domenica 24 gennaio 2021

IL CODICE DELL'ANIMA James Hillman



IL CODICE DELL'ANIMA 

James Hillman 

 EPIGRAFI A MO’ DI PREFAZIONE ... 

Il genio può essere confinato dentro un guscio di noce e ciò nonostante abbracciare tutta la pienezza della vita. THOMAS MANN 


Se la vita ha una base su cui poggia ... allora la mia senza dubbio poggia su questo ricordo. Quello di giacere mezzo addormentata, mezzo sveglia, sul letto nella stanza dei bambini a St. Ives. Di udire le onde frangersi, uno, due, uno, due ... dietro la tenda gialla. Di udire la tenda strascicare la sua piccola nappa a forma di ghianda sul pavimento quando il vento la muove. E di stare sdraiata e udire gli spruzzi e vedere questa luce e pensare: sembra impossibile che io sia qui... VIRGINIA WOOLF, «Immagini del passato» in Momenti di essere 

Il fatto di venire al mondo, di entrare in questo corpo particolare, di nascere da questi genitori e nel tal luogo, è in generale ciò che chiamiamo le condizioni esteriori della nostra vita: che tutti gli eventi formino una unità e siano intessuti assieme è espresso dalle Moire. PLOTINO, Enneadi, II, 3.15

 Moira? la forma compiuta del nostro destino, i suoi contorni. Il compito che gli dèi ci assegnano e la porzione di gloria che ci consentono; i limiti che non dobbiamo oltrepassare e la fine stabilita per noi. Moira è tutte queste cose. MARY RENAULT, Il re deve morire 

Quando tutte le anime si erano scelte la vita, secondo che era loro toccato, si presentavano a Lachesi. A ciascuna ella dava come compagno il genio [daimon] che quella si era assunto, perché le facesse da guardiano durante la vita e adempisse il destino da lei scelto. E il daimon guidava l’anima anzitutto da Cloto: sotto la sua mano e il volgere del suo fuso, il destino prescelto è ratificato. Dopo il contatto con Cloto, il daimon conduceva l’anima alla filatura di Atropo per rendere irreversibile la trama del suo destino. Di lì, senza voltarsi, l’anima passava ai piedi del trono di Necessità. PLATONE, Repubblica, X, 620d-e 

In ultima analisi, noi contiamo qualcosa solo in virtù dell’essenza che incarniamo, e se non la realizziamo, la vita è sprecata. C.G. JUNG Naturalmente, alla tesi secondo la quale noi ... non siamo altro che geni e ambiente si possono muovere obiezioni. Si può ripetere che no, c’è qualcos’altro. Ma se si prova a visualizzare la forma di questo altro o a definirlo con precisione, si scopre che è un’impresa impossibile, perché qualsiasi forza che non stia nei geni o nell’ambiente è al di fuori della realtà fisica quale è da noi percepita. Esula dal discorso scientifico ... Ma questo non significa che non esista. ROBERT WRIGHT, The Moral Animal 

Il significato è invisibile, ma l’invisibile non è in contraddizione con il visibile: del resto, il visibile ha una struttura interna invisibile e l’in-visibile è l’equivalente segreto del visibile. MAURICE MERLEAU-PONTY, Note di lavoro

Non trovo né nell’ambiente né  nell’ereditarietà l’esatto strumento che mi ha formato, l’anonimo rullo che ha impresso sulla mia vita quella certa intricata filigrana, il cui inimitabile motivo diventa visibile quando dietro il foglio protocollo della vita si accende la lampada dell’arte. VLADIMIR NABOKOV, Parla, ricordo 

La scienza ancora non è riuscita a scoprire molti dei profondi princìpi che possono mettere in relazione con le caratteristiche psicologiche del bambino l’azione di madri, padri o fratelli. JEROME KAGAN, La natura del bambino 

La cosiddetta esperienza traumatica non è un incidente, bensì l’occasione che il bambino stava pazientemente aspettando (e se non si fosse verificata quella, ne avrebbe trovata un’altra, ugualmente banale) per poter dare necessità e direzione alla propria esistenza, in modo che essa diventasse una faccenda importante. W.H. AUDEN Si può scoprire il proprio mistero solo a prezzo della propria innocenza. ROBERTSON DAVIES, Il quinto incomodo 

Avendo così poca esperienza, i bambini devono affidarsi all’immaginazione. ELEANOR ROOSEVELT, You Learn by Living 

L’immaginazione non conosce né inizio né fine, ma vive con gioia le proprie stagioni, scompaginandone l’ordine a piacere. WILLIAM CARLOS WILLIAMS, Kora all’Inferno 

Fu Karl Marx, mi pare, a dire che l’evoluzione andrebbe studiata a ritroso, con un occhio fisso alle specie così come si sono evolute, e l’altro rivolto all’indietro in cerca di indizi. JEROME S. BRUNER, Alla ricerca della mente 

Io non mi evolvo. Io sono. PABLO PICASSO 

Prima ancora della ragione vi è il movimento vòlto all’interno che tende verso ciò che è proprio. PLOTINO, Enneadi, III, 4.6 

Nell’evoluzione di tutti gli artisti, il germe delle opere successive è sempre contenuto nelle prime. Il nucleo intorno al quale l’intelletto dell’artista costruisce la propria opera è il suo io. L’unica influenza che io abbia mai avuto sono io stesso. EDWARD HOPPER 

Gli adolescenti avvertono dentro di sé una segreta e speciale grandezza che lotta per esprimersi. E quando cercano di spiegare questa cosa, istintivamente portano la mano al cuore: non è un indizio significativo? JOSEPH CHILTON PEARCE, Evolutions End 

Vorrei che capissi a fondo il mio pensiero riguardo al Genio e al Cuore. JOHN KEATS, Lettere 

È dunque questo che chiamano vocazione: la cosa che fai con gioia, come se avessi il fuoco nel cuore e il diavolo in corpo? JOSEPHINE BAKER 

Un metodo che vada bene per le opere minori ma non per quelle grandi è ovviamente partito dalla parte sbagliata ... Il luogo comune può essere compreso come una riduzione dell’eccezionale, l’eccezionale non può, invece, essere compreso dilatando il luogo comune. Sia logicamente sia causalmente, l’elemento decisivo è l’eccezionale, perché esso introduce (per quanto strano possa sembrare) la categoria più ampia. EDGAR WIND, «Un’osservazione sul metodo», in Misteri pagani nel Rinascimento 



