IL MELO SULLA COLLINA (1954)
Philip K. Dick
"Racconti inediti"
Volume primo
(Visionario e allucinato, Philip
K. Dick è senza ombra di dubbio uno degli autori più apprezzati
della storia del genere fantascientifico. Dick rimane uno dei massimi
teorici di una filosofia soggettivistica che non a eguali nel mondo
della sf. I suoi maestri sono Pinter e Pirandello e le sue storie raccontano di incubi allucinati in cui il
protagonista si ritrova immerso in una realtà mutevole e magmatica,
uno scenario infido e alieno in cui nulla è ciò che sembra essere
all'apparenza.)
Qualcosa batteva alla finestra,
e picchiava continuamente sul vetro. Qualcosa portata dal vento.
Batteva debolmente, con insistenza.
Lori, seduta sul divano, faceva
finta di non sentire. Strinse il libro che stava leggendo e girò la
pagina. Il battito si ripeté, più forte e più perentorio. Non si
poteva più ignorarlo.
«Dannazione!» esclamò Lori,
gettando il libro sul tavolino e andando di corsa verso la finestra.
Afferrò le pesanti maniglie di ottone e la sollevò.
Per un attimo la finestra
resistette e poi, con un gemito di protesta, si alzò a fatica. La
fredda aria autunnale irruppe nella stanza. La foglia smise di
battere, e svolazzò contro il viso della donna, cadendo quindi a
terra.
La raccolse. Era vecchia e
marrone. Il cuore di Lori perse un battito mentre lei faceva
scivolare la foglia nella tasca dei jeans. La foglia irritava e
pungeva il suo fianco perchè una parte piuttosto dura e aguzza le si
era conficcata nella pelle delicata ed aveva fatto correre un brivido
lungo la sua spina dorsale. Lori rimase un momento davanti alla
finestra aperta, annusando l'aria. Era piena dell'essenza degli
alberi e delle rocce, di grandi massi e di luoghi remoti. Era ora...
ora di andare di nuovo. La donna toccò la foglia. Qualcuno la
voleva.
Rapidamente Lori lasciò il
vasto soggiorno, e attraversò velocemente il corridoio giungendo
alla sala da pranzo. Era vuota. L'eco di una risata giunse dalla
cucina. Lori aprì la porta della cucina. «Steve?»
Suo marito e suo suocero erano
seduti attorno al tavolo, fumando i loro sigari e bevendo del caffè
nero fumante. «Che c'è?» le chiese Steve, guardando contrariato la
giovane moglie. «Ed e io stiamo facendo dei conti...»
«Io... io vorrei domandarti una
cosa».
I due
uomini la fissarono; Steven, con i capelli castani e gli occhi neri,
pieni dell'ostinata dignità della gente del New England,
e suo padre,
silenzioso e ritirato in presenza di lei.
Ed Patterson
la notò appena,
mentre sfogliava un mucchio di fatture, rivolgendole l'ampia schiena.
«Di che si tratta?» le chiese
Steve con impazienza. «Che cosa vuoi? Non puoi aspettare?»
«Devo andare», disse Lori
all'improvviso.
«Andare dove?»
«Fuori». L'ansia la travolse.
«Questa è l'ultima volta, te lo prometto. Non uscirò più, dopo
questa volta, d'accordo?» Accennò un sorriso, ma il cuore le
batteva troppo forte. «Per favore, fammi andare, Steve».
«Dove va?» borbottò Ed.
Infastidito, Steve rispose fra i
denti: «Su nelle colline. In qualche vecchio posto abbandonato».
Gli occhi grigi di Ed si
illuminarono. «Una fattoria abbandonata?»
«Sì. La conosci?»
«La vecchia fattoria dei
Rickley. Si sono trasferiti qualche anno fa. Non riuscivano a far
crescere niente, lassù. È tutta roccia. Terra cattiva, un mucchio
di argilla e sassi. Adesso il posto è in rovina, tutto ricoperto
dalla vegetazione».
«Che tipo di fattoria era?»
«Doveva essere un frutteto, ma
non è mai cresciuto un accidente. Solo alberi secchi. È stato solo
uno spreco di energie».
Steve guardò l'orologio. «Sarai
a casa in tempo per preparare la cena?»
«Sì!» Lori si diresse verso
la porta. «Allora posso andare?»
