Len Howard
PREFAZIONE
DI JULIAN HUXLEY
Miss Howard ci ha regalato un libro insolito. Insolito perché sono in pochi ad amare gli uccelli come lei, a dedicare tanto tempo per osservarli da vicino, e a prendersi la briga di annotare ogni cosa e farne un libro.
Il titolo evidenzia una delle questioni più importanti sollevate dall’autrice: quando si osservano gli uccelli giorno per giorno, per anni, si finisce per conoscerli individualmente, e la scoperta che ne deriva è che sono molto meno simili tra loro di quanto si pensi. Raccomando gli appunti di Miss Howard a tutti i miei colleghi biologi, oltre che ai lettori comuni.
Un’altra osservazione fondamentale è che la paura inibisca il loro normale comportamento. Solo quando se ne liberano gli uccelli ci lasciano intravedere i loro segreti e ci svelano tutta la loro intelligenza. Anche questo è un assunto che gli studiosi di biologia dovranno tenere ben presente.
Infine Miss Howard è una musicista. Quando presta orecchio al canto dei suoi uccelli, ci suggerisce idee e riflessioni che hanno un interesse e una qualità particolari. Sono rimasto colpito dalla descrizione del merlo maschio che «compone» (il termine pare appropriato) una frase musicale pressoché identica all’inizio del Rondò nel Concerto per violino di Beethoven. O quanto meno, lo sviluppa gradualmente a partire da un avvio molto semplice.
Nel libro troviamo anche un divertente capitolo sul gioco degli uccelli, che offre una serie di riflessioni interessantissime, per esempio sulla riduzione della rivalità territoriale e dell’aggressività durante i periodi di siccità.
Miss Howard non potrà certo aspettarsi che gli studiosi di biologia accettino tutte le sue tesi, ma non c’è dubbio che le saranno grati per il suo lavoro; quanto a me, posso garantire che ne sono rimasto avvinto e deliziato.
PARTE PRIMA
IL COMPORTAMENTO DEGLI UCCELLI
1
INTRODUZIONE: SICUREZZA, PERCEZIONE
E COMPORTAMENTO INTELLIGENTE
I miei uccelli semiaddomesticati suscitano sempre un grande interesse tra la gente. Spesso, quando mi si posano sulla mano mentre cammino per strada, i passanti mi fermano, stupiti di vederli così a loro agio con me. Sarà ancora così raro, nel «mondo migliore» che stiamo allestendo per le generazioni future, vedere un uccello selvatico posarsi senza paura sulla mano di qualcuno? Mi ricorderò sempre dell’elettricista che un giorno era salito al mio cottage nel Sussex per riparare un guasto. Si era fermato allibito davanti alla porta, lo sguardo fisso sui numerosi uccellini che dagli alberi venivano a posarsi su di me. Fino a quel momento mi era sembrato un uomo qualunque, senza una particolare espressione, ma alla vista degli animali era cambiato all’improvviso: il volto raggiante, gli occhi accesi, mormorava: «Che meraviglia!». Poi aveva aggiunto: «In fondo è così che dovrebbe essere, no? Già, proprio così».
Naturalmente, vivere come vivo io, circondata da un gran numero di uccelli, ha le sue grosse difficoltà, la maggior parte di ordine pratico: la necessità di pulire, il rischio che si rompano le proprie cose, il fatto che le stanze sembrino sempre pronte per l’arrivo dello spazzacamino, con fogli di giornale sui mobili e teli sopra i libri. Per non dire del sonno disturbato, perché all’alba gli uccelli becchettano furiosamente sui vetri se chiudo le finestre per non farli entrare quando le notti sono brevi, o del gran da fare che si danno per impedirmi di concentrarmi su qualunque altra cosa non li riguardi. E tuttavia c’è di peggio. Vivendo con loro, è impossibile non affezionarsi a ogni singolo individuo. Ma gli uccelli hanno vita breve, e la tragedia può essere dietro l’angolo: i gatti sono sempre pronti a scatenare il caos appena mi distraggo. Bird Cottage1 non è in una posizione isolata, sorge su un appezzamento che faceva parte di un frutteto ai margini di un grosso villaggio nel Sussex. Poiché il terreno della vecchia azienda è stato suddiviso in tante proprietà, intorno ci sono altre case, oltre a quelle comparse di recente sul lato opposto della strada. Fortunatamente, il mio giardino è circondato di alberi e alte siepi, e io lascio che la vegetazione cresca incontrollata, con la sua grazia naturale; rovi, biancospini, susini selvatici e sambuco sono spontanei e l’edera si arrampica sui tronchi mozzati di meli e peri. Queste piante garantiscono agli uccelli cibo e protezione; in particolare le bacche dell’edera, che maturano nella stagione delle gelate quando il cibo scarseggia. Nel periodo della nidificazione, lascio l’erba alta sul terreno: quando è bagnata di pioggia o di rugiada, i gatti fanno più fatica a passarci in mezzo, anche se non c’è modo di tenerli lontani del tutto.
Poi ci sono le taccole e le gazze che rubano i piccoli dai nidi. Da queste parti le gazze hanno ormai rimpiazzato le cince bigie e le cince more, e i miei uccelli dipendono da me per difendersi dalle loro incursioni. In questo periodo intorno alle cinque mi sveglia il trambusto di una cinciallegra che vola freneticamente dal letto alla finestra lanciando gridi d’allarme. Cerca di attirarmi in giardino, dove i suoi piccoli sono minacciati da una gazza. Io mi precipito fuori e scaccio il nemico con un bastone. Poi me ne torno a letto, ma subito dopo succede qualcos’altro: il merlo è alla finestra e mi chiama emettendo dei t-cinc agitati; esco di nuovo e spavento il gatto svuotandogli addosso una brocca d’acqua. Lui balza via tra i cespugli, naturalmente senza bagnarsi per nulla. Nonostante tutti i miei sforzi, alcuni uccelli non riescono a sfuggire ai gatti o alle gazze. Se parto per una vacanza succedono così tanti disastri che ormai non vado via quasi più, anche se mi piacerebbe osservare altri tipi di uccelli in ambienti diversi.
Spesso i miei uccellini rimangono feriti, e sono io a occuparmene. In un modo o nell’altro richiedono le mie attenzioni dall’alba al tramonto. Fanno di tutto perché io non mi concentri su nient’altro: mentre cerco di scrivere queste parole, alcuni si sono posati sulla macchina da scrivere, altri mi tirano i capelli, altri ancora mi vengono sulle mani e volano via non appena inizio a battere sui tasti. C’è solo un’altra persona che sa per esperienza quanto siano esigenti le mie cinciallegre. È il vecchio Harry, un tale che, come me, ama gli animali selvatici; vive in una casupola nascosta in un boschetto a dieci minuti a piedi da qui. Quest’anno il giardino era sovraffollato e una delle mie cince ha fatto il nido dalle sue parti, ma al mattino e alla sera tornava sempre qui a chiedere cibo con insistenza, finché le sue uova non si sono schiuse. Dopo di che è toccato al buon vecchio – anche lui dà da mangiare agli uccelli – divenire vittima dei suoi modi. «È proprio una disgraziata, quella» mi ha detto un giorno Harry. «All’alba viene a tirarmi le coperte e a beccarmi la faccia. Non è possibile farla smettere, devi darle quello che vuole, e anche in fretta». Dalla descrizione ho capito subito di chi parlava, perché era lo stesso modo in cui «la disgraziata» trattava me.
Forse gli uccelli mi si avvicinano perché ne sono così appassionata, non ho mai fatto fatica a ottenerne la fiducia. Non appena mi sono trasferita qui a Bird Cottage, ho messo una mangiatoia e una vasca a loro disposizione vicino alla portafinestra. Un pettirosso, una cinciarella e un merlo sono arrivati immediatamente, seguiti da molti altri uccelli, tra cui le cinciallegre. Ho sempre parlato ai miei uccelli con un tono di voce naturale, e hanno imparato in fretta a comprendermi secondo l’intonazione. Si è creata subito una grande familiarità e poi ne sono arrivati molti altri. Non solo godo moltissimo della loro compagnia, ma trovo estremamente interessanti i caratteri individuali; grazie a questa vicinanza, posso comprendere meglio la loro mente.
Prima di trasferirmi a Bird Cottage non ero mai riuscita a studiare personalmente il comportamento degli uccelli, sebbene a Londra ci fosse un’ampia letteratura a disposizione nelle biblioteche. Non mi aspettavo che il comportamento potesse rivelare tanta intelligenza e rimasi molto sorpresa quando si verificò questo episodio. Una mattina di primavera, tre mesi dopo la costruzione del mio piccolo cottage, stavo sbrigando qualche faccenda vicino alla porta aperta quando una cinciarella arrivò in volo emettendo gridi di allarme; rimase sospesa nell’aria davanti a me in uno stato di grandissima agitazione, guardandomi fissa, strillando come non avevo mai sentito fare a una cinciarella; era evidente che c’era un problema e mi stava chiedendo aiuto. Il suo compagno era con lei ma si era posato appena fuori dalla porta e mi guardava con attenzione. Non appena feci un passo, la cinciarella smise di gridare e i due mi condussero alla cassetta nido volandomi davanti e posandosi di tanto in tanto, per controllare che li stessi seguendo. Il nido era stato completamente tirato fuori dalla cassetta, pezzo per pezzo, e dodici uova giacevano sparse sul duro fondo di legno; il tettuccio era ancora integro. Evidentemente un gatto aveva infilato la zampa nel foro di ingresso e aveva estratto il nido a pezzi. (Dopo questa esperienza ho imparato che le cassette per gli uccelli devono essere profonde almeno dodicitredici centimetri).
La coppia rimase in attesa lì vicino, osservandomi in silenzio mentre raccoglievo i brandelli da terra, spostavo le uova, lo risistemavo come meglio potevo, e infine riposizionavo le uova sul lato destro, pensando che la femmina lo volesse il più possibile come era prima. Non appena ebbi finito, lei volò dentro la cassetta e dopo aver spostato le uova dalla parte opposta riprese a covarle. Le uova si schiusero dieci giorni dopo: la femmina era riuscita a portare a termine la covata nonostante il disastro perché aveva saggiamente pensato di chiedere aiuto a me. Che cosa se non un pensiero avrebbe potuto muoverla ad agire così? In materia di nidificazione, l’istinto di un uccello non è di sicuro quello di andare in cerca dell’uomo; semmai, anzi, di evitarlo. All’epoca abitavo qui da poco e non avevo ancora dato aiuto agli uccelli per costruire il nido o per qualcos’altro. Avevo solo offerto loro da mangiare e li avevo osservati di nascosto mentre costruivano il nido. Eppure molti uccelli sembravano a proprio agio in mia presenza e si fidavano di me.
Era stato molto interessante guardare quella coppia di cinciarelle che costruiva il nido. Inizialmente, il maschio aveva cercato di segnalare alla femmina la cavità di un tronco, ma lei l’aveva ignorata, attirata dalla spaziosa cassetta nido appesa a un altro albero. La femmina si era messa subito a svolazzare dentro e fuori dalla cassetta, mentre il maschio si era posato all’esterno, sbirciando dentro con prudenza o esaminando il tettuccio e i lati. Pian piano era entrato anche lui, e la cosa aveva dato inizio a un cinguettare appassionato dei due, con giocosi scambi sonori mentre il maschio inseguiva la femmina di nuovo fuori e intorno agli alberi, finché lei si rifugiava nella cassetta prescelta. Era andata avanti così per circa un mese; poi era cominciata la raccolta del materiale per il nido, non il solito muschio o lana, bensì paglia da imballaggio per fare il fondo. La femmina entrava nella cassetta con la paglia, lui la seguiva e si fermava a osservarla sul foro di ingresso, finché lei non ripartiva alla ricerca di altro materiale. Il muschio arrivò dopo, seguito da crine di cavallo bianco e da piume di uccello, che continuarono a essere aggiunte al nido anche dopo la deposizione delle uova. Durante la costruzione, che durò circa un mese, il maschio non fu di alcun aiuto pratico alla femmina, però la seguiva e la guardava lavorare con un entusiasmo pari alla contentezza di lei, soddisfatta della propria opera e della presenza del compagno.
Non tutte le coppie di cinciarelle mostrano lo stesso grado di attaccamento reciproco. È molto variabile e spesso dopo la costruzione del nido le coppie adottano un comportamento assai silenzioso e discreto; soprattutto gli individui più vecchi ed esperti, che trovano questo sistema più saggio. Non appena iniziata la cova, infatti, questa coppia estatica passò a un atteggiamento relativamente più cauto e misurato.
Quello stesso anno due piccoli di pettirosso che non avevano ancora imparato a volare caddero dal nido, precariamente sistemato dentro la cavità non molto profonda di un albero. I due rimasti rischiavano di cadere a loro volta e i genitori sembravano molto preoccupati. Allora presi i quattro piccoli e li sistemai dentro un guscio di cocco, dove si assestarono soddisfatti. Poi legai il nido improvvisato al sedile di una sedia, lo sistemai sotto l’albero e lo ricoprii con dei rametti frondosi e con un sacco di tela, lasciando un’apertura per permettere ai genitori di entrare. Nel frattempo i due si davano da fare sulla siepe, svolazzando qua e là e lanciando tic-tic all’indirizzo del gatto dei vicini. Non sembravano essersi accorti della mia intromissione, ma i pettirossi quando sono molto interessati spesso si voltano dall’altra parte e si fingono indifferenti. Rientrai in casa, domandandomi se avrebbero trovato i nidiacei, per di più con un’apertura così stretta, ma poco dopo i due si allontanarono dalla siepe e andarono dritti al nido di cocco nonostante i piccoli fossero in silenzio. I genitori non tornarono più al vecchio nido, sebbene avessi prelevato due piccoli direttamente da lì, e i nidiacei non cercarono di lasciare la casa di cocco finché non furono pronti all’involo, una settimana dopo.
Sono certa che le cinciarelle e i pettirossi non avrebbero avuto comportamenti altrettanto intelligenti se avessero avuto paura di me. Molto spesso il comportamento degli uccelli viene valutato in situazioni in cui gli animali sono terrorizzati dalla presenza dell’osservatore. Nessuno vorrebbe sottoporsi a un test d’intelligenza in condizioni di pericolo di vita, la sua o quella dei suoi figli. Trovo che gli uccelli, e in particolare le cince, agiscano in modo intelligente in circostanze insolite, a meno che non siano in uno stato di agitazione dovuto alla paura.
Una volta sollevai per metà il coperchio della cassetta nido di una coppia di cinciarelle ma, quando mi accorsi che la femmina stava covando all’interno, lo richiusi all’istante. Non avendo mai visto il coperchio aprirsi prima di allora, la femmina si allarmò e si precipitò dal compagno, all’altro capo del cottage. Tornarono entrambi subito al nido: lei riprese a covare, mentre lui si comportò come se sapesse esattamente perché lei era spaventata. Per prima cosa esaminò con attenzione il coperchio, poi osservò la compagna attraverso il foro di ingresso e dopo un ulteriore esame della cassetta si posò su una stretta sporgenza vicino all’entrata, come per fare la guardia o rassicurarla; di tanto in tanto infilava la testa dentro la cassetta per guardarla. Non si era mai comportato così mentre lei covava. Dopo una mezz’ora la femmina si allontanò per andare a mangiare. Il maschio non sostò mai più fuori durante la cova. Sarebbe un comportamento innaturale, attirerebbe l’attenzione sul nido.
Appare dunque evidente che gli uccelli possono comunicare fra loro tramite leggeri cambiamenti dell’inflessione del canto e dei movimenti; quelli che mi conoscono bene, infatti, grazie alla loro sensibilità, sono in grado di capire moltissimo dalla mia voce o da minimi movimenti. Ad esempio, quando le cinciallegre vogliono beccare dal piattino del burro, cosa che normalmente è loro vietata, si posano lì vicino e guardano prima il burro poi me, titubanti e allo stesso tempo desiderose di servirsi, perché vanno pazze per il burro. Se dico dolcemente «okay», si avvicinano sicure e mangiano. Se dico «no» con una punta di severità rimangono dove sono, ma continuano a fissare prima me e poi il burro con aria implorante. Un «no» categorico le fa saltellare a debita distanza, un «no» pronunciato con tono arrabbiato le fa volare verso la finestra aperta, ma se pronuncio in fretta un «okay, vieni qui» con tono suadente tornano immediatamente indietro e, se non dico più nulla, si avvicinano al burro un saltello alla volta tenendomi d’occhio per vedere se muovo obiezioni. Se ricevono un «no» iniziale non si avvicinano con la stessa fiducia spensierata di quando le incoraggio con un «okay». Interpretano in maniera corretta il no, espresso a voce o attraverso i movimenti, e senza incoraggiamento non si azzardano a toccare il burro sotto il mio sguardo, perché un paio di volte le ho fermate con un «no» arrabbiato. Questa grande sensibilità permette loro di apprendere molto rapidamente. Prima di poter comunicare tramite il tono della voce, però, dobbiamo conoscerci bene; l’estraneità rende i soggetti naturalmente insicuri, a causa dell’apprensione, anche se le cinciallegre, di solito, imparano in fretta a capire le mie intenzioni.
Ho notato la stessa sensibilità in alcuni merli, e in misura minore anche in altri uccelli. Una volta un merlo del vicinato detto Ladro (parlerò di lui nel cap. 3), dopo aver obbedito diligentemente per un po’ come le cinciallegre con il burro, riuscì ad averla vinta nel suo modo caratteristico. Avevo ricompensato la sua obbedienza e intelligenza solo con pane e patate, ma tenevo sulle ginocchia un piatto con della carne (il mio pranzo e praticamente metà della razione settimanale!). All’improvviso, Ladro gettò al vento la discrezione, si alzò in volo sotto il mio naso e afferrò l’intera fetta di carne direttamente dal piatto che avevo in grembo e, prima che mi fossi resa conto di cosa era successo e riuscissi a reagire, era già oltre la siepe emettendo un richiamo che suonò come una risatina. Ladro fu l’unico merlo che con la destrezza di uno scippatore osò mettere in atto un furto così plateale riuscendo nell’impresa.
Le cinciallegre a volte tentano colpi simili quando mi vedono distratta. Oltre a interpretare il tono di voce e i movimenti, sembrano capire molto anche dagli occhi e dalle espressioni del viso, perché se ho lo sguardo assente, se i miei pensieri viaggiano altrove, ho notato che si comportano come se fossi voltata di spalle e commettono ruberie che non oserebbero mai fare qualora le guardassi in modo attento e consapevole.
Osservando gli uccelli con assiduità e vicinanza si notano moltissime azioni che non possono essere attribuite all’istinto e alle reazioni automatiche. L’intelligenza, tuttavia, varia molto a seconda degli individui, oltre che delle specie. Tra gli uccelli che conosco più da vicino, le cinciallegre sono quelle che mostrano il più alto grado di intelligenza e di conseguenza le maggiori differenze tra individui.
C’è chi crede che le cinciallegre siano crudeli nei confronti degli altri uccelli per via della storia di Sir Edward Grey, visconte di Fallodon, secondo la quale una cinciallegra avrebbe mangiato il cervello di un passero che era in gabbia con lei. Osservo le cinciallegre in modo costante da dieci anni e non ho mai visto atti di crudeltà commessi da individui di questa specie. I passeri sono spesso prepotenti nei confronti degli altri uccelli, cinciallegre comprese, e il più delle volte queste non reagiscono nemmeno. Si limitano ad aprire le ali in un display di protesta e poi volano via, in quanto sono animali pacifici e tendono a non attaccare briga. Non è giusto valutare il comportamento di un animale che si trova in uno stato alterato a causa della fame e della prigionia. Le cinciallegre sono uccelli pieni di vita e l’individuo all’interno della gabbia potrebbe semplicemente essere sopravvissuto al passero e aver capito che doveva cibarsi del cervello dell’altro per non morire di stenti. E se invece avesse davvero ucciso il passero, probabilmente quest’ultimo aveva, come d’abitudine, attaccato per primo e la cinciallegra, trovandosi in cattività, non aveva potuto sottrarsi alla lotta come fa in natura. Le cinciallegre sono meno litigiose delle cinciarelle nei confronti delle altre specie. È divertente osservare le cinciarelle aggredire le cinciallegre, le quali spesso si limitano a reagire con un display, dimostrando notevole tolleranza verso i propri parenti di taglia più piccola. Ho visto una cinciarella avventarsi su un merlo che aveva beccato la palla di sego caduta dal supporto mentre lei se la stava mangiando. Il merlo aveva reagito sollevando la cincia col becco e scaraventandola a mezzo metro di distanza, come fosse una foglia. Poi aveva ripreso a mangiare il sego dando il dorso alla cinciarella distesa a terra, la quale poco dopo si era risollevata ed era volata via.
D’autunno e d’inverno, da tre anni, nel mio cottage si ripete la stessa scena all’imbrunire. Una cinciarella entra svolazzando in salotto con fare esitante per via della luce che diminuisce e si dirige verso la porta scorrevole che separa le due stanze della casa. La porta viene lasciata aperta appositamente per lei, perché alla cincia piace infilarsi in una fessura tra il binario della porta e la trave. Sbatte le ali cercando di fermarsi, ma di solito non riesce al primo tentativo. Per un attimo va a posarsi sullo schienale di una sedia; poi ci riprova, sbattendo forte le ali per stabilizzarsi e lentamente si infila sopra la trave, in una nicchia che per un esserino delle sue dimensioni è una bella camera da letto. Se per caso trova la porta chiusa quando è l’ora di dormire vola verso di me con un pigolio lamentoso e io gliela apro; una volta che lei è dentro al suo rifugio la porta si può chiudere. Quando si sveglia all’alba becchetta sul legno per farsi aprire. Di tanto in tanto dorme fino a tardi, la porta è aperta e io tiro le tende alle finestre prima che si svegli. Allora lei sgattaiola fuori dal rifugio – uscire è più semplice – e vola alla finestra, con l’espressione assonnata e un’andatura semiaddormentata. Non appena si trova all’aperto, è subito piena di energia e vitalità e comincia la giornata con una bella pulizia delle penne sugli alberi vicini alla finestra. Il rifugio le piace talmente tanto che non ci ha rinunciato nemmeno dopo che l’anno scorso, una mattina, si è mossa nella direzione sbagliata ed è caduta dietro la porta, rimanendo intrappolata in un anfratto buio e ignoto; ho dovuto chiamare un muratore per tirarla fuori. Lei non si è scomposta e la sera dopo è tornata come se niente fosse. Quest’autunno, al crepuscolo, il compagno le vola sempre dietro fino alla porta scorrevole. Per il momento è ancora un principiante nell’operazione della fessura, e lo aspettano parecchi insuccessi prima di riuscire a guadagnare un posto accanto a lei sopra la trave.
2
BIOGRAFIE: LE CINCIALLEGRE
I
Osservando nidificare gli uccelli del mio giardino ho notato una grandissima varietà di comportamenti all’interno della stessa specie, in particolare tra le cinciallegre. La cosa non sorprende, data la loro grande intelligenza. Sebbene siano animali monogami, alcune coppie si ignorano per tutto l’anno eccetto nel periodo della nidificazione, in altri casi stanno sempre insieme e se uno perde di vista l’altro per pochi minuti rimane teso e in stato di allerta finché non lo vede ricomparire. Se un membro di queste coppie devote muore, chi lo sostituisce viene trattato con relativa indifferenza, a volte anche durante la stagione della riproduzione. Ho rilevato che i casi di particolare devozione reciproca erano riferibili a uccelli giovani, che non avevano avuto precedenti compagni. Lo stesso capita in altre specie.
Ci sono diverse caratteristiche che mi permettono di distinguere le mie cinciallegre l’una dall’altra. È più facile che con altre specie. Vivendo a così stretto contatto con loro, ho imparato a riconoscerne le espressioni, gli atteggiamenti e le pose; anche il colore del petto e la forma delle macchie bianche sulla testa sono peculiari, e talvolta hanno leggere differenze nella tonalità del piumaggio. Gli uccelli più citati in questa sezione di biografie, però, erano riconoscibili anche quando avevano il piumaggio scuro e scompigliato dopo un bagno, quindi privi di ogni segno distintivo. Il loro portamento e la loro personalità erano così unici da eliminare ogni dubbio. In genere le macchie di colore permangono anche dopo la muta, fatta eccezione ovviamente per quella che segna il passaggio dalla livrea giovanile a quella da adulto. Durante questa fase, posso seguire i cambiamenti dei giovani giorno per giorno, perché gli individui che sono in confidenza con me mi si posano spessissimo sulle mani o in grembo e lo stesso fanno i loro genitori.
Ho potuto osservare da vicino una cinciallegra femmina per sei anni. Cresciuta nel frutteto confinante, si accoppiò con un maschio della stessa età proveniente dal mio giardino. Per tre stagioni allevarono due nidiate all’anno ed erano una coppia devota, sempre insieme, anche in inverno. Se uno dei due arrivava da solo alla mia finestra, rimaneva immobile e sembrava non curarsi dei bocconcini che gli venivano offerti finché l’altro non era in vista. Il più delle volte, però, arrivavano e ripartivano insieme.
La femmina, Jane, aveva la peculiarità di emettere un canto bellissimo durante la stagione dell’accoppiamento. Aveva un talento eccezionale. Le femmine di cinciallegra di solito non cantano, sebbene emettano una gran varietà di richiami, di rimprovero, ecc.; il canto di Jane era di gran lunga migliore di quello del maschio. Cambiò leggermente da un anno all’altro e in quei suoi primi anni di vita ricordava vagamente il tii-ciu del maschio, ma era molto più melodioso. Invece di ripetere le stesse note, scendeva di intervalli corrispondenti all’incirca a terze sovrapposte. Il canto si apriva con toni gioiosi e squillanti e diventava progressivamente più morbido e carezzevole man mano che diminuiva di tono. Ricordava l’eco delle campane smorzata dal vento.
