2. Il primo giorno dell’anno ho acquisito una certa celebrità, e da allora posso andare in giro a testa alta, cosa che mi fa molto piacere. Il mattino di Capodanno8, dunque, il mio padrone ha ricevuto una cartolina illustrata. Una cartolina d’auguri per l’anno nuovo da parte di un suo amico pittore, rossa nella parte superiore e verde scuro in quella inferiore. Nel mezzo, dipinto a pastelli, un animale accucciato. Chiuso nello studio, il padrone la guarda e la riguarda da tutti i lati e poi ne loda il colore. Poiché ha ormai espresso la sua ammirazione, mi aspetto che la metta via, ma lui ricomincia a studiarla da sopra e da sotto. Torcendosi tutto la osserva allungando le braccia, come farebbe un vecchio che si sforzi di leggere il Libro della Divinazione, poi si gira verso la finestra e di nuovo la guarda avvicinandola alla punta del naso. In questa posizione gli tremano le ginocchia e io spero che smetta in fretta perché traballo. Quando finalmente il tremito si calma un po’, lo sento dire a bassa voce: «Ma cosa mai avrà voluto dipingere?» Ecco perché da qualche minuto si dà tanta pena: apprezza i colori della cartolina, ma non capisce che animale rappresenti! Possibile che per lui sia tanto difficile? Socchiudo discretamente un occhio e guardando con calma constato che è un mio ritratto, senza ombra di dubbio. Il pittore non si è atteggiato ad Andrea del Sarto come il mio padrone, ma ci sa fare sia con le forme che con i colori. Chiunque capirebbe subito che si tratta di un gatto. E chiunque con l’occhio un po’ allenato realizzerebbe che fra tutti i gatti sono proprio io, magnificamente raffigurato. Al pensiero che qualcuno possa tribolare tanto per comprendere una cosa così evidente, provo una certa pena nei confronti degli uomini. Potendo, vorrei spiegare al padrone che su quella cartolina hanno dipinto me. O, se questo è al di sopra delle sue possibilità, per lo meno fargli capire che si tratta di un gatto. Tuttavia, poiché il Cielo non ha voluto dotare gli esseri umani della capacità di intendere il linguaggio felino, purtroppo devo rassegnarmi a lasciare le cose come stanno. Vorrei avvisare i lettori che l’abitudine degli uomini di chiamarmi “il gatto” in tono che definirei spregiativo, come se fossi un’entità trascurabile, è davvero biasimevole. L’idea che le mucche e i cavalli siano fatti di escrementi umani, e i gatti di cacca di mucche e di cavalli, è diffusa anche fra insegnanti e affini, gente che si dà arie senza rendersi conto della propria ignoranza. Siate obiettivi, è una cosa vergognosa. È vero che sono solo un gatto, ma non è lecito trattarmi in maniera così sbrigativa. A chi ci osservi dall’esterno noi gatti sembriamo tutti uguali, indifferenziati sia nella forma che nella sostanza, privi di una personalità individuale, ma chi entrasse nel nostro mondo constaterebbe che è molto complesso, che vi si può applicare alla lettera il detto umano “dieci individui, dieci caratteri”. Occhi, naso, pelo, zampe... siamo uno diverso dall’altro in tutto. Dalla piega dei baffi al modo di drizzare le orecchie o di muovere la coda, non ci sono due gatti simili. Uno è bello, l’altro è brutto, a uno piace una cosa, a un altro un’altra, c’è il gatto elegante e quello volgare, le variazioni sono infinite, lo si può affermare con certezza. Ciononostante gli esseri umani, i cui occhi sono voltati verso il cielo con il pretesto di elevare lo spirito, disgraziatamente non riescono a distinguerci l’uno dall’altro nemmeno nelle più evidenti caratteristiche fisiche, figuriamoci nel carattere. L’antico motto “i simili con i simili” è proprio vero: i bottegai sono bottegai e i gatti sono gatti, e quindi il mondo felino lo possono capire soltanto i gatti. Con tutto il loro progresso, gli uomini non arrivano a tanto, perché in realtà sono molto meno avanzati di quanto credano, e questo rende le cose tanto più difficili. Chi soprattutto non ha speranza è quel campione di insensibilità del mio padrone, perché non si rende conto che per capirsi fino in fondo l’un l’altro, l’essenziale è l’amore. Chiuso e scorbutico come un’ostrica, resta rintanato nel suo studio disinteressandosi del mondo esterno. La cosa più comica è che si atteggia a saggio e pretende di aver raggiunto una levatura spirituale che lo pone al disopra di tutti. La prova che non l’ha raggiunta è la sua ottusità davanti al mio ritratto, averlo sotto gli occhi non gli impedisce di dire: «Questo è il secondo anno di guerra contro la Russia, quindi può darsi che il disegno rappresenti un grande orso9», un’evidente assurdità. Me ne sto a occhi chiusi sulle sue ginocchia, assorto nei miei pensieri, quando la serva viene a portare un’altra cartolina. Nell’illustrazione stampata quattro o cinque gatti d’oltreoceano messi in fila stanno studiando, chi con una penna in mano, chi davanti a un libro aperto. Uno di loro, discosto dagli altri, esegue una danza popolare sull’angolo della scrivania. Al di sopra delle figure qualcuno ha scritto con inchiostro di china nerissimo: «Io sono un gatto», e sul lato destro vedo persino un haiku: «Danzano i gatti, e leggono bei libri, in primavera». La cartolina è stata inviata da uno degli ex allievi del mio padrone, e il suo significato sarebbe chiaro a chiunque alla prima occhiata, ma quella zucca vuota di nuovo sembra non coglierlo e la guarda con espressione perplessa, chiedendosi se per caso non siamo nell’anno del gatto. Non vuole rendersi conto del livello di celebrità che ho ormai raggiunto. Poco dopo la serva porta una terza cartolina. Non illustrata, questa volta. Accanto agli auguri per l’Anno Nuovo c’è la preghiera di «porgere i migliori saluti anche al gatto». Poiché è scritto nero su bianco, il padrone, per quanto ottuso, non può fare a meno di capire, si volta a guardarmi e fa “uhm”, come se finalmente si accorgesse della mia presenza. Il suo sguardo, diversamente dal solito, sembra contenere un accenno di rispetto. Uno sguardo più che meritato, visto che è grazie a me se di colpo ha acquisito nuova considerazione, lui che in precedenza non ha mai ricevuto alcun tipo di riconoscimento dalla società. In quel momento si sente tintinnare il campanello alla porta d’ingresso. Una visita, con ogni probabilità, la serva andrà ad aprire. Ho deciso di non mostrarmi nell’ingresso, tranne quando viene il garzone del droghiere, quindi rimango seduto sulle ginocchia del padrone senza scompormi. Lui invece guarda verso la porta con aria preoccupata, quasi si attenda di vedere entrare un usuraio. Credo che non gli piaccia ricevere le persone che vengono a porgere gli auguri di Capodanno e detesti bere con loro una tazza di sake. Non ci sono giustificazioni per una persona che raggiunge un tale livello di misantropia! Se le visite lo importunano tanto, potrebbe uscire di casa fin dal mattino, ma non ne ha il coraggio. Il suo carattere di ostrica si manifesta sempre più. Dopo qualche secondo la serva viene ad annunciare che c’è il signor Kangetsu10. Credo sia un ex allievo del mio padrone, ora si è laureato e ha reputazione di essere diventato più bravo di lui sotto ogni punto di vista. Non so perché, ma viene spesso a trovarlo. E ogni volta si mette a fare discorsi terribilmente romantici... che c’è una tale che lo ama, o che non lo ama, che la società lo appassiona, o che la trova priva di interesse, poi se ne va. È incomprensibile che cerchi la compagnia di un uomo tanto inaridito per parlare di questi argomenti, ma è ancora più divertente vedere quell’ostrica ascoltare queste confidenze e dare ogni tanto il suo parere. «È da parecchio tempo che non mi faccio vivo, professore. È che dalla fine dell’anno sono stato molto impegnato e, anche se ho pensato non so quante volte di venire, i piedi non mi portavano da questa parte...» dice Kangetsu giocherellando