disponevamo di tutto tranne che della coscienza; adesso che la possediamo, che ne siamo assillati e che essa si delinea ai nostri occhi come l’esatto opposto dell’innocenza primordiale, non riusciamo né ad accettarla né ad abiurarla. Trovare da qualsiasi parte maggiore realtà che in se stessi significa riconoscere che si è sbagliata strada e che si merita il proprio decadimento.
L’uomo, che malgrado tutto in paradiso era un dilettante, smise di esserlo non appena ne fu cacciato: non si accinse forse immediatamente alla conquista della terra con una serietà e un’applicazione di cui non lo si sarebbe creduto capace? Eppure egli porta in sé e su di sé qualcosa di irreale, di non terrestre, che si svela nelle pause della sua febbrilità. A forza di vaghezza e di equivocità, egli è di qui e non lo è.
Quando lo si osserva durante le sue assenze, in quei momenti in cui la sua corsa rallenta o s’interrompe, non si scorge forse nel suo sguardo l’esasperazione o il rimorso di aver rovinato non solo la sua prima patria ma anche quell’esilio di cui fu così impaziente, così avido? Un’ombra alle prese con simulacri, un sonnambulo che si vede camminare, che osserva i propri movimenti senza scorgerne la direzione né la ragione. La forma di sapere che ha scelto è un attentato, un peccato se si vuole, un’indiscrezione criminale nei confronti della creazione, che egli ha ridotta a un ammasso di oggetti dinanzi a cui si pone, si erge quale distruttore – ruolo che sostiene per bravata più che per coraggio, prova ne sia l’aria disorientata che ebbe già al tempo della faccenda del frutto, di colpo si sentì solo in mezzo all’Eden, e si sarebbe sentito ancora più solo in mezzo alla terra, dove, per effetto della maledizione particolare che lo aveva colpito, doveva costituire «un impero dentro un impero».
Chiaroveggente, e insensato, egli non ha pari: vero strappo alle leggi della natura, niente lasciava prevedere la sua comparsa. Era forse necessario, lui che, nel morale, è più deforme di quanto non lo fossero, nel fisico, i dinosauri? Se lo si considera, se lo si indaga senza indulgenza, si intuisce perché non se ne possa fare impunemente un tema di riflessione.
L’eccessiva insistenza di un mostro su un altro mostro rende doppiamente mostruosi: dimenticare l’uomo, e addirittura l’idea che egli incarna, dovrebbe costituire il preambolo di ogni terapeutica. La salvezza viene dall’essere, non dagli esseri, giacché nessuno guarisce a contatto con i loro mali.
Se l’umanità si è dedicata così a lungo all’assoluto, è perché non poteva trovare in se stessa un principio di salute. La trascendenza possiede virtù curative: sotto qualsiasi veste si presenti, un dio significa un passo verso la guarigione. Persino il diavolo rappresenta per noi un aiuto più efficace dei nostri simili. Eravamo più sani quando, implorando o esecrando una forza che ci trascendeva, potevamo servirci senza ironia della preghiera e della bestemmia. Non appena fummo condannati a noi stessi, il nostro squilibrio si accentuò. Liberarsi dell’ossessione di sé: nessun imperativo è più urgente.
Ma può un infermo estraniarsi dalla propria infermità, dal vizio stesso della sua essenza? Promossi al rango di incurabili, siamo materia dolente, carne urlante, ossa rose da grida, e i nostri stessi silenzi non sono che lamenti strozzati. Noi soffriamo, da soli, molto più di tutti gli altri esseri, e il nostro tormento, invadendo il reale, si sostituisce ad esso e ne fa le veci: pertanto, colui che soffrisse in modo assoluto sarebbe cosciente in modo assoluto, dunque completamente colpevole nei confronti dell’immediato e del reale, termini correlativi allo stesso titolo che la sofferenza e la coscienza.
E proprio perché i nostri mali superano per numero e per virulenza quelli di tutte le creature messe assieme i saggi si sforzano di insegnarci l’impassibilità, alla quale d’altronde essi non riescono a elevarsi più di quanto non riusciamo a fare noi. Nessuno può vantarsi di averne incontrato uno solo che fosse perfetto, mentre ci imbattiamo quotidianamente in ogni sorta di casi estremi nel bene e nel male: esaltati, scorticati, profeti, talvolta santi…
Nati da un atto di insubordinazione e di rifiuto, eravamo poco preparati all’indifferenza: a renderci del tutto inadatti intervenne in seguito il sapere. Il principale rimprovero che si deve muovere nei confronti del sapere è di non averci aiutati a vivere. Ma era poi quella la sua funzione? Non ci siamo forse rivolti ad esso perché ci confermasse nei nostri disegni perniciosi, perché favorisse i nostri sogni di potenza e di negazione? L’animale più immondo vive, in un certo senso, meglio di noi. Senza andare a cercare nelle fogne ricette di saggezza, come non riconoscere i vantaggi che ha su di noi un ratto, proprio perché è un ratto e nient’altro? Sempre diversi, siamo noi stessi solo nella misura in cui ci allontaniamo dalla nostra definizione, dato che l’uomo è, secondo le parole di Nietzsche,:das noch nicht festgestellte Tier, l’animale il cui tipo non è ancora determinato, fissato. Obnubilati dalla metamorfosi, dal possibile, dall’imminente scimmiottamento di noi stessi, accumuliamo l’irreale e ci dilatiamo nel falso, giacché non appena si sa e si sente di essere uomini, si mira al gigantismo, si vuole apparire più grandi che al naturale. L’animale ragionevole è l’unico animale traviato, l’unico che, invece di persistere nella sua condizione originaria, si adoperò a forgiarsene un’altra, in spregio ai propri interessi e per una sorta di empietà verso la propria immagine.
Meno inquieto che scontento (l’inquietudine esige uno sbocco, sfocia nella rassegnazione), egli si compiace in un’insoddisfazione che sfiora la vertigine. Non integrandosi mai completamente né con se stesso né con il mondo, proprio in quella parte di sé cui ripugna identificarsi con ciò che egli sente o intraprende, proprio in quella zona d’assenza, in quello iato fra sé e sé, fra sé e l’universo, si rivela la sua originalità e si esercita la sua facoltà di non coincidenza che lo mantiene in uno stato di insincerità non soltanto verso gli esseri, e questo è legittimo, ma anche e soprattutto verso le cose, e questo lo è meno. Duplice alla radice, contratto e teso, la sua doppiezza, come la contrazione e la tensione, derivano ancora dalla sua mancanza di esistenza, dalla sua carenza di sostanza, che lo condannano agli eccessi del volere. Più si è, meno si vuole. Ci precipitano verso l’atto il nostro non essere, la nostra fragilità e la nostra inadattabilità. E l’uomo, fragile e inadatto per eccellenza, ha il privilegio e la sventura di assoggettarsi a compiti incommensurabili con le sue forze, di cadere in preda alla volontà, stigma della sua imperfezione, mezzo sicuro per affermarsi e precipitare…
Invece di compiere ogni sforzo per ritrovarsi, per incontrare se stesso, la sua essenza intemporale, egli ha rivolto le sue facoltà verso l’esterno, verso la storia. Se le avesse interiorizzate, se ne avesse modificato l’esercizio e la direzione, sarebbe riuscito ad assicurarsi la salvezza. Perché mai non ha fatto uno sforzo opposto a quello che esige l’adesione al tempo? Salvezza e perdizione richiedono il medesimo dispendio di energia. Perdendosi, egli dimostra che, predisposto al fallimento, aveva forza sufficiente per sfuggirvi, a condizione però di rifiutarsi alle manovre del divenire.
Ma non appena ne conobbe la seduzione, si abbandonò ad essa, ne fu stordito: stato di grazia a base di ebbrezza che solo il consenso all’irrealtà dispensa. Tutto ciò che da allora ha intrapreso partecipa dell’assuefazione all’insostanziale, dell’illusione acquisita, dell’abitudine di considerare esistente ciò che non lo è. Specializzato nelle apparenze, esercitato nei nonnulla (su che cosa e con cosa altro potrebbe mai soddisfare la sua sete di dominio?), egli accumula conoscenze che ne sono il riflesso, ma di vera conoscenza non ne possiede affatto: dato che la sua falsa scienza, riproduzione della sua falsa innocenza, lo distoglie dall’assoluto, tutto ciò che egli sa non merita di essere saputo. Vi è un’antinomia totale fra il pensare e il meditare, fra il saltare da un problema all’altro e lo sviscerare un solo e medesimo problema. Con la meditazione non si percepisce l’inanità del diverso e dell’accidentale, del passato e dell’avvenire, se non per sprofondare meglio nell’istante senza limiti. è cento volte preferibile fare voto di follia o suicidarsi in Dio che prosperare in virtù di simulacri. Una preghiera inarticolata, ripetuta dentro di sé fino all’ebetudine o all’orgasmo, conta più di un’idea, di tutte le idee. Prospettare qualsiasi mondo, eccetto questo, inabissarsi in un inno silenzioso alla vacuità, lanciarsi nell’apprendistato dell’altrove…
Conoscere veramente vuol dire conoscere l’essenziale, addentrarvisi, penetrarvi con lo sguardo e non con l’analisi o con la parola. Questo animale ciarliero, chiassoso, tonitruante, che esulta nel baccano (il rumore è la conseguenza diretta del peccato originale), dovrebbe essere ridotto al mutismo, giacché mai si avvicinerà alle sorgenti inviolate della vita se patteggerà ancora con le parole. E fino a che non sarà emancipato da un sapere metafisicamente superficiale, persevererà in quella contraffazione dell’esistenza nella quale manca di basi, di consistenza, e nella quale niente di lui è in equilibrio. Via via che dilapida il suo essere, egli si accanisce a volere al di là delle proprie risorse; vuole con disperazione, con furia, e quando avrà esaurito la parvenza di realtà che possiede, vorrà ancora più appassionatamente, sino all’annientamento o al ridicolo.
Inadatto a vivere, finge la vita; e giacché il suo culto dell’imminente si avvicina all’estasi, egli cade in deliquio davanti a ciò che ignora, ricerca e teme, davanti all’istante che attende, in cui spera di esistere e in cui invece esisterà altrettanto poco che nell’istante precedente. Non hanno avvenire coloro che vivono nell’idolatria del domani. Avendo spogliato il presente della sua dimensione eterna, non hanno ormai altro che la volontà, loro grande risorsa – e loro grande castigo.
L’uomo dipende da ordini incompatibili, contraddittori, e la nostra specie, in ciò che ha di unico, si pone come al di fuori dei regni della natura. Benché, esteriormente, abbiamo tutto della bestia e niente della divinità, la teologia rende ragione del nostro stato meglio di quanto non faccia la zoologia. Dio è un’anomalia; l’animale non lo è; ora, come Dio, noi deroghiamo al tipo, noi esistiamo grazie alle nostre irriducibilità. Più siamo ai margini delle cose, più capiamo colui che è ai margini di tutto; anzi, forse capiamo bene solo lui… Il suo caso ci piace e ci affascina, e la sua anomalia, che è suprema, ci appare come il compimento, l’espressione ideale della nostra. Tuttavia i nostri rapporti con lui sono ambigui: non potendo amarlo senza equivoci e sottintesi, gli poniamo domande, lo subissiamo di interrogativi. Il sapere, eretto sulle rovine della contemplazione, ci ha allontanati dall’unione essenziale, dallo sguardo trascendente che abolisce lo stupore e il problema.
Ai margini di Dio, del mondo e di se stessi, sempre ai margini! Si è tanto più uomini quanto meglio si avverte questo paradosso, quanto più vi si pensa e si percepisce il carattere di non evidenza connesso al nostro destino; giacché è incredibile che si possa essere uomini…, che si disponga di mille facce e di nessuna, e che si muti identità a ogni istante senza tuttavia allontanarsi dalla propria decadenza. Divisi dal reale, divisi da noi stessi, come potremmo fare affidamento su di noi o sugli altri? Se i puri e gli ingenui ci assomigliano così poco, se non appartengono alla nostra razza, è perché, invece di evolversi, di lasciarsi andare a se stessi, sono rimasti a metà strada fra il paradiso e la storia.
Opera di un virtuoso del fallimento, l’uomo è stato senza dubbio un fiasco, però un fiasco magistrale. è straordinario perfino nella sua mediocrità, prestigioso anche quando lo si aborra. Tuttavia, a mano a mano che si riflette su di lui, si capisce che il Creatore si sia «afflitto in cuor suo» di averlo creato.
Condividiamo la sua disillusione senza rincarare la dose, senza cadere nel disgusto, sentimento che ci rivela soltanto l’esteriorità della creatura, e non ciò che vi è in essa di profondo, di sovrastorico, di positivamente irreale e non terrestre, di refrattario alle finzioni dell’albero della conoscenza del bene e del male. Finzioni: giacché non appena consideriamo un atto buono o cattivo, esso non fa più parte della nostra sostanza, bensì di quell’essere aggiuntivo che ci è stato concesso dal sapere, causa del nostro slittamento fuori dell’immediato, fuori del vissuto. Qualificare, nominare gli atti significa cedere alla mania di esprimere opinioni; ora, come ha detto un saggio, le opinioni sono «tumori» che distruggono l’integrità della nostra natura e la natura stessa. Se potessimo astenerci dall’esprimerne, entreremmo nella vera innocenza e, bruciando le tappe a ritroso, attraverso una regressione salutare rinasceremmo sotto l’albero della vita. Invischiati nelle nostre valutazioni, e più disposti a fare a meno dell’acqua e del pane che del bene e del male, come recuperare le nostre origini, come avere ancora legami diretti con l’essere? Abbiamo peccato contro di lui, e la storia, risultato del nostro traviamento, ha senso per noi solo se la consideriamo una lunga espiazione, un pentimento affannoso, una corsa in cui eccelliamo senza:credere ai nostri passi. Più rapidi del tempo, noi lo superiamo, pur imitandone l’impostura e i modi.
Del pari, in competizione con Dio, scimmiottiamo i suoi lati dubbi, il suo lato demiurgico, quella parte di lui che lo indusse a creare, a concepire un’opera destinata a impoverirlo, a diminuirlo, a precipitarlo in una caduta che è prefigurazione della nostra. Una volta avviata l’impresa, ci lasciò il compito di portarla a termine, poi rientrò in sé, nella sua apatia eterna, donde sarebbe stato preferibile che non fosse mai uscito.
Poiché fu di diverso avviso, che cosa attenderci da noialtri?
L’impossibilità di astenersi, l’ossessione del fare denotano, a ogni livello, la presenza di un principio demoniaco. Quando siamo portati all’eccesso, alla dismisura, al gesto, seguiamo più o meno consapevolmente colui che, avventandosi sul non essere per estrarne l’essere e darcelo in pasto, si rese istigatore delle nostre future usurpazioni. Deve esistere in Lui una luce funesta che si accorda con le nostre tenebre. La storia, riflesso nel tempo di quel chiarore maledetto, manifesta e prolunga la dimensione non divina della divinità.
Poiché siamo imparentati con Dio, sarebbe sconveniente trattarlo da estraneo, senza contare che la nostra solitudine, su scala più modesta, evoca la sua. Ma, per modesta che sia, non ci schiaccia di meno, e quando si abbatte su di noi come una punizione e richiede, per essere sopportabile, capacità e talenti soprannaturali dove rifugiarci, se non accanto a colui che, escludendo l’episodio della creazione, fu sempre tagliato fuori da tutto? Il solo va verso il più solo, verso il solo, verso colui i cui lati negativi restano, dopo l’avventura del sapere, il nostro unico retaggio. Le cose sarebbero andate diversamente se fossimo stati inclini alla Vita.
Avremmo allora conosciuto un’altra faccia della divinità e forse, oggi, avvolti in una luce pura, non contaminata da tenebre né da alcun elemento diabolico, saremmo senza curiosità e immuni dalla morte come gli angeli.
Per non essere stati all’altezza al nostro esordio, noi corriamo, anzi fuggiamo verso l’avvenire. Non verranno, la nostra avidità e la nostra frenesia, dal rimorso di aver solo sfiorato la vera innocenza, il cui ricordo non può non assillarci?
Malgrado la nostra precipitazione e la concorrenza che facciamo al tempo, non riusciamo a soffocare i richiami sorti dal profondo della nostra memoria segnata dall’immagine del paradiso, di quello vero, che non è quello dell’albero della conoscenza, bensì quello dell’albero della vita, il cui accesso, per rappresaglia alla trasgressione di Adamo, sarebbe stato custodito da cherubini dalla «spada fiammeggiante». Esso solo è degno di essere riconquistato, esso solo merita lo sforzo dei nostri rimpianti. E ancora ad esso accenna l’Apocalisse (2, 7) per prometterlo ai «vincitori», a coloro il cui fervore non avrà mai vacillato. Perciò appare soltanto nel primo e nell’ultimo libro della Bibbia, come simbolo insieme dell’inizio e della fine dei tempi.
Se l’uomo esita ancora a rinunciare, o a riconsiderare il proprio caso, è perché non ha tratto le ultime conseguenze dal sapere e dal potere.
Convinto che verrà il suo momento, che a lui competa raggiungere Dio e superarlo, egli si consacra – da invidioso – all’idea di evoluzione, come se il fatto di avanzare dovesse necessariamente portarlo al più alto grado di perfezione. A furia di voler essere altro, finirà col non essere niente; già ora non è più niente.
Certo, egli si evolve, ma contro se stesso, a proprie spese, verso una complessità che lo rovina. Divenire e progresso sono nozioni apparentemente vicine, in realtà divergenti. Tutto cambia, siamo d’accordo, ma raramente, se non mai, in meglio. Inflessione euforica del malessere originale, di quella falsa innocenza che risvegliò nel nostro antenato il desiderio del nuovo, la fede nell’evoluzione, nell’identità del divenire e del progresso non crollerà se non quando, giunto al limite, all’estremo del suo errore, l’uomo, rivolto finalmente verso il sapere che conduce alla liberazione e non alla potenza, sarà in grado di opporre un no irrevocabile alle proprie imprese e al proprio operato. Se invece continuerà ad aggrapparvisi, non potrà che abbracciare un destino da dio risibile o da animale fuori moda, soluzione comoda quanto degradante, tappa estrema della sua infedeltà a se stesso. Quale che sia la scelta verso cui si orienterà, e sebbene non abbia esaurito tutte le possibilità della propria decadenza, nondimeno egli è caduto così in basso che si stenta a capire perché non si metta a pregare senza posa, fino all’estinzione della voce e della ragione.
Poiché tutto ciò che è stato concepito e intrapreso da Adamo in poi è o sospetto o pericoloso o inutile, che cosa fare? Dissociarsi dalla specie? Questo significherebbe dimenticare che non si è mai tanto uomini come quando ci si rammarica di esserlo. E tale rammarico, una volta che si impadronisca di voi, non c’è modo di eluderlo: diventa inevitabile e pesante quanto l’aria… Certo, i più respirano senza rendersene conto, senza rifletterci; ma che manchi loro il respiro un giorno solo e vedranno allora come l’aria, convertita a un tratto in problema, li ossessionerà in ogni istante. Guai a coloro che sanno di respirare, guai ancor più a coloro che sanno di essere uomini. Incapaci di avere in mente altro, ci penseranno per tutta la vita, ne saranno ossessionati e oppressi. Ma essi meritano il loro tormento, per aver cercato, avidi di insolubile, un tema torturante, un tema senza fine.
L’uomo non darà loro un attimo di tregua, l’uomo ha ancora tanta strada da fare… E poiché avanza in virtù dell’illusione acquisita, potrebbe fermarsi solo se l’illusione si dissolvesse e sparisse; ma finché egli rimane complice del tempo essa è indistruttibile.
Ritratto del civilizzato
L’accanimento a bandire dal paesaggio umano l’irregolare, l’imprevisto e il difforme rasenta la sconvenienza. Che in certe tribù si provi ancora piacere a divorare vecchi troppo ingombranti, possiamo senz’altro deplorarlo; ma non accetteremo mai di perseguitare sibariti così pittoreschi, senza contare che il cannibalismo rappresenta un modello di economia chiusa e, al tempo stesso, un’usanza destinata un giorno o l’altro ad attrarre un pianeta gremito. Non è pero mia intenzione impietosirmi per la sorte degli antropofagi, sebbene siano braccati senza pietà, vivano nel terrore e siano oggi i grandi sconfitti. Conveniamone: il loro caso non è necessariamente quanto ci sia di meglio. Del resto si fanno sempre più rari: una minoranza allo stremo, priva di fiducia in sé, incapace di perorare la propria causa. Del tutto diversa ci appare la situazione degli analfabeti, massa considerevole, attaccata alle sue tradizioni e ai suoi privilegi, contro la quale si infierisce con una virulenza che nulla giustifica: è poi un gran male non saper né leggere né scrivere? In tutta franchezza, non posso pensarlo. Vado anche più oltre e do per certo che, quando l’ultimo illetterato sarà scomparso, potremo metterci in lutto per l’uomo.
L’interesse che il civilizzato nutre verso i popoli cosiddetti arretrati è dei più sospetti. Incapace di continuare a sopportarsi, egli si adopera a scaricare su di loro l’eccedenza dei mali che lo opprimono, li incita a provare le sue miserie, li scongiura di affrontare un destino che non può più sfidare da solo. A furia di considerare quanta fortuna hanno avuto a non essersi «evoluti», prova nei loro confronti il risentimento del temerario, abbattuto e sfasato. Con che diritto se ne restano in disparte, lontani dal processo di degradazione che patisce lui da tanto tempo e a cui non riesce a sottrarsi? La civiltà, opera sua, sua pazzia, gli appare come un castigo che ha inflitto a se stesso e che vorrebbe a sua volta far subire a quelli che finora vi sono sfuggiti.
«Venite a condividerne le calamità, siate solidali con il mio inferno»: questo è il senso della sua sollecitudine verso di loro, questo è il fondamento della sua indiscrezione e del suo zelo. Esasperato dalle proprie tare e, ancor più, dai propri «lumi», non ha pace se non li impone a coloro che ne sono felicemente esenti.
Egli procedeva così già all’epoca in cui, ancora per nulla «illuminato» né stanco di sé, si abbandonava alla propria avidità, alla propria sete di avventure e di infamie. Gli spagnoli, all’apice della loro carriera, dovettero certo sentirsi oppressi sia dalle esigenze della loro fede sia dai rigori della Chiesa. Si vendicarono con la Conquista.
Vi dedicate alla conversione di qualcuno? Non sarà mai per operare in lui la salvezza, ma per obbligarlo a patire come voi, perché egli si esponga alle stesse prove e le attraversi con la stessa impazienza.
Vegliate, pregate, vi tormentate?
Faccia altrettanto anche quell’altro, sospiri, urli, si dibatta in mezzo alle stesse vostre torture.
L’intolleranza è propria degli spiriti turbati, la cui fede si riduce a un supplizio più o meno voluto che essi desidererebbero fosse generale, istituzionale. Dato che la felicità altrui non è mai stata né un movente né un principio d’azione, non la si invoca se non per mettersi la coscienza a posto o per trincerarsi dietro nobili pretesti: qualunque sia l’atto a cui ci si risolve, l’impulso che ad esso conduce e ne accelera l’esecuzione è quasi sempre inconfessabile. Nessuno salva nessuno: si salva solo se stessi, e non c’è modo migliore di riuscirci che ammantare di convinzioni l’infelicità che si vuole distribuire e prodigare.
Per quanto prestigiose ne siano le apparenze, il proselitismo deriva pur sempre da una generosità sospetta, peggiore nei suoi effetti di un’aggressione patente. Nessuno è disposto a sopportare da solo la disciplina che pure ha accettato, né il giogo che ha consentito a portare.
Dietro l’esultanza del missionario e dell’apostolo spunta la vendetta. Se ci si dedica all’opera di conversione non è per liberare, ma per incatenare.
Non appena qualcuno si lascia irretire da una certezza, invidia le vostre opinioni fluttuanti, la vostra resistenza ai dogmi o agli slogan, la vostra beata incapacità di infeudarvi ad essi. Arrossendo segretamente di appartenere a una setta o a un partito, vergognandosi di possedere una verità e di esserne schiavo, non ne vorrà ai suoi nemici dichiarati, a coloro che ne posseggono un’altra, ma a voi, all’Indifferente, reo di non perseguirne nessuna. Per sfuggire alla schiavitù in cui è caduto lui, cercate rifugio nel capriccio o nell’approssimazione? Farà di tutto per impedirvelo, per costringervi a una servitù analoga e, possibilmente, identica alla sua. Il fenomeno è così universale che travalica il settore delle certezze per inglobare quello della fama. La penosa illustrazione di ciò è fornita, com’è giusto, dalle Lettere. Quale scrittore che goda di una certa notorietà non finisce col soffrirne, col provare il disagio di essere conosciuto o capito, di avere un pubblico, per quanto ristretto esso sia? Invidioso dei suoi amici che si abbandonano agli agi dell’oscurità, si sforzerà di trascinarli fuori, di turbare il loro placido orgoglio, perché anch’essi subiscano le mortificazioni e le ansie del successo. Per riuscirci, qualsiasi manovra gli parrà legittima. Da quel momento, la loro vita diverrà un incubo. L’altro li assilla, li spinge a produrre e a esibirsi, ostacola le loro aspirazioni a una gloria clandestina, sogno supremo dei delicati e degli abulici. Scrivete, pubblicate, ripete loro con rabbia, con impudenza. I poveretti ubbidiscono, senza sospettare quello che li attende. Soltanto lui lo sa. Li spia, vanta i loro timidi vaneggiamenti con violenza e dismisura, con un calore da forsennato, e per precipitarli nell’abisso dell’attualità trova, o inventa per loro, seguaci e discepoli, li fa braccare da una turba di lettori, di assassini onnipresenti e invisibili. Perpetrato il misfatto, si calma e si eclissa, pago dello spettacolo dei suoi protetti in preda ai suoi stessi tormenti e alle sue stesse ignominie, ignominie e tormenti che ben riassume la frase di non so più quale scrittore russo: «Al solo pensiero di essere letti si potrebbe perdere la ragione».
Proprio come l’autore colpito e contaminato dalla celebrità fa di tutto per estenderla a coloro che non ne sono stati ancora raggiunti, allo stesso modo il civilizzato, vittima di una coscienza esacerbata, s’ingegna a comunicarne i tormenti ai popoli refrattari alle sue dilacerazioni.