Al quarto anno il compagno di Jane morì a seguito di una ferita alla zampa. Lei si accoppiò con un altro maschio il cui aspetto ricordava molto il compagno precedente, un individuo dalla corporatura particolarmente massiccia e con macchie frontali più grosse del normale. Quella primavera una coppia di cinciallegre bellicose che volevano il giardino tutto per sé scacciò Jane dal suo solito posto, e così lei fece il nido in un tronco lungo la strada. Quando fu il momento dell’involo, cercò di portare la nidiata nel mio giardino, ma la Coppia Bellicosa la cacciò via. Anche quando le portavo del cibo vicino alla roggia dall’altra parte della strada, il maschio bellicoso compariva all’improvviso oltre la siepe per manifestare la sua rabbia e impedire a Jane e al compagno di prendere il cibo per i loro piccoli dalle mie mani. Il secondo compagno di Jane fu ucciso da un gatto quando la loro seconda covata era ancora nel nido. Lei continuò a nutrire i piccoli con sempre più impegno e spesso la vedevo soffermarsi all’uscita del nido con un’espressione preoccupata.2 Subito dopo volava sulla cima di un albero e guardava in tutte le direzioni, come se cercasse il compagno. Anche questa volta, non appena i nidiacei furono in grado di volare, li portò nel mio giardino. In questo caso, nonostante continuassero a scacciare tutte le altre cinciallegre che entravano in giardino, le due cince bellicose non fecero obiezioni avendo anch’esse una seconda nidiata. Di tanto in tanto il maschio, con il cibo destinato ai suoi nidiacei nel becco, si fermava e sembrava prestare orecchio al baccano degli otto giovani di Jane, e invece di portarlo ai propri andava a infilare un bruco nella gola di uno di loro.
L’anno seguente, alla prima nidificazione Jane si accoppiò con un altro maschio, figlio della Coppia Bellicosa. Ancora una volta aveva scelto un compagno dalla corporatura robusta e dal piumaggio scuro sul davanti. Aveva un carattere molto insolito, e la nidificazione che ne seguì fu del tutto peculiare. Da qualche tempo Jane si era messa in competizione con Grigia, un’altra femmina, per una grossa cassetta nido appesa a un albero del frutteto. All’inizio di aprile entrambe cominciarono a portare muschio alla cassetta, sempre quando l’altra non c’era. Credo che Jane rimuovesse quello portato da Grigia, perché spesso quando arrivava con il suo materiale per il nido buttava fuori dalla cassetta del muschio, mentre Grigia non lo faceva mai.
Il quadro però era confuso perché Grigia sembrava non avere un compagno e viveva da sola, o con Jane e il terzo compagno. Qualche giorno dopo avevo visto Jane entrare nel nido seguita da Grigia, ed entrambe erano rimaste dentro per un po’, emettendo un richiamo ad alta frequenza simile ai gridi dei nidiacei, un grido usato dalle cinciallegre in alcune fasi della nidificazione. Poi erano uscite insieme dalla cassetta con atteggiamento amichevole. Era successo più volte mentre Jane completava la costruzione del nido. Grigia a quel punto aveva smesso di portare materiale.
Nel frattempo il terzo compagno era impegnato a cantare vigorosamente e a difendere l’albero dagli intrusi, attività che gli costò le piume del capo e il conseguente appellativo di Testapelata. Di tanto in tanto entrava nella cassetta, giusto per vedere come procedevano i lavori. Non ho mai visto un maschio di cinciallegra o cinciarella contribuire alla costruzione del nido, anche se i più premurosi accompagnano le femmine avanti e indietro nei loro voli di raccolta del materiale. È una cosa che fanno i maschi di molte altre specie e che dà la falsa impressione che stiano costruendo il nido.
Nel frutteto risuonava spesso il canto armonioso di Jane, che in quel periodo era più originale che mai. La si vedeva volare via dal nido alla ricerca di materiale cantando, come straripante di gioia. Grigia le volava spesso dietro, come un’ombra silenziosa.
Quando Jane depose il suo primo uovo, a Grigia fu impedito di entrare nella cassetta. Lei si costruì allora in fretta e furia un nido tutto suo nel frutteto. Era un nido bellissimo e variopinto, perché aveva prelevato fili dai miei tappeti, cappotti e coperte, per poi volare via con il becco pieno di lanugine dai colori accesi. Non ebbi cuore di interrompere lo scempio, perché sapevo che aveva una fretta indiavolata. A quel punto mi era chiaro che condivideva il compagno con Jane. Testapelata faceva la guardia a entrambi i nidi con la stessa devozione, seguiva le due femmine nei loro spostamenti e ispezionava le cassette. Le due femmine erano ancora in rapporti amichevoli, e i tre si spostavano insieme. Nel giro di tre giorni Grigia aveva completato la costruzione del nido e deposto il suo primo uovo. Testapelata si premurava di portare da mangiare a entrambe le femmine ai rispettivi nidi, sia quando covavano sia quando erano fuori – e spesso si allontanavano contemporaneamente. In sua presenza entrambe le femmine sbattevano le ali ed emettevano gridolini infantili, e lui in cambio le nutriva, sempre in maniera galante e senza mostrare preferenze. Di tanto in tanto portava da mangiare a Grigia sull’albero vicino al nido di Jane quando questa stava covando. Doveva esserci un foro nella cassetta, perché sembrava che Jane se ne accorgesse e, forse per attirare l’attenzione, emetteva il suo canto più e più volte dall’interno del nido e poi sporgeva il capino, come a mostrare impazienza. Quando si verificava la situazione opposta, Grigia attendeva in silenzio il suo turno.
Le uova di Jane iniziarono a schiudersi l’8 maggio e, dal momento in cui Testapelata cominciò a nutrire i piccoli, Grigia venne lasciata completamente a sé stessa. Davanti a lui sbatteva le ali ed emetteva gli stessi gridolini di prima, ma Testapelata la ignorava. L’11 maggio si schiusero anche le sue uova. Uscita dal nido, seguì Testapelata fino alla cassetta di Jane emettendo versi concitati e facendo tremare le ali. (Questo comportamento sembrava comunicare l’informazione che le uova si stavano schiudendo). Il compagno continuò a non far caso a lei e Jane la cacciò via. Grigia sembrava molto agitata e tornando verso il nido emise richiami inusuali e versi di rimprovero. Per uno o due giorni fece le stesse toccanti richieste ogni volta che vedeva Testapelata, ma invano. Il 14 maggio entrò in volo nella mia stanza proprio nel momento in cui Testapelata stava prendendo del formaggio per i piccoli di Jane. Lei si fermò sul posto immediatamente, facendo tremare le ali ed emettendo un verso più lamentoso che mai. Lui le rivolse una rapida occhiata incuriosita e, con il formaggio ancora nel becco, cercò di montarla, ma lei aprì le penne della coda in segno di rabbia e se lo scrollò di dosso. Testapelata volò via e non la degnò mai più di uno sguardo. Lo attirai al nido di Grigia perché vedesse i piccoli. Lanciò loro un rapido sguardo, ma poi volò verso il nido di Jane e non tornò più. Ogni volta che la femmina abbandonata incontrava Jane o Testapelata, si piazzava loro davanti con lamenti angosciati e tremori sempre più esagerati e in qualche caso, quando i due scomparivano dalla vista, veniva a posarsi sulla mia spalla con le ali ancora tremanti e mi guardava con un’espressione implorante che mi commuoveva. Aveva sempre mangiato dalle mie mani e cercavo di aiutarla dandole cibo per i piccoli, ma non prendeva più nulla per sé. Il suo problema non era nutrire i piccoli; come era successo a Jane quando il suo secondo compagno era stato ucciso, le femmine si arrangiano sempre dopo la morte del maschio, senza sprecare energie in manifestazioni di dolore. Grigia sembrava soffrire dell’abbandono.
La mattina del 19 maggio Grigia non si presentò da me come al solito a prendere cibo per i piccoli, ma svolazzò intorno al nido di Jane per quasi tutto il tempo, senza smettere di manifestare in modo esasperato il suo affanno. I suoi gridi erano così angosciati e il comportamento così toccante – faceva tremare le ali con uno sforzo innaturale – che era penoso guardarla. Mentre implorava per l’ultima volta si dimenticò persino dei piccoli. Morì quello stesso pomeriggio, apparentemente di dolore. I piccoli sopravvissero solo qualche ora in più.
Jane e Testapelata allevarono quella prima nidiata e la successiva con successo, ma alla fine Jane sembrava molto stanca e dopo la muta non riacquistò più le forze. Nel corso dell’inverno lei e Testapelata non mostrarono grande interesse reciproco, nonostante fossero spesso insieme. Il rumore del suo volo era cambiato, era più pesante. Superò il duro inverno, ma morì all’inizio di aprile del 1947, all’età di sei anni.
II
Fin dal momento dell’involo Testapelata si era mostrato un individuo interessante, con un carattere ben definito. I suoi genitori – la Coppia Bellicosa – avevano cominciato i preparativi per la seconda nidiata già due settimane dopo che se n’era volato via, e lui si era messo a osservare tutte le fasi della nuova nidificazione in modo stranamente ossessivo. In genere i piccoli della prima nidiata non si curano affatto della seconda (sono poche le cinciallegre che allevano due nidiate nella stessa stagione). I suoi fratelli non si avvicinarono mai al nido, mentre Testapelata infilava di continuo la testa dentro la cassetta, come se volesse capire il mistero dell’intera faccenda e il perché all’improvviso suo padre avesse iniziato a nutrire la madre invece che lui. Quando la madre si allontanava dal nido, lui andava a curiosare e fissava le uova finché lei non tornava, lo scacciava e apriva le ali davanti all’ingresso in segno di protesta. Il giovane si presentava lì ogni giorno, come attratto da una calamita. Era divertente osservare il suo moto di sorpresa quando, non appena infilava la testa nel nido, i piccoli spalancavano il becco verso di lui. Si ritraeva rapidamente per poi tornare a dare un’altra occhiata, con la testa piegata prima a destra e poi a sinistra, come per assicurarsi di aver visto bene. Sembrava che i piccoli implumi lo affascinassero; tornava di continuo a guardarli e alla prima occhiata, immagino quando i piccoli scattavano in su con il becco aperto in attesa del cibo, sussultava sempre. Intralciava il lavoro dei genitori: quando portavano cibo al nido lui infilava la testa nel buco d’ingresso per guardare e loro si affacciavano emettendo richiami di rimprovero per allontanarlo. Se lo inseguivano per scacciarlo, lui assumeva comportamenti infantili, facendo tremare le ali ed emettendo versi da nidiaceo. Di rado ormai riceveva dei bruchi, ma spesso mangiava dalle mie mani e di tanto in tanto, prendendo un pezzetto del suo formaggio preferito, si voltava a guardare il nido: allora lasciava cadere il boccone e volava in tutta fretta in quella direzione, quasi nel timore di perdersi qualcosa che stava succedendo dentro la cassetta dei divertimenti.
La seconda nidiata fu presto pronta per l’involo e a un certo punto uno dei piccoli si trovava in bilico su un ramoscello con la tendenza a cadere in avanti tipica delle cinciallegre quando imparano a volare. Testapelata allora si alzò in volo e si esibì in una serie sbalorditiva di «cinciacrobazie» davanti a lui, che rimase a guardarlo con grande attenzione. Dopo aver fatto una capovolta intorno a un ramo ed esservi rimasto appeso con una zampa sola, mentre l’altra dondolava, e dopo aver strappato delle foglie con gran foga e averle buttate a terra, prese infine a picchiettare la corteccia come un tamburo e volò via. Da allora non mostrò mai più il minimo interesse per i piccoli o per la cassetta nido.
Dopo la morte di Jane all’inizio di aprile, Testapelata trovò presto un’altra compagna. La femmina scelse una cassetta nel frutteto, ma lui non mostrò interesse né per lei né per la cassetta, e solo di rado la accompagnava in volo o le portava del cibo. Aveva sviluppato un’altra ossessione, questa volta per la vecchia cassetta nido di Grigia. Aveva tenuto lontane le altre cince in maniera ostentata, mentre non si occupava affatto dei vecchi nidi di Jane (per la seconda nidiata Jane aveva scelto un’altra cassetta). Spesso quando la compagna si alzava dalla cova e lo chiamava, aspettandosi attenzione, lui era impegnato in una concitata esibizione davanti alla cassetta di Grigia e la ignorava. Lei attendeva qualche istante, poi il suo richiamo gentile si trasformava in un sommesso rimprovero mentre volava via per provvedere a sé stessa. Testapelata proseguiva la sua danza scatenata davanti alla cassetta vuota, incurante della compagna – detta Monocolo, perché aveva un occhio cerchiato di scuro. È difficile descrivere il comportamento insolito di Testapelata in quanto dipendeva in gran parte dall’agitazione e dalla concentrazione. Iniziava sbirciando nel foro di ingresso come impaziente di vedere qualcosa, quindi entrava nella cassetta con dei gridolini acuti da nidiaceo per poi esibirsi in un vigoroso crescendo di versi sempre più insistenti fino a che non iniziava a saltellare freneticamente dentro e fuori dal nido, sempre più in fretta, come se la sua esistenza dipendesse dalla velocità dell’azione. Di tanto in tanto saltava sul coperchio della cassetta emettendo un verso strano, quindi rientrava al suo interno, e poi ripeteva l’intera performance, anche se mai in una sequenza definita. I gesti convulsi e i richiami insistenti erano del tutto fuori dalla norma. Monocolo, la sua attuale compagna, aveva decisamente meno fascino e carattere di Jane e Grigia. Chissà se Testapelata se ne rendeva conto e desiderava che Grigia tornasse nel suo vecchio nido, o se invece era insoddisfatto perché quell’anno aveva una compagna sola? È raro che le cinciallegre siano bigame, ma hanno un carattere talmente individuale che in tema di nidificazione non ci sono regole. Di solito la coppia alleva una nidiata all’anno, il maschio è premuroso con la femmina durante la cova e procura volentieri il cibo per i piccoli fino a due o tre settimane dopo l’involo. Eppure, persino all’interno di questi comportamenti tipici, spesso definiti «istintivi», si riscontra una grandissima varietà di particolari e non c’è una coppia uguale all’altra rispetto alla costruzione del nido e alla cura dei piccoli.
L’esibizione sfrenata di Testapelata davanti al nido di Grigia si interrompeva di colpo; poi lui si allontanava con un atteggiamento calmo e rilassato dalla parte opposta al nido della compagna. Il suo comportamento era molto diverso rispetto a quello dell’anno passato, con le due compagne precedenti; durante la cova le aveva nutrite entrambe con regolarità, accompagnandole quando si allontanavano e senza mai perdere di vista i nidi.
La sua ossessione per il nido di Grigia durò finché le uova della compagna si schiusero. Da quel momento si dedicò a nutrire gli otto piccoli. Non solo, ne adottarono anche altri otto, ormai vicini all’involo, di uno dei figli suoi e di Jane.
Era successo così. Nella seconda nidiata di Jane e Testapelata c’era un individuo grosso e audace come il padre, e interessantissimo da osservare. Paffutello, al pari di Testapelata, era rimasto nel mio giardino per tutto l’inverno ed entrambi vi avevano nidificato. Testapelata era padrone del frutteto, mentre Paffutello condivideva il giardino sul davanti della casa con un’altra coppia. I due si scontravano spesso per ragioni di territorio, con gesti plateali e un linguaggio tutto loro. Anche le rispettive compagne avevano spesso liti animate, e talvolta finivano per ruzzolare sul terreno avvinghiate una all’altra per le zampe. I litigi tra le due femmine erano accesi e intensi, ma di breve durata; i maschi invece sembravano divertirsi a fare delle loro svariate scene un lungo gioco o un’arte magnifica, andando avanti a volte anche per tre ore.
Paffutello era un compagno fedele, come spesso accade agli individui nel loro primo anno di vita. Seguiva la compagna mentre raccoglieva materiale per il nido, osservandone tutti i movimenti pur senza fornire alcun aiuto. Se cercava di seguirla all’interno del nido, lei lo scacciava. Lui attendeva pazientemente fuori, lanciando occhiate dal foro di ingresso, finché lei non ripartiva alla ricerca di altro materiale. Forse i maschi di molte specie non aiutano a costruire il nido perché le femmine non lo consentono.
Un pomeriggio, mentre la compagna riposava su un ramo poco più in alto, Paffutello si avventurò all’interno della cassetta ed emise flebili richiami da nidiaceo. Lei volò immediatamente su un altro albero e lo chiamò. Lui la raggiunse. Riuscita nell’intento di farlo allontanare dal nido, lei tornò sul ramo sopra la cassetta e, appollaiata su una zampa sola, riprese a riposare. Lui tornò alla cassetta ma questa volta si posò silenzioso sul ripiano davanti all’apertura, sollevando spesso lo sguardo verso di lei.
Il 2 giugno il povero Paffutello perse la sua compagna. C’era appena stata un’ondata di caldo e lo sforzo di nutrire i piccoli con quell’afa l’aveva sfinita. In condizioni normali sarebbero mancati cinque o sei giorni all’involo. Per tutto il giorno e per quello successivo Paffutello continuò a nutrire i figli, ma sembrava inquieto e triste. Quando come al solito venne a posarsi sulle mie mani per avere del cibo, buttò a terra tutto ciò che gli offrii e alla fine se ne andò senza mangiare nulla.
Il 4 giugno diede da mangiare alla nidiata fino alle undici del mattino, ma si comportava in modo strano e pareva assente. Quel giorno non venne da me; per la prima volta in vita sua non mi aveva dato retta quando l’avevo chiamato. Né sembrò accorgersi dei bocconcini che gli mostravo: noci e formaggio che prima di allora aveva sempre accettato di buon grado per sé o per i piccoli. I suoi occhi sembravano non mettere a fuoco nessun oggetto e avevano una strana espressione. Verso le undici uscii e al mio ritorno alle due e mezzo era sparito. I piccoli continuarono a gridare fino alle cinque. A quel punto Testapelata, di certo attratto dai richiami, li osservò incuriosito dal foro d’ingresso della cassetta, ma poi si allontanò per andare a dare da mangiare ai propri, che avevano preso il volo il 31 maggio ed erano ancora nel frutteto.
Se avessi dato a Testapelata gli otto piccoli di Paffutello, li avrebbe adottati? Sembrava improbabile, avendone lui già otto suoi, ma presi comunque due dei piccoli e li misi nella sua cassetta nido. Il più grande dei due si arrampicò subito fuori, fortunatamente proprio mentre Monocolo rientrava, e svolazzò fino a un ramo lì vicino. Monocolo sembrò disorientata ed emise prima un verso di rimprovero e poi il richiamo dolce usato dai genitori durante il primo volo della prole. Alla vista di Monocolo, il nidiaceo affamato gridò e fece tremare le ali. La femmina lanciò uno sguardo agli alberi, come per accertarsi che non ci fossero altri genitori in vista, poi andò in tutta fretta a prendere dei bruchi, quasi si fosse resa conto che il piccolo era affamatissimo. Tornò alla sua cassetta e sbirciò attraverso il foro. L’altro piccolo era rimasto in silenzio nel nido ma lei non entrò. Lo spostai vicino all’altro sul ramo. Essendo più piccolo e ancora inetto a volare, si sbilanciò e cadde nell’erba. Monocolo sembrò preoccupata e volò intorno a lui, emettendo richiami dolci, cercando di persuaderlo a salire e rifugiarsi su un ramo. Ma il nidiaceo si limitava a gemere, così lei gli portò da mangiare lì dov’era.
Andai a prendere altri due piccoli di Paffutello. Proprio mentre li stavo posando sul ramo, accanto ai precedenti, arrivò Testapelata. Come la compagna, sembrò sconcertato. Si guardò intorno tra gli alberi in cerca dei genitori. Un richiamo di rimprovero appena accennato si affievolì fino a spegnersi del tutto. Guardò la compagna, che gli restituì l’occhiata. Poi la femmina si avvicinò ancora una volta ai piccoli ed emise dei richiami sommessi. In un batter d’occhio Testapelata scomparve per tornare con un grosso bruco che gli pendeva dal becco e, sebbene i piccoli non si lamentassero, con grande zelo li riempì di cibo, che si procurava a velocità record. I due sembravano essersi resi conto che i piccoli erano affamatissimi anche se non lo mostravano.
Procedeva tutto così bene che andai a prendere gli altri quattro piccoli, due alla volta. Testapelata e Monocolo entrarono in uno stato di eccitazione ancora maggiore, emettevano richiami e portavano da mangiare ai piccoli scambiandosi frequenti occhiate. Poi Testapelata volò alla sua cassetta nido seguito dalla femmina e con un chiacchiericcio sommesso i due si misero a esaminarla da tutti i lati, dentro e fuori, in un apparente tentativo di capire da dove fossero sbucati quei piccoli. Poiché Testapelata non li aveva visti uscire dalla cassetta, doveva essere stata la compagna a trasmettergli l’informazione.
Poco alla volta i due attirarono i giovani ormai prossimi all’involo a unirsi ai propri sugli alberi dall’altro lato del frutteto, ma quattro di loro erano troppo piccoli per volare ed ebbero bisogno del mio aiuto. L’operazione ebbe un tale successo che gli adottati venivano accuditi più degli altri. Testapelata sembrava del tutto a suo agio nell’eccitazione da adozione e cominciò persino a comportarsi diversamente nei confronti della compagna. Quando lei volava nei pressi del nido la raggiungeva e si esibivano insieme facendo vibrare le ali e imitando il richiamo dei nidiacei, cosa che non avevano più fatto dopo l’involo dei loro piccoli. La ripresa di manifestazioni tipiche della fase pre-cova, spesso eseguite con maggior trasporto, è frequente tra le cinciallegre e le cinciarelle che si sono dedicate con entusiasmo alla costruzione del nido. Testapelata non si era mai esibito in simili comportamenti con Monocolo; mentre l’anno precedente lui e Jane avevano spesso fatto tremare le ali dopo l’involo di ciascuna delle loro due nidiate.
Il 29 giugno, tre settimane dopo essere sparito, Paffutello ricomparve in giardino accompagnato da tre giovani ormai quasi adulti, che dovevano avere cinque giorni meno dei suoi. Venne subito a posarsi sulla mia spalla come faceva sempre, prese dalla mia mano del cibo e lo diede ai figli adottivi. Una vedova doveva averlo attirato per farsi aiutare a crescere la prole, ma non si presentò con lui nel mio giardino.
A quel punto i piccoli di Paffutello erano molti di meno e i genitori adottivi stavano insegnando loro a essere indipendenti. Poiché ormai venivano nutriti di rado, si misero a inseguire Paffutello per sottrargli dal becco i bruchi che raccoglieva per gli altri tre. Lui non permise mai che gli rubassero il cibo, ma aveva un atteggiamento insolitamente bonario nei loro confronti e non li scacciava con versi di rimprovero, come di solito invece accade quando giovani ormai cresciuti tormentano i genitori per avere il cibo destinato alla nidiata successiva. Tuttavia, a reclamare il cibo erano i suoi figli, e avevano più diritto ai bruchi di quanto non ne avessero i piccoli adottivi. Non c’è modo di provare se Paffutello se ne rendesse conto, ma la sua tolleranza nei confronti degli inseguitori fa pensare che riconoscesse in loro la sua legittima prole. Lo incalzavano al punto che Paffutello dovette inventarsi uno stratagemma: con il cibo nel becco faceva una deviazione all’interno del cottage, che i giovani non conoscevano altrettanto bene, passando dalle finestre del bagno e della cucina. Quando uno dei giovani fu abbastanza furbo da seguirlo, lui lo staccò con un volo rapidissimo tra gli alberi, e il giovane lo raggiunse nel momento in cui il tanto desiderato bruco era appena finito nella gola di uno dei piccoli adottivi.
Al suo ritorno, Paffutello dovette gestire una situazione complicata. Testapelata sembrava portargli rancore e ogni volta che lo vedeva si lanciava al suo inseguimento per scacciarlo dal giardino di fronte. Questo accanimento non aveva nulla a che vedere con la difesa del territorio, perché quello di Testapelata era il frutteto sul retro del cottage. Le altre cinciallegre con prole che avevano il nido nel giardino non si curavano di lui, né Testapelata mostrò peraltro ostilità nei confronti di nessun’altra cincia. Testapelata sembrava ritenere che Paffutello, abbandonando i piccoli, avesse perso il diritto a tornare al luogo del nido, e quest’ultimo cedeva di fronte a quelle manifestazioni di rabbia.
In autunno una femmina, forse la madre del terzetto, prese ad accompagnare Paffutello al cottage e poco alla volta Testapelata smise di aggredirlo, a parte quando nelle giornate miti di ottobre e novembre il giovane infilava la testa nelle cassette. Da allora non ha mai più fatto il nido qui, ma al di fuori della stagione riproduttiva viene spesso da me.
Testapelata e Monocolo rimasero insieme per tutto l’autunno e l’inverno, ma senza mostrare grande interesse reciproco. Ebbero dei battibecchi riguardo alle nuove cassette per posatoio che avevo sistemato per loro. Lui si aspettava di avere la precedenza nella scelta, ma cambiava posatoio da una notte all’altra e sembrava non riuscire a decidersi. La compagna rimaneva posata su un ramo, intanto che lui sfrecciava qua e là, infilando la testa nelle aperture senza mai entrare. Dopo un po’ lei si spazientiva e cercava di assicurarsi un rifugio per la notte ma, non appena puntava una qualunque cassetta, Testapelata le si piazzava davanti e le impediva di entrare con rimproveri chiassosi. Monocolo si allontanava e questo equivaleva a decidere per lui, che a quel punto ci entrava mentre lei ne sceglieva un’altra. (Raramente le cinciallegre passano la notte insieme, anche quando sono inseparabili durante il giorno). Penso che fosse un sorta di gioco serale, perché ho visto spesso uccelli comportarsi in maniera giocosa prima di posarsi per la notte. Quando arriverà il momento di costruire il nido, il maschio lascerà la precedenza alla compagna su ogni decisione, ma in autunno e in inverno lui passa in primo piano – almeno nel caso di specie in cui i due membri della coppia trascorrono insieme tutto l’anno. Ho notato che c’è un momento in cui la dinamica si inverte, durante il quale maschio e femmina indugiano cortesemente, ognuno in attesa che l’altro si serva del primo boccone.