IL CODICE DELL’ANIMA 

A Baby Joo, Cookie, Mutz e Boizie: quattro daimones 

LA TEORIA DELLA GHIANDA E LA REDENZIONE DELLA PSICOLOGIA Ci sono più cose nella vita di ogni uomo di quante ne ammettano le nostre teorie su di essa. Tutti, presto o tardi, abbiamo avuto la sensazione che qualcosa ci chiamasse a percorrere una certa strada. Alcuni di noi questo «qualcosa» lo ricordano come un momento preciso dell’infanzia, quando un bisogno pressante e improvviso, una fascinazione, un curioso insieme di circostanze, ci ha colpiti con la forza di un’annunciazione: Ecco quello che devo fare, ecco quello che devo avere. Ecco chi sono. Questo libro ha per argomento quell’annuncio. O forse la chiamata non è stata così vivida, così netta, ma più simile a piccole spinte verso un determinato approdo, mentre ci lasciavamo galleggiare nella corrente pensando ad altro. Retrospettivamente, sentiamo che era la mano del destino. Questo libro ha per argomento quel senso di destino. Tali annunci e tali sensazioni determinano una biografia con altrettanta forza dei ricordi di violenze terribili; solo che quegli enigmatici momenti tendono a essere relegati in un angolo. Le nostre teorie, infatti, danno la preferenza ai traumi, e al compito che essi ci impongono di elaborarli. Ma, nonostante le offese precoci e tutti i «sassi e dardi della oltraggiosa sorte», noi rechiamo impressa fin dall’inizio l’immagine di un preciso carattere individuale dotato di taluni tratti indelebili. Questo libro ha per argomento la potenza di quel carattere. Poiché le teorie psicologiche della personalità e del suo sviluppo sono così fortemente dominate dalla visione «traumatica» degli anni infantili, la messa a fuoco dei nostri ricordi e il linguaggio con cui raccontiamo la nostra storia sono a priori contaminati dalle tossine di tali teorie. È possibile, invece, che la nostra vita non sia determinata tanto dalla nostra infanzia, quanto dal modo in cui abbiamo imparato a immaginarla. I guasti non ci vengono tanto dai traumi infantili, bensì – è quanto si sostiene in questo libro – dalla modalità traumatica con cui ricordiamo l’infanzia come un periodo di disastri arbitrari e provocati da cause esterne che ci hanno plasmati male. Questo libro, dunque, vuole riparare in parte a tali guasti, mostrando che cos’altro c’era, c’è, nella nostra natura. Vuole risuscitare le inspiegabili giravolte che ha dovuto compiere la nostra barca presa nei gorghi e nelle secche della mancanza di senso, restituendoci la percezione del nostro destino. Perché è questo che in tante vite è andato smarrito e va recuperato: il senso della propria vocazione, ovvero che c’è una ragione per cui si è vivi. Non la ragione per cui vivere; non il significato della vita in generale, o la filosofia di un credo religioso: questo libro non ha la pretesa di fornire risposte del genere. Esso vuole rivolgersi piuttosto alla sensazione che esiste un motivo per cui la mia persona, che è unica e irripetibile, è al mondo, e che esistono cose alle quali mi devo dedicare al di là del quotidiano e che al quotidiano conferiscono la sua ragion d’essere; la sensazione che il mondo, in qualche modo, vuole che io esista, la sensazione che ciascuno è responsabile di fronte a un’immagine innata, i cui contorni va riempiendo nella propria biografia. Quell’immagine innata è anch’essa l’argomento di questo libro, così come è l’argomento di ogni biografia – e nelle pagine seguenti ne incontreremo molte, di biografie. Quello della biografia è un problema che ossessiona la soggettività occidentale, come dimostra il suo abbandono alle terapie del Sé. Chi è in terapia, o è comunque toccato dalla riflessione terapeutica sia pure diluita nel bagno di lacrime delle confessioni in diretta TV, è alla ricerca di una biografia soddisfacente: Come posso mettere insieme in un’immagine coerente i pezzi della mia vita? Come posso rintracciare la trama di fondo della mia storia? Per scoprire l’immagine innata dobbiamo accantonare gli schemi psicologici generalmente usati – e per lo più usurati. Essi non rivelano abbastanza. Rifilano le vite per adattarle allo schema: crescita come sviluppo, una fase dopo l’altra, dall’infanzia attraverso una giovinezza tormentata fino alla crisi della mezza età e alla vecchiaia, e infine alla morte. Mentre procedi, un passo dopo l’altro, attraverso una mappa già tutta disegnata, ti ritrovi su un itinerario che ti dice dove sei stato prima ancora che tu ci sia arrivato, o nella media di una statistica calcolata da un attuario per conto di una compagnia di assicurazioni. Il corso della tua vita è stato descritto al futuro anteriore. Oppure, invece della prevedibile autostrada, sarà il «viaggio» fuori dagli itinerari battuti, in cui si accumulano e si scartano episodi senza un disegno, e gli eventi sono frantumati come in un curriculum vitae organizzato esclusivamente sulla base della cronologia: prima ho fatto Questo, poi Quest’altro. Una vita simile è come una narrazione priva di trama, tutta imperniata su una figura centrale sempre più tediosa, «io... io... io», che vagola nel deserto di «vissuti» senza più linfa. Io dico che siamo stati derubati della nostra vera biografia – il destino iscritto nella ghianda – e che entriamo in analisi per riappropriarcene. Ma l’immagine innata non si potrà ritrovare, finché non disporremo di una teoria psicologica che attribuisca realtà psichica primaria alla chiamata del destino. Altrimenti, la nostra identità continuerà a essere quella del consumatore dei sociologi, determinata da statistiche calcolate su campioni casuali, mentre le sollecitazioni del daimon, non riconosciute, appariranno come eccentricità costipate di aggressivi rancori e di paralizzanti nostalgie. La rimozione, che tutte le scuole terapeutiche considerano la chiave di accesso alla struttura della personalità, non riguarda il passato, bensì la ghianda, e gli errori che in passato abbiamo compiuto nel rapportarci a essa. Noi appiattiamo la nostra vita con il modo stesso in cui la concepiamo. Abbiamo smesso di immaginarla con un pizzico di romanticismo, con un piglio romanzesco. Perciò questo libro raccoglierà anche il tema romantico e oserà vedere la biografia alla luce di grandi idee, come la bellezza, il mistero, il mito. Fedele alla sfida romantica, si arrischierà a lasciarsi ispirare da parole grosse, come «visione» e «vocazione», preferendole alle parolette riduttive. Non è bene sminuire ciò che non si comprende. Anche quando, in uno dei prossimi capitoli, analizzeremo le spiegazioni genetiche, pure lì troveremo il mistero e il mito. Una cosa va chiarita subito. Il paradigma oggi dominante per interpretare le vite umane individuali, e cioè il gioco reciproco tra genetica e ambiente, omette una cosa essenziale: quella particolarità che dentro di noi chiamiamo «me». Se accetto l’idea di essere l’effetto di un impercettibile palleggio tra forze ereditarie e forze sociali, io mi riduco a mero risultato. Quanto più la mia vita viene spiegata sulla base di qualcosa che è già nei miei cromosomi, di qualcosa che i miei genitori hanno fatto o hanno omesso di fare e alla luce dei miei primi anni di vita ormai lontani, tanto più la mia biografia sarà la storia di una vittima. La vita che io vivo sarà una sceneggiatura scritta dal mio codice genetico, dall’eredità ancestrale, da accadimenti traumatici, da comportamenti inconsapevoli dei miei genitori, da incidenti sociali. Questo libro vuole smascherare la mentalità della vittima, da cui nessuno di noi può liberarsi, finché non riusciremo a vedere in trasparenza i paradigmi teorici che a quella mentalità danno origine e ad accantonarli. Noi siamo vittime delle teorie ancor prima che vengano messe in pratica. L’identità di vittima dell’americano contemporaneo è il rovescio della medaglia sul cui dritto campeggia tutta lustra l’identità opposta: l’immagine eroica dell’«uomo che si è fatto da sé», che si è ritagliato il destino da solo con volontà incrollabile. La Vittima è l’altra faccia dell’Eroe. Più in profondità, tuttavia, noi siamo vittime della psicologia accademica, della psicologia scientistica, financo della psicologia terapeutica, i cui paradigmi non spiegano e non affrontano in maniera soddisfacente – che è come dire ignorano – il senso della vocazione, quel mistero fondamentale che sta al centro di ogni vita umana. Questo libro, insomma, ha per argomento la vocazione, il destino, il carattere, l’immagine innata: le cose che, insieme, sostanziano la «teoria della ghianda», l’idea, cioè, che ciascuna persona sia portatrice di un’unicità che chiede di essere vissuta e che è già presente prima di poter essere vissuta. «Prima di poter essere vissuta»... Questa frase solleva dei dubbi su un altro importante paradigma: quello temporale. E il tempo, che misura tutte le cose, deve avere un termine. Anch’esso, dunque, va accantonato; altrimenti, il prima determinerà sempre il dopo, e noi rimaniamo incatenati a cause remote sulle quali non possiamo intervenire. Perciò questo libro dedicherà molto tempo a ciò che è fuori del tempo, cercando di leggere ciascuna vita a ritroso, oltre che in avanti. Il leggere la vita a ritroso ci permette di vedere come certe ossessioni precoci siano l’abbozzo di comportamenti attuali. A volte, anzi, i picchi dei primi anni non sono mai più superati. Leggere a ritroso significa che la parola chiave per le biografie non è tanto «crescita» quanto «forma», e che lo sviluppo ha senso soltanto in quanto svela un aspetto dell’immagine originaria. Beninteso, ciascuna vita umana di giorno in giorno progredisce e regredisce, e noi vediamo svilupparsi svariate facoltà e le osserviamo decadere. E