Steve fece una smorfia, come se
stesse riflettendo. Lori aspettava impaziente, respirando appena. Non
si era mai abituata agli uomini del Vermont e al loro modo di fare
lento e ponderato. La gente di Boston era del tutto diversa, e lei
aveva frequentato più che altro i giovani del college, con i quali
aveva ballato, parlato e riso fino a fare tardi.
«Perchè devi andare lassù?»
grugnì Steve.
«Non me lo chiedere, Steve.
Lasciami solo andare. Questa è l'ultima volta». Si contorse per la
sofferenza, e strinse i pugni. «Ti prego!»
Steve guardò la finestra. Il
vento freddo dell'autunno turbinava in mezzo agli alberi. «Va bene.
Ma sta per nevicare. Non capisco perchè tu voglia...»
Lori corse a prendere il
cappotto nello sgabuzzino. «Sarò di ritorno in tempo per preparare
la cena!» gridò felice. Uscì di corsa sul portico, allacciandosi
il cappotto con il cuore in tumulto. C'era appena un leggero rossore
di eccitazione sulle sue guance quando richiuse la porta dietro di
lei, mentre il sangue le pulsava nelle vene.
Il vento freddo la schiaffeggiò
e le scompigliò i capelli, quasi volesse aggredirla. Inspirò a
fondo e cominciò a scendere i gradini.
Camminò rapidamente lungo il
campo verso la brulla distesa di colline. A parte il vento non
c'erano altri rumori. Si toccò la tasca. La foglia secca le punse
dolorosamente la pelle.
«Sto arrivando...», disse con
un filo di voce, un po' spaventata. «Eccomi...»
La donna continuò a salire
sempre più in alto. Attraversò una profonda fenditura fra due
costoni rocciosi. Grosse radici di vecchi ceppi d'albero spuntavano
da ogni parte. Seguì il letto asciutto di un ruscello che seguiva un
percorso tortuoso e serpeggiante.
Dopo un po' di tempo si ritrovò
in mezzo ad una nebbia bassa. Giunta in cima alla collina si fermò,
ansimando, e si guardò indietro.
Qualche goccia di pioggia
smuoveva le foglie intorno a lei. Il vento aveva ricominciato a
scuotere i grandi vecchi alberi lungo il fianco della collina. Lori
si voltò e riprese la marcia a testa bassa, con le mani affondate
nelle tasche del cappotto.
Si trovava su un campo roccioso
ricoperto da erbacce e foglie morte. Dopo un po' giunse ad un muretto
di recinzione crollato e ridotto ad un mucchio di sassi, e lo superò
con un salto. Poi raggiunse un pozzo semidistrutto, quasi pieno di
terra e detriti.
Il cuore le batteva più forte,
palpitando per l'eccitazione. Era quasi arrivata. Oltrepassò i resti
di una costruzione, assi di legno ricurve e vetri infranti, e qualche
sparso pezzo di mobilio rovinato. Un vecchio pneumatico di automobile
cotto e crepato dal sole. Alcuni brandelli di stoffa infradiciata
ricoprivano delle vecchie reti rugginose e ripiegate.
Ed eccolo lì... proprio davanti
a lei.
Lungo il limitare del campo
c'era un bosco di vecchi alberi. Alberi privi di vita, rinseccoliti e
morti, magri fusti anneriti che si protendevano nudi verso il cielo.
Rami spezzati e infilati nel terreno. File e file di alberi, tutti
morti, alcuni ripiegati e pendenti, quasi strappati alla terra dalla
violenza continua del vento.
Lori attraversò il campo e
giunse fino agli alberi, con i polmoni che le facevano male. Il vento
le si scagliava contro senza tregua, gettandole in faccia e dentro il
naso la nebbia che sapeva di sporco. La sua pelle delicata era umida
e scintillante. Lori tossì e affrettò il passo, saltellando sulle
rocce e sulle zolle di terra, e tremando per la paura e per
l'aspettativa.
Girò intorno al folto di
alberi, sfiorando il ciglio della collina, e si inoltrò con cautela
in mezzo all'ammasso scivoloso di rocce. Poi...
Si immobilizzò, irrigidendosi.
Il petto andava su e giù per lo sforzo di respirare. «Sono venuta»,
rantolò.
Per lungo tempo guardò il
vecchio melo avvizzito. Non riusciva a distoglierne gli occhi. La
vista di quell'albero antico l'affascinava e la respingeva allo
stesso tempo. Era l'unico ancora vivo, l'unico di tutto il bosco che
avesse ancora una scintilla di vita. Tutti gli altri erano morti,
secchi. Avevano perso la forza. Ma quest'albero si aggrappava ancora
alla vita.
