LA PECORA NERA
( Umorismo e sarcasmo le armi di H. Böll. In "La pecora nera" [nel volume Racconti umoristici e satirici, 1964] per registrare i primi sintomi della società del benessere egli usa un’ironia burlesca e deformante, in una gamma che va da un fiabesco apparentemente innocuo ad un sarcasmo avvelenato.)
La pecora nera
Pare che sia io il predestinato a far sì che nella mia generazione non venga interrotta la catena genetica delle pecore nere. Una ce ne deve essere, e quell’una sono io. I saggi membri della nostra famiglia affermano che l’influsso esercitato su di me dallo zio Otto non è stato buono. Lo zio Otto era la pecora nera della generazione precedente ed anche mio padrino di battesimo.
Qualcuno doveva pur essere e quell’uno era lui. Naturalmente lo avevano scelto come padrino prima di sapere che sarebbe diventato un fallito; anche me, me hanno scelto come padrino di un ragazzino che ora – ora che mi si ritiene la pecora nera – è timorosamente tenuto lontano da me. In fondo ci dovrebbero essere grati, perché una famiglia che non ha pecore nere, non è una famiglia caratteristica.
La mia amicizia con lo zio Otto cominciò presto: veniva spesso da noi, portava più dolci di quanto mio padre ritenesse giusto, parlava, parlava e finiva sempre in un tentativo di chiedere soldi in prestito. Lo zio Otto era un ben informato, non c’era campo in cui non fosse ferratissimo: sociologia, letteratura, musica, architettura, tutto; e realmente sapeva tutto. Persino competenti e specialisti in quelle materie conversavano volentieri con lui, lo trovavano intelligente, stimolante, straordinariamente simpatico, finché non li snebbiava lo choc della richiesta del denaro, che seguiva.
Perché questo era il terrificante; non infuriava solo nella parentela, ma tendeva i suoi trabocchetti anche là, ovunque gli pareva valesse la pena. Tutti erano del parere che potesse trasformare in denaro il suo sapere – così si diceva nella generazione passata – ma lui non trasformava in denaro quello che sapeva, lui trasformava in denaro i nervi dei parenti.
Resta il suo segreto come mai riuscisse a dare l’impressione che quel giorno non l’avrebbe fatto. Ma lo faceva lo stesso. Regolarmente. Inesorabilmente. Credo che fosse più forte di lui rinunciare ad una occasione. I suoi discorsi erano affascinanti, così ricchi di vera passione, sottilmente costruiti, brillanti e spiritosi, annientavano gli antagonisti, elevavano gli amici; egli sapeva parlare troppo bene perché si potesse credere che dovesse arrivare a... e invece ci arrivava. Sapeva come si curano i neonati, sebbene non avesse mai avuto bambini, avvolgeva le signore in conversazioni incredibilmente interessanti, sulla dieta o su malattie particolari, proponeva tipi
di cipria, scriveva ricette di pomate su foglietti, regolava la qualità e la quantità delle
loro bevande, insomma sapeva come si trattano le donne: un bambino urlante affidato
a lui, si calmava subito. Qualcosa di magico emanava dalla sua persona. Nella stessa
maniera perfetta analizzava la nona sinfonia di Beethoven, scriveva componimenti
giuridici, citava a memoria i numeri della legge in questione...
Ma sempre, non importa dove e su che argomento fosse stata la conversazione,
quando si avvicinava la fine e arrivava inesorabile il congedo, per lo più nell’ingresso
mentre la porta era già socchiusa a metà, ricompariva ancora una volta, con la sua
faccia pallida e i vivaci occhi scuri, e come se fosse qualcosa di assolutamente secondario, mentre l’intera famiglia angosciata aspettava, diceva rivolto al capofamiglia — A proposito, mi potresti... — Le somme che chiedeva oscillavano fra uno e 50 marchi. Cinquanta era il massimo; nel corso dei decenni si era creata una specie di legge sottintesa che non dovesse mai chiedere più di cinquanta marchi. — A breve scadenza, — aggiungeva. A breve scadenza era la sua parola preferita. Poi, ritornava, appoggiava ancora una volta il cappello all’attaccapanni, si toglieva la sciarpa e cominciava a spiegare per che cosa gli occorreva il denaro. Aveva sempre dei
progetti, progetti infallibili. Non aveva mai direttamente bisogno di soldi per sé ma
sempre per dare alla sua esistenza una base sicura. I suoi progetti oscillavano fra una
baracchina di bibite – dalla quale si riprometteva regolari, e sicure entrate, e la fondazione di un partito politico, che avrebbe dovuto preservare l’Europa dalla rovina. La
frase: — A proposito, potresti... — divenne nella nostra famiglia sinonimo di terrore:
c’erano donne, zie, prozie, nipoti addirittura che alla parola “a breve scadenza”
stavano per svenire.