tuttavia l’immagine innata del nostro destino le contiene tutte nella compresenza di oggi ieri e domani. La nostra persona non è un processo o un evolversi. Noi siamo quell’immagine fondamentale, ed è l’immagine che si sviluppa, se mai lo fa. Come disse Picasso: «Io non mi evolvo. Io sono». Tale, infatti, è la natura dell’immagine, di qualunque immagine. L’immagine è presente tutta in una volta. Quando guardiamo una faccia di fronte a noi, o una scena fuori dalla finestra o un quadro alla parete, noi vediamo un tutto, una Gestalt. Tutte le parti si presentano simultaneamente. Non c’è un pezzo che ne causa un altro o che lo precede nel tempo. Non ha importanza se il pittore ha inserito le macchie rosse per ultime o per prime, le striature grigie dopo un ripensamento o come struttura iniziale, o se magari esse sono segni residui di un’immagine precedente rimasti sulla tela: ciò che vediamo è esattamente ciò che c’è da vedere, tutto in una volta. È così anche per la faccia che ci sta di fronte: carnagione e lineamenti formano un’unica espressione, un’immagine sola, data tutta insieme. Lo stesso vale per l’immagine dentro la ghianda. Noi nasciamo con un carattere; che è dato; che è un dono, come nella fiaba, delle fate madrine al momento della nascita. Questo libro intraprende una strada nuova a partire da una idea antica: ciascuna persona viene al mondo perché è chiamata. L’idea viene da Platone, dal mito di Er che egli pone alla fine della sua opera più nota, la Repubblica. In breve, l’idea è la seguente. Prima della nascita, l’anima di ciascuno di noi sceglie un’immagine o disegno che poi vivremo sulla terra, e riceve un compagno che ci guidi quassù, un daimon, che è unico è tipico nostro. Tuttavia, nel venire al mondo, dimentichiamo tutto questo e crediamo di esserci venuti vuoti. È il daimon che ricorda il contenuto della nostra immagine, gli elementi del disegno prescelto, è lui dunque il portatore del nostro destino. Secondo Plotino (205-270 d.C), il maggiore dei filosofi neoplatonici, noi ci siamo scelti il corpo, i genitori, il luogo e la situazione di vita adatti all’anima e corrispondenti, come racconta il mito, alla sua necessità. Come a dire che la mia situazione di vita, compresi il mio corpo e i miei genitori che magari adesso vorrei ripudiare, è stata scelta direttamente dalla mia anima, e se ora la scelta mi sembra incomprensibile, è perché ho dimenticato. E Platone racconta quel mito affinché non dimentichiamo; infatti, come spiega nelle ultimissime righe, salvando il mito potremo salvare noi stessi e prosperare. Il mito, insomma, svolge una funzione psicologica di redenzione, e una psicologia derivata dal mito può ispirare una vita fondata su di esso. Il mito porta anche a mosse pratiche. La più pratica consiste nel vedere la nostra biografia avendo presenti le idee implicite nel mito, e cioè le idee di vocazione, di anima, di daimon, di destino, di necessità, che esploreremo nelle pagine seguenti. Poi, suggerisce il mito, dobbiamo prestare particolare attenzione all’infanzia, per cogliere i primi segni del daimon all’opera, per afferrare le sue intenzioni e non bloccargli la strada. Le altre conseguenze pratiche vengono da sé: a) riconoscere la vocazione come un dato fondamentale dell’esistenza umana; b) allineare la nostra vita su di essa; c) trovare il buon senso di capire che gli accidenti della vita, compresi il mal di cuore e i contraccolpi naturali che la carne porta con sé, fanno parte del disegno dell’immagine, sono necessari a esso e contribuiscono a realizzarlo. Una vocazione può essere rimandata, elusa, a tratti perduta di vista. Oppure può possederci totalmente. Non importa: alla fine verrà fuori. Il daimon non ci abbandona. Si è cercato per secoli il termine più appropriato per indicare questo tipo di «vocazione», o chiamata. I latini parlavano del nostro genius, i greci del nostro daimon e i cristiani dell’angelo custode. I romantici, Keats per esempio, dicevano che la chiamata veniva dal cuore, mentre l’occhio intuitivo di Michelangelo vedeva un’immagine nel cuore della persona che stava scolpendo. I neoplatonici parlavano di un corpo immaginale, ochema, che ci trasporta come un veicolo,1 che è il nostro personale supporto o sostegno. C’è chi fa riferimento alla dea Fortuna, chi a un genietto, a un cattivo seme o genio malefico. Per gli egizi poteva essere il ka o il ba, con il quale si poteva dialogare. Presso gli eschimesi e altri popoli dove è praticato lo sciamanesimo, è il nostro spirito, la nostra anima-libera, la nostra anima-animale, la nostra anima-respiro. In epoca vittoriana, l’antropologo culturale E.B. Tylor (1832-1917) riferiva che presso i popoli «primitivi» (come venivano definite le società non tecnologiche) ciò che noi chiamiamo «anima» era concepito come «un’immagine umana immateriale, una sorta di vapore, di velo o ombra ... impalpabile e invisibile manifestante tuttavia potenza fisica».2 In tempi più re centi, l’etnologo Åke Hultkrantz, studioso dei popoli amerindi, afferma che, secondo queste popolazioni l’anima «trae origine da un’immagine» ed è «concepita sotto forma di immagine».3 Platone, nel mito di Er, usa una parola analoga, paradeigma, o forma fondamentale, che abbraccia l’intero destino di una persona. Questa immagine che ci accompagna come un’ombra nella vita, sebbene sia portatrice del destino e della fortuna, non è però una guida morale né va confusa con la voce della coscienza. Il genius dei latini non era un moralista. Benché «conoscesse tutto del futuro di un individuo e ne determinasse il destino», tuttavia «tale divinità non esercitava alcuna sanzione morale; era semplicemente un agente della sorte personale. Si poteva tranquillamente chiedere al proprio Genio di realizzare desideri malvagi o egoistici».4 A Roma come nell’Africa occidentale o a Haiti, una persona poteva chiedere al proprio daimon (o comunque si chiamasse) di fare ammalare i propri nemici, di gettarli sul lastrico, di aiutarla a manipolare o a sedurre gli altri. Dedicheremo un capitolo («Il Cattivo Seme») anche a questo aspetto «malvagio» del daimon. Il concetto di immagine individualizzata dell’anima ha una storia lunga e complicata; compare sotto le più svariate forme in quasi tutte le culture e i suoi nomi sono legioni. Soltanto la nostra psicologia e la nostra psichiatria l’hanno espunto dai loro testi. Nella nostra società, le discipline che si occupano dello studio e della terapia della psiche ignorano un fattore che altre culture considerano il nucleo della personalità e il depositario del destino individuale: l’oggetto centrale della psicologia, la psiche o anima, non entra nei libri ufficialmente dedicati al suo studio e alla sua cura! In questo libro userò in maniera pressoché intercambiabile molti dei termini che designano la nostra ghianda – immagine, carattere, fato, genio, vocazione, daimon, anima, destino –, dando la preferenza all’uno o all’altro a seconda del contesto. Tale uso poco rigoroso si adegua allo stile di altre culture, spesso più antiche della nostra, che hanno di questa enigmatica forza della vita umana una percezione più raffinata che non la nostra psicologia contemporanea, con la sua tendenza a ridurre a definizioni univoche la comprensione di fenomeni complessi. Non bisogna avere paura delle parole altisonanti. Esse non sono vuote; semplicemente, sono state abbandonate, e vanno riabilitate. Le molte parole e i molti nomi non ci dicono che cosa sia questo «qualcosa»; però ci confermano che esiste. E alludono alla sua qualità arcana. Non possiamo sapere a che cosa esattamente ci riferiamo, perché la sua natura rimane nebulosa e si rivela più che altro per allusioni, per sprazzi di intuizione, in sussurri e nelle improvvise passioni e bizzarrie che interferiscono nella nostra vita e che noi ci ostiniamo a chiamare sintomi. Un esempio. Concorso per dilettanti alla Opera House di Harlem. Sale timorosa sul palco una sedicenne goffa e magrolina. Viene presentata al pubblico: «Ed ecco a voi Miss Ella Fitzgerald... Miss Fitzgerald ballerà per noi... Un momento, un momento. Come dici, dolcezza? Mi correggo, signore e signori: Miss Fitzgerald ha cambiato idea. Non vuole ballare, vuole cantare...». Ella Fitzgerald dovette concedere tre bis e vinse il primo premio. Eppure la sua intenzione era stata quella di esibirsi nel ballo.5 Fu il caso a farle cambiare idea di punto in bianco? O era entrato in azione un gene del canto? Oppure quel momento era stato un’annunciazione, che aveva richiamato Ella Fitzgerald al suo particolare destino? Pur con tutta la sua riluttanza ad accogliere nel proprio campo di studio il destino individuale, la psicologia ammette che ciascuno di noi ha una propria costituzione, che ciascuno di noi, a dispetto a volte di tutto e di tutti, è un individuo unico e irripetibile. Quando però si tratta di dare conto di questa scintilla di unicità e della vocazione che ci mantiene fedeli a essa, la psicologia sembra non saper bene come muoversi. I suoi metodi di analisi frammentano quel puzzle che è l’individuo in fattori e tratti di personalità, in tipologie, in complessi e temperamenti, nel tentativo di rintracciare il segreto dell’individualità nei substrati della materia cerebrale e in geni egocentrici. Le scuole di psicologia più rigorose espellono addirittura il problema dai loro laboratori, scaricandolo sulla parapsicologia: che studi pure i casi di «vocazioni» paranormali. Oppure lo spediscono in qualche avamposto della ricerca nelle remote colonie della magia, della religione e della follia. Al massimo – cioè al minimo – la psicologia spiega l’unicità di ciascuno ipotizzando una distribuzione