Questa divisione da sé che lo logora e lo mina, com’è possibile che essi la rifiutino, che non ne siano curiosi e che la respingano? Non trascurando alcun artificio a propria disposizione per farli cedere, per indurli ad assomigliargli e a percorrere lo stesso suo calvario, egli li adescherà con la sua civiltà, le cui suggestioni, che finiranno per abbagliarli, impediranno loro di distinguere ciò che essa potrebbe avere di buono da ciò che ha di cattivo. E ne imiteranno solo gli aspetti nocivi, tutto ciò che fa di essa un flagello concertato e metodico. Erano fino a ora inoffensivi e miti? Adesso vorranno essere forti e minacciosi, con gran soddisfazione del loro benefattore, consapevole che in realtà saranno, sul suo esempio, forti e minacciati. Egli dunque si interesserà di loro e li «assisterà».
Che sollievo contemplarli mentre si ingarbugliano negli stessi suoi problemi e si avviano verso la stessa fatalità! Farne dei complicati, degli ossessionati, degli squilibrati, è tutto quello che desiderava. Il loro ingenuo fervore per l’utensile, per il lusso e per le menzogne della tecnica lo rassicura e lo riempie di soddisfazione: in essi vede dei nuovi condannati, dei compagni di sventura insperati, capaci di assisterlo a loro volta, di assumersi una parte del fardello che lo schiaccia o, almeno, di portarne uno altrettanto pesante.
è ciò che egli chiama «promozione», parola ben scelta per camuffare al tempo stesso la sua perfidia e le sue piaghe.
Residui di umanità se ne trovano ancora soltanto presso quei popoli che, lasciati indietro dalla storia, non hanno alcuna fretta di raggiungerla. Alla retroguardia delle nazioni, neppur lontanamente sfiorati dalla tentazione del progetto, essi coltivano le loro virtù fuori moda, si fanno un dovere di essere antiquati.
«Retrogradi» lo sono di sicuro, e volentieri persevererebbero nel loro ristagno se avessero i mezzi per mantenervisi. Ma non glielo permettono. Il complotto che gli altri, i «progrediti», tramano contro di loro, è ordito troppo abilmente perché possano riuscire a sventarlo.
Una volta che si metta in moto il processo di degradazione, per la rabbia di non essere stati capaci di opporvisi, essi si adopereranno, con la disinvoltura dei neofiti, ad accelerarne il corso, a sposarne e ingigantirne l’orrore, secondo la legge che fa sempre prevalere un male nuovo su un bene vecchio. E vorranno mettersi al passo, se non altro per far vedere agli altri che anche loro se ne intendono di decadenza, e che anzi, in materia possono perfino superarli. A che serve stupirsene o lamentarsene? Non si vedono dappertutto i simulacri trionfare sull’essenza, la trepidazione sul riposo? E non si direbbe che stiamo assistendo all’agonia dell’indistruttibile? Ogni passo avanti, ogni forma di dinamismo comporta qualcosa di satanico: il «progresso» è l’equivalente moderno della Caduta, la versione profana della dannazione. E coloro che ci credono e ne sono i promotori, noi tutti in definitiva, che cosa siamo se non dei reprobi in cammino, predestinati all’immondo, a queste macchine, a queste città, di cui solo un disastro definitivo potrebbe sbarazzarci? Sarebbe questa un’occasione unica, per le nostre invenzioni, di provare la loro utilità e di riabilitarsi ai nostri occhi.
Se il «progresso» è un male così grande, come mai non facciamo nulla per disfarcene senza ulteriori indugi?
Ma noi vogliamo il bene? O non siamo piuttosto destinati a non volerlo realmente? Nella nostra perversità, quel che cerchiamo e inseguiamo è il «meglio»: ricerca nefasta, del tutto contraria alla nostra felicità. Non ci si «perfeziona» né si progredisce impunemente. Sappiamo bene che il movimento è un’eresia; e proprio per questo ci tenta, ci avventiamo su di esso e, irrimediabilmente depravati, lo preferiamo all’ortodossia della quiete. Eravamo fatti per vegetare, per dispiegarci nell’inerzia, non per perderci nella velocità, e neppure nell’igiene, vera responsabile del pullulare di questi esseri disincarnati e asettici, di questo formicaio di fantasmi in cui tutto si dimena e nulla vive. Dato che una certa dose di sporcizia è indispensabile all’organismo (fisiologia e sudiciume sono termini intercambiabili), la prospettiva di una pulizia su scala mondiale ispira un’apprensione legittima. Avremmo dovuto, pidocchiosi e sereni, limitarci alla compagnia delle bestie, marcire accanto a loro ancora per millenni, respirare l’odore delle stalle piuttosto che quello dei laboratori, morire delle nostre malattie e non dei nostri rimedi, girare attorno al nostro vuoto e sprofondarvi dentro dolcemente.
All’assenza, che avrebbe dovuto essere un dovere e un’ossessione, abbiamo sostituito l’evento; ora, ogni evento ci intacca e ci corrode, poiché non si produce se non a scapito del nostro equilibrio e della nostra durata. Più il nostro avvenire si restringe, più ci lasciamo cadere in ciò che ci rovina. La civiltà, che è la nostra droga, ci ha talmente intossicati che il nostro attaccamento ad essa presenta i caratteri di un fenomeno di assuefazione, mescolanza di estasi e di esecrazione. Così com’è, ci darà il colpo definitivo, su questo non v’è dubbio; e rinunciarvi, affrancarcene, non possiamo, oggi meno che mai. Chi correrebbe in nostro aiuto per liberarcene? Un Antistene, un Epicuro, un Crisippo, che trovavano troppo complicati i costumi antichi, che cosa penserebbero dei nostri? Chi di loro, trapiantato nelle nostre metropoli, avrebbe una tempra tale da potervi conservare la propria serenità? Gli antichi, sotto ogni aspetto più sani e più equilibrati di noi, avrebbero potuto fare a meno della saggezza; ciò nonostante ne elaborarono una; quello che ci squalifica per sempre è che a noi manca sia il desiderio sia la capacità di farlo. Non è significativo che il primo tra i grandi moderni ad avere, per idolatria della natura, denunciato con forza i misfatti dell’uomo civilizzato sia stato l’opposto di un saggio? Noi dobbiamo la diagnosi del nostro male a un insensato, più segnato, più malato di tutti noi, a un maniaco accertato, precursore e modello dei nostri deliri. Non meno significativo ci appare l’avvento più recente della psicoanalisi, terapia sadica, dedita ad acuire i nostri mali più che a lenirli, e singolarmente esperta nell’arte di sostituire, ai nostri malesseri ingenui, malesseri lambiccati.
Ogni bisogno, sospingendoci verso la superficie della vita per sottrarcene la profondità, conferisce pregio a ciò che non ne ha, a ciò che non può averne. La civiltà, con tutto il suo apparato, si fonda sulla nostra propensione all’irreale e all’inutile.
Se acconsentissimo a ridurre i nostri bisogni, a soddisfare solo quelli necessari, essa crollerebbe all’istante. Perciò, per durare, s’ingegna a crearcene sempre di nuovi, a moltiplicarli senza posa, giacché la pratica generalizzata dell’atarassia avrebbe per essa conseguenze molto più gravi di una guerra di sterminio totale. Aggiungendo inconvenienti gratuiti a quelli fatali della natura, essa ci costringe a soffrirne doppiamente, diversifica i nostri tormenti e rafforza le nostre infermità. Non si venga a ripeterci che ci ha guariti dalla paura. In realtà, è evidente la correlazione tra il moltiplicarsi dei bisogni e l’aumentare dei terrori. I desideri, fonte dei bisogni, suscitano in noi un’inquietudine costante, ben più intollerabile del timore che provammo, allo stato di natura, davanti a un pericolo fugace. Noi non trepidiamo più saltuariamente; trepidiamo in continuazione. Che cosa abbiamo guadagnato dalla trasformazione della paura in ansia? E chi esiterebbe se dovesse scegliere fra un panico momentaneo e uno diffuso e permanente?
La sicurezza di cui ci vantiamo dissimula un’agitazione ininterrotta che avvelena tutti i nostri istanti, quelli del presente e quelli del futuro, annullando gli uni e rendendo inconcepibili gli altri. Beato chi di questi desideri, che si confondono con i nostri terrori, non ne sente nessuno! Appena ne proviamo uno, subito se ne genera un altro, in una successione penosa quanto malsana.
Dedichiamoci piuttosto a subire il mondo e a considerare ogni impressione che ne riceviamo come un’impressione imposta, che non ci riguarda, che sopportiamo come se non fosse nostra.
«Niente di quel che mi accade mi appartiene, niente è mio» dice l’Io quando si persuade di non essere di qui, di aver sbagliato universo e di non avere scelta se non fra l’impassibilità e l’impostura.
Mediatore delle apparenze, ogni desiderio, facendoci fare un passo fuori della nostra essenza, ci inchioda a un nuovo oggetto e limita il nostro orizzonte. Tuttavia, a mano a mano che si esaspera, ci permette di discernere quella sete morbosa di cui è emanazione. Cessa di essere naturale, rientra nella nostra condizione di civilizzati? Intimamente impuro, esso perturba e insozza la nostra stessa sostanza. è vizio tutto ciò che si aggiunge ai nostri imperativi profondi, tutto ciò che ci deforma e ci turba senza necessità.
Anche il riso e il sorriso sono vizi.
In compenso, è virtù tutto ciò che ci induce a vivere in contrasto con la nostra civiltà, tutto ciò che ci invita a comprometterne e a sabotarne il cammino. Quanto alla felicità, se questa parola ha un senso, essa consiste nell’aspirazione al minimo e all’inefficace, nell’al di qua eretto a ipostasi. La nostra unica risorsa: rinunciare non solo al frutto degli atti ma agli atti stessi, costringerci al non rendimento, lasciare inutilizzata buona parte delle nostre energie e delle nostre possibilità. Colpevoli di volerci realizzare oltre le nostre capacità o i nostri meriti, falliti per eccesso, inadatti alla perfezione, inetti a furia di tensione, grandi per esaurimento, per la dilapidazione delle nostre risorse, ci dissipiamo senza tener conto delle nostre virtualità e dei nostri limiti. Donde la nostra stanchezza, aggravata dagli sforzi stessi che abbiamo prodigato per abituarci alla civiltà, a tutto ciò che essa implica di corruzione tardiva. Che la natura sia anch’essa corrotta, non si può negarlo; ma questa corruzione senza data è un male immemoriale e inevitabile, a cui ci adattiamo d’ufficio, mentre quello della civiltà, nato dalle nostre opere o dai nostri capricci, tanto più opprimente in quanto ci sembra fortuito, porta il marchio di una scelta o di una fantasia, di una fatalità premeditata o arbitraria; a torto o a ragione, crediamo che avrebbe potuto non svilupparsi, e che solo da noi dipendeva che non insorgesse. E questo ce lo rende, una volta per tutte, ancora più odioso di quanto non sia. Non ci rassegniamo a doverlo sopportare e a far fronte alle miserie sottili che ne derivano, quando potevamo accontentarci di quelle grossolane e, tutto sommato, sopportabili, di cui la natura ci ha largamente provvisti.
Se fossimo in grado di sottrarci ai desideri, ci sottrarremmo nel contempo al destino; superiori agli esseri, alle cose e a noi stessi, restii ad amalgamarci di più con il mondo, attraverso il sacrificio della nostra identità accederemmo alla libertà, inseparabile da un allenamento all’anonimato e alla rinuncia. «Io non sono nessuno, ho vinto il mio nome!» esclama colui che, non volendo più abbassarsi a lasciare traccia di sé, cerca di conformarsi all’ingiunzione di Epicuro: «Nascondi la tua vita».
Gli antichi: sempre a loro torniamo quando si tratta dell’arte di vivere, della quale duemila anni di sovranatura e di carità convulsa ci hanno fatto perdere il segreto.
Ritorniamo a loro, alla loro ponderazione e alla loro amabilità, non appena accenni a scemare quella frenesia che il cristianesimo ci ha inculcato; la curiosità che essi destano in noi corrisponde a una diminuzione della nostra febbre, a un arretramento verso la salute. E ritorniamo ancora a loro perché, separati dall’universo da un intervallo più ampio dell’universo stesso, essi ci propongono una forma di distacco che cercheremmo inutilmente nei santi.
Facendo di noi dei frenetici, il cristianesimo ci preparava suo malgrado a generare una civiltà di cui ora è vittima: non ha forse creato in noi troppi bisogni, troppe esigenze?
Queste esigenze, questi bisogni, inizialmente interiori, erano destinati col tempo a degradarsi e a dirigersi verso l’esterno; e allo stesso modo il fervore da cui promanavano tante preghiere sospese bruscamente, non potendo svanire né rimanere inutilizzato, doveva mettersi al servizio di dèi di ricambio e forgiare simboli a misura della loro nullità. Eccoci in balia di contraffazioni d’infinito, di un assoluto senza dimensione metafisica, immersi nella velocità, non potendo esserlo nell’estasi. Questa ferraglia ansimante, replica della nostra smania di movimento, e questi spettri che la manovrano, questo corteo di automi, questa processione di allucinati! Dove vanno? Che cosa cercano? Quale vena di demenza li trascina? Ogni volta che propendo ad assolverli, che concepisco dei dubbi sulla legittimità dell’avversione o del terrore che mi ispirano, mi basta pensare alle strade di campagna, la domenica, perché l’immagine di quella marmaglia motorizzata mi rafforzi nei miei disgusti o nei miei raccapricci.
Essendo stato abolito l’uso delle gambe, il camminatore, in mezzo a quei paralitici al volante, ha un’aria da eccentrico o da proscritto; presto farà la figura del mostro. Non c’è più contatto con il suolo: tutto ciò che in esso affonda ci è divenuto estraneo e incomprensibile. Strappati da ogni radice, inadatti per di più ad aver dimestichezza con la polvere o con il fango, siamo riusciti nell’impresa di rompere non soltanto con l’intimità delle cose, ma con la loro superficie stessa. La civiltà, a questo stadio, apparirebbe come un patto col diavolo, se l’uomo avesse ancora un’anima da vendere.
è davvero per «guadagnare tempo» che furono inventati questi arnesi?
Più sguarnito, più diseredato del troglodita, il civilizzato non ha un momento per sé, i suoi svaghi stessi sono febbrili e opprimenti: un forzato in ferie, che soccombe all’uggia dell’inattività e all’incubo delle spiagge. Quando si sono frequentati luoghi dove l’ozio era di rigore, dove tutti vi eccellevano, ci si adatta male a un mondo dove nessuno lo conosce e lo sa godere, dove nessuno respira. L’essere, infeudato alle ore, è ancora un essere umano? E ha il diritto di chiamarsi libero, quando sappiamo che si è scrollato di dosso tutte le schiavitù tranne quella essenziale? In balia del tempo che egli nutre, che egli ingrassa con la propria sostanza, si estenua e si rende anemico per assicurare la prosperità a un parassita o a un tiranno. Calcolatore nonostante la sua follia, egli crede che le sue preoccupazioni e le sue tribolazioni sarebbero minori se, sotto forma di «programma», riuscisse a elargirle a popoli «sottosviluppati», ai quali rimprovera di non «partecipare all’azione», vale a dire alla vertigine. Al fine di farveli precipitare più in fretta, egli inoculerà loro il veleno dell’ansia e non li lascerà andare prima di aver scorto in loro gli stessi sintomi di attivismo. Per realizzare il suo sogno di un’umanità senza fiato, smarrita e programmata, egli percorrerà i continenti, sempre in cerca di nuove vittime su cui riversare l’eccesso della sua agitazione e delle sue tenebre. Se lo osserviamo, intravediamo la vera natura dell’inferno: non è forse il luogo in cui si è condannati al tempo per l’eternità?
Possiamo pure sottomettere e appropriarci l’universo, ma fino a quando non avremo trionfato sul tempo, resteremo degli iloti. Ora, questa vittoria si ottiene mediante la rinuncia, virtù alla quale le nostre conquiste ci rendono particolarmente inadatti, cosicché più il loro numero cresce, più è palese la nostra sudditanza. La civiltà ci insegna come impadronirci delle cose, mentre dovrebbe iniziarci all’arte di privarcene, giacché non c’è libertà né «vita vera» senza il tirocinio dello spossessamento. Io mi approprio un oggetto, me ne considero il padrone; in realtà ne sono schiavo, come sono schiavo dello strumento che fabbrico e maneggio. Non c’è nuova acquisizione che non significhi una catena in più, né fattore di potenza che non sia causa di debolezza. Perfino le nostre doti contribuiscono al nostro assoggettamento; lo spirito che si eleva al di sopra degli altri è meno libero di loro: inchiodato alle sue facoltà e alle sue ambizioni, prigioniero dei suoi talenti, li coltiva a sue spese, li fa valere a prezzo della sua salvezza. Nessuno si affranca se si assoggetta a diventare qualcuno o qualcosa. Tutto ciò che possediamo o produciamo, tutto ciò che si sovrappone al nostro essere o da esso procede, ci snatura e ci soffoca.
E anche il nostro essere, che errore, che ferita avergli aggiunto l’esistenza, quando potevamo, intatti, perseverare nel virtuale e nell’invulnerabile! Nessuno si rimette dal male di nascere, piaga capitale se mai ve ne furono. Eppure è con la speranza di guarirne un giorno che accettiamo la vita e sopportiamo le sue prove. Gli anni passano, la piaga resta.
Più la civiltà si differenzia e si complica, più malediciamo i legami che ad essa ci uniscono. Secondo Solovëv, la civiltà si avvicinerà alla fine (che sarà, per il filosofo russo, la fine di tutte le cose) nel bel mezzo del «secolo più raffinato». La cosa certa è che mai fu minacciata e detestata come nei momenti in cui sembrava più radicata: prova ne siano gli attacchi sferrati, in pieno secolo dei Lumi, contro i suoi costumi e le sue seduzioni, contro tutte le conquiste di cui andava fiera. «Nei secoli civili ci si fa un punto d’onore di ammirare quello che si ammirava nei secoli incivili» osserva Voltaire, che non era fatto, riconosciamolo, per capire le ragioni di una così giusta infatuazione. Ad ogni modo, il «ritorno alla natura» s’imponeva soprattutto all’epoca dei salotti, così come l’atarassia poteva essere concepita solo in tempi in cui, stanchi di deliri e di sistemi, gli spiriti preferivano le delizie di un giardino alle controversie dell’agorà.
Il richiamo alla saggezza proviene sempre da una civiltà esasperata di se stessa. Cosa curiosa: ci è difficile immaginare il procedimento che condusse alla sazietà quel mondo antico che, in confronto al nostro, ci appare in ogni suo momento come l’oggetto ideale dei nostri rimpianti.
Del resto, paragonata al nostro nefando presente, qualsiasi altra epoca ci sembra benedetta.
Allontanandoci dalla nostra vera destinazione, noi entreremo, se non ci siamo già, nel secolo della fine, in quel secolo raffinato per eccellenza (complicato sarebbe l’aggettivo più adatto) che sarà necessariamente quello in cui, su tutti i piani, ci troveremo agli antipodi di ciò che avremmo dovuto essere.
I mali inscritti nella nostra condizione superano i beni; anche se si bilanciassero, i nostri problemi non sarebbero risolti. Siamo qui per lottare con la vita e con la morte, e non per schivarle, come ci invita a fare la civiltà – opera di dissimulazione, di maquillage dell’insolubile. Poiché essa non contiene in sé nessun principio di durata, i suoi vantaggi, che corrispondono ad altrettanti vicoli ciechi, non ci aiutano né a vivere meglio né a morire meglio.
Quand’anche, assecondata dall’inutile scienza, giungesse a spazzar via tutti i flagelli o, per allettarci, a distribuirci pianeti a mo’ di ricompensa, non riuscirebbe che ad accrescere la nostra diffidenza e la nostra esasperazione. Più si dimena e si pavoneggia, più invidiamo le età che ebbero il privilegio di ignorare le comodità e le meraviglie con cui non cessa di gratificarci. «Con un po’ di pane d’orzo e un po’ d’acqua, si può essere felici come Giove» amava ripetere il saggio che ci intimava di nascondere la nostra vita. è una mania citarlo di continuo? Ma a chi rivolgersi, a chi chiedere consiglio?
Ai nostri contemporanei? A questi indiscreti, a questi irrequieti, rei di aver fatto di noi – deificando la confessione, l’appetito e lo sforzo dei fantocci lirici, insaziabili e stremati? L’unica scusante della loro furia è che essa non deriva da un istinto vergine né da uno slancio sincero, bensì dal panico di fronte a un orizzonte chiuso. In fondo, tanti nostri filosofi, che scrutano atterriti l’avvenire, sono soltanto gli interpreti di un’umanità che, sentendosi sfuggire gli attimi, si sforza di non pensarci – e ci pensa sempre. I loro sistemi offrono insomma l’immagine e quasi lo svolgimento discorsivo di questa ossessione.
Analogamente, la Storia non poteva sollecitare il loro interesse se non in un momento in cui l’uomo ha tutte le ragioni di dubitare che essa gli appartenga ancora, e che lui stesso continui a esserne l’agente. In realtà, poiché anch’essa gli sfugge, è come se l’uomo iniziasse una carriera non storica, breve e convulsa, nella quale le calamità che tanto lo appassionavano fino a oggi fossero liquidate come sciocchezze. La quantità di essere che c’è in lui si assottiglia a ogni passo avanti che compie. Noi esistiamo soltanto in virtù dell’arretramento, della distanza che prendiamo nei riguardi delle cose e di noi stessi. Darsi da fare significa dedicarsi al falso e al fittizio, praticare una discriminazione abusiva tra il possibile e il funebre. Con il grado di mobilità che abbiamo raggiunto, non siamo più padroni dei nostri gesti né della nostra sorte. Ad essi presiede sicuramente una provvidenza negativa i cui disegni, a mano a mano che ci avviciniamo al nostro termine, si fanno sempre meno impenetrabili, poiché si disvelerebbero agevolmente al primo venuto se solo questi volesse fermarsi e uscire dal suo ruolo per contemplare, sia pure per un istante, lo spettacolo di quest’orda affannata e tragica di cui fa parte.
Tutto considerato, il secolo della fine non sarà quello più raffinato, e nemmeno il più complicato, ma il più convulso, quello in cui, dissoltosi l’essere in movimento, la civiltà, in un supremo slancio verso il peggio, si sgretolerà nel turbine che avrà suscitato. Dal momento che nulla può impedirle di precipitarvi, rinunciamo a esercitare le nostre virtù contro di essa, impariamo anzi a scorgere negli eccessi di cui si compiace qualcosa di esaltante, che ci inviti a moderare le nostre indignazioni e a rivedere i nostri disprezzi. Così questi spettri, questi automi, questi allucinati sono meno odiosi se si considerano i moventi inconsci, le ragioni profonde della loro frenesia: non avvertono dunque che la proroga accordata loro si riduce di giorno in giorno e che già si profila l’epilogo? E non è forse per allontanarne l’idea che si lanciano a capofitto nella velocità?
Se fossero sicuri di un altro avvenire, essi non avrebbero alcun motivo di fuggire né di fuggire se stessi: rallenterebbero il ritmo e si insedierebbero senza timore in un’aspettativa indefinita. Ma per loro non si tratta neppure di questo o quell’avvenire, perché di avvenire sono semplicemente privi; sorta dal rimescolio del sangue, è questa una certezza oscura, non formulata, che hanno timore di prendere in considerazione, che vogliono dimenticare andando in fretta, sempre più in fretta, rifiutando di avere per sé il minimo istante. Ciò nondimeno, l’ineluttabile che tale certezza racchiude, lo raggiungono proprio con quell’andatura che, secondo il loro pensiero, dovrebbe allontanarli da esso. Di tanta fretta, di tanta impazienza, le macchine sono la conseguenza e non la causa. Non sono le macchine che spingono il civilizzato alla rovina; semmai, questi le ha inventate perché già vi era avviato; mezzi, ausili per raggiungerla più rapidamente e più efficacemente. Non contento di andarci di corsa, ha voluto andarci in auto. In questo senso, e soltanto in questo, si può dire che le macchine gli permettono in effetti di «guadagnare tempo». Egli le distribuisce, le impone ai popoli arretrati, ai ritardatari, perché possano seguirlo, superarlo anzi nella corsa al disastro, nell’instaurazione di un amok universale e meccanico. E proprio al fine di assicurarne l’avvento egli si accanisce a livellare, a uniformare il paesaggio umano, a cancellarne le irregolarità e a bandirne le sorprese; ciò che gli piacerebbe farvi regnare non sono le anomalie, è l’anomalia, l’anomalia monotona e abitudinaria, convertita in regola di condotta, in imperativo.
Coloro che vi si sottraggono, li taccia di oscurantismo o di stravaganza, e non disarmerà prima di averli ricondotti sulla retta via, ai suoi stessi errori. Gli illetterati sono di gran lunga i più restii a caderci; e allora ve li spingerà a forza, li obbligherà a imparare a leggere e a scrivere, affinché, presi nella trappola del sapere, nessuno di loro sfugga più all’infelicità comune.
Così grande è la sua obnubilazione che non concepisce neppure che si possa optare per un genere di traviamento diverso. Privo della quiete necessaria all’esercizio dell’autoironia, a cui dovrebbe essere incitato da un semplice sguardo al suo destino, egli si priva in tal modo di qualsiasi arma contro se stesso. Ciò non fa che renderlo ancora più funesto agli altri. Aggressivo e miserevole insieme, non è immune da un certo patetismo: si capisce perché, vedendolo invischiato nell’inestricabile, si provi un po’ di imbarazzo a denunciarlo e ad attaccarlo, senza contare che è sempre di cattivo gusto dir male di un incurabile, sia pure odioso. Ma, se ci si sottraesse al cattivo gusto, sarebbe ancora possibile esprimere il minimo giudizio su alcunché?
Lo scettico e il barbaro
Se non si stenta a immaginare l’intera umanità in preda alle convulsioni o, quanto meno, allo sgomento, in compenso significherebbe tenerla in eccessiva stima credere che essa possa, nella sua totalità, elevarsi mai al dubbio, generalmente riservato a pochi reprobi di rango.
