martedì 27 febbraio 2018




DAL CUORE DI QUEL SILENZIO
Colette
Il puro e l'impuro
Sono affascinato, preso, sconvolto dentro, nel leggere come Colette, in "Il puro e l'impuro", esplora e descrive  il piacere, il desiderio.
“Ma dal cuore di quel silenzio, impercettibilmente, nacque un suono in una gola di donna, un suono che si sperimentava roco per farsi via via più limpido, e che incalzando acquistò fermezza e volume, come le note piene che l'usignolo ripete e accumula finché precipitano in un gorgheggio... Una donna, lassù, lottava contro il piacere che l'invadeva, lo sospingeva verso la sua fine e la sua distruzione, su un ritmo che, calmo all'inizio, andava poi così armoniosamente, così regolarmente precipitando che io mi sorpresi a seguirne, con piccoli cenni del capo, la cadenza, perfetta quanto la melodia.
Lo sconosciuto vicino si alzò a metà e disse, tra sé e sé: «E' Charlotte» . Nessuna delle giovani donne addormentate si svegliò, gli indistinti giovanotti che tiravano su col naso si guardarono bene dal ridere forte, nessuno applaudì la voce che.  si ruppe su un singhiozzo discreto. Lassù si spense ogni sospiro. E i saggi di giù avvertirono tutti insieme il freddo dell'alba invernale. Mi strinsi addosso il cappotto foderato di pelliccia, un uomo disteso vicino a me si tirò sulla spalla un lembo di stoffa ricamata e chiuse gli occhi. In fondo, accanto a una lanterna di seta, le due donne che dormivano si strinsero ancora di più l'una all'altra senza destarsi, e le fiammelle delle lampade a olio palpitarono all'aria fredda che scendeva dal lucernario .Mi alzai in piedi, anchilosata dalla lunga immobilità, e stavo contando con lo sguardo le trapunte e i corpi da scavalcare, quando gli scalini di legno scricchiolarono di nuovo. Una donna con un cappotto scuro, che stava andando verso la porta, si fermò ad abbottonarsi un guanto, si tirò con gran cura la veletta sul viso, aprì la borsetta nella quale tintinnarono delle chiavi .
«Ho sempre paura...» cominciò a mezza voce.. .Parlava tra sé e mi sorrise nel vedere che stavo per uscire . 
«Va via anche lei, signora? Ora accendo la luce, se vuole approfittarne... Le faccio strada, so dov'è l'interruttore» ."

domenica 25 febbraio 2018


SIAMO QUELLO CHE SIAMO!
Alberto Arbasino 
"La vita bassa" Adelphi
“… Dopo decenni e generazioni di ‘ricercatori’ e ‘anticipazioni’ e acribie di ruoli e concorsi e scatti e carriere e ‘lectiones’ magari anche ‘magistrales’ ai fini di riesumare negli archivi – tutt’al più – ordinarie miserie peraltro risapute e compatite in qualunque ginnasio-liceo italiano durante e dopo la guerra. Soprattutto a causa dell’ininterrotta produzione ‘cartacea’ degli intellettuali ‘scribacchini’, durante il passaggio "in un sol giorno" e "come un sol uomo" dalla stampa & propaganda ‘fascistoide’ alla temibile egemonia togliattiana.
Altro che conformisti "fuori dal coro" in atteggiamento "contro" perennemente sfottente: i Montanelli, Malaparte, Longanesi, Ansaldo, Prezzolini, Missiroli, di successo in successo benpensante e cheap… Piuttosto, nelle fasce subalterne, per comprare scarpe e cibo ai piccini, quanti innumerevoli meschini affamati e affannati si mostravano capaci di servigi e faccende di low profile sotto qualunque gerarca presente o prossimo dei regimi successivi. E nelle famose egemonie culturali, anche senza frugare nei ‘faldoni’, correntemente si potrebbe constatare che "intellettuale" diventa sinonimo di travet mezzamanica e leccapiedi, per ottenere piccoli poteri più o meno piccoli-borghesi”.

giovedì 22 febbraio 2018



ECO RICORDA BOBBIO
 In un Convegno su Norberto Bobbio del 2004 Umberto Eco dice:" [...] gli intellettuali non risolvono le crisi ma le creano. Cartesio non cerca una mediazione diciamo tra Ockham e Tommaso d’Aquino, ma costringe per la prima volta il filosofo - diceva Maritain (pensatore che non ho mai amato ma che sciocco non era) - a porsi come un debuttante nell’assoluto. Kant non risolve la crisi delle discussioni sulla natura delle conoscenze, ribalta tutto e crea le premesse per un nuovo dibattito, Malthus non risolve il problema della sovrappopolazione, ci rivela che esiste. Marx non ci dice come si può risolvere il problema della giustizia sociale coi mezzi esistenti, capovolge l’intera frittata. Insomma, gli intellettuali o creano rivoluzioni copernicane o rimangono scoliasti di Tolomeo. Dunque l’intellettuale non risolve le crisi, questo spetta a chi di dovere - ai politici o ai tecnici -, bensì le instaura. (Umberto Eco, 28/09/2004 "RICORDO DI NORBERTO BOBBIO L’INTELLETTUALE SENZA IL PIFFERO")

lunedì 19 febbraio 2018


ASSOLUTA TRASPARENZA
Il mondo dove la regola della "trasparenza" è legge, sogno mitizzato dai Grillo e dai Travaglio, viene raccontato in un romanzo di Nabokov. La vicenda del romanzo si svolge, infatti, in un mondo dove si vive sotto la folle dittatura della "trasparenza". Il protagonista di questo romanzo, essendo «opaco», in quanto i suoi pensieri e le sue sensazioni non sono trasparenti agli occhi di coloro che lo circondano, rappresenta un ostacolo in un ambiente dove tutti gli altri sono reciprocamente trasparenti. In quel mondo capovolto, l'opacità non è solo un difetto, ma una grave colpa, in quanto segnale di «turpitudine gnostica» del singolo. Quindi succede che si viene condannati a morte non per ciò che si fa ma per ciò che si è. È per questo che il protagonista dovrà essere decapitato. In questo romanzo tutto è parodia. Salvo che, in quel mondo, le parodie uccidono. E uccidono mantenendo un'aria «di calda camaraderie», che non è altro che la perfezione della tortura. 
Paolo Bolzani
_________________________________
Vladimir Nabokov “Invito a una decapitazione.” Adelphi
Estratto
 "“Fin dai primi anni Cincinnatus, che per uno strano e fortunato caso aveva capito quali rischi correva, era riuscito a nascondere accuratamente una sua peculiarità. Era impenetrabile ai raggi altrui e pertanto, quando abbassava la guardia, produceva una strana impressione, come di un solitario, oscuro ostacolo in quel mondo di anime reciprocamente trasparenti; aveva imparato, tuttavia, a fingersi translucido ricorrendo a un sistema complesso di illusioni ottiche, per così dire – ma bastava che si distraesse, che si concedesse una pausa momentanea nel controllo che esercitava su di sé, nella manipolazione delle sfaccettature e degli angoli accortamente illuminati verso cui volgeva la sua anima, perché subito scattasse l'allarme. Nel pieno dell'eccitazione di un gioco, i suoi coetanei di colpo lo abbandonavano come se avessero sentito che il suo sguardo limpido e l'azzurro delle sue tempie costituivano solo un inganno scaltro e che Cincinnatus era, in realtà, opaco. Qualche volta, nel bel mezzo di un silenzio improvviso, l'insegnante, con afflitta perplessità, chiamava a raccolta tutte le riserve di pelle intorno agli occhi, lo fissava a lungo e infine diceva: «Che cosa c'è che non va, Cincinnatus?». Allora Cincinnatus riprendeva il controllo di sé e stringendosi quel suo sé al petto lo traferiva in un luogo sicuro"...."“A poco a poco Cincinnatus aveva smesso completamente di controllarsi e un giorno, durante una riunione all'aperto nel parco cittadino, vi fu un'improvvisa ondata di allarme, e qualcuno disse ad alta voce: «Cittadini, tra noi c'è un…». Era seguita una parola strana, quasi dimenticata, e il vento aveva frusciato tra le robinie, e Cincinnatus non aveva escogitato niente di meglio che alzarsi e andarsene, staccando con aria assente le foglie dai cespugli lungo la strada. Dieci giorni dopo era stato arrestato.”