con le stringhe del suo haori, come volesse alludere a qualcosa. «E dov’è che ti portavano?» chiede serio il mio padrone, tirando l’orlo delle maniche del suo haori di cotone nero con gli stemmi di famiglia. Maniche troppo corte, tanto che la fodera spunta di un paio di centimetri da entrambe le parti. «Be’, in un’altra direzione...» ride Kangetsu. A quel punto noto che gli manca un dente davanti. «Cos’è successo al tuo dente?» domanda il mio padrone cambiando argomento. «È che... ho mangiato dei funghi in un ristorante». «Cos’hai mangiato?» «Quello che le ho detto, dei funghi. Quando ho cercato di staccare con i denti la cappella, un incisivo si è spezzato». «I vecchi bavosi si rompono i denti con un fungo. Forse potresti trarne ispirazione per un haiku, ma di certo non potrà favorire le storie d’amore», commenta il mio padrone dandomi pacche sulla testa con il palmo della mano. «È il solito gatto, quello? Mi pare bello grasso, batte persino quello nero del vetturino, è davvero magnifico!» Le lodi di Kangetsu sono del tutto esagerate. «Può darsi che di recente sia diventato più grosso», risponde con un certo orgoglio il mio padrone, dandomi altre pacche sulla testa. Le lodi le apprezzo, ma i colpi no, mi fanno un po’ male. «Anche l’altra sera abbiamo dato un piccolo concerto», racconta Kangetsu tornando all’argomento di cui stava parlando. «Dove?» «Be’, questo non glielo posso dire. Ma è stato interessante, c’erano tre violini e un pianoforte. Tre violini insieme, anche se non valgono granché, si lasciano ascoltare. Le altre due violiniste erano donne, io mi sono unito a loro e per quel che mi riguarda penso di aver suonato piuttosto bene». «Uhm... e chi erano queste donne?» si informa il mio padrone con una punta d’invidia. Ha sempre un’aria apatica e disinteressata, ma non è certo indifferente alle signore. Una volta, in un libro straniero ha letto di un tale che si innamorava della maggior parte delle donne che incontrava. L’autore diceva per scherzo che su dieci donne che vedeva passare per la strada, si poteva calcolare che il protagonista si innamorasse di sette, ma il padrone leggeva pieno d’ammirazione senza cogliere l’ironia, questo è il suo livello. Ora, il fatto che un uomo tanto volubile conduca la vita segregata di un’ostrica è qualcosa che io, gatto come sono, non riesco a capire. Alcuni sostengono che è a causa di una storia d’amore finita male, altri ne attribuiscono la colpa alla sua dispepsia, altri ancora alla penuria cronica di quattrini e alla patologica timidezza. Ma che importanza può avere il perché, considerato che non è uomo da esercitare qualche influenza sulla storia dell’era Meiji11? La cosa certa è che si informa con invidia sulle donne di cui parla Kangetsu, il quale, l’aria divertita, prende con i bastoncini una fettina di kamaboko e ne morde la metà con i denti davanti. Temo che ne perda un altro, ma questa volta non gli succede nulla. «Sono tutte e due ragazze di buona famiglia, lei non le conosce», risponde con una certa freddezza. «Davv...» inizia a dire il padrone, ma il resto se lo tiene per sé. A questo punto Kangetsu ritiene che sia ora di ritirarsi. «È una bellissima giornata, se ha un po’ di tempo, perché non viene a fare una passeggiata con me?» propone. «In città c’è grande animazione per la caduta di Port Arthur». Il mio padrone, che mi pare molto più interessato alle due violiniste che alla caduta di Port Arthur, ci pensa su qualche secondo, poi prende una decisione e si alza di colpo. «Quand’è così, andiamo!» esclama, e si avvia senza cambiarsi l’haori di cotone nero e il vecchio kimono imbottito di seta tessuta a mano che indossa da vent’anni, un ricordo del fratello maggiore. Un kimono può essere tessuto a mano quanto si vuole, ma difficilmente sopporta di essere portato per tanto tempo. In più punti è talmente liso che guardandolo controluce si vedono le cuciture delle pezze applicate all’interno. Lui in fatto di abbigliamento non conosce né feste di fine anno né Capodanno, non fa distinzione fra gli abiti da portare in casa e quelli da indossare fuori. Quando deve uscire, infila le mani nelle maniche ed esce. Può darsi che non possieda dei kimono più belli, o che li possieda ma non abbia voglia di cambiarsi, non lo so. In ogni caso non penso che il suo comportamento sia dovuto a una delusione d’amore. Quando i due sono usciti, mi sono preso la libertà di mangiare il kamaboko lasciato da Kangetsu. Ormai non mi considero più un gatto ordinario. Valgo almeno quanto i gatti di Momokawa Joen12, o quello che rubava i pesci rossi cantato da Gray13. Quanto al Nero del vetturino, mi sono reputato superiore a lui fin dall’inizio. Vorrei vedere che qualcuno mi rivolgesse delle critiche soltanto perché ho mangiato una fettina di kamaboko. Senza contare che l’abitudine di mangiare qualcosetta di nascosto tra un pasto e l’altro non l’abbiamo solo noi gatti. O-san, per esempio, quando la padrona è assente non fa altro che ingozzarsi di dolci e altre cibarie. E non solo O-san, anche le bambine, di cui la padrona decanta sempre l’educazione raffinata, hanno questo vizio. Quattro o cinque giorni fa quelle due sciocche si sono svegliate presto e, mentre i genitori stavano ancora dormendo, si sono messe a tavola una di fronte all’altra. Il mattino hanno l’abitudine di mangiare parte del pane destinato al mio padrone, cosparso di zucchero, e anche quel giorno la zuccheriera era sul tavolo con un cucchiaino piantato dentro. Non avendo a disposizione il pane su cui di solito sparge lo zucchero, la bambina più grande ne ha preso una cucchiaiata e l’ha messa nel suo piatto. La più piccola l’ha immediatamente imitata, ha preso un’uguale quantità di zucchero e anche lei se l’è messa nel piatto. Per un po’ sono rimaste a guardarsi, poi di nuovo la maggiore ha preso una cucchiaiata di zucchero e se l’è messa nel piatto. Subito la sorellina ha fatto la stessa cosa. Hanno continuato così, una cucchiaiata la maggiore, una cucchiaiata la minore. Ogni volta che la prima portava la mano alla zuccheriera, la seconda la imitava. E così nei loro piatti lo zucchero andava accumulandosi formando due montagnole, mentre la zuccheriera si svuotava, ma a quel punto il padre è uscito dalla stanza da letto strofinandosi gli occhi assonnati e ha rimesso al suo posto lo zucchero che le figlie avevano estratto con tanta fatica. Assistendo a simili episodi, ne deduco che l’egoismo permette forse agli esseri umani di raggiungere una maggiore equità, ma quanto a saggezza noi gatti siamo molto superiori. Quella volta avrei voluto consigliare alle bambine di mangiare lo zucchero subito, invece di accumularne una tale quantità, ma poiché il nostro linguaggio è incomprensibile alle persone, purtroppo ho potuto solo restare a guardare in silenzio dall’alto della credenza. Il mio padrone, dopo essere andato chissà dove con Kangetsu, è tornato a casa tardi e il mattino sono già le nove quando si mette a tavola per fare colazione. Osservandolo dalla mia solita postazione sulla credenza, vedo che mangia il suo zoni senza dire una parola. Si serve e si riserve. I mochi sono piuttosto piccoli, lui ne prende sei o sette, ma l’ultimo lo lascia nella ciotola senza toccarlo e posa i bastoncini dicendo che ne ha abbastanza. Un comportamento da bambino viziato che non permetterebbe a nessun altro membro della famiglia, ma poiché si compiace di ostentare i suoi privilegi di padrone, vedere il cadavere bruciacchiato di un mochi nel torbido brodo lo lascia indifferente. Sua moglie prende dal mobiletto le pillole di takadiastase e le mette sul tavolo. «Non servono a niente, quelle, non le voglio», dice lui. «Però ti fanno molto bene, quando mangi troppi farinacei dovresti prenderle», insiste lei. «Sono del tutto inutili, sia per i farinacei che per qualunque