Eppure, essa vi accede in una certa misura, nei rari momenti in cui cambia dèi e in cui gli animi, sottoposti a sollecitazioni contraddittorie, non sanno più quale causa difendere né a quale verità infeudarsi. Quando il cristianesimo fece irruzione a Roma, i servi lo adottarono senza esitare; i patrizi lo osteggiarono e ci misero un po’ prima di passare dall’avversione alla curiosità, dalla curiosità al fervore. Proviamo a immaginare un lettore delle Ipotiposi pirroniche di fronte ai Vangeli! Con quale artificio conciliare, non già due dottrine, ma due universi irriducibili? E come praticare ingenue parabole, quando ci si dibatte nelle massime perplessità dell’intelletto? I trattati in cui Sesto, all’inizio del Iii secolo della nostra èra, fece il bilancio di tutti i dubbi dell’antichità, sono una compilazione esaustiva dell’irrespirabile, ciò che è stato scritto di più vertiginoso e, bisogna pur dirlo, anche di più noioso. Troppo sottili e troppo metodici per poter rivaleggiare con le nuove superstizioni, erano l’espressione di un mondo tramontato, condannato, senza avvenire. Ciò non toglie che lo scetticismo, di cui essi avevano codificato le tesi, si sia potuto reggere ancora per qualche tempo su posizioni ormai perdute, sino al giorno in cui cristiani e barbari unirono i loro sforzi per annientarlo e abolirlo.
Una civiltà esordisce col mito e termina nel dubbio; dubbio teorico che diventa dubbio pratico, quando lo rivolge contro se stessa. Essa non può cominciare col mettere in questione valori che non ha ancora creato; una volta che li ha prodotti, se ne stanca e se ne distacca, li esamina e li soppesa con un’obiettività devastante.
Alle varie credenze che aveva generato e che ora se ne vanno alla deriva, sostituisce un sistema di incertezze, organizza il proprio naufragio metafisico e ci riesce a meraviglia quando un qualche Sesto la aiuta. Sul finire dell’antichità lo scetticismo ebbe una dignità che non avrebbe ritrovato nel Rinascimento, nonostante Montaigne, e neanche nel Settecento, nonostante Hume. Soltanto Pascal, se avesse voluto, avrebbe potuto salvarlo e riabilitarlo; ma se ne distolse e lo lasciò languire ai margini della filosofia moderna. Avremo oggi, dal momento che siamo anche noi sul punto di cambiare dèi, la tranquillità necessaria per coltivarlo? Conoscerà un ritorno di favore o invece, rigorosamente vietato, sarà soffocato dal tumulto dei dogmi? L’importante però non è sapere se esso sia minacciato dal di fuori, ma se possiamo davvero coltivarlo, se le nostre forze ci permettono di affrontarlo senza soccombere. Giacché, prima di essere un problema di civiltà, è una faccenda individuale e, a questo titolo, esso ci riguarda indipendentemente dall’espressione storica che assume.
Per vivere, per poter anche solo respirare, dobbiamo fare lo sforzo insensato di credere che il mondo o i nostri concetti racchiudano un fondo di verità. Non appena, per una ragione o per l’altra, lo sforzo si allenta, ricadiamo in quello stato di pura indeterminazione in cui, dato che la minima certezza ci appare come un errore, ogni presa di posizione, tutto ciò che lo spirito asserisce o proclama, assume la forma di un vaneggiamento. Qualsiasi affermazione ci sembra allora azzardata o degradante; come pure qualsiasi negazione. è indubbiamente strano non meno che pietoso arrivare a tal punto, quando per anni ci si è applicati, con discreto successo, a vincere il dubbio e a guarirne. Ma è un male di cui nessuno si sbarazza completamente, se lo ha provato sul serio. E appunto di una ricaduta si parlerà qui.
Per cominciare, è stato un errore mettere sullo stesso piano affermazione e negazione. Negare, ne conveniamo, significa affermare all’inverso. C’è però qualcosa di più nella negazione, un supplemento di ansia, una volontà di distinguersi e quasi un elemento antinaturale. La natura, se conoscesse se stessa e potesse sollevarsi fino alla formula, elaborerebbe una successione interminabile di giudizi di esistenza.
Soltanto lo spirito possiede la facoltà di rifiutare ciò che è e di amare ciò che non è, esso solo produce, esso solo fabbrica assenza.
Io non prendo coscienza di me stesso, io non sono se non quando nego; non appena affermo, divento intercambiabile e mi comporto da oggetto. Dato che il no ha presieduto alla frantumazione dell’Unità primitiva, un piacere inveterato e malsano si unisce a ogni forma di negazione, fondamentale o frivola che sia. Noi ci ingegniamo a demolire reputazioni, e in primo luogo quella di Dio; ma bisogna dire a nostra discolpa che ci accaniamo ancora di più a rovinare la nostra, mettendo in questione le nostre verità e screditandole, operando in noi lo slittamento dalla negazione al dubbio.
Mentre si nega sempre in nome di qualcosa, qualcosa di esterno alla negazione, il dubbio, senza avvalersi di nulla che lo ecceda, attinge ai propri conflitti, alla guerra che la ragione dichiara a se stessa quando, esasperata di sé, attacca i propri fondamenti e li rovescia, per sfuggire – finalmente libera – al ridicolo di dover affermare o negare alcunché. E mentre la ragione si oppone a se stessa, noi ci erigiamo a giudici e crediamo di poterla esaminare o contrastare in nome di un io sul quale essa non avrebbe presa o del quale non sarebbe che un accidente, senza tener conto che logicamente è impossibile mettersi al di sopra di essa per riconoscere o contestare la sua validità, giacché non c’è istanza che le sia superiore né decisione che non promani da essa. Praticamente, però, è come se, per un sotterfugio o per un miracolo, noi riuscissimo a emanciparci dalle sue categorie e dai suoi intralci. è poi un’impresa così straordinaria? In realtà essa è riconducibile a un fenomeno semplicissimo: chiunque si lasci trasportare dai suoi ragionamenti dimentica di far uso della ragione, e tale dimenticanza è la condizione di un pensiero fecondo, anzi del pensiero stesso. Pur seguendo il moto spontaneo dello spirito e pur collocandoci, mediante la riflessione, direttamente dentro la vita, non possiamo pensare che pensiamo; non appena ci riflettiamo, le nostre idee si combattono e si neutralizzano le une con le altre all’interno di una coscienza vuota. Questa condizione di sterilità in cui non avanziamo né indietreggiamo, questo eccezionale ristagno è appunto quello a cui ci porta il dubbio e che, per molti aspetti, si apparenta all’«aridità» dei mistici. Abbiamo creduto di approdare al definitivo e di insediarci nell’ineffabile; veniamo precipitati nell’incerto e divorati dall’insipido. Ogni cosa si degrada e si sgretola in una torsione dell’intelletto su se stesso, in uno stupore rabbioso. Il dubbio si abbatte su di noi come una calamità; altro che sceglierlo: vi precipitiamo dentro. E per quanto cerchiamo di allontanarcene o di eluderlo, esso non ci perde di vista, perché non è nemmeno vero che si abbatte su di noi: era in noi e noi vi eravamo predestinati. Nessuno sceglie la mancanza di scelta né si sforza di optare per l’assenza di opzione, dato che niente di quello che ci tocca in profondità è voluto.
Padronissimi di inventarci dei tormenti; in quanto inventati, essi non sono altro che una posa; contano solo quelli che sorgono da noi nostro malgrado. Ha valore soltanto l’inevitabile, ciò che deriva dalle nostre infermità e dalle nostre prove, insomma dalle nostre impossibilità.
Mai il vero dubbio sarà volontario; anche nella sua forma elaborata, che cos’è se non il travestimento speculativo assunto dalla nostra intolleranza all’essere? Così, quando ci afferra e ne subiamo le angosce, non c’è nulla di cui non possiamo concepire l’inesistenza.
Bisogna immaginare un principio autodistruttivo di essenza concettuale, se si vuole capire il processo attraverso cui la ragione arriva a scalzare le proprie basi e a corrodere se stessa. Non contenta di dichiarare impossibile la certezza, essa ne esclude persino l’idea, e andrà anche oltre, respingerà qualsiasi forma di evidenza, giacché le evidenze procedono dall’essere, da cui si è distaccata; e questo distacco genera, definisce e consolida il dubbio. Non c’è giudizio, sia pure negativo, che non abbia radici nell’immediato o che non presupponga un desiderio di accecamento, senza il quale la ragione non scopre niente di evidente a cui potersi ancorare. Più essa è restia a obnubilarsi, più ritiene questa o quella proposizione parimenti gratuite e inconsistenti.
Dato che la minima adesione, l’assenso, sotto qualsiasi aspetto si presentino, le appaiono inesplicabili, inauditi, soprannaturali, essa coltiverà l’incerto e ne amplierà il campo con uno zelo in cui entra un’ombra di vizio e, per quanto strano possa sembrare, di vitalità. E lo scettico se ne rallegra, perché senza questa ricerca affannosa dell’improbabile in cui traspare malgrado tutto una certa complicità con la vita, egli non sarebbe che uno spettro. D’altronde non è molto lontano dall’abbracciarne la condizione, poiché deve dubitare fino a quando non ci sia più materia di dubbio, fino a quando tutto non svanisca e si volatilizzi, e lui, equiparando la vertigine stessa a un residuo di evidenza, a un simulacro di certezza, non percepisca con un’intensità micidiale l’assenza dell’inanimato e del vivente, e in particolare delle nostre facoltà che, per suo tramite, denunceranno anch’esse le loro pretese e le loro insufficienze.
Chiunque tenga all’equilibrio del proprio pensiero si guarderà bene dal toccare certe superstizioni essenziali. è questa, per uno spirito, una necessità vitale, che soltanto lo scettico disprezza, lui che, non avendo niente da preservare, non rispetta né i segreti né i divieti indispensabili alla durata delle certezze. E proprio di certezze si tratta! La funzione che egli si arroga è di esplorarle per svelarne l’origine e per comprometterle, per identificare il dato su cui si fondano e che, al minimo esame, si rivela indistinguibile da un’ipotesi o da un’illusione. Non avrà maggiori riguardi per il mistero, in cui scorge soltanto un limite fissato dagli uomini, per timidezza o per pigrizia, ai loro interrogativi e alle loro inquietudini. Qui, come in ogni cosa, ciò che questo antifanatico persegue con intolleranza è la rovina dell’inviolabile. Poiché la negazione è un dubbio aggressivo, impuro, un dogmatismo alla rovescia, è raro che neghi se stessa, che si emancipi dalle proprie frenesie e se ne dissoci. è in compenso frequente, è persino inevitabile, che il dubbio metta in causa se stesso, e che voglia annullarsi piuttosto che vedere le proprie perplessità degenerare in articoli di fede. Se tutto si equivale, in virtù di che cosa dovrebbero esse sfuggire a questa equivalenza universale, che necessariamente le invalida? Se lo scettico facesse un’eccezione per le perplessità, si autocondannerebbe, infirmerebbe le proprie tesi. Ma, poiché intende restarvi fedele, e trarne le conseguenze, arriverà all’abbandono di ogni ricerca, alla disciplina dell’astensione, alla sospensione del giudizio. Le verità che aveva esaminato nel loro principio e analizzato senza pietà si dissolvono l’una dopo l’altra, ed egli non si prenderà quindi la briga di classificarle o di gerarchizzarle.
D’altra parte, a quale dare la preferenza, quando per lui si tratta appunto di non preferire nulla, di non convertire mai più un’opinione in convinzione? E neppure dovrebbe concedersi opinioni se non per capriccio o per bisogno di screditarsi ai suoi stessi occhi. «Perché questa cosa piuttosto che quella?» – egli adotterà l’antico ritornello dei dubitatori, sempre corrosivo, che non risparmia niente, nemmeno la morte, troppo perentoria, troppo sicura per i suoi gusti, impregnata di «elementarità», tara che ha ereditato dalla vita. La sospensione del giudizio rappresenta l’equivalente filosofico dell’irresolutezza, la formula a cui ricorre, per enunciarsi, una volontà inadatta a scegliere qualcosa di diverso da un’assenza che escluda qualsiasi scala di valori e qualsiasi criterio rigido. Ancora un passo, e a questa assenza se ne aggiunge un’altra: quella delle sensazioni. Una volta sospesa l’attività dello spirito, perché non sospendere quella dei sensi, anzi quella del sangue? Niente più oggetti, niente più ostacoli, né scelte da schivare o da affrontare; sottratto ugualmente alla schiavitù della percezione e dell’atto, l’io, trionfante sulle proprie funzioni, si riduce a un punto di coscienza proiettato nell’indefinito, fuori del tempo.
Poiché ogni forma di espansione implica una sete di irrevocabile, ce lo figuriamo un conquistatore che sospenda il giudizio? Il dubbio non varca il Rubicone, non varca mai nulla; il suo esito logico è l’inazione assoluta – punto estremo concepibile in astratto, di fatto inaccessibile. Di tutti gli scettici, solo Pirrone ci è andato veramente vicino; gli altri hanno tentato con più o meno fortuna. Il fatto è che allo scetticismo si oppongono i nostri riflessi, i nostri appetiti, i nostri istinti. Ha un bel dichiarare che l’essere stesso è un pregiudizio: questo pregiudizio, più antico di noi, anteriore all’uomo e alla vita, resiste ai nostri attacchi, non ha bisogno di ragionamenti e di prove, poiché anche tutto ciò che esiste, si manifesta e dura, poggia sull’indimostrabile e sull’inverificabile. Chiunque non faccia proprio il motto di Keats: «Dopotutto, c’è sicuramente qualcosa di reale in questo mondo», si colloca per sempre al di fuori degli atti. La certezza che vi si esprime non è tuttavia abbastanza imperiosa da possedere virtù dinamiche. Per agire efficacemente, è anche importante credere alla realtà del bene e del male, alla loro esistenza distinta e autonoma. Se li assimiliamo entrambi a convenzioni, il contorno che li individualizza sfuma: non c’è più atto buono o cattivo, quindi non c’è più atto di sorta, cosicché le cose, al pari dei giudizi che diamo su di esse, si annullano in seno a una tetra identità. Un valore che sappiamo essere arbitrario cessa di essere un valore e si degrada a finzione. Con le finzioni non esiste possibilità di istituire una morale, e ancor meno regole di condotta per l’immediato; così, per sfuggire allo sgomento, ci incombe il dovere di reintegrare il bene e il male nei loro diritti, di salvarli e di salvarci – a prezzo della nostra chiaroveggenza. è il dubitatore che c’è in noi a impedirci di dare il nostro meglio, è lui che, imponendoci l’improba fatica della lucidità, ci spossa, ci esaurisce e ci abbandona ai nostri disinganni, dopo aver abusato delle nostre capacità di interrogazione e di rifiuto. In un certo senso, qualsiasi dubbio è sproporzionato alle nostre forze.
Soltanto alle nostre? Un dio che soffre è cosa vista, è cosa normale; un dio che dubita è misero al pari di noi. Ecco perché, nonostante la loro fondatezza, la loro esemplare legittimità, non consideriamo mai i nostri dubbi senza un certo spavento, nemmeno quando abbiamo provato una certa voluttà nel concepirli. Lo scettico irriducibile, barricato dentro il suo sistema, ci appare come uno squilibrato:per eccesso di rigore, un lunatico per inattitudine al vaneggia mento. Sul piano filosofico, nessuno è più onesto di lui; ma la sua stessa onestà ha qualcosa di mostruoso. Niente trova grazia ai suoi occhi, tutto gli sembra approssimazione e apparenza, i nostri teoremi come le nostre grida. Il suo dramma è di non poter in nessun momento accondiscendere all’impostura, come facciamo tutti quando affermiamo o neghiamo, quando abbiamo l’impudenza di esprimere un’opinione qualsiasi. E poiché è inguaribilmente onesto, scopre la menzogna ovunque un’opinione combatta l’indifferenza e trionfi su di essa. Vivere equivale all’impossibilità di astenersi; vincere questa impossibilità è lo smisurato compito che egli si impone e affronta in solitudine, dato che l’astensione in comune, la sospensione collettiva del giudizio non è praticabile. Se lo fosse, quale occasione per l’umanità di fare una fine onorevole! Ma ciò che a malapena è riservato all’individuo non può in alcun modo esserlo alla moltitudine, capace tutt’al più di innalzarsi fino alla negazione.
Dato che il dubbio si rivela incompatibile con la vita, lo scettico coerente, ostinato, questo morto-vivente, termina la sua carriera con una disfatta che non ha equivalenti in nessun’altra avventura intellettuale. Furente per aver cercato la singolarità e per esservisi compiaciuto, egli aspirerà all’ombra, all’anonimato: e tutto questo, paradosso dei più sconcertanti, proprio nel momento in cui non sente più alcuna affinità con niente e con nessuno. Modellarsi sulla massa è tutto ciò che auspica a questo punto del suo tracollo in cui riduce la saggezza al conformismo e la salvezza all’illusione consapevole, all’illusione postulata, in altre parole all’accettazione delle apparenze in quanto tali. Ma egli scorda che le apparenze non sono una risorsa se non quando si è tanto obnubilati da equipararle a delle realtà, quando si beneficia dell’illusione ingenua, dell’illusione che ignora se stessa, di quella appunto che è appannaggio degli altri e di cui lui è il solo a non possedere il segreto. Invece di rassegnarsi, si metterà – proprio lui, il nemico dell’impostura in filosofia – a barare nella vita, persuaso che a forza di dissimulazioni e di frodi riuscirà a non distinguersi dal resto dei mortali, che cercherà inutilmente di imitare, visto che ogni atto esige da lui una lotta contro i mille motivi che ha per non compierlo. Il suo gesto più infimo sarà preparato, sarà il risultato di una tensione e di una strategia, come se dovesse prendere d’assalto ciascun istante, non potendo calarvisi naturalmente. Quell’essere che lui stesso ha demolito, ora smania e si agita nella vana speranza di ricostituirlo. Come quella di Macbeth, la sua coscienza è devastata; anche lui ha ucciso il sonno, il sonno ove riposavano le certezze. Esse si risvegliano, e vengono a ossessionarlo e a turbarlo; e in effetti lo turbano, ma poiché egli non si abbassa al rimorso, contempla il corteo delle sue vittime con un malessere temperato dall’ironia. Che gliene importa ora di queste recriminazioni di fantasmi?
Distaccato dalle proprie imprese e dai propri misfatti, è arrivato alla liberazione, ma a una liberazione senza salvezza, preludio all’esperienza integrale della vacuità, a cui è molto vicino quando, dopo aver dubitato dei propri dubbi, finisce col dubitare di sé, con lo sminuirsi e con l’odiarsi, col non credere più alla propria missione di distruttore. Una volta reciso l’ultimo legame, quello che lo teneva attaccato a se stesso, e senza il quale perfino l’autodistruzione è impossibile, egli cercherà rifugio nel vuoto primordiale, nel più profondo delle origini, prima di quella contesa fra la materia e il germe che si prolunga attraverso la serie degli esseri, dall’insetto al più tribolato dei mammiferi. Poiché né la vita né la morte eccitano più il suo spirito, egli è meno reale di quelle ombre di cui ha appena subìto i rimproveri. Non c’è più alcun argomento che lo attragga o che egli voglia innalzare alla dignità di problema, di flagello.
La sua mancanza di curiosità raggiunge dimensioni tali da confinare con la totale rinuncia, con un nulla più denudato di quello di cui i mistici s’inorgogliscono o si lamentano dopo le loro peregrinazioni attraverso il «deserto» della divinità. Nella sua ebetudine senza incrinature, un solo pensiero ancora lo assilla, un solo interrogativo, stupido, risibile, ossessivo: «Che cosa faceva Dio quando non faceva nulla? In che modo riempiva, prima della creazione, i suoi terribili ozi?». Se gli parla da pari a pari, è perché si trovano entrambi allo stesso grado di ristagno e di inutilità. Quando i suoi sensi avvizziscono per mancanza di oggetti capaci di sollecitarli, e la sua ragione cessa di esercitarsi per orrore di esprimere giudizi, è ridotto a non potersi più rivolgere ad altri che al non-creatore, a cui assomiglia, con cui si identifica – e di cui il Tutto, indistinguibile dal Niente, è lo spazio dove, sterile e prostrato, egli trova compimento e riposo.
Accanto allo scettico rigoroso o, se si vuole, ortodosso, che fa la fine pietosa e, sotto certi aspetti, grandiosa che abbiamo appena visto, ne esiste un altro, eretico, capriccioso, il quale, pur essendo soggetto al dubbio solo saltuariamente, è in grado di pensarlo sino in fondo e di trarne le estreme conseguenze. Anche lui conoscerà la sospensione del giudizio e l’abolizione delle sensazioni ma:soltanto all’interno di una crisi, che supererà proiettando, nell’indeterminazione in cui si vede precipitato, un contenuto e un brivido che essa non sembrava comportare.
Facendo un balzo fuori dalle aporie in cui il suo spirito vegetava, egli passa dal torpore all’esultanza, si innalza a un entusiasmo allucinato che renderebbe lirico il minerale, se ancora ve ne fossero. Non c’è più consistenza da nessuna parte, tutto si trasfigura e svanisce; resta lui solo, di fronte a un vuoto trionfale. Libero dalle pastoie del mondo e da quelle dell’intelletto, si paragona anche lui a Dio, il quale, questa volta, sarà debordante, eccessivo, ebbro, immerso nell’angoscia della creazione; e dei privilegi di Dio egli si impossesserà, sotto la spinta di un’improvvisa onniscienza, di un minuto miracoloso in cui il possibile, disertando l’avvenire, verrà a fondersi nell’istante per ingrandirlo, per dilatarlo fino all’esplosione.
Giunto a ciò, questo scettico sui generis nulla teme quanto la ricaduta in una nuova crisi. Almeno gli sarà facile considerare dal di fuori il dubbio su cui ha trionfato momentaneamente, al contrario dell’altro che vi si è invischiato per sempre. Su costui egli possiede ancora il vantaggio di potersi aprire a esperienze di ordine diverso, soprattutto a quelle degli spiriti religiosi, che utilizzano e sfruttano il dubbio, ne fanno una tappa, un inferno provvisorio ma indispensabile per giungere all’assoluto e radicarvisi. Sono traditori dello scetticismo, di cui egli vorrebbe seguire l’esempio: nella misura in cui vi riesce, intravede che l’abolizione delle sensazioni può condurre a ben altro che a un vicolo cieco. Quando Sariputta, un discepolo del Buddha, esclama: «Il Nirvana è felicità!» e quando gli si obietta che non ci può essere felicità laddove non vi sono sensazioni, Sariputta risponde: «La felicità sta appunto nel fatto che in essa non v’è alcuna sensazione».
Questo paradosso non è più tale per colui che, malgrado le sue tribolazioni e il suo logoramento, dispone ancora di risorse sufficienti a raggiungere l’essere ai confini del vuoto, e a vincere, magari solo per brevi attimi, quell’appetito di irrealtà da cui sgorga la chiarezza irrefragabile del dubbio, alla quale non si possono contrapporre che evidenze extrarazionali, concepite per un altro appetito, l’appetito del reale. Tuttavia, approfittando del minimo cedimento, ecco il solito ritornello: «Perché questa cosa piuttosto che quella?». E questo insistere, e questo rimuginare gettano la coscienza in una atemporalità maledetta, in un divenire congelato, mentre qualunque sì e lo stesso no la fanno partecipare alla sostanza del Tempo, da cui derivano e che essi proclamano.
Ogni affermazione e, a maggior ragione, ogni credenza derivano da un fondo barbarico che la maggior parte, la quasi totalità degli uomini ha la fortuna di conservare, e che soltanto lo scettico – ancora una volta, quello vero, quello coerente – ha perduto o liquidato, al punto da non conservarne che un vago residuo, troppo scarso per influire sul suo comportamento o sulla condotta delle sue idee. Perciò, anche se in ogni epoca esistono degli scettici isolati, lo scetticismo, come fenomeno storico, si incontra soltanto nei momenti in cui una civiltà non ha più «anima» nel senso che Platone dà alla parola: «ciò che si muove da sé».
In assenza di qualsiasi principio di movimento, come potrebbe una civiltà avere ancora un presente e, soprattutto, un avvenire? E come lo scettico, alla fine del suo lavoro di demolizione, arrivava a uno sfacelo pari a quello che aveva riservato alle certezze, così una civiltà, dopo aver minato i propri valori, crolla con essi, e cade in una rovina il cui unico rimedio appare la barbarie, come testimonia l’apostrofe lanciata ai romani da Salviano all’inizio del V secolo: «Non c’è da voi una città che sia pura, all’infuori di quelle in cui abitano i barbari». Nella fattispecie, non si trattava forse tanto di licenziosità quanto di smarrimento. La licenziosità, e anche la dissolutezza, ben si addicono a una civiltà, o almeno questa vi si adatta. Ma quando si diffonde lo smarrimento essa lo teme, e guarda a quelli che vi sfuggono, che ne sono indenni. Ed è allora che il barbaro comincia a sedurre, ad affascinare gli animi delicati, gli animi combattuti, che lo invidiano e lo ammirano, talvolta apertamente, più spesso di nascosto, e desiderano, sia pur ammettendolo solo di rado, diventare suoi schiavi. Che pure lo temano, è innegabile; ma questo timore, per nulla salutare, contribuisce invece al loro futuro assoggettamento, li indebolisce, li paralizza e li imprigiona ancora di più nei loro scrupoli e nei loro vicoli ciechi. Nel loro caso, la rinuncia, che è la sola via d’uscita, comporta, più che la sospensione del giudizio, quella della volontà, non tanto la disfatta della ragione, quanto quella degli organi. A questo stadio, lo scetticismo è inseparabile da un’infermità fisiologica. Una costituzione robusta lo rifiuta e se ne allontana; una struttura gracile vi soccombe e vi precipita. Vorrà in seguito disfarsene? Poiché non ci riuscirà con i propri mezzi, chiederà la collaborazione del barbaro, la cui funzione non è di risolvere, bensì di sopprimere i problemi e, con essi, la coscienza iperacuta che questi comportano e che prostra il debole, anche quando abbia rinunciato a ogni attività speculativa. Il fatto è che in questa coscienza si perpetua un bisogno morboso, irrefrenabile, anteriore a qualsiasi perplessità teorica, il bisogno che sente il debole di moltiplicarsi nel tormento, nella sofferenza e nella frustrazione, di essere crudele, non con gli altri ma con se stesso. Della ragione, invece di servirsene per placarsi, egli fa uno strumento di autotortura: essa gli fornisce argomenti contro lui stesso, giustifica la sua volontà di rovina, lo lusinga, si affanna a rendergli l’esistenza intollerabile.
Ed è ancora in uno sforzo disperato contro di sé che egli incita il suo nemico a venire a liberarlo dall’ultimo tormento.