sabato 17 febbraio 2018




LA LUCE DELLA LUNA NON ASPETTA
- "Vorrei essere lì con te, ora”, le scrivesti quella tarda sera e non riuscisti ad aggiungere altro.
- “ Dovrai  tornare, ” – lei rispose - “ questa notte la luce della luna non aspetta più le ragioni del mio cuore ” – aggiunse - “ non posso chiedere altro al suo splendore. La tua compagnia è la mia stessa gioia, il tuo sorriso ritroso ed enigmatico è  il mio piacere e mi fa tremare dentro, come non mi è successo mai. Fai una buona notte, amore mio. Domani avrai un mio sorriso, se vorrai vivere con me la giornata, altrimenti nascondi  i tuoi occhi per non svegliare  il mio desiderio ”.
Iniziasti la giornata con dentro tutto il fuoco che bruciava, in quella terra lontana. Facesti una veloce colazione, quel mattino, per scendere presto nel giardino, per incontrarla e sentire il suo corpo in un abbraccio e le sue labbra sulle tue. Ma sapevi che lei poteva essere  là solo nei sogni. Sentisti che un tremendo silenzio si era impossessato di quella casa e di quel giardino. Rimanesti  fermo in piedi con lo sguardo perduto, per un tempo senza tempo.

venerdì 16 febbraio 2018




LA STANZA ERA BUIA
In quel momento Lei sentì un rumore. Tese l’orecchio, captando un rumore di passi e un lieve fruscio. Poi la maniglia  venne abbassata e la porta si aprì. Trattenne il fiato, mentre la figura di un uomo varcava la soglia.  Accidenti, lei pensò. Le si seccò la gola. Non riuscì a parlare.
-  Sono io, non mi riconosci? -  disse lui sottovoce. 
Capì chi era. 
- Cosa fai qui? Non eravamo d’accordo che mi avresti chiamato?
Lei si tirò su a sedere, in tensione
 - Non hai risposto alla mia domanda.
- C’è bisogno di una risposta?
- L'altra notte ho sognato che mi saresti venuto a trovare - disse Lei - ma non pensavo che sarebbe successo davvero, dopo tutto questo tempo.
 La stanza era buia e la sua sagoma era illuminata da dietro dalla luce delle scale. Avanzò verso il letto, le sembrò che fosse teso, imbarazzato. Pensò che poteva dirgli di andarsene, perché da troppo tempo aveva atteso quell'incontro, ma la sua voce si rifiutò di collaborare. Sentì che il cuore accelerava i battiti. Lui si sedette sul bordo del letto e accese la lampada sul comodino.
-  Voglio vederti, disse, mentre si chinò su di lei, catturandole le labbra in un bacio. 
Il fuoco, già acceso, la avvampò.
 Lui riflettè sul fatto che,  senza esserne consapevole, si era ritrovato all’improvviso davanti a quella porta. Sentì un brivido per il desiderio di toccarla mentre il bacio diventava sempre più intenso.
- Tu mi stai sconvolgendo – le disse. Sentì che  il suo corpo aderiva mentre lei ricambiava il bacio con sempre maggiore eccitazione.
- Ti voglio. Ora.
I suoi occhi lo guardarono incerti, ma lui iniziò ad accarezzarle il collo e poi scese scostando la stoffa sottile della camicia da notte.
- Anche tu lo vuoi. Lo so. ...
La strinse dolcemente e lei emise un gemito  mentre gettava la testa all’indietro.
-  Non posso aspettare.
- Cosa aspetti, vieni.
Lei sollevò  la camicia da notte e si distese supina. Lui si chinò  su di lei e tornò a baciarla sulla bocca, sul mento, sul collo, e, mentre la baciava la sentiva calda e tremante. 
- Di' lo sai - disse lei staccandosi - che lo stiamo facendo da giorni, anche senza stare insieme, senza vederci?  Ogni giorno il mio corpo ruba le parole dall'aria e si accarezza, con le tue mani, mentre mi sento aprire per ricevere fin nel profondo la tua voce lontana, che diventa spasmo. Ho voglia da morire. Rileggo tutte le nostre conversazioni di tanti anni fa, quando voglio risentire ogni tua carezza. Sento la tua voce che mi parla. Sento che ti  voglio come sei, un po' sbiadito dagli anni, nel tuo tramonto, sempre impegnato, non in una esibizione manifesta, ma in una dolce melodia che richiama la vita nel suo senso più intenso.
- Non abbiamo più tanta energia -disse lui- però si può seguire il ritmo del corpo. Il tuo. Il mio. Credo  proprio che non abbiamo nulla da invidiare del nostro passato, nel nostro lasciarci andare ora, dentro le sensazioni intense, uniche e irripetibili. 
- Fermati qui con me - lei disse, accarezzandogli il volto -, mi piace vederti d'estate , nella frescura del tuo giardino. Mi piace vederti nelle foto e immaginarti che, rilassato, ti godi la natura, una lettura, e la tranquillità della tua casa. Mi piace soprattutto vederti con il giornale che leggi tranquillo nel silenzio...mi ecciti anche così. Ma ora sei qui con me. 
Si cercarono in un abbraccio sempre più appassionato. Quel ritmo era il loro, lento e profondo definitivo.