Lo zio Otto, quando poi correva giù per le scale ritengo che fosse del tutto felice:
se ne andava nel locale più vicino, per riflettere sui suoi progetti. Pensava con un
cognac oppure con tre bottiglie di vino davanti a seconda della somma che era
riuscito ad ottenere in prestito.
Non voglio tacere più a lungo: lo zio beveva. Beveva, eppure nessuno lo aveva mai
visto ubriaco. Inoltre sembrava che sentisse il bisogno di bere da solo. Offrirgli da
bere, per evitare la richiesta del prestito, non aveva senso. Una botte intera di vino
non lo avrebbe trattenuto, al momento di congedarsi, all’ultimo momento, di infilare
ancora la testa nella porta socchiusa e domandare: — A proposito, non potresti, a
breve scadenza...
Ma la sua qualità peggiore finora l’ho taciuta: qualche volta restituiva il denaro.
Sembra pure che qualche volta guadagnasse qualcosa, dando di tanto in tanto –
almeno credo – come ex-procuratore, dei pareri legali. Allora arrivava, prendeva una
banconota dalla tasca, la lisciava con doloroso amore e diceva: — Sei stato così
gentile da aiutarmi, ecco qui, i cinque marchi.
Poi se ne andava molto presto e ritornava al più tardi due giorni dopo per chiedere
una somma che era un po’ più alta di quella che aveva restituito. Resta il suo segreto,
quello di essere riuscito a vivere fino a quasi sessantanni, senza avere quello che noi
siamo abituati a chiamare una vera professione.
E non morì davvero di una malattia che potesse avere a che fare con la sua
passione per il bere. Era sanissimo, il suo cuore funzionava meravigliosamente ed il
suo sonno assomigliava a quello di un fiorente neonato che, gonfio di latte, dorme
con la coscienza tranquilla fino alla prossima poppata. No, morì improvvisamente, un
incidente pose fine alla sua vita e quello che si verificò dopo la sua morte è la cosa
più misteriosa dello zio Otto.
Lo zio, come ho detto, morì per un incidente. Fu travolto da un camion con tre
rimorchi, in mezzo al traffico della città e fu una fortuna che un onest’uomo lo
sollevasse, lo consegnasse alla polizia e ne informasse la famiglia. Nelle sue tasche fu
ritrovato un portamonete che conteneva una medaglia della Madonna, un tesserino
del tram con due buchi di due andate e ventiquattromila marchi in contanti, più la
copia di una ricevuta che aveva firmato al ricevitore della lotteria. Non doveva essere
stato in possesso del denaro più a lungo di un minuto, forse ancora meno, quando l’autocarro lo investì, appena a cinquanta metri dal botteghino del ricevitore della
lotteria. Quello che seguì fu per la famiglia davvero qualcosa di umiliante.
Nella sua camera regnava la povertà: tavolo, sedia, letto e armadio, un paio di libri
e una grossa agenda e in questa agenda un elenco preciso di tutti coloro cui doveva
del denaro, compresa l’annotazione di un prestito della sera avanti che gli aveva
fruttato quattro marchi. Inoltre un brevissimo testamento che mi nominava suo erede.