Il fenomeno barbarico, che sopraggiunge ineluttabilmente a certe svolte storiche, è forse un male, però un male necessario; d’altronde, i metodi che venissero usati per combatterlo ne affretterebbero l’avvento, poiché, per essere efficaci, bisognerebbe che fossero feroci: e a questo una civiltà non vuole prestarsi; e quand’anche lo volesse, non ci riuscirebbe per mancanza di vigore. La cosa migliore per essa, una volta che sia in declino, è quella di strisciare davanti al barbaro; questo, del resto, non le ripugna per nulla: sa troppo bene che egli rappresenta, che egli incarna già l’avvenire. Quando l’Impero fu invaso, i letterati (si pensi a Sidonio Apollinare, a Ennodio, a Cassiodoro) divennero del tutto naturalmente i panegiristi dei re goti. Gli altri, la grande massa dei vinti, si rifugiarono nell’amministrazione o nell’agricoltura, essendo troppo rammolliti perché fosse loro consentita la carriera delle armi.
Convertiti al cristianesimo per stanchezza, furono incapaci di assicurarne da soli il trionfo: li aiutarono i conquistatori. Una religione non è niente di per sé; la sua sorte dipende da coloro che l’adottano. I nuovi dèi esigono uomini nuovi, capaci, in ogni occasione, di pronunciarsi e di scegliere, di dire chiaramente sì o no, invece di invischiarsi in cavilli o di rendersi anemici per abuso della sfumatura.
Poiché le virtù dei barbari consistono proprio nella forza di prendere partito, di affermare o di negare, esse saranno sempre celebrate dalle epoche agonizzanti. La nostalgia della barbarie è l’ultima parola di una civiltà; lo è per ciò stesso anche dello scetticismo.
Allo spirare di un ciclo, che cosa può in effetti sognare uno spirito disingannato di tutto se non la fortuna che hanno i bruti di puntare sul possibile e di sguazzarvi?
Inadatto a difendere dubbi che non coltiva più o a sottoscrivere dogmi nascenti che disprezza, esso plaude, suprema rinuncia dell’intelletto, alle dimostrazioni irrefutabili dell’istinto: il greco si piega davanti al romano, che a sua volta si piegherà davanti al germano, secondo un ritmo inesorabile, una legge che la storia si premura di illustrare, oggi ancora più che all’inizio della nostra èra. è impari la lotta fra popoli che discutono e popoli che tacciono, tanto più che i primi, avendo consumato la loro vitalità in arguzie, si sentono attratti dalla rudezza e dal silenzio dei secondi. Se ciò vale per una collettività, che dire di un individuo, e in particolare dello scettico? Perciò non ci si deve stupire di vederlo – lui, esperto della sottigliezza – nell’estrema solitudine a cui è giunto, ergersi ad amico e complice delle orde.
è scettico il demonio?
Le imprese più odiose di cui rendiamo responsabile il demonio appaiono, nei loro effetti, meno nocive di quanto non siano gli argomenti scettici quando cessano di essere gioco e diventano ossessione.
Distruggere significa agire, creare alla rovescia; significa, in un modo tutto speciale, manifestare la propria solidarietà con ciò che è. Quale agente del non essere, il Male si inserisce nell’economia dell’essere, è dunque necessario, adempie a una funzione importante, anzi vitale.
Ma quale funzione assegnare al dubbio? Quale necessità soddisfa? Chi ne ha bisogno all’infuori del dubitatore? Calamità gratuita, prostrazione allo stato puro, esso non corrisponde a nessuna delle esigenze positive del vivente. Senza ragione plausibile, rimettere sempre tutto in discussione, dubitare perfino in sogno!
Per raggiungere i suoi scopi, il demonio, spirito dogmatico, imbocca talvolta con uno stratagemma la strada dello scetticismo; vuole far credere di non aderire a niente, simula il dubbio e, all’occorrenza, lo chiama in aiuto. Sebbene lo conosca, tuttavia mai se ne compiace, e tanto lo teme che non è neanche certo che lo voglia suggerire o infliggere alle proprie vittime.
Il dramma del dubitatore è più grande di quello del negatore, perché vivere senza scopo è di gran lunga più difficile che vivere per una cattiva causa. Ora, di scopi, lo scettico non ne conosce nessuno: dato che sono tutti ugualmente fragili o inconsistenti, quale scegliere? La negazione, in confronto, è un programma; può occupare, può persino riempire l’esistenza più esigente, senza contare che è bello negare, soprattutto quando ne è vittima Dio: la negazione non è vacuità, è pienezza, una pienezza inquieta e aggressiva. Se si ripone la salvezza nell’atto, negare è salvarsi, è perseguire un disegno, svolgere un ruolo. Si capisce perché lo scettico, quando si pente di essersi spinto su una strada pericolosa, invidia il demonio; il fatto è che, malgrado le riserve che ispira la negazione, niente potrà impedire che essa sia fonte di azione o di certezza: quando si nega, si sa quel che si vuole; quando si dubita, si finisce col non saperlo più.
La tristezza, principale ostacolo al nostro equilibrio, è uno stato diffuso di non adesione, una rottura passiva con l’essere, una negazione:incerta di se stessa, non idonea, oltretutto, a tramutarsi in affermazione o in dubbio. Essa si adatta bene alle nostre infermità e si adatterebbe ancora meglio a quelle di un demonio che, stanco di negare, si trovasse all’improvviso senza occupazione.
Smettendo di credere al male, per nulla incline a patteggiare con il bene, si vedrebbe – proprio lui, il più fervente di tutti i decaduti privo di missione e di fiducia in sé, inadatto a nuocere, superato dal caos, reietto senza le consolazioni del sarcasmo. Se la tristezza fa pensare a un inferno in disuso, è perché vi è in essa qualcosa di una malvagità pronta alla rinuncia, smussata e meditativa, riluttante a esercitarsi ancora contro alcunché di diverso da se stessa. La tristezza s-dram -matizza il divenire, lo obbliga a reprimere la propria foga, a divorarsi, a calmarsi sopprimendosi.
Poiché l’affermazione e la negazione non differiscono qualitativamente, il passaggio dall’una all’altra è naturale e facile. Ma, una volta sposato il dubbio, non è né facile né naturale ritornare alle certezze che esse rappresentano. Ci si trova allora paralizzati, nell’impossibilità di militare per una qualsiasi causa; anzi, le si rifiuterà tutte e, se è il caso, le si danneggerà:senza scendere in campo. Lo scettico, con gran disperazione del demonio, è l’uomo inservibile per eccellenza. Non si attacca, non si fissa a niente; la rottura fra lui e il mondo si rivela in ogni circostanza e a ogni problema che è costretto ad affrontare. è stato tacciato di dilettantismo perché ama minimizzare tutto; in realtà, non minimizza nulla, semplicemente rimette le cose al loro posto. Sia i piaceri sia i dolori derivano dall’importanza indebita che attribuiamo alle nostre esperienze. Lo scettico si sforzerà dunque di mettere ordine non solo nei suoi giudizi – e questo è facile -, ma anche nelle sue sensazioni – e questo è più difficile. Con ciò stesso egli tradisce i suoi limiti e la sua incompiutezza (non osiamo dire la sua frivolezza), giacché solo la voluttà nella sofferenza muta l’esistenza in destino. Dove collocarlo se il suo posto non è né tra gli spiriti seri né tra quelli fatui? Senz’altro in una via di mezzo, in quella condizione di passante sempre inquieto che non si ferma da nessuna parte, perché nessun oggetto, nessun essere gli fornisce la minima impressione di realtà. Quello che gli manca, quello che egli ignora, è la pietà, unico sentimento capace di salvare a un tempo l’apparenza e l’assoluto. Poiché essa nulla analizza, nulla può minimizzare; scorge valori ovunque, si attacca e si fissa alle cose. Anche ammettendo che in passato l’abbia provata, lo scettico non la ritroverà mai, neanche pregando giorno e notte. Avrà la fede, a suo modo crederà, sconfesserà i suoi sogghigni e le sue bestemmie, ma, quanto a conoscere la pietà, non ci riuscirà mai: dove è passato il dubbio non vi è posto per la pietà. Come potrebbe lo scettico offrirle lo spazio di cui ha bisogno, se ha saccheggiato tutto in sé e intorno a sé? Compiangiamolo, questo volubile tenebroso, compatiamo questo dilettante maledetto.
Quand’anche la certezza si instaurasse sulla terra e sopprimesse negli animi ogni traccia di curiosità e di ansia, nulla cambierebbe per chi è predestinato allo scetticismo.
Quand’anche si demolissero a uno a uno i suoi argomenti, egli resterebbe comunque sulle sue posizioni. Per smuoverlo, per scuoterlo in profondità, bisognerebbe combattere la sua avidità di tentennamenti, la sua sete di perplessità: quello che egli cerca non è la verità, è l’insicurezza, l’interrogarsi senza fine. L’esitazione, che è la sua voluttà, la sua avventura, il suo martirio sperato, dominerà tutti i suoi pensieri e tutte le sue iniziative. E lui, che tentenna per metodo non meno che per necessità, reagirà tuttavia come un fanatico: non potrà uscire dalle sue ossessioni né, a maggior ragione, da se stesso. Il dubbio infinito lo renderà paradossalmente prigioniero di un mondo chiuso. Non essendone consapevole, egli persisterà nel credere che il suo modo di procedere non cozzi contro nessuna barriera e non sia influenzato né alterato dalla minima debolezza. Il suo esasperato bisogno di incertezza diventerà una malattia a cui non cercherà rimedio, poiché nessuna evidenza, sia pure irresistibile e definitiva, lo indurrà a sospendere i suoi dubbi. La terra gli manca sotto i piedi? Non se ne preoccupa molto; prosegue, disperato e tranquillo. Anche se si venisse a conoscere la verità finale, anche se fosse divulgata la chiave dell’enigma, se fossero risolte tutte le difficoltà e chiariti tutti i misteri – niente lo turberebbe, niente lo distoglierebbe dalla sua via. Tutto ciò che lusinga il suo appetito d’irresolutezza, tutto ciò che lo aiuta a vivere e glielo impedisce al tempo stesso, è sacro per lui. E se l’Indifferenza lo appaga, se la considera una realtà vasta quanto l’universo, è perché essa è l’equivalente pratico del dubbio – e il dubbio non ha forse ai suoi occhi il prestigio dell’Incondizionato?
Infeudarsi, assoggettarsi, ecco l’occupazione principale di tutti. E proprio questo lo scettico rifiuta.
Eppure sa che decidersi a servire equivale a salvarsi, perché significa aver fatto una scelta; e ogni scelta è una sfida al vago, alla maledizione, all’infinito. Gli uomini hanno bisogno di punti d’appoggio, vogliono la certezza a ogni costo, anche a spese della verità. Poiché essa è corroborante, e loro non possono farne a meno anche quando sanno che è menzognera, non ci sarà scrupolo capace di trattenerli dallo sforzo di procurarsela.
Perseguire il dubbio è invece cosa debilitante e malsana, che non nasce da alcuna necessità vitale, da alcun interesse. Se lo facciamo, molto probabilmente è perché vi siamo indotti da una forza distruttrice. Non è il demonio stesso, che non dimentica niente, a vendicarsi su di noi del nostro rifiuto di cooperare alla sua opera? Furente di vederci lavorare per conto nostro, ci obnubila, si adopera per farci andare in cerca dell’Insolubile con una meticolosità che ci preclude ogni illusione e insieme ogni realtà. Perciò questa ricerca a cui ci condanna si riduce a una caduta metodica nell’abisso.
Quando ancora non era apparso Lucifero – il primo ad aver attentato all’incoscienza originaria -, il mondo riposava in Dio. Non che mancassero i conflitti, ma questi, non comportando né rotture né ribellioni, avevano luogo ancora all’interno dell’unità primitiva, unità che una forza nuova e temibile avrebbe spezzato.
L’attentato, inseparabile dalla caduta degli angeli, rimane il fatto capitale intervenuto prima dell’altra caduta, quella dell’uomo. La sua rivolta, la sua caduta furono, nella storia della coscienza, la seconda tappa, il secondo colpo inferto all’ordine e all’opera di Dio, ordine e opera che doveva guastare, a sua volta, lo scettico – prodotto di stanchezza e di dissoluzione, limite estremo del cammino dello spirito, versione tardiva, forse finale, dell’uomo. Al contrario dei due protestatari, lo scettico disdegna la rivolta, e non intende abbassarvisi; avendo esaurito le sue indignazioni come le sue ambizioni, è uscito dal ciclo delle insurrezioni provocate dalla duplice caduta. E si allontana dall’uomo, che egli trova ormai superato, come l’uomo si era allontanato dal demonio, suo maestro, al quale rimproverava di serbare residui di ingenuità e di illusione. Sono evidenti sia la progressione nell’esperienza della solitudine sia le conseguenze dello sradicamento dall’unità primordiale.
Il gesto di Lucifero, come quello di Adamo – l’uno che precede la Storia, l’altro che la inaugura -, rappresentano i momenti essenziali della lotta per isolare Dio e squalificare il suo universo.
Quest’universo era quello della felicità irriflessa nell’indivisione.
Ad esso noi aspiriamo tutte le volte che siamo stanchi di portare il fardello della dualità.
Il grande valore pratico delle certezze non deve nasconderci la loro fragilità teorica. Esse appassiscono, invecchiano, mentre i dubbi mantengono una freschezza inalterabile… Una credenza è legata a un’epoca; gli argomenti che le opponiamo e che ci mettono nell’impossibilita di aderire ad essa sfidano il tempo, cosicché quella credenza non dura se non grazie alle obiezioni che l’hanno minata. Non ci è facile immaginare la nascita degli dèi greci, l’esatto processo attraverso il quale si concepirono nei loro confronti paura e venerazione; comprendiamo invece perfettamente come si sia arrivati a disinteressarsi di loro, e poi a contestarne l’utilità o l’esistenza. La critica è di tutti i tempi, l’ispirazione religiosa è un privilegio di certe epoche, estremamente rare. Se ci vogliono molta irriflessione e molta ebbrezza per generare un dio, a ucciderlo basta un po’ di attenzione. Questo piccolo sforzo, l’Europa lo compie a partire dal Rinascimento. C’è da stupirsi se siamo ridotti a invidiare quei momenti grandiosi in cui si poteva assistere alla nascita dell’assoluto?
Ed eccovi giunti, dopo una lunga intimità con il dubbio, a una forma particolare di orgoglio: non vi ritenete affatto più dotati degli altri, vi ritenete soltanto meno ingenui. Per quanto riconosciate che il tale o il talaltro è in possesso di facoltà e conoscenze di fronte alle quali le vostre hanno scarsissimo valore, non c’è verso, voi lo scambierete con qualcuno che, inadatto all’essenziale, si è impastoiato nel futile. è passato per un’infinità di prove senza nome? A voi parrà che sia rimasto molto al di qua dell’esperienza unica, fondamentale, che avete voi degli esseri e delle cose. è un bambino, sono tutti bambini, incapaci di vedere quello che voi soli avete visto, voi, i più disincantati dei mortali, senza più nessuna illusione sugli altri e su voi stessi. Ma una la conserverete malgrado tutto: quella, tenace, indistruttibile, di credere di non averne. Nessuno sarà capace di togliervela, perché nessuno avrà ai vostri occhi il merito di essere quanto voi disingannato su tutto. Di fronte a un universo di illusi, vi atteggerete a solitari, con il risultato che non potrete nulla per nessuno, come nessuno potrà nulla per voi.
Quanto più avvertiamo la nostra insignificanza, tanto più disprezziamo gli altri, che addirittura cessano di esistere per noi quando siamo folgorati dall’evidenza del nostro nulla. Non attribuiamo una certa realtà agli altri se non nella proporzione in cui ne scopriamo in noi stessi. Quando non ci è più possibile ingannarci ancora sul nostro conto, diventiamo incapaci di quel minimo di accecamento e di generosità che, solo, potrebbe salvare l’esistenza dei nostri simili. A tale grado di chiaroveggenza, non avendo più scrupoli nei loro confronti, li equipariamo a fantocci che non possono elevarsi alla visione della loro nullità. Come prestare allora attenzione a ciò che dicono e a ciò che fanno?
Al di là degli uomini, la cosa riguarda gli stessi dèi: essi non esistono se non in quanto troviamo in noi un principio di esistenza. Una volta che tale principio si esaurisca, non è più possibile alcuno scambio con loro: essi non hanno niente da darci, noi non abbiamo niente da offrire loro. Dopo averli frequentati e riveriti per tanto tempo, ce ne allontaniamo, li dimentichiamo e restiamo di fronte a loro con le mani vuote, per l’eternità. Fantocci anche loro, come i nostri simili, come noi stessi.
Il disprezzo, che presuppone una complicità con la certezza, e comunque una presa di posizione, lo scettico dovrebbe vietarselo. Purtroppo, invece, sacrifica ad esso, e addirittura guarda dall’alto chiunque non faccia altrettanto. Lui, che pretendeva di aver vinto tutto, non ha potuto vincere la superbia né gli inconvenienti che ne derivano. A che serve aver accumulato dubbio su dubbio, rifiuto su rifiuto, per poi approdare a un genere speciale di servitù e di malessere? La chiaroveggenza di cui egli si gloria è il suo stesso nemico: essa non lo desta al non essere, non gliene fa prendere coscienza se non per inchiodarvelo. Ed egli non potrà più liberarsene, ne sarà soggiogato, prigioniero alle soglie stesse della sua emancipazione, incatenato per sempre all’irrealtà.
Desiderio e orrore della gloria
Se ognuno di noi confessasse il suo desiderio più segreto, quello che ispira tutti i suoi progetti e tutte le sue azioni, direbbe: «Voglio essere elogiato». Nessuno però vi si lascerà indurre, giacché è meno disonorevole commettere un abominio che proclamare una debolezza così miserevole e umiliante, nata da un sentimento di solitudine e di insicurezza del quale soffrono, con uguale intensità, i reietti e i fortunati. Nessuno è sicuro di ciò che è, né di ciò che fa. Per quanto convinti dei nostri meriti, siamo rosi dall’inquietudine e, per vincerla, non chiediamo che di essere ingannati, di ricevere approvazione ovunque e da chiunque. Un buon osservatore scopre sempre una sfumatura di supplica nello sguardo di chi abbia portato a termine un’impresa o un’opera, o semplicemente si dedichi a un genere qualsiasi di attività. La malattia è universale; e se Dio ne sembra indenne è perché, ultimata la creazione, non poteva aspettarsi lodi, per mancanza di testimoni. è vero però che se le è tributate da sé, e alla fine di ogni giornata!
Così come, per farsi un nome, ognuno si ingegna a superare gli altri, allo stesso modo l’uomo, agli inizi, dovette conoscere il desiderio indistinto di eclissare le bestie, di affermarsi a spese loro, di brillare ad ogni costo. Una volta determinatasi nella sua economia vitale una rottura dell’equilibrio, fonte di ambizione se non di energia, egli si trovò proiettato in una competizione con tutti i vivi, in attesa di entrare in competizione con se stesso per quella smania di superamento che, aggravandosi, lo avrebbe definito specificamente. Lui solo, nello stato di natura, si volle importante; lui solo, in mezzo agli animali, odiava l’anonimato e cercava di uscirne.
Mettersi in luce: questo era e rimane il suo sogno. è difficile credere che abbia sacrificato il paradiso per il semplice desiderio di conoscere il bene e il male; in compenso lo si immagina benissimo rischiare tutto per essere qualcuno. Correggiamo la Genesi: se l’uomo sciupò la felicità iniziale, fu non tanto per amore del sapere quanto per brama di gloria.
Appena ne subì le lusinghe passò dalla parte del diavolo. Ed essa è veramente diabolica, nel suo principio come nelle sue manifestazioni. Per causa sua, l’angelo più dotato si è trasformato in un avventuriero, e più di un santo in un buffone. Coloro che l’hanno conosciuta o semplicemente avvicinata non possono più allontanarsene e, per restare nei suoi paraggi, non indietreggeranno davanti a nessuna bassezza, davanti a nessuna infamia. Quando non si può salvare l’anima, si spera almeno di salvare il nome. L’usurpatore che doveva assicurarsi una posizione privilegiata nell’universo ci sarebbe mai arrivato senza la volontà di far parlare di sé, senza l’ossessione, senza la mania dello strombazzamento? Se questa mania s’impadronisse di un qualsiasi animale, anche del più «arretrato», questo animale brucerebbe le tappe e raggiungerebbe l’uomo.
Il desiderio di gloria vi abbandona?
Con esso se ne andranno anche i tormenti che vi pungolavano, vi spingevano a produrre, a realizzarvi, a uscire da voi stessi. Una volta che questi siano scomparsi, vi contenterete di quel che siete, rientrerete nei vostri confini, avendo vinta e abolita la volontà di supremazia e di dismisura. Sottratti al regno del serpente, non serberete più alcuna traccia dell’antica tentazione, delle stigmate che vi distinguevano dalle altre creature.
Non è neppure certo che sarete ancora uomini – tutt’al più una pianta cosciente.
I teologi, assimilando Dio a un puro spirito, hanno mostrato di non avere alcun senso del processo della creazione, del fare in generale. Lo spirito in quanto tale non è adatto a produrre; esso progetta ma, per realizzare i suoi progetti, deve intervenire un’energia impura che lo metta in moto. è lo spirito che è debole, non la carne, e diventa forte solo quando è stimolato da una sete sospetta, da un qualche impulso condannabile. Quanto più una passione è losca, tanto più risparmia a colui che ne è schiavo il pericolo di creare opere false o disincarnate. Il tale è dominato dalla cupidigia, dalla gelosia, dalla vanità? Lungi dal biasimarlo, si deve invece lodarlo: che cosa sarebbe senza di esse? Quasi nulla, vale a dire puro spirito, più precisamente angelo; ora, l’angelo, per definizione, è sterile e inefficace quanto la luce in cui vegeta, la quale non genera niente, priva com’è di quel principio oscuro, sotterraneo, che è presente in ogni manifestazione di vita. Dio appare ben diversamente favorito, perché è impastato di tenebre: senza la loro imperfezione dinamica, sarebbe rimasto in uno stato di paralisi o di assenza, incapace di rappresentare il ruolo che sappiamo. Alle tenebre deve tutto, compreso il suo essere. Niente di ciò che è fecondo e vero è interamente luminoso e interamente onorevole. Dire di un poeta, a proposito di una sua qualche debolezza, che è una «macchia sul suo genio» significa misconoscere la molla e il segreto, se non del suo talento, certo del suo «rendimento».
Ogni opera, per quanto alto sia il suo livello, nasce dall’immediato e ne porta il segno: nessuno crea nell’assoluto e nel vuoto. Rinchiusi in un universo umano, non appena ne evadiamo, perché produrre, e per chi?
Quanto più l’uomo ci assorbe, tanto più gli uomini cessano di interessarci; eppure, proprio per loro e per l’opinione che si fanno di noi, ci agitiamo, prova ne sia l’incredibile presa che ha l’adulazione su tutti gli spiriti, su quelli rozzi come su quelli raffinati.
è sbagliato credere che essa non abbia effetto sul solitario; in realtà egli le è più sensibile di quanto non si creda, perché, non subendone spesso la seduzione o il veleno, non sa difendersene. Pur essendo indifferente a tutto, non lo è ai complimenti.
Siccome non gliene fanno molti, non vi è abituato; ma alla prima occasione in cui gliene vengano prodigati, li accoglierà con un’avidità puerile e rivoltante. Versato in molte materie, in questa è inesperto – sebbene si debba aggiungere, a sua discolpa, che ogni complimento agisce fisicamente e suscita un brivido delizioso che nessuno può soffocare e neanche padroneggiare, a meno di possedere una disciplina e un autocontrollo che si acquistano soltanto con la pratica della società, con una lunga frequentazione degli scaltri e degli ipocriti. A dire il vero, nulla, né la diffidenza né il disprezzo, immunizza contro gli effetti dell’adulazione: pur avendo nei confronti di qualcuno diffidenza o disistima, saremo tuttavia attenti ai giudizi favorevoli che vorrà esprimere su di noi, e magari muteremo opinione su di lui, se essi saranno abbastanza lirici, abbastanza esagerati da sembrarci spontanei, involontari. In apparenza ognuno è contento di sé; in realtà, nessuno lo è. Si dovranno dunque incensare, per spirito di carità, amici e nemici, tutti i mortali senza eccezione, e si dovrà dire sempre di sì a tutte le loro stravaganze? A tal punto il dubbio su di sé travaglia gli esseri che questi, per porvi rimedio, hanno inventato l’amore, tacito patto fra due infelici per sopravvalutarsi, per incensarsi spudoratamente.
Eccettuati i pazzi, non vi è nessuno che sia indifferente all’elogio o al biasimo; finché rimaniamo appena un po’ normali, siamo sensibili a entrambi; se vi diventiamo refrattari, che cosa ci resta da cercare in mezzo ai nostri simili? è senza dubbio umiliante reagire come loro; d’altra parte, è difficile innalzarsi al di sopra di tutte le miserie che li opprimono e li appagano. Essere uomo non è una soluzione, come non lo è il cessare di esserlo.
Il minimo balzo fuori dal mondo ostacola la nostra volontà di realizzarci, di sorpassare e schiacciare gli altri. La sfortuna dell’angelo dipende dal non dover lottare per accedere alla gloria: in essa è nato, ad essa si abbandona, essa gli è consustanziale. Che cosa può quindi sperare? Gli manca perfino la risorsa di inventarsi dei desideri.
Se il produrre e l’esistere si identificano, non c’è condizione più irreale né più desolante della sua.
Fingere il distacco, quando non vi si è predestinati, è pericoloso: si perdono così molti difetti fecondi e necessari al compimento di un’opera.
Spogliarci dell’uomo vecchio significa rinunciare al nostro stesso fondamento, cacciarci spontaneamente nel vicolo cieco della purezza. Senza l’apporto del nostro passato, della nostra melma, della nostra corruzione sia recente sia originaria, lo spirito è inattivo. Guai a chi non sacrifica la propria salvezza!