giovedì 15 febbraio 2018



SINFONIETTA DI JANÁČEK
Estratto da "1Q84"
Haruki Murakami
Mise sul piatto il disco della Sinfonietta di Janáček, e premette il bottone 
«automatic play». Era la Chicago Symphony Orchestra diretta da Ozawa 
Seiji. Il piatto cominciò a girare per circa un minuto alla velocità di 33 giri, 
poi il braccio si mosse verso l'interno e la puntina scese nel solco. Dagli 
altoparlanti vennero fuori in successione l'attacco degli ottoni e il suono 
vivace dei timpani. Era il punto preferito da Tengo.
Ascoltando quella musica, il viso rivolto allo schermo del suo word 
processor, scriveva. Ascoltare la Sinfonietta di Janáček di prima mattina era 
ormai un'abitudine quotidiana. Da quando l'aveva eseguita come percus-
sionista improvvisato ai tempi del liceo, aveva acquistato per Tengo un 
significato particolare. Quella musica lo incoraggiava e lo proteggeva. O 
almeno a lui sembrava così.
L'aveva ascoltata qualche volta anche insieme alla sua amica. La trova-
va «niente male». Ma lei, più che la musica classica, amava i vecchi dischi 
di jazz. Più erano vecchi più le piacevano. Era un gusto abbastanza insoli-
to per una donna della sua generazione. Aveva una predilezione speciale 
per il disco in cui il giovane Louis Armstrong cantava i blues di W. C. 
Handy. Barney Bigard suonava il clarinetto e Trummy Young il trombone. 
Lo aveva regalato anche a Tengo. Non tanto per farlo ascoltare a lui, ma 
per ascoltarlo lei stessa.
Lo sentivano spesso insieme, a letto, dopo aver fatto l'amore. Per quan-
te volte lo potesse sentire, lei non se ne stancava mai. «Sulla tromba e la 
voce di Louis naturalmente nulla da eccepire, è straordinario. Ma a mio 
parere devi ascoltare con la massima attenzione soprattutto il clarinetto di 
Barney Bigard». In effetti nel disco Bigard aveva avuto poche occasioni di 
fare degli assolo, ed erano per giunta molto brevi. La ragione, ovviamente, 
era che si trattava di un disco con Louis Armstrong protagonista. Lei, 
però, aveva memorizzato quei pochi assolo a uno a uno, con devozione, e 
li accompagnava sempre canticchiando a bocca chiusa.
Forse c'erano clarinettisti più grandi di Barney Bigard. Ma secondo lei, 
per quanto si potesse cercare, era impossibile trovare qualcuno capace di 
esecuzioni che avessero tanto calore e sensibilità. Le sue esecuzioni –
naturalmente solo le migliori – avevano il potere di suscitare visioni nella 
mente dell'ascoltatore. Tengo ignorava quali fossero gli altri clarinettisti 
jazz. Ma a forza di sentire quel disco cominciò un poco alla volta a capire 
che le esecuzioni di clarinetto in esso contenute possedevano davvero una 
bellezza particolare, e pur nella loro discrezione, erano straordinarie per 
intensità e potere evocativo. Ma per rendersene conto ebbe bisogno di 
ascoltarlo più volte con attenzione, e dell'aiuto di una brava guida. Se si 
fosse limitato a un ascolto distratto, quegli aspetti gli sarebbero sfuggiti.
«L'esecuzione di Barney Bigard è splendida, come nel baseball il gioco 
di una seconda base di genio, – gli spiegò lei una volta. – Gli assolo sono 
bellissimi, ma è quando suona all'ombra degli altri che il suo talento 
emerge ancora di più. Fa delle cose di una difficoltà estrema come se 
niente fosse. Solo gli ascoltatori più attenti si accorgono di quanto è bra-
vo».
Ogni volta che iniziava il sesto brano del lato B dell'LP, Atlanta Blues,
lei stringeva sempre Tengo in qualche parte del corpo ed esaltava l'assolo 
laconico e magistrale di Bigard. Quell'esecuzione era incastonata tra il 
canto e l'assolo di tromba di Louis Armstrong. «Ecco, ascolta bene. Prima 
c'è una specie di lungo urlo che ti fa sobbalzare, come il grido di un bam-
bino. Potrebbe essere un'esclamazione di sorpresa, un'esplosione di gioia 
incontenibile, o una dichiarazione di felicità. Poi si trasforma in un sospiro 
di piacere, avanza serpeggiando lungo un bellissimo canale, e infine si 
dissolve dolcemente in un luogo sconosciuto e armonioso. Ecco, senti. Un 
assolo così, capace di farti rimescolare tutto, non può farlo nessun altro. 
Jimmy Noone, Sidney Bechet, Pee Wee Russell, Benny Goodman sono 
stati tutti clarinettisti eccellenti, ma nessuno di loro sarebbe in grado di 
realizzare un cesello di questa finezza».
«Come mai sei così esperta di vecchia musica jazz?» le chiese una volta 
Tengo.
«Ci sono molte cose del mio passato che non conosci. Cose che nessuno 
può cambiare», rispose. Quindi prese a massaggiargli i testicoli col palmo 
della mano.

mercoledì 14 febbraio 2018


HA PERSO LE FOGLIE

Ha perso le  foglie
il mio albero d'inverno,
che nuovi colori  disegna,
tra cielo e terra,
con il riflesso
di un pallido sole
mai spento,
e con l'ambrata
impalpabile terra,
nella penombra dei monti,
che sfiorano e  avvolgono
il lontano lamento del vento,
ad ogni foglia che cade,
mentre cala la sera
sui miei occhi socchiusi.





CI CAPIAMO, IO E I PESCI. 
"L'uomo dai cerchi azzurri"
Fred Vargas
“«Lei è meno dotato di un pesce,» disse Mathilde. «Perché i pesci che vivono molto in profondità, nel buio completo come lei, se la cavano comunque per procurarsi da mangiare.»
«I pesci non si fanno la barba,» disse lui. «E poi, che cavolo, io non li vedo di buon occhio, i pesci.»
«Gli occhi, gli occhi! Lo fa apposta o cosa?»
«Certo che lo faccio apposta. Ho tutto un repertorio di frasi del genere: non vedo di buon occhio, getto un occhio, faccio l'occhiolino, mi costa un occhio, la tengo d'occhio, darei un occhio, valuto a occhio, occhio per occhio, eccetera. Ce ne sono migliaia. Mi piace usarle. Come quelli che rimasticano i loro ricordi. Ma è vero che non li vedo di buon occhio, i pesci.»
«Capita a molti. È vero che dei pesci non frega niente quasi a nessuno. Posso sedermi su questa sedia?»
«Prego. E lei cosa ci trova, nei pesci?»
«Ci capiamo, io e i pesci. E poi abbiamo trent'anni di vita in comune, perciò non abbiamo più il coraggio di lasciarci. Se mi facessi scaricare da un pesce, sarei persa. E poi lavoro con loro, mi fanno guadagnare soldi, mi mantengono, in un certo senso.»
«Allora è venuta a trovarmi perché assomiglio a uno dei suoi fottuti pesci nel buio?»
Mathilde rifletté.
«Così non arriverà da nessuna parte,» concluse. «Dovrebbe essere un po' più pescesco, per l'appunto, un po' più morbido, più fluido. Vabbè, comunque sono affari suoi, se la sua ambizione è di far sudare sangue a tutto il cosmo. Sono venuta perché lei cercava un appartamento e a quanto pare lo cerca ancora. Forse non ha molti soldi. E tuttavia questo albergo è caro.»
«Anche i suoi fantasmi mi sono cari. Ma soprattutto, sa una cosa, Regina Matilde, alla gente non va di affittare una casa a un cieco. Ha paura che il cieco faccia una marea di sciocchezze ovunque, che posi il piatto fuori dal tavolo e che pisci sul tappeto credendo di essere in bagno.»
«Invece a me un cieco va benissimo. I miei lavori sullo spinarello, la triglia lucerna e soprattutto l'angelo di mare mi hanno pagato tre appartamenti, uno sopra l'altro. La grande famiglia che occupava il primo e il terzo piano, cioè l'Angelo di mare e lo Spinarello, se n'è andata. Io abito al secondo, alla Triglia lucerna. Ho affittato lo Spinarello a una strana signora e ho pensato a lei per occupare l'Angelo di mare, insomma il primo piano se preferisce. Non le farò un prezzo alto.»
«Perché non un prezzo alto?»
Charles udì Mathilde ridere e accendere una sigaretta. Cercò con la mano un posacenere e glielo tese.
«Sta offrendo il posacenere alla finestra,» disse Mathilde. «Sono seduta almeno un metro più a sinistra di quanto pensi.»
«Ah, mi scusi. Lei però è un po' brutale. In questi casi le persone fanno in modo di prendere il posacenere con qualche contorsione ed evitano i commenti.»
«Mi troverà ancora più brutale quando saprà che l'appartamento è bello, è spazioso ma che nessuno vuole viverci perché è molto buio. Quindi mi sono detta: Charles Reyer mi piace. E siccome è cieco, casca a meraviglia, a lui non importerà di vivere in un posto buio.»
«È sempre così priva di tatto?» domandò Charles.
«Credo di sì,» disse Mathilde, serissima. «Allora, questo Angelo, cosa ne dice?»
«Voglio darci un occhio,» disse Charles sorridendo e portando una mano agli occhiali. «Credo mi vada benissimo un cupo angelo di mare. Ma se devo abitarci, voglio conoscere le abitudini di questo pesce, altrimenti il mio appartamento mi piglia per un idiota.»
«È facile. Squatina aculeata, pesce migratore, che abita i fondali sabbiosi delle coste del Mediterraneo. Carne piuttosto insipida, variamente apprezzata. Nuota come gli squali agitando la coda. Muso ottuso, valve nasali laterali, più o meno frangiate. Spiracoli ampi, semilunari, bocca armata di denti unicuspidi a base allargata, e tralasciamo il resto. Marrone con marmorizzature scure e macchie chiare, un po' come la moquette dell'ingresso, se vogliamo.»
«L'animale potrebbe piacermi, Regina Mathilde.»”
Fred Vargas,“L'uomo Dei Cerchi Azzurri.”