Durante le nostre interazioni Testapelata si mostra spesso più furbo di me. Le noci sono il suo cibo preferito e quando l’autunno scorso ne portai a casa un sacchetto gliene diedi una e lui la mangiò posato sulla traversa sotto una sedia. Sapendo che avrebbe strappato il sacchetto per prenderne un’altra, lo avvolsi in un canovaccio e ne ripiegai le estremità al di sotto; mi sembrava impossibile da aprire per un piccolo uccello delle sue dimensioni e lasciai il tutto su un tavolino. Mentre avvolgevo il sacchetto ero rimasta di spalle e Testapelata non poteva aver visto nulla da dove si trovava, sotto la sedia. Poco dopo venne sulla mia mano per avere un’altra noce, ma io gli diedi del formaggio, la sua seconda pietanza preferita. Lo buttò a terra con impazienza e mi rivolse uno sguardo carico di aspettativa. Gli proposi di nuovo del formaggio. Fece una strana smorfia con il becco semiaperto, rifiutò il boccone che gli offrivo e svolazzò in giro per la stanza, in cerca del sacchetto che non riuscì a individuare. Mi assentai per qualche minuto e al mio ritorno Testapelata volò fuori dalla soprafinestra con la fretta che mostrava sempre dopo aver rubato qualcosa. Le noci rotolarono sul tavolino. Aveva tirato il canovaccio fino a disfare l’involto e aveva strappato il sacchetto di carta, prendendosi una noce. Non avevo mai avvolto cibo nel canovaccio, né mettevo mai il mangiare per i miei uccelli su quel tavolino, che usavo in genere per il materiale da pittura; non aveva ragione di sospettare che il fagotto contenesse il sacchetto, avvolto da due strati di stoffa.
Testapelata è anche ghiotto di burro, ma sa che non lo deve rubare dal piatto e non osa farlo a meno che io non gli abbia dato il permesso – finché mi trovo nella stanza. (Gli uccelli sono sensibili e apprendono molto in fretta cosa è proibito e cosa è permesso, ma non hanno coscienza di disobbedire se si è di spalle!). Quando fa freddo però, e il burro è duro e resta a pezzetti quando lo spalmo sul pane, lui si alza in volo e, con la destrezza di uno scippatore, ne arraffa uno proprio mentre sto per addentare la fetta. Poiché lo incoraggio spesso a prendere il cibo dalle mie mani non avrebbe senso sgridarlo per questo, ma per sicurezza lui vola sempre fuori dalla finestra con il suo bottino, anziché mangiarselo dentro casa come fa con i bocconi che gli dò io.
Al pari di molte altre cinciallegre, Testapelata trova sempre il modo di aprire i contenitori in cui nascondo i bocconcini destinati ai miei uccelli. Invece di becchettare sul recipiente nel tentativo di aprirlo, lo ispeziona con attenzione, prendendo nota, almeno in apparenza, della sua struttura; poi tenta di aprirlo nel modo corretto a seconda del tipo di vasetto e in genere ci riesce dopo qualche sforzo, a meno che non si tratti di un contenitore che io stessa fatico ad aprire. Se si tratta di una scatola di fiammiferi, tiene ferma la custodia con le zampe e sfila l’interno tirandolo col becco; se non scorre facilmente, la solleva, la ribalta e la scuote per far uscire il contenuto. Quando si trovò davanti per la prima volta una scatolina portapillole con l’apertura a scatto, la esaminò con molta attenzione, poi fece leva verso l’alto dal lato opposto a quello della cerniera. Il problema con quella scatola era che, se la si apriva appena, il coperchio si richiudeva prima che potesse afferrarne il contenuto. Eppure, dopo qualche tentativo fallito imparò ad aprirla di più e a infilarci dentro la testa prima che si richiudesse. A volte la teneva aperta con la zampa. Questi sono solo alcuni esempi dell’intelligenza di Testapelata. Altre cinciallegre, parimenti a loro agio nel cottage, non si spinsero mai oltre il becchettare sul coperchio dei contenitori pur avendo visto individui più intelligenti nell’atto di aprirli. L’intelligenza è un carattere molto variabile anche all’interno della stessa specie.
III
Uno dei piccoli di Jane, una femmina nata dal suo primo compagno, era un altro individuo dal carattere eccezionale, che aveva la peculiarità di non riuscire a deporre uova. Era una delle tre femmine della prima nidiata della stagione. Le altre due sorelle erano legate tra loro ed erano sempre insieme, ma lei sembrava avere paura degli altri uccelli e stava sempre sola. Quando la avvicinavano, si allontanava con uno squittio, poi si esaminava nervosamente le zampe. Aveva delle zampette minuscole, il che in parte era forse causa della sua paura, visto che vengono utilizzate per difesa. Quando era ancora giovane, le erano state strappate alcune piume dalla testa e da quel momento aveva evitato più che mai gli altri uccelli, mentre cercava la mia compagnia e passava molto tempo sulle traverse sotto la mia sedia. Di notte si posava sul binario che reggeva i quadri sopra il mio letto; fu la prima cinciallegra a farlo. Le piume sul capo rispuntarono ma le diedero un aspetto arruffato, da cui il nome Ciuffolo. Come molti dei miei uccellini, imparò in fretta a rispondere al suo nome.
Ciuffolo aveva un carattere molto personale, come i suoi genitori: era impossibile confonderla con qualunque altra cincia, fin da giovane, e i suoi modi talvolta suggerivano disagio. Spariva sempre all’ora dei pasti, quando gli altri uccelli mi si affollavano intorno; solo dopo che si erano allontanati mi si avvicinava con fare furtivo da dietro, si arrampicava sui miei polpacci e mi becchettava con delicatezza sotto le ginocchia; poi andava ad appollaiarsi di fronte, guardando ora me ora le sue zampe. Non appena pronunciavo il suo nome, veniva subito a mangiare dalle mie mani. Questa sequenza di azioni si trasformò in un gioco che facevamo spesso. Quando mi vedeva intenta a una qualche attività, mi si avvicinava da dietro e mi dava un colpetto col becco in qualche parte imprevista, oppure mi saltellava addosso qua e là finché non trovava una parte più sottile dei miei vestiti; allora allargava i fili della trama per creare un buchetto attraverso cui pizzicarmi, e alzava la testa per vedere la mia reazione. Il gioco proseguiva fino a che io non emettevo un gemito sofferente; a quel punto nei suoi occhi si accendeva un brillio di soddisfazione mentre mi si posava dirimpetto guardando a turno me e le sue zampe.
Se Ciuffolo aveva fame e non era riuscita a farmelo capire, o volava sulla tenda e strappava pelucchi dal velluto oppure stracciava le pagine dell’elenco telefonico, senza mai smettere di guardarmi piena di aspettativa, poiché sapeva che rovinare gli oggetti era qualcosa che attirava sempre la mia attenzione e non era permesso.
Aveva un piumaggio più liscio e dai colori più brillanti rispetto alle altre cince femmine, ma per altri versi sia il suo aspetto che il comportamento erano decisamente femminili. Il suo primo compagno fu un bel maschio di grossa corporatura (le dimensioni delle cince possono essere molto diverse). Ciuffolo gli diede del filo da torcere, con la sua lentezza nel prendere decisioni. Lui si fece in quattro perché scegliesse dove fare il nido, ma per settimane lei rimase indecisa tra quattro cassette nel frutteto e il poveretto dovette difenderle tutte, con coraggio e determinazione, dalle altre cince impazienti. Ciuffolo si metteva di buzzo buono e allargava il foro di ingresso di una di esse, poi guardava all’interno, emetteva uno squittio come di spavento e volava via verso un’altra. Il compagno la seguiva cercando di incoraggiarla e persuaderla entrando lui stesso nelle cassette e lanciando versi simili a quelli dei nidiacei. Tutti i maschi lo fanno ma in genere sono le femmine a passare più tempo nei punti candidati alla nidificazione; oltretutto, di solito le femmine rispondono emettendo gli stessi versi.3 Ciuffolo entrava e usciva rapidamente dalle cassette senza emettere alcun suono, fatta eccezione per l’occasionale squittio di preoccupazione prima di volare alla cassetta successiva.
L’indecisione perdurò finché le uova di tutte le cince del vicinato non si furono schiuse, poi il compagno divenne molto irrequieto e sparirono insieme dal giardino per un mese. Ciuffolo tornò da sola; passava il tempo sugli alberi, prendendo il sole, tranquilla. Il suo piumaggio era in ottime condizioni, ero certa che non avesse covato durante la sua assenza.
L’anno seguente si comportò più o meno nello stesso modo ma con un compagno diverso. Non depose uova, si assentò dal giardino per tre settimane e quando tornò aveva perso le penne sulla sommità del capo, probabilmente per opera del compagno esasperato che si era mostrato molto impaziente prima che si allontanassero dal frutteto.
Il terzo anno si scelse come compagno un uccellino strano e timido, con due baffoni simili a corna che gli si incrociavano sopra il becco rendendogli difficile prendere il cibo. Era sempre molto apprensivo e quando afferrava un boccone dalle mie mani, preso dall’agitazione, finiva sempre per lasciarlo cadere in volo. «Baffetto» sembrava sempre scompigliato e si muoveva nervosamente, a scatti, ma era un compagno fedele e l’anno precedente aveva allevato una nidiata da solo, poiché la compagna era morta subito dopo la schiusa delle uova.
Ciuffolo aveva ora la livrea primaverile, lucida e brillante, e aveva pian piano superato la sua paura degli altri uccelli. Si difendeva da sola e talvolta era addirittura lei ad attaccar briga. A quanto potei osservare durante l’inverno e l’inizio della primavera, i due erano diventati una coppia senza alcun corteggiamento, appena prima del periodo della nidificazione. Questa volta Ciuffolo aveva scelto senza esitazione la cassetta nido più grande e la migliore di tutto il giardino. Baffetto, che aveva zampe forti e un becco minaccioso, fingeva di voler difendere la postazione mettendosi all’improvviso a svolazzare nervosamente avanti e indietro davanti a essa. Ciuffolo stessa si fece più coraggiosa: le sue zampette si rivelarono altrettanto forti di quelle di una o due femmine più grosse con le quali si trovò a lottare. Così, grazie agli sforzi comuni, i due riuscirono a mantenere il controllo della tanto ambita cassetta.
La costruzione del nido, tuttavia, procedette molto a rilento. Sembrava che Ciuffolo giocasse a fare il nido. Come gli altri maschi prima di lui, Baffetto cercava di metterle fretta (o almeno così sembrava) emettendo schiamazzi a imitazione di un coro dei nidiacei sia da dentro la cassetta sia da fuori, ma Ciuffolo non rispondeva mai alle sue dimostrazioni e si limitava a fare un verso ogni tanto. Tutte le mattine portava un po’ di muschio al nido e tra un viaggio e l’altro passava il tempo a strappare la corteccia da un ramo di melo poco più in alto. A un certo punto Baffetto divenne impaziente e prese a inseguirla ovunque, per accoppiarsi con lei, ma lei lo scansò sempre (credo) senza mai permettere che accadesse.
La nidificazione era iniziata presto quell’anno (il 1946); il 26 maggio i giovani di altre cinciallegre avevano già preso il volo, mentre Ciuffolo stava ancora portando il muschio al nido tutte le mattine. Ogni volta, prima di raccoglierne altro, strappava foglie da una rosa balsamina che cresceva vicino al nido e le riduceva a pezzetti che poi buttava a terra. Da questi accessi distruttivi traspariva una grande irrequietezza, senza dubbio generata dalla frustrazione dovuta al fatto che non era in grado di deporre uova. Quel giorno Baffetto iniziò a perdere interesse per il nido e Ciuffolo dovette cavarsela senza di lui per quasi tutta la giornata. Continuò comunque a difendere energicamente il territorio: il 28 maggio scacciò i giovani figli di Jane con un gran trambusto. Il 31 maggio aveva raccolto abbastanza muschio senza però rivestire il nido né rifinirlo a dovere. Ci dormiva dentro ogni notte e al mattino faceva dentro e fuori più volte, ma non raccolse più materiale. Passava la maggior parte delle giornate a mordicchiare rametti e strappare foglie dalla rosa balsamina con ancora più foga del solito. Baffetto compariva ogni tanto, quando lei non c’era. Da qualche tempo Ciuffolo aveva poco appetito, sebbene sembrasse in buona salute e in ottime condizioni fisiche. Nelle due settimane successive fecero la guardia al nido vuoto, più lei che lui, e mai insieme. Baffetto era più irrequieto del solito, mi strappava il cibo dalle mani per poi lasciarlo cadere in volo.
Il 14 giugno trovai un uovo di pernice in un campo e lo misi nel nido. Ciuffolo si mise immediatamente a covare. Baffetto non era presente quando avevo depositato l’uovo nella cassetta né quando la compagna aveva iniziato a covare, ma eccolo in meno di un minuto portando un bruco nello strano becco. Ciuffolo mise la testa fuori dalla cassetta per prenderlo e finalmente i due sembravano felici. Come faceva Baffetto a sapere della cova? Non poteva averlo visto né sentito: non le aveva mai portato da mangiare prima di allora e lei non aveva mai emesso il verso dei giovani pronti all’involo che le femmine usano quando sono pronte a ricevere cibo dal compagno. Erano due settimane che non li avvistavo insieme in giardino, eppure, ignaro dell’uovo e senza essere nei paraggi quando Ciuffolo si era sistemata nel nido, lui aveva attraversato in un lampo il giardino dei vicini con un bruco per lei non appena aveva iniziato a covare. Sull’onda dell’entusiasmo, Baffetto si mise a portarle da mangiare ogni pochi minuti e Ciuffolo, invece di concentrarsi sulla cova, continuava a mettere la testa fuori dal nido per vedere se arrivava. Nel pomeriggio si allontanò dal nido per tre ore, con grande sconcerto del compagno che arrivò con i bruchi e sembrò perplesso di non trovarla a covare. Si mise a volare per il giardino, emettendo richiami sommessi; non riuscendo a trovarla, si pose di guardia al nido fino al suo ritorno, quando riprese a nutrirla felice.
Il giorno successivo Ciuffolo rimase nel nido solo una parte della mattinata, venendo nutrita con devozione; come il giorno prima, non stava mai ferma sull’uovo, metteva la testa fuori dalla cassetta di continuo. Per due settimane Ciuffolo giocò a covare il grosso uovo che avevo messo nel nido, per circa un’ora al giorno. Baffetto era nella parte, e le portava da mangiare finché lei covava. Poi i due si separavano per il resto della giornata, alternandosi nel fare la guardia o allontanandosi dal giardino. Il compagno non le portò mai del cibo in luoghi che non fossero il nido, come invece accade normalmente. L’appetito di lei si era risvegliato, notai, dopo la comparsa dell’uovo di pernice.
Dal 1° al 6 luglio i due rimasero spesso lontani e non tornavano mai insieme. Ciuffolo non provò più a covare, ma continuava a difendere il nido con grandi schiamazzi ogni volta che qualche uccello si avvicinava. Era ingrassata e sembrava in ottime condizioni, mentre le altre femmine erano magre e trasandate, stremate dalle fatiche della vita famigliare.
Tra il 6 e il 31 luglio la vidi raramente in giardino. Non entrò più nel nido. Anche Baffetto compariva di rado e quando lo faceva si limitava a strapparmi del cibo dalle mani per poi sparire di nuovo. Come era accaduto negli anni precedenti, in agosto Ciuffolo tornò più stabilmente in zona, riprese a oziare al sole e tornò alle vecchie abitudini di guardarsi le zampe e giocare a mordicchiarmi. Come prima, il suo aspetto non cambiò di molto con la muta. Baffetto non tornò con lei.
Per tutto l’autunno continuò a scacciare gli uccelli che si avvicinavano alla cassetta nido, dove si era sistemata. Nelle giornate calde di ottobre vi portò addirittura del muschio, cosa che non avevo mai visto fare a nessuna cincia in autunno. Baffetto ricomparve per strapparmi spasmodicamente il cibo dalle mani, che finiva spesso per lasciare cadere volando via in tutta fretta. All’inizio dell’inverno sparì del tutto.
Una notte, alla fine di dicembre, la povera Ciuffolo venne uccisa da un gatto del vicinato. Trovai i suoi resti vicino alla cassetta nido, che il gatto aveva buttato a terra dopo aver rotto la corda che la teneva legata all’albero.
IV
In autunno le sorelle di Ciuffolo, che fino ad allora erano state inseparabili, si allontanarono. Una delle due lasciò definitivamente il mio giardino (o fu uccisa senza che me ne accorgessi), mentre l’altra, un individuo particolarmente intelligente, rimase nei paraggi e potei osservarla molto bene. L’avevo chiamata Virgola perché aveva la coda piegata di lato. Dopo la muta la coda era dritta, ma a furia di dormirci sopra aveva preso la forma di una falce sbrindellata.
Virgola sembrava capire quello che le dicevo e quand’era giovane sembrava che le piacesse essere accarezzata, a differenza delle altre cinciallegre. Come tutta la prole di Jane, non ebbe mai paura di me; quando era ormai pronta all’involo, si appisolava sulle mie ginocchia e si faceva la toeletta sulla mia mano o sulla mia spalla. Potevo sollevare la mano con lei sopra, portarmela vicino al viso e accarezzarla delicatamente con la guancia: quando lo facevo girava la testa per guardarmi, ma non se ne andava. In genere agli uccelli non piace essere accarezzati sul dorso, mentre non sembrano infastiditi dalle carezze sul petto o sui fianchi. Penso che dipenda dal fatto che a volte i genitori, quando vedono un falco passare in volo, si mettono sopra il dorso dei piccoli per spingerli via da un luogo esposto. Non solo, quando i figli sono ormai cresciuti e le loro richieste di cibo diventano troppo insistenti, i genitori li mettono a tacere salendo loro sul dorso.
Un giorno, mentre la stavo accarezzando dissi a Virgola: «Dammi un bacio». Con mia grande sorpresa, mi toccò velocemente il naso con il becco: il bacio di un pennuto. Pensai che fosse solo un caso, ma il giorno dopo reagì alle mie parole nello stesso modo, e così fece per il resto della sua vita. Se però ripetevo la richiesta, mi guardava con un’espressione interdetta e non faceva nulla, e se io insistevo per cercare di persuaderla mi guardava male. Dovevano passare una o due ore perché lo facesse di nuovo. Quando aveva fame, se vedeva che avevo del formaggio per lei spesso mi dava tre baci in rapida successione, ma anche allora non mi gratificava mai di una seconda volta. Non dava mai baci se non glielo chiedevo, né reagiva con un bacio a una frase diversa.
Ogni individuo ha il suo modo di chiedere da mangiare. Virgola mi si posava sulla spalla e mi guardava con aria implorante. Se dicevo: «Non ho nulla», la sua espressione si faceva ostile, lei se ne andava dalla mia spalla, si posava di fronte a me e mi fissava. Se dicevo: «Vado a prenderti qualcosa?», volava subito alla porta, l’espressione impaziente e trepidante. Mentre io andavo in cucina, mi aspettava sopra lo stipite della porta del soggiorno o mi seguiva, e con la testa in avanti teneva d’occhio il formaggio che sapeva essere destinato a lei. Mangiava solo formaggio o frutta secca; se le offrivo del pane o del lardo li guardava per un momento, quindi li prendeva nel becco e li lanciava dall’altra parte della stanza, per poi rivolgermi uno sguardo implorante. Se le davo di nuovo un boccone non gradito, si girava in un saltello per dare le spalle al cibo. Poi si rigirava e mi guardava, evidentemente certa che questa volta avrei capito che voleva formaggio o noci. In effetti lo capivo e alla fine otteneva ciò che desiderava, ma non intendevo incoraggiarla a lanciare cibo dall’altra parte della stanza dandole il formaggio quando lo faceva.
Molte delle mie cince sono davvero abili a trovare il cibo che ho nascosto, ma Virgola lo era in modo incredibile. Le bastava vedere una volta il nascondiglio del suo cibo preferito per ricordarlo. Era capace di far cadere un piattino perché il giorno prima mi aveva visto usarlo per coprire gli avanzi del suo formaggio.
Il compagno di Virgola veniva da un boschetto oltre i campi di là dalla strada. Il suo verso tii-ciu era leggermente diverso da quello degli altri uccelli:
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Cantava queste note molto velocemente e le ripeteva di continuo con uno splendido ritmo vivace.
Fu Virgola, e non il compagno, a scegliere il luogo per il loro primo nido. Combatté a lungo per rimanere nel mio giardino, ma la Coppia Bellicosa finì per allontanarla; il punto più vicino era il fumaiolo di uno dei fabbricati agricoli sul lato opposto della strada. Quando i piccoli furono quasi in grado di volare, veniva spesso a posarsi sul binario per i quadri sopra il mio letto. Una sera ci andò prima del solito. Tre dei giovani avevano preso il volo, gli altri erano ancora nel nido. Sembrava completamente esausta e si mise subito a dormire con la testa sotto l’ala senza fare prima la solita toeletta. Un minuto dopo tuttavia si rizzò sul binario con la testa in avanti; in un batter d’occhio era già volata fuori dalla finestra, aveva attraversato la strada ed era tornata dai figli, a quanto pare solo per dare un’altra occhiata e assicurarsi che fosse tutto a posto. Tornò poco dopo e questa volta non si mosse fino all’alba, quando come al solito volò sopra le tende chiuse e poi fuori dalla lunetta aperta.
La sera successiva mi sembrò più stravolta del solito. Tutti e nove i suoi figli avevano preso il volo. È sempre il momento più difficile per una cincia con una prole numerosa. Per la stanchezza, il giorno dopo si svegliò tardi. Non si mosse finché non aprii le tende alle sette e mezzo (ora legale). Si accorse subito che era tardi e si drizzò con un’espressione preoccupata; si precipitò dai figli di là dalla strada gridando un sonoro richiamo di rimprovero. Non dormì mai più in casa. Era un uso insolito del verso di rimprovero; forse era seccata con sé stessa o temeva che fosse accaduto qualcosa di brutto alla prole abbandonata.
Per i due anni successivi Virgola fece il nido nel boschetto del compagno, forse perché il fumaiolo era stato rimosso e il compagno preferiva il suo territorio. Quando nel boschetto fiorirono le viole bianche, le visite di Virgola al cottage si fecero più rare e frettolose. Quando le campanule sbocciarono in tutto il loro splendore, le sue visite occasionali divennero brevissime, perché nel boschetto c’era un frassino con una bella cavità scolpita nel tronco e quel foro era divenuto il centro del suo mondo. Quando infine le primule riempirono i prati, non comparve più al cottage fintanto che dovette allevare i suoi piccoli. È più facile prevedere le fasi della nidificazione degli uccelli sulla base delle fioriture che delle date del calendario.
Tuttavia, poiché passeggiavo spesso fino al boschetto, non mi fu difficile mantenere i contatti con Virgola: ai miei richiami accorreva sempre con il compagno. A volte mi veniva incontro in volo sul prato pieno di primule prima che la chiamassi; mangiava il formaggio che le avevo portato appollaiata sulla mia spalla mentre il maschio lo prendeva dalle mie mani.
Finito il periodo della nidificazione, Virgola ricomparve in giardino per lunghe visite quotidiane e nel corso dell’autunno e dell’inverno passò moltissimo tempo dentro casa. A differenza di sua madre Jane, che era inseparabile dal primo compagno, si presentava quasi sempre sola: il compagno sembrava preferire il boschetto, mentre lei il giardino dove era nata. Notai tuttavia che talvolta quando era in casa si irrigidiva all’improvviso e, lasciato cadere il cibo che teneva stretto fra le zampe per mangiare, volava fuori dalla finestra e si dirigeva trafelata al boschetto. Di tanto in tanto prima di tornare in fretta dal compagno (sapevo che volava da lui perché a volte la seguivo) si fermava su un albero di fronte alla finestra con lo stesso atteggiamento irrequieto. L’improvvisa rigidità del corpo e la sua espressione, come se fosse concentrata verso l’interno, senza che i suoi occhi vedessero ciò che aveva di fronte, facevano pensare che stesse rispondendo a qualche forma di comunicazione che veniva dal compagno. Forse le sue orecchie sensibili riuscivano a captare il suo richiamo attraverso le finestre socchiuse; forse quella voce lontana, su cui il suo udito era sintonizzato, riusciva a farsi strada fra i rumori ben più forti del traffico e dei trattori. Oppure lei e il compagno avevano sviluppato una qualche forma di comunicazione tramite vibrazioni o per via telepatica? Quest’ultima ipotesi era corroborata anche da altri episodi: Baffetto per esempio aveva capito che Ciuffolo stava covando l’uovo che io avevo messo nel nido sebbene non potesse aver visto né me né lei, che oltretutto era rimasta in silenzio. Ciuffolo si trovava nel nido anche le mattine precedenti, ma lui non era mai venuto a darle da mangiare. Come poteva sapere della presenza dell’uovo se non gliel’avesse comunicato lei attraverso una qualche forma di telepatia?
Al quarto anno la coda di Virgola divenne ancora più deforme e arruffata per via delle pesanti nevicate. La cincia morì congelata nel sonno per il freddo intenso dei primi di febbraio del 1947, cinque settimane dopo sua sorella Ciuffolo.
Ciuffolo e Virgola non erano mai state in rapporti amichevoli e quando si incontravano dentro casa reagivano sempre nello stesso modo. Virgola si rifugiava nella piega del mio gomito e sembrava ostile, mentre Ciuffolo si ritirava in alto, sul bastone della tenda. Se Virgola rimaneva con me per più di qualche minuto, il velluto delle tende ne pagava le conseguenze, perché Ciuffolo iniziava a strappare pelucchi e non smetteva nemmeno se la sgridavo; dovevo alzarmi e andare verso di lei. A quel punto Virgola volava via uscendo da un’altra finestra. Ciuffolo allora si posava di fronte a me e si guardava le zampe con quella sua aria imbarazzata e quando la chiamavo per nome veniva a mangiarmi dalla mano. Entrambe erano in buoni rapporti con Jane, la madre, e con tutte le altre cince, persino con quelle che non risiedevano lì ma venivano in giardino e in casa durante l’inverno.
V
L’anno successivo, il 1948, fu la terza stagione di nidificazione per Testapelata. Lui e Monocolo allevarono con successo la loro prima nidiata e appena una settimana dopo l’involo della prole Testapelata era già irrequieto e mostrava interesse per le cassette nido. Lei non sembrava altrettanto entusiasta, ma le manifestazioni di lui finirono per coinvolgerla e iniziò a costruire un nuovo nido in una nuova cassetta. Alla schiusa, il compagno fu molto più premuroso di lei con i piccoli. Monocolo si prendeva lunghe pause per mangiare e stazionare sugli alberi, mentre lui si dedicava completamente alla cura della prole, fermandosi a malapena per mangiare e senza mai riposare durante il giorno. Di notte veniva a dormire sul binario per i quadri, sopra il mio letto.