Poiché tutto quello che si fa di importante, di grande, di inaudito deriva dal desiderio di gloria, che cosa accade quando esso si affievolisce o si spegne, e noi sentiamo la vergogna di aver voluto contare agli occhi degli altri? Per capire come possiamo ridurci a tanto, riportiamoci a quegli attimi in cui si compie una vera neutralizzazione dei nostri istinti. Noi siamo sempre in vita, ma questo non ci importa più: una constatazione priva di interesse; verità, menzogna – parole, soltanto parole che si equivalgono, che non corrispondono a nulla. Ciò che è, ciò che non è – come saperlo, quando abbiamo oltrepassato quello stadio in cui ancora ci si prende la briga di gerarchizzare le apparenze? I nostri bisogni, i nostri desideri sono paralleli a noi, e i nostri sogni non siamo più noi a sognarli, qualcun altro li sogna dentro di noi. La nostra stessa paura non ci appartiene più. Non che diminuisca, anzi aumenta, ma cessa di riguardarci; attingendo alle proprie risorse, essa conduce, affrancata, altera, un’esistenza autonoma; noi le serviamo soltanto da supporto, da domicilio, da indirizzo: insomma, la ospitiamo. Essa vive per conto suo, si sviluppa e si espande, e ne combina delle sue senza mai consultarci. Per nulla contrariati, l’abbandoniamo ai suoi estri, non la turbiamo più di quanto essa turbi noi, e assistiamo, disingannati e impassibili, allo spettacolo che ci offre.
Così come ci è lecito fare con l’immaginazione il cammino opposto a quello che ha percorso la vita e, in tal modo, riattraversare le specie, allo stesso modo possiamo, seguendo a ritroso il corso della storia, raggiungere i suoi inizi e anche andare oltre. Questa regressione diventa una necessità in colui che, sottrattosi alla tirannia dell’opinione, non appartiene più a nessuna epoca. Che si aspiri alla considerazione è, a rigore, comprensibile; ma quando non c’è nessuno davanti al quale si voglia fare bella figura, perché affannarsi a essere qualcuno, anzi perché affannarsi a essere?
Dopo aver sperato che il nostro nome sia scolpito attorno al sole, cadiamo nell’altro estremo, e auspichiamo che sia cancellato ovunque e scompaia per sempre. La nostra smania di affermarci non aveva limiti? Non ne avrà neanche quella di cancellarci. Spingendo fino all’eroismo la volontà di rinuncia, noi impieghiamo le nostre energie ad accrescere la nostra oscurità, a cancellare finanche la minima traccia del nostro passaggio, il minimo ricordo del nostro respiro. Odiamo chiunque si attacchi a noi, conti su di noi o attenda qualcosa da noi. La sola concessione che possiamo ancora fare agli altri è di deluderli. Ad ogni modo, essi non potranno capire il nostro desiderio di sfuggire al sovraffaticamento dell’io, di arrestarci sulla soglia della coscienza e di non penetrarvi mai, di acquattarci nel più profondo del silenzio primordiale, nella beatitudine inarticolata, nel dolce stupore in cui giaceva la creazione prima del frastuono del verbo. Questo bisogno di nasconderci, di farla finita con la luce, di essere gli ultimi in tutto, questi accessi di modestia in cui, rivaleggiando con le talpe, le accusiamo di ostentazione, questa nostalgia del non nato e del non nominato – sono tutte modalità per liquidare l’esperienza dell’evoluzione e ritrovare, con un balzo all’indietro, l’istante che precedette l’inizio del divenire.
Quando ci si fa un’alta opinione del riserbo, e si considerano con disprezzo le parole del meno riservato dei moderni: «Per tutta la vita ho sacrificato tutto, tranquillità, interesse, felicità, alla mia vocazione» – non senza soddisfazione ci si figura, agli antipodi, l’accanimento del disilluso che, per non lasciare traccia di sé, orienta le sue iniziative verso un unico scopo: distruggere la propria identità, volatilizzare il proprio io.
Così veemente è il suo desiderio di passare inosservato, che egli erige l’Insignificanza a sistema, a divinità, e s’inginocchia dinanzi ad essa. Non esistere più per nessuno, vivere come se non si fosse mai vissuti, bandire l’evento, non avvalersi più di alcun momento né di alcun luogo, svincolarsi per sempre da ogni assoggettamento! Essere liberi significa emanciparsi dalla ricerca di un destino, rinunciare a far parte sia degli eletti sia dei reprobi; essere liberi significa esercitarsi a non essere niente.
Chi ha dato tutto quel che poteva dare offre uno spettacolo più desolante di chi, non avendo né voluto né potuto distinguersi, muore con tutti i suoi doni, reali o supposti, con le sue capacità non sfruttate e i suoi meriti non riconosciuti: la carriera che avrebbe potuto fare, con le sue molteplici prospettive, eccita il gioco della nostra immaginazione; è come se costui fosse ancora vivo, mentre l’altro, fossilizzato nella sua riuscita, perfetto e ributtante, evoca l’immagine di un cadavere. In tutti i campi, ci incuriosiscono solo coloro che, per debolezza o per scrupolo, hanno ritardato indefinitamente il momento in cui dovevano risolversi a eccellere. Il loro vantaggio sugli altri è di aver capito che non ci si realizza impunemente, che si deve pagare per ogni gesto che si aggiunga al puro fatto di vivere. La natura aborre i talenti che abbiamo acquisito a sue spese, aborre persino quelli che ci ha dispensato e che noi abbiamo coltivato indebitamente; essa punisce lo zelo, questa via di perdizione, e ci avverte che è sempre a nostro danno che cerchiamo di distinguerci. C’è forse qualche cosa di più funesto di una sovrabbondanza di qualità, di un cumulo di meriti? Suvvia, coltiviamo le nostre carenze, e non dimentichiamo che si perisce più facilmente per gli eccessi di una virtù che per quelli di un vizio.
Ritenersi noti a Dio, ambire alla sua complicità e alle sue adulazioni, disprezzare tutti i consensi tranne i suoi – quale presunzione e quale forza! Soltanto la religione soddisfa appieno le nostre inclinazioni, buone o cattive che siano.
Tra un uomo che nessun «regno» ignora e un diseredato che possiede soltanto la sua fede, quale dei due, in assoluto, raggiunge il maggior prestigio? Non si può mettere a confronto l’idea che Dio acconsente ad avere di noi e quella che se ne fanno i nostri simili. Senza la volontà di essere apprezzati lassù, senza la certezza di godervi una certa reputazione, non ci sarebbe preghiera.
Il mortale che ha pregato sinceramente, sia pure una sola volta in vita sua, è approdato alla forma suprema della gloria. A quale altro successo potrà ormai aspirare? Giunto ai vertici della sua carriera, compiuta la sua missione quaggiù, potrà riposarsi tranquillamente per il resto dei suoi giorni.
Il privilegio di essere noti a Dio può apparire ad alcuni insufficiente.
Tale lo ritenne comunque il nostro primo antenato che, stanco di celebrità passiva, si mise in testa di incutere soggezione alle creature, e persino al creatore, di cui invidiava non tanto l’onniscienza quanto la pompa, lo sforzo, gli orpelli.
Inconsolabile di dover ricoprire un ruolo di second’ordine, si lanciò per ripicca ed esibizionismo in una serie di prodezze estenuanti – si lanciò nella storia, questa impresa volta non tanto a soppiantare la divinità quanto ad abbagliarla.
Se vogliamo progredire nella conoscenza di noi stessi, nessuno può aiutarci più dello sbruffone: questi si comporta come faremmo noi se non ci trattenesse qualche residuo di timidezza e di pudore; dice ad alta voce ciò che pensa di sé, grida i propri meriti, mentre noi, per mancanza di coraggio, siamo condannati a sussurrare o a tacere i nostri.
Quando lo si sente estasiarsi per ore sulle sue gesta, si freme all’idea che basterebbe un niente perché ciascuno di noi facesse altrettanto.
Siccome egli preferisce se stesso all’universo apertamente, e non in segreto come facciamo noi, non ha alcun motivo di atteggiarsi a incompreso o a reprobo. Poiché nessuno vuole occuparsi di ciò che egli è né di ciò che vale, ci penserà lui. Nei giudizi che darà di sé, nessuna restrizione, insinuazione o sfumatura.
è soddisfatto, appagato, ha trovato quello che tutti inseguono, quello che pochi incontrano.
Com’è invece da compiangere colui che non osa celebrare le sue doti e le sue capacità! Egli esecra chiunque non vi dia importanza e si esecra per il fatto di non poterle esaltare o almeno esibire. Se si abbattesse la barriera dei pregiudizi, se la fanfaronata fosse finalmente ammessa e anzi resa obbligatoria, quale liberazione sarebbe per gli spiriti! La psichiatria non avrebbe più ragion d’essere, se potessimo a nostro piacimento divulgare il bene immenso che pensiamo di noi stessi o se avessimo a tutte le ore del giorno un adulatore a portata di mano. Per felice che sia lo sbruffone, la sua felicità non è però senza incrinature: non sempre egli trova qualcuno disposto ad ascoltarlo; e a ciò che può provare quando è ridotto al silenzio, meglio non pensare.
Per quanto pieni di noi possiamo essere, viviamo in un’acredine inquieta, alla quale potremmo sfuggire solo se le pietre stesse, in un moto di pietà, si decidessero a incensarci.
Fino a quando si ostineranno nel mutismo, non ci resta che crogiolarci nel tormento e ingozzarci di fiele.
Se l’aspirazione alla gloria assume una forma sempre più affannosa, è perché ha preso il posto della fede nell’immortalità. La scomparsa di una chimera tanto inveterata quanto legittima non poteva che lasciare negli animi uno smarrimento, e un’attesa mista a frenesia. Nessuno può rinunciare a un simulacro di perennità, e ancor meno vietarsi di cercarlo dappertutto, in qualsiasi forma di reputazione, a cominciare da quella letteraria. Da quando la morte è apparsa a ognuno come un termine assoluto, tutti scrivono. Donde l’idolatria del successo, e di conseguenza l’asservimento al pubblico, potenza perniciosa e cieca, flagello del secolo, versione immonda della Fatalità.
Con l’eternità sullo sfondo, la gloria poteva avere un senso; non ne ha più alcuno in un mondo dove regna il tempo – dove, per colmo di sventura, il tempo stesso è minacciato. La fragilità universale, che tanto turbava gli Antichi, noi l’accettiamo come un’evidenza che né ci colpisce né ci affligge, e ci aggrappiamo allegramente alle certezze di una celebrità precaria e inconsistente. Aggiungiamo ancora che, se nelle epoche in cui gli uomini erano pochi essere qualcuno poteva presentare un certo interesse, non è più così ora che l’uomo è svalutato.
Su un pianeta invaso dalla carne, alla considerazione di chi mai dovremmo ancora tenere, quando l’idea del prossimo si è svuotata di qualsiasi contenuto e non è più possibile amare la massa umana né in blocco né in dettaglio? Il solo fatto di volersi distinguere è già un sintomo di morte spirituale. L’orrore della gloria procede dall’orrore degli uomini: intercambiabili, essi giustificano con il loro numero l’avversione che si nutre per loro. Non è lontano il tempo in cui bisognerà trovarsi in stato di grazia per potere, non già amarli, cosa impossibile, ma semplicemente sopportarne la vista. Ai tempi in cui provvidenziali pestilenze ripulivano le città, l’individuo, nella sua qualità di sopravvissuto, ispirava a giusto titolo un certo rispetto: era ancora un essere. Ma non vi sono più esseri, non vi è che questo pullulare di moribondi affetti da longevità, tanto più detestabili in quanto sanno organizzare così bene la loro agonia.
A loro preferiamo qualsiasi animale, se non altro perché viene perseguitato da loro, predatori e profanatori del paesaggio un tempo nobilitato dalla presenza delle bestie. Il paradiso è assenza dell’uomo. Più ce ne rendiamo conto, meno giustifichiamo il gesto di Adamo: attorniato da animali, che cos’altro poteva desiderare? E come ha potuto misconoscere la fortuna di non dover affrontare, a ogni momento, quest’ignobile maledizione impressa nei nostri volti? Poiché la serenità non è concepibile prima dell’eclissi della nostra razza, smettiamo intanto di tormentarci per delle inezie, volgiamo lo sguardo altrove, verso quella parte di noi sulla quale nessuno ha potere. Noi vediamo le cose sotto un’altra prospettiva quando, in un confronto con la nostra solitudine più segreta, scopriamo che non vi è realtà se non nel più profondo di noi e che tutto il resto è inganno. A chi si è compenetrato di questa verità, che cosa possono offrire gli altri che già non possegga, e cosa togliergli che sia tale da rattristarlo o da umiliarlo? Non vi è liberazione senza trionfo sull’ignominia e sulla paura dell’ignominia. Il vincitore delle apparenze, per sempre sottratto alle loro seduzioni, deve rendersi superiore non solo agli onori, ma anche all’onore stesso. Senza minimamente curarsi del disprezzo dei suoi simili, saprà portare, in mezzo a loro, una fierezza da dio screditato…
Che sollievo si prova quando ci si crede inaccessibili alla lode e al biasimo, quando non si tiene più a fare bella o brutta figura agli occhi di nessuno! Strano sollievo, segnato da momenti di oppressione, liberazione non disgiunta da disagio.
Per quanti progressi possiamo aver fatto nell’esercizio del distacco, non sapremmo dire tuttavia a che punto siamo con il desiderio di gloria: lo proviamo ancora o siamo completamente insensibili ad esso? La cosa più probabile è che lo abbiamo eluso e che esso continui a tormentarci a nostra insaputa. Trionfiamo su di esso solo in quei momenti di supremo abbattimento, in cui né i vivi né i morti potrebbero riconoscersi in noi… Nelle altre nostre esperienze le cose sono meno semplici perché, fin quando si desidera, si desidera implicitamente la gloria. Pur disincantati su tutto, la desideriamo ancora, poiché l’appetito che ne abbiamo sopravvive allo svanire di tutti gli altri. Chi l’ha assaporata appieno, chi vi ha sguazzato dentro, non potrà più farne a meno e, se non potrà goderne costantemente, cadrà nell’acrimonia, nell’insolenza o nel torpore. Quanto più le nostre deficienze si rivelano, tanto più essa acquista importanza e ci attrae; il vuoto in noi la chiama; e quando non risponde, accettiamo il suo surrogato: la notorietà. Più vi aspiriamo, più ci dibattiamo nell’insolubile: vogliamo vincere il tempo con i mezzi del tempo, durare nell’effimero, approdare all’indistruttibile attraverso la storia e, colmo del ridicolo, farci applaudire da quegli stessi che esecriamo. La nostra disgrazia è di non aver trovato altro, per rimediare alla perdita dell’eternità, che questo inganno, questa pietosa ossessione, di cui potrebbe liberarsi soltanto colui che si insediasse nell’essere. Ma chi è capace di insediarvisi, visto che si è uomini proprio perché non vi si può riuscire?
Credere alla storia significa agognare il possibile, postulare la superiorità qualitativa dell’imminente sull’immediato, ritenere che il divenire sia per se stesso abbastanza ricco da rendere superflua l’eternità.
Si smetta di crederci, e nessun evento avrà più la minima importanza. Ci si interesserà allora soltanto ai limiti estremi del Tempo, non tanto ai suoi inizi quanto al suo compimento, alla sua consumazione, a ciò che verrà dopo, quando l’estinguersi della sete di gloria porterà con sé quella degli appetiti, e l’uomo, libero dall’impulso che lo spingeva in avanti, sollevato dalla sua avventura, vedrà aprirsi dinanzi a sé:un’èra senza desiderio.
Se ci è proibito recuperare l’innocenza primordiale, in compenso possiamo immaginarne un’altra e cercare di accedervi grazie a un sapere privo di perversità, purificato delle sue tare, mutato in profondità, «pentito». Una tale metamorfosi equivarrebbe alla conquista di una seconda innocenza, la quale, sopraggiungendo dopo millenni di dubbio e di lucidità, avrebbe sulla prima il vantaggio di non lasciarsi più catturare dalle malie, ormai logore, del Serpente. Poiché, una volta operatosi il distacco fra scienza e caduta, l’atto del conoscere non lusingherebbe più la vanità di nessuno, non ci sarebbe più alcun piacere demoniaco ad accompagnare l’indiscrezione necessariamente aggressiva dello spirito. Ci comporteremmo come se non avessimo violato alcun mistero, e considereremmo le nostre imprese di qualsiasi genere con distacco, se non con disprezzo. Si tratterebbe, né più né meno, che di ricominciare la Conoscenza, cioè di edificare un’altra storia, una storia liberata dal peso dell’antica maledizione, e in cui ci fosse dato ritrovare quell’impronta divina che portavamo prima della rottura con il resto della creazione. Non possiamo vivere con il sentimento di un errore totale, né con questo marchio d’infamia su tutto ciò che intraprendiamo. Poiché è la nostra corruzione a farci uscire da noi stessi, a renderci operosi e fecondi, la sollecitudine nel produrre ci denuncia, ci accusa. Se le nostre opere testimoniano contro di noi, non è forse perché derivano dal bisogno di camuffare il nostro decadimento, di ingannare gli altri e, ancor più, di ingannare noi stessi? Il fare è intaccato da un vizio originale di cui l’essere sembra privo. E poiché tutto ciò che facciamo deriva dalla perdita dell’innocenza, solo rinnegando i nostri atti e provando disgusto per noi stessi possiamo riscattarci.
Sulla malattia
Quali che siano i suoi meriti, una persona sana delude sempre.
Impossibile dare il minimo credito alle sue parole, cogliere in esse altro che pretesti o virtuosismi. Non possiede l’esperienza del terribile, che sola conferisce un certo spessore ai nostri discorsi, come non possiede l’immaginazione della sventura, senza la quale nessuno potrebbe comunicare con quegli esseri separati che sono i malati; vero è che se la possedesse, non sarebbe più una persona sana. Non avendo nulla da trasmettere, neutra fino alla rinuncia, si accascia nella salute, stato di perfezione insignificante, d’impermeabilità alla morte come a tutto il resto, di disattenzione a sé e al mondo. Finché vi permane, è simile agli oggetti; non appena ne viene strappata, si apre a tutto e sa tutto: onniscienza del terrore.
Carne che si emancipa, che si ribella e non vuole più servire, la malattia è l’apostasia degli organi; ciascuno vuol fare da sé, ciascuno, bruscamente o per gradi, smettendo di stare al gioco, di collaborare con gli altri, si lancia nell’avventura e nel capriccio. Perché la coscienza raggiunga una certa intensità, bisogna che l’organismo patisca e magari si disgreghi: la coscienza, ai suoi inizi, è coscienza degli organi. Quando stiamo bene, li ignoriamo; è la malattia a rivelarceli, a farci capire la loro importanza e la loro fragilità, nonché la nostra dipendenza nei loro confronti. L’insistenza che essa pone nel richiamarci alla loro realtà ha qualcosa di inesorabile; per quanto li si voglia dimenticare, essa non ce lo permette; questa impossibilità dell’oblio, nella quale si esprime il dramma di avere un corpo, riempie lo spazio delle nostre veglie. Durante il sonno, partecipiamo all’anonimato universale, siamo tutti gli esseri; ma non appena ci svegli e ci scuota il dolore, non restiamo che noi, a tu per tu con il nostro male, con i mille pensieri che esso suscita in noi e contro di noi. «Guai a quella carne che dipende dall’anima e guai a quell’anima che dipende dalla carne!» – nel cuore di certe notti afferriamo tutta la portata di queste parole del Vangelo secondo Tomaso. La carne boicotta l’anima, l’anima boicotta la carne; funeste l’una all’altra, esse sono incapaci di coabitare, di elaborare in comune una menzogna salutare, una finzione di grande respiro.
Più la coscienza cresce grazie ai nostri malesseri, più dovremmo sentirci liberi. Ma è vero il contrario. Via via che si accumulano le nostre infermità, cadiamo in balia del nostro corpo, i cui capricci equivalgono ad altrettante sentenze.
è lui che ci dirige e ci governa, è lui che ci detta gli umori; ci sorveglia, ci spia, ci tiene sotto tutela, e mentre ci pieghiamo ai suoi voleri e subiamo un asservimento così umiliante, comprendiamo perché, quando stiamo bene, rifiutiamo l’idea di fatalità: il fatto è che, del nostro corpo, che si fa sentire a malapena, praticamente non percepiamo l’esistenza. Se, nella salute, gli organi sono discreti, nella malattia, impazienti di distinguersi, entrano in concorrenza fra loro e fanno a chi attira di più la nostra attenzione.
Quello che ha la meglio mantiene il vantaggio solo in virtù di un eccesso di zelo; ma è una fatica che lo logora, ed ecco quindi che verrà sostituito da un altro più intraprendente e più vigoroso. La cosa spiacevole di questa rivalità è che si sia costretti a esserne nel contempo oggetti e testimoni.
Come ogni fattore di squilibrio, la malattia scuote, sferza e introduce un elemento di tensione e di conflitto.
La vita è una sollevazione dentro l’inorganico, uno slancio tragico dell’inerte; la vita è la materia animata e, bisogna pur dirlo, rovinata dal dolore. A tanta agitazione, a tanto dinamismo e a tanto affanno, non si sfugge se non aspirando al riposo dell’inorganico, alla pace in seno agli elementi. La volontà di ritornare alla materia costituisce l’essenza stessa del desiderio di morire. Aver paura della morte, invece, è temere questo ritorno, è fuggire il silenzio e l’equilibrio dell’inerte soprattutto l’equilibrio. Niente di più naturale: si tratta di una reazione della vita, e tutto ciò che partecipa della vita è, in senso proprio e in senso figurato, squilibrato.
Ognuno di noi è il prodotto dei suoi mali passati e, se è ansioso, dei suoi mali futuri. Alla malattia vaga, indeterminata, di essere uomo, se ne aggiungono altre, molteplici e precise, che insorgono tutte per avvertirci che la vita è uno stato assoluto di insicurezza, che è provvisoria per definizione, che rappresenta un modo di esistenza accidentale. Ma se la vita è un accidente, l’individuo è accidente di un accidente.
Non esiste guarigione, o piuttosto tutte le malattie di cui siamo «guariti» le portiamo in noi e non ci lasciano mai. Incurabili o no, sono presenti per impedire che il dolore si risolva in una sensazione diffusa: esse lo nutrono, lo organizzano, lo regolamentano… Sono state chiamate le «idee fisse» degli organi. In effetti fanno pensare a organi in preda all’ossessione, non più in grado di sottrarvisi, in balia di turbe mirate, prevedibili, prigionieri di un incubo metodico, monotono come una fissazione.
L’automatismo della malattia è tale che essa non può concepire niente al di fuori di se stessa. Mentre al suo primo manifestarsi arricchisce, in seguito inevitabilmente si ripete, senza per questo diventare, come la noia, simbolo di invariabilità e di sterilità. Bisogna però aggiungere che, a lungo andare, essa non dà più nulla a colui che soffre, se non la conferma quotidiana della sua impossibilità di non soffrire.
Finché si sta bene, non si esiste.
Più esattamente: non si sa di esistere. Il malato insegue il nulla della salute, l’ignoranza di essere: lo esaspera sapere a ogni istante che ha tutto l’universo di fronte, senza alcuna possibilità di farne parte, di perdervisi. Il suo ideale sarebbe quello di dimenticare tutto e, liberato dal peso del proprio passato, risvegliarsi un bel giorno nudo dinanzi all’avvenire. «Non posso più intraprendere nulla, a cominciare da me stesso. Meglio scoppiare o dissolvermi che continuare così» egli si dice. Invidia, disprezza o odia il resto dei mortali, in primo luogo quelli in buona salute. Il dolore inveterato, lungi dal purificare, fa venir fuori tutto ciò che un essere ha di brutto, nel fisico e nel morale.
Regola di condotta: diffidare di chi soffre, temere chiunque sia dovuto rimanere a letto lungamente. Il desiderio segreto del malato è che tutti siano malati, e quello dell’agonizzante che tutti siano in agonia. Ciò che ci auguriamo nelle nostre sventure è che gli altri siano infelici come noi: non di più, soltanto come noi. Perché non dobbiamo lasciarci trarre in inganno: la sola uguaglianza di cui ci importi, e anche la sola di cui siamo capaci, è l’uguaglianza nell’inferno.
Si può spogliare l’uomo, si può sottrargli tutto, se la caverà in un modo o nell’altro. Una sola cosa però non gli si può togliere, perché, se ne viene privato, sarà perduto senza remissione: la facoltà, o meglio la voluttà, di lamentarsi. Se gliela si toglie, non troverà più interesse né gusto nei suoi mali. Egli vi si adatta finché può parlarne e farne sfoggio, soprattutto finché può raccontarli al prossimo per castigarlo di non provarli, di esserne momentaneamente immune. E quando si lamenta, sottintende: «Aspetta aspetta, il tuo turno non tarderà a venire, non vi sfuggirai». Tutti i malati sono dei sadici; ma il loro sadismo è acquisito; è questa la loro unica attenuante.
Cedere, in mezzo ai nostri mali, alla tentazione di pensare che non servano a niente, che senza di essi saremmo andati infinitamente più avanti, significa dimenticare il duplice aspetto della malattia: annientamento e rivelazione; essa non ci sottrae alle nostre apparenze e non le distrugge se non per aprirci meglio alla nostra realtà ultima, e talvolta all’invisibile. D’altro canto, non si può negare che ogni malato sia a suo modo un baro. Se è così attento alle proprie infermità e se ne occupa tanto minuziosamente, è per non pensare alla morte; la elude curandosi. La guardano in faccia solo coloro, rari per la verità, che avendo capito «gli inconvenienti della salute» disdegnano di prendere delle misure per conservarla o riconquistarla. Si lasciano morire lentamente, al contrario degli altri che si agitano e si affannano, e credono di sfuggire alla morte perché:non hanno il tempo di soccombervi.
Nell’equilibrio delle nostre facoltà, ci è impossibile percepire altri mondi; al minimo disordine, ci innalziamo fino ad essi e li sentiamo. è come se, nel reale, si fosse aperta una crepa attraverso la quale intravedessimo un modo di esistere agli antipodi del nostro.
Quest’apertura, per quanto improbabile sia oggettivamente, esitiamo tuttavia a ridurla a un semplice accidente del nostro spirito. Tutto ciò che percepiamo ha valore di realtà dall’attimo in cui l’oggetto percepito, fosse anche immaginario, si incorpora alla nostra vita. Gli angeli, per colui che non può fare a meno di pensarvi, esistono davvero.
Ma, quando li vede, quando immagina che vengano a visitarlo, quale rivoluzione in tutto il suo essere, quale crisi! Mai una persona sana potrebbe sentire la loro presenza e farsene un’idea esatta. Immaginarli significa correre alla propria rovina; vederli, toccarli significa essere perduti. In certe tribù, di chi è in preda alle convulsioni si dice: «Ha gli dèi». «Ha gli angeli» si dovrebbe dire di chi è roso da terrori segreti.