Mio padre, quale esecutore testamentario, venne incaricato di pagare i debiti. Le liste
dei creditori dello zio Otto riempivano davvero un intero quaderno e le sue prime
annotazioni risalivano agli anni in cui aveva interrotto la sua carriera giuridica –
faceva allora tirocinio in tribunale – e si era dato a tutt’altri progetti, la cui elabora-
zione gli era costata tanto tempo e tanto denaro. I suoi debiti ammontavano comples-
sivamente a quasi quindicimila marchi ed il numero dei suoi creditori superava i
settecento, a cominciare da un tranviere che gli aveva anticipato trenta pfennig per un
biglietto doppio, col quale era arrivato da mio padre, che doveva avere complessivamente duemila marchi perché per lo zio Otto lui era la persona più facile da
abbordare per chiedere quattrini in prestito.
Il giorno dei funerali – strana coincidenza – entravo in maggiore età, ero quindi
autorizzato ad entrare in possesso dell’eredità di diecimila marchi. Interruppi subito i
miei studi appena cominciati per dedicarmi a progetti di altro genere. Nonostante le
lacrime dei miei genitori, me ne andai di casa per abitare nella camera dello zio Otto:
la camera esercitava su di me una immensa attrazione, e ci abito ancora oggi sebbene
i miei capelli abbiano cominciato da tempo a diradarsi. L’inventario della camera non
si è impoverito né arricchito. Oggi so che molte cose le ho cominciate dalla parte
sbagliata. Non aveva senso tentare di diventare musicista, addirittura compositore,
senza aver talento musicale. Oggi lo so, ci sono voluti tre anni di studio inutile, con la
certezza di guadagnarmi la fama di perdigiorno, ed in più tutta l’eredità se n’è andata
in questo, ma ormai è tempo passato.
Non ricordo più la successione cronologica dei miei progetti: erano troppi. I
periodi di tempo di cui avevo bisogno per riconoscere che erano progetti senza senso
e senza costrutto diventavano sempre più brevi. In ultimo, un progetto durò solo tre
giorni, durata troppo breve, sia pure per un progetto. La durata dei miei progetti
diminuì così rapidamente che in ultimo erano soltanto pensieri che lampeggiavano e
apparivano per poco e nessuno li poteva spiegare perché nemmeno per me erano del
tutto chiari. Se ripenso che in fondo mi sono dedicato per tre mesi alla fisiognomica(13)
per arrivare da ultimo nello spazio di un solo pomeriggio a voler diventare pittore,
giardiniere, meccanico e marinaio, ad addormentarmi col pensiero di essere nato per
fare l’insegnante e a risvegliarmi invece con la profonda convinzione che la carriera
doganale fosse la mia vocazione!
Detto in breve non possedevo né l’amabilità dello zio Otto, né la sua costanza, e
poi io non sono un parlatore, quando sono con la gente sto seduto, muto, non parlo,
l’annoio e i miei tentativi di spillare denaro in prestito, li presento in maniera così
improvvisa e poco riguardosa, nel più profondo silenzio, da avere il sapore del
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(13) Disciplina pseudoscientifica che pretende di dedurre i caratteri psicologici e morali di una persona dal suo aspetto fisico, soprattutto dai lineamenti e dalle espressioni del volto. (N.d.R.)
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ricatto. Solo con i bambini ci so fare, per lo meno questa è una qualità che sembra
abbia positivamente ereditato dallo zio Otto!
I neonati si calmano appena sono fra le mie braccia e quando mi guardano,
sorridono, se sanno già sorridere, sebbene si dica che il mio viso fa paura alla gente.
Persone maligne mi hanno consigliato di fondare – come primo rappresentante
maschile – la categoria dei maestri-giardinieri e concludere così la mia infinita
politica pianificatrice con la realizzazione di questo piano. Ma non lo faccio. Credo
che questa sia la cosa principale, che ci rende, noi pecore nere, impossibili: che non
riusciamo a trasformare in denaro le nostre qualità reali: o come si dice ora, a sfrut-
tarle economicamente. Ad ogni modo questo è certo: se io sono una pecora nera – io
stesso non ne sono davvero convinto – ma se lo sono, rappresento una specie diversa
da quella dello zio Otto: non possiedo la sua leggerezza, non ho il suo charme e poi i
miei debiti mi opprimono, mentre a lui, era chiaro che non pesavano troppo.