altra cosa», continua ostinato. «Non hai la minima costanza», borbotta la moglie. «Non è una questione di costanza, è che quella medicina non serve a niente». «Allora perché fino a poco fa dicevi che faceva meraviglie e la prendevi ogni giorno?» «Perché per un certo periodo ha fatto effetto, ma adesso non più», ribatte pronto. «Se interrompi la cura tutti i momenti, anche la medicina migliore non può fare effetto. Se non si ha un po’ di perseveranza, la dispepsia, diversamente dalle altre malattie, non guarisce», dice la moglie cercando l’appoggio di O-san che sta portando un vassoio. «È proprio così», commenta la serva fermandosi e prendendo immediatamente le parti della padrona. «Se non la prova per un po’ di tempo, come fa a sapere se è una medicina buona o no?» «Fa lo stesso, tanto non la prendo e basta. Cosa ne capite voi donne? State zitte!» «D’accordo, visto che sono una donna...» fa la padrona mettendo la scatola di takadiastase davanti al marito per farglielo prendere a tutti i costi. Lui si alza senza una parola e si ritira nello studio. La padrona e O-san si guardano e scoppiano a ridere. Nei momenti come questo, se mi azzardo a seguire il padrone e salirgli sulle ginocchia, mal me ne incoglie, così faccio il giro dal giardino, mi metto nella veranda e da uno strappo negli shoji guardo all’interno dello studio. Vedo che ha aperto un libro scritto da un tale Epitteto e lo sta leggendo. Se il livello di comprensione è quello solito, ci sarà davvero da complimentarsi. Dopo cinque o sei minuti lo posa sulla scrivania. Me l’aspettavo e continuo a osservarlo, questa volta estrae da un cassetto il suo diario e inizia a scrivere: Con Kangetsu sono andato in giro per Nezu, Ueno, Ikenohata e Kanda. A Ikenohata delle geisha che indossavano dei kimono primaverili dal bordo decorato di motivi giocavano a volano davanti alle case da tè. I kimono erano belli, ma le loro facce piuttosto brutte. Mi ricordavano il mio gatto. Che bisogno aveva mai di portare me ad esempio di bruttezza? Se andassi dal barbiere Kita e mi facessi radere, non sarei tanto diverso da una persona. È per questa loro superbia che gli uomini sono insopportabili. Quando abbiamo svoltato all’angolo di Hotan abbiamo visto arrivare un’altra geisha. Questa era una donna snella con spalle dalla linea bellissima. Anche il modo in cui indossava il kimono viola era molto elegante. Stava dicendo: «Scusa per la scorsa notte, Gen-chan... è che avevo troppi impegni», e sorrideva mostrando i denti candidi. La voce però era roca come quella di un corvo e riduceva il suo fascino, al punto che mi è passata la voglia di voltarmi per vedere che tipo d’uomo fosse quello che aveva chiamato Gen-chan. Ho continuato per la mia strada senza nemmeno tirar fuori le mani dalle maniche del kimono. Quanto a Kangetsu, sembrava piuttosto eccitato. Non c’è nulla di più difficile da capire della psicologia umana. Non riesco assolutamente a rendermi conto se in questi giorni il mio padrone sia di cattivo umore, se invece sia allegro, o se cerchi parole rassicuranti negli scritti di qualche vecchio filosofo. Non ho la minima idea di cosa gli passi per la mente, se si faccia beffe della società umana o desideri avere rapporti con i suoi simili, se sia irritato per qualche ragione banale o ancora se si tenga al di sopra di ogni preoccupazione mondana. In queste cose noi gatti siamo molto più semplici. Se abbiamo fame mangiamo, se abbiamo sonno dormiamo, quando ci arrabbiamo andiamo su tutte le furie, quando piangiamo lo facciamo con tutta l’anima. Tanto per cominciare, non teniamo cose inutili come un diario. Perché non ne abbiamo bisogno. È probabile che le persone che hanno due facce, come il padrone, sentano la necessità di esternare gli aspetti del proprio carattere che non vogliono mostrare a nessuno scrivendo un diario nell’intimità della loro stanza, ma per quanto concerne noi gatti, le nostre quattro posture fondamentali – camminare, stare fermi, stare seduti e stare sdraiati, oltre a urinare e defecare – costituiscono già in sé un autentico diario, quindi siamo esonerati dalla seccatura di tenerne uno per conservare la nostra identità. Se uno ha il tempo di scrivere un diario, tanto vale che se ne stia a dormire nella veranda. Abbiamo cenato in un ristorante di Kanda. Ho bevuto due o tre tazze di sake di marca Masamune, e stamattina il mio stomaco era in ottime condizioni. Credo che per chi è debole di stomaco come me, bere alcol a cena sia la cosa migliore. Il takadiastase invece non serve a niente. A niente, checché ne pensino gli altri. Possono dire quello che vogliono, se una medicina non ha effetto, non ha effetto. Incredibile la disinvoltura con cui discredita il takadiastase. Si ha l’impressione che stia litigando con se stesso. Sta ancora sfogando il malumore di stamani. Può darsi che la vera funzione dei diari che tengono gli esseri umani sia proprio questa. L’altro giorno il signor XX mi ha detto che saltare la colazione fa bene allo stomaco, così per due o tre mattine non ho mangiato nulla, ma non ha funzionato, il mio intestino non faceva altro che protestare rumorosamente. Il signor Y invece mi ha fortemente sconsigliato di mangiare alimenti sottaceto. A sentire lui sono all’origine di ogni malattia dello stomaco. Quindi eliminandoli si rimuovono le cause della malattia e la guarigione totale è garantita, questa è la sua teoria. Allora per una settimana non ho toccato sottaceti, ma non vedendo risultati, di recente ho ripreso a mangiarne. Il signor Z invece dice che basta fare dei massaggi intestinali. Non dei massaggi qualunque, però. Uno o due massaggi con il metodo tradizionale Minagawa sono sufficienti a curare all’origine la maggior parte delle malattie dello stomaco. Un saggio confuciano come Yasui Sokuken li apprezzava molto, e pare che persino un eroe come Sakamoto Ryoma ogni tanto se li facesse fare, quindi sono andato subito da un massaggiatore di Kaminegishi per provare anch’io. Costui mi ha detto che, perché la cura fosse efficace, prima doveva massaggiarmi le ossa in modo da capovolgere completamente la posizione degli intestini. Insomma, questi massaggi si sono rivelati una vera tortura. Dopo mi sentivo molle come uno straccio, mi pareva di soffrire di letargia cronica, così non ci sono più tornato. Il giovane A mi ha detto che non devo assolutamente mangiare cibi solidi, così per tutta una giornata ho bevuto soltanto latte. Risultato: rumorosi rimescolii nelle mie viscere, che mi davano la sensazione di essere inondate. Non ho chiuso occhio per tutta la notte. Il signor B sostiene che per fare andare a posto da soli gli intestini basta smuoverli respirando con il diaframma, e mi ha consigliato di provare. Per un po’ l’ho fatto, poi ho avvertito nella pancia spostamenti sgradevoli che mi hanno allarmato. Comunque ogni tanto ci penso e mi ci applico con attenzione, ma dopo cinque o sei minuti me ne dimentico. E se cerco di ricordarmene, il pensiero del mio diaframma mi impedisce di leggere o di scrivere. Meitei, l’esteta, vedendomi intento a respirare con il diaframma mi ha detto piuttosto seccamente di smetterla perché i dolori del parto non sono cosa da uomini, così ora ho smesso. Il dottor C sostiene che mangiare soba fa bene, così ho mangiato chili di pasta, in salsa di soia o in brodo, ma mi ha soltanto fatto andare di corpo senza avere alcun effetto benefico. Ho provato ogni metodo possibile per curare il mio vecchio mal di stomaco, tutto inutile. Soltanto quelle tre tazze di sake che ho bevuto ieri sera in compagnia di Kangetsu mi hanno fatto davvero bene. D’ora in poi a cena ne berrò due o tre tazze. Anche questo proposito non verrà mantenuto a lungo. Lo spirito del mio padrone, lungi dall’essere stabile, è mobile come gli occhi dei gatti. Qualunque cosa intraprenda, non