Anche un’altra coppia, Scimmietta e il suo secondo compagno, ebbe una nuova covata nel giardino, una settimana prima di quella di Testapelata. La situazione era invertita, nel loro caso: il genitore premuroso era la femmina. Scimmietta e il primo compagno, la Coppia Bellicosa, erano stati molto fedeli, entrambi genitori alla prima esperienza. Forse Scimmietta non era bellicosa per natura, ma aveva adottato i modi dominanti e aggressivi del precedente compagno; quando lui morì e lei si scelse un individuo mite, che non attaccava mai briga con nessuno, divenne a sua volta timida e nervosa nei confronti degli altri uccelli. A giudicare dal suo comportamento sottomesso sembrava che avesse perso l’antico spirito bellicoso. Sebbene avessero nidificato nella stessa cavità di un tronco, lei e il nuovo compagno lasciavano che le altre cince si muovessero indisturbate e portassero i propri piccoli ovunque all’interno del loro territorio. Il maschio però non le mostrava alcuna premura; spesso lei metteva la testa fuori dal nido mentre covava, aspettandosi di ricevere cibo, ma lui raramente si presentava. Né sembrò particolarmente attento a nutrire i piccoli. Lei rimase invece una madre premurosa e per otto anni allevò due nidiate a stagione. Forse Testapelata, che era suo figlio, aveva ereditato parte del suo entusiasmo per la cura della prole.
Il 24 giugno i giovani della seconda nidiata di Scimmietta lasciarono il nido in bell’ordine, prendendo il volo uno dopo l’altro senza esitazione. Erano ben sviluppati e con la coda lunga: Scimmietta non incoraggiava mai i figli a prendere il volo troppo presto; preferiva avessero ali forti al momento dell’involo. Alcune cince spingono i piccoli a prendere il volo all’età di quattro o cinque giorni. Il mattino dell’involo i giovani erano stati portati via dal giardino in un campo per qualche ora; nel pomeriggio rientrarono in fila, guidati da Scimmietta con quel fare affettuoso e pieno di fascino che le cince usano con la prole. Quando fu ora di ritirarsi, la madre li richiamò alla quercia di fronte alla finestra della mia camera da letto e fu lì che passarono la loro prima notte. Il compagno si incaricò solo di una minima parte dei doveri parentali e qualche giorno dopo li abbandonò del tutto e si nascose tra i cespugli per riposarsi, mentre Scimmietta si dava un gran da fare.
Il 25 giugno i piccoli di Testapelata presero il volo, tre o quattro giorni prima del tempo. Erano molto piccoli e avevano ali deboli. La madre li abbandonò per ore, ma Testapelata era un ottimo padre e poco alla volta li spinse verso punti sicuri nella siepe del frutteto, dove portò loro premurosamente da mangiare per tutto il giorno. Il 2 luglio la compagna smise completamente di dare da mangiare ai piccoli, mentre lui proseguì fino al giorno 8. Solo due su otto sopravvissero, due bellissimi giovani soprannominati Tormento e Lustro che da quel momento passarono molto tempo in mia compagnia.
A differenza della compagna di Testapelata, Scimmietta continuò a dare da mangiare ai suoi quattro giovani rimasti, sebbene fossero più vecchi di qualche giorno. Ancora il 13 luglio di tanto in tanto portava loro del cibo e li chiamava a raccolta con versi sommessi per andare a caccia di bruchi nei cespugli. Quando quel giorno venne a chiedere del formaggio per la sua prole, i figli di Testapelata stavano mangiando dalle mie mani. Lei mi si posò sul polso e col becco semiaperto soffiò verso di loro, i quali la ignorarono e continuarono a mangiare. In generale, però, era sempre tollerante verso i più giovani e quel comportamento non si ripeté quand’ebbe smesso di nutrire i suoi. Nel mio taccuino, allo stesso giorno, ho questi appunti sul comportamento di Testapelata nei confronti dei piccoli di Scimmietta.
13 luglio. Testapelata si mostra infastidito se i giovani mangiano dalle mie mani mentre lui vuole del cibo per sé. Quando i quattro di Scimmietta sono radunati sul mio palmo non c’è spazio per lui; allora mi si arrampica sul braccio ed emette squittii di rimostranza a cui nessuno dà retta. Poi mi salta sulla spalla e mi becca le guance. Allora io dico «no» ad alta voce e lui mi cammina sul collo, mi pizzica e mi tira i capelli con decisione. Poi scende sulla mia mano e con il collo allungato in avanti spinge via i giovani e uno a uno li becca delicatamente sulla testa. Loro non se ne vanno, allora do del formaggio a Testapelata con l’altra mano.
Sia Scimmietta sia Testapelata hanno il piumaggio arruffato e trasandato, mentre i loro compagni meno solleciti sono in ottime condizioni e più tardi, durante la muta, non soffriranno alla stessa maniera.
Il 9 gennaio dell’anno successivo scrissi questi appunti:
All’improvviso scoppia un’accesissima lite tra le cinciallegre: i maschi si battono tra loro, le femmine si aggrediscono. Il motivo della baraonda è la cassetta posatoio che Testapelata occupa dall’autunno. Si trova su un albero di fronte alla finestra sul lato destro del cottage, ed è all’interno del territorio di Testapelata, nel frutteto. A mezzogiorno vedo lui e un rivale rotolarsi avvinghiati sul pavimento e gli lancio vicino una scatola di fiammiferi per spaventarli, in modo che si separino. I due volano fuori dalla finestra, inseguendosi a scapicollo. Mezz’ora più tardi una cincia zoppa e malandata entra in volo dalla soprafinestra a lunetta e si accascia ansimando sul mio grembo, incapace di reggersi sulle zampe. Sul momento non riconosco Testapelata, da tanto è diverso: ha gli occhi offuscati dal dolore, le penne arruffate e la testa poggiata sul petto che nasconde i disegni del piumaggio. Di tanto in tanto sussulta, mentre il petto si solleva con fatica a ogni respiro. È troppo malmesso per mangiare davvero, ma mentre se ne sta lì sdraiato riesco a fargli inghiottire un pochino di formaggio. Nella stanza entrano altre cince, ma lui sembra non accorgersene finché a un certo punto, anche se io non sento nulla e non vedo nessun altro arrivare, alza gli occhi, un’ombra di allarme appena visibile dietro il velo di sofferenza; un attimo dopo vola in un angolo e si nasconde dietro una scarpa, contro un armadio. Poi il rivale vittorioso fa il suo ingresso nella stanza. È un individuo forte, possente e dal carattere dominante. Si chiama Inchiostro per via delle grosse macchie nere sul petto. Non è nato nel mio giardino, vi è comparso solo l’autunno scorso; Testapelata, coraggioso nel difendere la sua cassetta posatoio, è stato sconfitto dal forestiero; se anche si riprenderà, avrà perso il territorio che ha posseduto per tutta la vita.
10 gennaio. Testapelata sta molto male, ha gli occhi velati e non riesce ancora a reggersi su nessuna delle due zampe. Più volte al giorno, quando non ci sono altri uccellini nei paraggi, entra dalla soprafinestra e si accascia sulle mie ginocchia. Se Inchiostro fa il suo ingresso dopo di lui, vola a nascondersi sul pavimento dietro un mobile, ma in genere faccio in tempo a chiudere le finestre per impedire al rivale di raggiungerlo. Testapelata capisce di essere al sicuro, perché appena ho chiuso esce dal suo nascondiglio e mi vola sulla mano per avere da mangiare. Lo tengo sulle ginocchia il più a lungo possibile, ma gli altri uccelli che svolazzano cercando di entrare e picchiettano insistentemente sul vetro lo rendono inquieto; dopo un po’ apro la soprafinestra e lui vola via verso gli alberi. Le altre cince non lo infastidiscono, così conciato. Talvolta Inchiostro è in zona quando lui esce dalla finestra, ma non ho più assistito a inseguimenti dello sconfitto da parte del vincitore.
Dopo una o due settimane Testapelata cominciò a dare segni di miglioramento. Già il 7 febbraio tornò a utilizzare una delle due zampe quasi normalmente, mentre l’altra restava sollevata indietro quando si posava. Dopo la perdita del territorio aveva sempre dormito in una cassetta dall’altro lato del cottage. Le cince avevano però iniziato a cercare di accaparrarsi i punti migliori per la nidificazione, per cui Testapelata si trovò, nelle condizioni in cui era, a dover difendere la sua nuova cassetta. Fu interessante osservare che, sebbene avrebbero potuto facilmente sconfiggerlo con la forza, i rivali sembravano modulare i metodi di attacco in base alle sue possibilità, tanto che per qualche settimana lui riuscì a tenere loro testa. Si diede molto da fare, esibendosi in display originali e inventando un linguaggio tutto suo; recuperò il vecchio numero di quando era ancora giovane: ogni tanto lo vedevo appeso a testa in giù a un rametto, con la gamba malata per aria (p. 37). Dopo questi sforzi si lasciava andare sulle mie ginocchia, ansimando, ma gli bastava una pausa per volare di nuovo a difendere la sua postazione. Da quando Testapelata le aveva prese, Monocolo, la sua compagna, si era mostrata molto schiva: evitava la presenza di altre cince, ma veniva a mangiare da me più volte al giorno.
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I. Testapelata, dopo una lotta per il controllo del suo territorio.
Il 29 marzo Scimmietta cominciò a costruire il nido nella solita cavità, dallo stesso lato del cottage dov’era la cassetta di Testapelata, ma a circa trenta metri di distanza. I rami della quercia dove i suoi piccoli avevano trovato riparo l’anno precedente si allungavano sopra la cassetta di Testapelata. Nei due giorni successivi Testapelata comparve in giardino solo tre volte, per avere da mangiare, mentre la sua compagna scomparve del tutto. Il 31 marzo il compagno di Scimmietta scacciò Testapelata dal lato sinistro del cottage rispedendolo nel territorio di Inchiostro, sulla destra. Vidi Inchiostro inseguire il rivale nel frutteto. Poco dopo Testapelata entrò in casa e si fermò ai miei piedi. Respirava a fatica, aveva le penne del corpo arruffate e aveva perso quelle sulla cima della testa, aveva il lato destro del muso completamente spennacchiato e un rivoletto di sangue vicino all’orecchio. Per un attimo ebbi paura che stesse per morire ma dopo pochi minuti prese del cibo e un po’ d’acqua che lo rianimarono: dieci minuti più tardi to un luogo lontano dai territori di Inchiostro e Scimmietta, nessuno faceva più obiezioni quando passava davanti al cottage ed entrava per prendere da mangiare; la sua compagna, tuttavia, non si avventurò mai nel giardino finché le uova non si furono schiuse.
Mentre le compagne costruivano il nido e covavano, Inchiostro e Testapelata passavano ore a fare display uno all’indirizzo dell’altro al confine tra i loro territori nella parte settentrionale del frutteto. Fu interessante vedere che in quelle dispute di confine il più forte non approfittava mai della debolezza dell’altro. Testapelata si spostava in giro zoppicando e difendeva i suoi diritti con display di vario genere. Per la prima volta quell’anno cantò il suo tii-ciu dalla cima degli alberi; nonostante la voce debole e rotta il suo atteggiamento era sicuro ed energico. Aveva un aspetto terribile con quella testa spennacchiata, ma dopo la prima sconfitta non era mai stato tanto pieno di vita: aveva sempre più appetito e, sebbene fosse ancora claudicante, la zampa stava migliorando. Sembrava trattarsi di una distorsione, perché quando era dritto sulle zampe aveva una posizione innaturale. Testapelata e Monocolo crebbero la nidiata con successo, ma non tentarono nemmeno di averne una seconda: lui era troppo esausto. Dopo la muta, con le nuove penne, tornò in piena forma; a parte il fatto che zoppicava ancora, sembrava in ottima salute.
La compagna di Inchiostro, che avevo chiamato Fumo, aveva scelto di nidificare in una tanica per la benzina invece che nella cassetta nido sottratta a Testapelata, cassetta che fu oggetto di uno strano comportamento territoriale. Una coppia di cinciallegre estranee al mio giardino prese furtivamente possesso della cassetta, che si trovava nel territorio di Inchiostro, pur mantenendo un territorio dall’altra parte della strada, oltre quello di Scimmietta. I due volavano direttamente al nido senza mai posarsi nei possedimenti di Inchiostro, a parte la cassetta. Mentre Fumo era impegnata a dare il tocco finale al nido di latta, la femmina della coppia estranea si intrufolò di soppiatto nel territorio volando dietro i cespugli, per poi entrare nella cassetta con del muschio nel becco e tornare più volte con altro materiale, sempre raccolto al di là della strada, nonostante ce ne fosse in abbondanza anche nel mio giardino. Inizialmente Inchiostro, preso dalle dispute con Testapelata, sembrò non fare caso ai due furtivi stranieri, ma qualche giorno dopo lo vidi guardare dentro la cassetta con aria interessata. Con mia grande sorpresa, non mosse alcuna obiezione all’arrivo dei due ospiti silenziosi, i quali non emettevano mai alcun suono né facevano rimostranze quando lui si avvicinava o guardava dentro la cassetta. Inchiostro non cacciò gli intrusi mai né rivolse loro alcun display, come faceva invece per metà della giornata con Testapelata. Di fatto, non c’erano confini da difendere perché i due forestieri non reclamavano alcun territorio e non mangiavano mai nel mio giardino, nemmeno alla mangiatoia; la sola cosa che chiedevano era la cassetta, perché nel loro territorio non c’era alcuna cavità adatta alla costruzione di un nido.
Anche quando le uova si schiusero, i due si procacciavano sempre il cibo al di là della strada e poi lo trasportavano al nido lungo il confine del territorio di Scimmietta. Quando i giovani figli di Inchiostro presero il volo, spesso si posavano sulla cassetta dei due estranei o sui rami poco più in alto e i genitori portavano loro da mangiare lì, ma a differenza di quello che accade di solito i due estranei non protestarono mai per i chiacchieroni che si posavano proprio sopra le loro uova appena schiuse. Non potevano farlo, perché si trattava pur sempre del territorio di Inchiostro e quindi la sua prole aveva il diritto di posarsi dove voleva. Se uno dei due genitori si trovava all’interno della cassetta e rimaneva accerchiato, aspettava finché la famiglia residente non se n’era andata. I loro piccoli erano molto silenziosi per essere cinciallegre; forse l’atmosfera in cui stavano crescendo li inibiva, perché tutte le altre mie cince di solito emettevano cori sonori nel veder partire o arrivare i genitori, più rumorose di giorno in giorno. La nidiata prese il volo due settimane dopo quella di Inchiostro, ma con quattro o cinque giorni di anticipo in termini di età. Il primo giorno volarono solo in due, e il padre li scortò subito dall’altra parte della strada, posandosi per una volta sugli alberi del giardino quando dovette incitarli a seguirlo. Nel frattempo la madre era rimasta con il resto della nidiata. Gli altri presero il volo due giorni dopo, e questa volta fu la femmina a scortarli di là dalla strada. Inchiostro li osservò partire con grande interesse e rimase nei dintorni del loro nido finché non se ne furono andati tutti, ma senza interferire in alcun modo. Sembrava che avesse consentito alla coppia di occupare la cassetta con il tacito accordo che non avrebbero rivendicato alcun diritto sul terreno fuori dal nido e che i piccoli sarebbero stati portati via immediatamente dopo l’involo. O forse fu proprio il comportamento silenzioso della coppia a far sì che Inchiostro e Fumo, che erano invece estremamente dominanti con tutte le altre cince che entravano nel territorio, non interferissero mai nelle loro faccende.
Tutte le volte in cui una coppia estranea aveva cercato di nidificare all’interno del mio giardino ne era stata scacciata: costretta ad abbandonare il nido a lavori iniziati. La differenza era che avevano cercato di utilizzare anche una piccola area circostante alla cassetta.
Quando la nidiata silenziosa se ne fu andata, notai con interesse che i genitori, e soprattutto la madre, tornavano spesso a prendere cibo al cottage o alla mangiatoia, cosa che non avevano mai fatto quando usavano la cassetta nido. In parte il loro comportamento poteva essere spiegato con il fatto che i giovani di tutte le altre cince avevano preso il volo due o tre settimane prima, e dunque a quel punto i genitori si comportavano in maniera meno territoriale. Anche durante la permanenza dei due estranei, però, ben sette coppie di cince erano venute al cottage con regolarità a prendere cibo per le famiglie e alcune di queste non avevano nemmeno il nido nel giardino. Solo Inchiostro e Scimmietta avevano il territorio nella mia proprietà. Le mie cince permettevano l’ingresso nell’area del cottage a tutti gli uccelli che la utilizzavano durante l’inverno. I due però non avevano osato entrare finché avevano occupato la cassetta nido che si trovava a un passo dalla mia finestra, credo per paura di perderla se avessero scatenato l’ira della coppia residente. Il giorno stesso della partenza dei figli dal mio giardino i genitori ricominciarono a prendere cibo da me; a quel punto non rischiavano più di essere scacciati e separati dai loro figli.
NOTE SULLA NIDIFICAZIONE, 1950
Dal 29 gennaio all’11 febbraio. Per tutto l’autunno e durante l’inverno Testapelata è venuto spesso nella sua cassetta posatoio preferita, quella sottrattagli da Inchiostro l’anno scorso durante la battaglia che gli ha leso la zampa. Ora i due sono di nuovo in lotta per la cassetta e il territorio circostante. Inchiostro è un maschio forte e robusto, mentre Testapelata è fisicamente più debole, benché abbia ancora uno spirito indomabile. Da una settimana mette in atto display dalla mattina alla sera, con molte variazioni originali, la più interessante delle quali è una serie di balzi alti mezzo metro eseguiti sopra la testa di Inchiostro, mantenendo la posizione rigida tipica dei display ed emettendo note strane. Mentre Testapelata gli salta sopra, Inchiostro si limita a procedere impettito con una postura allungata, la testa sollevata, la coda aperta a ventaglio e le ali penzolanti. Poi si alza in volo verso la tanto ambita cassetta, inseguito a una velocità incredibile da Testapelata. Allora desiste e Testapelata riparte all’attacco. Gli è cresciuto uno spuntone sulla mascella che rende il becco lunghissimo e gli dà un aspetto imponente. Di tanto in tanto lo vedo sdraiato sul davanzale della finestra vicina alla cassetta, con l’aria esausta e una strana espressione affaticata. Eppure non perde terreno, grazie all’ostinata determinazione e agli energici display; si ferma a stento per prendere il cibo che gli offro e spesso lo getta via senza averlo finito.
Sin dall’estate c’è una femmina dalla livrea grigiastra e con una stella bianca sulla cima della testa che gli ronza sempre intorno. Monocolo, la precedente compagna, non lo cerca mai. Non era abbastanza vivace per lui, e non era sollecita con la prole. Star, la nuova femmina, è piena di vita e fa la sua parte nella difesa del territorio. Spesso finisce per azzuffarsi con Fumo, la compagna di Inchiostro e, mentre si rotolano sul terreno tenendosi saldamente per le zampe, Testapelata svolazza sopra di loro emettendo note acute per l’agitazione. È stato proprio durante una zuffa di questo tipo che è rimasto ferito; vuole separare le due femmine, ma non sempre ci riesce. In genere le due non si fanno male e le loro lotte sembrano scontri alla pari. Poco prima del 15 febbraio Inchiostro e Fumo sono stati scacciati dal territorio. Questa volta Testapelata è riuscito a tenersi tutte le penne del capo. Ha vinto la battaglia senza dover lottare corpo a corpo con l’avversario. Nei due giorni successivi non fa altro che riposare su un albero al confine tra il suo territorio e quello di Inchiostro. Ora mangia con grande appetito tutto il cibo che gli offro e la sera si ritira presto nella cassetta conquistata con tante fatiche. Dopo l’infortunio va a dormire presto la notte, perché si stanca prima degli altri.
18 febbraio. Star, la nuova compagna, entra nella cassetta di Testapelata alle 8 del mattino, vi rimane per un po’ e poi si sposta in un’altra lì vicino. Il 20 febbraio Testapelata si ritira presto come al solito, ma vola subito fuori dalla cassetta in uno stato di grande agitazione, sbattendo le ali e la coda e cantando. Dalla cima di tutti gli alberi del suo territorio dà l’annuncio al vicinato: la compagna ha scelto una cassetta e per la prima volta ci dorme dentro. Poi torna dalla femmina e la guarda dal foro d’ingresso. Cerca di entrare ma lei lo scaccia: di solito le cince non dormono insieme e alle femmine non piace che i maschi entrino nella cassetta nido (probabilmente perché hanno dovuto abituarsi a utilizzare cavità di piccole dimensioni dove lo spazio è ridotto e perché bisogna mantenere il nido pulito da escrementi). Testapelata si agita e insiste per entrare, ma subito dopo riappare sulla soglia, evidentemente maltrattato dalla compagna e con l’aria confusa. Fa un giro del territorio e ci riprova, con gli stessi risultati. Inizia a dare beccate impazienti all’ingresso, fa un altro giro del giardino e torna all’attacco. Si sente un suono di ali sbattute prima che ricompaia sulla soglia con aria assai infastidita. La cosa va avanti per un’ora. A quel punto tutte le altre cince, che in genere si ritirano dopo di lui, stanno già dormendo, i merli sono in cerca di un posatoio, il crepuscolo ha ormai ceduto il passo alla notte, ma Testapelata sta ancora cercando di entrare nella cassetta. Ci ha provato decine di volte, la compagna però lo costringe sempre alla ritirata; lui si agita e si preoccupa sempre di più, eppure non demorde. Per la frustrazione, fa una scenata dopo l’altra: è irrequieto, becca i rami, strappa le foglie, ecc., ed emette mugolii lamentosi. Infine, quando nel cielo quasi splendono le stelle, entra nella cassetta e ci resta. Ora tutto tace al suo interno.
23 febbraio. Tutte le sere, quando arriva il momento di ritirarsi, si ripete la stessa scena, anche se forse la femmina cede un pochino prima, forse perché ha troppo sonno per continuare a opporsi. Ho appeso un’altra cassetta molto simile proprio sopra a quella vecchia. Testapelata si è limitato a visitarla ma ha proseguito la lotta con la compagna per l’accesso alla cassetta preferita.
28 febbraio. I problemi persistono, ma Testapelata piano piano guadagna terreno. Ieri sera, quando Star l’ha cacciato per la settima volta, si è messo a svolazzare agitato con gridi di rimprovero. Lei saltellava dentro la cassetta, cercando di vederlo senza mettere la testa fuori dal foro di ingresso. Lui ha smesso di protestare, è volato al nido con l’intenzione di entrarvi, ma dall’interno sono arrivati dei colpi sonori che l’hanno allontanato. Altri gridi di rimprovero. La nuova compagna del pettirosso Dobs, una giovane femmina vivace, si è lanciata sfrecciando contro Testapelata, gli ha dato una beccata sul dorso e poi è tornata in tutta fretta sull’albero dov’era posata. Sembrava voler dire: «Taci!». Poco dopo Testapelata è riuscito a entrare nella cassetta ed è calato il silenzio.
10 marzo. Testapelata ce l’ha fatta. Ora Star lo lascia entrare nella cassetta senza protestare.
24 marzo. Lei ha cominciato a portare muschio nel nido. Sembra tutto tranquillo fra loro al momento di ritirarsi per la notte.
Gli sforzi delle litigate e dei display con Inchiostro avevano un po’ indebolito Testapelata, che non aveva protestato quando alcune coppie di estranei avevano preso possesso di altre cassette nido nel suo territorio. Come risultato c’erano nove nidi nel mio giardino. Come se non bastasse, Tormento, una figlia di Testapelata, arrivò con un piccolo, mentre fino ad allora aveva nidificato nel frutteto confinante. Un giorno contai sessanta cinciallegre tra gli alberi e la siepe. Sapevo distinguere una nidiata dall’altra in base ai dettagli della voce: i giovani di ogni famiglia emettevano suoni e richiami diversi per tonalità o frequenza, ritmo o sequenze di note. In alcune nidiate, poi, c’erano individui che emettevano versi distinguibili da quelli dei fratelli fin da subito. Man mano che i piccoli crescevano, i richiami cambiavano leggermente e pian piano ogni individuo sviluppava la sua voce specifica. I genitori conoscevano bene i richiami dei loro piccoli, non c’era mai il rischio che si confondessero, nemmeno con tanti nidiacei in zona. Le famiglie rimanevano perfettamente unite; quando, di tanto in tanto, un nidiaceo che aveva preso il volo si ritrovava in mezzo a un’altra famiglia, per prima cosa cercava di ottenere cibo dai genitori «adottivi» lamentandosi e muovendo le ali; accorgendosi però che non funzionava, iniziava a gridare girando la testa di qua e di là per sentire se la sua famiglia gli rispondeva e, quando infine riconosceva i versi dei suoi fratelli e sorelle, li raggiungeva all’istante senza sbagliare direzione, nemmeno se c’erano altri piccoli che chiamavano in un altro punto del giardino. Solo una volta vidi Testapelata dare da mangiare a un piccolo non suo, ma non appena gli ebbe dato un bruco lo guardò con una strana espressione stupita e gli affibbiò una beccatina sulla testa che lo rispedì dalla sua famiglia.
I giovani di cinciallegra mostrano una grande varietà di colorazione. Alcuni hanno le guance bianche, altri gialle; questi ultimi tendono al giallo dorato nei punti in cui i primi sono di un bianco più sporco.
Ovviamente le diverse nidiate prendevano il volo in momenti diversi.
1. I sette piccoli di Monocolo presero il volo il 28 maggio. Poiché le uova si erano schiuse l’8 maggio, gli individui erano ben sviluppati e avevano code lunghe. La madre li allontanò subito dal giardino e li tenne per qualche giorno in una siepe frequentata dalle gazze. Quando tornò, erano sopravvissuti in tre. Monocolo, già compagna di Testapelata, aveva scelto un compagno più giovane e aveva fatto il nido nel frutteto, non lontano da quello di Testapelata. Si teneva alla larga dal confine del suo territorio e aveva evitato ogni contatto con lui e con Star; sembrava temerli. I due maschi, invece, spesso sconfinavano in cerca di cibo: l’invaso faceva le sue svogliate rimostranze svogliato senza tuttavia impedire all’altro di entrare.