martedì 13 febbraio 2018




OLTRE IL LIMITE
Rudyard Kipling
"Oltre il limite ed altri racconti"
"L'amore non bada a caste,
né il sonno a un letto rotto.
Io andai in cerca d'amore e mi persi."
​Proverbio indù

​In qualsiasi circostanza, un uomo dovrebbe sempre rimanere fedele alla propria casta, razza e stirpe. Che i bianchi stiano con i bianchi e i neri con i neri. Allora, qualunque cosa accada, rientra nel normale corso degli eventi - non è né improvviso, né strano, né imprevisto.
​Questa è la storia di un uomo che oltrepassò deliberatamente i limiti sicuri della rispettabile convivenza quotidiana e pagò un prezzo molto alto.
​In primo luogo sapeva troppo; e poi vide troppo. Si interessò troppo alla vita indigena, ma non lo farà mai più.
​Lontano, sprofondato nel cuore della città, dietro il bustee di Jitha Megij, c'è il vicolo di Amir Nath, che termina in un muro cieco sul quale si apre una sola finestra munita di una grata. All'inizio del vicolo c'è una grossa vaccheria, e i muri su entrambi i lati del vicolo sono privi di finestre. Né Suchet Singh né Gaur Chand approvano che le loro donne vedano il mondo. Se Durga Charan fosse stato della stessa opinione, oggi sarebbe un uomo più felice, e la piccola Bisesa potrebbe impastare con le proprie mani il pane che mangia. La sua stanza guardava, attraverso la finestra con la grata, nello stretto e buio vicolo dove non arrivava mai il sole, e dove i bufali sguazzavano nel liquame azzurro. Era una vedova di circa quindici anni e pregava gli dèi, giorno e notte, che le mandassero un amante, perché non si rassegnava a vivere sola.
​Un giorno un uomo di nome Trejago, girovagando da quelle parti, capitò nel vicolo di Amir Nath; e, dopo aver oltrepassato i bufali, inciampò in un grosso mucchio di foraggio.
​Allora vide che il vicolo era senza uscita e udì una risatina dietro la finestra con la grata. Era una risatina graziosa e Trejago, sapendo che, per qualsiasi scopo pratico, le vecchie Mille e una notte costituiscono una valida guida, giunse fin sotto la finestra e sussurrò quella strofa del Canto d'amore di Har Dyal che inizia:
​Può un uomo star dritto in faccia al Sole ignudo, o un innamorato alla Presenza della propria Amata?
​Se i piedi mi tradiscono, O Cuore del mio Cuore, son forse da biasimare, essendo accecato dalla visione fugace della tua bellezza?
​Da dietro la grata giunse il fioco tintinnio di braccialetti femminili, e una vocina riprese il canto dal quinto verso:
​Ahimè! Ahimè! Può forse la Luna dire al Loto del proprio amore, quando i Cancelli del Cielo son chiusi e le nubi s'addensano per le Piogge?
​Han preso la mia Amata e l'hanno condotta al Nord con dei cavalli da soma.
​Vi sono catene di ferro ai piedi ch'erano posati sul mio cuore.
​Chiamate gli arcieri affinché si preparino...
​La voce s'interruppe all'improvviso e Trejago uscì dal vicolo di Amir Nath, chiedendosi chi mai potesse completare con tanta precisione il Canto d'amore di Har Dyal.
​Il mattino seguente, mentre si recava in ufficio, una vecchia gettò un pacchetto nel suo calesse. Dentro il pacchetto c'era la metà di un braccialetto di vetro rotto, un fiore rosso sangue di dhak, un pizzico di bhusa, o foraggio per il bestiame, e undici semi di cardamomo. Quel pacchetto era una lettera - non una lettera sgraziata e compromettente, ma una innocente, inintelligibile epistola d'amore.
​Come ho detto, di queste cose Trejago se ne intendeva anche troppo. Nessun inglese dovrebbe essere in grado di tradurre lettere composte di oggetti. Ma Trejago sparse tutte quelle carabattole sul coperchio della valigetta da ufficio e iniziò a decifrarne il significato.
​Un braccialetto di vetro rotto indica, in tutta l'India, una vedova indù; poiché, quando muore il marito, alla donna vengono infranti i braccialetti ai polsi. Così Trejago chiarì il significato del frammento di vetro. Il fiore di dhak può significare cose diverse - 'desiderio', 'vieni', 'scrivi' o 'pericolo' - a seconda degli oggetti che l'accompagnano. Un seme di cardamomo significa 'gelosia'; ma quando, in una lettera di questo genere, un oggetto è duplicato, perde il suo significato simbolico e dà semplicemente una indicazione di tempo, o, se accompagnato da incenso, giuncata o zafferano, di luogo. Il messaggio dunque diceva: 'Una vedova - fiore di dhak e bhusa - alle undici'. Il pizzico di bhusa illuminò Trejago. Egli capì - questo tipo di lettera lascia molto all'intuito - che la bhusa si riferiva al grosso mucchio di foraggio sul quale era caduto nel vicolo di Amir Nath, e che il messaggio doveva venire dalla persona nascosta dietro la grata; che era una vedova. Quindi il messaggio diceva: 'Una vedova, nel vicolo dove c'è il mucchio di bhusa, desidera che tu venga alle undici'.
​Trejago gettò tutte quelle cianfrusaglie nel camino e rise. Sapeva che in Oriente gli uomini non fanno l'amore sotto le finestre alle undici di mattina, né le donne fissano gli appuntamenti con una settimana di anticipo. Così, quella sera stessa alle undici, si recò nel vicolo di Amir Nath avvolto in una boorka, che nasconde sia un uomo che una donna. Non appena i gong della città batterono l'ora, la vocina dietro la grata riprese il Canto d'amore di Har Dyal dal verso in cui la ragazza pathan invoca Har Dyal perché ritorni. Nel dialetto indigeno il canto è molto bello. Tradotto perde il suo carattere lamentoso. Dice press'a poco così:

​Sola sui tetti delle case, al Nord
​Mi volgo e guardo i lampi nel cielo, -
​L'incanto dei tuoi passi nel Nord.
​Ritorna mio Diletto, altrimenti morrò!
​Ai miei piedi silenzioso si stende il bazar -
​Molto, molto più in basso riposano i cammelli stanchi,
​I cammelli e i prigionieri della tua razzìa.
​Ritorna mio Diletto, altrimenti morrò!
​La moglie di mio padre è vecchia e arcigna,
​E di tutta la casa paterna son io la bestia da soma. -
​Dolore è il mio pane e lacrime la mia bevanda.
​Ritorna mio Diletto, altrimenti morrò!