persevera. Inoltre, benché nel diario non faccia che preoccuparsi per il mal di stomaco, in pubblico finge di essere stoico. È davvero ridicolo. Poco tempo fa è venuto a trovarlo un suo amico, un certo professor Tal dei Tali, il quale sosteneva che in qualche modo la malattia è il risultato dei peccati della persona che ne soffre e dei suoi antenati. Sembrava aver studiato a fondo la questione perché esponeva in modo chiaro, con logica rigorosa. Una dissertazione magnifica. Disgraziatamente un uomo come il mio padrone non ha né l’intelligenza né l’istruzione necessarie per contestare una teoria tanto ben concepita. Tuttavia, dato che è lui quello che soffre di mal di stomaco, ha cercato bene o male di salvare la faccia trovando ogni sorta di scuse. «La tua spiegazione è interessante, ma lo sapevi che Car lyle era debole di stomaco?» ha detto del tutto a sproposito, come se il fatto di soffrire di mal di stomaco come Carlyle fosse motivo di gloria. «Se Carlyle era malato di stomaco, non significa che tutti i malati di stomaco siano necessariamente dei Carlyle», è stata la pronta risposta del suo amico. Mortificato, il mio padrone è stato zitto. È gonfio di vanità, però preferirebbe non soffrire di di spepsia, quindi il suo proposito di cominciare da stasera a bere sake è davvero comico. A ripensarci ora, il fatto che si sia ingozzato di mochi a colazione, probabilmente era dovuto alla bevuta di ieri sera con Kangetsu. Vorrei provare ad assaggiarli anch’io. Io sono un gatto, però mangio di tutto. Non ho l’audacia di fare spedizioni in capo al mondo, di spingermi fino al negozio del droghiere come il Nero del vetturino, né la mia posizione sociale mi permette i lussi di Micetta, la gatta della maestra di koto a due corde che abita nella stradina qui dietro. Di conseguenza non faccio tante storie. Mangio perfino il pane che lasciano cadere le bambine e il ripieno di fagioli dei dolci. I sottaceti li trovo disgustosi, ma tanto per provare una volta ho mangiato due fettine di rafano in salamoia. La cosa strana è che quasi tutti i cibi, una volta che li assaggi, non sono male. Un gatto che vive in casa di un professore non può permettersi il lusso di fare lo schizzinoso. Il padrone una volta ha raccontato che in Francia c’era uno scrittore che si chiamava Balzac. Pare che costui fosse uno stravagante: non riguardo al cibo ma, in quanto scrittore, nella creazione letteraria. Balzac un giorno, volendo dare un nome al personaggio di un romanzo, si mise a pensarne diversi, ma non ne trovava nessuno che lo convincesse. A un certo punto ricevette la visita di un amico e insieme a lui andò a fare una passeggiata. Balzac, che aveva trascinato fuori l’amico tacendogli il suo vero scopo, pensava solo a trovare il nome che tanto lo ossessionava, e camminando per la strada non faceva altro che guardare le insegne dei negozi. Però non vedeva un nome che gli andasse a genio. Continuava ad avanzare tirandosi dietro l’amico senza badare minimamente a lui. E quello lo seguiva senza capirci nulla. In conclusione, camminarono dal mattino fino a sera perlustrando tutta Parigi. Al ritorno, tutt’a un tratto Balzac posò gli occhi sull’insegna di un sarto. Marcus, c’era scritto. «Eccolo, l’ho trovato!» esclamò Balzac battendo le mani. «È il nome ideale, Marcus. Lo faccio precedere da una zeta, ed è perfetto. La zeta è indispensabile: Z. Marcus. Perfetto. Non c’è niente da fare, i nomi che penso io suonano sempre falsi, non convincono. Finalmente ne ho trovato uno che mi piace», diceva tutto contento, dimenticando il disturbo che aveva arrecato all’amico. Era stato necessario perlustrare tutta Parigi per dare un nome al personaggio di un romanzo, una bella fatica davvero. A questi livelli la stravaganza può essere geniale, ma per un gatto nella mia situazione, un gatto che ha un padrone con il carattere di un’ostrica, una tale condotta non sarebbe concepibile. La mia capacità di mangiare di tutto, purché sia commestibile, la devo alle circostanze in cui mi trovo. Quindi anche il desiderio che provo ora di assaggiare un mochi arrostito non è certo un capriccio, nasce dalla convinzione che se c’è del cibo a disposizione non bisogna lasciarselo sfuggire, e dal pensiero che il mochi lasciato dal mio padrone forse è ancora in cucina... andiamo a vedere. Come ho già notato stamattina, il mochi, sempre dello stesso colore, è rimasto attaccato al fondo della ciotola. Devo confessare che non ne ho mai assaggiato uno. A guardarlo sembra buono, ma mi fa un po’ senso. Con la zampa anteriore gratto leggermente la foglia di verdura che lo ricopre. Le mie unghie si conficcano nel mochi e diventano appiccicose. Provo ad annusarle, l’odore è lo stesso che si sente quando qualcuno versa in una scodella il riso rimasto attaccato alla pentola. Incerto se mangiare o no, mi guardo intorno. Fortuna o sfortuna che sia, non c’è nessuno. O-san, con l’espressione indifferente che ha sempre, estate e inverno, sta giocando a volano. Le bambine stanno cantando Cosa racconti signor Coniglio? nella stanza in fondo. Se devo tentare il colpo, è il momento. Non posso lasciarmi sfuggire quest’occasione, passerei un altro anno senza conoscere il gusto di un mochi. A questo punto, benché sia soltanto un gatto, intuisco una verità profonda: è l’occasione che induce tutti gli esseri viventi a fare quel che non desiderano. Perché a essere sinceri non è che abbia tutta questa voglia di assaggiare il mochi: più lo guardo in fondo alla ciotola, più mi fa senso, e mangiarlo non mi attira per niente. Se in questo momento O-san aprisse di colpo la porta, o se sentissi avvicinarsi il rumore dei passi delle bambine, abbandonerei l’impresa senza rimpianti, però la curiosità per i mochi arrostiti mi tormenterebbe per tutto l’anno. In ogni caso non viene nessuno, è inutile che cerchi di prendere tempo, non viene nessuno. E provo un impulso irresistibile a mangiare in fretta, in fretta! Indugio ancora a osservare il fondo della ciotola con la speranza che finalmente arrivi qualcuno. Invece niente, nessuno. Ormai non posso fare altro che azzannare questo dannato mochi. Alla fine, spingendo forte il muso contro il fondo della ciotola, ne mordo un angolo. Stupore! Di solito se mordo con decisione una cosa questa si spezza, invece ora, quando faccio per staccare i denti, non ci riesco. Riprovo a mordere, ma i denti non si spostano. Mi accorgo finalmente che i mochi sono una diavoleria, ma è troppo tardi. Quando un uomo cade in una palude, più si dibatte per uscirne più vi sprofonda, e allo stesso modo più mordo meno riesco ad aprire la bocca e a staccare i denti. Fanno presa, ma non posso assolutamente estrarli dall’impasto. Una volta il professor Meitei, l’esteta, ha accusato il mio padrone di essere un uomo tutto d’un pezzo, e penso che avesse perfettamente ragione. Questo mochi è come lui, tutto d’un pezzo. Mi dico che, anche continuando a provare fino alla fine del tempo, non otterrei alcun risultato, è come dividere dieci per tre. Nel bel mezzo di quest’agonia scopro un’altra verità: tutti gli esseri viventi sanno per istinto cosa è loro confacente e cosa no. Ne ho già scoperte due, ma non ne traggo gioia alcuna perché sono sempre attaccato al mochi. I miei denti sono prigionieri dell’impasto e se cerco di estrarli mi fanno male. Se non mi sbrigo a liberarmi e scappare, arriverà O-san. Anche le bambine sembrano aver smesso di cantare, di sicuro verranno di corsa in cucina. Al colmo dell’angoscia provo a muovere la coda, ma non serve, provo a drizzare e abbassare alternativamente le orecchie, nessun effetto. Poi ci ripenso e mi dico che la coda e le orecchie non hanno alcuna relazione con il mochi, quindi agitare l’una o muovere le altre è perfettamente inutile, tanto vale smettere. Alla fine mi viene l’idea di