Era una pianta dura e desolata.
Aveva solo qualche foglia scura... e poche mele malconce, rinsecchite
e segnate dal vento e dalla nebbia. Erano rimaste attaccate ai rami,
dimenticate e neglette. Il terreno intorno all'albero era butterato e
brullo, pieno di sassi e di mucchi informi di foglie marce.
«Sono venuta», ripeté Lori.
Prese la foglia dalla tasca dei jeans e la protese con un po' di
timore. «Questa batteva alla finestra. Ho capito subito, quando l'ho
sentita». Sorrise maliziosamente, piegando le labbra rosse.
«Continuava a battere, e cercava di entrare. L'ho ignorata. Era
così... così impetuosa. Mi dava fastidio».
L'albero ondeggiò
minacciosamente e i suoi rami nodosi si toccarono. Qualcosa in quel
suono fece retrocedere Lori, mentre il terrore si faceva strada
dentro di lei. Corse verso il ciglio della collina, cercando
freneticamente di portarsi al sicuro.
«Non farlo», disse con un filo
di voce. «Ti prego».
Il vento cessò, e l'albero
tornò silenzioso. Per un lungo tempo Lori lo guardò con
apprensione.
Stava scendendo la notte, e il
cielo diventava rapidamente buio. Una raffica di vento più freddo
colpì la donna, facendola quasi cadere. Lei rabbrividì, e cercò di
opporre resistenza, stringendosi addosso il lungo cappotto. In
lontananza il fondovalle stava scomparendo nell'ombra, occultato
dall'enorme nuvola della notte.
In mezzo a quella nebbia scura
l'albero aveva un aspetto rigido e sinistro, più minaccioso del
solito. Qualche foglia si staccò e il vento la sollevò, facendola
mulinare. Una passò accanto a Lori e lei cercò di prenderla, ma la
foglia le sfuggì, e tornò quasi danzando verso l'albero. Lei la
seguì per un breve tratto e poi si fermò, ansimando e ridendo.
«No», disse con decisione, le
mani sui fianchi. «Non lo farò».
Vi fu silenzio. All'improvviso i
mucchi di foglie marce si sollevarono in un turbine furioso intorno
all'albero. Poi si calmarono, tornando a terra.
«No», disse Lori. «Non ti
temo. Tu non puoi farmi del male». Ma il cuore le martellava in
petto per la paura. Indietreggiò un poco.
L'albero rimase silenzioso. I
suoi rami sottili
erano immobili.
Lori trovò il coraggio. «Questa
è l'ultima volta che posso venire», affermò. «Steve mi ha detto
di non venire più. Non gli piace».
Attese, ma l'albero non rispose.
«Sono seduti in cucina, tutti e
due. A fumare sigari e bere caffè. E a fare i conti delle fatture».
Arricciò il naso. «Fanno sempre quello. Sommano e sottraggono
fatture. Conti. Guadagni e perdite. Tasse governative. La
svalutazione dell'attrezzatura».
L'albero non si mosse.
Lori fu scossa da un brivido.
Aveva cominciato a piovere, grosse gocce gelate che le scivolavano
sulle guance, lungo il collo e dentro l'ampio cappotto.
Si avvicinò all'albero «Non
tornerò più. Non ci vedremo più. Questa è l'ultima volta. Volevo
dirtelo...»
L'albero si mosse. I
suoi rami si
animarono di una vita repentina. Lori sentì qualcosa di duro e
sottile stringerle la spalla. Qualcosa le si arrotolò attorno alla
vita, tirandola in avanti.
Lottò disperatamente, tentando
di liberarsi. All'improvviso l'albero la lasciò, e lei indietreggiò
incespicando, e ridendo, e tremando per la paura. «No!» rantolò.
«Non mi avrai!» Corse verso il ciglio della collina. «Non mi avrai
mai più. Capito? E non ho paura di te!»
Rimase in piedi in attesa,
rabbrividendo per il freddo e per il timore. Improvvisamente si voltò
e scappò via lungo il fianco della collina, scivolando e cadendo
sulle pietre viscide, travolta da un terrore cieco. Corse a
perdifiato giù per l'erta ripida, afferrandosi alle radici ed alle
erbacce...
Qualcosa rotolò accanto alla
sua scarpa. Qualcosa di piccolo e duro. Si chinò e la raccolse.
Era una piccola mela avvizzita.