statistica delle probabilità. Questo libro si rifiuta di chiudere nei laboratori di psicologia quel senso di individualità che sta al centro del mio «me». E non accetterà mai che la mia misteriosa e preziosa vita umana sia il risultato di una probabilità statistica. Sia chiaro, tuttavia, che il rifiuto di queste spiegazioni non comporta di chiudere gli occhi gettandosi nelle braccia di una qualche Chiesa. Il tema della vocazione a un destino individuale non c’entra con il conflitto tra scienza senza fede e fede ascientifica. L’individualità rimane di diritto argomento della psicologia, di una psicologia memore del suo prefisso, la psiche, e della sua premessa, l’anima, cosicché la mente può sposare la propria fede al di fuori della Religione istituzionalizzata e praticare la puntuale osservazione dei fenomeni al di fuori della Scienza istituzionalizzata. La teoria della ghianda si muove agile in mezzo ai due dogmi opposti che si guardano in cagnesco da secoli e che il pensiero occidentale si coccola come due cagnolini. La teoria della ghianda dice (e ne porterò le prove) che io e voi e chiunque altro siamo venuti al mondo con un’immagine che ci definisce. L’individualità risiede in una causa formale, per usare il vecchio linguaggio filosofico risalente ad Aristotele. Ovvero, nel linguaggio di Platone e di Plotino, ciascuno di noi incarna l’idea di se stesso. E questa forma, questa idea, questa immagine non tollerano eccessive divagazioni. La teoria, inoltre, attribuisce all’immagine innata un’intenzionalità angelica, o daimonica, come se fosse una scintilla di coscienza; non solo, afferma che l’immagine ha a cuore il nostro interesse perché ci ha scelti per il proprio. L’idea che il daimon abbia a cuore il nostro interesse è probabilmente l’aspetto della teoria più difficile da accettare. Che il cuore abbia le sue ragioni, d’accordo; e anche l’esistenza di un inconscio dotato di intenzionalità e l’idea che in quello che ci succede svolga una parte il destino: tutto questo è accettabile, quasi banale. Perché, allora, è così difficile immaginare che qualcuno o qualcosa tenga a me, si interessi a quello che faccio, magari mi protegga o addirittura mi mantenga in vita, indipendentemente, in una certa misura, dalla mia volontà e dalle mie azioni? Perché preferisco una polizza di assicurazione agli invisibili garanti dell’esistenza? Perché non ci vuole niente a morire. Un attimo di distrazione, e i progetti più accurati di un Io forte giacciono riversi sul marciapiedi. Quotidianamente qualcuno o qualcosa mi salva la vita, impedendomi di cadere per le scale, di inciampare mentre cammino, di ricevere una tegola sulla testa. Non vi sembra un miracolo andare a duecento all’ora in autostrada, la musicassetta al massimo volume, la testa da tutt’altra parte, e arrivare sani e salvi? Quale «sistema immunitario» veglia su di me, giorno dopo giorno, mentre ingurgito alimenti conditi di virus, tossine, batteri? La mia pelle formicola di parassiti, come il dorso di un rinoceronte con i suoi uccellini. A ciò che ci salvaguarda diamo il nome di istinto, autoconservazione, sesto senso, coscienza subliminale (tutte cose invisibili eppure presenti). Nei tempi antichi, ciò che con tanta efficacia mi sapeva proteggere era uno spirito custode e io mi guardavo bene dal mancargli di rispetto. Nonostante questa protezione invisibile, noi preferiamo immaginarci gettati nudi nel mondo, vulnerabili e completamente soli. È più facile credere nella favola di uno sviluppo autonomo, eroico, che in quella di una provvidenza che ci guida, che ci ama, che ci trova necessari per ciò che abbiamo da offrire, che accorre in nostro aiuto nella disgrazia, a volte proprio all’ultimo momento. Ebbene, io voglio affermare la sua esistenza come semplice dato dell’esperienza comune, senza richiamarmi ad alcun guru, senza rendere testimonianza a Cristo, né invocare guarigioni miracolose. Perché non possiamo far rientrare nell’ambito della psicologia ciò che un tempo si chiamava provvidenza, ovvero la presenza invisibile che ci sorveglia e veglia su di noi? I bambini costituiscono la miglior dimostrazione pratica di una psicologia della provvidenza. E non mi riferisco tanto a quegli interventi miracolosi, alle storie incredibili di bambini che cadono da cornicioni altissimi senza farsi nemmeno un graffio, che vengono recuperati vivi da sotto le macerie dopo un terremoto. Mi riferisco piuttosto al banalissimo miracolo in cui si rivela il marchio del carattere: tutto a un tratto, come dal nulla, il bambino o la bambina mostrano chi sono, la cosa che devono fare. Queste urgenze del destino sono spesso frenate da percezioni distorte e da un ambiente poco ricettivo, sicché la vocazione si manifesta nella miriade di sintomi del bambino difficile, del bambino autodistruttivo, portato agli incidenti, del bambino «iper-», tutte espressioni inventate dagli adulti in difesa della propria incapacità a comprendere. Ebbene, la teoria della ghianda offre un modo completamente nuovo di guardare ai disturbi infantili, considerandoli dal punto di vista non tanto delle cause quanto delle vocazioni, non tanto delle influenze passate, quanto delle rivelazioni di un futuro intuito. Riguardo ai bambini e alla loro psicologia, voglio che ci togliamo i paraocchi dell’abitudine (con l’odio mascherato che l’abitudine porta con sé). Voglio che riusciamo a vedere come ciò che fanno e che patiscono i bambini abbia a che fare con la necessità di trovare un posto alla propria specifica vocazione in questo mondo. I bambini cercano di vivere due vite contemporaneamente, la vita con la quale sono nati e quella del luogo e delle persone in mezzo a cui sono nati. L’immagine di un intero destino sta tutta stipata in una minuscola ghianda, seme di una quercia enorme su esili spalle. E la sua voce che chiama è forte e insistente e altrettanto imperiosa delle voci repressive dell’ambiente. La vocazione si esprime nei capricci e nelle ostinazioni, nelle timidezze e nelle ritrosie che sembrano volgere il bambino contro il nostro mondo, mentre servono forse a proteggere il mondo che egli porta con sé e dal quale proviene. Questo libro sta dalla parte dei bambini. Vuole fornire una base teorica per comprendere la loro vita, una base che poggia sui miti, sulla filosofia, su culture diverse dalla nostra e sull’immaginazione. Mira a dare un senso alle disfunzioni infantili prima di applicarvi le loro etichette letteralistiche e prima di spedire il bambino in terapia. Senza una teoria che lo sostenga dai suoi inizi e senza una mitologia che lo riconnetta a qualcosa che viene prima di tali inizi, il bambino fa il suo ingresso nel mondo come mero prodotto, casuale o pianificato, ma privo della sua autenticità. Anche i suoi disturbi saranno privi di autenticità, visto che egli non viene al mondo per i propri scopi, con un progetto suo e guidato dal suo genio personale. La teoria della ghianda si propone come una psicologia dell’infanzia. Afferma con forza l’intrinseca unicità del bambino, il suo essere portatore di un destino, il che significa innanzitutto che i dati clinici della disfunzione attengono in un modo o nell’altro a quella unicità e a quel destino. Le psicopatologie sono altrettanto autentiche del bambino stesso, non già secondarie o contingenti. Essendo dati con il bambino, anzi dati al bambino, i dati clinici fanno parte delle sue doti. Ogni bambino, cioè, è un bambino dotato, traboccante di dati: di doti, che sono tipiche sue e che si manifestano in modi tipici, sovente causa di disadattamento e di sofferenza. Dunque questo libro ha per argomento i bambini e propone un metodo per guardarli con occhi diversi, per penetrare nella loro immaginazione e per scoprire nelle loro patologie possibili indicazioni del loro daimon e di ciò che potrebbe volere il loro destino. VOCAZIONI Due storie di bambini: quella di un importante filosofo inglese, R.G. Collingwood (1889-1943), e quella di un famoso torero spagnolo, Manolete (1917-1947). La prima mostra come il daimon possa fare irruzione all’improvviso in una giovane vita, la seconda mette in luce i travestimenti e i tortuosi occultamenti cui esso a volte ricorre. «Mio padre aveva moltissimi libri ... un giorno, quando avevo otto anni, la curiosità mi spinse a prendere da uno scaffale un libriccino nero, sulla cui costola era scritto: “L’etica di Kant” ... come iniziai a leggerlo, incuneato tra la libreria e il tavolo, fui assalito da una strana sequela di emozioni. Dapprima mi prese un’intensa eccitazione. Avevo la sensazione che in quel libro si dicessero cose della massima importanza su argomenti della massima urgenza, che io dovevo assolutamente capire. Poi, con un impeto di ribellione, venne la scoperta che, invece, non ero in grado di capirle. Quel libro, pensai con un senso di indicibile vergogna, era scritto con parole inglesi e con frasi che seguivano la grammatica inglese, eppure a me sfuggiva completamente il suo significato. Infine, l’emozione più strana di tutte: la certezza che il contenuto di quel libro, anche se non lo capivo, fosse non so come affar mio, una cosa che mi riguardava personalmente, o meglio, che riguardava un me stesso futuro ... Non c’entrava però il desiderio; non è che “volessi”, nel senso comune del termine, padroneggiare da grande l’etica kantiana; ma era come se si fosse alzato un velo a rivelare il mio destino. Poi, gradualmente, mi sentii come se mi fosse stato addossato il peso di un compito, la cui natura non avrei saputo spiegare se non dicendo: “Devo pensare”. A che cosa non sapevo, ma, quasi ubbidendo a quel comando, rimasi in silenzio, con la mente assorta».6 Il filosofo che avrebbe