​Quando il canto finì, Trejago andò sotto la grata e sussurrò: "Sono qui".
​Bisesa era bella a vedersi.
​Quella notte segnò l'inizio di molte cose strane e di una doppia vita così pazzesca che ancora oggi, alle volte, Trejago si domanda se non sia stato tutto un sogno. Bisesa, o la sua anziana serva che aveva recapitato la lettera composta di oggetti, aveva staccato la pesante grata dalla cornice di mattoni; cosicché la finestra poté scivolare all'interno, lasciando soltanto un riquadro di mattoni grezzi, nel quale un uomo agile poteva arrampicarsi.
​Di giorno Trejago svolgeva il consueto lavoro d'ufficio, o indossava gli abiti da visita e andava a trovare le signore della comunità inglese, chiedendosi fino a quando avrebbero continuato a riceverlo, se avessero saputo della povera piccola Bisesa. Di notte, quando tutta la città era silenziosa, compiva la passeggiata sotto la boorka maleodorante, la ricognizione attraverso il bustee di Jitha Megji, la rapida svolta nel vicolo di Amir Nath, tra il bestiame addormentato e i muri ciechi, e poi, finalmente, trovava Bisesa, e il respiro profondo e regolare della vecchia, addormentata fuori della porta della spoglia stanzetta che Durga Charan aveva destinato alla figlia di sua sorella. Chi o che cosa fosse Durga Charan, Trejago non lo chiese mai; e perché non venisse scoperto e accoltellato non gli passò mai per la testa, finché la sua pazzia non ebbe fine e Bisesa... Ma questo vien dopo.
​Bisesa rappresentava un piacere senza fine per Trejago. Era ignorante come un uccello, e le sue versioni distorte dei rumori che le giungevano dal mondo esterno divertivano Trejago quasi quanto i suoi blesi tentativi di pronunciare il suo nome, Christopher. La prima sillaba costituì sempre una difficoltà insormontabile; e lei faceva dei piccoli gesti buffi con le mani simili a foglie di rosa, come se volesse gettare via il nome, e poi, inginocchiandosi davanti a Trejago, gli domandava, proprio come farebbe una donna inglese, se fosse certo di amarla. Trejago giurava di amarla più di qualsiasi altra persona al mondo. Ed era vero.
​Dopo un mese di questa follia, le esigenze dell'altra sua vita costrinsero Trejago a prestare particolare attenzione a una signora di sua conoscenza. Potete star certi che una cosa di questo genere non viene notata e discussa solo all'interno della comunità europea, ma anche da un centinaio e mezzo di indigeni. Trejago doveva andare a passeggio con questa signora e conversare con lei presso il palco della banda, e una volta o due dovette accompagnarla in calesse; tutto questo lo fece senza mai pensare, per un solo istante, che potesse compromettere la sua vita segreta, a lui ben più cara. Ma la notizia volò, nel solito modo misterioso, di bocca in bocca, finché la vecchia governante di Bisesa la sentì e la riferì a Bisesa. La fanciulla ne fu così turbata che fece malamente i lavori di casa e, di conseguenza, venne picchiata dalla moglie di Durga Charan.
​Una settimana dopo Bisesa accusò Trejago di questo flirt. Non conoscendo sfumature, parlò apertamente. Trejago rise, e Bisesa batté i piedini per terra - quei piedini delicati come calendule, che potevano stare nel palmo della mano di un uomo.
​Molto di ciò che è stato scritto sulla passionalità e l'impulsività degli orientali è esagerato e frutto di informazioni di seconda mano; ma un poco è vero e, quando un inglese scopre quel poco, si accorge che è altrettanto sorprendente di una qualsiasi passione vissuta da un uomo della sua stessa razza. Bisesa s'infuriò, fece una scena e alla fine minacciò di uccidersi se Trejago non avesse lasciato immediatamente la Memsahib straniera che si era frapposta tra loro.
​Trejago cercò di spiegare e di dimostrarle che lei non capiva queste cose da un punto di vista occidentale. Bisesa si alzò in piedi e disse semplicemente:
​"No, non capisco. Io so solo questo: non è bene che abbia fatto di te una cosa più cara del mio stesso cuore, Sahib. Tu sei un inglese, mentre io sono soltanto una ragazza di colore, - ed era più bionda dei lingotti d'oro alla Zecca - e la vedova di un uomo di colore.
​Poi aggiunse, tra i singhiozzi: "Ma sulla mia anima e sull'anima di mia Madre, ti amo. A te non accadrà nulla di male, qualunque cosa possa succedere a me".
​Trejago discusse ancora con la fanciulla cercando di calmarla, ma lei sembrava turbata in maniera del tutto irragionevole. Nulla poteva soddisfarla, se non la completa cessazione dei loro rapporti. Lui doveva andarsene immediatamente. E così fece. Mentre si calava dalla finestra, lei lo baciò due volte sulla fronte, e lui tornò a casa alquanto stupito.
​Passarono una, due, tre settimane senza alcun segno da parte di Bisesa. Trejago, pensando che la rottura fosse durata abbastanza, si recò nel vicolo di Amir Nath per la quinta volta in tre settimane, nella speranza che i suoi colpetti sul davanzale della grata mobile ricevessero una risposta. Infatti non venne deluso.
​C'era una luna giovane, e un fascio di luce inondava il vicolo di Amir Nath colpendo la grata, che venne rimossa mentre lui bussava. Dalla nera oscurità, Bisesa tendeva le braccia al chiaro di luna. Entrambe le mani erano state recise ai polsi e i moncherini erano quasi guariti.
​Allora, mentre Bisesa chinava il capo tra le braccia e singhiozzava, nella stanza qualcuno grugnì come una bestia selvaggia, e qualcosa di acuminato - coltello, spada o lancia - venne scagliato contro la boorka di Trejago. L'arma mancò il busto ma raggiunse un muscolo dell'inguine, ed egli zoppicò leggermente per il resto dei suoi giorni.
​La grata ritornò al suo posto. Dall'interno della casa non venne alcun segno, null'altro che la striscia di luce lunare sull'alto muro e l'oscurità del vicolo di Amir Nath alle spalle.
​La prima cosa che Trejago ricorda, dopo aver perso la testa e gridato come un pazzo tra quelle mura spietate, è di essersi trovato in prossimità del fiume mentre stava albeggiando, di aver gettato via la boorka ed essere tornato a casa a capo scoperto.
​Come fosse avvenuta la tragedia - se Bisesa, in un momento di disperazione senza motivo, avesse raccontato tutto, o se la tresca fosse stata scoperta e la fanciulla costretta a parlare sotto tortura; se Durga Charan sapesse il suo nome, e cosa avvenne di Bisesa - Trejago non lo sa ancora oggi. Era accaduto qualcosa di orribile, e il pensiero di ciò che può essere stato coglie ogni tanto Trejago la notte, e gli tiene compagnia fino al mattino. Un aspetto particolare della vicenda è che lui non sa dove sia la facciata della casa di Durga Charan. Può dare su un cortile comune a due o più case, o può trovarsi dietro uno qualsiasi dei cancelli del bustee di Jitha Megji, Trejago non può dirlo. E non può riavere Bisesa, la povera piccola Bisesa. L'ha perduta nella città dove la casa di ogni uomo è sorvegliata e impenetrabile come la sua tomba; e la grata che guardava sul vicolo di Amir Nath è stata murata.
​Ma Trejago compie le sue visite regolarmente ed è considerato una persona assai rispettabile.
​Non v'è nulla di strano in lui, tranne una lieve rigidità della gamba destra, conseguenza di una caduta da cavallo.