Lori alzò gli occhi su per la
collina, verso l'albero, che era quasi scomparso nella nebbia
turbinante. Troneggiava, stagliandosi contro il cielo nero, immobile
e saldo come un pilastro.
Lori infilò la mela nella tasca
del cappotto e continuò a discendere lungo il fianco della collina.
Quando raggiunse il fondovalle tirò fuori la mela dalla tasca.
Era tardi. Cominciava a sentire
fame. Le vennero in mente all'improvviso la cena, la cucina calda, la
tovaglia bianca del tavolo, lo stufato fumante e i biscotti.
Mentre camminava cominciò a
mordicchiare la piccola mela.
Lori si alzò a sedere nel
letto, tirandosi via di dosso le coperte. La casa era buia e
silenziosa, e pochi rumori notturni giungevano debolmente da lontano.
Era mezzanotte passata. Steven dormiva tranquillamente accanto a lei,
girato dalla parte opposta.
Che cosa l'aveva svegliata? Lori
scosse la testa, scostandosi dagli occhi i lunghi capelli neri. Che
cosa...
Uno spasimo di dolore le esplose
dentro. Ansimò e si portò le mani allo stomaco. Per un po'di tempo
si torse in silenzio, stringendo i denti e dondolandosi avanti e
indietro.
Il dolore svanì, e Lori si
piegò all'indietro, emettendo un debole grido, appena udibile.
«Steve...»
Steve si mosse e si girò un
poco, russando nel sonno.
Il dolore tornò. Più forte di
prima. Lei cadde a faccia avanti, stravolta dal dolore che sembrava
lacerarla, e strapparle le viscere. Urlò tutta la sua paura e il suo
tormento.
Steve balzò a sedere. «Per
l'amor del cielo...» Si strofinò gli occhi e accese la luce. «Che
diavolo...»
Lori giaceva sul fianco,
ansimando e gemendo, con gli occhi sbarrati e i pugni stretti premuti
sullo stomaco. Il dolore era spasmodico e bruciante, la divorava e la
consumava.
«Lori!» esclamò Steven con
voce roca. «Cosa c'è?»
Lei gridò, e gridò ancora,
finché tutta la casa non rimbombò delle sue urla. Scivolò dal
letto sul pavimento, contorcendo tutto il corpo, stravolta in viso.
Ed giunse di corsa nella stanza,
stringendosi addosso l'accappatoio. «Cosa succede?»
I due
uomini fissarono impotenti la donna stesa sul pavimento.
«Buon Dio», disse Ed, e chiuse
gli occhi.
La giornata era fredda e buia.
La neve cadeva silenziosa sulle strade e sulle case, e sopra
l'ospedale della provincia dai mattoni rossi. Il dottor Blair
percorse lentamente il vialetto di ghiaia diretto verso la sua Ford.
Salì a bordo e girò la chiave di accensione. Il motore si accese e
lui tolse il freno a mano.
«La chiamerò più tardi»,
disse il dottor Blair. «Ci sono alcune incombenze».
«Lo so», mormorò Steve. Era
ancora sbalordito, e aveva il viso rosso e gonfio per non aver
dormito.
«Le ho lasciato dei sedativi.
Cerchi di riposare un po'».
«Lei pensa», gli chiese
all'improvviso Steve, «che se le avessimo telefonato prima...»
«No». Blair lo guardò con
comprensione. «Non lo credo. In un caso come questo non ci sono
molte possibilità. Non nella fase critica».
«Allora è stata
un'appendicite?»
Blair annuì. «Sì».
«Se non abitassimo così
dannatamente lontani», disse amaramente Steve. «Sperduti in mezzo
alla campagna. Niente ospedale. Niente di niente. A chilometri di
distanza da una città. E all'inizio non ci eravamo resi conto
che...»
«Be', ormai non c'è più
niente da fare». La Ford si mosse appena. Il dottore fu colto da un
pensiero improvviso. «Un'altra cosa».
«Cosa?» disse Steven, con
espressione vacua.
Blair esitò. «L'autopsia...
Non penso che in questo caso ce ne sia bisogno. Ne sono convinto
ma... volevo chiederle...»
«Cosa?»
«C'è qualcosa che sua moglie
può aver inghiottito? Metteva qualcosa in bocca? Degli aghi, magari,
mentre cuciva. O spille, monete, qualcosa del genere? Semi? Ha
mangiato un'anguria? A volte l'appendice...»
«No». Steve scosse stancamente
la testa. «Non lo so».