E poi io ho fatto qualcosa di terribile; ho capitolato, ho pregato per ottenere un
posto, ho scongiurato la famiglia di aiutarmi a trovare un impiego, di mettere in
azione le sue relazioni per assicurarmi una volta, almeno una volta, un pagamento
sicuro per un determinato lavoro. E ci sono riuscito.
Dopo aver formulato a voce e per iscritto le mie calde, ardenti, urgenti preghiere,
quando queste furono prese sul serio e realizzate, io feci quello che fino allora
nessuna pecora nera aveva mai fatto: non mi tirai indietro, non li lasciai in asso,
accettai il posto che avevano trovato per me. Sacrificai qualcosa che non avrei mai
dovuto sacrificare: la mia libertà.
Ogni sera, tornando a casa stanco, ero irritato che fosse trascorso ancora un giorno
della mia vita che mi aveva portato solo stanchezza, rabbia e tanto denaro quanto era
necessario per continuare a lavorare, se si può chiamare lavoro questa occupazione:
metter in ordine alfabetico dei conti, forarli e fissarli in una cartella nuova fiammante
dove sopportano pazienti il loro destino, quello di non venir mai pagati. Oppure
scrivere lettere di propaganda, che spedite in giro, sono solo un peso inutile per il
postino: qualche volta scrivere anche fatture che qualche volta vengono addirittura
pagate subito.
Dovevo trattare con viaggiatori che si sforzavano inutilmente di smerciare quella
robaccia fabbricata dal nostro principale. Il nostro principale – quell’animale inquieto
che non ha mai tempo e non fa mai niente – e testardo dissipa in chiacchiere le
preziose ore del giorno – esistenza mortalmente insignificante – che non osa confes-
sare a se stesso la misura dei suoi debiti, che si bilancia di bluff in bluff, un acrobata
di palloncini gonfiati che comincia a gonfiarne uno proprio mentre quell’altro
scoppia: resta solo uno schifoso straccetto di gomma che un minuto prima era ancora
teso di vita e lucentezza e vigore.
Il nostro ufficio era proprio vicino alla fabbrica dove una dozzina di operai metto-
no insieme quei mobili che si comprano per essere irritati poi tutta la vita dalla loro
presenza, se non ci si decide tre giorni dopo a farne legna: tavolini da fumo, da
lavoro, minuscoli cassettoni, piccole sedie artificiosamente dipinte che si rompono
appena vi si siedono bambini di tre anni, piccoli supporti per vasi di fiori o piante,
ciarpame di second’ordine che sembra dover la vita all’arte di un ebanista e che
invece deve la sua bellezza apparente – che serve a giustificare i prezzi – ad un
cattivo verniciatore che li copre di colore, venduto per lacca.
Trascorsi così i miei giorni, l’uno dopo l’altro – in tutto quasi quindici – nell’ufficio di quest’uomo senza intelligenza che prendeva sul serio se stesso, che oltretutto
si riteneva un artista, perché qualche volta (successe una volta sola quando c’ero io)
si metteva davanti alla tavola da disegno a manovrare con carta e matite per ideare un
qualche instabile aggeggio, malsicuro, – portafiori o nuovo bar – ulteriore irritazione
alle generazioni.
La mortale inutilità dei suoi oggetti sembrava non capirla.
Dopo che aveva disegnato un aggeggio simile – accadde solo una volta – ripeto –
nel tempo in cui c’ero anch’io – partiva a razzo con una macchina per una pausa
creativa che durava otto giorni, mentre aveva lavorato solo un quarto d’ora. Il disegno
veniva poi buttato là al maestro-esecutore che lo metteva sul bancone, lo studiava con
la fronte aggrottata, poi esaminava le riserve di legno per mettere in moto la
produzione. Per giorni interi vedevo poi – dietro i vetri impolverati dell’officina – lui
la chiamava fabbrica – ammonticchiarsi le nuove creazioni: mensole o tavolini per la
radio che valevano appena la colla che si era sprecata per loro.
Usabili erano solo gli oggetti che gli operai – senza che il principale lo sapesse – si
fabbricavano, quando la sua assenza era garantita per alcuni giorni: panchettini o
cassettine portagioie di un’allegra e solida semplicità: i pronipoti cavalcheranno
ancora su quei panchettini o conserveranno le loro cianfrusaglie in quelle cassettine;
comodi asciugabiancheria su cui sventoleranno ancora la camicie di diverse generazioni. Così le cose utili e consolanti erano create illegalmente.