concepito importanti opere di metafisica, estetica, religione e storia era stato chiamato e, a otto anni, incominciò a esercitarsi a «filosofare». Suo padre gli aveva fornito i libri e la possibilità di consultarli, ma era stato il daimon a scegliere quel padre ed era stata la curiosità del daimon ad allungare la mano verso quel libro. Manolete bambino non lasciava affatto prevedere il futuro torero. L’uomo che avrebbe innovato radicalmente lo stile e l’idea stessa di corrida da bambino era timido e pauroso. «Delicato e di salute cagionevole (a due anni per poco non era morto di polmonite), al piccolo Manuel interessava soltanto dipingere e leggere. Se ne stava sempre in casa, attaccato alle sottane della mamma, tanto che la sorella e gli altri bambini lo prendevano in giro per questo. Al suo paese lo ricordavano come “un ragazzino esile e malinconico, che vagava per le strade, dopo la scuola, perduto nei suoi pensieri. Raramente si univa agli altri ragazzi per giocare al calcio o alla corrida”. Le cose cambiarono “verso gli undici anni: allora, nient’altro contava per lui se non i tori”».7 Una trasformazione davvero radicale! Alla sua prima corrida, Manolete, che aveva da poco smesso i calzoni corti, resiste a piè fermo – anzi, viene ferito all’inguine, ma non ne vuole parlare e non vuole essere accompagnato a casa, dalla mamma; ritornerà insieme agli altri ragazzi. Si è costellato l’Eroe. Dalla sua ghianda, lo chiama un qualche mito eroico. Aveva sempre avuto sentore della sua vocazione? In tal caso, è naturale che il piccolo Manolete avesse paura e si aggrappasse alla madre. (Le «sottane della mamma» erano una metafora, o non le stava già usando come la cappa del torero?). È naturale che si tenesse alla larga dalle corride tra ragazzi, in strada, rifugiandosi in cucina. Come avrebbe potuto un bambino di nove anni guardare in faccia il suo destino? Nella sua ghianda c’erano tori neri di molte tonnellate e dalle corna come rasoi che lo caricavano, e tra di essi Mero, il toro che lo squarciò dall’inguine alla pancia, dandogli la morte a trent’anni e il più grande funerale che la Spagna avesse mai veduto. Collingwood e Manolete illustrano un dato fondamentale: le fragili competenze di un bambino non sono all’altezza delle richieste del daimon. I bambini sono intrinsecamente più avanti rispetto a se stessi, anche se a scuola prendono brutti voti e rimangono indietro. Una possibile strada è quella di spiccare la corsa, come il piccolo Mozart e altri cosiddetti bambini prodigio che hanno la fortuna di avere una guida valida. Un’altra consiste nel tirarsi indietro e tenere a bada il daimon, come faceva Manolete nella cucina di sua madre. L’«impeto di ribellione» che assalì Collingwood era la reazione alla sua inadeguatezza; il bambino di otto anni non era all’altezza di Kant, ma Kant era «affar suo», una cosa che lo «riguardava personalmente». Una parte di Collingwood era troppo sprovveduta per decifrare il significato del testo; un’altra parte non aveva otto anni, non era mai stata un bambino. Altri due esempi simili illustrano lo scarto tra le capacità del bambino e i bisogni del genio. Il primo riguarda la pioniera della genetica Barbara McClintock, il secondo il famoso violinista Yehudi Menuhin. Riferisce Barbara McClintock (ricevette il premio Nobel per le sue ricerche, che richiedevano il tipo di riflessione solitaria e di manualità che a lei procuravano il piacere più profondo): «Quando avevo cinque anni, chiesi che mi regalassero degli attrezzi. Mio padre mi comperò degli attrezzi adatti alle mie mani, non attrezzi da adulti... ma non erano quelli che volevo io. Io volevo attrezzi veri, non dei giocattoli».8 Anche Menuhin voleva cose che le sue mani non erano in grado di adoperare. Il piccolo Yehudi, quando non aveva ancora quattro anni, sentiva spesso, seduto con i genitori in galleria al Curran Theatre, gli assolo del primo violino Louis Persinger. «Durante uno di questi concerti, chiesi ai miei genitori di regalarmi per il mio compleanno un violino e Louis Persinger come maestro». Convinto di esaudire così il suo desiderio, un amico di famiglia gli regalò un violino giocattolo, di metallo, con le corde di metallo. «Io scoppiai in singhiozzi, scaraventai l’oggetto per terra e non lo volli vedere mai più».9 Poiché il genio non è limitato dall’età, dalla taglia, dall’istruzione o dall’esercizio, tutti i bambini nutrono un’ambizione smodata, hanno gli occhi più grandi della bocca. E allora: il bambino è narcisistico, vuole attirare l’attenzione, ha fantasie di onnipotenza; per esempio, vuole attrezzi e strumenti che non è in grado di maneggiare. Ma da dove viene l’onnipotenza infantile se non dalla grandiosità della visione che accompagna l’anima in questo mondo? I romantici avevano capito l’intrinseca grandiosità del bambino. Non hanno forse detto: «e veniamo al mondo lasciandoci alle spalle una scia di gloria»? Le mani di Barbara non erano capaci di sollevare un pesante martello e le braccia di Yehudi erano troppo corte e le dita non avevano l’estensione sufficiente per un violino della misura grande, ma la sua visione lo era, di misura grande, per poter contenere la musica che aveva in testa. E doveva assolutamente avere il violino immaginato, perché Menuhin sapeva, «istintivamente, che suonare voleva dire essere».10 Notiamo, qui, che il daimon del piccolo Yehudi rifiutava di essere trattato come un bambino, nonostante il bambino in carne e ossa avesse solo quattro anni. Fu il daimon a fare il capriccio, a pretendere la cosa vera, perché suonare il violino non è divertirsi con un giocattolo. Il daimon non vuole essere trattato come un bambino; non è un bambino, nemmeno un bambino interiore: anzi, può essere molto insofferente di questa contaminazione, di questa incarcerazione dentro il corpo immaturo di un bambino, di questa identificazione tra la sua visione perfetta e un imperfetto essere umano. L’insofferenza ribelle è, come dimostra l’esempio di Yehudi Menuhin, una caratteristica primaria del comportamento ispirato dalla ghianda. Se esaminiamo l’infanzia della scrittrice francese Colette, scopriamo che anch’essa era affascinata dagli attrezzi del suo mestiere. A differenza del destino di Menuhin, che scattava come una tigre, il suo, più simile a un gatto francese che sonnecchia sul davanzale, stava in attesa sornione, procrastinando la propria necessità di scrivere con l’osservazione dei tentativi paterni. Un po’ come Manolete, Colette si tirava indietro – per proteggersi, forse? Come lei stessa racconta, l’avversione nei confronti della scrittura la salvaguardò da un inizio troppo precoce, quasi che il suo daimon non volesse che lei cominciasse prima di essere pronta ad accogliere il suo dono, prima di avere letto, letto tanto, e prima di avere vissuto e imparato ed esercitato tutti i sensi, l’odorato, il tatto. La scrittura, con i suoi tormenti, non avrebbe comunque tardato, grazie a Dio, ad affliggere la sua vita, ma Colette doveva prima assorbire la materia sensuosa da immettere nei suoi scritti. Non soltanto gli eventi percepiti che penetravano nella sua sensuosa memoria, ma la materia stessa, palpabilissima, del mestiere di scrivere nella sua fisicità. Benché avesse ripudiato le parole, infatti, Colette provava una vera avidità per i materiali della sua vocazione: «Un sottomano di carta assorbente vergine, un righello di ebano, una, due, quattro, sei matite di vari colori appuntite col temperino; penne per il tondo e per il corsivo, penne da contabile, penne da disegno non più grandi di una piuma di merlo; ceralacca per sigillare, rossa, verde, viola, un tampone assorbente, una boccetta di colla liquida, priva di quelle macchie color ambra che spesso ne guastano la trasparenza; il minuscolo brandello di un cappotto militare, ridotto alle dimensioni di un nettapenne coi bordi dentellati; un grande calamaio affiancato da uno più piccolo, entrambi in bronzo, e una ciotola di lacca piena di polvere d’oro per asciugare l’inchiostro; un’altra ciotola contenente ostie di tutti i colori per sigillare (quelle bianche le mangiavo); sulla destra e sulla sinistra del tavolo, risme di carta vergata, rigata, filigranata...». Se Menuhin sapeva esattamente quello che voleva: suonare il violino; Colette sapeva con altrettanta certezza quello che non voleva: scrivere. A sei anni sapeva già leggere bene, ma non volle assolutamente imparare a scrivere: «No, scrivere no. Non volevo scrivere. Quando si sa leggere, quando si può penetrare nel regno incantato dei libri, che bisogno c’è di scrivere? ... da giovane, io non ho mai, mai, provato il bisogno di scrivere. No, non mi alzavo la notte in gran segreto per scribacchiare poesie sul coperchio di una scatola da scarpe! No, non ho mai inviato parole ispirate al Vento dell’Ovest e neppure alla luna! No, tra i dodici e i quindici anni non ho mai preso bei voti nei temi. Perché avevo la sensazione, di giorno in giorno più intensa, di essere fatta, appunto, per non scrivere. Ero l’unica della specie, l’unica creatura venuta al mondo allo scopo di non scrivere».11 Ricapitoliamo quello che abbiamo appreso finora sul modo in cui il destino tocca l’infanzia. Nel caso di Collingwood, come un’inattesa annunciazione; nel caso di Manolete e di Colette, come un’inibizione che li induce a ritrarsi. In McClintock, Menuhin e Colette si nota inoltre il desiderio ossessivo di possedere gli strumenti materiali che rendono possibile il suo realizzarsi. E abbiamo visto la discrepanza che esiste tra il bambino e il daimon. Soprattutto, abbiamo imparato che la chiamata si fa sentire nei modi più strani e diversi da una persona all’altra. Non esiste