«Era soltanto un'idea». Il
dottor Blair guidò lentamente lungo la stretta strada costeggiata
dagli alberi, lasciando due segni neri, due righe sul terreno che
macchiarono il manto pallido e scintillante di neve.
Giunse la primavera, calda e
assolata. Il terreno tornò ad essere nero e fertile. In alto
splendeva il sole, un globo bianco e rovente, pieno di energia.
«Fermati qui», mormorò Steve.
Ed Patterson
fermò
l'automobile sul lato della strada e spense il motore. I
due uomini
rimasero seduti in silenzio, senza che nessuno dicesse una parola.
In fondo alla strada c'erano dei
bambini che giocavano. Uno studente di liceo stava rasando un prato,
spingendo la falciatrice sull'erba umida. La strada era ombreggiata
dai grandi alberi che crescevano lungo i lati.
«Un bel posto», disse Ed.
Steve annuì senza rispondere.
Era di cattivo umore; guardò una ragazza che passava vicino con una
borsa della spesa sotto il braccio. La ragazza salì i gradini di un
portico e scomparve all'interno di una casa gialla in stile antico.
Steve aprì la portiera.
«Andiamo. Facciamola finita».
Ed prese la corona di fiori dal
sedile posteriore e la mise in grembo al figlio. «Dovrai portarla
tu. Tocca a te».
«D'accordo». Steve prese i
fiori e mise i piedi a terra.
I due
uomini percorsero insieme la strada, silenziosi e immersi nei loro
pensieri.
«Ormai sono sette o otto mesi»,
disse all'improvviso Steve.
«Come minimo». Mentre
camminavano Ed si accese il sigaro, emettendo sbuffate di fumo
grigio. «Forse un po' di più».
«Non avrei mai dovuto
permetterle di andare lassù. Era sempre vissuta in città, e non
sapeva niente della campagna».
«Sarebbe successo comunque».
«Se fossimo stati più vicini a
un ospedale...»
«Il dottore ha detto che non
avrebbe fatto nessuna differenza. Anche se lo avessimo chiamato
subito invece di aspettare la mattina». Giunti all'angolo
svoltarono. «E come sai...»
«Lascia perdere», lo
interruppe Steve, improvvisamente nervoso.
I rumori
dei bambini erano svaniti alle loro spalle, e le case erano
scomparse. Il rumore dei loro passi sull'asfalto rimbombava nel
silenzio.
Giunsero ad una piccola salita,
oltre la quale c'era un grosso recinto di ottone che correva lungo un
piccolo campo. Un campo verde, pulito e regolare. Attraversato da
lapidi di marmo sistemate in file regolari.
«Siamo arrivati», disse Steve
a denti stretti.
«Lo tengono bene».
«Si può entrare da questa
parte?»
«Proviamo». Ed cominciò a
camminare lungo il recinto di ottone in cerca di un ingresso.
Steve si fermò di scatto
borbottando qualcosa, e fissò il cimitero, bianco in volto.
«Guarda».
«Cosa c'è?» Ed si infilò gli
occhiali per vedere. «Che stai guardando?»
«Avevo ragione», disse Steve
con voce bassa e indistinta. «Lo sapevo che c'era qualcosa. L'ultima
volta che sono venuto qui... l'ho visto. Lo vedi?»
«Non ne sono sicuro. Vedo
l'albero, se è quello che vuoi dire».
Nel mezzo del prato ben rasato
il piccolo melo si ergeva orgoglioso. Le foglie lucide scintillavano
alla calda luce del sole. Il giovane albero era forte e florido.
Ondeggiava sicuro al vento, il tronco flessibile inumidito dalla
dolce linfa primaverile.
«Sono rosse»,
disse Steve con voce
soffocata. «Sono già rosse. Come diavolo fanno ad essere rosse? È
solo aprile. Come possono essere già così rosse?»
«Non lo so», disse Ed. «Non
mi intendo di mele». Uno strano senso di freddo lo attraversò. Ma i
cimiteri lo facevano sentire a disagio. «Forse sarebbe meglio
andarcene».
«Le sue guance erano di quel
colore», disse Steve, con un filo di voce. «Dopo che aveva corso.
Ti ricordi?»
I due
uomini fissarono come istupiditi il piccolo melo, i suoi frutti rossi
e brillanti al sole primaverile e i rami che si agitavano dolcemente
al vento.
«Certo che me ne ricordo»,
rispose Ed, serio. «Andiamo». Tirò insistentemente il figlio per
un braccio, dimenticando la corona di fiori. «Dai, Steve.
Andiamocene di qui».