CORPI ALLA PROVA
Gianfranco Giudice
(M. Foucault, L’uso dei piaceri, Storia della sessualità 2)
Prendiamo adesso in considerazione il secondo volume che Foucault dedica alla storia della sessualità, intitolato L’uso 
 piaceri. Ci soffermeremo in particolare sull’analisi che il pensatore francese dedica a Platone, perché ci tornerà utile per l’analisi che condurremo successivamente di alcune pagine dei dialoghi platonici dedicate al tema dell’Eros e al rapporto anima – corpo. La domanda di fondo che si pone Foucault rispetto all’Antichità, è il perché la cultura antica abbia problematizzato in maniera così peculiare la sfera del desiderio e della sessualità, inestricabilmente legata alla carne. “ Perché il comportamento sessuale – leggiamo ne L’uso dei piaceri - , le attività e i piaceri che ne dipendono, costituiscono l’oggetto di una preoccupazione morale ? Perché questo assillo etico, che, almeno in certi momenti, in determinate società o gruppi, appare più importante dell’attenzione morale che si porta ad altri campi pure essenziali della vita individuale o collettiva, come i comportamenti alimentari o il compimento dei doveri civici “ (cfr. M. Foucault, L’uso dei piaceri, Storia della sessualità 2, Feltrinelli, Milano 1998, p. 15). L’analisi foucaultiana non prende in considerazione la storia dei sistemi morali, bensì quella delle problematizzazioni etiche; questo perché se la prima si ridurrebbe ad una storia dei divieti, le seconde ci conducono alle pratiche di sé, da cui non si può prescindere se si vuole comprendere il rapporto che gli antichi, quantomeno le classi dominanti, avevano con la corporeità.
Un tema di grande rilevanza è da questo punto di vista quello dell’omosessualità; se da un lato è indubbia la maggiore libertà sessuale nell’antichità rispetto alle società europee moderne, ovvero la sostanziale bisessualità per esempio nell’antica Grecia; d’altro canto osserva Foucault  come proprio l’ambito degli amori maschili “ lo si veda contrassegnare molto presto da intense reazioni negative e da forme di discredito che perdurranno nel tempo “ (ibidem, pp. 24-25). Il fatto che la società antica fosse una società maschilista, e la morale fosse una morale di uomini e per gli uomini, rende il discorso sull’omosessualità nell’antichità ancora più rilevante al fine di una analisi del tema della corporeità. Proprio perché l’uomo è dominante, in quanto la donna è un mero oggetto rispetto al maschio, allora diventa essenziale problematizzare quella macchina del desiderio costituita dal corpo maschile che prova attrazione erotica per un altro corpo maschile. Se l’uomo detiene nella cultura antica le chiavi della verità, allora diventa fondamentale assoggettare alla verità la minaccia più grande costituita proprio dal desiderio omosessuale radicato nelle fibre stesse del soggetto produttore di verità, quale è il maschio stesso. Il maschio è ripetibile in quanto produttore di verità, ed è irripetibile in quanto corporeità desiderante, carne sessuata.



lunedì 12 febbraio 2018




LA PECORA NERA
( Umorismo e sarcasmo le armi di H. Böll. In "La pecora nera" [nel volume Racconti umoristici e satirici, 1964] per registrare i primi sintomi della società del benessere egli usa un’ironia burlesca e deformante, in una gamma che va da un fiabesco apparentemente innocuo ad un sarcasmo avvelenato.)