usare le zampe anteriori per spingere giù il mochi. Alzo per prima la destra e mi strofino il muso. Il mochi non si sposta di un millimetro. Poi allungo la sinistra e provo a tracciare intorno alla bocca rapidi cerchi. Nemmeno questo rito spezza il maleficio. Dicendomi che l’importante è conservare la calma, uso alternativamente la destra e la sinistra, ma il risultato è che i miei denti sprofondano ancora di più nel mochi. Sempre più irritato, uso le due zampe insieme. Ed ecco che accade il prodigio, riesco a stare in piedi sulle zampe posteriori. Che strano, ho l’impressione di aver trasceso la mia natura felina... Ma che importanza può avere in questo momento che sia ancora un gatto o meno! Prendo a strofinarmi tutta la faccia come un pazzo, determinato a fare qualunque cosa pur di spezzare il maleficio. Il movimento frenetico delle zampe anteriori rischia di sbilanciarmi e farmi cadere. Ogni volta che sono sul punto di cadere devo ritrovare l’equilibrio sulle zampe posteriori, e non posso restare fermo nello stesso punto. Prendo a saltare da una parte all’altra della cucina. Sono sempre io, eppure sto in piedi con l’abilità di un funambolo. La terza verità mi appare allora chiarissima: in situazione di grande pericolo, si riescono a superare le proprie normali facoltà. È opera della Divina Provvidenza. Mentre lotto strenuamente contro il maleficio del mochi – per fortuna con l’aiuto divino – sento un rumore di passi, qualcuno sta venendo dall’interno della casa. Se arriva qualcuno a questo punto sono spacciato, penso, e riprendo a girare ballando per tutta la cucina. Il rumore di passi va avvicinandosi. Purtroppo la Divina Provvidenza non basta. Le bambine finiscono per trovarmi. «Presto, il gatto ha mangiato lo zoni e sta ballando!» si mettono a gridare. La prima a sentirle è O-san. Abbandona subito racchetta e volano e si precipita in cucina. «Oh, questa poi!» esclama. «Ma è tremendo, questo gatto!» sentenzia la padrona nel suo kimono di crespo di seta. Persino il padrone emerge dallo studio e dice: «Quant’è cretino!» Solo le bambine continuano a gridare: «Che bello, che bello!» Poi tutti insieme, come a un segnale, scoppiano a ridere. Io provo rabbia e dolore, ma non posso smettere di ballare, non ce la faccio più! Alla fine, quando le risate si calmano, la bambina di cinque anni fa: «Certo che esagera, questo gatto, mamma». E tutti riprendono a ridere, come un’onda che torni alla carica. Sono stato spesso testimone dell’insensibilità degli esseri umani, ma non ho mai provato un tale risentimento. Poiché la Divina Provvidenza si è dileguata, torno a mettermi a quattro zampe secondo la mia abitudine, roteando gli occhi per lo stupore e l’umiliazione. «Be’, aiutalo a liberarsi di quel mochi», ordina allora il padrone a O-san, quasi gli dispiacesse vedermi morire sotto i suoi occhi. O-san guarda la padrona con l’aria di chiederle: perché non lo lasciamo ballare ancora un po’? La padrona non dice nulla, forse vorrebbe godersi ancora la scena, ma non fino al punto di vedermi morire. «Se non lo liberi in fretta muore, sbrigati!» ordina di nuovo il padrone. Allora O-san, quasi venisse bruscamente destata da un sogno in cui stava mangiando qualche leccornia, a malincuore afferra il mochi e me lo stacca dai denti. Pur non essendo Kangetsu, ho temuto di perdere tutti quelli davanti. Un dolore indescrivibile, insopportabile, i denti che affondavano nel mochi sono stati strappati dall’impasto senza riguardo né pietà. Sperimento sulla mia pelle una quarta verità: il benessere si raggiunge solo attraverso la sofferenza. Quando mi guardo intorno intontito, tutta la famiglia si è già ritirata nelle stanze interne. Dopo una simile figuraccia, sopportare lo sguardo di O-san che mi tiene d’occhio è una punizione troppo severa. Per rinfrescarmi lo spirito decido di andare a trovare Micetta, la gatta della maestra di koto a due corde, ed esco dalla cucina passando dal retro. Micetta nel vicinato è una famosa bellezza. Anche se sono indubbiamente un gatto, non sono insensibile agli affetti. Quando ho il morale a terra a forza di vedere la faccia scontenta del padrone e di sopportare i rimproveri di O-san, vado sempre a trovare questa amica con la quale discorriamo di tante cose. E parlando il mio spirito si rasserena, riesco a dimenticare le preoccupazioni, la sofferenza, qualunque cruccio, mi sento rinascere. L’influenza femminile è veramente qualcosa di prodigioso. Da una fessura nella siepe di cipressi getto un’occhiata intorno per controllare se Micetta c’è, e la vedo seduta compostamente nella veranda, con un collarino nuovo in occasione del Capodanno. La curvatura della sua schiena è di un’avvenenza indicibile. Ha in sé tutta la bellezza che può contenere una linea curva. Il modo in cui tiene arrotolata la coda, in cui piega le zampe, il languore con cui muove a piccoli colpi le orecchie sono uno spettacolo di ineffabile leggiadria. Il piacere di stare seduta nella veranda calda e soleggiata le fa assumere un atteggiamento di calma e di compostezza, ma il suo pelo folto e morbido come velluto ondeggia sinuoso alla brezza leggera riflettendo la luce primaverile. Per un po’ rimango a contemplarla in ammirazione, finché torno in me e le faccio segno con la zampa davanti. «Signorina Micetta, signorina Micetta!» «Oh, professore», fa lei scendendo dalla veranda. Il campanellino attaccato al collare rosso tintinna. Che suono gradevole, penso, devono averglielo messo per Capodanno... Intanto lei mi viene vicino. «Tanti auguri, professore», dice spostando la coda a si nistra. Noi gatti, quando ci salutiamo, prima teniamo la coda dritta come un bastone, poi la giriamo svelti a sinistra. Nel vicinato è solo lei a darmi del “professore”. Io, come ho già detto, non ho un nome, ma poiché vivo in casa di un insegnante, Micetta per rispetto è tanto gentile da chiamarmi così. Confesso che quest’appellativo non mi dispiace affatto. «Tanti auguri a lei. Ma è splendidamente agghindata!» le rispondo prontamente. «Sì, alla fine dell’anno la mia padrona mi ha comprato questo, è delizioso, non trova?» chiede Micetta facendo tintinnare il campanellino. «Ha proprio un suono stupendo. In vita mia non ho mai visto qualcosa di tanto leggiadro». «Non mi lusinghi, li hanno tutti, questi campanellini». E di nuovo lo fa tintinnare. «Che bel suono, vero? È una gioia per le orecchie». Seguono altri scampanellii ancora più briosi. «Ho l’impressione che la sua padrona le voglia molto bene», osservo, lasciando trapelare una punta d’invidia per la sua felice condizione, tanto diversa dalla mia. Ma Micetta è senza malizia. «Infatti, mi tratta come se fossi sua figlia», risponde ridendo innocentemente. Chi l’ha detto che i gatti non possono ridere? Gli esseri umani pensano di essere le uniche creature al mondo capaci di farlo, ma sbagliano. Quando rido le mie narici formano un triangolo e mi trema il pomo d’Adamo, per questo loro non se ne accorgono. «Ma che tipo di persona è, la sua padrona?» «Un tipo strano. È un’insegnante, una maestra di koto a due corde». «Questo lo so anch’io. Ma come nasce? Sicuramente viene da una famiglia molto su». «Infatti». Intanto al di là degli shoji la maestra ha iniziato a suonare il koto: Il piccolo pino mentre ti aspetta... «Ha una bella voce, non trova?» fa Micetta tutta fiera. «Sì, mi pare di sì, ma non è che ci capisca granché, io, di queste cose. Come si chiama questa canzone?» «Questa che sta cantando? Mah, un nome deve averlo... alla padrona piace moltissimo. Si figuri che ha già sessantadue anni. Li porta bene, vero?» Se una persona vive fino a sessantadue anni, deve essere per forza in forma eccellente. «In effetti», ammetto. Una risposta un po’ stupida, ma non me ne vengono in mente altre. «Ora non si direbbe, ma una volta la sua famiglia era