Essere in balia degli angeli o degli dèi, passi ancora; la cosa peggiore è ritenersi, per lunghi periodi, l’uomo più normale che sia mai esistito, immune dalle tare che affliggono gli altri, sottratto alle conseguenze della caduta, inaccessibile alla maledizione, un uomo sano sotto ogni aspetto, continuamente dominato dall’impressione di essersi smarrito in una folla di maniaci e di appestati. Come guarire dall’ossessione dell’assoluta «normalità», come fare per essere un salvato o un decaduto qualunque? La nullità, l’abiezione, qualsiasi cosa, piuttosto che questa perfezione malefica!
Se l’uomo ha potuto separarsi dagli animali, è perché era senz’altro più di loro esposto e ricettivo alle malattie. E se riesce a mantenersi nel suo stato attuale, è perché esse non cessano di aiutarlo; lo circondano più che mai e si moltiplicano, affinché non si creda né solo né diseredato; le malattie vegliano perché egli prosperi, perché in nessun momento abbia la sensazione che non gli si forniscano tribolazioni.
Senza il dolore – come ha ben visto l’autore dei Ricordi dal sottosuolo – non ci sarebbe coscienza. E il dolore, da cui sono colpiti tutti i vivi, è l’unico indizio che permetta di supporre che la coscienza non è una prerogativa dell’uomo. Infliggete una qualche tortura a un animale, contemplate l’espressione del suo sguardo, vi coglierete un lampo che lo proietta per un istante al di sopra della sua condizione. L’animale, quale che sia, nel momento in cui soffre fa un passo verso di noi, si sforza di raggiungerci. Ed è impossibile, finché dura il suo male, rifiutargli un grado, sia pur minimo, di coscienza.
Coscienza non è lucidità. La lucidità, monopolio dell’uomo, rappresenta il punto d’arrivo del processo di rottura fra lo spirito e il mondo; è necessariamente coscienza della coscienza, e se noi ci distinguiamo dalle bestie, il merito o la colpa sono esclusivamente suoi.
Nessun dolore è irreale: il dolore esisterebbe anche se il mondo non esistesse. Quand’anche fosse dimostrato che esso non è di alcuna utilità, potremmo ancora trovargliene una: quella di proiettare una certa sostanza nelle finzioni che ci circondano. Senza il dolore, saremmo tutti dei fantocci, non ci sarebbe più alcun contenuto dove che sia; con la sua sola presenza, esso trasfigura qualsiasi cosa, perfino un concetto.
Tutto ciò che tocca è promosso al rango di ricordo; lascia traccia nella memoria, che dal piacere è solo sfiorata: un uomo che ha sofferto è un uomo segnato (come si dice di un debosciato che è segnato – e a ragione, visto che la dissolutezza è sofferenza). Il dolore dà coerenza alle nostre sensazioni e unità al nostro io, e resta, una volta abolite le nostre certezze, la sola speranza di sfuggire al naufragio metafisico.
Bisogna ora spingerci oltre e, conferendogli uno statuto impersonale, sostenere, con il buddhismo, che solo la sofferenza esiste, e che non esistono sofferenti? Se il dolore possiede il privilegio di sussistere per virtù propria e il «sé» si riduce a un’illusione, ci si chiede allora chi soffra e quale senso possa mai avere questo svolgimento meccanico al quale il dolore è ridotto. Si direbbe che il buddhismo vede dappertutto il dolore solo per svalutarlo meglio. Ma noi, anche quando ammettiamo che esiste indipendentemente da noi, non possiamo immaginarci senza di esso né separarlo da noi stessi, dal nostro essere, di cui è la sostanza, anzi la causa. Come concepire una sensazione in quanto tale, senza il supporto dell’«io», come rappresentarci una sofferenza che non sia «nostra»? Soffrire significa essere totalmente sé, significa accedere a uno stato di non coincidenza con il mondo, giacché la sofferenza è generatrice di intervalli; e quando ci attanaglia, non ci identifichiamo più con nulla, nemmeno con essa; è allora che, doppiamente coscienti, noi vegliamo sulle nostre veglie.
Oltre ai mali che subiamo, che si abbattono su di noi e ai quali più o meno ci adattiamo, ve ne sono altri che ci auguriamo sia per istinto sia per calcolo: una sete insistente li invoca, come se avessimo paura che, cessando di soffrire, non rimarrebbe più nulla a cui aggrapparci. Noi abbiamo bisogno di un elemento rassicurante, attendiamo che ci venga fornita la prova che poggiamo sul solido, che non siamo in pieno vaneggiamento. Il dolore, quale che sia, svolge questo ruolo e, quando lo abbiamo sottomano, sappiamo con certezza che qualcosa esiste. Alla flagrante irrealtà del mondo non si possono opporre che sensazioni; e questo spiega perché, quando ci si persuade che niente ha il minimo fondamento, ci si appiglia a tutto ciò che offra un contenuto positivo, a tutto ciò che faccia soffrire. Colui che è passato per il Vuoto vedrà in ogni sensazione dolorosa un aiuto provvidenziale, e il suo maggior timore sarà di divorarla, di esaurirla troppo in fretta e di ricadere nello stato di spossessamento e di assenza da cui essa lo aveva fatto uscire.
Poiché vive in una lacerazione sterile, egli conosce fino alla nausea la sventura di tormentarsi senza tormenti, di soffrire senza sofferenze; e perciò sogna un susseguirsi di prove determinate, esatte, che lo liberino da quell’incertezza intollerabile, da quel vuoto crocifiggente in cui nulla è proficuo, in cui si procede senza alcun risultato, secondo il ritmo di un lungo supplizio senza oggetto. Il Vuoto, vicolo cieco infinito, aspira a fissarsi dei confini, e proprio per avidità di un limite si getta sul primo dolore che capita, su ogni sensazione suscettibile di strapparlo alle angosce dell’indefinito. Il fatto è che il dolore, circoscritto, nemico del vago, è sempre carico di senso per quanto negativo esso sia -, mentre il Vuoto, troppo vasto, non può contenerne alcuno.
I mali che ci sommergono, i mali involontari, sono di gran lunga più frequenti e più reali degli altri; sono anche quelli dinanzi ai quali ci troviamo più disarmati. Accettarli?
Evitarli? Non sappiamo come reagire, eppure questa sarebbe l’unica cosa importante. Pascal aveva ragione a non dilungarsi sulle malattie, bensì sull’uso che si deve farne. è tuttavia impossibile seguirlo quando ci assicura che «i mali del corpo non sono altro che la punizione e al tempo stesso l’immagine dei mali dell’anima». L’affermazione è così gratuita che, per smentirla, basta guardarsi attorno: con ogni evidenza, la malattia colpisce indistintamente innocenti e colpevoli, anzi mostra una spiccata predilezione per l’innocente; questo, per altro, è nell’ordine delle cose, dato che l’innocenza, la purezza interiore presuppongono quasi sempre una costituzione debole. Decisamente, la Provvidenza non si dà molto pensiero per i delicati. Cause, ben più che riflessi, dei nostri mali spirituali, i mali fisici determinano la nostra visione delle cose e decidono della direzione che prenderanno le nostre idee. La formula di Pascal è vera a patto di capovolgerla.
Nessuna traccia di necessità morale e di equità si rinviene nella distribuzione dei beni e dei mali.
Bisogna esserne irritati e cadere nelle esagerazioni di un Giobbe? è ozioso ribellarsi al dolore. D’altra parte, la rassegnazione non usa più: non rifiuta forse di lusingare e abbellire le nostre miserie? Non si spoetizza l’inferno impunemente. Essa non solo è inattuale ma è anche condannabile: è una virtù che non corrisponde a nessuna delle nostre debolezze.
Non appena si cede a una passione, poco importa se nobile o sordida, si è sicuri di passare di tormento in tormento. L’attitudine stessa a provarne una denota chiaramente che si è predestinati a soffrire. Si ama soltanto perché inconsciamente si è rinunciato alla felicità. L’adagio brahmanico è irrefutabile: «Ogni volta che ci si crea un nuovo legame, un dolore in più ci si conficca, come un chiodo, nel cuore». Tutto quello che accende il nostro sangue, tutto quello che ci dà l’impressione di vivere, di partecipare all’azione, si muta inevitabilmente in sofferenza. Una passione è di per sé un castigo. Colui che vi si abbandona, quand’anche si credesse l’uomo più appagato, espia con l’ansia la sua felicità reale o immaginaria. La passione conferisce dimensioni a ciò che non ne ha, erige un’ombra a idolo o a mostro, pecca contro il vero peso degli esseri e delle cose. Commette anche crudeltà nei confronti sia degli altri sia di se stessa, poiché non la si può provare senza torturare e torturarsi.
A parte l’insensibilità e, a rigore, il disprezzo, tutto è tribolazione, persino il piacere, anzi soprattutto il piacere, che ha la funzione non già di allontanare il dolore, bensì di prepararlo. Ammettendo pure che non miri così in alto e che porti soltanto alla delusione, quale miglior prova delle sue insufficienze, della sua mancanza di intensità, di esistenza!
Vi è in effetti attorno al piacere come un’aria di impostura che non si trova mai intorno al dolore: esso promette tutto e non offre nulla, è della stessa stoffa del desiderio.
Ora, il desiderio non soddisfatto è sofferenza; non è piacere se non durante la soddisfazione; e, una volta soddisfatto, è delusione.
Poiché l’infelicità si è insinuata nel mondo con la sensazione, la cosa migliore sarebbe quella di annientare i nostri sensi e lasciarci cadere in un’abulia divina. Quale pienezza, quale apertura del cuore, quando vagheggiamo la scomparsa dei nostri appetiti! La quiete che pensa se stessa indefinitamente si allontana da ogni orizzonte ostile a questa rimuginazione, da tutto ciò che possa strapparla alla dolcezza del non sentire più nulla. Quando aborriamo ugualmente piaceri e dolori e ne siamo stanchi fino alla nausea, non è la felicità, non è un’altra sensazione quella che noi sogniamo, ma una vita rallentata, fatta di impressioni così impercettibili da sembrare inesistenti. La minima emozione diventa allora un sintomo di insania, e quando ne proviamo una ce ne allarmiamo al punto da gridare aiuto.
Se tutto quello che ci appassiona in un modo o nell’altro è virtualmente sofferenza, dobbiamo concluderne che il minerale è superiore al vivente? In questo caso, l’unica risorsa sarebbe quella di ripristinare al più presto l’imperturbabilità degli elementi.
Bisognerebbe però che fosse possibile.
Non dimentichiamo che per un animale che ha sempre sofferto è incomparabilmente più facile soffrire che non soffrire. E se la condizione del santo è più piacevole di quella del saggio, è perché costa meno crogiolarsi nel dolore che trionfare su di esso con la riflessione o l’orgoglio.
Poiché siamo incapaci di vincere i nostri mali, ci tocca coltivarli e trarne piacere. Questo compiacimento sarebbe parso un’aberrazione agli Antichi, che non ammettevano voluttà superiore a quella di non soffrire.
Meno ragionevoli, noi la pensiamo diversamente, al volgere di venti secoli in cui la convulsione è stata considerata un segno di progresso spirituale. Avvezzi a un Salvatore stravolto, stremato, contratto nella smorfia del dolore, non siamo adatti ad apprezzare la disinvoltura degli dèi antichi o l’inestinguibile sorriso di un Buddha immerso in una beatitudine vegetale. A pensarci bene, non sembra che il Nirvana abbia rubato alle piante il loro segreto essenziale? Noi non accediamo alla liberazione se non prendendo a modello una forma di essere opposta alla nostra.
Amare la sofferenza significa amarsi in modo indebito, non voler perdere nulla di ciò che si è, assaporare le proprie infermità. Più attenzione rivolgiamo alle nostre, più ci piace rimuginare l’interrogativo: «Come è stato possibile l’uomo?».
Nell’inventario dei fattori responsabili della sua nascita, la malattia viene al primo posto. Ma perché potesse nascere veramente, ai suoi mali dovettero aggiungersene altri venuti da altrove, dato che la coscienza è il coronamento di un numero vertiginoso di impulsi ritardati e raffrenati, di contrarietà e di prove subite dalla nostra specie, da tutte le specie. E l’uomo, dopo aver tratto profitto da queste infinite prove, fa del suo meglio per giustificarle, per dare loro un senso.
«Non sono state inutili, hanno preparato e annunciato le mie, più varie e intollerabili delle vostre» dice a tutti gli altri esseri viventi per consolarli di non arrivare a tormenti eccezionali quanto i propri.
La paura più antica.
:A proposito di Tolstoj
La natura si è mostrata generosa soltanto verso coloro che ha dispensato dal pensare alla morte. Gli altri li ha lasciati in balia della paura che di tutte è la più antica e la più corrosiva senza offrir loro, e nemmeno suggerire, i mezzi per guarirne. Se è normale morire, non lo è indugiare troppo sulla morte e pensarci a ogni occasione. Colui che non ne distoglie mai la mente dà prova di egoismo e di vanità; poiché vive in funzione dell’immagine che gli altri si fanno di lui, non può accettare l’idea che un giorno non sarà più niente; poiché l’oblio è il suo incubo di ogni istante, egli è aggressivo e bilioso, e non perde occasione per far mostra del suo astio e delle sue cattive maniere. Non c’è un po’ di ineleganza nel temere la morte? Questo timore, che rode gli ambiziosi, non intacca i puri: li sfiora senza raggiungerli. Gli altri lo subiscono con fastidio e portano rancore a tutti quelli che non lo provano. Mai Tolstoj perdonerà loro la fortuna che hanno di non conoscere tale timore, e li punirà infliggendoglielo, descrivendolo con una minuziosità che lo rende ripugnante e contagioso nello stesso tempo. La sua arte consisterà nel fare di ogni agonia l’agonia per eccellenza e nell’obbligare il lettore a ripetere a se stesso, sgomento e affascinato: «è così che si muore».
Nello scenario intercambiabile, nel mondo convenzionale in cui vive Ivan Ilic, irrompe la malattia. Sulle prime egli crede che si tratti di un malessere passeggero, di un’indisposizione senza conseguenze; un po’ alla volta, afflitto da sofferenze sempre più precise e presto intollerabili, capisce la gravità del suo caso e si perde d’animo. «A Ivan Ilic in certi momenti, dopo lunghe sofferenze, sarebbe oltremodo piaciuto – per quanto vergognoso fosse il riconoscerlo – che qualcuno lo compassionasse come un bimbo malato.
Gli sarebbe piaciuto che l’avessero accarezzato, baciato, che avessero pianto per lui, come appunto si accarezzano e si consolano i piccini.
Sapeva d’essere un grave magistrato, d’aver la barba grigia, e che perciò la cosa era impossibile; ma pure gli sarebbe piaciuto». La crudeltà, almeno in letteratura, è segno di elezione.
Più uno scrittore è dotato, più si ingegna a mettere i suoi personaggi in situazioni senza via d’uscita; li perseguita, li tiranneggia, li chiude in un vicolo cieco, li costringe a percorrere tutte le fasi dell’agonia.
Più che crudeltà, ci vuole ferocia per insistere sull’insorgere dell’incurabile in mezzo all’insignificanza, sulla minima sfumatura dell’orrore toccato in sorte a un individuo banale travolto dalla calamità. «A un tratto sentì il solito dolore, fitto, ostinato, sordo».
Tolstoj, così avaro di aggettivi, ne trova tre per caratterizzare una sensazione, sia pure dolorosa. Poiché la carne gli appare come una realtà fragile e tuttavia terrificante, come la grande dispensatrice di terrori, giustamente egli considera il fenomeno della morte a partire da essa. Non ci sono epiloghi nell’assoluto, indipendentemente dai nostri organi e dai nostri mali. Come spegnersi all’interno di un sistema? E come marcire? La metafisica non lascia nessuno spazio al cadavere. Né, d’altra parte, all’essere vivente. Più si diventa astratti e impersonali, a causa di concetti o pregiudizi che siano (i filosofi e gli spiriti comuni si muovono ugualmente nell’irreale), più la morte prossima, immediata, sembra inconcepibile. Senza la malattia, Ivan Ilic, persona affatto ordinaria, non avrebbe alcun rilievo, alcuna consistenza. Nel distruggerlo, essa gli conferisce una dimensione d’essere. Presto egli non sarà più niente; non era niente neanche prima della malattia; egli è soltanto nell’intervallo che intercorre fra il vuoto della salute e quello della morte, non esiste se non per il tempo in cui sta morendo. Che cos’era dunque prima? Un fantoccio irretito da simulacri, un magistrato che credeva nella professione e nella famiglia.
Ricredutosi ormai sulle sue false illusioni, capisce che fino alla comparsa del male aveva perso il tempo in futilità. Dei tanti anni che ha vissuto rimarranno solo le poche settimane in cui ha sofferto e nel corso delle quali la malattia gli ha rivelato realtà prima insospettate.
:La vera vita comincia e finisce con l’agonia, è l’insegnamento che si trae dall’esperienza di Ivan Ilic, come da quella di Brechunov in Padrone e servo. Poiché la salvezza coincide per noi con il momento della scomparsa, dobbiamo mantenere viva in noi la superstizione dei nostri ultimi istanti: solo questi, secondo Tolstoj, ci libereranno dall’antica paura, solo questi ce la faranno vincere. Essa ci avvelena, è la nostra piaga; se vogliamo guarirne, dobbiamo aver pazienza, dobbiamo aspettare. Pochi saggi ratificheranno questa conclusione; giacché aspirare alla saggezza significa voler vincere quella paura senza indugi.
Se Tolstoj è sempre stato tormentato dall’idea della morte, essa divenne per lui un problema angoscioso solo con la crisi che attraversò verso la cinquantina, quando, sgomento, cominciò a interrogarsi sul «senso» della vita. Ma la vita, non appena si sia ossessionati dal significato che può avere, si disgrega, si sgretola: e questo getta luce su quello che essa è, su quello che vale, sulla sua sostanza gracile e improbabile. Si dovrà sostenere assieme a Goethe che il senso della vita risiede nella vita stessa? Colui che è assillato da questo problema difficilmente potrà essere d’accordo, per la buona ragione che il suo assillo ha inizio appunto con la rivelazione del non senso della vita.
Si è cercato di spiegare la crisi e la «conversione» di Tolstoj con l’esaurirsi del suo talento. La spiegazione non regge. Alcune opere dell’ultimo periodo, come:La morte di:Ivan Ilic, Padrone e servo, Padre Sergio, Il diavolo, hanno una densità e una profondità di cui non avrebbe potuto dar prova un genio inaridito. Non ci fu inaridimento in lui, bensì spostamento del centro di interesse. Poiché gli ripugnava indagare ancora la vita esteriore degli esseri, egli scelse di prenderli in considerazione solo a partire dal momento in cui, soggetti anch’essi a una crisi, erano spinti a rompere con le finzioni in cui avevano vissuto fino ad allora. In tali condizioni non gli era più possibile scrivere grandi romanzi. Il patto con le apparenze che aveva firmato come romanziere, egli lo denuncia e lo rompe, per volgersi verso l’altro lato delle cose. La crisi in cui entrava non era tuttavia così inaspettata, né così radicale, come pensava che fosse quando scriveva: «La mia vita si fermò».
Lungi dall’essere imprevedibile, essa rappresentava in realtà l’esito, l’esasperazione di un’angoscia di cui Tolstoj aveva sempre sofferto. (Se:La morte di Ivan Ilic risale al 1886, tutti i motivi qui trattati si trovano in germe nei Tre morti, che è del 1859). Soltanto che la sua angoscia di prima, naturale perché priva di intensità, era tollerabile, mentre quella che provò dopo lo era a malapena. L’idea della morte, che fin dall’infanzia lo aveva attirato, non ha in sé niente di morboso; non si può dire lo stesso dell’ossessione, approfondimento indebito di quell’idea, che diventa allora funesta all’esercizio della vita. Ciò è senz’altro vero se ci si piega al punto di vista della vita… Ma non si può forse concepire un’esigenza di verità che, di fronte all’ubiquità della morte, rifiuti ogni concessione, così come ogni distinzione tra normale e malato? Se conta solo il fatto di morire, bisogna trarne le conseguenze, senza badare ad alcun’altra considerazione. è questo un modo di vedere che non adotteranno quelli che non smettono di lamentarsi della loro «crisi» – condizione alla quale tendono invece gli sforzi del vero solitario, che mai si abbasserà a dire: «La mia vita si fermò», giacché proprio questo egli cerca, questo insegue. Ma un Tolstoj, ricco e celebre, da tutti ritenuto un uomo appagato, guarda smarrito il crollo delle sue certezze di un tempo e invano si sforza di bandire dall’animo suo la rivelazione recente del non senso che lo invade e lo sommerge. Ciò che stupisce e sconcerta nel suo caso è che, disponendo di una così grande vitalità (lavorava, ci dice lui stesso, otto ore al giorno senza stancarsi e falciava i campi al pari di un contadino), egli si riduca a ricorrere ad artifici per non uccidersi. La vitalità non rappresenta un ostacolo al suicidio: tutto dipende dalla direzione che prende o che le viene data. Egli stesso, d’altronde, constata che la forza da cui era spinto a uccidersi era simile a quella che prima lo teneva attaccato alla vita, con la differenza, soggiunge, che ora si manifestava in senso opposto.
Applicarsi a cogliere le lacune dell’essere, correre alla propria rovina per eccesso di lucidità, crollare e perdersi non sono privilegi da anemici; le nature forti, se solo entrano in conflitto con se stesse, sono più delle altre in grado di patirne; ci mettono anzi tutta la loro foga, tutta la loro frenesia; e sono anche quelle che subiscono crisi nelle quali è da vedere una punizione, giacché non è normale che consacrino la loro energia a divorarsi. Hanno raggiunto l’apice della carriera?
Soffocheranno sotto il peso degli interrogativi insolubili o cadranno in preda a una vertigine, stupida in apparenza ma legittima ed essenziale nella sostanza, come quella che si impadronì di Tolstoj quando, in pieno smarrimento, andava ripetendo a se stesso fino all’ebetudine: «A che scopo?» o «E allora?».
Chi ha fatto un’esperienza analoga a quella dell’Ecclesiaste se ne ricorderà per sempre; le verità che vi avrà attinto sono irrefutabili quanto impraticabili: banalità, evidenze distruttrici dell’equilibrio, luoghi comuni che rendono pazzi. Questa intuizione dell’inanità, che stride così felicemente con le speranze di cui è pieno il Vecchio Testamento, nessuno l’ha avuta, nel mondo moderno, con più chiarezza di Tolstoj. Anche quando, più avanti, si erigerà a riformatore, egli non potrà rispondere a Salomone, l’essere con il quale ha più punti in comune: non erano, tutti e due, grandi sensuali alle prese con un disgusto universale?
Si tratta di un conflitto senza sbocco, di una contraddizione di temperamento, da cui forse deriva la visione della Vanità. Più siamo portati a godere di tutto, più il disgusto si accanisce a impedircelo, e i suoi interventi saranno tanto più vigorosi quanto più la nostra avidità di piaceri sarà stata impaziente. «Tu non godrai di nulla!» questo è l’ordine che esso ci impartisce a ogni incontro, in ogni occasione di oblio.
Esistere acquista sapore soltanto se ci si mantiene in un’ebbrezza gratuita, in quello stato di stordimento senza il quale l’essere non ha niente di positivo. Quando Tolstoj ci assicura che prima della crisi era «ebbro della vita», ciò che si deve intendere è che semplicemente viveva, vale a dire che era alterato come lo è ogni essere vivente in quanto tale. Ma ecco che arriva lo snebbiamento e assume il sembiante della fatalità. Che fare? Si ha di che essere ebbri, ma non si può; nel pieno del vigore, non si è nella vita, non se ne fa più parte; la si trapassa, se ne discerne l’irrealtà, perché lo snebbiamento è chiaroveggenza e risveglio. E a che cosa ci si risveglia, se non alla morte?
Ivan Ilic voleva che provassero pietà per lui e che lo compatissero; più miserabile del suo eroe, Tolstoj si paragona a un uccellino caduto dal nido! Il suo dramma suscita simpatia, sebbene non si possano approvare le ragioni addotte per spiegarlo. La parte «negativa» è in lui assai più interessante dell’altra. Se i suoi interrogativi promanano dal suo intimo essere, lo stesso non si può dire delle sue risposte. Che le perplessità da lui provate durante la crisi sconfinassero nell’intollerabile è un dato di fatto: invece di volersene disfare per questo solo motivo, gli sembra doveroso dirci che, essendo tipiche dei ricchi e degli oziosi e niente affatto dei muzik, esse non hanno la minima portata intrinseca.
Evidentemente, egli sottovaluta i vantaggi della sazietà, la quale consente scoperte negate all’indigenza. Ai ben pasciuti, agli indifferenti si svelano certe verità che a torto vengono chiamate false o temerarie e il cui valore permane anche quando si condanni il genere di vita che le ha fatte nascere. Con quale diritto si respingono a priori quelle dell’Ecclesiaste? Se ci si pone al livello degli atti, sarà difficile – bisogna ammetterlo – aderire al suo disincanto. Ma l’Ecclesiaste non considera che l’atto sia un criterio.
Perciò resta sulle sue posizioni, come gli altri restano sulle loro.
Per giustificare il culto che professa per i muzik, Tolstoj invoca il loro distacco, la loro facilità a separarsi dalla vita senza tanti inutili problemi. Li apprezza, li ama veramente? Li invidia, piuttosto, perché li crede meno complicati di quanto non siano. Immagina che si lascino andare verso la morte, che essa sia per loro un sollievo, che in mezzo a una tempesta di neve si abbandonino come fa Nikita, mentre Brechunov si irrigidisce e si agita.
«Qual è il modo più semplice di morire?» – ecco la domanda che ha dominato la sua maturità e torturato la sua vecchiaia. La semplicità, che mai egli ha smesso di ricercare, in nessuna cosa l’ha trovata, se non nel proprio stile. Quanto a lui, era troppo lacerato per raggiungerla. Come ogni animo tormentato, esasperato e soggiogato dai suoi tormenti, non poteva amare altro che gli alberi e le bestie e, tra gli uomini, solo quelli che per qualche aspetto si avvicinavano agli elementi. A contatto con loro egli sperava – su questo non vi sono dubbi – di sottrarsi ai terrori abituali e di avviarsi verso un’agonia sopportabile e addirittura serena. Rassicurarsi, trovare la pace ad ogni costo, questo solo gli importava. Si capisce adesso perché non era possibile lasciare Ivan Ilic spirare nel disgusto o nello spavento.