2. Il 3 giugno i figli dei Forestieri Silenziosi dell’anno precedente si involarono da una cassetta nido vicino al cancello. Come l’anno prima i genitori li portarono subito dall’altro lato della strada; condussero tutte le operazioni sommessamente, e altrettanto fece la loro prole.
3. Il 4 giugno fu la volta del nido degli Estranei del muro sul retro: in ordine, uno dopo l’altro, volarono tutti e otto sullo stesso albero per poi essere pilotati dai genitori oltre la siepe del frutteto, lontano dal nido di Testapelata. Avevano fatto il nido in una cassetta appesa sul muro a settentrione (il nido di Testapelata era a ovest) e si erano sempre procacciati il cibo sugli alberi a nord del frutteto. Avevano sempre evitato ogni contatto con le cince del giardino.
4. Il 4 giugno toccò ai dieci di Testapelata. La schiusa delle uova era iniziata il 18 maggio (ne parlerò meglio più avanti).
5. Lo stesso giorno si involarono anche due dei piccoli della coppia di Estranei del muro a sud. Il resto della nidiata prese il volo l’8 giugno. I genitori erano talmente discreti che finché non avevano iniziato a portare cibo ai piccoli non mi ero nemmeno accorta che avevano nidificato nella cassetta appesa al muro di cinta, nascosta dal cotogno giapponese. Dalla portafinestra avevo intravisto il maschio esibirsi in un display con Scimmietta, ma l’avevo scambiato per il compagno di un’altra femmina, Zampetta.
6. L’11 giugno presero il volo i piccoli di Zampetta, una femmina dai modi delicati giunta da me l’anno prima. Al suo arrivo aveva una zampa infortunata: pian piano era guarita, ma era rimasta un po’ storta e di conseguenza non riusciva a stringere. Il compagno era un nuovo arrivato che si teneva sempre in disparte. Avevano fatto il nido sul melo vicino al confine a ovest, per cui il maschio andava sempre in cerca di cibo nel giardino accanto. Forse per via del suo acciacco, a parte i primissimi giorni dopo la schiusa, Zampetta era sempre venuta da me a prendere da mangiare per i suoi piccoli, mentre era il padre a cercare il cibo nella natura. Testapelata e Star non si opponevano alla loro presenza sebbene la femmina si avvicinasse spesso al loro nido; i due nidi erano vicini, ma separati da una quercia. Credo che la loro presenza venisse accettata per via della gambetta storta di Zampetta; di solito le cince si mostrano più tolleranti nei confronti degli individui feriti o storpi. Zampetta tenne sempre i piccoli nel mio giardino, in genere nella zona a ovest. I suoi sette figli talvolta si posavano su di me mentre lei li nutriva e quando smise di farlo si misero a seguire la figliolanza di Testapelata fin dentro al cottage per prendersi qualche boccone. Vedere il gruppetto che infilava la soprafinestra con un gran baccano era uno spasso. I fratelli rimanevano sempre insieme.
7. L’11 giugno presero il volo anche i piccoli di Fossetta. Lei e il compagno avevano fatto il nido in un angolo in fondo alla siepe che delimitava il frutteto a nord. Quando era arrivata con i suoi piccoli da me, aveva avuto da ridire con Monocolo, che occupava un territorio confinante. Fossetta non desistette, anche se la cosa le costò parecchie penne.
8. Il 14 giugno fu la nidiata di Fumo a prendere il volo. Fumo aveva fatto il nido di soppiatto, più tardi di tutti, in una cassetta nascosta tra il fogliame nella siepe a est del frutteto. Lo aveva costruito per lo più di sera, mentre le altre cince del giardino si riposavano facendo il bagno e lisciandosi le penne al ruscelletto lungo la siepe al confine con il campo sportivo. Si dava un gran da fare, ma ci mise molto più delle altre perché si interrompeva se vedeva qualcuno nei paraggi. Inchiostro controllava sempre l’estremità della siepe, per evitare l’incontro con altri maschi. Quando i loro giovani presero il volo, Monocolo aveva già smesso di nutrire i suoi. Testapelata e la compagna erano troppo impegnati per notare Fumo e tre dei giovani che aveva tenuto con sé, i quali potevano quindi scorrazzare liberamente nel giardino e nel frutteto. Inchiostro aveva portato via il resto della nidiata e non l’ho più rivisto.
Tormento e il compagno, Timpano, fecero la stessa scelta di separazione, inusuale tra le cinciallegre. Tormento ha portato quattro dei loro figli nel mio giardino, mentre Timpano ha cresciuto gli altri nel giardino confinante e oltre, nel campo sportivo. Di tanto in tanto Tormento andava dal compagno, mentre il contrario non si verificava mai. Testapelata e il compagno di Scimmietta si opponevano alla sua presenza. Qualche volta portavo la scatola dei bocconcini al campo sportivo per dare un po’ di formaggio a Timpano per i suoi piccoli; in quel caso Tormento, che doveva avermi vista dalla cima di un albero del mio giardino, si affrettava a raggiungerci, con dietro i suoi quattro. Allora lei e Timpano facevano su e giù dagli alberi per portare il formaggio dalle mie mani alla prole.
9. 18 giugno. I piccoli di Testacalda e della sua nuova compagna, nati il 30 maggio, hanno preso il volo. Si tratta del secondo compagno di Scimmietta. Finché lei era viva, si era sempre mostrato molto tranquillo, ma la compagna successiva gli aveva creato problemi e, forse frustrato dall’assenza di reazioni da parte di lei, era divenuto intollerante nei confronti delle altre cince, da cui il nome Testacalda. Il 24 maggio Scimmietta aveva iniziato a costruire il nido nella cassetta del compagno, appena fuori dalla finestra rivolta a est della mia stanza da letto. Dieci giorni dopo era scomparsa, probabilmente vittima di un gatto perché il giorno prima, per due volte, ne avevo scacciato uno che la guardava di soppiatto mentre portava muschio al nido. Aveva dieci anni e col tempo era divenuta meno vigile e più lenta nei movimenti. Il nido era quasi finito. A differenza di altre femmine non si era opposta alla presenza del maschio nel nido durante la notte: il compagno aveva dormito con lei dal primo momento in cui aveva iniziato a costruire il nido. Dopo la scomparsa di Scimmietta, Testacalda entrava spesso nel nido durante il giorno, ma non vi si fermava per la notte, preferendo dormire in una grondaia poco distante.
A giudicare dall’opacità delle sue penne, la nuova compagna di Testacalda sembrava avere una certa età. Aveva modi nervosi e sembrava un’estranea che in qualche modo aveva saputo che Testacalda necessitava di una compagna. Si era materializzata nel giro di due giorni. Come sia possibile che un nuovo individuo si palesi di colpo non appena c’è un posto vacante resta un mistero. Dopo la scomparsa di Scimmietta, Testacalda aveva continuato a posarsi in punti esposti del suo territorio e a cantare, com’è tipico delle cince durante la nidificazione e come faceva quando Scimmietta era viva e intenta a costruire il nido. Come aveva capito la forestiera che ora gli serviva una compagna? Testacalda voleva che lei si comportasse come Scimmietta, mentre la nuova femmina era molto diversa. Lui si aspettava che occupasse il nido già pronto e fece di tutto per convincerla a entrarci, ma lei non lo fece. Per due settimane Testacalda passò le giornate a gironzolare intorno alla cassetta, imitando i versi dei nidiacei da dentro e da fuori, per spingerla a interessarsi all’opera di Scimmietta; ma lei lo osservava per un momento e poi volava via. Qualche volta lui acchiappava un bruco, la attirava a sé e le offriva il boccone, salvo ritrarsi prima che lei potesse prenderlo e volare alla cassetta. Da lì si voltava per vedere se lei stava guardando, emetteva un altro richiamo, entrava nella cassetta e faceva dentro e fuori con la testa, mostrandole il cibo; lo ripeteva parecchie volte, con gridolini di entusiasmo. Lei non diede mai il minimo segno di interesse, e volava via piantandolo lì. Quando si rendeva conto che se n’era andata, lanciava gridi d’agitazione e la inseguiva, lasciando cadere il bruco. Divenne inquieto e nervoso e smise di mangiare; se accettava un boccone di cibo da me lo lasciava cadere subito a terra. In quelle due settimane la femmina passò molto tempo vicino alla finestra a guardare il proprio riflesso nel vetro. Di tanto in tanto accennava un display all’indirizzo della sua immagine, cosa che nessun’altra delle cince, forestiere o residenti, aveva mai fatto. Né ho mai visto cinciallegre o cinciarelle prestare attenzione al proprio riflesso. La prima volta che lo vedono in genere vanno a guardare dietro lo specchio, ma da quel momento sembrano soddisfatte e non ci pensano più. La compagna di Testacalda era evidentemente confusa, girava la testa in tutte le direzioni possibili mentre esaminava il proprio riflesso e spesso becchettava sul vetro. Quando si rese conto che il rumore attirava la mia attenzione, iniziò a becchettare per chiedere da mangiare. Non appena iniziò a covare, perse qualsiasi interesse per la finestra.
Dopo due settimane cominciò a costruire il nido in un’altra cassetta che avevo appeso vicino a quella di Scimmietta, ma fino al momento della cova andò a dormire in un posatoio vicino alla finestra a est. La cosa inquietava Testacalda, perché la maggior parte delle femmine appena iniziano a costruire il nido, o a volte anche prima, ci dormono dentro. Ogni sera cercava di persuaderla a tornare alla cassetta nido emettendo i versi dei nidiacei e volando avanti e indietro dal posatoio al nido, ma come sempre lei non reagiva. Cercò di accomodarsi vicino a lei sul posatoio che aveva scelto. Lei non ne volle sapere. Allora cominciò a svolazzarle intorno irrequieto, emettendo suoni strani a intervalli regolari, guardando alternativamente dentro il nido di Scimmietta e poi dentro quello della nuova compagna. La cosa si trascinava sempre per mezz’ora dal momento in cui lei si posava per la notte; alla fine lui la chiamava con delicatezza, poi volava al posatoio e guardava dentro, ma lei apriva le ali in segno di protesta e gli impediva di entrare. Lui visitava entrambi i nidi e infine andava a sistemarsi nella grondaia per la notte. Quando arrivò il momento della cova, fu lui che andò a dormire nel posatoio. A quel punto era diventato molto inquieto e intollerante nei confronti di tutte le altre cince, tranne la compagna. Sembrava stanco e aveva la livrea inzaccherata come se stesse iniziando la muta in anticipo, ma quando lei iniziò a covare si placò in parte. La compagna non era mai entrata in casa dalla soprafinestra, come le altre cince, e sotto molti aspetti sembrava più stupida. Prendeva da mangiare dalla mia mano solo all’aperto o sulla soglia della portafinestra.
I suoi figli avevano preso il volo a soli sedici giorni; quelli di Monocolo ne avevano ventuno al momento dell’involo, e venti quelli di Testapelata. L’età dell’involo è assai variabile. Le tre famiglie che ho appena menzionato erano cresciute esattamente nello stesso tipo di cassetta nido, con il foro alla stessa altezza. Ho visto coppie che spingevano indietro i loro piccoli con gentili toni di rimprovero se ritenevano che non fosse ancora il momento giusto per volare.
I dieci figli di Testapelata s’involarono tutti lo stesso giorno, nonostante avessero dimensioni molto diverse e alcuni dei più grossi sembravano più timorosi di quelli piccoli. Li osservai lasciare il nido, i primi al mattino, gli altri a intervalli irregolari durante la giornata. I primi furono due maschi ben cresciuti, che si avviarono decisi verso gli alberi. La terza ad affacciarsi al foro di ingresso fu la più giovane del gruppo. Si comportava in modo diverso dagli altri: invece di guardare gli alberi o qualcosa in lontananza, teneva gli occhi fissi a terra e per cinque minuti non fece che fissare il suolo sotto di lei mentre i fratelli e le sorelle saltellavano dentro, impazienti di uscire. Finalmente aprì le ali e un po’ cadendo, un po’ svolazzando, atterrò nel punto che aveva osservato con tanta intensità. Aveva uno strano aspetto: la fronte era calva, ma un fitto ciuffo di penne formava una cresta sopra il capo. Il becco da nidiaceo era così largo che le arrivava quasi agli occhi. Mentre si muoveva freneticamente sul terreno, le zampe lunghissime in proporzione al corpo minuscolo, era talmente somigliante a un goblin che la soprannominai Goblina. Cercò di nascondersi tra i fiori mentre la madre la chiamava dall’alto nel tentativo di attirarla in un luogo sicuro, ma Goblina non era in grado di volare. Quando allungai il braccio per aiutarla a salire su un ramo, si allontanò con espressione indignata, soffiando verso di me e sbattendo ripetutamente il becco in segno di sfida. Feci come voleva e la lasciai in pace; si andò a nascondere nell’erba alta, sotto un albero.
Il resto della nidiata prese il volo in vari momenti della giornata e tutti riuscirono a raggiungere un posto sicuro sugli alberi. Al tramonto i genitori si mostrarono molto preoccupati, perché Goblina non era riuscita a volare sull’albero frondoso dove i fratelli si erano sistemati per la notte, su rametti sottili dove i gatti non avrebbero potuto raggiungerli. Goblina passò la notte a terra, tra i fiori e l’erba alta. Feci attenzione a non camminare lì intorno in modo da non dare ai gatti passaggi utili per trovarla. Il mattino seguente era ancora viva e chiedeva da mangiare a gran voce. Continuava a non saper volare, ma con qualche balzo riuscì a piazzarsi sulla biforcazione di un ramo di anterisco, a circa trenta centimetri da terra: appollaiata su quel trono in mezzo ai fiori aveva un aspetto ancora più gobliniano. La tenni d’occhio, in caso di attacchi di qualche gazza o taccola su quel posatoio così in vista. Passò anche la seconda notte tra l’erba alta, ma il giorno seguente riuscì a volare sugli alberi. A quel punto le erano cresciute le penne anche sulla fronte, ma aveva quella crestina sul capo. Aveva dei modi e un aspetto singolari, che la rendevano graziosa. Era ancora molto piccola rispetto a tutte le altre giovani cince del giardino; a dire il vero, non ho mai visto sopravvivere dei giovani così piccoli. Accettava di buon grado il cibo catturato in natura, ma il formaggio non le piaceva e lo sputava sempre. Star e Testapelata lo sapevano e solo di rado le portavano cibo fornito da me, mentre i fratelli ricevevano spesso bocconi di formaggio e noccioline. Queste ultime venivano prima mordicchiate dai genitori per renderle più morbide. Goblina reclamava la sua parte di cibo naturale e rimaneva seduta con le ali aperte a ventaglio strillando per attirare l’attenzione finché non ne aveva avuto abbastanza. Spesso vedevo Testapelata cercare di infilarle in bocca delle grosse falene; le piacevano, ma fin dai primi giorni fuori dal nido, se le prede erano troppo grosse da ingoiare in un boccone, questo precoce uccellino preferiva mangiarle alla maniera degli adulti, ovvero tenendole tra le zampe. E con le falene finiva sempre così. In genere le giovani cince non imparano a tenere il cibo con le zampe fino a parecchi giorni dopo l’involo. Lei riuscì molto prima degli altri a procurarsi da sola le falene, cercandole sotto i fiori delle aiuole.
L’11 giugno, cinque giorni dopo l’involo dei giovani, la zampa dolente di Testapelata si ruppe di nuovo. Non so di preciso come accadde, forse usò semplicemente troppo l’articolazione malmessa. Quel giorno, alle sette e trenta del mattino, vidi Star volare tutta agitata a destra e a manca, afferrandomi il cibo dalle mani con molta più fretta del solito; Testapelata non comparve per un’altra ora. Poi arrivò in volo e si accasciò sulle mie ginocchia, senza potersi rialzare. Gli diedi dell’acqua che bevve d’un fiato e mangiò del formaggio. Rimase immobile per dieci minuti; a un certo punto arrivò Star e mise in atto un display frenetico, facendo tremare le ali ed emettendo il verso dei nidiacei. Testapelata rispose con un flebile suono, e non si mosse finché lei non si allontanò per andare dai piccoli. Un attimo dopo si rimise a fare il suo dovere, ma su una zampa sola: chiaramente soffriva e spesso apriva un’ala per mantenere l’equilibrio, ma si sforzò di imboccare i figli. Fu davvero coraggioso, perché stava evidentemente male e nei giorni successivi a stento riuscì a mangiare. Star lo esortava esibendosi spesso in grandi battiti d’ali e fece da sola la maggior parte del lavoro per nutrire la prole; Testapelata si concedeva così i momenti di riposo di cui aveva tanto bisogno. Non si allontanarono mai dal giardino. I giovani stavano sul davanti della casa o nel frutteto.
Il giorno in cui i genitori smisero di nutrirli anche Goblina si fece male a una zampa e non fu più in grado di procacciarsi il cibo da sola. Per diversi giorni dovette dipendere da me, ma io non potevo offrirle la dieta naturale che lei amava. Ogni volta che vedeva i genitori si produceva in un richiamo insolito che sembrava un pianto a singhiozzo, ma i due non le diedero più da mangiare. Spesso vedevo Testapelata e Goblina appollaiati su un ramo uno di fianco all’altra, entrambi con la zampa malconcia sollevata esattamente nello stesso modo. La giovane continuava a emettere il suo richiamo all’orecchio del padre, facendo tremare le ali. Testapelata non la allontanò mai, ma nemmeno acconsentiva alle sue richieste. Raccoglievo afidi e cavallette per lei e di tanto in tanto anche ragnetti, che le piacevano, ma quando le portai un grosso ragno nero lei e gli altri si ritrassero spaventati. Il ragno scappò dall’altro lato della stanza, per finire divorato con grande soddisfazione da una cincia adulta: i ragni sono tra i loro cibi preferiti. Goblina era ancora molto piccola ed era costretta a trascorrere le giornate dormendo o comunque rimanendo appollaiata su un ramo, immobile. Due dei fratelli più robusti se ne accorsero e cercarono più volte di spingerla a muoversi avvicinandosi a lei un passo alla volta, con colpetti delicati e un gran chiacchiericcio. Lei non si scompose e reagì come aveva fatto con me quando avevo cercato di aiutarla a salire sul ramo. Sbatteva il becco e soffiava, e riusciva ad allontanarli, ma tornavano alla carica poco dopo. Erano molto attenti a non farle male e forse quegli episodi movimentavano le sue giornate, per cui non intervenni mai in quegli scambi giocosi.
Nel giro di un paio di settimane la zampa di Goblina era quasi guarita. Lei era divenuta parecchio nervosa nei confronti degli altri giovani, probabilmente per via delle difficoltà causate dal suo handicap. Ma in qualche giorno si calmò, e raggiunse velocemente le dimensioni delle femmine della sua età.
Continuò a emettere quel suo richiamo singhiozzante, e iniziò a usarne una versione più estesa quando voleva qualcosa. Da qualche tempo dormiva regolarmente sopra il mio letto, spostandosi tra due cassette, una tonda e una quadrata, che le altre cince avevano ignorato. Una sera verso la fine di luglio, al momento di ritirarsi per la notte, trovò un altro giovane nella cassetta rotonda. Esitò per un momento poi si spostò verso la cassetta quadrata, all’apparenza indifferente, ma dopo un attimo ne sfrecciò fuori e si mise a svolazzare come un turbine davanti al foro della cassetta occupata, affibbiando violente beccate all’usurpatore finché quello non uscì e i due rotolarono sul mio letto avvinghiati per le zampe. Quando gridai «Smettetela!» volarono sul davanzale, scuotendo le penne arruffate e lanciando versi di rimprovero, seguiti da diverse altre cince, dentro e fuori di casa. Per dieci minuti rimasero a poca distanza sul davanzale, rivolgendo occhiate alle due cassette, ognuno apparentemente in attesa che l’altro facesse la prima mossa. Alla fine il maschio tornò nella cassetta e Goblina volò fuori dalla finestra. Tornò di lì a poco, alzò lo sguardo verso il posatoio, squittì infastidita, sbatté le penne e volò via di nuovo. Quella notte dormì altrove. La sera successiva il maschio si sistemò in un’altra cassetta, vicina a quelle di Goblina. Quando lei arrivò, non entrò in nessuna delle due, forse perché non sapeva se lui ne avesse già occupata una. Dopo un’attesa di alcuni minuti sul bastone delle tende si avvicinò zampettando sul binario per i quadri e si infilò svelta nella cassetta quadrata. Non si era fermata a guardare se l’altra fosse occupata e immagino che in quel caso non si sarebbe opposta al maschio: a parte quella scenata estemporanea, il suo comportamento con le altre cince era sempre stato di sottomissione. Spesso le cince sono attaccate alla loro cassetta posatoio e ne cacciano altri occupanti, ma non ho mai osservato un giovane cercare di difendere due posatoi, mentre gli adulti tentano spesso di impedire l’ingresso a tutti i posatoi del loro territorio.
La sera successiva il maschio occupò di nuovo la cassetta tonda e lei si avvicinò cautamente all’altra passando per il binario. Non appena vi fu entrata, lui si precipitò fuori lanciando versi che segnalavano con chiarezza un attacco imminente, ma quando si piazzò davanti all’ingresso della cassetta quadrata con le ali spalancate lei rimase in silenzio e non si mosse. Poi cercò di entrare per mandarla via. Gli rivolsi uno «Smettila!», ma non diede segno di avermi sentito, per cui salii in piedi sul letto e gli toccai la coda. La lasciò immediatamente in pace e tornò nella cassetta rotonda. Le sere successive si ritirarono entrambi nelle rispettive cassette. Goblina aspettava sempre che lui fosse entrato prima di sistemarsi anche lei.
Nei miei dieci anni di osservazione delle cinciallegre a Bird Cottage ho preso i seguenti appunti: Il primo compagno di Manolesta morì dopo tre anni. Erano sempre insieme, estate, autunno, inverno, e sempre posati sullo stesso ramo o cespuglio e si chiamavano a vicenda quando si spostavano. Ebbero una nidiata per anno, sempre nella stessa cavità. Il secondo compagno di Manolesta, detto Toc-toc, non passava molto tempo con lei al di fuori della stagione riproduttiva, ma nidificarono in quella stessa cavità per due anni. Poi Manolesta morì. Toc-toc becchettava sempre alla finestra per attirare la mia attenzione prima di entrare dalla soprafinestra e venire a mangiare dalla mia mano.
Ladruncolo e la compagna, chiamata Arraffona, erano due individui pieni di vita, inseparabili, e si somigliavano sia nell’aspetto che nel carattere. Le macchie frontali del maschio erano sottili, simili a quelle delle femmine. Sembravano avere una fretta indiavolata, volavano più veloce della maggior parte delle cince, e con movimenti a scatto. Sebbene non avessero paura, visto che entravano nella mia stanza, mi strappavano sempre il cibo dalle mani come se avessero un impegno urgente e dovessero prendere più bocconi possibili nel poco tempo a disposizione. Quando Arraffona morì, Ladruncolo si scelse una compagna completamente diversa, silenziosa e dai modi pacati, più piccola e con il piumaggio grigio dove altre cince ce l’hanno verdastro. Era così a suo agio con me che spesso mi si posava sulla mano e strappava fili di lana per il nido dai miei gomitoli. Quando non avevo gomitoli lì vicino mi tirava delicatamente per la manica perché andassi a prenderli. Ladruncolo scomparve l’inverno successivo. Non era mai stato molto premuroso nei confronti della compagna. Lei si scelse come partner Baffetto, che era stato compagno di Ciuffolo, ma morì quando i nidiacei erano ancora minuscoli. Baffetto li allevò con gran difficoltà e si diede un gran da fare per procurare cibo a un gran numero di piccoli, ma era chiaro che non era abbastanza. Credo che uno di loro fosse Grigia, poi compagna di Testapelata, perché il suo aspetto e i suoi modi somigliavano molto a quelli della madre; le variazioni di colore e taglia sono spesso ereditarie, come pure gli atteggiamenti gentili o sfacciati, e altre caratteristiche.
Un’altra coppia di individui devotissimi e assai sensibili al momento della nidificazione finì per perdere la prole con il suo entusiasmo. Il loro stato di sovreccitazione e i loro display erano così vistosi che attirarono l’attenzione di tutti i nemici, causando la distruzione della nidiata. Cercarono per ben tre volte di fare il nido nella stessa cavità, ma senza successo, e alla fine lasciarono il giardino e non tornarono mai più. La medesima cavità fu poi occupata dalla Coppia Bellicosa, che riuscì ad allevare due nidiate all’anno per diversi anni, ma aveva tutt’altri comportamenti.
Non ho mai visto due femmine nello stesso nido. La media delle nidiate è di nove uova, con un uovo che non si schiude, oppure di otto quando si schiudono tutte. I piccoli arrivano quasi tutti all’involo, ma spesso metà di loro finisce in pasto ai nemici nei due o tre giorni successivi all’uscita dal nido. Ci sono femmine di cinciarella che riescono a portare a termine covate di dodici uova; gran parte delle nidiate numerose che capita di vedere, quindi, sono probabilmente di un’unica femmina eccezionalmente feconda.
II. ALBERO GENEALOGICO DELLE CINCIALLEGRE - 1
3
BIOGRAFIE: I MERLI
I
Nella prima parte del capitolo precedente, quando ho descritto il comportamento della Coppia Bellicosa nei confronti di Jane quando era rimasta da sola con la nidiata da nutrire, per la morte del compagno, ho accennato al fatto che gli uccelli adattano le proprie leggi territoriali alle circostanze. L’episodio che segue è un altro esempio di questo fenomeno.
Durante la stagione riproduttiva uno dei miei merli, Nero, difendeva il suo territorio nel frutteto e ne scacciava gli intrusi, compreso un merlo del frutteto confinante, detto Ladro. Poiché tagliavo l’erba alta per creare dei passaggi dove buttare il cibo per gli uccellini, il mio Nero doveva lavorare sodo per tenere lontani i rivali, ma continuò a farlo finché il cibo abbondava altrove. La sua compagna fu vittima di uno sfortunato incidente: un ratto o una taccola le rubarono un uovo della covata. Lei abbandonò il nido e ne costruì un altro, ma la cosa si ripeté. La covata di Ladro invece si era già schiusa e lui cercava spesso avanzi da rubare, ma Nero non abbassava la guardia. Quando la compagna di Nero cominciò a covare la terza nidiata, la compagna di Ladro stava covando la seconda. In quel periodo il cibo per i tordidi scarseggiava a causa della siccità: il terreno argilloso era duro come la roccia. Ladro faticava a trovare cibo a sufficienza per i tre figli che avevano preso il volo. A quel punto il comportamento territoriale di Nero, che non aveva giovani da sfamare, cambiò radicalmente. Lasciò entrare Ladro nel territorio per procurarsi del cibo, ma lo scortava sempre, avanti e indietro, e lo guardava mentre dava da mangiare ai figli.