un modello generale, ma solo uno specifico per ciascun caso. Tuttavia, il lettore con un orecchio freudiano esercitato avrà individuato un fattore comune, la presenza massiccia di padri – il padre di Collingwood, il padre di McClintock, di Menuhin, di Colette! Come se le facilitazioni eventualmente offerte dal padre influissero sulla vocazione del figlio. Questa «superstizione parentale», come vedremo nel capitolo così intitolato, è difficile da evitare. La fantasia dell’influenza dei genitori sull’infanzia ci segue per tutta la vita, anche quando i genitori in carne e ossa si sono da un pezzo ridotti a fotografie sbiadite, sicché gran parte del loro potere deriva dall’idea di tale potere. Perché restiamo attaccati alla superstizione parentale? Come mai questa idea continua a farci da padre e da madre, ci conforta? Abbiamo forse paura di lasciare entrare il daimon nella nostra vita, paura che ci abbia chiamato, che ci stia ancora chiamando, e per questo ci rifugiamo in cucina? Ci ritraiamo in spiegazioni che coinvolgono i genitori, piuttosto che affrontare le pretese del destino. Se Colette ebbe l’agio di procrastinare il proprio destino, o di riconoscerlo indirettamente, grazie all’intensità della propria resistenza, Golda Meir, primo ministro di Israele dal 1965 alla guerra del Kippur, fu spinta in prima linea dal proprio quando faceva la quinta elementare a Milwaukee. Golda organizzò un gruppo di protesta contro l’adozione nella scuola di libri di testo troppo costosi per i bambini poveri, i quali si vedevano così negato di fatto il diritto allo studio. Quella ragazzina di undici anni (!) affittò una sala per tenervi un’assemblea, raccolse fondi, organizzò le compagne, addestrò la sorellina a recitare una poesia socialista in yiddish e infine tenne un discorso all’assemblea. Non era già allora un capo di stato laburista? La madre aveva insistito perché si scrivesse il discorso da leggere in pubblico, ma, ricorda Golda Meir, «a me pareva che avesse più senso dire lì per lì quello che avevo da dire, parole di testa mia».12 Non sempre il futuro arriva in maniera così esplicita. Golda Meir, donna risoluta e portata al comando, uscì direttamente allo scoperto. Più o meno alla stessa età, Eleanor Roosevelt, anch’essa una donna risoluta e portata al comando, faceva il suo ingresso nel mondo del suo futuro non con l’azione, bensì rifugiandosi in fantasticherie. Eleanor Roosevelt definì se stessa da piccola «una bambina infelice» e i suoi anni infantili «giornate grigie»: un modo di esprimersi a dir poco minimizzante e ben educato, se pensiamo a quello che aveva dovuto passare. «Vivevo con la paura costante della follia».13 Prima dei nove anni aveva già perduto la madre, che non le aveva mai voluto bene, un fratello minore e il padre, un uomo frivolo e mondano. «È una bambina così strana, sembra una vecchietta, noi la chiamiamo sempre “nonnina”». Dai cinque anni, se non da prima, la naturale riservatezza si accentuò; Eleanor diventò più cupa, ostinata, scontrosa, acida e inetta (a sette anni ancora non sapeva leggere, e non era capace né di cucire né di cucinare, come ci si aspettava dalle ragazze nel suo ambiente sociale). Diceva bugie, rubava; quando era in compagnia, faceva scenate da bambina asociale. Le diedero un precettore, che le dava lezioni e le imponeva la disciplina, e per il quale provò «un odio che durò per anni».14 Intanto, «mi inventavo, giorno per giorno, una storia, che era la cosa più reale di tutta la mia vita».15 Nella sua storia, Eleanor si immaginava di vivere con il padre, dirigendo per lui la sua grande casa e accompagnandolo nei suoi viaggi. La storia andò avanti per anni, anche dopo che il padre era morto. Oggi, il suo caso richiederebbe una terapia, diventerebbe «il caso di Eleanor R.». Oggi, magari parallelamente a una terapia sistemica della famiglia, Eleanor sarebbe quasi certamente trattata con l’armamentario di psicofarmaci della biopsichiatria, confermandole così, con la forza di un dato biologico, la sensazione di essere «una bambina cattiva». (La cattiveria devo averla nelle cellule, come un peccato originale, o come una malattia. Perché, altrimenti, mi darebbero queste pillole per farmi guarire, come quando ho la febbre e il mal di pancia?). Alle sue complesse fantasticherie non verrebbe attribuito alcun valore intrinseco di manifestazione della fantasia del suo daimon e della sua vocazione. Sarebbero ridotte a fughe nell’irrealtà al limite del delirio. Diminuendo con gli psicofarmaci l’intensità e la frequenza delle sue immagini, la psichiatria avrebbe agio di curare una mente malata, con ciò stesso dimostrando, grazie a un ragionamento circolare, come ciò che ha eliminato fosse davvero malattia. Un altro tipo di specialista, se chiamato a consulto sul caso di Eleanor R., coglierebbe un nesso tra il fantasticare giorno dopo giorno degli anni infantili e la rubrica giornalistica di commenti sulla realtà sociale che Eleanor tenne in seguito e che si intitolava «My Day», la mia giornata. Il nostro specialista ridurrebbe il talento di Eleanor nell’immedesimarsi nei problemi di tutti gli strati sociali, il suo interesse per il benessere dell’umanità e la sua ottimistica visione a tutto campo, a una «reazione di compensazione» alle fantasie solitarie e autistiche delle giornate grigie della sua infanzia. E anche qui, un padre. Anche qui, l’appiglio per scivolare in un’interpretazione freudiana: la causa sia delle grigie depressioni sia della fuga in velleitarie fantasie di onnipotenza era il suo complesso di Elettra (amore per il padre e desiderio di sostituirsi alla madre). Ma, poiché quel tipo di fantasie avrebbe potuto avere un contenuto diverso – che so: fughe magiche, patti segreti, convegni romantici, animali salvifici e nozze regali –, la teoria della ghianda propone una lettura molto diversa delle fantasie della piccola Eleanor. Il loro contenuto di accudimento e di gestione organizzativa era finalizzato, era la preparazione alla vita di doveri che Eleanor avrebbe vissuto in futuro. Quelle fantasie erano inventate dalla sua vocazione e davvero erano più realistiche, da un punto di vista progettuale, della sua realtà quotidiana. L’immaginazione le faceva da maestra, istruendo la bambina per i più vasti compiti di servizio che la attendevano: occuparsi dei bisogni di una famiglia complicata, di un marito paralizzato, dello Stato di New York come moglie del governatore, degli Stati Uniti come moglie del presidente e addirittura delle Nazioni Unite. Le fantasie di occuparsi del «Padre» erano un eserciziario propedeutico, in cui poter inserire la sua vocazione, l’immensa devozione al benessere altrui. LA TEORIA DELLA COMPENSAZIONE La teoria della compensazione, secondo la quale, per esempio, Eleanor Roosevelt compensava i suoi sentimenti di disperazione con fantasie di assunzione di potere, ha una grande influenza sul genere psicobiografico. Spiegata nel modo più semplice, la teoria afferma che le future superiorità affondano le loro radici in inferiorità iniziali. I bambini esili, malaticci e tristi sono indotti, per un principio di compensazione, a diventare dei capi, eminenti per la loro capacità di iniziativa e la loro forza. La biografia del Generalissimo Franco, dittatore della Spagna dal 1939 al 1973 (morirà due anni dopo), si adatta a pennello a questo schema. Da bambino, Francisco Franco era «penosamente timido», di «costituzione delicata», «basso di statura e magrolino». Quando, «a quindici anni, gracile e con la faccia da bambino, si iscrisse all’Accademia di Fanteria di Toledo, uno degli istruttori ... pensò di dargli un moschetto a canna corta anziché la pesante carabina d’ordinanza». Il giovane Franco, impettito, disse: «Quello che può fare il soldato più forte della mia squadra lo posso fare anch’io».16 Essendo un uomo per il quale la dignità era la cosa più importante, Franco non dimenticò mai l’offesa. Oltre a dover compensare la gracilità fisica, doveva anche competere con i suoi fratelli («rivalità fraterna»), che erano gioviali, bravi in tutto ed espansivi. Perciò Franco trascese le proprie inferiorità infantili con le vittorie militari, l’oppressione politica e un autoritarismo spietato. Si potrebbe elencare una serie infinita di uomini eminenti per le loro imprese e la loro audacia che da bambini lasciavano prevedere tutto il contrario. Erwin Johannes Eugen Rommel, la Volpe del deserto, un combattente eroico, decorato con le più alte onorificenze per il coraggio dimostrato in battaglia in due guerre mondiali, feldmaresciallo, veterano di molte campagne, grande stratega e trascinatore delle truppe nelle campagne di Belgio, Francia, Romania, Italia e Nordafrica, da piccolo in famiglia era soprannominato «orso bianco» per il colorito pallido, la tendenza a chiudersi in fantasticherie e la difficoltà nell’esprimersi. Alle elementari era uno degli ultimi della classe ed era considerato un fannullone disattento e svogliato.17 Robert Peary, che percorse le lande ghiacciate dell’Artide fino a «scoprire» il Polo Nord, era figlio unico di madre vedova. Se ne stava sempre rintanato nel cortile di casa, accanto alla mamma, «per evitare gli altri ragazzi, che lo chiamavano “Pelle e ossa” e lo prendevano in giro per le sue paure». Vilhjalmur Stefansson, altro eroico esploratore polare, era soprannominato «Pappamolle» dai compagni e trascorreva giornate intere tutto solo, a far navigare una barchetta nella vasca da bagno. Mohandas Karamchand Gandhi da bambino era basso, magro, malaticcio, brutto, e timoroso; aveva paura soprattutto dei serpenti, degli spiriti e del buio.18 La teoria della compensazione, che questi personaggi dovrebbero