«Cercò la sua solita paura e non la trovò più. Dov’è? Ma che morte? Non c’era più paura, perché non c’era più morte.
«Invece della morte, la luce.
«“Dunque è così!” disse d’un tratto ad alta voce. “Che gioia!”».
Né questa gioia né questa luce sono convincenti: esse sono estrinseche, sono accessorie. Stentiamo ad ammettere che siano in grado di attenuare le tenebre in cui si dibatte il morente: nulla, d’altronde, lo preparava a questo giubilo, che non ha alcun rapporto con la sua mediocrità né con la solitudine in cui è ridotto.
D’altro canto, la descrizione della sua agonia è così minuziosamente esatta da essere opprimente, e sarebbe stato quasi impossibile concluderla senza mutare tono e piano. «Finita la morte, si disse, essa non è più».
Anche il principe Andrea voleva persuadersene. «L’amore è Dio, e morire significa per me, frammento di questo amore, ritornare al grande tutto, alla fonte eterna». Più scettico sulle divagazioni finali del principe Andrea di quanto non sarà più tardi su quelle di Ivan Ilic, Tolstoj soggiunge: «Questi pensieri gli parevano consolanti; ma non erano che pensieri… avevano qualcosa di unilaterale, di individuale, di puramente razionale; erano privi di evidenza». Sfortunatamente quelli del povero Ivan Ilic non lo saranno di meno. Ma da Guerra e pace Tolstoj ha fatto molta strada: è arrivato a uno stadio in cui ad ogni costo deve elaborare una formula di salvezza e aggrapparvisi. Quella luce e quella gioia posticce, come non sentire che le sognava per sé e che, al pari della semplicità, gli erano negate? Non meno sognate sono le ultime parole che fa pronunciare al suo eroe sulla fine della morte. Si paragoni a questa fine che tale non è, a questo trionfo convenzionale e voluto, l’odio così reale, così vero che l’eroe prova per la propria famiglia: «E quando al mattino venne il domestico, e poi la moglie, e poi la figlia, e poi il dottore, ogni loro gesto, ogni loro parola gli avevano confermato l’orribile verità che gli si era aperta la notte. In loro vedeva se stesso, le cose di cui aveva vissuto; e chiaramente intendeva che tutto ciò non era quello che avrebbe dovuto essere, ma solo un enorme, uno spaventoso inganno che nascondeva la vita e la morte. E questo senso aumentava, decuplicava le sue sofferenze fisiche. Egli gemeva, smaniava, si strappava le vesti di dosso. Gli pareva di essere soffocato e schiacciato. E odiava loro per questo».
L’odio non porta alla liberazione, e non si vede come dall’orrore di sé e di tutto si possa fare un balzo in quella zona di purezza dove la morte è superata, «finita». Odiare il mondo e odiarsi vuol dire prestare troppo credito al mondo e a se stessi, rendersi inadatti ad affrancarsi da entrambi. L’odio di sé specialmente testimonia un’illusione capitale.
Poiché si odiava, Tolstoj immaginava di aver smesso di vivere nella menzogna. Ora, a meno di votarsi alla rinuncia (cosa di cui lui era incapace), non si può vivere se non mentendo e mentendosi. è quanto egli fece, d’altronde: non è forse una menzogna affermare tremando che si sono vinte la morte e la paura della morte? Questo sensuale che incrimina i sensi, che si è sempre rivoltato contro di sé, che amava reprimere le proprie inclinazioni, si accanì con un ardore perverso a seguire una strada opposta a ciò che egli era. Un bisogno voluttuoso di torturarsi lo spingeva verso l’insolubile. Era scrittore, il più grande del suo tempo; invece di trarne un po’ di soddisfazione, si inventò una vocazione, quella dell’uomo dabbene, del tutto estranea ai suoi gusti. Cominciò a interessarsi ai poveri, a soccorrerli, a dolersi della loro condizione, ma la sua pietà, di volta in volta cupa o indiscreta, non era che una forma del suo orrore per il mondo. La cupezza, il suo tratto dominante, si incontra in coloro che, persuasi di aver sbagliato strada e di aver mancato la loro vera meta, non si rassegnano a essere rimasti al di sotto di se stessi. Malgrado l’opera considerevole che aveva creato, ebbe questo sentimento; tale opera, non dimentichiamolo, egli era arrivato a considerarla frivola, anzi nociva; l’aveva realizzata, ma non si era realizzato lui. Causa della sua cupezza era la distanza che separava il suo successo letterario dalla sua incompiutezza spirituale.
Sakyamuni, Salomone, Schopenhauer: di questi tre malinconici, che Tolstoj cita spesso, fu il primo ad andare più lontano, e a lui avrebbe senz’altro voluto assomigliare di più: ci sarebbe riuscito se il disgusto del mondo e di sé bastasse a far accedere al Nirvana.
E poi il Buddha abbandonò da giovane la famiglia (non ce lo immaginiamo invischiato in un dramma coniugale, irrisoluto e tetro, abbarbicato alla moglie e ai figli che detesta perché gli impediscono di eseguire il suo grande disegno), mentre Tolstoj doveva arrivare alla decrepitezza per intraprendere una fuga spettacolare e penosa. Se la discrepanza fra la sua dottrina e la sua vita lo addolorava, non aveva tuttavia la forza di porvi rimedio. Come avrebbe potuto, vista l’incompatibilità fra le grandi cose cui aspirava e i suoi istinti profondi? Per misurare l’entità dei suoi conflitti (quali si rivelano particolarmente in Padre Sergio), è importante segnalare che egli si sforzava in segreto di imitare i santi e che, di tutte le sue ambizioni, questa fu la più imprudente. Proponendosi un modello così sproporzionato ai suoi mezzi, si infliggeva inevitabilmente una delusione supplementare. Avrebbe dovuto meditare su quel versetto della Bhagavadgita, secondo il quale meglio è perire nella propria legge che seguire quella altrui! E proprio per aver cercato la salvezza fuori del suo tracciato, nel cosiddetto periodo della sua «rigenerazione», fu anche più infelice di prima. Con un orgoglio come il suo, non doveva accanirsi nella carità: più vi mirava, più si incupiva. La sua radicale incapacità di amare, unita a una gelida chiaroveggenza, spiega perché gettasse su tutte le cose, e in particolare sui suoi personaggi, uno sguardo senza complicità. «Leggendo le sue opere, non una volta si ha voglia di ridere o di sorridere» notava un critico russo verso la fine del secolo scorso. In compenso, non si è capito nulla di Dostoevski; se non si sente che l’umorismo è la sua qualità maggiore: si entusiasma, perde il controllo e, poiché non è mai freddo, raggiunge quel grado di esaltazione in cui, trasfigurato il reale, la paura della morte non ha più senso perché ci si è innalzati al di sopra di essa. Egli l’ha superata, l’ha vinta, come si addice a un visionario, e sarebbe stato assolutamente incapace di descrivere un’agonia con quella precisione clinica in cui eccelle Tolstoj. Bisogna anche dire che quest’ultimo è un clinico sui generis: non analizza mai altro che i propri mali e, quando li cura, ci mette tutta l’acutezza e tutta la vigilanza dei suoi terrori.
Spesso lo si è fatto notare: Dostoevskij, malato e senza denaro, finì la sua carriera nell’apoteosi (il discorso su Puskin!), mentre Tolstoj, assai più favorito dalla sorte, doveva finire nella disperazione. A ben riflettere, il contrasto che presenta il diverso epilogo delle loro esistenze è del tutto nell’ordine delle cose. Dostoevskij, dopo le rivolte e le prove della sua giovinezza, non pensava che a servire; si riconciliò, se non con l’universo, almeno con il suo paese, di cui accettò e giustificò gli abusi: credeva che alla Russia spettasse svolgere un grande ruolo, che essa dovesse addirittura salvare l’umanità.
Il cospiratore di un tempo, ormai integrato e placato, poteva senza impostura difendere la Chiesa e lo Stato; ad ogni modo, non era più solo. Tolstoj, invece, lo diventerà sempre di più. Sprofonda nella desolazione e, se parla tanto di una «vita nuova», è perché la vita stessa gli sfugge. Egli crede di svecchiare la religione, ma in realtà la scalza.
Combatte le ingiustizie? Va più lontano degli anarchici, e le formule che propone sono di un’oltranza demoniaca o risibile. Ciò che tradiscono tanta dismisura e tanta negazione è la vendetta di uno spirito che non ha mai potuto abituarsi all’umiliazione di morire.
I pericoli della saggezza
Quando si vede quale rilevanza assumano le apparenze per la coscienza normale, è impossibile sottoscrivere la tesi del Vedanta, secondo la quale «la non distinzione è lo stato naturale dell’anima». Ciò che si intende qui per stato naturale è lo stato di veglia, quello appunto che non è in alcun modo naturale. Il vivente percepisce esistenza ovunque; non appena è sveglio, non appena cessa di essere natura, comincia a scorgere il falso nell’apparente, l’apparente nel reale, finendo col ritenere sospetta l’idea stessa di reale. Non più distinzioni, dunque non più tensione né dramma. Contemplato troppo dall’alto, il regno della diversità e del molteplice svanisce. A un certo livello della conoscenza, solo il non essere resiste.
Si vive soltanto per difetto di sapere. Non appena si sa, non si è più in armonia con niente. Finché siamo nell’ignoranza, le apparenze prosperano e serbano un’ombra di inviolabilità che ci permette di amarle e di odiarle, di avere a che fare con esse. Ma come misurarci con dei fantasmi? Tali esse diventano quando, disingannati, non possiamo più promuoverle al rango di essenze. Il sapere, o piuttosto il risveglio, suscita fra noi e le apparenze uno iato che, sfortunatamente, non è conflittuale; se lo fosse, tutto andrebbe per il meglio; ma non lo è: al contrario, è la soppressione di tutti i conflitti, l’abolizione funesta del tragico.
All’opposto di ciò che afferma il Vedanta, l’anima è naturalmente portata alla molteplicità e alla differenziazione: essa sboccia soltanto in mezzo ai simulacri e appassisce se li smaschera e se ne distacca. Risvegliata, si priva dei suoi poteri e non può né avviare né sostenere il minimo processo creativo.
Dato che la liberazione è agli antipodi dell’ispirazione, votarsi ad essa equivale, per uno scrittore, a una rinuncia, anzi a un suicidio. Se vuole produrre, segua le sue buone e le sue cattive inclinazioni, soprattutto quelle cattive; se se ne emancipa, si allontana da se stesso: le sue miserie sono le sue possibilità. Il modo per lui più sicuro di sprecare i propri doni è porsi al di sopra del successo e del fallimento, del piacere e del dolore, della vita e della morte. Se vuole affrancarsene, si troverà, un bel giorno, esterno al mondo e a se stesso, capace a malapena di concepire ancora qualche progetto, ma sconvolto all’idea di metterlo in esecuzione. Al di là dello scrittore, il fenomeno ha una portata generale: chiunque miri all’efficacia deve operare una separazione totale fra vivere e morire, inasprire il dissidio fra le coppie dei contrari, moltiplicare abusivamente l’irriducibile, abbandonarsi all’antinomia, insomma restare alla superficie delle cose.
Produrre, «creare», significa vietarsi la chiaroveggenza, avere il coraggio o la fortuna di non percepire la menzogna della diversità, il carattere ingannevole del molteplice. Un’opera è realizzabile soltanto se ci inganniamo sulle apparenze; non appena cessiamo di attribuire loro una dimensione metafisica, perdiamo tutte le nostre possibilità.
Niente stimola tanto quanto ingrandire dei nonnulla, mantenere false opposizioni e risolvere conflitti laddove non ne esistono. Se ci rifiutassimo di farlo, la conseguenza sarebbe una sterilità universale. Solo l’illusione è fertile, solo essa è origine. è in sua virtù che si dà vita, che si genera (in tutti i sensi) e che si partecipa al sogno della diversità.
Per quanto irreale sia la distanza che ci separa dall’assoluto, la nostra esistenza è questa irrealtà stessa, dato che la distanza in questione non appare per nulla ingannevole ai devoti dell’atto. Più ci ancoriamo alle apparenze, più siamo fecondi: fare un’opera significa sposare tutte queste incompatibilità, tutte queste opposizioni fittizie che estasiano gli spiriti inquieti. Meglio di chiunque altro, lo scrittore dovrebbe sapere quanto deve a queste parvenze, a questi inganni, e guardarsi bene dal perdere la curiosità nei loro confronti: se li trascura o li denuncia, si taglia l’erba sotto i piedi, sopprime i propri materiali, non ha più niente su cui esercitarsi.
E se in seguito si volgerà verso l’assoluto, vi troverà, nel migliore dei casi, la dilettazione nell’ebetudine.
Solo un dio avido di imperfezione in sé e fuori di sé, solo un dio devastato poteva immaginare e realizzare la creazione; solo un essere così esacerbato può aspirare a un’operazione del genere. Se tra i fattori di sterilità viene per prima la saggezza, è perché essa si adopera a riconciliarci con il mondo e con noi stessi: la saggezza è la maggior disgrazia che si possa abbattere sulle nostre ambizioni e sui nostri talenti, perché li modera, vale a dire li distrugge, e attenta alle nostre profondità, ai nostri segreti perseguitando, tra le nostre facoltà, quelle che sono felicemente sinistre, e ci mina e ci sommerge, compromettendo tutti i nostri difetti.
Abbiamo attentato ai nostri desideri, compromesso e soffocato i nostri legami e le nostre passioni?
Malediremo coloro che a questo ci hanno incoraggiati, in primo luogo il saggio che è in noi, il nostro più temibile nemico, colpevole di averci guariti da tutto senza averci tolto il rimpianto di niente. Sconfinato è lo smarrimento di colui che sospira al ricordo delle sue infatuazioni di un tempo e che, inconsolabile di averle vinte, si vede soccombere al veleno della quiete. Una volta che si sia percepita l’inconsistenza di tutti i desideri, ci vuole uno sforzo di obnubilazione sovrumano, ci vuole santità, per poterli provare di nuovo e abbandonarvisi senza secondi fini.
Il detrattore della saggezza, che per di più fosse credente, non smetterebbe di ripetere: «Signore, aiutatemi a decadere, a sguazzare in tutti gli errori e in tutti i crimini, ispiratemi parole che vi brucino e mi divorino, che ci riducano in cenere».
Non si può sapere cosa sia la nostalgia della decadenza se non si è provata quella della purezza fino alla nausea. Quando si è pensato troppo al paradiso e si è avuta dimestichezza con l’aldilà, si arriva all’irritazione e al tedio. Il disgusto dell’altro mondo porta all’ossessione amorosa dell’inferno.
Senza questa ossessione, le religioni, in ciò che hanno di veramente sotterraneo, sarebbero incomprensibili. Repulsione per gli eletti, attrazione per i reprobi: questo il duplice impulso di tutti coloro che sognano le loro follie di un tempo, e che commetterebbero qualsiasi peccato pur di non dover percorrere «il cammino della perfezione». Si disperano nel constatare i progressi che hanno compiuto in fatto di distacco, mentre sembravano non esservi affatto portati. Nelle Domande di Milinda, il re Menandro chiede all’asceta Nagasena che cosa distingua l’uomo senza passione dall’uomo appassionato: «L’uomo appassionato, oh re, quando mangia, gusta il sapore e la passione del sapore; l’uomo senza passione gusta il sapore, ma non la passione del sapore». Tutto il segreto della vita e dell’arte, tutto il quaggiù, risiede in questa «passione del sapore». Quando non la sentiamo più, non ci rimane, nella nostra miseria, che la risorsa di un sorriso sterminatore.
Avanzare nel distacco significa privarci di ogni nostra ragione di agire; significa, perdendo il beneficio dei difetti e dei vizi, affondare in quello stato che si chiama melanconia – assenza conseguente allo svanire degli appetiti, ansia degenerata in indifferenza, inabissamento nella neutralità. Se, nella saggezza, ci si pone al di sopra della vita e della morte, nella melanconia (in quanto fallimento della saggezza) si cade invece al di sotto di esse. Proprio qui si compie il livellamento delle apparenze, l’invalidamento della diversità. Le conseguenze sono spaventose, specialmente per lo scrittore, giacché, se tutti gli aspetti del mondo si equivalgono, egli non potrà propendere per l’uno piuttosto che per l’altro; donde l’impossibilità per lui di scegliere un soggetto: quale preferire se gli oggetti stessi sono intercambiabili e indistinti? Da questo deserto perfetto l’essere stesso è bandito in quanto troppo pittoresco. Siamo nel cuore dell’indifferenziato, dell’Uno tetro e senza spiragli, in cui, al posto dell’illusione, si spande un’illuminazione prostrata, nella quale tutto ci è rivelato; ma questa rivelazione è così contraria a noi che pensiamo soltanto a dimenticarla.
Nessuno può andare avanti con quello che sa, con quello che conosce, e meno di tutti l’uomo della malinconia; egli vive nel mezzo di una greve irrealtà: la non esistenza delle cose gli pesa.
Per realizzarsi, per poter anche soltanto respirare, dovrà affrancarsi dalla sua scienza. è così che concepisce la salvezza attraverso il non sapere. Vi accederà soltanto accanendosi contro lo spirito di disinteresse e di obiettività. Un giudizio «soggettivo», parziale, mal fondato costituisce una fonte di dinamismo: sul piano dell’atto, solo il falso è carico di realtà – ma quando siamo condannati a una visione esatta di noi stessi e del mondo, a che cosa possiamo mai aderire, e su che cosa pronunciarci ancora?
C’era un folle in noi; il saggio lo ha cacciato. Con lui se n’è andato ciò che possedevamo di più prezioso, ciò che ci faceva accettare le apparenze senza dover praticare a ogni piè sospinto quella discriminazione tra il reale e l’illusorio così rovinosa per esse. Finché lui era lì, non avevamo nulla da temere, e neanche le apparenze che, miracolo ininterrotto, si trasformavano in cose sotto i nostri occhi. Una volta scomparso lui, esse si declassano e ricadono nella loro indigenza primitiva. Il folle che era in noi conferiva qualcosa di piccante all’esistenza, era lui stesso l’esistenza. Ora non abbiamo più nessun interesse, nessun punto d’appoggio. La vera vertigine è l’assenza della follia.
Realizzarsi vuol dire votarsi all’ebbrezza del molteplice. Nell’Uno nulla conta se non l’Uno stesso.
Spezziamolo dunque, se ci teniamo a sfuggire alla malia dell’indifferenza, se vogliamo porre fine alla monotonia in noi e fuori di noi. Tutto ciò che scintilla sulla faccia della terra, tutto ciò che viene qualificato come interessante, è frutto di ebbrezza e di ignoranza. Appena smaltita la sbornia, scorgiamo ovunque solo ripetitività e desolazione.
Nata dall’accecamento, la diversità si disfa a contatto con la melanconia, che è sapere folgorato, gusto perverso dell’identità e orrore del nuovo.
Quando questo orrore s’impadronisce di noi e non c’è avvenimento che non ci paia al tempo stesso impenetrabile e irrisorio, né mutamento di qualsivoglia ordine che non rientri nel mistero e nella farsa, non a Dio pensiamo, bensì alla deità, all’essenza immutabile che non si degna di creare, e nemmeno di esistere, e che, con la sua assenza di determinazione, prefigura quell’istante indefinito e senza sostanza, simbolo della nostra incompiutezza. Se il Destino, come testimonia l’antichità, ama distruggere tutto ciò che si eleva, la melanconia sarebbe il prezzo che l’uomo deve pagare per la propria elevazione. Ma, al di là dell’uomo, la melanconia colpisce, seppure in minor misura, ogni essere vivente che in un modo o nell’altro si discosti dalle proprie origini. La Vita stessa vi è esposta non appena rallenti la propria andatura e si calmi la frenesia che la sostiene e la anima. Che cos’è la Vita, in ultima istanza, se non un fenomeno di rabbia? Rabbia benedetta, alla quale è importante abbandonarsi. Non appena ci prende, i nostri impulsi inappagati si risvegliano: più sono stati tenuti a freno, più si scatenano. Malgrado i suoi lati desolanti, lo spettacolo che allora offriamo dimostra che stiamo ritornando alla nostra vera condizione, alla nostra natura, per quanto spregevole e perfino odiosa questa possa essere. è preferibile essere abbietti senza sforzo che «nobili» per imitazione o persuasione.
Poiché un vizio innato è migliore di una virtù acquisita, si prova necessariamente imbarazzo davanti a coloro che non si accettano, davanti al monaco, al profeta, al filantropo, all’avaro che si impone lo spreco, all’ambizioso che si rassegna, all’arrogante che vuole essere gentile, davanti a tutti quelli che si dominano, incluso il saggio, l’uomo che si controlla e si reprime, che non è mai se stesso. La virtù acquisita è come un corpo estraneo; non ci piace negli altri e non ci piace in noi: è una vittoria su di sé che ci perseguita, un successo che ci accascia e ci fa soffrire anche quando ne traiamo vanto. Ciascuno si contenti di ciò che è: volersi migliorare non è avere il gusto della tortura e dell’infelicità?
Non c’è libro edificante, e neppure cinico, in cui non si insista sui misfatti della collera: questo cimento, questa gloria della rabbia.
Quando il sangue affluisce al cervello e cominciamo a tremare, in un attimo si annulla l’effetto di giorni e giorni di meditazioni. Niente è più ridicolo e più degradante di un tale accesso, inevitabilmente sproporzionato alla causa che lo ha scatenato; tuttavia, passato l’accesso, ne dimentichiamo finanche il pretesto, mentre un furore che sia stato soffocato ci tormenta fino al nostro ultimo respiro. Lo stesso accade con le umiliazioni che ci sono state inflitte e che abbiamo subìto «dignitosamente». Davanti all’affronto che ci è stato fatto, se, meditando rappresaglie, abbiamo oscillato fra lo schiaffo e il colpo di grazia, questa oscillazione, facendoci perdere un tempo prezioso, avrà per ciò stesso consacrato la nostra viltà. è un tentennamento dalle conseguenze pesanti, uno sbaglio che ci opprime, mentre un’esplosione, anche finita nel grottesco, ci avrebbe dato sollievo.
Penosa quanto necessaria, la collera ci impedisce di cadere in preda a ossessioni e ci risparmia il rischio di complicazioni serie: proprio una crisi di demenza ci preserva dalla demenza. Finché possiamo contare su di essa, sulla sua comparsa regolare, il nostro equilibrio è assicurato, così come la nostra vergogna. Che essa sia un ostacolo all’avanzamento spirituale, sarà facile convenirne; ma per lo scrittore (dato che è appunto il suo caso che esaminiamo qui) non è bene, anzi è pericoloso padroneggiare i propri moti di stizza. Faccia dunque del suo meglio per preservarli, pena la morte letteraria.
Nella collera, ci si sente vivere; siccome purtroppo non dura a lungo, bisogna rassegnarsi ai suoi sottoprodotti, che vanno dalla maldicenza alla calunnia, e che comunque offrono maggiori risorse del disprezzo, troppo debole, troppo astratto, privo di calore e di respiro, inadatto a procurare il minimo benessere; quando lo si tralascia, si scopre con meraviglia quanta voluttà c’è nel denigrare gli altri. Si è finalmente sul loro stesso piano, si lotta, non si è più soli.
Prima, li si esaminava per il piacere teorico di trovare il loro punto debole; ora, per colpirli. Forse ci si dovrebbe occupare esclusivamente di sé: è disonorevole, è ignobile giudicare gli altri; eppure è quel che tutti fanno: astenersene sarebbe come mettersi fuori dell’umanità. Poiché l’uomo è un animale astioso, ogni opinione che esprime sui suoi simili è una forma di denigrazione. Non che non possa dirne bene; ma prova un senso di piacere e di forza sensibilmente minore di quando ne dice male. Se li sminuisce e li stronca, non è dunque tanto per nuocere loro quanto per salvaguardare i propri residui di collera, i propri residui di vitalità, per sfuggire agli effetti debilitanti che si porta dietro una lunga pratica del disprezzo.
Il calunniatore non è il solo a trarre profitto dalla calunnia; essa serve altrettanto, se non di più, al calunniato, sempre a patto che questi ne soffra profondamente, perché gli dà un vigore insospettato, giovevole alle sue idee quanto ai suoi muscoli: perché lo incita a odiare. Ora, l’odio non è un sentimento ma una forza, un fattore di diversità, che fa prosperare gli esseri a spese dell’essere. Chiunque ami il proprio statuto di individuo deve ricercare tutte le occasioni in cui è costretto a odiare; poiché la calunnia è quella migliore, reputarsene vittima significa usare un’espressione impropria, misconoscere i vantaggi che se ne possono ricavare. Il male che si dice di noi, come quello che ci viene fatto, ha valore soltanto se ci ferisce, ci sprona e ci sveglia.
Abbiamo la sfortuna di essergli insensibili? Cadiamo in uno stato di invulnerabilità disastroso, perdiamo i privilegi inerenti ai colpi degli uomini e perfino a quelli della sorte (chi si innalza al di sopra della calunnia si innalzerà senza fatica al di sopra della morte). Se ciò che si dice di noi non ci tocca in alcun modo, perché logorarci in imprese subordinate comunque all’approvazione altrui? è concepibile un’opera che sia il prodotto di un’autonomia assoluta? Rendersi invulnerabili vuol dire chiudersi alla quasi totalità delle sensazioni che si provano nella vita in comune. Più ci si accosta alla solitudine, più si desidera deporre la penna. Di che cosa e di chi parlare se gli altri non contano più, se nessuno merita la dignità di nemico? Smettere di reagire all’opinione è un sintomo allarmante, una superiorità fatale, acquisita a detrimento dei nostri riflessi, e che ci mette nella posizione di una divinità atrofizzata, lieta di non muoversi più, perché non trova nulla che valga un gesto. Al contrario, sentirsi esistere significa appassionarsi a ciò che è manifestamente mortale, votare un culto alla mediocrità, adirarsi di continuo in mezzo all’inanità, adontarsi nel nulla.
Quelli che cedono alle proprie emozioni o ai propri capricci, quelli che si infuriano dall’alba al tramonto sono al riparo da turbe gravi. (La psicoanalisi gode di considerazione solo presso anglosassoni e scandinavi, i quali hanno la sfortuna di sapersi controllare, mentre desta scarsissima curiosità presso i popoli latini). Per essere normali, per conservarsi in buona salute, non dovremmo prendere a modello il saggio bensì il bambino, rotolarci per terra e piangere tutte le volte che ne abbiamo voglia. Che cos’è più deplorevole del volerlo e non osare farlo? Per aver disimparato le lacrime, noi siamo senza risorse inutilmente inchiodati ai nostri occhi. Nell’Antichità si piangeva; e così pure nel Medioevo e durante il Grand Siècle (stando a Saint-Simon il re era esperto in materia).