In questo mio intermezzo di attività professionale, la vera personalità che incontrai
e che mi fece impressione fu il controllore del tram che con la sua tenaglia rendeva
nulla la giornata: sollevava quel minuscolo pezzettino di carta, il mio tesserino settimanale, lo spingeva nel muso aperto della sua tenaglia ed un inchiostro che scorreva
invisibilmente segnava due centimetri: un giorno della mia vita era scaduto, un
prezioso giorno che mi aveva portato rabbia e tanto denaro quanto era necessario per
continuare questa mia occupazione senza senso. C’era una grandezza fatale in
quell’uomo vestito della semplice uniforme delle tranvie cittadine che poteva – ogni
sera – dichiarare nulli i giorni di migliaia di uomini.
Ancora oggi mi irrita il fatto di non essermi licenziato prima che fossi quasi
costretto a licenziarmi dal mio principale, di non avergli sbattuto via i suoi aggeggi
prima che fossi quasi costretto a sbatterglieli via; perché un giorno la mia affittacamere condusse nel mio ufficio un uomo dallo sguardo torvo che mi si presentò come
ricevitore della lotteria e mi dichiarò che sarei stato il possessore di una fortuna di
50.000 marchi, nel caso che io fossi il tal dei tali e nelle mie mani si trovasse il tal e
tal biglietto.
Beh, io ero il tal dei tali e quel biglietto era nelle mie mani.
Abbandonai subito il mio impiego, senza licenziarmi, mi presi la responsabilità di
lasciare le fatture in disordine, non forate, e non mi restò altro da fare che andare a
casa, incassare il denaro e far sapere alla parentela, per mezzo del postino che portava
i soldi, del nuovo stato di cose.
Era chiaro che si aspettasse che io morissi o fossi vittima di un incidente; ma, per
ora, non pare che ci sia una macchina destinata a rubarmi la vita ed il mio cuore è
sanissimo, anche se non disdegno assolutamente le bottiglie. Così, dopo aver pagato i
miei debiti, sono in possesso di un patrimonio di quasi 30.000 marchi, liberi da tasse,
sono uno zio molto ricercato che improvvisamente può ancora avvicinare il suo
figlioccio.
I bambini poi mi vogliono bene, e adesso posso giocare con loro, comprare palle,
offrire loro un gelato, il gelato con la panna, posso comprare giganteschi grappoli di
palloncini colorati, popolare con la loro allegra schiera le giostre e le altalene.
Mentre mia sorella ha comprato subito a suo figlio – il mio figlioccio – un biglietto
della lotteria, io sono ora occupato a pensare per ore, a chi sarà il mio successore in
questa generazione che sta crescendo; chi di questi bimbi graziosi e fiorenti che
giocano e che i miei fratelli e sorelle hanno messo al mondo, sarà la pecora nera della
generazione seguente?
Perché noi siamo una famiglia caratteristica e restiamo tale. Chi sarà bravo e buono
fino al punto in cui cesserà di essere bravo e buono? Chi si vorrà improvvisamente
dedicare ad altri progetti migliori, infallibili? Vorrei saperlo, vorrei avvertirlo perché
anche noi abbiamo le nostre esperienze, anche la nostra professione ha le sue regole
di gioco che potrei insegnare al successore, che per ora è ancora sconosciuto e come
il lupo con la pelle di pecora, gioca nella schiera degli altri...
Ma ho l’oscura sensazione che non vivrò tanto a lungo da riconoscerlo e iniziarlo
ai segreti: comparirà, si rivelerà quando morirò e il turno sarà necessario, comparirà
col volto in fiamme, davanti ai genitori e dirà che ne ha abbastanza, e io spero in
segreto che sia rimasto ancora un po’ del mio denaro, perché ho cambiato il mio
testamento e ho lasciato il resto del mio patrimonio a quello che primo mostrerà i
segni non ingannevoli di colui che è destinato a succedermi.
La cosa più importante è che con loro non abbia più alcun debito.