esemplificare, nasce con Alfred Adler, il terzo, meno noto e meno longevo membro del grande triumvirato terapeutico formato da Freud, Jung e, appunto, Adler. I suoi studi sulle personalità dotate hanno universalizzato l’idea di compensazione facendone una legge fondamentale della natura umana. Dalle sue ricerche condotte agli inizi del secolo, risultava che nel settanta percento degli studenti di scuole d’arte si riscontrano anomalie visive; e che grandi compositori, come Mozart, Beethoven e Bruckner, presentavano tracce di degenerazione dell’udito. Secondo la teoria di Adler, la sfida posta in età giovanile dalla malattia, da difetti di nascita, dalla povertà o da altre circostanze sfavorevoli costituirebbe lo stimolo a realizzazioni superiori. Benché in maniera meno spettacolare dei personaggi eminenti ed eccezionali, ciascun essere umano compensa le proprie debolezze con la forza, e potenziando e controllando ogni inettitudine. La mente umana è costituzionalmente fatta per pensare secondo i costrutti antitetici di forza/debolezza, superiore/inferiore, e lotta per primeggiare.19 L’aneddoto sul dittatore spagnolo esemplifica l’accezione più semplicistica dell’idea adleriana di compensazione. Ne esiste però una più sottile e più pericolosa, che la riconnette con la teoria freudiana della sublimazione. La teoria freudiana sostiene che le debolezze iniziali sono trasformate non semplicemente in punti di forza, bensì in prodotti dell’arte e della cultura, al cui fondo rimarrebbero peraltro le scorie di quelle offese infantili, che sono riconoscibili nei prodotti artistici e ne costituiscono il vero germe originario. Questa modalità interpretativa, estremamente perniciosa, trova immediatamente la sua brava dimostrazione pratica: Jackson Pollock (1912-1956), l’artista che «inventò» la tecnica del dripping («sgocciolamento») tipica dell’astratta ed espressionistica action painting. Pollock dipingeva su grandi tele bianche distese a terra, sulle quali camminava, facendo sgocciolare i colori dal pennello e creando con il movimento archi incrociati, svirgolamenti, curve e chiazze, in un vasto traforo di motivi ritmici. Pare che egli stesso abbia dichiarato: «Quando dipingo, non sono cosciente di quello che sto facendo». Ma gli psicologi la sanno più lunga, e riescono subito a rintracciare l’origine delle tracce lasciate da Pollock sulla tela bianca in una significativa inferiorità della sua infanzia! L’artista era nato in una fattoria del Wyoming, ultimo di cinque fratelli, i quali continuarono a parlare di lui «come del “piccolo” anche quando era ormai un adolescente, cosa che naturalmente gli bruciava»: «Al pari di molti ragazzi di campagna, i giovani Pollock non si prendevano la briga di usare il gabinetto, ma preferivano, appena possibile, disegnare evanescenti ghirigori sulla più vicina zolla di terra dura e polverosa o, in inverno, sulla candida neve. Il piccolo Jackson guardava spesso i fratelli orinare ... e giocare a chi arrivava più lontano. Essendo troppo piccolo per gareggiare con loro, quando doveva orinare si ritirava sempre nel gabinetto ... e continuò a fare così anche quando fu abbastanza grande da riuscire a tracciare gli stessi lunghi archi gialli dei suoi fratelli».20 L’artista non saprà quello che sta facendo, ma lo psicobiografo di formazione psicoanalitica non è così sprovveduto! Gli archi dell’artista sono sublimazioni delle tracce di pipì sulla polvere, depositate nel suo umiliato inconscio. Il nostro psicobiografo, insomma, arriva a negare quello che l’artista stesso dice (e se lo dice, forse lo sa: e cioè che egli non conosce, perché forse è impossibile conoscerla, l’invisibile sorgente delle sue opere). Non solo, l’interprete ignora il significato della parola chiave di tutta la sua interpretazione: «inconscio». Se uno sa ciò che l’inconscio contiene e ciò che sta facendo (nella fattispecie, sublimando la competitività fallica e la rivalità tra fratelli con l’action painting), allora vuol dire che tale sorgente non è più inconscia, e Pollock sta solo dando una dimostrazione pratica di un’ipotesi di interpretazione psicobiografica. Una teoria che degrada a tal punto l’ispirazione si merita il sarcasmo con il quale l’ho trattata. La teoria della compensazione uccide lo spirito, derubando le persone e le azioni eccezionali della loro precipua autenticità. Le superiorità sono fatte emergere da una fonte inferiore, anziché essere viste come espressione di un’immagine più pregnante. Perché, come dimostrano le vite eccezionali, esiste una visione, un ideale che chiama, anche se rimane di solito vago, se non completamente ignoto, a che cosa, nell’atto, esso chiami. Se tutte le superiorità non sono altro che inferiorità sovracompensate, e tutti i talenti solo ferite curate e debolezze in panni più nobili, che l’acume psicoanalitico può facilmente smascherare, allora Franco non è altro, in realtà, che un uomo di bassa statura ancora occupato a competere con i fratelli, e Pollock è soltanto il fratellino piccolo. Questi personaggi non sono altro che la teoria stessa, e tale è ciascuno di noi: un «niente altro che». Niente talenti, e niente daimones a donarli. Ognuno di noi è solo sul pianeta, senza angelo, soggetto all’ereditarietà della carne e all’oppressione di famiglia e condizioni di vita che solo la forza di volontà di un «Io forte» può sconfiggere. Chiarita, e rifiutata, la teoria della compensazione, ricominciamo dal principio e rivediamo dalla prospettiva della teoria della ghianda le caratteristiche infantili di Gandhi, Stefansson, Peary e Rommel, rileggendole a ritroso come abbiamo fatto con la timidezza del piccolo Manolete. Gandhi aveva paura di presenze invisibili e del buio, perché il daimon che teneva in mano il suo destino sapeva delle cariche coi manganelli della polizia indiana e dei tentativi di linciaggio in Sudafrica, delle lunghe carcerazioni in celle buie, e sapeva che la morte sarebbe stata la sua costante compagna di strada. Nella sceneggiatura di Gandhi era scritto il suo assassinio. E Peary e Stefansson non stavano forse facendo le prove, al modo bizzarro dei bambini, della nuda solitudine dei ghiacci in capo al mondo? E Rommel (che disse al figlio: «Appena nominato capitano, già sapevo come si comanda un esercito»):21 forse quel pallido, tardo, svogliato «orso bianco» d’un bambino stava fuggendo, in una sorta di precognitivo shock da bombardamento, lo schiacciante fuoco nemico di el-Alamein, le cannonate e le bombe che gli sarebbero esplose intorno in due guerre mondiali, e anche le raffiche a bassa quota che gli fratturarono il cranio in Normandia e il veleno che le ss gli consegnarono perché si suicidasse a causa della sospetta partecipazione al complotto contro Hitler. Anche le pose tronfie di Franco possono essere rilette non tanto come una compensazione adleriana, quanto come una affermazione della dignità del daimon: «Non sono un giovincello dalla faccia di bambino. Sono il Caudillo di tutta la Spagna e mi è dovuto il rispetto della mia vocazione». Quale che sia la vocazione (perché rispetto è dovuto non solo ai caudillos, ma perfino agli assassini, come apprenderemo nel capitolo sul Cattivo Seme), il daimon mantiene una posizione di grande dignità. Ecco perché anche il bambino più debole, alla più «tenera» età, rifiuta di sottostare alle cose che sente ingiuste e non vere, e reagisce con tanta veemenza alle interpretazioni distorte. Il concetto di violenza sui minori, infatti, andrebbe esteso al di là dell’abuso sessuale, il quale è così atroce non tanto perché è sessuale, ma perché offende quella dignità che è il cuore stesso della personalità, quel nocciolo di mito. LA TEORIA DELLA MOTIVAZIONE Dopo avere duramente criticato la teoria della compensazione, devo ammettere che la teoria della motivazione trova invece sostegno nei casi che abbiamo riportato. I personaggi eminenti la cui vita mostra gli esempi più notevoli di vocazione sono caratterizzati, secondo lo studio sulla creatività condotto da Albert Rothenberg, professore di psichiatria a Harvard, da un fattore sopra tutti gli altri. Dopo avere esaminato e scartato l’intelligenza, il temperamento, il tipo di personalità, il grado di introversione, l’ereditarietà, l’ambiente infantile, l’ispirazione, l’ossessione, il disturbo mentale (tutti tratti che possono essere presenti o meno, dare il loro contributo, essere magari dominanti), l’unico elemento «veramente generale, presente in tutti», è la motivazione.22 E non è appunto la «motivazione» la spinta della quercia dentro la ghianda, o, per meglio dire, la «quercità» della ghianda? Le querce portano le ghiande, ma le ghiande sono gravide di querce. La motivazione si manifesta nei modi più bizzarri: obliquamente, come nelle fantasie a occhi aperti di Eleanor Roosevelt, o in modo dirompente, come in questo racconto dell’infanzia – aveva cinque anni – di Elias Canetti, il pensatore e scrittore di lingua tedesca nato in Bulgaria, premio Nobel per la letteratura nel 1981: «... mio padre leggeva ogni giorno la “Neue Freie Presse” ed era sempre un momento solenne quando spiegava lentamente il giornale ... Io tentavo di scoprire che cosa lo avvincesse tanto in quel giornale, da principio pensavo che fosse l’odore e quando ero solo e nessuno mi vedeva, mi arrampicavo sulla sua poltrona e annusavo avidamente le pagine ... [mio padre] mi spiegò che la cosa importante erano le lettere, tutte quelle minuscole lettere stampate su cui puntava il dito. Presto le avrei imparate anch’io, mi promise, e in quel modo risvegliò in me una sete inestinguibile di lettere dell’alfabeto... «[Mia cugina Laurica] tornò a casa con un quaderno, stava imparando