molto, molto su. Me lo ripete di continuo». «Veramente? Che cos’erano?» «Lei è la figlia del nipote della suocera della sorella minore del segretario privato della consorte del tredicesimo shogun». «La che...?» «La figlia del nipote della suocera...» «Un momento, un po’ più piano. La figlia della suocera della sorella...» «No. La figlia del nipote della suocera della sorella...» «...del segretario privato, ho capito, ho capito». «Bene». «Allora, ricapitoliamo: è la figlia del nipote della suocera del segretario privato...» «Della sorella del segretario privato». «Giusto, giusto, mi scusi. La figlia della suocera della sorella...» «Del nipote della suocera della sorella». «La figlia del nipote della suocera della sorella?» «Sì. Le è chiaro adesso?» «No, è troppo complicato, non mi ci raccapezzo. In sostanza che grado di parentela ha con il tredicesimo shogun?» «Certo che ha la testa dura, anche lei. Se non faccio che ripeterle che è la figlia del nipote della suocera della sorella del segretario della sua consorte!» «Questo l’ho capito perfettamente». «Allora se l’ha capito che problema c’è?» «Nessuno». Mi arrendo, che altro posso fare? A volte siamo obbligati a dire delle piccole bugie. In quel momento al di là degli shoji la musica cessa bruscamente e si sente la voce della maestra: «Micetta? Micetta? La pappa!» «Oh, la padrona mi sta chiamando, devo andare, le dispiace?» fa Micetta tutta contenta. A cosa servirebbe dirle che mi dispiace infinitamente? «Venga di nuovo a trovarmi», aggiunge, e corre via fino al limite del giardino facendo tintinnare il campanellino. Poi torna indietro. «Ha una pessima cera. Le è successo qualcosa?» mi chiede in tono preoccupato. Non posso certo raccontarle che ho mangiato un mochi e mi sono messo a ballare. «No, no, niente di particolare... riflettendo su un argomento difficile mi è venuto un po’ di mal di testa, allora sono venuto qui, ho pensato che facendo due chiacchiere con lei sarebbe passato». «Ah, davvero? Be’, si riguardi. Arrivederci», dice Micetta un po’ rattristata, ridandomi l’energia che avevo prima dell’avventura del mochi. Adesso sono di ottimo umore. Decido di tornare a casa passando dal solito campo di tè. Mi avvio calpestando la brina che si sta sciogliendo, e quando mi affaccio al buco nella staccionata di bambù vedo il Nero del vetturino di nuovo sui crisantemi secchi: sta sbadigliando con la schiena sollevata ad arco. Ormai non ho più paura quando lo incontro, ma parlare con lui mi annoia, quindi faccio finta di niente e cerco di tirare diritto. Ma non è nel carattere del Nero sopportare in silenzio di venire snobbato. «Ehi, tu, Senzanome! Abbiamo la puzza al naso di questi tempi? Lo so che mangi la minestra di un professore, ma non è il caso di darsi tante arie. Non è bello prendere gli amici per cretini, sai?» Pare che il Nero non sia al corrente del fatto che ormai sono una celebrità. Vorrei poterglielo spiegare, ma non credo sia in grado di capire, meglio salutarlo, poi scusarmi e andarmene il più in fretta possibile. «Congratulazioni, caro il mio Nero. Mi sembri in ottima forma, come sempre», dico drizzando la coda e piegandola a sinistra. Il Nero rimane con la coda dritta, senza rispondere al mio saluto. «Cosa c’è da congratularsi? Per l’Anno Nuovo? Tanto sei un cretino beato tutto l’anno, tu! Attento a come parli, faccia di mantice!» Quest’ultima espressione dev’essere un insulto, ma non so cosa voglia dire. «Scusa, ti spiacerebbe dirmi cosa significa “faccia di mantice”?» «Come? Brutto come sei, mi chiedi cosa significa? Lo vedi che sei un cretino beato!» L’espressione “cretino beato” è quasi poetica, ma forse ancora più offensiva di “faccia di mantice”. Vorrei che mi venisse chiarito il senso di entrambe, a titolo d’informazione, ma dal Nero non c’è da aspettarsi risposte chiare, così rimango semplicemente in piedi davanti a lui, un po’ a disagio. Ma proprio in quel momento tutt’a un tratto si sente la padrona del Nero gridare: «Dov’è finito il salmone che avevo messo sulla mensola? Povera me! Di sicuro l’ha preso di nuovo quel delinquente del Nero! Diavolo d’un gatto, quando torna gli faccio vedere io!» La sua voce roca fa tremare spudoratamente l’aria quieta, quasi primaverile e inonda di volgarità questo momento di pace in cui non si sentono nemmeno le foglie degli alberi stormire al vento. Il Nero, per mostrare che le urla della padrona non gli fanno né caldo né freddo, con aria sprezzante spinge in avanti il mento quadrato e mi fa un cenno come per chiedermi: hai sentito che baccano? Solo allora mi accorgo di una lisca di pesce sporca di fango ai suoi piedi. È quel che resta di un pezzo di salmone da pochi soldi. «Dunque non hai perso il vizio, lo fai ancora!» dico al Nero dimenticando la nostra scaramuccia ed esprimendogli la mia ammirazione. Ma il complimento non è sufficiente a ridargli il buonumore. «Fare cosa, cretino? Cos’è che continuerei a fare? Solo per una fetta o due di salmone? Parli proprio come gli uomini. Come ti permetti di trattarmi così? Sono il Nero del vetturino, cosa credi?» E non potendo rimboccarsi le maniche, il Nero tira su la zampa anteriore destra fino alla spalla. «So benissimo che sei il Nero del vetturino, l’ho sempre saputo». «E allora se lo sai, cosa parli di “farlo ancora”? Cosa vuoi dire?» tuona soffiandomi in faccia folate di fiato rovente. Se fossimo delle persone, mi avrebbe già afferrato per il petto e scosso come una foglia. Mi sto dicendo allibito che mi sono cacciato in un bel guaio, quando si sente di nuovo sbraitare la padrona del Nero: «Senta, signor Nishikawa! Ehi, dico a lei, signor Nishikawa! Ho bisogno di lei. Mi porti subito una libbra abbondante di carne di manzo. D’accordo? Ha capito? Una libbra di manzo bello tenero». La sua voce che fa l’ordinazione si ripercuote in tutto il quartiere. «Urla così forte perché la carne la ordina solo una volta all’anno, è così fiera della sua libbra di manzo che non si dà pace se non lo fa sapere a tutto il vicinato», spiega il Nero in tono derisorio stirando le quattro zampe. Non sapendo cosa rispondere, me ne sto zitto. «Una miserabile libbra. Non c’è di che fare indigestione, ma devo rassegnarmi. Mi accontenterò di quella, me la terrò da parte», fa il Nero come se la carne fosse stata ordinata per lui. «Questa volta farai un vero banchetto, beato te», gli dico per spedirlo a casa. «Tu cosa c’entri? Stai zitto, fatti gli affari tuoi!» risponde lui, e di colpo prende a raspare la brina con le zampe posteriori, tirandomene dei pezzi in faccia. Mentre al colmo dello stupore mi ripulisco, il Nero sguscia dietro la siepe e sparisce. Probabilmente è sulle tracce della carne di Nishikawa. A casa, quando faccio ritorno, c’è già aria di primavera, sento persino il padrone ridere allegramente. Entrando dalla veranda, che è completamente aperta, mi avvicino e vedo che c’è un ospite inusuale. Ha i capelli divisi da una scriminatura netta e indossa un haori di cotone, decorato con gli stemmi di famiglia, su un hakama di tela di Kokura; dev’essere uno studente universitario e sembra un tipo serio. Accanto al braciere su cui il padrone è solito scaldarsi le mani noto un portasigarette in lacca e un biglietto da visita con alcune parole scritte a mano: Mi permetta di presentarle Ochi Tofu. Con i complimenti di Mizushima Kangetsu. Vengo così a sapere sia il nome del visitatore sia il fatto che è un amico di Kangetsu. Sono arrivato a conversazione iniziata, per cui non capisco bene di cosa stiano parlando, ma pare che c’entri Meitei, l’esteta che ho già menzionato. «...e mi ha obbligato ad accompagnarlo, dicendo che aveva una buona idea», sta raccontando il giovane tranquillamente. «Cioè? Vuoi dire che la buona idea consisteva nell’andare in un ristorante occidentale a mangiare carne?» chiede il mio