La pecora nera 
Pare che sia io il predestinato a far sì che nella mia generazione non venga interrotta la catena genetica delle pecore nere. Una ce ne deve essere, e quell’una sono io. I saggi membri della nostra famiglia  affermano che l’influsso esercitato su di me dallo zio Otto non è stato buono. Lo zio Otto era la pecora nera della generazione precedente ed anche mio padrino di battesimo. 
Qualcuno doveva pur essere e quell’uno era lui. Naturalmente lo avevano scelto come padrino prima di sapere che sarebbe diventato un fallito; anche me, me hanno scelto come padrino di un ragazzino che ora – ora che mi si ritiene la pecora nera – è timorosamente tenuto lontano da me. In fondo ci dovrebbero essere grati, perché una famiglia che non ha pecore nere, non è una famiglia caratteristica. 
La mia amicizia con lo zio Otto cominciò presto: veniva spesso da noi, portava più dolci di quanto mio padre ritenesse giusto, parlava, parlava e finiva sempre in un tentativo di chiedere soldi in prestito. Lo zio Otto era un ben informato, non c’era campo in cui non fosse ferratissimo: sociologia, letteratura, musica, architettura, tutto; e realmente sapeva tutto. Persino competenti e specialisti in quelle materie conversavano volentieri con lui, lo trovavano intelligente, stimolante, straordinariamente simpatico, finché non li snebbiava lo choc della richiesta del denaro, che seguiva. 
Perché questo era il terrificante; non infuriava solo nella parentela, ma tendeva i suoi trabocchetti anche là, ovunque gli pareva valesse la pena. Tutti erano del parere che potesse trasformare in denaro il suo sapere – così si diceva nella generazione passata – ma lui non trasformava in denaro quello che sapeva, lui trasformava in denaro i nervi dei parenti. 
Resta il suo segreto come mai riuscisse a dare l’impressione che quel giorno non l’avrebbe fatto. Ma lo faceva lo stesso. Regolarmente. Inesorabilmente. Credo che fosse più forte di lui rinunciare ad una occasione. I suoi discorsi erano affascinanti, così ricchi di vera passione, sottilmente costruiti, brillanti e spiritosi, annientavano gli antagonisti, elevavano gli amici; egli sapeva parlare troppo bene perché si potesse credere che dovesse arrivare a... e invece ci arrivava. Sapeva come si curano i neonati, sebbene non avesse mai avuto bambini, avvolgeva le signore in conversazioni incredibilmente interessanti, sulla dieta o su malattie particolari, proponeva tipi 
di cipria, scriveva ricette di pomate su foglietti, regolava la qualità e la quantità delle 
loro bevande, insomma sapeva come si trattano le donne: un bambino urlante affidato 
a lui, si calmava subito. Qualcosa di magico emanava dalla sua persona. Nella stessa 
maniera perfetta analizzava la nona sinfonia di Beethoven, scriveva componimenti 
giuridici, citava a memoria i numeri della legge in questione... 
Ma sempre, non importa dove e su che argomento fosse stata la conversazione, 
quando si avvicinava la fine e arrivava inesorabile il congedo, per lo più nell’ingresso 
mentre la porta era già socchiusa a metà, ricompariva ancora una volta, con la sua 
faccia pallida e i vivaci occhi scuri, e come se fosse qualcosa di assolutamente secondario, mentre l’intera famiglia angosciata aspettava, diceva rivolto al capofamiglia — A proposito, mi potresti... — Le somme che chiedeva oscillavano fra uno e 50 marchi. Cinquanta era il massimo; nel corso dei decenni si era creata una specie di  legge sottintesa che non dovesse mai chiedere più di cinquanta marchi. — A breve scadenza, — aggiungeva. A breve scadenza era la sua parola preferita. Poi, ritornava, appoggiava ancora una volta il cappello all’attaccapanni, si toglieva la sciarpa e cominciava a spiegare per che cosa gli occorreva il denaro. Aveva sempre dei 
progetti, progetti infallibili. Non aveva mai direttamente bisogno di soldi per sé ma 
sempre per dare alla sua esistenza una base sicura. I suoi progetti oscillavano fra una 
baracchina di bibite – dalla quale si riprometteva regolari, e sicure entrate, e la fondazione di un partito politico, che avrebbe dovuto preservare l’Europa dalla rovina. La 
frase: — A proposito, potresti... — divenne nella nostra famiglia sinonimo di terrore: 
c’erano donne, zie, prozie, nipoti addirittura che alla parola “a breve scadenza” 
stavano per svenire. 
Lo zio Otto, quando poi correva giù per le scale ritengo che fosse del tutto felice: 
se ne andava nel locale più vicino, per riflettere sui suoi progetti. Pensava con un 
cognac oppure con tre bottiglie di vino davanti a seconda della somma che era 
riuscito ad ottenere in prestito. 
Non voglio tacere più a lungo: lo zio beveva. Beveva, eppure nessuno lo aveva mai 
visto ubriaco. Inoltre sembrava che sentisse il bisogno di bere da solo. Offrirgli da 
bere, per evitare la richiesta del prestito, non aveva senso. Una botte intera di vino 
non lo avrebbe trattenuto, al momento di congedarsi, all’ultimo momento, di infilare 
ancora la testa nella porta socchiusa e domandare: — A proposito, non potresti, a 
breve scadenza... 
Ma la sua qualità peggiore finora l’ho taciuta: qualche volta restituiva il denaro. 
Sembra pure che qualche volta guadagnasse qualcosa, dando di tanto in tanto – 
almeno credo – come ex-procuratore, dei pareri legali. Allora arrivava, prendeva una 
banconota dalla tasca, la lisciava con doloroso amore e diceva: — Sei stato così 
gentile da aiutarmi, ecco qui, i cinque marchi. 
Poi se ne andava molto presto e ritornava al più tardi due giorni dopo per chiedere 
una somma che era un po’ più alta di quella che aveva restituito. Resta il suo segreto, 
quello di essere riuscito a vivere fino a quasi sessantanni, senza avere quello che noi 
siamo abituati a chiamare una vera professione. 
E non morì davvero di una malattia che potesse avere a che fare con la sua 
passione per il bere. Era sanissimo, il suo cuore funzionava meravigliosamente ed il 
suo sonno assomigliava a quello di un fiorente neonato che, gonfio di latte, dorme 
con la coscienza tranquilla fino alla prossima poppata. No, morì improvvisamente, un 
incidente pose fine alla sua vita e quello che si verificò dopo la sua morte è la cosa 
più misteriosa dello zio Otto. 
Lo zio, come ho detto, morì per un incidente. Fu travolto da un camion con tre 
rimorchi, in mezzo al traffico della città e fu una fortuna che un onest’uomo lo 
sollevasse, lo consegnasse alla polizia e ne informasse la famiglia. Nelle sue tasche fu 
ritrovato un portamonete che conteneva una medaglia della Madonna, un tesserino 
del tram con due buchi di due andate e ventiquattromila marchi in contanti, più la 
copia di una ricevuta che aveva firmato al ricevitore della lotteria. Non doveva essere 
stato in possesso del denaro più a lungo di un minuto, forse ancora meno, quando l’autocarro lo investì, appena a cinquanta metri dal botteghino del ricevitore della 
lotteria. Quello che seguì fu per la famiglia davvero qualcosa di umiliante. 
Nella sua camera regnava la povertà: tavolo, sedia, letto e armadio, un paio di libri 
e una grossa agenda e in questa agenda un elenco preciso di tutti coloro cui doveva 
del denaro, compresa l’annotazione di un prestito della sera avanti che gli aveva 
fruttato quattro marchi. Inoltre un brevissimo testamento che mi nominava suo erede. 
Mio padre, quale esecutore testamentario, venne incaricato di pagare i debiti. Le liste 
dei creditori dello zio Otto riempivano davvero un intero quaderno e le sue prime 
annotazioni risalivano agli anni in cui aveva interrotto la sua carriera giuridica – 
faceva allora tirocinio in tribunale – e si era dato a tutt’altri progetti, la cui elabora-
zione gli era costata tanto tempo e tanto denaro. I suoi debiti ammontavano comples-
sivamente a quasi quindicimila marchi ed il numero dei suoi creditori superava i 
settecento, a cominciare da un tranviere che gli aveva anticipato trenta pfennig per un 
biglietto doppio, col quale era arrivato da mio padre, che doveva avere complessivamente duemila marchi perché per lo zio Otto lui era la persona più facile da 
abbordare per chiedere quattrini in prestito. 
Il giorno dei funerali – strana coincidenza – entravo in maggiore età, ero quindi 
autorizzato ad entrare in possesso dell’eredità di diecimila marchi. Interruppi subito i 
miei studi appena cominciati per dedicarmi a progetti di altro genere. Nonostante le 
lacrime dei miei genitori, me ne andai di casa per abitare nella camera dello zio Otto: 
la camera esercitava su di me una immensa attrazione, e ci abito ancora oggi sebbene 
i miei capelli abbiano cominciato da tempo a diradarsi. L’inventario della camera non 
si è impoverito né arricchito. Oggi so che molte cose le ho cominciate dalla parte 
sbagliata. Non aveva senso tentare di diventare musicista, addirittura compositore, 
senza aver talento musicale. Oggi lo so, ci sono voluti tre anni di studio inutile, con la 
certezza di guadagnarmi la fama di perdigiorno, ed in più tutta l’eredità se n’è andata 
in questo, ma ormai è tempo passato. 
Non ricordo più la successione cronologica dei miei progetti: erano troppi. I 
periodi di tempo di cui avevo bisogno per riconoscere che erano progetti senza senso 
e senza costrutto diventavano sempre più brevi. In ultimo, un progetto durò solo tre 
giorni, durata troppo breve, sia pure per un progetto. La durata dei miei progetti 
diminuì così rapidamente che in ultimo erano soltanto pensieri che lampeggiavano e 
apparivano per poco e nessuno li poteva spiegare perché nemmeno per me erano del 
tutto chiari. Se ripenso che in fondo mi sono dedicato per tre mesi alla fisiognomica(13)
per arrivare da ultimo nello spazio di un solo pomeriggio a voler diventare pittore, 
giardiniere, meccanico e marinaio, ad addormentarmi col pensiero di essere nato per 