Ladro aveva sempre scacciato Nero in precedenza, quindi entrambi avevano modificato il loro comportamento. Era divertente vedere Nero che scortava Ladro, aspettava che sfamasse la prole, e poi ripartivano in cerca di cibo, Ladro davanti e Nero dietro. Nel giro di due giorni i giovani seguivano già il padre lungo i miei sentierini nel frutteto, con Nero a chiudere la fila. Appena Ladro trovava del cibo, i giovani gli si radunavano intorno con il becco spalancato e Nero rimaneva lì intorno, con la testa allungata in avanti, a vigilare mentre inghiottivano i bocconi. Tutti gli altri merli erano ancora banditi dal suo territorio – credo che le nidiate non avessero ancora preso il volo.
Quando la siccità finì e il terreno si ammorbidì, Nero riprese a difendere i confini del suo territorio in maniera inflessibile. Ladro e la sua famiglia ne venivano regolarmente scacciati, sebbene Nero non avesse ancora giovani merli da sfamare. So di molti altri casi in cui la difesa territoriale si è abbassata durante periodi di siccità, nevicate o lunghe gelate. I merli del mio giardino sono molto rigidi nella difesa del territorio, forse più della norma, perché è un terreno estremamente ambito. La capacità di discernere se sia il caso di modificare le regole fa pensare che il comportamento territoriale non sia interamente automatico, come sostengono alcuni ornitologi, bensì modulato da menti dotate di buone capacità di ragionamento.
La compagna di Ladro era un individuo peculiare, con un profilo bianco sulle ali e sulla coda e una stella bianca in fronte. Era sempre ben curata, con le penne perfettamente in ordine: un bellissimo esemplare. Ladro, al contrario, era sempre arruffato in maniera vergognosa e sembrava non lisciarsi mai le penne, e lo sguardo, privo di parte del contorno degli occhi, appariva dimesso. La femmina non sembrava avere alcuno scambio con gli altri merli; forse quell’accenno di albinismo la isolava e così finiva per essere evitata o temuta.
Il malconcio Ladro si meritava davvero il suo nomignolo. Non ho mai visto un merlo così abile nei furti. D’estate ero solita pranzare nel frutteto, guardando gli uccelli. Ladro si sceglieva un punto di osservazione nel frutteto vicino, da cui teneva d’occhio me e il mio piatto: se questo conteneva della carne, attendeva che mi girassi a guardare qualcosa alle mie spalle per piombare con la rapidità di un lampo e rubare la carne prima che potessi rendermene conto; dopo di che si allontanava con una risatina sonora, inseguito da Nero. Le incursioni che fa un uccello-ladro di prima categoria non sono qualcosa che si può acquisire; alcune cinciallegre hanno questo talento naturale, altre rimangono goffe anche dopo numerosi tentativi.
Persino il repertorio canoro di Ladro era rubato, scopiazzato dai merli del vicinato e riprodotto con pochi abbellimenti, come sempre accade quando un merlo copia il canto di un altro (si veda il cap. 11, alle pp. 222 e 225).
Per ben sei anni Ladro e la sua elegante compagna allevarono nidiate nel terreno confinante, in un cespuglio di rose russelliane. Quando lei morì, lui si trovò una nuova compagna dall’aspetto ordinario che continuò a nidificare nello stesso posto. Lui morì due anni dopo.
Uno dei figli di Ladro aveva manifestato caratteristiche particolari. Poiché incluse nel suo territorio una parte del mio giardino, ebbi modo di osservarlo da vicino.
II
Non fu facile per il figlio di Ladro assicurarsi un territorio, perché il vecchio merlo che controllava il giardino era un tipo determinato.
Durante la muta il vecchio consentì a molti giovani di venire nel prato a cercare cibo; tra questi c’era anche il figlio di Ladro, che aveva ancora la livrea da nidiaceo. All’arrivo dell’autunno, però, il vecchio, nel suo nuovo piumaggio, diventò più severo, e i giovani dovettero allontanarsi tutti, eccetto il figlio di Ladro, che gironzolava in fondo al prato protetto dai cespugli e dalla siepe confinante con la strada. C’era un melo alto su cui amava posarsi per lisciarsi le penne al sole e cantare un motivo sommesso, udibile solo passando vicino all’albero. Teneva d’occhio il vecchio merlo, in attesa che fosse impegnato con gli uccelli del vicinato, sul retro del cottage, per poter fare un’incursione sul prato o alla mangiatoia vicino alla finestra.
Fu un inverno mite; in gennaio il giovane cercò di appropriarsi di metà del giardino di fronte per nidificare. Questo individuo peculiare scelse con cura una grande foglia di quercia tra quelle sparse a terra e, tenendola nel becco, a testa alta, in modo che la foglia dritta e marrone fosse ben visibile, attaccò il vecchio nel pieno del suo territorio. Ne seguì una zuffa nelle aiuole con i due che si inseguivano dentro e fuori dai cespugli; poi si alzarono in volo tenendosi per il becco. All’improvviso il giovane si girò e volò via in fondo al prato. Posò con cura la foglia a terra e tornò nel cuore della battaglia. Fu uno scontro lungo e violento. Il giovane ne uscì malconcio, mentre il vecchio, che era stato il primo a desistere, sembrava in ottime condizioni.
Dopo un’ora o due il giovane raccolse di nuovo la foglia di quercia e, brandendola con aria sicura, puntò dritto sul territorio del rivale. Questa volta la zuffa fu meno intensa e consistette in gran parte nei soliti inseguimenti al suolo tipici dei merli – avanti e indietro, dentro e fuori dai cespugli. Il giovane sempre con la foglia nel becco, sfoggiata con aria impertinente. Di tanto in tanto i due si alzavano in volo, becco a becco. A un certo punto il giovane si allontanò, sostituì la foglia ormai sciupata con un’altra e tornò all’attacco con il collo in avanti e la foglia bene in vista nel becco alzato.
Gli scontri proseguirono per giorni, e il giovane non smise mai di munirsi della foglia a mo’ di talismano. Provò a tenerne diverse nel becco, ma lo impacciavano nei movimenti; le lasciò a terra e ne scelse una, rigida e di grosse dimensioni. Non usò mai foglie di altre piante nonostante ce ne fossero moltissime al suolo. Dopo un mese, Foglia di Quercia (era diventato il suo nome) era malconcio, ma aveva conquistato metà del prato. A quel punto cominciò a concentrarsi sul canto e sulla nidificazione.
L’originalità di Foglia di Quercia si manifestò anche nei canti: era capace di usare il vibrato come nessun altro uccello. Eseguiva con grandissima maestria la sua frase:
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e il tono del finale, con quel vibrato appassionato, suscitava un ascolto attento e faceva riflettere sull’anima del cantante. Appollaiato in cima al melo, quel merlo dall’aspetto insolito e segnato dalle battaglie cantava senza sosta, perfezionando un repertorio di motivi originali. A differenza del padre, non copiò mai i canti degli altri, ma continuava a comporre melodie e ad abbellirle, provandole in tutti i modi e sperimentando nuove sonorità, ritmi e frequenze.
Arrivò il tempo della nidificazione e un giovane della prima nidiata riuscì a prendere il volo. Sebbene anche il vecchio merlo stesse allevando la propria prole, Foglia di Quercia sconfinava spesso nel suo territorio: scavava per estrarne vermi e se ne andava sventolandoli per aria, come pavoneggiandosi di fronte al vecchio avversario. Le dispute proseguirono e, prima che la compagna di Foglia di Quercia portasse a termine la seconda covata, il vecchio era morto per le ferite dovute al becco possente del giovane merlo malandato. Ormai Foglia di Quercia aveva un aspetto quasi grottesco, senza più penne sulla cima del capo e chiazze di pelle nuda sopra gli occhi.
Continuò a cantare fino alla prima metà di agosto, ma nessuno dei piccoli della seconda e della terza covata riuscì a involarsi. Forse le sue eccezionali doti canore attiravano nemici al nido. Passò il resto del mese sul prato, con la testa spennacchiata gettata all’indietro, il becco rivolto verso l’alto e un’espressione stralunata. A differenza di gran parte dei merli, non si nascondeva tra i cespugli o sugli alberi durante la muta, anzi: si piazzava bene in vista come uno spaventapasseri, quasi per tenere gli altri merli lontani da un territorio conquistato con tanta fatica.
Il 4 settembre, nelle prime ore di un mattino tempestoso e spazzato dal vento, mi accorsi che Foglia di Quercia non era in giardino. Sul suo prato c’era una giovane merla dal piumaggio quasi adulto che si esibiva in una strana danza. Aveva scelto una striscia di terreno riparata, circondata da aiuole e con una pergola di rose alle spalle. Sollevava le ali in alto, così da mostrarne la pagina inferiore di colore pallido, le sbatteva rapidamente e faceva un saltello per aria. Poi zampettava in avanti e, con un frullo d’ali ancora più rapido, si voltava all’improvviso, di nuovo in avanti, un altro saltello e un altro giro, accompagnando il movimento con piccoli svolazzi. Si muoveva alla velocità di un lampo, ma sempre con grazia e leggerezza. All’improvviso si fermò e si mise a becchettare con vigore, sollevando grumi di terreno argilloso. Ne prese uno al volo e lo lanciò con un movimento velocissimo della testa, lo rincorse e lo afferrò di nuovo come se stesse giocando a palla. Ancora una volta fece un balzo elastico, sbattendo più volte le ali sollevate, fece tre giri su sé stessa muovendosi lungo un cerchio immaginario di qualche decina di centimetri di circonferenza, rimanendo sempre raso terra ma spostandosi con tale rapidità che era impossibile sapere se stesse correndo, saltellando o svolazzando con quegli strani battiti d’ali. Di colpo si fermò e si accasciò a terra con la testa all’indietro.
Fu uno spettacolo assolutamente straordinario, perché i movimenti non erano quelli tipici dei merli. Ai miei occhi l’energica danza sembrava in armonia con lo spirito del vento selvaggio che soffiava da sud-ovest. In men che non si dica la merla si rialzò, sollevò le ali per sbatterle ancora una volta, fece un balzo in avanti e si lanciò in un altro giro vorticoso come rimbalzando in tondo sospinta dai battiti delle ali. Poi si fermò con la testa bassa, come se stesse cercando del cibo, e un altro giovane merlo, il figlio di Foglia di Quercia, la raggiunse e iniziò a becchettare. Per un poco i due becchettarono energicamente a terra dandosi le spalle, poi la ballerina attraversò di corsa il prato e andò a posarsi da un lato della pergola. Il figlio di Foglia di Quercia la seguì e si posò dal lato opposto. La femmina si voltò dall’altra parte e con fare assente prese a strappare foglie dalla rosa e a buttarle in terra, mentre il maschio saltellava lentamente verso di lei. La ballerina si girò e con un batter d’ali lo scavalcò, posandosi dall’altro lato. Rimasero di spalle ancora un po’, immobili come due statue, poi lei tornò sul prato e riprese la sua danza selvaggia e leggiadra, mentre lui la osservava dall’alto.
Ancora una volta si trovarono di spalle, il maschio intento a becchettare con forza il terreno, la ballerina a rivoltare le foglie morte con fare distratto; quindi lei volò su un albero e lui la seguì un momento dopo.
Più tardi, lo stesso giorno, la ballerina tornò sul prato. Dietro la pergola, il maschio la osservava cominciare con i saltelli e gli svolazzi, ma questa volta comparve Foglia di Quercia, nel suo aspetto grottesco: malridotto, con la testa spennacchiata, il corpo rattrappito e senza coda, ma con il suo bel becco giallo. Alla vista di quell’uccello dall’aspetto bizzarro, la ballerina si dileguò. Forse sapeva che due mesi prima quel becco giallo aveva ucciso suo padre, dopo una lunga serie di combattimenti con la foglia nel becco.
Quel relitto di merlo percorse il prato avanti e indietro, da solo, orgoglioso padrone del suo territorio ma senza più le forze per goderselo. Il figlio, a beneficio del quale erano stati condotti tanti scontri, rimase in disparte. Anche lui ormai temeva quel vecchio combattente dai modi bizzarri e dall’incredibile talento canoro.
III
L’anno seguente il comportamento di Foglia di Quercia fu molto diverso. In ottobre un altro merlo della sua età, che aveva fatto il nido nel frutteto, s’insediò nel territorio del vecchio merlo: Foglia di Quercia gli cedette metà del prato senza protestare. Sembrava che la questione fosse stata risolta con scambi blandi e amichevoli lungo il nuovo confine del territorio di Foglia di Quercia, un’aiuola che usciva dai suoi possedimenti come una sorta di terra di nessuno. Quando Crepuscolo – perché amava cantare al buio quando tutti gli altri merli dormivano – si avvicinava camminando, Foglia di Quercia raccoglieva in fretta un pezzo di mela da sotto l’albero e, tenendolo sollevato, faceva il giro dell’aiuola con piglio altero, la coda aperta a ventaglio. Crepuscolo gli si avventava contro, lui lo evitava, entrava nei cespugli e andava a depositare la mela nel territorio del rivale, appena oltre l’aiuola. Crepuscolo lo inseguiva, anche lui con la coda aperta, la testa alta e una posa rigida e composta. Fingeva di raccogliere la mela, ma lasciava sempre che Foglia di Quercia lo intercettasse. Poi i due si pavoneggiavano uno davanti all’altro in pose comicamente affettate, dentro e fuori dalle aiuole. Tornavano alla mela, che Foglia di Quercia afferrava col becco e sollevava con aria di sfida davanti a Crepuscolo, il quale lo ricacciava indietro nella sua parte di territorio, dove Foglia di Quercia lasciava cadere la mela e fingeva di mangiarla. Crepuscolo allora gli si lanciava addosso e i due si alzavano in volo, sbattendo le ali con fare giocoso, o almeno così pareva. Poi ricominciavano da capo. Passarono ore così, a ottobre e a novembre, con l’aria di divertirsi e senza che nessuno dei due uscisse da questi scambi con una penna fuori posto.
A gennaio Foglia di Quercia prese a scappare da tutti gli altri merli, soprattutto da Crepuscolo, che spesso inseguiva la sua ombra perché Foglia di Quercia si dava alla fuga appena lo vedeva, anche se era nel proprio territorio. A febbraio (era il 1947), durante una lunga nevicata, Foglia di Quercia venne tutti i giorni al mio davanzale a prendere da mangiare e, quando Crepuscolo si opponeva, brandiva il boccone davanti a sé, facendo tremare le ali con enfasi e aprendo la coda a ventaglio. Il display interrompeva le proteste di Crepuscolo ma, appena aveva mangiato, Foglia di Quercia scappava via. Non lo vidi più sul prato fino al 23 marzo. Quel giorno lo notai accovacciato sotto il biancospino in fondo al prato nella sua posa tipica, corpo basso, testa all’indietro e becco sollevato. Quando la compagna comparve all’improvviso, Foglia di Quercia sparì dietro la siepe, nel giardino dei vicini. All’epoca gran parte del suo territorio era lì, sebbene avesse ancora il controllo dell’angolo di prato sotto il biancospino e di una striscia dietro la pergola, fino al melo, il suo vecchio palcoscenico per le esibizioni canore.
Il giorno successivo stava di nuovo immobile sotto il biancospino, con le spalle alla compagna che fingeva di mangiare dietro un albero. Poi lei volò alla mia finestra, nel mezzo del territorio di Crepuscolo, e Foglia di Quercia la seguì con strani svolazzi a spirale accompagnati da un’insolita risatina ad alta frequenza e atterrò subito dietro di lei, la quale si voltò di scatto, lo superò e volò dritta al biancospino, con lui dietro. A quel punto comparve Crepuscolo, che si avvicinò con aria di grande importanza e si fermò nelle vicinanze della coppia con la coda aperta a ventaglio e la testa alta, e prese a fissarli con insistenza, senza alcun riguardo. Foglia di Quercia era troppo preso dalla compagna per accorgersi del rivale, che dopo un attimo se ne tornò senza fretta nel suo territorio.
Il 26 marzo Foglia di Quercia ricambiò la visita, armato di un mazzetto di foglie e di una striscia di carta che gli pendeva dal becco fino a toccare terra. Il carico gli impediva di avanzare: continuava a inciampare nella carta, ma la sua marcia lenta aveva un’aria comica, di trionfo scherzoso. Sembrava si stesse divertendo da matti; il suo atteggiamento e la sua espressione erano del tutto diversi da quando aveva attaccato il vecchio merlo per sottrargli il territorio. Crepuscolo gli andò incontro e i due si alzarono in volo sopra l’aiuola, ma il carico impacciava Foglia di Quercia, che decise di tornare al biancospino a posare le foglie e la carta prima di continuare. A quel punto Crepuscolo era sul davanzale a prendere da mangiare. Quando vide arrivare Foglia di Quercia, gli volò incontro. Foglia di Quercia raccolse rapido due foglie e puntò verso di lui. Si alzarono in volo più volte tenendosi per il becco, esibendosi in una serie di pose, quindi Foglia di Quercia tornò al biancospino e posò le foglie a terra, per poi strisciare il becco sul terreno, aprendo e chiudendo le mandibole in modo strano, come se le foglie gli avessero lasciato in bocca un cattivo sapore. Lui e Crepuscolo non si scontrarono più.
Quella primavera Crepuscolo cantò di più e meglio di tutti gli altri merli, ma non riuscì ad allevare dei piccoli. Foglia di Quercia, che aveva fallito nel compito l’anno precedente, questa volta allevò tutte le sue nidiate, senza cantare quasi mai. Sembrava che la voce gli si fosse incrinata; il suo canto sottile aveva perso ogni grazia quando cercava di intonare le vecchie melodie. Questo e altri esempi sembrano indicare che il canto nuoce alla nidificazione. Oltretutto quell’anno Foglia di Quercia fu molto più dedito alla cura della prole: covava personalmente i piccoli, anche quando erano ormai pronti all’involo, cosa che i maschi non fanno quasi mai. Non ho dubbi che si trattasse di una misura protettiva contro eventuali predoni. Il nido era sulla stessa siepe dell’anno precedente, ma quando Foglia di Quercia cercava di cantare andava a farlo lontano dal nido. Non solo, in quella sua nuova versione più misurata e ragionevole, non perse nemmeno una penna.
Gli uccelli imparano dai propri errori, apprendono in fretta gli insegnamenti dell’esperienza, e ciò significa che le loro azioni sono guidate dalla ragione e non sono puramente istintive e automatiche.
Al terzo anno Foglia di Quercia prese a rinforzare la foglia che brandiva con un bastoncino, mentre si preparava ad aggredire Crepuscolo per le dispute di confine. Al quarto anno da individuo originale qual era ebbe un’altra idea brillante. Inventò un nuovo tipo di attacco aereo: quando vedeva Crepuscolo in arrivo raccoglieva tutte le sue armi, compreso il bastoncino, puntava verso di lui e quando l’aveva raggiunto gli volava in tondo sopra la testa, velocissimo, quindi atterrava a circa mezzo metro, correva di nuovo al suo territorio e si girava per ricominciare da capo. Per un certo periodo, finché non ci fece l’abitudine, Crepuscolo rimase sempre frastornato dall’operazione. L’attacco in volo era un’idea intelligente; impedito dalla foglia e dal bastoncino, Foglia di Quercia aveva sempre trovato i voli becco a becco con il rivale poco pratici: doveva lasciar cadere le armi per potersi battere. Ma quel display con finale a sorpresa non lasciava spazio alle colluttazioni becco a becco. Crepuscolo si precipitava contro di lui al suolo ma caricava uno spazio vuoto, mentre Foglia di Quercia, con il suo arsenale, portava a termine l’attacco con quel rapido raid aereo. Alla fine Crepuscolo si nascondeva dietro i cespugli quando lo vedeva arrivare: così vanificava l’attacco aereo e costringeva l’avversario a tornare ai tradizionali inseguimenti. Forse, per la quinta stagione di nidificazione, Foglia di Quercia si inventerà qualche nuovo trucco per prendere Crepuscolo di sorpresa. L’inventiva di questo merlo sembra davvero inesauribile.
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III
4
APPUNTI SUI PETTIROSSI IN AUTUNNO
All’autunno del 1946 sarebbe seguito un inverno particolarmente rigido. A settembre, nel mio giardino ci fu un insolito afflusso di pettirossi in lotta per un territorio invernale che comprendesse la mangiatoia o parte del cottage. Gli appunti che seguono sono presi dai taccuini scritti in autunno o poco dopo. È interessante notare che il mio pettirosso, Dobs, si comportava in modo diverso con ogni invasore. Dobs era nel suo secondo anno di vita.
26 agosto. Dobs ha cambiato il piumaggio, i suoi modi sono impertinenti e sembra considerarsi all’altezza di qualunque sfida. Si è avidamente accaparrato entrambi i lati del cottage, senza lasciare quello a est alla compagna come l’anno scorso. La femmina si è ritirata nel giardino confinante a est e non si fa vedere da qualche giorno. Due nuovi pettirossi cercano di farsi strada al cottage da ovest e da sud-ovest. Sono rivali fra loro oltre che nemici di Dobs. Li si vede di rado, ma dall’alto del cipresso sul confine a ovest del mio terreno uno di essi lancia segnali di intimidazione all’indirizzo di Dobs, che per tutta risposta gorgheggia sommessamente ma in tono minaccioso e gonfia le penne al punto da sembrare enorme. Da sud-ovest, vicino al cancello, è una femmina a sferrare il suo attacco. Nascosta fra gli alberi, emette suoni potenti, secchi e spasmodici, e di tanto in tanto vola a terra per raccogliere qualcosa, salvo correre subito a nascondersi con un tic tic tic prima che Dobs abbia tempo di aggredirla. Il giardino è tutto un ticchettio.
27 agosto. La compagna di Dobs attraversa il prato a testa alta e con passi decisi: è di nuovo la femmina snella e dalle zampe allungate. Quando compare Dobs lei si ritira lentamente, la sua postura diventa più pesante, si arrotonda e sembra che abbia le gambe corte; con qualche borbottio, si rifugia nel territorio dei vicini. Dalla siepe di confine Dobs gorgheggia in sordina tra sé – o all’indirizzo di lei. Continua ad allungare il collo, pronto all’evenienza che l’audacia della compagna (o meglio, la sua impertinenza!) si ripeta. Il pettirosso Ovest prepara un nuovo attacco: dal cipresso giungono versi aggressivi. Dobs fa i conti con lui tramite uno scambio di battute pacato ma fermo nel linguaggio dei pettirossi.
28 agosto. Dobs è sulla mangiatoia con la compagna, apparentemente in rapporti amichevoli. Lui prende da mangiare dalla mia mano, lei raccoglie le briciole che gli cadono. La femmina sembra un po’ nervosa, ma Dobs è tutto sorrisi stamattina, non si sente una nota di rimprovero.
30 agosto, e fino al 4 settembre. Dobs viene sempre da solo, la compagna non si vede. Nel pomeriggio del 4 la insegue lungo la siepe di confine.
Dal 4 all’8 settembre. Il pettirosso Ovest causa sempre più problemi. Dobs non smette di comunicare con lui, che risponde con i suoi gridi dal cipresso. Di tanto in tanto li vedo rotolare avvinghiati sotto l’albero, ma senza farsi male. Il linguaggio di Dobs è estremamente controllato, mentre il pettirosso Ovest sembra isterico, anche se i suoi versi spasmodici non paiono avere lo stesso potere del gorgheggio continuo di Dobs, talvolta appena sussurrato ma pieno di significati minacciosi. Al mattino presto il canto di Dobs è melodioso, ma se necessario è anche capace di esprimersi in un modo completamente diverso. I canti dei pettirossi sono più espressivi in autunno che in primavera. Contengono molte più variazioni di umore; alle mie orecchie suonano aggressivi, minacciosi, suadenti, sollevati, soddisfatti, trionfanti, lugubri, presuntuosi, malinconici, determinati, annoiati, disperati. Fanno pensare che l’avversario sia uno sciocco e il mondo un posto senza speranza! Nel suo libro sui canti degli uccelli, Garstang ha equiparato i pettirossi a Chopin, ma mentre Chopin è spesso sentimentale, i pettirossi non lo sono mai.
9 settembre. Il pettirosso Sud-ovest si è spinto verso il biancospino di Foglia di Quercia e verso la pergola, occupando di fatto la parte meridionale del giardino; ha l’aspetto della femmina, con le zampe allungate, non canta molto e saltella qua e là con grazia. Dobs non se ne occupa, ha già troppo da fare per respingere la compagna a est e il pettirosso Ovest dal prato davanti a casa. Questo pomeriggio Dobs canta dall’alto del pruno vicino alla siepe a est; è un canto forte e monotono, completamente diverso dalle sue variegate melodie abituali, sembra quasi solo un rumore per tenere lontani i rivali. È diventato corpulento: quando si posa sulla mia mano pesa più della maggior parte dei pettirossi e il piumaggio rosso del petto è particolarmente brillante; al confronto la compagna sembra pallida.
12 settembre. Dobs sembra aver momentaneamente risolto le sue dispute territoriali, visto che è tutto il giorno che canta le sue melodie armoniose e non ha scambi con altri pettirossi. Il pettirosso Ovest ha emesso qualche richiamo dal cipresso, che a quanto pare è il confine del suo territorio. Forse è stata la bella giornata, la prima senza vento dopo settimane, a placare i loro animi. Ieri dei codibùgnoli che si erano posati in gruppo sui cavi lungo la strada si sono ritrovati con la coda rovesciata sopra la testa per via del vento, e per poco non hanno perso l’equilibrio; oggi non correrebbero rischi nemmeno se fossero appollaiati molto in alto. Dobs ha passato gran parte della giornata posato in basso, nei cespugli, a cantare una sorta di sottocanto ininterrotto che somigliava al dipanarsi di una lunga storia. Di tanto in tanto mentre cantava chiudeva gli occhi e sembrava non accorgersi del mondo intorno a lui. Che differenza con i canti e i modi dei giorni scorsi!