padrone riempiendo di tè una tazza e posandola davanti all’ospite. «Ma, non so, neanch’io ho capito quale fosse, quella sera, la buona idea, ma trattandosi del professore mi sono detto che doveva essere per forza qualcosa di interessante...» «Allora sei andato con lui? Bene». «Però ho avuto una brutta sorpresa». Con l’aria di dire “lo sapevo”, il padrone mi dà qualche pacca sulla testa, visto che intanto gli sono salito sulle ginocchia. Mi fa un po’ male. «Immagino che ti abbia giocato qualche tiro. È una sua mania», aggiunge, ricordandosi improvvisamente di Andrea del Sarto. «Davvero? A ogni modo, ha proposto di mangiare qualcosa di originale...» «E cos’avete mangiato?» «Innanzitutto ha studiato il menu e mi ha spiegato in cosa consistessero alcuni piatti». «Prima di ordinare?» «Sì». «E poi?» «Poi, perplesso, si è rivolto al cameriere e gli ha detto che nel menu non c’era niente di originale. Il cameriere, senza lasciarsi intimidire, gli ha proposto dell’anatra arrosto o delle cotolette di manzo. “Mica siamo venuti fin qui per mangiare simili banalità!” ha protestato il professore». «Tipico suo». «Poi si volta verso di me e mi fa: “In Francia e in Inghilterra si può mangiare ovunque la cucina d’una volta, com’era nell’era Tenmei14 o ai tempi del Manyoshu15, ma in Giappone dovunque tu vada il cibo è tutto uguale, al punto che non si ha più voglia di entrare in un ristorante occidentale, è una vergogna...” Ma lui all’estero ci è stato?» «Meitei? Figurati! Soldi ne ha e tempo pure, se volesse potrebbe andarci anche domani. Forse ha intenzione di farlo in futuro, ma ha finto di esserci già stato per prenderti in giro», spiega il padrone, e scoppia a ridere come se avesse detto qualcosa di molto spiritoso. Il suo ospite però non sembra molto divertito. «Davvero? E io che lo prendevo sul serio, pensando che conoscesse l’Europa! Tanto più che parla di brodo di lumache e bollito di rane come se li avesse visti con i suoi occhi». «L’avrà sentito da qualcuno. È famoso per contare frottole». «Già, pare proprio che sia così», sospira l’ospite guardando il vaso di narcisi nel tokonoma. Sembra un po’ deluso. «Allora la buona idea era quella?» chiede il padrone, tornando all’argomento iniziale. «No, quello era solo l’inizio, il bello viene ora». «Ah!» fa il mio padrone con una certa curiosità. «Dato che anche volendo non potevamo mangiare né lumache né rane, mi fa: “Cosa ne dici, potremmo accontentarci di un tochimenbo16”, e io come un cretino gli rispondo che per me va bene». «Tochimenbo ? Strano». «Sì, stranissimo, ma il professore lo diceva con una tale serietà che ci sono cascato», continua il giovane rivolgendosi al padrone come se volesse scusarsi per la propria ingenuità. La sua mortificazione non viene nemmeno notata. «E poi cos’è successo?» chiede con indifferenza il mio padrone. «È successo che ha chiamato il cameriere e gli ha ordinato del tochimenbo per due. “Minchi bolu? Polpette di carne?” Lo ha corretto il cameriere. “No, non minchi bolu, tochimenbo ”, ha insistito il professore senza scomporsi». «Ma esiste, un piatto del genere?» «Be’, a quel punto cominciavo ad avere dei dubbi... ma il professore era serissimo e in più aveva parlato con tanta sicurezza della cucina occidentale, dove ero convinto che fosse già stato, che sono intervenuto anch’io e ho detto al cameriere che volevamo proprio del tochimenbo». «E il cameriere cos’ha risposto?» «Il cameriere, ora che ci ripenso c’è da morire dal ridere, ha riflettuto per un po’, poi ha detto: “Sono desolato, ma oggi tochimenbo non ne abbiamo, se volete delle polpette di carne per due ve le porto subito”. Al che il professore ha protestato che in tal caso avevamo fatto la strada fin lì per nulla. Sembrava molto contrariato. Non c’era proprio modo di avere del tochimenbo ?, ha insistito e ha dato due sen al cameriere. “Provo a chiedere al cuoco”, ha risposto quello, ed è tornato in cucina». «Meitei moriva proprio dalla voglia di mangiare del tochimenbo, pare». «Dopo un po’ il cameriere è tornato e ha detto che il tochimenbo poteva essere preparato su ordinazione, ma sfortunatamente ci voleva molto tempo. Con molto contegno, il professor Meitei ha risposto che non c’era nessuna fretta, di tempo ne avevamo perché era Capodanno, poi ha tirato fuori dalla tasca della giacca un sigaro e ha cominciato a fumare tranquillamente. Non sapendo cosa fare, ho preso il Nippon Shinbun17 dalla manica del kimono e mi sono messo a leggere. Il cameriere è andato in cucina a consigliarsi». «Che andirivieni!» commenta il padrone spostandosi in avanti per sentire meglio, con lo stesso interesse con cui legge i bollettini di guerra. «Quando il cameriere è ritornato, ha detto che sfortunatamente negli ultimi giorni gli ingredienti per il tochimenbo non si trovavano neppure nei negozi specializzati come Kameya o il Numero 15 di Yokohama, era desolato. “Che peccato”, ha preso a dire il professore rivolto a me, “pensare che siamo venuti apposta fin qui!” L’ha ripetuto più volte. Stare zitto non era gentile, così ho convenuto anch’io che era una cosa seccante, molto seccante». «È comprensibile», approva il mio padrone. Cosa sia comprensibile, non mi è chiaro. «Allora il cameriere, che sembrava davvero mortificato, fa: “Se uno di questi giorni riusciamo a procurarci gli ingredienti, la preghiamo di voler gentilmente tornare”. Quando il professore gli ha chiesto quali ingredienti usassero, il cameriere non ha saputo rispondere, si è limitato a fare una risatina sciocca. Il professore allora gli ha spiegato che bisognava usare haijin18 di scuola giapponese. “Ecco, proprio questi, di recente non si trovano neanche a Yokohama”, ha risposto il cameriere, “ne siamo veramente desolati, mi creda”». «Ha, ha, ha! Allora era questo lo scherzo? Questa sì che è bella!» esclama il padrone ridendo forte, cosa inusuale per lui. Gli traballano le ginocchia e sto per cadere, ma lui continua a ridere. Sembra che all’improvviso la consapevolezza di non essere il solo a essere stato preso in giro da Meitei, con la storia di Andrea del Sarto, lo metta di ottimo umore. «Una volta usciti, il professore mi fa: “Be’, te la sei cavata bene anche tu! Grandiosa, vero, l’idea di chiedere del tochimenbo ?” Gli ho espresso la mia ammirazione e a quel punto ci siamo salutati, ma ormai l’ora di pranzo era già passata da un pezzo e stavo svenendo per la fame». «Per te non dev’essere stato facile», commenta il padrone mostrando finalmente un po’ di comprensione. Questa volta non lo posso criticare. Segue un breve intervallo di silenzio, durante il quale anche l’ospite può sentire il rumore delle mie fusa. «In realtà, oggi sono venuto a trovarla per chiederle un piccolo favore», prosegue il giovane Tofu dopo aver finito di bere in un sorso il suo tè ormai freddo. «Ah, di cosa si tratta?» chiede il mio padrone senza scomporsi. «Come lei sa, sono un appassionato di letteratura e di arte...» «Un’ottima cosa», lo incoraggia il padrone. «Di recente, con alcuni compagni che condividono la mia passione, abbiamo creato un circolo di lettura, ci riuniamo una volta al mese e abbiamo intenzione d’ora innanzi di leggere brani letterari. Il primo incontro l’abbiamo già tenuto alla fine dell’anno scorso». «Aspetta, aspetta. Un circolo di lettura... suona come se vi metteste a declamare prosa o poesia, ma è questo che in realtà fate?» «Be’, sì, pensiamo di iniziare con opere di autori antichi, ma a poco a poco di cimentarci anche con i contemporanei». «Cosa intendi con opere antiche? Del genere La ballata della “pipa” di Bai Juyi?19» «No, no». «O una raccolta di poemi di Buson20, per esempio?» «Nemmeno». «E allora cosa intendete recitare?» «L’ultima volta abbiamo letto Chikamatsu21, la storia di un doppio suicidio». «Chikamatsu? Quello che ha scritto le ballate joruri?» Non