fare l’insegnante e a risvegliarmi invece con la profonda convinzione che la carriera 
doganale fosse la mia vocazione! 
Detto in breve non possedevo né l’amabilità dello zio Otto, né la sua costanza, e 
poi io non sono un parlatore, quando sono con la gente sto seduto, muto, non parlo, 
l’annoio e i miei tentativi di spillare denaro in prestito, li presento in maniera così 
improvvisa e poco riguardosa, nel più profondo silenzio, da avere il sapore del 
 ----
(13) Disciplina pseudoscientifica che pretende di dedurre i caratteri psicologici e morali di una persona dal suo aspetto fisico, soprattutto dai lineamenti e dalle espressioni del volto. (N.d.R.)
----
ricatto. Solo con i bambini ci so fare, per lo meno questa è una qualità che sembra 
abbia positivamente ereditato dallo zio Otto! 
I neonati si calmano appena sono fra le mie braccia e quando mi guardano, 
sorridono, se sanno già sorridere, sebbene si dica che il mio viso fa paura alla gente. 
Persone maligne mi hanno consigliato di fondare – come primo rappresentante 
maschile – la categoria dei maestri-giardinieri e concludere così la mia infinita 
politica pianificatrice con la realizzazione di questo piano. Ma non lo faccio. Credo 
che questa sia la cosa principale, che ci rende, noi pecore nere, impossibili: che non 
riusciamo a trasformare in denaro le nostre qualità reali: o come si dice ora, a sfrut-
tarle economicamente. Ad ogni modo questo è certo: se io sono una pecora nera – io 
stesso non ne sono davvero convinto – ma se lo sono, rappresento una specie diversa 
da quella dello zio Otto: non possiedo la sua leggerezza, non ho il suo charme e poi i 
miei debiti mi opprimono, mentre a lui, era chiaro che non pesavano troppo. 
E poi io ho fatto qualcosa di terribile; ho capitolato, ho pregato per ottenere un 
posto, ho scongiurato la famiglia di aiutarmi a trovare un impiego, di mettere in 
azione le sue relazioni per assicurarmi una volta, almeno una volta, un pagamento 
sicuro per un determinato lavoro. E ci sono riuscito. 
Dopo aver formulato a voce e per iscritto le mie calde, ardenti, urgenti preghiere, 
quando queste furono prese sul serio e realizzate, io feci quello che fino allora 
nessuna pecora nera aveva mai fatto: non mi tirai indietro, non li lasciai in asso, 
accettai il posto che avevano trovato per me. Sacrificai qualcosa che non avrei mai 
dovuto sacrificare: la mia libertà. 
Ogni sera, tornando a casa stanco, ero irritato che fosse trascorso ancora un giorno 
della mia vita che mi aveva portato solo stanchezza, rabbia e tanto denaro quanto era 
necessario per continuare a lavorare, se si può chiamare lavoro questa occupazione: 
metter in ordine alfabetico dei conti, forarli e fissarli in una cartella nuova fiammante 
dove sopportano pazienti il loro destino, quello di non venir mai pagati. Oppure 
scrivere lettere di propaganda, che spedite in giro, sono solo un peso inutile per il 
postino: qualche volta scrivere anche fatture che qualche volta vengono addirittura 
pagate subito. 
Dovevo trattare con viaggiatori che si sforzavano inutilmente di smerciare quella 
robaccia fabbricata dal nostro principale. Il nostro principale – quell’animale inquieto 
che non ha mai tempo e non fa mai niente – e testardo dissipa in chiacchiere le 
preziose ore del giorno – esistenza mortalmente insignificante – che non osa confes-
sare a se stesso la misura dei suoi debiti, che si bilancia di bluff in bluff, un acrobata 
di palloncini gonfiati che comincia a gonfiarne uno proprio mentre quell’altro 
scoppia: resta solo uno schifoso straccetto di gomma che un minuto prima era ancora 
teso di vita e lucentezza e vigore. 
Il nostro ufficio era proprio vicino alla fabbrica dove una dozzina di operai metto-
no insieme quei mobili che si comprano per essere irritati poi tutta la vita dalla loro 
presenza, se non ci si decide tre giorni dopo a farne legna: tavolini da fumo, da 
lavoro, minuscoli cassettoni, piccole sedie artificiosamente dipinte che si rompono 
appena vi si siedono bambini di tre anni, piccoli supporti per vasi di fiori o piante, 
ciarpame di second’ordine che sembra dover la vita all’arte di un ebanista e che 
invece deve la sua bellezza apparente – che serve a giustificare i prezzi – ad un 
cattivo verniciatore che li copre di colore, venduto per lacca. 
Trascorsi così i miei giorni, l’uno dopo l’altro – in tutto quasi quindici – nell’ufficio di quest’uomo senza intelligenza che prendeva sul serio se stesso, che oltretutto 
si riteneva un artista, perché qualche volta (successe una volta sola quando c’ero io) 
si metteva davanti alla tavola da disegno a manovrare con carta e matite per ideare un 
qualche instabile aggeggio, malsicuro, – portafiori o nuovo bar – ulteriore irritazione 
alle generazioni. 
La mortale inutilità dei suoi oggetti sembrava non capirla. 
Dopo che aveva disegnato un aggeggio simile – accadde solo una volta – ripeto – 
nel tempo in cui c’ero anch’io – partiva a razzo con una macchina per una pausa 
creativa che durava otto giorni, mentre aveva lavorato solo un quarto d’ora. Il disegno 
veniva poi buttato là al maestro-esecutore che lo metteva sul bancone, lo studiava con 
la fronte aggrottata, poi esaminava le riserve di legno per mettere in moto la 
produzione. Per giorni interi vedevo poi – dietro i vetri impolverati dell’officina – lui 
la chiamava fabbrica – ammonticchiarsi le nuove creazioni: mensole o tavolini per la 
radio che valevano appena la colla che si era sprecata per loro. 
Usabili erano solo gli oggetti che gli operai – senza che il principale lo sapesse – si 
fabbricavano, quando la sua assenza era garantita per alcuni giorni: panchettini o 
cassettine portagioie di un’allegra e solida semplicità: i pronipoti cavalcheranno 
ancora su quei panchettini o conserveranno le loro cianfrusaglie in quelle cassettine; 
comodi asciugabiancheria su cui sventoleranno ancora la camicie di diverse generazioni. Così le cose utili e consolanti erano create illegalmente. 
In questo mio intermezzo di attività professionale, la vera personalità che incontrai 
e che mi fece impressione fu il controllore del tram che con la sua tenaglia rendeva 
nulla la giornata: sollevava quel minuscolo pezzettino di carta, il mio tesserino settimanale, lo spingeva nel muso aperto della sua tenaglia ed un inchiostro che scorreva 
invisibilmente segnava due centimetri: un giorno della mia vita era scaduto, un 
prezioso giorno che mi aveva portato rabbia e tanto denaro quanto era necessario per 
continuare questa mia occupazione senza senso. C’era una grandezza fatale in 
quell’uomo vestito della semplice uniforme delle tranvie cittadine che poteva – ogni 
sera – dichiarare nulli i giorni di migliaia di uomini. 
Ancora oggi mi irrita il fatto di non essermi licenziato prima che fossi quasi 
costretto a licenziarmi dal mio principale, di non avergli sbattuto via i suoi aggeggi 
prima che fossi quasi costretto a sbatterglieli via; perché un giorno la mia affittacamere condusse nel mio ufficio un uomo dallo sguardo torvo che mi si presentò come 
ricevitore della lotteria e mi dichiarò che sarei stato il possessore di una fortuna di 
50.000 marchi, nel caso che io fossi il tal dei tali e nelle mie mani si trovasse il tal e 
tal biglietto. 
Beh, io ero il tal dei tali e quel biglietto era nelle mie mani. 
Abbandonai subito il mio impiego, senza licenziarmi, mi presi la responsabilità di 
lasciare le fatture in disordine, non forate, e non mi restò altro da fare che andare a 
casa, incassare il denaro e far sapere alla parentela, per mezzo del postino che portava 
i soldi, del nuovo stato di cose. 
Era chiaro che si aspettasse che io morissi o fossi vittima di un incidente; ma, per 
ora, non pare che ci sia una macchina destinata a rubarmi la vita ed il mio cuore è 
sanissimo, anche se non disdegno assolutamente le bottiglie. Così, dopo aver pagato i 
miei debiti, sono in possesso di un patrimonio di quasi 30.000 marchi, liberi da tasse, 
sono uno zio molto ricercato che improvvisamente può ancora avvicinare il suo 
figlioccio. 
I bambini poi mi vogliono bene, e adesso posso giocare con loro, comprare palle, 
offrire loro un gelato, il gelato con la panna, posso comprare giganteschi grappoli di 
palloncini colorati, popolare con la loro allegra schiera le giostre e le altalene. 
Mentre mia sorella ha comprato subito a suo figlio – il mio figlioccio – un biglietto 
della lotteria, io sono ora occupato a pensare per ore, a chi sarà il mio successore in 
questa generazione che sta crescendo; chi di questi bimbi graziosi e fiorenti che 
giocano e che i miei fratelli e sorelle hanno messo al mondo, sarà la pecora nera della 
generazione seguente? 
Perché noi siamo una famiglia caratteristica e restiamo tale. Chi sarà bravo e buono 
fino al punto in cui cesserà di essere bravo e buono? Chi si vorrà improvvisamente 
dedicare ad altri progetti migliori, infallibili? Vorrei saperlo, vorrei avvertirlo perché 
anche noi abbiamo le nostre esperienze, anche la nostra professione ha le sue regole 
di gioco che potrei insegnare al successore, che per ora è ancora sconosciuto e come 
il lupo con la pelle di pecora, gioca nella schiera degli altri... 
Ma ho l’oscura sensazione che non vivrò tanto a lungo da riconoscerlo e iniziarlo 
ai segreti: comparirà, si rivelerà quando morirò e il turno sarà necessario, comparirà 
col volto in fiamme, davanti ai genitori e dirà che ne ha abbastanza, e io spero in 
segreto che sia rimasto ancora un po’ del mio denaro, perché ho cambiato il mio 
testamento e ho lasciato il resto del mio patrimonio a quello che primo mostrerà i 
segni non ingannevoli di colui che è destinato a succedermi. 
La cosa più importante è che con loro non abbia più alcun debito.