24 settembre. Dobs è di nuovo preso dalla compagna. Il pettirosso Ovest e il pettirosso Sud-ovest stanno bisticciando tra loro con canti sonori e sospiri disperati. Dobs non li considera, intento a difendere la porta sul retro (quella della cucina, sul lato est del cottage) dalla compagna, che cerca di intrufolarsi in questa appetibile porzione di territorio. Lui è posato sul nocciolo vicino alla porta, canta una canzone sommessa ma minacciosa e tiene gli occhi fissi sulla compagna nascosta tra gli alberi, la quale risponde con sonori tic tic. Se perdesse questa porta, verrebbe meno per lei ogni possibilità di ricevere briciole in futuro, ma è chiaro che ha paura di avvicinarsi troppo a Dobs; la sua strategia è l’attesa, vuole approfittare del momento in cui lui dovrà difendere anche l’altro lato del cottage. Ogni volta che lui si gira, lei si avvicina piano alla porta, fingendo di fermarsi a becchettare lungo il percorso, ma senza mangiare o cercare attivamente cibo. Tiene lo sguardo fisso su Dobs: se lui la guarda, lei indietreggia lentamente. Dobs non la aggredisce mai e durante le loro dispute il suo canto è sommesso. Spesso, durante le contese per il controllo della porta di cucina, lui si ferma per prendere da mangiare dalle mie mani in giardino, buttando allo stesso tempo un occhio al pettirosso Ovest, che canta di continuo dal confine del suo territorio. Qualche volta Dobs si appollaia di fronte a lui e canta ad alta voce per qualche minuto, poi si affretta a tornare sul nocciolo; sembra tenere in particolare al fatto che la porta della cucina rimanga nel suo territorio. La compagna gli causa più problemi dei due forestieri, forse perché sta cercando di allontanarla dopo aver condiviso il territorio con lei lo scorso inverno. Tuttavia a ovest si prospetta una nuova difficoltà: un altro maschio preme sul territorio e dal suono della voce si direbbe sia di grosse dimensioni e molto determinato. Il pettirosso Ovest è quindi spinto a infiltrarsi nel territorio di Dobs, oltre il limite segnato dal cipresso. Dobs abbandona la porta sul retro per occuparsi dei rivali che, come se avessero perso la pazienza, si abbandonano a un farfugliare grossolano. Dobs è dignitoso anche nel modo di combattere. Usa un linguaggio forte, ma non si abbassa mai a sproloqui o squittii.
All’improvviso tutto tace, mentre un gruppo di codibugnoli sfreccia sopra il giardino. Sembra quasi che l’atteggiamento spensierato dello stormo abbia un effetto sui pettirossi, come se la ventata d’aria fresca portata dai codibugnoli avesse raffreddato gli animi focosi dei pettirossi. Per i codibugnoli, un giorno soleggiato d’autunno è sinonimo di un gradevole girovagare tra siepi dai colori accesi condividendo il ricco bottino in piacevole compagnia; per i pettirossi, invece, una giornata del genere richiama il bisogno di solitudine, che si trasforma nella lotta per il possesso esclusivo di una striscia di terra che li possa sostentare durante l’isolamento.
I codibugnoli sono passati ma si sentono ancora le loro voci in lontananza, simili a minuscole campanelle elettriche dal suono acuto. I pettirossi rimangono in silenzio a lungo, poi Dobs ricomincia a cantare, tre note marcate seguite da una coulisse dal tono interrogativo che si disperde nell’aria in un’increspatura, quattro lunghe note su cui la voce si sofferma sempre più a lungo e con sempre maggiore enfasi come a dire – a volerlo leggere in chiave antropomorfica – che con questo si chiude ogni questione su cui valga la pena di discutere. Gli altri pettirossi sono in silenzio se non per i pochi sporadici tic tic. Nel pomeriggio non ci sono altre zuffe. Dobs gorgheggia piano accanto a me; il suo carattere mansueto sembra rispecchiato nel canto armonioso.
26 settembre. Il canto di Dobs, accompagnato dal tamburellare della pioggia, viene interrotto. La situazione del pettirosso Ovest si sta facendo preoccupante. Il pettirosso Ovest-ovest si è infiltrato nel territorio del rivale e minaccia di cacciarlo. Durante una disputa si è persino spinto oltre il cipresso, sul prato davanti al cottage. Preso dalla rabbia, Dobs lascia l’albero su cui stava cantando lungo la siepe dalla parte opposta e, con le penne sollevate in modo da sembrare più grosso, si lancia contro i due intrusi, scacciandoli oltre il confine. Tornato al suo albero, riprende a cantare allungando e marcando le note e inframmezzandole con una o due risatine esplosive. (Nel repertorio dei pettirossi c’è una risatina simile a quella ben nota dei merli, ma naturalmente emessa a frequenza più alta).
Pomeriggio dello stesso giorno. I due pettirossi a ovest sono di nuovo in lotta sotto il cipresso. Si limitano per lo più a sospirare, squittire e strillare, esibendosi in display e inseguimenti. Il pettirosso Sud-ovest si avvicina poco a poco, forse domandandosi se questa nuova zuffa possa essere la sua occasione per guadagnare terreno. Arriva più vicino che mai al lato ovest del cottage. Dobs si infastidisce e vola a terra con le penne arruffate più e più volte, per poi fermarsi a cantare al suolo vicino al cipresso, l’albero della contesa. Non osa però rimanere a lungo lontano dalla siepe a est, sapendo che la compagna è lì che attende la sua occasione. È una giornata impegnativa per lui. Si ferma un attimo a bere dalla vaschetta. Tra un sorso e l’altro farfuglia un canto, come se l’acqua gli gorgogliasse in gola. Dovendo gestire quattro rivali, non può smettere di cantare nemmeno un secondo.
Sempre quel pomeriggio, ore 15.30. Un’altra coppia fa pressione sul pettirosso Ovest e cerca di avvicinarsi al cottage passando dal cipresso e dal prato circostante. A questo punto i pettirossi in lotta per il cipresso sono diventati quattro. Dalle 15.30 alle 17 si scatena un inseguimento sul confine attorno al cipresso e al melo. Dobs è fuori di sé dalla rabbia; canta senza sosta e con enfasi, vola sulla parte alta della mangiatoia per i suoi display, con un lampo di collera rovente negli occhi. Ha la testa ingrossata, il corpo sembra rimpicciolito e deforme. È troppo agitato a causa dei due pettirossi per prendere il cibo che gli offro, ha paura a interrompere canti e display anche solo per un momento, persino per mangiare. La femmina, il pettirosso Sud-ovest, sta ancora cercando di approfittare della situazione difficile in cui si trova il rivale: si è spinta fino alle aiuole di fiori, nei territori di Dobs e del pettirosso Ovest, mentre finora non aveva mai superato il biancospino di Foglia di Quercia. Per un’ora i pettirossi sfrecciano intorno e attraverso gli alberi, dentro e fuori, con la testa allungata in avanti, infilandosi tra le foglie con un gran frullare di ali. Dobs non partecipa agli inseguimenti, ma canta senza sosta dalla mangiatoia mandando lampi dagli occhi e facendo contorsioni che deformano la sua figura altrimenti elegante; non solo, ha iniziato anche lui a farfugliare, cosa mai successa prima d’ora.
Alle 17 c’è stata un’invasione di formiche alate in giardino e probabilmente anche nel cielo, che infatti pullulava di balestrucci e rondini. A guardare lo strano movimento circolare degli uccelli che roteavano in gruppi, sovrapponendosi e incrociandosi gli uni con gli altri a diverse altezze, si aveva l’impressione di piroettare con loro. Quelle centinaia di minuscoli puntini che salivano volteggiando sembravano fiocchi di neve scuri che turbinavano verso l’alto, fin quasi a scomparire. Poi però il movimento si è invertito e alcuni puntini sono ridiscesi, trasformandosi gradualmente in uccelli dalle ali affusolate che volavano con eleganti traiettorie curve. Quelli in basso sembravano particolarmente grandi, un’illusione creata dal contrasto con le dimensioni minuscole di quelli in volo. Di nuovo le rondini hanno ripreso ad ascendere con quel movimento a spirale, disegnando enormi motivi intricati sempre diversi, fino a sparire in alto nel cielo. Dopo mezz’ora l’adunanza migratoria si è spostata verso est, lasciandosi alle spalle solo pochi individui intenti a cacciare formiche alate sopra il giardino. Pigliamosche e luì grossi partecipavano al banchetto e persino i passeri acchiappavano formiche in volo. Quando le rondini si sono allontanate, l’invasione di formiche si è intensificata e di tanto in tanto uno dei quattro pettirossi interrompeva l’inseguimento per catturarne qualcuna sugli alberi o a terra, ma in men che non si dica uno degli avversari gli piombava addosso e lo trascinava nuovamente nel turbine. A volte uno dei pettirossi si fermava e intonava una sequenza di note con una cadenza simile al canto della capinera. Non era il canto della sua specie; forse aveva vissuto circondato da capinere. Gli altri non si interrompevano mai per un vero e proprio canto, ma farfugliavano, squittivano e strillavano note singole in continuazione e di tanto in tanto emettevano una lunga nota stridente che terminava in una specie di sospiro. In serata Dobs ha preso parte agli inseguimenti; quando si trova in difficoltà ricorre a una specie di sputacchio, attribuibile alle circostanze, dovendo gestire sia questi quattro intrusi che il pettirosso femmina a sud-ovest e la propria compagna.
Dopo il crepuscolo le sagome scure di diversi pettirossi spavaldi hanno continuato a svolazzare sul prato. Forse il buio consente loro di cercare il cibo indisturbati.
27 settembre, ore 7 (ora legale). I sette pettirossi sono di nuovo in agitazione. Solo Dobs ha cantato il suo mattutino. Gli altri hanno iniziato la giornata con una serie di tic e di strilli che suonavano come imprecazioni. L’arrivo di questi nuovi invasori sta causando parecchi problemi a Dobs. Il primo di loro, che ho descritto sopra come un maschio possente o il pettirosso Ovest-ovest, ha scacciato il pettirosso Ovest dal cipresso e dal melo e ha preso possesso di quella parte di prato sul davanti. Si tratta di un individuo irruento che darà del filo da torcere a Dobs. D’ora in poi lo chiamerò Pettirosso Nuovo.
27 settembre (prosecuzione), ore 10. Questa meravigliosa giornata con il sole splendente e il cielo azzurro sembra aver momentaneamente distratto i pettirossi dalla contesa: si sente un coro di melodie che sembrano esprimere la bellezza di questo mattino dorato d’autunno. Ho notato però che Dobs canta più forte e non si ferma, come se volesse sentire solo la propria voce. Le note oltretutto sono più acute rispetto a prima degli intrusi. Sembra agitato, ma canta comunque bene.
Alle 11 il coro si interrompe e da ovest Pettirosso Nuovo avanza nel prato sul davanti. Saltella in giro vivace e spavaldo su questo terreno sconosciuto, con gli occhi fissi su Dobs che sta sulla mangiatoia. Dobs gli rivolge uno sguardo pieno di rabbia, poi si lancia sul prato con una posa innaturale, con la testa allungata in avanti, quasi stesse per staccarsi, emettendo versi minacciosi. Pettirosso Nuovo continua a saltellare allegramente, ma a intervalli regolari apre il becco per lanciare un sibilo gutturale fortissimo e prolungato, che aumenta via via di intensità. Apre il becco a dismisura, finché non gli si vede la lingua, lo chiude appena e ripete un’altra sconcertante esecuzione; nel frattempo si ritira lentamente. Dobs vola sul suo posatoio preferito per cantare, un pruno alto lungo la siepe a est, da cui ha una bella visuale sul territorio della compagna pur restando in vista per gli altri pettirossi. Si mette a cantare con gusto finché le circostanze non gli impongono di ripiombare su Pettirosso Nuovo.
Sono seduta vicino alla mangiatoia. Pettirosso Nuovo mi si avvicina e mi fa capire che vuole da mangiare. Dobs gli si avventa contro dal suo posatoio con la rapidità di una meteora, colpendolo con rabbia. I due rotolano avvinghiati sul prato tenendosi per le zampe, la stretta dei loro artigli ugualmente possente. Alla fine uno dei due punta il becco alla gola dell’altro. Lo scontro potrebbe essere mortale, decido di separare i due pettirossi infuriati. Ma Dobs è in preda alla collera, ha occhi fiammeggianti che sembrano dello stesso colore del suo petto scarlatto, e riparte all’attacco. Batto forte le mani per spaventarli. Pettirosso Nuovo si rifugia dietro il cipresso emettendo pochi tic tic. Dobs sembra convinto di aver vinto: abbassa le penne arruffate e con un’espressione soddisfatta torna sul posatoio preferito per riprendere a cantare melodiosamente, senza l’ombra di alterazione nella voce.
28 settembre. Pettirosso-Capinera canta dal melo a ovest del cipresso. Ha una voce molto morbida per essere un pettirosso e non fa che ripetere la frase di poche note con cadenza da capinera. Va avanti per dieci minuti: sembra non avere altro nel repertorio. Seguono tre note appena accennate e poi un lungo silenzio: Pettirosso Nuovo è all’attacco. Dobs canta sul nocciolo vicino alla porta della cucina, per tenere lontano la compagna. I quattro invasori farfugliano e «ticchettano» come sveglie. Si battono per il possesso del melo a ovest del cipresso di Pettirosso Nuovo e iniziano un inseguimento danzante intorno all’albero e dentro le fronde. Volano piano e senza far rumore, ma quando si infilano in mezzo ai rami il frullo delle ali contro le foglie, che d’autunno sono più rigide, produce uno strano suono crepitante. Questa volta non sembra esserci rabbia, mi viene quasi da pensare che si divertano. Se i quattro sconfinano sul pero a sud del melo conteso, il pettirosso femmina Sud-ovest, in genere estremamente riservata, si fa avanti per protestare: il pero è il suo confine. Di tanto in tanto Pettirosso-Capinera fa una pausa per cantare la sua frase musicale, ma quando uno dei quattro si posa per cantare gli altri lo aggrediscono e lo coinvolgono di nuovo nel pieno dell’inseguimento. Il gioco continua per più di un’ora, se di gioco si tratta. Poi i quattro si mettono a cantare tutti insieme e le note morbide del Pettirosso-Capinera risaltano come la voce di un tenore in un coro di soprani. A sentire quel baccano, Dobs accorre, ma questa volta, invece di cantare con la voce strozzata, emette un gorgheggio cangiante e sommesso mai sentito prima, che spicca tra le voci piene degli altri pettirossi quanto uno strumento con la sordina in un quartetto di strumenti a corda che suonano a pieno volume. Al tramonto si sentono tutti e sei i pettirossi «ticchettare» di tanto in tanto. Dobs, che di solito al crepuscolo ha la vaschetta tutta per sé e fa un lungo e gioioso bagno, si sente obbligato a continuare i suoi tic tic durante una breve abluzione frettolosa. A giudicare da come si guarda intorno, sembra temere che gli altri pettirossi interrompano il suo bagno serale. Quando ha finito, Pettirosso Nuovo occupa la vasca e vi rimane a lungo.
30 settembre. Sono seduta sul prato e le note dei pettirossi mi piovono addosso da ogni albero. I canti di Pettirosso-Capinera si sono fatti più complessi e comprendono più frasi tipiche delle capinere. È una melodia davvero insolita, con solo qualche passaggio da pettirosso. Il pettirosso femmina Sud-ovest ha preso coraggio da quando Pettirosso-Capinera ha varcato il suo territorio per prenderne una parte. Si scatena un lungo inseguimento nella zona sud del prato.
Porto la mia sedia nel frutteto, dove non mi soffermo da settimane. Un merlo sta cantando il suo sottocanto e voglio ascoltarlo. Non appena mi siedo, Dobs viene sulle mie ginocchia. Pettirosso Nuovo si avvicina «ticchettando», apre le ali e solleva la coda a scatti come un giocattolo a molla. Dobs ne è infastidito, gli occhi gli si accendono di collera, si lancia contro l’avversario dando il via a un inseguimento intorno agli alberi a me più vicini, a cui si uniscono tre dei nuovi arrivati. A quanto pare, se finora non era un territorio conteso, ora che ci sono io vogliono il frutteto. Comincio a temere di essere il motivo di tutte le loro dispute. Quando torno nel giardino, i pettirossi mi seguono e si mettono a cantare dagli alberi intorno a me. Sembra che la difesa del territorio non sia l’unico motivo dei loro ostinati tentativi di avvicinarsi al cottage. Questo indica la forza di un ragionamento: capiscono da dove viene il cibo (da ME) e vogliono assicurarselo, al di là del territorio per l’inverno.
3 ottobre. Pettirosso Nuovo ha una penna semistaccata che gli dondola sul dorso, segno di un altro scontro con Pettirosso-Capinera, che canta sempre dal melo accanto. Dobs, che ha un aspetto immacolato, sembra invece aver regolato la controversia. Pettirosso Nuovo ha ottenuto la finestra occidentale del cottage e quasi metà del prato antistante, in linea con la finestra. Non gli è consentito spingersi oltre, con un’eccezione: la vaschetta che si trova appena dentro il territorio di Dobs. A quanto pare, sulla base degli accordi, Pettirosso Nuovo può fare un bagno serale, purché sia dopo quello di Dobs.
L’accordo tra Pettirosso Nuovo e Dobs si è rivelato definitivo. Pettirosso Nuovo ha cacciato Pettirosso-Capinera, costringendolo a sistemarsi sul retro del frutteto confinante a ovest. Il pettirosso femmina Sud-ovest dall’aspetto dimesso ha mantenuto il controllo della sua nuova fetta di territorio fino alle aiuole. Dobs è riuscito a cacciare la compagna dalla porta della cucina. Lei si è sistemata nel giardino confinante a est e non si è mai più azzardata a venire a chiedere delle briciole, nemmeno nei periodi più duri di gelo e neve di quello che è stato forse il peggior inverno a memoria d’uomo.
Dobs aveva un approccio diverso a seconda dei rivali. Con la compagna stava sempre in guardia ma non la aggrediva mai. Il sistema per tenerla lontana erano canti pacati, risoluti e costanti. Di tanto in tanto la inseguiva o si esibiva in un modesto display che consisteva nel gonfiare le penne; l’operazione lo faceva apparire all’occhio umano come un individuo importante cui era meglio non disobbedire! Sembrava più preoccupato dalla difesa della porta di cucina che non dalle intrusioni degli altri pettirossi a ovest del cottage. Queste venivano regolate abbastanza in fretta da canti molto più aggressivi. Con il pettirosso Ovest un paio di volte finirono a rotolare avvinghiati sotto gli alberi, ma non erano scontri veramente violenti e negli occhi di Dobs non c’era l’espressione di furia che aveva con Pettirosso Nuovo. Con il pettirosso Ovest cantava in modo forte e marcato, ma non farfugliava né emetteva strida isteriche. Il suo atteggiamento nei confronti di Pettirosso Nuovo era stato fin dall’inizio completamente diverso. Non appena lo scorgeva si innervosiva, gli occhi fiammeggiavano, la voce diveniva stridula, farfugliava e si contorceva in display esagerati. Piombava sul rivale e lo attaccava con tanta foga che dovevo separarli nel timore che l’altro sarebbe rimasto vittima della sua violenza. Al contrario, le incursioni del pettirosso Sud-ovest lo turbavano appena, a giudicare dalle sue lievi rimostranze. Quando si spostava da uno all’altro degli invasori, cambiava sempre tattica. Sembra quindi ragionevole pensare che un display non sia una reazione automatica, bensì un processo ponderato, eseguito con discernimento sulla base di una valutazione e della conoscenza dell’avversario.
L’autunno successivo, cui sarebbe seguito un inverno particolarmente mite, Dobs non dovette faticare tanto. Non ci furono scontri per il territorio sul davanti e la sua compagna si ritirò nel giardino a est senza problemi. Mi resi conto che i pettirossi si erano distribuiti più uniformemente sui terreni vicini, non abitati. Lo sottolineo perché l’afflusso di pettirossi nel mio giardino durante l’autunno è stato sempre in relazione con la durezza dell’inverno seguente. Ho notato anche che le cince e altri individui che tengo sotto osservazione tendono a scegliere posatoi per la notte più riparati quando il maltempo è in arrivo, sebbene nel momento in cui si ritirano non ci siano segnali del rapido cambiamento, che avviene nel cuore della notte. Un altro caso che illustra questa capacità di previsione degli uccelli si ha quando all’improvviso si mettono a mangiare molto di più, e questo accade un paio di giorni prima di un periodo di freddo intenso. Al momento dell’aumento di appetito, però, la giornata si presenta assai mite, e gli esseri umani sono del tutto ignari del freddo in arrivo.
5
RICONOSCIMENTO, AMICIZIA E GIOCHI
La primavera successiva, sebbene Dobs possedesse allora tutto il prato davanti al cottage e metà del frutteto sul retro, la sua compagna fece il nido nel giardino confinante a est. La femmina compariva di rado, mentre Dobs si procurava tutto il cibo da me, recandosi da lei solo per le necessarie visite alla prole. Nelle rare occasioni in cui la compagna cercava di prendere cibo dalle mie mani, Dobs interveniva, piombandole addosso e scacciandola per poi tornare a prendere della torta per sé. Ne portò anche a lei solo nel periodo in cui era lui a darle da mangiare. Più avanti, tuttavia, quando toccò a lei a cercare il cibo per i piccoli, Dobs continuò ad allontanarla da me e a rubare il cibo che lei chiedeva per i nidiacei, per mangiarlo lui o per portarlo personalmente al nido.
Di tanto in tanto mi diverto a far infuriare Dobs. So bene cosa lo fa arrabbiare! Quando sono circondata da uccelli, do un pezzo di formaggio a una cincia, che lo trangugia senza esitazione. Poi Dobs mi vede fare una pallina con la mollica di pane, e offrirla a lui. Il suo sguardo carico di rabbia è davvero interessante. Rimane dov’è e mi fissa aspettando che sostituisca il pane con il formaggio. Se invece do un altro pezzo di formaggio alle cince, lui esplode! Le aggredisce una dopo l’altra, accanendosi finché non le ha scacciate tutte. A quel punto, siccome è arrabbiato, non viene subito a chiedermi del formaggio, ma mi volta le spalle con un colpo di coda, scuote le penne arruffate e vola su un albero dove si mette a cantare, sempre dandomi la schiena. Dopo qualche tempo ricompare, all’apparenza di ottimo umore, e anche se sono di nuovo circondata dalle cince aspetta pazientemente che tutte abbiano ricevuto del formaggio prima di prenderne un po’ per sé. Sa che non voglio che aggredisca gli altri uccelli, soprattutto quando sono posati sulle mie mani. Sembrano proprio attacchi di gelosia, ai pettirossi piace avere il campo libero. Tutti i pettirossi semiaddomesticati tendono ad avere scatti d’ira quando mi vedono circondata da altri uccelli. Queste aggressioni contro altre specie sono diverse dalle reazioni riservate ai conspecifici. Per cercare di impedire che un altro pettirosso si posi sulla mia mano si esibiscono in display.
Gli uccelli non hanno difficoltà a riconoscere e ricordare altri individui. Sono anche in grado di distinguere gli esseri umani, come mostra l’episodio che segue.
Dobs cercò di impedire ai suoi figli di venire da me dopo l’involo, a differenza di altre coppie di pettirossi a cui faceva piacere che contribuissi a nutrire i piccoli. Uno dei giovani della seconda nidiata gli causò parecchi problemi, rifiutandosi di lasciare il nido per settimane benché i fratelli si fossero già allontanati. Quando i genitori lo scacciavano, lui volava sulla mia testa o schivava le aggressioni ritirandosi nel terreno vicino finché Dobs non era sparito, ma poi tornava sempre, soprattutto se lo chiamavo per nome, Dobson. Quando al giovane crebbero le prime penne rosse sul petto, Dobs divenne molto aggressivo e finì per mandarlo via. Per tre mesi non lo vidi più, ma poi venni a sapere che un pettirosso con un anello alla zampa era stato visto vicino a una fattoria a circa un chilometro e mezzo dal cottage. Corsi a controllare. Mi dissero che in effetti la settimana precedente, quando la moglie del fattore stava tagliando l’erba, era comparso un pettirosso con un anello rosa alla zampa. Si era messo a volare davanti al tosaerba, proprio come usava fare quando io tagliavo l’erba nel mio giardino. Poi era volato al di là della stradina, dove c’era un piccolo recinto, e non l’avevano più visto. Entrai nel recinto chiamandolo a gran voce. Dobson comparve immediatamente sull’albero accanto a me, con le penne della testa sollevate e negli occhi un lampo di agitazione. Forse aveva associato la mia presenza alle aggressioni del padre, e per questo motivo aveva gonfiato le penne e sembrava sul chi va là: si guardava intorno attentamente allungando la testa, per avere la visuale più ampia possibile dal ramo su cui era posato. Non appena distesi il braccio volò sulla mia mano con ritrovata sicurezza, mangiò la torta che gli offrii e poi tornò sul ramo, dove si mise a gorgheggiare sommessamente tenendo gli occhi puntati su di me. Non si guardò più intorno in cerca di Dobs (ammesso che fosse questo ciò che aveva fatto prima) né lo vidi più gonfiare le penne. Quando me ne andai saltellò fino alla punta del ramo, da dove aveva il miglior punto di osservazione sulla mia figura che si allontanava. Mi guardai indietro prima di girare l’angolo e lo vidi allungare il collo per non perdermi di vista. Un mese più tardi tornai a trovarlo. Nel frattempo la moglie del fattore l’aveva visto una o due volte, ma non si posava mai sulla sua mano. Questa volta non appena lo chiamai mi venne incontro sulla stradina fuori dal recinto. Cantò qualche nota con lo stesso sguardo eccitato, ma senza gonfiare le penne e allungare la testa per controllare se arrivasse qualcuno come aveva fatto la prima volta. Volò subito sulla mia mano con la familiarità a cui ero avvezza. Da quel momento tornai a trovarlo con un intervallo di un mese, sei settimane e poi quattro mesi e, sebbene i miei abiti invernali fossero diversi e a lui sconosciuti, questo non gli impedì di riconoscermi. Una volta volò verso di me nella stradina prima che lo chiamassi, il che prova che la mia voce non era l’unico modo per individuarmi. Non era sempre dallo stesso lato del recinto o della stradina; il suo territorio invernale doveva essere molto grande e di tanto in tanto si spingeva nei territori di altri pettirossi, specie quelli vicini alle due fattorie – una seconda fattoria era qualche campo più in là. Alla vista di Dobson sulla mia mano, altre persone cercarono di persuaderlo a fare lo stesso con loro, ma senza successo; non c’era alcun dubbio che si ricordasse di me personalmente. L’ultima volta che andai a trovarlo erano trascorsi otto mesi dalla visita precedente. Mentre mi avvicinavo al suo territorio, mi fermai a parlare con qualcuno. Un minuto dopo fece la sua comparsa e arrivò a posarsi sulla mano che avevo allungato per salutarlo. Quella volta mangiò dieci bocconi di torta, invece dei soliti tre o quattro. Aveva gli occhi che brillavano d’agitazione e mentre mi guardava e cantava appollaiato vicino a me gonfiò leggermente le penne della testa. Non vidi traccia di altri pettirossi né lui si guardava intorno come se si aspettasse di vedere qualcuno; questa volta penso che avesse gonfiato le penne per colpa mia.