a leggere e scrivere. Lo aprì solennemente davanti ai miei occhi, il quaderno conteneva, in inchiostro blu, quelle lettere dell’alfabeto che erano per me la cosa più affascinante che avessi mai visto. Ma quando feci per toccarlo, lei ... disse che non potevo ... tutto ciò che riuscii a ottenere da lei supplicandola teneramente fu di poter puntare il dito su una lettera, senza toccarla... «... Giorno dopo giorno mi induceva a mendicare i quaderni, e giorno dopo giorno me li rifiutava... «Quel giorno, che poi nessuno della mia famiglia avrebbe mai più dimenticato, me ne stavo come sempre davanti al cancello ad aspettare Laurica. “Lasciami vedere la scrittura” la supplicai non appena comparve. Lei non rispose... «Tentai di acchiapparla, le corsi dietro dappertutto, scongiurandola di farmi vedere i quaderni ... con questo intendendo i quaderni e quel che c’era scritto dentro, per me era tutt’uno. Lei alzò le braccia sopra la testa, era molto più alta di me, e posò i quaderni sopra il muretto. Io non ci arrivavo, ero troppo piccolo ... Improvvisamente la piantai in asso e feci il lungo giro intorno alla casa fino al cortile della cucina, per prendere la scure dell’armeno, con la quale volevo ucciderla... «... sollevai la scure e, tenendola dritta davanti a me, rifeci a passo di marcia il lungo cammino che avevo appena percorso, con un canto assassino sulle labbra che ripetevo incessantemente: “Agora vo matar a Laurica! Agora vo matar a Laurica!” – “Adesso ucciderò Laurica! Adesso ucciderò Laurica!”».23 Le persone eccezionali manifestano la propria vocazione nel modo più lampante e forse da questo dipende il fascino che esse esercitano. Forse, anzi, sono eccezionali perché la loro vocazione traspare con tanta chiarezza e perché esse vi aderiscono con tanta fedeltà. Sono modelli, esempi di vocazione e della sua forza, e anche di lealtà verso i suoi segnali. È come se queste persone non avessero alternative. Canetti doveva assolutamente impadronirsi di lettere e parole: come avrebbe fatto, altrimenti, a diventare uno scrittore? A nessun costo Franco poteva essere da meno degli altri cadetti dell’Accademia. Barbara McClintock e Yehudi Menuhin pretendevano strumenti veri perché dovevano incominciare a esercitare le mani. Le persone fuori del comune costituiscono la prova più efficace perché rendono visibile ciò che noi comuni mortali non possiamo vedere. È come se noi fossimo meno motivati, più distratti. E tuttavia a muovere il nostro destino è il medesimo motore universale. Non è che le persone fuori del comune appartengano a una categoria diversa: solo, in loro il funzionamento del motore è più trasparente. Il nostro interesse, qui, dunque, non è rivolto tanto a queste figure e alla loro «personalità», quanto a quel fattore straordinario che è il destino: come sopraggiunge e si rivela, che cosa pretende, quali effetti secondari provoca. In queste biografie noi cerchiamo le manifestazioni del destino. È chiaro pertanto che il nostro intento non è quello di incensare i ricchi e i famosi, e neppure quello di condurre uno studio sulla creatività e sul genio, sulle ragioni per cui Mozart e Van Gogh furono quello che furono. Tutti abbiamo un genio, ma nessuno è o sarà un genio, perché il genio o daimon o angelo è un compagno invisibile, non umano, e non già la persona che ne è vissuta. UNA VISIONE DEI BAMBINI Spesso, nei primi anni di vita, persona e daimon sembrano essere un’unica e medesima cosa, con il bambino tutto preso dal genio, una confusione abbastanza comprensibile, visto che il bambino ha così poche forze sue e il daimon così tante. Allora il bambino viene additato come eccezionale, speciale, un bambino prodigio... ovvero, sull’altro versante, come un piantagrane disfunzionale, un potenziale delinquente, da sottoporre a test e diagnosi, e da estirpare come le erbacce. Il collegamento fra patologia ed eccezionalità discende in parte dalla tradizione romantica, che ama associare genio e follia, con ciò giustificando tutta una serie di idiozie: più matto appari, più è sicuro che sei un genio. Ma il nostro gesto non è così irresponsabile, può anzi riuscire di ispirazione. Esso immette nella vita assolutamente banale di tutti noi e nei suoi incomprensibili momenti di devianza il sentimento di un’immagine innata capace di conferire coerenza e significato ai pezzi sparsi della nostra vita. Gli episodi tratti dall’infanzia di personaggi eccezionali che riporteremo in queste pagine sono raccontati non soltanto per illustrare la loro infanzia, ma per illuminare la nostra e quella dei bambini che ci sono affidati e che ci destano preoccupazione. Ciascuno schizzo lascia intravedere, in mezzo alle flagranti singolarità sintomatiche, il lampo della vocazione. E allora perché non proviamo a guardare i bambini avendo presente questa visione? Potrebbe limitare un po’ l’accanimento del nostro approccio diagnostico al carattere e alle abitudini infantili. La «guerra contro i bambini», secondo il titolo scelto da Peter e Ginger Breggin per il loro recente libro, minaccia di diffondere tra i bambini americani un’epidemia di problemi causati proprio dal metodo che i loro problemi vorrebbe curare.24 Mali già diffusi in altre epoche rispuntano oggi sotto forma di programmi assistenziali, prevenzione farmacologica e drastica segregazione. Ci risiamo: eugenetica, razzismo bianco, sterilizzazione, mutilazioni forzate, costrizione alla mendicità, punizioni, affamamento. Come in epoca coloniale, coloro che provocano la sofferenza forniranno ai poveri coolies i farmaci per alleviarla e per renderli più insensibili al dolore. I bambini sono diventati le vittime sacrificali di Saturno-Moloch, come nelle antiche civiltà del Mediterraneo. Sono anche i capri espiatori per tutte le paure positivistiche nei confronti dell’anomalo, dell’eccessivo e dei moti divergenti dell’immaginazione al suo primo apparire – nel bambino, appunto. Ciò che avviene nelle nostre «strutture per l’igiene mentale», dove gli psicofarmaci vengono dispensati con minore ritegno dei profilattici, sarebbe bastato a fare di tutte le persone di cui si parla in questo libro dei poveri ebeti, durante la loro infanzia. La perversa inadeguatezza del trattamento non è voluta da medici e operatori, i quali sono anzi animati dalle migliori intenzioni. Deriva inevitabilmente dall’inadeguatezza, dalla perversità della teoria. Nel momento in cui sono le statistiche di una psicologia evolutiva normalizzante a stabilire i parametri rispetto ai quali giudicare le complessità fuori del comune di un’esistenza, le deviazioni diventano devianze. La malattia vera è la diagnosi sommata alla statistica; e, guarda caso, diagnosi più statistica formano appunto il titolo – «Manuale diagnostico e statistico» – della guida, universalmente accreditata, pubblicata dalla American Psychiatric Association e adottata da medici, operatori di igiene mentale e liquidatori delle compagnie assicurative.25 Eppure, proprio in quel grosso libro, tanto ponderoso quanto fatuo, sono descritti gli svariati modi in cui il daimon agisce sul destino umano, mettendo in luce come il più delle volte nella nostra civiltà gli aspetti del daimon si rivelino in forme che destano pietà e sconcerto. Questo libro preferisce riconnettere la patologia con l’eccezionale, usando l’espressione «fuori del comune» al posto di «anormale» e assumendo il fuori del comune come la visione sulla quale misurare le nostre comunissime vite. Invece che storie cliniche, lo psicologo leggerà storie di esseri umani; invece che la biologia, la biografia; anziché applicare l’epistemologia del pensiero occidentale alle culture altre, alle culture tribali o non tecnologiche, lasceremo che la loro antropologia (le loro storie sulla natura umana) si applichi alla nostra. Voglio rovesciare il modo di pensare della psicologia quale è insegnata e praticata oggi, nel tentativo ambizioso di redimere alcuni dei suoi peccati. EMINENTE ED ECCEZIONALE Le storie che scandiscono questo come gli altri capitoli mostrano quale sia il punto focale di questo libro: principalmente, la nostra infanzia. E quale sia il metodo seguito: principalmente, un metodo aneddotico. E la passione che lo anima: il fuori del comune. Questa passione richiede qualche chiarimento. Ciò che è fuori del comune rivela un’immagine ingrandita e più pregnante di ciò che è comune. Lo studio del fuori del comune a scopi di ammaestramento ha una lunga tradizione, dalle biografie dei grandi uomini dell’antichità scritte da Varrone, Plutarco e Svetonio, attraverso le vite esemplari della patristica26 e quelle degli artisti del Rinascimento del Vasari, fino, di qua dell’Atlantico, agli Uomini rappresentativi di Emerson. Parallela a questa tradizione è la lettura in chiave edificante di personaggi della Bibbia come Abramo, Ruth, Ester e Davide, e delle vite dei santi, tutti luminosi esempi di personalità. Contemporaneamente, la tradizione teatrale proponeva come modelli nei quali vedere rispecchiata la nostra vita personaggi fuori del comune, da Edipo, Antigone, Fedra, Amleto, Lear e Faust giù giù fino a Willy Loman. In questo libro si trovano divi del cinema, assassini e conduttori di talk show accostati a premi Nobel e uomini di Stato: questa compresenza e l’analogo spazio a essi dedicato tuttavia non vogliono sottintendere che celebrità e creatività si equivalgano. Il loro essere, tutti, personaggi eminenti illustra meglio la straordinaria potenza di ciò che chiama verso una particolare strada. Dunque, questo libro si limita a utilizzare ai propri fini i personaggi eminenti: per rendere più evidente, attraverso il loro destino, la vocazione presente anche nel nostro.