ci sono due Chikamatsu. Quando si dice Chikamatsu ci si riferisce necessariamente all’autore di drammi. Sono molto sorpreso che il mio padrone chieda conferma, ma lui non se ne rende conto e continua a carezzarmi gentilmente la testa. Lo lascio fare, a cosa serve stupirsi per questo genere di errori in una società in cui ci sono uomini convinti di essere guardati con amore da una donna senza accorgersi che è soltanto strabica... «Sì...» fa il giovane Tofu spiando l’espressione del padrone. «E hai letto tutto tu da solo? Oppure vi siete distribuiti i ruoli?» «Abbiamo distribuito i ruoli e ognuno ha provato a recitare il suo. L’obiettivo principale è immedesimarsi nel personaggio ed esprimerne il carattere, ma curiamo anche la gestualità delle mani e del corpo. La cosa più importante è mostrare com’era la gente a quell’epoca, che si tratti di una damigella o di un apprendista, bisogna cercare di renderli come se fossero lì, presenti». «Ma allora si tratta di una rappresentazione teatrale». «Sì, ma senza costumi e coreografia». «Scusa se te lo chiedo, ma funziona?» «Be’, per essere la prima volta è andata piuttosto bene». «E questo dramma in cui si parla di un doppio suicidio che avete letto la volta scorsa...?» «Era una scena in cui un battelliere porta un cliente nel quartiere di Yoshiwara22». «Però, una delle più impegnative!» Il padrone assume l’atteggiamento critico dell’insegnante, la testa piegata di lato. Il fumo diafano della sigaretta gli esce dal naso, gli passa sopra l’orecchio e lungo la faccia. «No, non è poi tanto difficile. I personaggi sono soltanto il cliente, il battelliere, una prostituta d’alto rango, la sua nakai, una yarite e un kenban», dice il giovane Tofu come se nulla fosse. Sentendo la parola “prostituta” il mio padrone fa una smorfia un po’ contrariata, ma degli altri vocaboli non sembra capire il significato perché domanda: «Nakai indica una specie di serva in un bordello?» «Sì, ancora non abbiamo studiato bene l’argomento, ma nakai è la serva in una casa da tè, e una yarite è una specie di mezzana in un postribolo». Nonostante abbia appena detto che l’obiettivo principale è immedesimarsi nei personaggi, Tofu non sembra avere le idee chiare riguardo alle funzioni di una nakai e di una yarite. «Ho capito, una nakai lavora in una casa da tè, mentre una yarite in un postribolo. Quanto alla parola kenban, indica una persona o un luogo? E nel caso si tratti di una persona, è un uomo o una donna?» «Credo che kenban stia a indicare proprio un controllore uomo». «E cos’è che controlla?» «Mah, non saprei, ancora non abbiamo studiato questo punto. Lo faremo presto». Da tali parole deduco che la rappresentazione doveva mancare totalmente di coerenza e alzo la testa a guardare il padrone. Lui però sembra prendere questa storia molto sul serio. «E a parte te, chi sono gli altri membri di questo circolo di lettura?» «Diverse persone. La prostituta d’alto rango l’ha interpretata K, un tipo laureato in giurisprudenza, ma dato che ha i baffi, sentirlo parlare con la soavità di una donna faceva uno strano effetto. E poi c’è una scena in cui questa prostituta è presa da convulsioni...» «Ma era proprio necessario simulare anche le convulsioni? In fin dei conti era solo una lettura...» chiede il padrone preoccupato. «Sì, perché l’espressione è molto importante». A quanto pare Tofu si considera un attore a tutti gli effetti. «E sono venute bene, le convulsioni?» Questa volta il mio padrone scherza. «No, nella prima riunione erano al di sopra delle nostre capacità. Solo quelle, però». Anche Tofu fa la sua battuta. «E tu, che ruolo hai interpretato?» «Il battelliere». «Cosa? Il battelliere lo hai fatto tu?» si lascia sfuggire il padrone come per dire che se Tofu faceva il battelliere, lui sarebbe stato perfetto nella parte del kenban. «Ma non era un po’ troppo difficile per te?» chiede alla fine in tono innocente. Tofu però non se la prende. «È a causa del ruolo del battelliere che la rappresentazione, che era cominciata così bene, è finita subito. Il fatto è che accanto alla sala di lettura c’è una pensione dove vivono quattro o cinque studentesse, le quali, non so come, sono venute a sapere che quel giorno avremmo tenuto la seduta, così si sono appostate sotto la finestra della sala e hanno ascoltato tutto. Stavo recitando appunto la parte del battelliere, cercavo di imitarne l’atteggiamento e devo dire che ci riuscivo piuttosto bene, ed ecco che proprio sul più bello, quando avevo preso il ritmo giusto, quelle sciocche, che fino a quel momento si erano trattenute, sono scoppiate in una fragorosa risata, tutte insieme... non so, forse mi ero agitato un po’ troppo... Si figuri il mio sconcerto e il mio imbarazzo, a quel punto mi sono scoraggiato e non sono riuscito ad andare avanti, così alla fine abbiamo lasciato perdere». Se questa riunione viene considerata un successo per essere la prima, figuriamoci cosa sarebbe un fiasco! A questo pensiero non posso fare a meno di ridere anch’io e il mio pomo d’Adamo comincia a vibrare. Il padrone prende a farmi vigorose carezze sulla testa: mi fa piacere che mi coccoli anche quando mi burlo di qualcuno, ma mi mette un po’ a disagio. «Un vero peccato, mi dispiace!» commenta, nonostante Capodanno non sia periodo di condoglianze. «Dalla prossima seduta vogliamo veramente mettercela tutta e fare le cose in grande, ed è questo il motivo che oggi mi ha portato qui. Vorrei che lei, professore, entrasse a far parte del nostro gruppo e unisse le sue forze alle nostre». «Ma io non sono capace di farmi venire le convulsioni!» ribatte immediatamente quel disfattista del mio padrone. «No, no, non deve simulare convulsioni o nulla del genere. Ecco, questa è la lista dei membri sostenitori». Così dicendo Tofu estrae con molta precauzione un libriccino da un fazzoletto viola e lo posa aperto davanti alle ginocchia del mio padrone. In fila uno dietro l’altro vedo segnati i nomi di molti esimi letterati e professori di letteratura dei giorni nostri. «La prego di voler gentilmente scrivere qui il suo nome e apporre il suo timbro». «Be’, non è che non voglia diventare un membro sostenitore, ma un’eventuale adesione quali obblighi comporterebbe?» chiede quell’ostrica del mio padrone tutto allarmato. «Assolutamente nessun tipo di obbligo, basta che lei scriva il suo nome per esprimere il suo favore». «Allora firmo», concede lui con improvviso buonumore, visto che non c’è nessun obbligo. Si direbbe che sia pronto a firmare anche un patto sovversivo, una volta appurato che questo non comporta obblighi. E poi credo sia un bel vanto scrivere il proprio nome accanto a quello di letterati illustri, per lui che non ha mai avuto una simile opportunità. Nessuna sorpresa quindi per lo slancio nel dare una risposta positiva. «Scusami un momento», dice, e si alza per andare a prendere il suo sigillo nello studio. Io rotolo sui tatami. Tofu prende una fetta di pandispagna dal piatto dei dolci e se la ficca in bocca. Per un po’ mastica con difficoltà. Mi fa venire in mente l’episodio del mochi di stamane. Quando il padrone ricompare con il sigillo, il pandispagna sta già scendendo nelle budella di Tofu. La mancanza di una fetta sembra non venire notata. Altrimenti il primo sospettato sarei io. Quando il giovane Tofu si congeda, il padrone torna nello studio e sulla scrivania trova una lettera del professor Meitei, messa lì chissà quando. I miei migliori auguri per un Felice Anno Nuovo... Non è da lui iniziare in maniera seria, pensa il mio padrone. Le lettere del professor Meitei raramente sono serie, l’altro giorno ad esempio ne è arrivata una che diceva: ...da allora non mi sono più innamorato, né ricevo lettere d’amore, sono vivo per miracolo e mi limito a lasciar passare il tempo, ti prego quindi di non preoccuparti...