Successivamente, a parte l’intermezzo romantico, si è gettato il discredito su uno dei rimedi più efficaci che l’uomo abbia mai posseduto. Si tratta di una disgrazia passeggera o di una nuova concezione dell’onore? Ciò che pare sicuro è che tutta una parte delle infermità che ci travagliano, tutti questi mali diffusi, insidiosi, non identificabili, derivano dall’obbligo che abbiamo di non esternare le nostre frenesie o le nostre afflizioni. E di non lasciarci andare ai nostri istinti più antichi.
Dovremmo avere la facoltà di urlare per almeno un quarto d’ora al giorno; anzi, si dovrebbero creare a questo scopo degli urlatoi. «La parola» si obietterà «non è sufficiente ad alleviare? Perché tornare a usanze così antiquate?». Convenzionale per definizione, estranea alle nostre esigenze imperiose, la parola è vuota, estenuata, senza contatto con il nostro profondo: non ce n’è nessuna che provenga da esso o che in esso discenda. Se all’inizio, quando fece la sua comparsa, poteva servire, oggi non è più così: non una sola, nemmeno quelle che furono trasfigurate in imprecazioni, contengono la minima virtù tonica. La parola sopravvive a se stessa: lunga e penosa desuetudine.
Tuttavia, l’aspetto di anemia che essa racchiude continua a farci sentire la sua influenza nociva. L’urlo, invece, modalità di espressione del sangue, ci dà sollievo, ci fortifica, e talvolta ci guarisce. Quando abbiamo la fortuna di abbandonarci ad esso, ci sentiamo di colpo affini ai nostri lontani antenati, che nelle loro caverne dovevano tutti ruggire senza posa, compresi quelli che ne scarabocchiavano le pareti.
All’opposto di quei tempi felici, noi siamo ridotti a vivere in una società così male organizzata che l’unico posto in cui si possa urlare impunemente è il manicomio. E così ci è negato il solo metodo che abbiamo per sbarazzarci dell’orrore degli altri e di quello di noi stessi. Se almeno ci fossero dei libri di consolazione! Ne esistono ben pochi, perché non c’è consolazione né può esserci fino a quando non si scrollino le catene della lucidità e del decoro.
L’uomo che si trattiene, che si domina in ogni occasione, l’uomo «distinto» insomma, è virtualmente uno squilibrato. E tale è anche chiunque «soffra in silenzio». Se teniamo a un minimo di equilibrio, torniamo dunque al grido, non perdiamo nessuna occasione di sfruttarlo e di proclamarne l’urgenza. D’altronde ci aiuterà a farlo la rabbia, che procede dal fondo stesso della vita. Non ci stupirà dunque che essa sia particolarmente attiva nelle epoche in cui la salute si confonde con la convulsione e con il caos, nelle epoche di innovazione religiosa. Non c’è nessuna compatibilità fra religione e saggezza: la religione è conquistatrice, aggressiva, senza scrupoli, si avventa e non ha remore.
La cosa straordinaria è che accondiscenda a favorire i nostri sentimenti più bassi; senza questo, non avrebbe su di noi una presa così profonda. Con la religione, per la verità, si può andare lontano quanto si vuole, in qualsiasi direzione.
Impura, perché solidale con la nostra vitalità, essa ci invita a tutti gli eccessi e non fissa alcun limite alla nostra euforia né al nostro capitombolo in Dio.
Proprio perché non dispone di nessuno di questi vantaggi, la saggezza è così nefasta a colui che vuole manifestarsi e mettere a frutto le proprie capacità. Essa è quella continua privazione a cui ci si accosta solo sabotando ciò che si possiede di insostituibile nel bene e nel male; non ha sbocco alcuno, è il vicolo cieco eretto a disciplina.
All’estasi, che giustifica e riscatta le religioni nel loro insieme, che cos’ha essa da opporre? Un sistema di capitolazioni: il ritegno, l’astensione, la ritrosia non soltanto nei confronti di questo mondo ma di tutti i mondi, una serenità minerale, un gusto della pietrificazione – per paura sia del piacere sia del dolore.
Accanto a Epitteto, qualsiasi santo, cristiano o d’altro genere, fa la figura del rabbioso. I santi sono temperamenti febbrili e istrionici che vi seducono e vi trascinano: essi lusingano le vostre debolezze con la violenza stessa che mettono nel denunciarle. Del resto, si ha l’impressione che con loro ci si potrebbe intendere: basterebbe un minimo di stravaganza o di abilità.
Con i saggi, invece, non è possibile alcun compromesso, alcuna avventura: essi trovano odiosa la rabbia, ne respingono tutte le forme e la equiparano a una fonte di perdizione.
Fonte di energia, piuttosto – pensa l’uomo della melanconia, che vi si aggrappa perché sa che è positiva, dinamica, dovesse pure ritorcersi contro di lui.
Non è nell’inerzia che ci si uccide, ma in un eccesso di furore contro di sé (Aiace rimane sempre il suicida tipo), nell’esasperazione di un sentimento che potrebbe essere così definito: «Non posso sopportare più a lungo di essere deluso da me stesso».
Questo supremo soprassalto nel più profondo di una delusione di cui noi siamo l’oggetto, pur presentito solo a rari intervalli, continuerebbe a ossessionare anche qualora avessimo deciso una volta per tutte di non ucciderci. Se per tanti anni una «voce» ci assicurava che non avremmo alzato la mano su di noi, questa voce, con l’età, diventa sempre meno percettibile. Ed è perciò che più andiamo avanti più siamo in balia di qualche silenzio folgorante.
Colui che si uccide dimostra che avrebbe potuto ugualmente uccidere, o meglio, che sentiva quell’impulso ma lo ha diretto contro di sé. E se ha l’aria subdola, è perché, sotto sotto, segue i meandri dell’odio di sé e medita con una perfida crudeltà il colpo al quale soccomberà, non senza aver prima riconsiderato la propria nascita, che si affretterà a maledire. è con questa, infatti, che bisogna prendersela se si vuole estirpare il male alla radice.
Aborrirla è ragionevole, e tuttavia difficile e insolito. Ci si ribella alla morte, a ciò che deve sopraggiungere; la nascita, evento ben più irreparabile, la si lascia in disparte, non le si dà molta importanza: essa appare a ognuno lontana nel passato come il primo istante del mondo. Vi risale soltanto colui che pensa di sopprimersi; si direbbe che non riesca a dimenticare il meccanismo innominabile della procreazione e che cerchi, con un orrore retrospettivo, di annientare il germe stesso da cui è nato.
Inventiva e intraprendente, la furia di autodistruzione non si limita a strappare dal torpore solo l’individuo; si impadronisce altresì delle nazioni e permette loro di rinnovarsi inducendole a compiere atti in flagrante contrasto con le loro tradizioni. Quella che sembrava avviarsi verso la sclerosi, in realtà si orientava verso la catastrofe, e si faceva assecondare in ciò dalla missione stessa che si era arrogata.
Dubitare della necessità del disastro significa rassegnarsi alla costernazione, mettersi nell’impossibilità di comprendere la moda della fatalità presente in certi periodi. La chiave di tutto quello che nella storia è inesplicabile potrebbe trovarsi proprio nella rabbia contro di sé, nel terrore della sazietà e della ripetizione, nel fatto che l’uomo preferirà sempre l’inaudito alla routine. Il fenomeno è ugualmente chiaro nell’ambito delle specie. Come ammettere che tante di esse siano scomparse unicamente per un capriccio del clima? Non è più verosimile che dopo milioni e milioni di anni i grandi mammiferi abbiano finito per averne abbastanza di trascinarsi sulla superficie del globo e abbiano raggiunto quel grado critico di stanchezza in cui l’istinto, rivaleggiando con la coscienza, si divide da se stesso? Tutto ciò che vive si afferma e si nega nella frenesia. Lasciarsi morire è segno di debolezza; annientarsi, segno di forza. Ciò che si deve temere è l’accasciamento in quello stato in cui il desiderio di sopprimersi non è neppure immaginabile.
è paradossale e forse disonesto fare il processo all’Indifferenza, dopo averla così a lungo sollecitata ad accordarci la pace e l’apatia del cadavere. Perché facciamo marcia indietro, proprio quando comincia finalmente ad ascoltarci e ai nostri occhi ha sempre il medesimo prestigio?
Non è un tradimento questo accanirsi contro l’idolo che abbiamo più venerato?
C’è innegabilmente un elemento di felicità in ogni voltafaccia; vi si attinge perfino un supplemento di vigore: rinnegare ringiovanisce.
Poiché la nostra forza si misura sulla quantità delle credenze che abbiamo abiurato, ognuno di noi dovrebbe concludere la propria carriera come disertore di tutte le cause. Se, malgrado il fanatismo che ci ha ispirato, l’Indifferenza finisce per spaventarci, per sembrarci intollerabile, è perché, sospendendo appunto il corso delle nostre diserzioni, essa attacca il principio stesso del nostro essere e ne arresta l’espansione. Che comporti un’essenza negativa di cui non abbiamo saputo diffidare per tempo? Adottandola senza riserve, non potevamo evitare tormenti provocati dalla radicale mancanza di curiosità, nei quali non si piomba senza uscirne irriconoscibili. Chi li ha anche solo intravisti non aspira più ad assomigliare ai morti né a guardare come loro altrove, verso altre cose, verso qualsiasi cosa, fuorché verso l’apparenza. Ciò che vuole è tornare fra i vivi, e ritrovare accanto a loro le sue antiche miserie, che aveva calpestato nella sua corsa al distacco.
è fuorviante seguire le orme di un saggio, se non lo siamo noi stessi.
Prima o poi ci si stanca, si rompe con lui, se non altro per passione della rottura, gli si dichiara guerra, come la si dichiara a tutto, cominciando dall’ideale che non si è potuto raggiungere. Quando per anni si sono invocati Pirrone o Lao-tzu, è ammissibile tradirli proprio nel momento in cui si era più che mai imbevuti del loro insegnamento? Ma li si tradisce poi davvero, e si può avere la presunzione di considerarsi loro vittima, quando non si ha nient’altro da rimproverare loro se non di essere nel vero? Non è per nulla agevole la condizione di chi, dopo aver chiesto alla saggezza di liberarlo da se stesso e dal mondo, arriva a esecrarla, a vedere in essa soltanto un ostacolo in più.
Cadere dal tempo…
Per quanto mi aggrappi agli istanti, gli istanti si sottraggono: non ve n’è neppure uno che non mi sia ostile, che non mi ricusi, e non mi significhi il suo rifiuto di compromettersi con me.
Tutti inabbordabili, essi proclamano l’uno dopo l’altro il mio isolamento e la mia disfatta.
Noi possiamo agire soltanto se ci sentiamo condotti e protetti da loro.
Quando ci abbandonano, manchiamo della molla indispensabile alla produzione di un atto, sia esso capitale o insignificante. Sguarniti, senza sostegni da nessuna parte, affrontiamo allora una sventura inusitata: quella di non aver diritto al tempo.
Io accumulo passato, non cesso di fabbricarne e di precipitarvi il presente, senza dargli la possibilità di esaurire la sua stessa durata.
Vivere significa subire la magia del possibile; ma quando si scorge nel possibile stesso un passato a venire, tutto diventa virtualmente passato, e non vi è più né presente né futuro. Ciò che distinguo in ogni istante è il suo ansito e il suo rantolo, e non la transizione verso un altro istante. Elaboro tempo morto, mi abbandono all’asfissia del divenire.
Gli altri cadono nel tempo; io invece sono caduto dal tempo.
All’eternità che si ergeva al di sopra di esso succede quest’altra che si pone al di sotto, zona sterile dove non si prova più che un solo desiderio: reintegrare il tempo, innalzarsi ad esso a ogni costo, appropriarsene una particella per insediarvisi, per darsi l’illusione di una dimora propria. Ma il tempo è chiuso, ma il tempo è fuori portata: e proprio dell’impossibilità di penetrarvi è fatta questa eternità negativa, questa cattiva eternità.
Il tempo si è ritirato dal mio sangue; si sostenevano l’un l’altro e scorrevano di concerto; ora che sono rappresi, c’è da stupirsi che più nulla divenga? Essi soltanto, se si rimettessero in movimento, potrebbero ricollocarmi tra i vivi e cacciarmi da questa sottoeternità in cui marcisco.
Ma non vogliono e non possono.
Qualcuno deve aver gettato loro il malocchio: non si muoveranno più, sono di ghiaccio. Nessun istante è in grado di insinuarsi nelle mie vene. Un sangue polare per secoli!
Tutto ciò che respira, tutto ciò che ha colore di essere, svanisce nell’immemoriale. Ho davvero gustato un tempo la linfa delle cose? Che sapore aveva? Adesso mi è inaccessibile – e insipida. Sazietà per difetto.
Se non sento il tempo, se nessuno ne è più distante di me, in compenso lo conosco, lo osservo senza posa: esso occupa il centro della mia coscienza. Come credere che il suo stesso autore vi abbia pensato e vi abbia riflettuto altrettanto? Se è vero che lo ha creato, Dio non può conoscerlo in profondità, perché non rientra nelle sue abitudini farne l’oggetto delle sue rimuginazioni. Ma io, ne sono certo, fui estromesso dal tempo al solo scopo di farne la materia delle mie ossessioni. A dire il vero, io mi identifico con la nostalgia che esso mi ispira.
Supponendo che una volta io vivessi nel tempo, che cos’era e in che modo rappresentarmene la natura? L’epoca in cui mi era familiare mi è estranea, ha disertato la mia memoria, non appartiene più alla mia vita. E credo addirittura che mi sarebbe più agevole radicarmi nella vera eternità che reinsediarmi in esso. Pietà per colui che fu nel Tempo e non potrà mai più esservi!
(Decadenza inaudita: come ho potuto invaghirmi del tempo, quando ho sempre concepito la mia salvezza al di fuori di esso, così come sempre sono vissuto con la certezza che stava per esaurire le sue ultime riserve e che, roso dal di dentro, colpito nella sua essenza, mancava di durata?).
Se ci sediamo sulla riva degli istanti per contemplarne il passaggio, finiamo col non distinguervi altro che una successione senza contenuto, tempo che ha perduto la sua sostanza, tempo astratto, varietà del nostro vuoto. Un altro passo e, di astrazione in astrazione, esso si assottiglia per colpa nostra e si dissolve in temporalità, in ombra di se stesso.
Tocca a noi ora ridargli vita e adottare nei suoi confronti un atteggiamento chiaro, privo di ambiguità. Come riuscirci, quando esso ispira sentimenti inconciliabili, un parossismo di ripulsa e di fascinazione?
I modi equivoci del tempo si ritrovano in tutti coloro che ne fanno la loro preoccupazione principale e che, voltando le spalle a ciò che contiene di positivo, fisseranno l’attenzione sui suoi lati dubbi, sulla confusione che esso realizza in sé tra l’essere e il non essere, sulla sua sfrontatezza e sulla sua versatilità, sui suoi aspetti loschi, il suo doppio gioco, la sua innata insincerità. Un ipocrita su scala metafisica. Più lo si esamina e più lo si assimila a un simulatore, che non si cessa di sospettare e che si vorrebbe smascherare. E del quale si finisce per subire l’ascendente e l’attrazione. Di qui all’idolatria e alla schiavitù non c’è che un passo.
Ho desiderato troppo il tempo per non falsarne la natura, l’ho isolato dal mondo, ne ho fatto una realtà indipendente da ogni altra, un universo solitario, un succedaneo dell’assoluto: operazione singolare che lo distacca da tutto ciò che esso presuppone e da tutto ciò che porta con sé – metamorfosi della comparsa in protagonista, promozione abusiva e inevitabile. Che sia riuscito a obnubilarmi, non posso negarlo. Esso non ha tuttavia previsto che un giorno sarei passato, nei suoi confronti, dall’ossessione alla lucidità, con tutto quello che ciò implica di minaccioso per lui.
è così fatto che non resiste all’insistenza con cui lo spirito lo sonda. Il suo spessore scompare, la sua trama si sfilaccia, e non ne restano che brandelli di cui l’analista deve accontentarsi. Questo avviene perché non è fatto per essere conosciuto, ma vissuto; scrutarlo, frugarlo, significa avvilirlo, trasformarlo in oggetto. Chi vi si dedica finirà col trattare a questo modo il suo stesso io. Poiché ogni forma di analisi è una profanazione, sarebbe indecente praticarla. A mano a mano che, per rovistarli, scendiamo nei nostri segreti, passiamo dall’imbarazzo al malessere e dal malessere all’orrore. La conoscenza di sé si paga sempre troppo cara. Come d’altronde la conoscenza in genere.
Quando l’uomo ne avrà raggiunto il fondo, non accetterà più di vivere. In un universo spiegato, nulla potrebbe avere ancora un senso, tranne la follia. Una cosa che sia stata sviscerata in profondità perde ogni importanza. è come quando si sia conosciuto a fondo qualcuno: la cosa migliore per lui è che scompaia. Non è tanto per reazione di difesa quanto per pudore, per desiderio di nascondere la loro irrealtà, che i vivi portano tutti una maschera.
Strappargliela significa perderli e perdersi. Decisamente, non è bello indugiare sotto l’Albero della Conoscenza.
Vi è qualcosa di sacro in ogni essere che non sa di esistere, in ogni forma di vita indenne da coscienza.
Colui che non ha mai invidiato il vegetale ha solo sfiorato il dramma umano.
Poiché ho troppo denigrato il tempo, il tempo si vendica: mi mette nella posizione del postulante, mi obbliga a rimpiangerlo. Come ho potuto equipararlo all’inferno? L’inferno è quel presente che non si muove, quella tensione nella monotonia, quell’eternità rovesciata che non si apre su niente, nemmeno sulla morte, mentre il tempo, che scorreva, che si svolgeva, offriva almeno la consolazione di un’attesa, sia pure funebre. Ma che cosa attendersi qui, al limite inferiore della caduta, dove non c’è modo di precipitare ulteriormente, dove viene meno perfino la speranza di un altro abisso? E che cosa attendersi ancora da quei mali che ci insidiano, che si annunciano senza posa, che soli danno l’impressione di esistere ed effettivamente sono i soli a esistere?
Se si può ricominciare tutto partendo dalla frenesia, che rappresenta un sussulto di vita, una virtualità di luce, altro invece è il caso di questa desolazione subtemporale, annichilimento a piccole dosi, sprofondamento in una ripetizione senza uscita, demoralizzante e opaca, da cui non si può emergere se non col favore, appunto, della frenesia.
Quando l’eterno presente cessa di essere il tempo di Dio per diventare quello del Diavolo, tutto si guasta, tutto diventa rimuginazione dell’intollerabile, tutto precipita in questo baratro dove si aspetta invano l’epilogo, dove si marcisce nell’immortalità. Colui che vi cade si gira e si rigira, si agita senza risultato e non produce niente. Ecco perché ogni forma di sterilità e di impotenza partecipa dell’inferno.
Non ci si può credere liberi quando ci si ritrova sempre con se stessi, davanti a sé, davanti al medesimo.
Questa identità, al tempo stesso fatalità e incubo, ci incatena alle nostre tare, ci trascina indietro, e ci respinge fuori del nuovo, fuori del tempo. E quando se ne è respinti fuori, ci si ricorda dell’avvenire, si è smesso di corrergli incontro.
Per quanto sicuri siamo di non essere liberi, vi sono certezze alle quali ci rassegniamo difficilmente.
Come agire, sapendo di essere determinati, come volere, ridotti alla condizione di automi? Nei nostri atti, e soltanto in essi, esiste per fortuna un margine di indeterminatezza: io posso rinviare la decisione di fare questa o quell’altra cosa; in compenso mi è impossibile essere diverso da quello che sono. Se, in superficie, ho una certa ampiezza di manovra, in profondità tutto è deciso per sempre. Della libertà, è reale solo il miraggio; senza questo, la vita non sarebbe praticabile, e neppure concepibile. Quello che ci spinge a crederci liberi è la coscienza che abbiamo della necessità in generale e dei nostri impedimenti in particolare; coscienza implica distanza, e ogni distanza suscita in noi un sentimento di autonomia e di superiorità, il quale, va da sé, non comporta che un valore soggettivo.
Come potrebbe la coscienza della morte renderne più sopportabile l’idea o ritardarne la venuta? Sapere che si è mortali significa in realtà morire due volte, anzi, tutte le volte che si sa di dover morire.
La cosa bella della libertà è che ci si affeziona ad essa proprio in quanto sembra impossibile. La cosa ancora più bella è che si sia potuto negarla e che questa negazione abbia costituito la grande risorsa e il fondamento di molte religioni, di molte civiltà. Non potremo mai abbastanza lodare l’Antichità per aver creduto che i nostri destini fossero scritti negli astri, che non vi fosse traccia di improvvisazione o di casualità nelle nostre gioie o nelle nostre sventure.
Per non aver saputo opporre a una così nobile «superstizione» nient’altro che le «leggi dell’ereditarietà», la nostra scienza si è squalificata per sempre. Avevamo ciascuno la nostra «stella»; ed eccoci schiavi di una chimica odiosa. è la degradazione ultima dell’idea di destino.
Non è affatto improbabile che una crisi individuale diventi un giorno la crisi di tutti e acquisti così un significato non più psicologico, ma storico. Non si tratta di una semplice ipotesi; vi sono segni che bisogna abituarsi a leggere.
Dopo aver sciupato l’eternità vera, l’uomo è caduto nel tempo, dove è riuscito, se non a prosperare, per lo meno a vivere: la cosa certa è che vi si è adattato. Il processo di questa caduta e di questo adattamento si chiama Storia.
Ma ecco che lo minaccia un’altra caduta, di cui è ancora difficile valutare l’entità. Questa volta non si tratterà più per lui di cadere dall’eternità, ma dal tempo; e cadere dal tempo significa cadere dalla storia; significa, una volta sospeso il divenire, arenarsi nell’inerzia e nel languore, nell’assoluto della stagnazione, dove il verbo stesso si arena, non potendo sollevarsi fino alla bestemmia o all’implorazione.
Imminente o no, questa caduta è possibile, anzi inevitabile. Quando toccherà in sorte all’uomo, egli cesserà di essere un animale storico.
Allora, avendo perduto finanche il ricordo della vera eternità, della sua prima felicità, egli volgerà lo sguardo altrove, verso l’universo temporale, verso quel secondo paradiso da cui sarà stato bandito.
Finché rimaniamo all’interno del tempo, abbiamo dei simili con i quali intendiamo rivaleggiare; non appena cessiamo di esservi, tutto ciò che essi fanno e tutto ciò che possono pensare di noi non ci importa più tanto, perché siamo così distaccati da loro e da noi stessi che produrre un’opera o anche solo pensarvi ci sembra ozioso o strampalato.
L’insensibilità al proprio destino appartiene a colui che è decaduto dal tempo e che, via via che questa decadenza si accentua, diviene incapace di manifestarsi o di voler anche solo lasciare una traccia. Il tempo, bisogna pur convenirne, costituisce il nostro elemento vitale; quando ne siamo spossessati, ci troviamo senza appoggio, in piena irrealtà o in pieno inferno. O in entrambi contemporaneamente: nella noia, nostalgia inappagata del tempo, impossibilità di riafferrarlo e di inserirvisi, frustrazione di vederlo scorrere lassù, al di sopra delle nostre miserie. Aver perduto insieme l’eternità e il tempo! La noia è la rimuginazione di questa duplice perdita. Vale a dire lo stato normale, il modo di sentire ufficiale di un’umanità finalmente espulsa dalla storia.
L’uomo insorge contro gli dèi e li rinnega, pur riconoscendo loro qualità di fantasmi; quando sarà proiettato al di sotto del tempo, si troverà lontano da loro a tal punto che non ne serberà nemmeno l’idea. E come punizione di quest’oblio esperirà allora la completa decadenza.
Colui che vuole essere più di quello che è riuscirà solo a essere meno.
Allo squilibrio della tensione succederà, presto o tardi, quello del rilassamento e dell’abbandono. Una volta posta tale simmetria, bisogna andare oltre e riconoscere che c’è del mistero nella decadenza. Il decaduto non ha niente a che vedere con il fallito, e fa piuttosto pensare alla vittima di una forza soprannaturale, come se una potenza malefica si fosse accanita contro di lui e avesse preso possesso delle sue facoltà.
Lo spettacolo della decadenza prevale su quello della morte: tutti gli esseri muoiono; soltanto l’uomo è chiamato a decadere. Egli è in bilico rispetto alla vita (come la vita, del resto, lo è rispetto alla materia).
Più si allontana da essa, sia innalzandosi sia cadendo, più si avvicina alla propria rovina. Che giunga a trasfigurarsi o a sfigurarsi, in entrambi i casi erra. E bisogna anche aggiungere che tale errore, egli non può evitarlo senza eludere il suo destino.
Volere significa mantenersi a ogni costo in uno stato di esasperazione e di frenesia. Lo sforzo è estenuante, e non è detto che l’uomo possa sempre sostenerlo. Credere che sia suo compito superare la propria condizione e orientarsi verso quella di superuomo vuol dire dimenticare che egli già fatica a reggere come uomo, e che non ci riesce se non sforzandosi di tendere al massimo la sua volontà, la sua molla. Ora, la volontà, che contiene un principio sospetto e persino funesto, si ritorce contro quelli che ne abusano. Non è naturale volere o, più esattamente, bisognerebbe volere solo quanto basta per vivere; non appena si vuole un po’ di più o un po’ di meno, prima o poi ci si deteriora e si finisce per precipitare. Se la mancanza di volontà è una malattia, anche la volontà lo è, e ancora peggiore: proprio da essa, dai suoi eccessi piuttosto che dai suoi cedimenti, derivano tutte le calamità dell’uomo. Ma se egli già vuole troppo nello stato in cui è, che ne sarebbe di lui se accedesse al rango di superuomo? Certamente esploderebbe e crollerebbe su se stesso. E allora, con una diversione grandiosa, egli verrebbe a cadere dal tempo per entrare nell’eternità inferiore, termine ineluttabile al quale non è molto importante, in fin dei conti, che arrivi per la via del logoramento o del disastro.