Gli uccelli sono in grado di riconoscere gli esseri umani da lontano. I miei uccelli addomesticati spesso mi volano incontro dall’altra parte di un prato o lungo una strada; a quanto pare mi avvistano dalla cima degli alberi. Sono certa che non mi riconoscano dai vestiti, perché una volta mi allontanai sulla strada con un cappotto blu e il capo coperto e rientrai dai campi indossando un impermeabile verde col cappuccio che avevo di proposito abbassato sulla faccia. Avevo comprato quegli abiti mentre ero fuori, ma gli uccelli mi vennero incontro come al solito perché mi avevano riconosciuto da lontano. In inverno, quando sono molto affamate, è successo che le cinciallegre mi venissero incontro alla fermata dell’autobus, nelle rare occasioni in cui prendo la corriera a due piani che passa vicino a casa mia diretta verso il capoluogo della contea. Immagino che mi vedano salire e se ne ricordino quando la corriera ripassa di lì due ore dopo.
Osservano da vicino tutti i miei movimenti e spesso sembrano capire che cosa mi sto preparando a fare. Per esempio, un inverno rimasi senza acqua calda e andavo a fare il bagno a casa di amici una volta a settimana. Già alla terza occasione, quando mi vedevano riempire il cestino con l’occorrente per il bagno, le cince sapevano dove ero diretta. Appena uscivo di casa si mettevano davanti a me e mi precedevano lungo la strada, poi si posavano nel giardino dei miei amici ad aspettarmi. Volevano un boccone prima che sparissi. (Porto sempre con me la scatola del cibo, per poterle premiare quando fanno qualcosa di intelligente). Non andavano mai a casa di questi amici se non quando mi vedevano uscire con il necessario per il bagno.
Le reazioni degli uccelli agli esseri umani cambiano a seconda delle persone. Alcuni visitatori del cottage non mancano mai di spaventarli, verso altri mostrano una certa apertura entrando nella stanza anche in loro presenza, sebbene si comportino normalmente soltanto quando sono di nuovo soli con me. Se vedono entrare due persone nella stanza in genere si spaventano e si allontanano per qualche minuto, e impiegano più tempo a trovare il coraggio di ritornare rispetto a quando il visitatore è uno solo. Se gli ospiti sono tre hanno ancora più paura, la qual cosa dimostra che, in qualche modo, sono in grado di contare. La reazione è la stessa, a prescindere dal fatto che le persone parlino e si muovano o che siano ferme e in silenzio; la semplice presenza di un estraneo sembra sufficiente a turbarli. Ci sono state alcune eccezioni in cui gli uccelli sono entrati nella stanza con sicurezza anche in presenza di due o persino quattro estranei, ed è curioso notare come le loro reazioni alle persone siano spesso in linea con le mie.
Mostrano simpatie e antipatie anche tra conspecifici. Talvolta dopo l’involo (se non prima) si formano delle amicizie tra i giovani di una nidiata. Due uccelli diventano inseparabili e fanno ogni cosa insieme finché uno o entrambi lasciano il territorio. Virgola e la sorella erano un esempio di questo comportamento (p. 53). Un altro esempio è dato da due giovani maschi di cinciallegra. Erano come gemelli, era difficile distinguerli l’uno dall’altro ed erano sempre insieme. Avevano un gioco preferito che facevano sempre, con cinguettii continui. Uno dei due toccava la punta dell’ala dell’altro, che a quel punto saltellava a qualche rametto di distanza (il gioco si svolgeva sempre sugli alberi). Il primo gemello lo inseguiva, cinguettando concitato, e gli toccava di nuovo la punta dell’ala. Il gioco proseguiva in questo modo finché i ruoli si invertivano, ed era il secondo gemello a punzecchiare il primo, con grande euforia. Quando giocano tra loro, le cinciallegre che hanno appena lasciato il nido emettono un suono che somiglia a una graziosa risata, un segno delicato ma inequivocabile della gioia che provano. Questa nota non viene mai utilizzata in altre occasioni. I due gemelli accompagnavano sempre il loro gioco con queste “risate” e non li vidi mai separati finché uno dei due non rimase vittima di un incidente, che lo costrinse a rimanere fermo e in silenzio per un giorno intero con la zampa rotta nascosta tra le penne del petto. Il fratello era disorientato, cercò di convincerlo a giocare becchettandogli la punta delle ali e tirandogli la coda; poi tentò di tirargli la zampa infortunata con un gesto gentile e giocoso. Naturalmente questo provocò dolore e una nota secca, oltre a una beccata di rimprovero. Il fratello sano rimase interdetto per un attimo poi si allontanò in volo, avendo perso del tutto il suo atteggiamento spensierato. Da quel momento si tenne lontano dall’altro e si aggirava solitario con un’aria triste quanto quella dell’infortunato. Una volta lo vidi portare del cibo al gemello ferito e poi volare via velocemente. Dieci giorni dopo la frattura si era sanata, ma al suo posto si era formata una callosità ossea che sembrava un’articolazione, al centro del tarso, la cui porzione inferiore si era disallineata. A parte questo, però, la zampa sembrava forte. I gemelli non tornarono più amici, entrambi sembravano insoddisfatti del mio giardino e se ne andarono in momenti diversi, prima quello ferito e una settimana dopo anche l’altro.
Due anni più tardi, durante l’inverno, apparve un maschio di cinciallegra dall’aspetto peculiare; aveva lucide penne nere, come fosse stato immerso nell’inchiostro. Volò dritto sulla mia mano, quasi non se ne fosse mai andato, e la sua zampa storpia lo rese riconoscibile senza incertezza. In primavera scomparve di nuovo e non tornò più. Fu un’ottima prova della memoria degli uccelli: se vengono addomesticati da piccoli non si scordano più di te. Questo spiega il perché delle visite di alcuni individui vecchi, malati o infortunati che di tanto in tanto compaiono sulla soglia di casa e mi colgono di sorpresa venendosi a posare sulla mia mano. Io non li riconosco più, ma la loro memoria li aiuta nel momento del bisogno.
Maschi e femmine del mio giardino si distinguono fra loro anche a distanza; non solo, i maschi che hanno una compagna non rispondono mai ai segnali di richiamo per l’accoppiamento da parte di altre femmine, anche se alcune volte le guardano con interesse. In un giardino come il mio, dove il maggior numero possibile di uccelli di ogni specie si ferma per nidificare dopo l’ospitalità ricevuta durante l’inverno, i territori sono abbastanza piccoli, per cui i maschi vengono spesso a contatto con femmine estranee alla coppia. I fringuelli sono gli unici nel mio giardino ad aver tentato di accoppiarsi con un’altra femmina. In quel caso la femmina era lievemente ferita e volava a fatica. Un maschio la seguì sul terreno, emettendo i richiami tipici della stagione riproduttiva. Lei cercò di allontanarlo, ma lui le salì sul dorso e venne scacciato. Lui insistette e allora intervenni io, finché non se ne tornò dalla compagna.
Anche i genitori non confondono mai i loro piccoli con quelli di un’altra nidiata. Di tanto in tanto si mostrano preoccupati se vedono un nidiaceo abbandonato in tenera età, ma i giovani già cresciuti in genere vengono scacciati se sono ancora nell’età in cui i genitori portano loro da mangiare.
Come gli esseri umani anche gli uccelli hanno bisogno di tenersi impegnati per sfogare la propria vivacità e per passare il tempo. Durante l’autunno e l’inverno gran parte delle cinciallegre trascorrono ore con me all’interno del cottage, ed è opportuno fornire loro dei giocattoli per evitare che scelgano passatempi che possono rovinare i miei oggetti di valore. Prima che mi rendessi conto che alle cinciallegre piacciono i giocattoli, uno dei quattro parrocchetti di celluloide appartenuti a un albero di Natale scomparve dalla sua postazione su un ramo di pungitopo nella mia stanza. Lo stesso giorno vidi una cinciallegra volare vicino al pungitopo e far cadere uno degli altri parrocchetti; tenendolo con una zampa, si mise a colpirlo, becchettarlo e strattonarlo con atteggiamento di finta ferocia, spesso sollevandolo per girarlo, probabilmente perché questo movimento provocava un rumore. Dopo essere riuscita a squarciarlo del tutto da un lato, volò fuori dalla finestra portandoselo dietro. Non si curò di nient’altro finché non li ebbe fatti sparire tutti e quattro. Delle cinciarelle in feltro subirono lo stesso maltrattamento, ma se non c’era nessun giocattolo altrettanto realistico e interessante in vista, le cinciallegre rubavano il tappo della bottiglia di inchiostro quando stavo caricando la penna stilografica e, sapendo che non dovevano farlo, volavano fuori dalla finestra portandolo con sé. Al momento di chiudere il contenitore, vedevo la cincia sul prato o sopra un albero che bistrattava il tappo come aveva fatto con i parrocchetti e gli uccelli in feltro. Non venivano presi per oggetti animati, bensì come giocattoli con cui divertirsi e su cui sfogare la propria vivacità. Quegli attacchi violenti ricordavano le reazioni di alcuni uccelli ai falchi impagliati.
Sfortunatamente le cince non si accontentano del tappo. Quando mi vedono intingere la penna, cercano sempre di attirare la mia attenzione facendo cadere l’inchiostro. Lo fanno apposta e poi si sottraggono alla mia ira con una rapida fuga fuori dalla finestra. Hanno diverse strategie per distrarmi dalla scrittura, tra cui becchettarmi la testa, posarmisi sulle spalle e tirarmi i capelli, oppure le orecchie, gesti con cui comunicano che vogliono noci e formaggio. Se continuo a ignorare le loro provocazioni, capita che una di loro cammini sul foglio e sollevi delicatamente il pennino dalla pagina, senza smettere di guardarmi. Ovviamente questo mi costringe a fermarmi: le cince hanno vinto! La stesura di questo libro è per loro un bel divertimento. Gran parte dei miei appunti è su fogli sparsi. Mi osservano mentre li sistemo sul tavolo vicino alla macchina da scrivere, poi si alzano in volo facendoli cadere sul pavimento. Hanno sviluppato una tecnica ben precisa per creare disordine: atterrano di corsa e poi muovono le zampe. Tra il calpestio e lo spostamento d’aria, le pagine si sparpagliano in fretta. Con lo stesso metodo sono in grado anche di far cadere grossi portatorta: se sono fortunate, riescono a far aprire il coperchio e, dopo una veloce ritirata alla finestra a causa del rumore, tornano subito indietro per mangiarne il contenuto. Si divertono anche a posarsi sul rullo della macchina da scrivere quando mi fermo a riflettere e, se non tengo le mani sulla pagina, spesso creano un buco in corrispondenza di una frase mentre sto pensando a quella dopo! Di tanto in tanto una cincia becca un tasto con forza, ma fortunatamente il movimento che ne risulta la spaventa.
L’osservazione attenta della vita degli uccelli rivela che molte specie trascorrono parecchio tempo giocando, soprattutto in giovane età e persino fra piccoli di specie diverse, se si tratta di inseguimenti o altri svaghi. I giovani di luì grosso e qualche volta quelli di luì piccolo, per esempio, si divertono a inseguire altri uccelli, spesso creando fastidi. I piccoli di luì grosso cercano soprattutto le cinciarelle, forse perché queste reagiscono. Nel frutteto ho visto spesso individui di queste due specie inseguirsi intorno agli alberi finché la cinciarella, che ha minor capacità di volo, non si ritirava per riposarsi. Il luì grosso invece si fermava solo per un momento per individuare la prossima vittima. In un caso se la prese con un pigliamosche, che era posato sullo steccato con i suoi occhi scuri intenti a puntare una mosca, un uccello particolarmente abile nel volo e perciò divertente da inseguire. Prima che il pigliamosche potesse catturare la sua preda, il luì gli fu addosso. Il pigliamosche era grigio, riservato e si muoveva con agilità e senza rumore, mentre il giovane luì era vivace, aveva una nuova livrea verde e rosa e intanto che inseguiva il rivale intorno agli alberi e attraverso il frutteto sbatteva rumorosamente il becco. Non appena il pigliamosche si posò su un ramo, il luì aveva già rivolto le sue attenzioni a un fringuello che stava inseguendo la compagna. Ma poiché il fringuello era troppo preso dalla sua attività, il luì passò a considerare una cinciallegra che stava volando via dal nido in cerca di cibo per i piccoli. La cincia espresse rimproveri rabbiosi, perché i genitori non hanno tempo per giocare. Il gioco dura spesso a lungo e con pochissime pause; in mancanza di altri uccelli, c’è sempre qualche passero da inseguire.
Di tanto in tanto luì grossi e luì piccoli inseguono anche individui della propria specie, ma più spesso scelgono altri uccelli per questo gioco. Le rondini sono tra i pochi rivali di pari abilità nei cambiamenti di direzione e nel volo. Un giorno vidi cinque piccoli di rondine posati uno vicino all’altro sul cavo fuori dalla mia finestra. Su un albero lì vicino c’era un giovane luì grosso che aspettava con la medesima impazienza dei piccoli il ritorno dei genitori col cibo. Non appena arrivavano si lanciava giocosamente a inseguirli, creando una tale confusione che le rondini, nella fretta di imboccare i piccoli e scappare, finivano per lasciar cadere buona parte delle mosche che avevano nel becco. Di tanto in tanto affibbiavano una beccata al giovane impertinente, ma la cosa non sortiva alcun effetto. Il luì sembrava nel suo elemento, finalmente poteva giocare con rivali alla pari. Il piumaggio di queste due specie creava un bellissimo contrasto: i delicati colori primaverili del piccolo e agile luì contro il blu notte degli avversari, più grossi e dalle ali allungate. Eppure, malgrado le ali più piccole, il luì riusciva a volare veloce quanto le rondini. Questo funziona solo per voli brevi, però, perché il luì usa tutta la sua forza per raggiungere tali velocità.
Le rondini e i rondoni giocano agli inseguimenti con gli individui della stessa specie. Una volta vidi delle rondini giocare a prendere al volo una penna, in una danza meravigliosamente aggraziata. Era un pomeriggio d’agosto ed ero seduta in cima a un campo scosceso sulle colline del Devon; notai uno stormo di rondini assai numeroso volteggiare sopra un angolo del campo, e pensai che un’alta concentrazione di mosche potesse esserne la ragione, in una giornata così calda e soleggiata. Sul campo si aggiravano anche anatre e oche e c’erano alcune penne bianche sparse nell’erba. A un certo punto vidi una rondine gettarsi in picchiata sul terreno e risalire velocemente con una di queste penne nel becco per poi lasciarla cadere mentre volava in cerchio sopra le altre. La penna venne acchiappata da un’altra rondine, che a sua volta si alzò sopra le compagne e di nuovo fece cadere la penna, la quale scese lentamente fluttuando nell’aria in mezzo allo stormo. Questa volta stava quasi per toccare terra quando uno degli uccelli si buttò in picchiata e con un battito d’ali risalì in quota con la penna nel becco per poi lasciarla cadere ancora una volta. Di tanto in tanto il giocattolo improvvisato finiva al suolo, troppo sciupato per servire al gioco; allora una rondine volava raso terra, afferrava un’altra penna e si ricominciava. Era una scena bellissima, sullo sfondo delle colline, con la brughiera selvaggia in lontananza e ancora più lontano l’azzurro brumoso del mare che si fondeva con il cielo blu.
Questo gioco potrebbe essersi evoluto da una versione più semplice, comune a molte specie, che consiste nel raccogliere un oggetto, lasciarlo cadere e guardarlo arrivare a terra, anche se non l’ho mai visto fare alle rondini. Una taccola selvatica una volta prese l’abitudine di entrare nella mia stanza da letto all’alba passando dal camino. Venne per diverse mattine; dopo aver preso confidenza con la stanza volava sempre sul ripiano della specchiera. Nonostante la difficoltà di rimanere in equilibrio su quella superficie levigata, ci pattinava sopra, raccoglieva piccoli oggetti e li lasciava cadere guardandoli con la testa inclinata e l’espressione attenta. Quando finì per far cadere la cornice di una fotografia, il fracasso la fece volare fuori dalla finestra.
Uno dei giocattoli preferiti delle mie cinciallegre è un vasetto col coperchio di vetro che contiene delle conchiglie. Le cince rimuovono il coperchio, tirano fuori le conchiglie e con un movimento rapido della testa le lanciano al suolo dall’altro lato della stanza, senza mai smettere di guardarle. Fanno la stessa cosa con i fiammiferi; spesso, al rientro da una commissione, li trovo sparsi per tutta la stanza, con la scatola aperta sul pavimento.
Un tratto incantevole dei balestrucci è la loro giocosità. Sembrano divertirsi persino «nella culla». Una volta ho visto un giovane balestruccio allungare metà del corpo fuori dal nido per giocare con il piccolo di un nido vicino. Con la testa protesa e cinguettando concitato, riuscì appena a toccare la punta del becco dell’altro. Il più minuto dei due entrò nello spirito del gioco e si sollevò dal nido per ricevere il bacio, poi entrambi si ritirarono immediatamente. Il primo, sempre esagitato, prese a becchettare un fratello (o sorella) nel nido come per incitarlo a unirsi al gioco, ma non ottenendo reazioni si rivolse di nuovo al vicino, sollevò quasi tutto il corpo con grandissimo sforzo e con un cinguettio smanioso gli toccò ancora il becco. Il contatto fu accolto con evidente piacere dal piccolo, che più e più volte si rintanò nel nido per poi rispuntare allungando il collo per un’altra beccatina. Il gioco proseguì per un po’: i due si divertivano a tal punto che era impossibile guardarli senza ridere. Il più grande, preso dall’entusiasmo, si sporgeva così tanto che rischiava di cadere fuori dal nido ed era chiaro che i genitori disapprovavano. Quando si prepararono ad accogliere la seconda nidiata, pensarono bene di sigillare il vecchio foro d’ingresso e di aprirne un altro sul lato opposto, dove non c’erano altre cassette, in modo che i piccoli non fossero tentati di fare giochi pericolosi con i nidiacei del vicinato prima dell’involo.
In molte specie gli uccelli giocano scuotendo e mordendo oggetti non commestibili, come fanno i cagnolini. Una volta, lungo gli argini dell’estuario di un fiume in Cornovaglia, vidi un giovane gabbiano comportarsi così con il mio ombrello. Dopo un primo buffo esame, giocò a lungo con l’oggetto, poi cominciò a tirare l’elastico che lo teneva chiuso, osservando con grande interesse. Prima aveva curiosato nella mia borsa estraendone il contenuto: il materiale da disegno non lo aveva interessato, ma aveva trovato il mio pranzo e dato un morso a un panino che stranamente finì per sputare (non era ancora iniziato il razionamento!). Poi fu attirato dalle mie gambe scoperte, che prese a becchettare, e dai bottoni delle mie scarpe, che cercò di staccare con divertimento, concentrandosi prima su una scarpa e poi sull’altra. Quando si stancò, si addormentò lì vicino, consentendomi di fargli un ritratto veloce prima che si svegliasse. Scoprii più avanti il motivo della sua audacia. Un mese o due prima era stato salvato dal fiume, dove era stato trovato coperto di petrolio e incapace di volare. Qualcuno si era preso cura di lui, gli aveva pulito le penne e l’aveva nutrito.
Sebbene il tordo bottaccio non sia una specie particolarmente giocosa, un giovane nel mio giardino passò così tanto tempo a scuotere e tirare delle corde attaccate a un bastone che finì per svolgerle, e io dovetti rimuoverle per evitare che si impigliasse.
I merli sono individualisti in tutto e per tutto. La loro idea di gioco è acquisire proprietà, e giocano solo con amici selezionati, e uno alla volta. Se uno dei due individui deve smettere di giocare, il gioco non prosegue con un merlo del vicinato, ma viene interrotto. Per tre anni, in ogni stagione, un merlo del frutteto ha giocato con un vicino a conquistare il ceppo di un albero tagliato. Poiché il ceppo si trovava sul lato opposto del frutteto rispetto al territorio del vicino, non poteva trattarsi di una disputa di territorio, ma di un vero e proprio gioco, che divertiva entrambi e li occupava per parecchio tempo ogni giorno. Persino durante la stagione riproduttiva trovavano brevi momenti per giocare, in genere di sera. Se il vicino non si presentava, il merlo del mio giardino andava a chiamarlo nella proprietà confinante e i due tornavano insieme. In genere il gioco iniziava con uno dei due che inseguiva l’altro, ruolo che si scambiavano. Poi uno volava sul ceppo, e l’altro lo scacciava per posarvisi lui stesso, con la coda aperta a ventaglio, la testa sollevata e un atteggiamento di comica impertinenza nella postura eretta. Poi era il suo turno di essere scacciato, l’inseguimento riprendeva e il gioco si ripeteva, spesso per ore e con minime variazioni. Ricordava il gioco dei bimbi Il Re della Montagna. Ho visto molti altri merli maschi giocare in modo simile, con un amico prescelto, mentre altri merli nei paraggi che pure erano disponibili venivano trattati diversamente e in genere scacciati via. Crepuscolo e Foglia di Quercia erano un altro esempio (pp. 107-108).
Tutte queste osservazioni indicano che gli uccelli sono guidati dall’individualità altrettanto che dal comportamento di specie.
D’estate e d’autunno gli uccelli spesso prendono il sole, posandosi in luoghi sicuri su tronchi tagliati o su rami morti. Nel mio frutteto c’è un melo secco e mezzo caduto adatto allo scopo. Me ne accorsi la mattina di un 21 giugno, quando il sole stava raggiungendo lo zenit. Circondato di piante rigogliose e con l’erba alta quasi quanto me, quell’albero spoglio spiccava come una roccia grigia in un mare verde smeraldo. Lungo il tronco inclinato e sui rami nudi c’erano diversi uccelli che prendevano il sole sdraiati sulla pancia, con le ali e la coda aperte, tanto che le penne risplendevano. Avevano tutti la testa girata da una parte e leggermente sollevata verso il sole, e tenevano il becco semiaperto come se volessero farvi entrare la luce. Tre luì grossi si trovavano sul ramo più alto dell’albero, cinciallegre e cinciarelle avevano occupato il tronco contorto e due giovani merli si erano sistemati alla base.
A volte capita che un uccello addomesticato apra le ali e la coda per prendere il sole mentre mi si trova in grembo o è posato nell’incavo del mio braccio. Solleva le penne della testa e del corpo e tiene il becco semiaperto, forse per respirare meglio, visto che anche durante le ondate di caldo spesso gli uccelli volano con il becco aperto. I cardellini che prendono il sole sono uno spettacolo delizioso.
Una volta ho visto due aironi prendere il sole in un prato di ranuncoli, vicino a un fiume. Avevano allungato il collo verso l’alto e tenevano la testa di lato e il becco aperto; le ali, anch’esse semiaperte, erano abbassate e scostate dal corpo. I colli bianchi e sinuosi, le cui penne sfumavano dal bianco al grigio nella parte posteriore, avevano un aspetto indescrivibilmente strano sullo sfondo dorato dei fiori in pieno sole. I due rimasero immobili tanto a lungo che non sembravano esseri animati ma statue, simboli di un’entità misteriosa e distante.
Lungo il fiume c’erano anche pavoncelle e pettegole in stormi misti. Facevano il bagno sollevando spruzzi nelle pozze poco profonde e prendevano il sole le une accanto alle altre sulle pietre al bordo dell’acqua. L’acceso contrasto fra le due specie rendeva quel sodalizio particolarmente gradevole da osservare. Al tempo presi questi appunti: Una pavoncella passa in volo sbattendo le ali e sfiora con le zampe penzolanti la superficie setosa dell’acqua che le fa da specchio. Come amano fare il bagno, spruzzandosi e poi scuotendo bene le ali per asciugarsi! Alcuni individui si inseguono a vicenda volteggiando frenetici appena sopra al pelo dell’acqua fra richiami selvaggi simili a ululati, poi partono in volo con una traiettoria curva e scendono in picchiata con le ali piegate, le penne allargate e arruffate come sfrangiate dal vento. Le pettegole hanno un volo sicuro; le ali appuntite e dal taglio netto consentono loro di muoversi con grandissima precisione. Emettono note pure dal suono liquido mentre planano sull’acqua con rapidi zig-zag o risalgono gli argini erbosi in ampie curve per poi scendere dal lato opposto, con le zampe che sporgono dietro il corpo come lingue di fuoco. Si posano sulle pietre lucide e bagnate ai bordi del fiume e all’improvviso diventano quasi invisibili, i loro colori che vanno dal bianco candido al grigio tartaruga si trasformano in un grigio spento come l’ombra delle pietre. Si fermano e rimangono immobili a lungo, come stessero dormicchiando, poi all’improvviso una o due si sollevano in volo, attraversano il fiume in un lampo, fra versi e trilli; altre le seguono a gruppetti di due o tre per andare altrove. Quando atterrano trattengono le ali aperte per un istante, poi le ripiegano ordinatamente portandole prima in avanti e poi giù lungo i fianchi.
Il volo e il canto sono per molte specie la forma principale di divertimento. Ne parlerò in capitoli specifici.